IL
QUADERNO DELLA ZIA
NOVELLA
DI
ENRICO CASTELNUOVO
MILANO
COI TIPI DELLA PERSEVERANZA
1872
Estratto dal giornale La Perseveranza
[3]
La vecchia zia Maddalena era morta da tre giorni, ma l’avevano sepolta soltanto quella mattina. Siccome, anni addietro, ella aveva avuto una sincope ed era ritornata in sè dopo ventiquattr’ore, il medico aveva ordinato che la si sotterrasse al più tardi possibile. Nannetta, la guattera di casa, che divideva il suo tempo tra gli umili uffici domestici e il farla da saccente e da profetessa, assicurava che la zia Maddalena nè era morta, nè morrebbe fino ai cento anni, perchè era maga, ed ella l’aveva vista una sera attraverso il buco della chiave tutta assorta in un polveroso quaderno che poi non c’era modo di trovare in nessun angolo della casa e in nessun cassetto. Durante [4] i tre giorni corsi da quando la vecchia spirò l’ultimo fiato fino al momento dei funerali, Nannetta preconizzava, con aria d’importanza, la grande sorpresa che la sedicente defunta teneva in serbo per la famiglia. Non potendosi persuadere che i suoi pronostici non si avverassero, in sull’imbrunire del dì precedente a quello di cui parliamo, ella si mosse dalla cucina con in mano due piatti che stava lavando nello scolatojo, salì la scala, e cacciò il capo per lo spiraglio dell’uscio entro la camera della trapassata. Le persone addette alla custodia della salma dormivano saporitamente, un lumicino tremolava accanto al letto, mandando strani riflessi rossastri sulle coltri e sulla parete, le finestre erano aperte. Una nottola che gironzolava nella stanza, impaurita dal cigolio de la porta, battè l’ali con volo affrettato e venne quasi a urtare sul viso della esploratrice. Caddero le stoviglie di mano alla meschinella, e il gran fracasso richiamò tutta la famiglia nell’andito, ma non risvegliò punto la vecchia zia.
— Sciocca di Nannetta! Grulla! Scimunita! — furono i lusinghieri epiteti ch’ella si attirò sul capo per questa sciagurata impresa, oltre ad una minaccia di licenziamento se faceva altri malanni; poichè, in generale, s’era notato che ogni accesso d’estro profetico [5] rendeva in lei più torpido l’intelletto per le modeste funzioni della sua carica. Eppure — sosteneva Nannetta — sarà stato un uccello, ma, quanto a me, credo che fosse lo spirito della signora Maddalena, il quale era sul punto di rientrarle in corpo, e ci sarebbe rientrato se non lo si spaventava. Del resto, brutte cose, bruttissime cose!
Per amore del vero, diremo che la dipartita della zia Maddalena non fece nè caldo, nè freddo. La era tanto chiusa in sè, tanto preoccupata, che non aveva saputo crearsi d’intorno un’atmosfera di simpatia. Comincieremo coll’avvertire che anche il suo titolo di zia era piuttosto un titolo onorario che altro. La signora Adelina, moglie del signor Bernardo Alzini, capo della casa, era figliuola di una nipote della trapassata, e questo era il più stretto dei vincoli che congiungevano la ottuagenaria a quella famiglia. Con le giovinette Lidia e Sofia, nate dal connubio auspicatissimo Bernardo-Adelina, la parentela si indeboliva ancor più. Ora, è sempre tanto facile che due generazioni successive siano estranee fra loro, figuriamoci poi quando, per dir così, c’è una generazione scavalcata. Che arte ci vuole nei vecchi, che virtù d’iniziativa per avvincere a sè il cuore dei giovani! Nulla di più bello della canizie veneranda [6] a cui fanno corona le treccie inanellate dei vispi bambini, nulla di più bello del guardo casto e sereno dell’avo che sorprende i primi lampi della passione sul volto ai nipoti e ne indovina già le burrasche.... E i discreti consigli, e l’affettuosa parola, e il facile encomio di quel periodo dell’esistenza ove non ha più luogo l’invidia, ove nessuno desta più ombra, poichè il cammino è per intero fornito!.... Ma nel fatto invece, avviene troppo sovente che le due età non s’intendano e non trovino un addentellato fra loro. Come fu detto con frase usata e abusata, l’una vive delle sue speranze, l’altra delle sue memorie. Oppure, di fronte al giovane baldanzoso, sta il vecchio in cui s’intorpidirono non solo le passioni, ma anche gli affetti, e che, avendo visto morirsi d’attorno quelli che gli erano cari, s’è piuttosto indispettito che legato con quelli che sono rimasti. Non è un paradosso, nè una esagerazione. Alcuni che amarono con ispeciale intensità, di mano in mano che vanno loro mancando gli oggetti del loro amore, sentono aprirsi sì larga ferita che si compiacciono d’inasprirla con l’isolamento acrimonioso, disperando rimarginarla con la simpatia. Le nature costantemente benevole sono senza dubbio le migliori che esistano, ma non aspettatevi da quelle i grandi slanci [7] della passione. La zia Maddalena non tradiva mal volere verso alcuno di casa, ma stava a sè, e, interrogata, rispondeva monosillabi, brontolava sovente da sola, e nessuno l’aveva mai intesa lodare con calore una persona o una cosa. Sorrideva di rado, ed era un sorriso distratto che pareva non riferirsi a quanto le avveniva vicino. Chi non s’è accorto di sorridere talvolta ai propri pensieri, alle proprie memorie? Nella sua stanza non amava gran fatto che ci si entrasse, solo al capo d’anno le sue pronipoti vi erano regolarmente introdotte dalla cameriera per farle i soliti augùri di felicità. In quella solenne occasione ella toglieva da un suo cassetto due napoleoni d’oro (la signora Maddalena non aveva riconosciuto il corso forzoso), e ne consegnava uno a Lidia, l’altro a Sofia, ch’era di due anni più giovane della sorella. Le fanciulle giravano gli occhi con inquieta curiosità intorno alle pareti di quella camera misteriosa, così poco accessibile ai profani, e quando si ritiravano dopo aver baciato la destra lunga ed ossuta della zia, non potevano a meno di voltarsi sulla soglia e rimanersene per qualche secondo in estatica contemplazione. E la camera, astraendo dalla sua abitatrice, aveva un’impronta particolare che doveva necessariamente [8] colpir chi vi entrasse. Le suppellettili, a chi le esaminava dappresso, mostravano di aver posseduto ab antiquo una qualche eleganza, ma erano ormai vecchie e tarlate, e si rivestivano d’una tappezzeria sì sbiadita da esser ben ardua impresa l’indovinare di che colore ella fosse stata all’origine. Sopra la mensola d’un caminetto di marmo posto fra due finestre nel quale si accendeva il fuoco l’inverno (la signora Maddalena non aveva mai voluto saperne di stufe), v’era una statuina in bronzo di Napoleone e alcune pianticelle di giacinti, di quelle che crescono nelle bottiglie. In faccia al caminetto era un letto all’antica assai grande e massiccio, e, a sinistra di questo, addossato alla parete, un cassettone che aveva ormai perduto il lucido, sopra il quale, un po’ ad angolo col muro, stava uno specchio frastagliato quinci e quindi di macchie come segni d’isolette in una carta geografica, e diffuso d’una singolar tinta verdognola che dava un aspetto vegetale a tutte le immagini. Lungo gli orli interni della cornice figuravano, con una certa simmetria, parecchi biglietti di visita che dovevano aver per lo meno una trentina d’anni, poichè nessuno della famiglia conosceva le persone di cui quei biglietti portavano i nomi, e nessuno si ricordava [9] che la signora Maddalena avesse ricevuto visite dacchè ella era ospite di casa Alzini. Dalla parete opposta pendevano due litografie, una delle quali rappresentava l’incendio di Mosca, l’altra la battaglia di Waterloo. Completavano la mobilia alcune sedie a bracciuoli con la spalliera assai alta e un tavolino con un calamajo senza inchiostro e due penne d’oca non temperate. La zia Maddalena non iscriveva più, benchè corresse la tradizione che a’ suoi tempi ella fosse stata un po’ donna di lettere. Ahimè! D’una sua gran biblioteca non rimanevano che forse venti volumi sopra uno scaffale infitto nel muro superiormente al tavolino; tutti libri coperti di polvere e stampati sei o sette lustri addietro. E lì, tra un libro e l’altro, si vedevano con singolare contrasto grossi cartocci di miglio e di frumento che servivano alla vecchia signora per nutrire alcuni passeri del vicinato e una famiglia di colombi alloggiata sotto una gronda a piombo sulle finestre della sua camera. Ogni mattina alle otto venivano pigolando i passeri col loro volo agile e capriccioso; alle dieci i colombi si lasciavano cadere con un tonfo sopra il balcone, e gli uni e gli altri, se le impannate eran chiuse, picchiavan col becco sui vetri, finchè la zia Maddalena spalancava le imposte senza badare al caldo [10] od al freddo, alla pioggia o al bel tempo, e attirava a sè i suoi amici ormai addomesticati a piluccare sulla sua mano scarna e a guardare con un certo atto amorevole quel suo naso adunco, e quegli occhi infossati, e quel mento sporgente, e quella cuffia bianchissima; chè, bisogna riconoscerlo ad onore del vero, in onta al disordine della sua camera, ella era sempre linda e pulita della persona. E com’ella si mostrava espansiva verso i suoi commensali! Con loro diventava eloquente e loquace, ed essi alla lor volta, mentre passeggiavano su e giù nel davanzale, le davano segni non dubbi di simpatia, allungando il collo e mettendo suoni che i profani non capivano, ma volevano dire certo un milione di cose. All’indomani della morte di lei, accaduta d’improvviso una sera, essi vennero all’usata refezione, ma invano. Le finestre erano spalancate, la zia Maddalena giaceva irrigidita sul letto con la mani in croce sul seno, con la bianca cuffia intorno al viso, più giallo, più macilento del solito. Pareva una di quelle antiche Madonne tagliate nel bosso che si vedono nel coro di qualche chiesa. Le povere bestioline aspettarono, ed esplorando ansiosamente la stanza sembravano inquiete del nuovo spettacolo, finchè, accostatesi persone sconosciute alla [11] finestra, spiccarono il volo impaurite. Però la mattina dei funerali, dopo che la camera era rimasta deserta, un passero si calò ancora sul noto balcone, beccolando le bricciole rimaste dall’ultima volta e alzando un pigolio lamentevole. Questa fu la più viva dimostrazione di compianto che accompagnasse la zia Maddalena. Locchè non toglie che per le vie di Venezia si leggessero patetici avvisi mortuari così concepiti:
CALANDO
LA SERA DEL 3 MAGGIO 1871
VOLAVA AL CIELO
LASCIANDO QUESTA VALLE DI LAGRIME
L’ANIMA BELLA
DI MADDALENA LISARI
D’ANNI 84 COMPITI
AHI! REPENTINAMENTE STRAPPATA
ALLA TENEREZZA DELLA FAMIGLIA
ALL’AMMIRAZIONE DI QUANTI CONOBBERO
LE SUE RARE VIRTÙ
* * *
O SPIRITO BENEDETTO
DAL BEATO SOGGIORNO
OVE COGLI IL PREMIO DELLE TUE GESTA
CHINA LO SGUARDO
Al DERELITTI CONGIUNTI!
NON SI RICEVONO VISITE.
Questo pregevole squarcio epigrafico era opera del professore di lingua italiana di [12] Lidia e Sofia, ma il signor Alzini aveva voluto ritoccarlo qua e là, e vi aveva aggiunto del proprio la frase peregrina della valle di lagrime.
Insomma, per tornare a noi, nel momento di cui discorriamo, dopo compite le cerimonie funebri, si eran vuotati gli arredi della defunta, e la camera, col letto sfatto e le altre masserizie in disordine, aveva un aspetto di desolazione accresciuta, se è possibile, per virtù dei contrasti, dall’allegro sole di maggio che penetrava attraverso le aperte finestre. Lidia e Sofia, approfittando dell’arrivo di alcune conoscenti, credutesi in obbligo, malgrado il divieto stampato, di fare alla signora Adelina una sollecita visita di condoglianza, vi si erano introdotte pian piano, e frugavano per entro i mobili con pochissima discrezione. Lidia aveva sedici anni e quattordici ne contava Sofia. Erano entrambe ragazze buone di fondo, ma abbastanza male educate, com’era facile intendere con una madre che, più di tutto, badava a mettersi in fronzoli, e un padre che pel decoro esterno salariava una mezza dozzina di maestri, ma quand’era poi in casa non diceva che trivialità e spacconate. Le due giovanette non erano certo sì grulle da credere che la zia Maddalena fosse una maga come pretendeva Nannetta; però, quel [13] non so che di mistero ond’ella soleva cingere la sua persona, quel silenzio profondo ch’ella serbava sul suo passato, e la storia di quel quaderno che la fantesca le aveva visto fra le mani e che non si sapeva dove fosse nascosto, erano tutte cose che mettevano in moto la loro immaginazione. Che il libro non si fosse trovato era certo, perchè il signor Bernardo, padrone di casa e membro della Camera di commercio, aveva fatto egli pure accurate indagini, alla presenza di Nannetta, senza riuscire a nulla. Quanto alla signora Adelina, la non ne sapeva più degli altri. Si ricordava che sua madre, buon’anima, le aveva parlato più volte della zia Maddalena come di un cervellino bizzarro, ma ella non s’era mai curata di andare al fondo della questione. Del resto, si trattava di roba di un mezzo secolo addietro, e la signora Maddalena non era venuta ad abitare cogli Alzini che da dieci anni, da quando cioè le era morta una vecchia cameriera con cui aveva sempre vissuto.
— E da allora in qua — sclamò spiritosamente il signor Alzini — si può giurare che non vi furono chiacchere sul conto di lei. Ih! ih! ih! —
E scoppiò in un riso sgangherato, parendogli senza dubbio di aver detto una cosa arguta e peregrina.
[14]
Queste spiegazioni scambiatesi fra marito e moglie a ora di colazione non avevano sortito altro effetto che quello di solleticare vieppiù la curiosità delle due sorelle, e vedemmo già com’esse avessero côlto il primo momento opportuno per metter mano alle loro ricerche. Però duravano infruttuosamente in queste faccende da una mezz’ora.
— In fin dei conti — osservò Sofia — chi ci assicura che il libro non sia da un pezzo in mano del babbo, e ch’egli parli come fa, tanto perchè non lo si annoi su questo argomento? —
— Anche questo può essere — rispose Lidia distrattamente, tirando fuori per l’ultima volta uno dei cassetti dell’armadio. E lo tirò così in furia ch’esso cadde per terra, e....
Lidia e Sofia misero un grido e divennero bianche come il bucato. Ecco che cosa era avvenuto. Il cassetto, a doppio fondo, nel toccar terra si ruppe, e comparve il libro polveroso tanto cercato e insieme ad esso un piccolo astuccio. Dunque la chiave dell’enigma era lì, dunque sol che si sfogliasse quel libro, sol che si aprisse quel cassetto, si sarebbe saputo qualche cosa intorno alla zia Maddalena. Pur le due giovinette erano entrambe immobili, estatiche, come per virtù d’incantesimo. Nessuna delle due osava chinarsi, [15] nessuna delle due osava raccogliere quel quaderno misterioso che aveva così profondamente colpito la loro immaginazione.
— Dunque — chiese Sofia — che si fa? — Indi soggiunse, sforzandosi di sorridere — Sarebbe curioso che fosse il libro del macellaio o del farmacista.
— Tu dici sempre sciocchezze — rispose seria Lidia — e intanto non hai coraggio di guardare coi tuoi occhi.
— Non ho coraggio? Tu piuttosto che avevi una curiosità tripla della mia, e adesso rimani come il Don Bartolo del Barbiere. —
In quella, l’orologio del vicino campanile suonò le quattro. Si avvicinava il momento del pranzo, e con la più buona volontà del mondo non vi sarebbe stato il tempo necessario a osservare con accuratezza il volume. Le due timide cospiratrici concessero a sè medesime una proroga, e deliberarono di rimettere pel momento ogni cosa a posto nel miglior modo che si potesse, e di tornarsene a sera tarda a prendere sì il libro che l’astuccio per portarsi in camera entrambi gli oggetti ed esaminarli con tutto l’agio nel corso della notte.
Ferme in questo proposito, ridiscesero nel salotto, liete anzi che no di aver differito l’impresa. Apparente contraddizione che, del resto, tutti intendono, perchè tutti devono [16] averla qualche volta avvertita in sè stessi. Noi crediamo eziandio che, investigando nel cuore di Lidia e di Sofia, si sarebbe scoperto senza difficoltà che, ove ciascuna di loro non avesse avuto paura di esser svergognata dall’altra, anche la spedizione notturna sarebbe andata a monte. Siccome però le due sorelle si parlavano in tuono di canzonatura per rimproverarsi a vicenda le trepidazioni che avevano entrambe, non potè nemmeno far capolino la proposta codarda di rinunciare al gran conquisto, e sulla mezzanotte, quando tutti furono coricati, le due giovinette intrapresero e compirono senza gravi peripezie il famoso trasporto. Unico incidente del viaggio fu il rumore fatto da un canarino che dormiva nella gabbia appesa al palco dell’andito e che, alla vista del lume, si scosse vivamente e urtò con le ali sulle pareti della sua prigione.
— Che cos’è? — sclamarono a un tempo Lidia e Sofia. Ma fatte subito capaci del vero — Oh! — proruppero in coro — hai paura di tutto. — Giunte nella loro camera che, per un’esuberanza di precauzione, chiusero a chiave, e deposto sopra un tavolino il libro e la candela, apersero prima di tutto l’astuccio. Esso conteneva un medaglione d’oro di forma antica, nel quale era incastonato un piccolo rubino. Anche il medaglione si [17] apriva premendone uno dei capi. Ne scattò fuori, come per opera d’una molla, una ciocca di capelli biondi e finissimi ch’erano uniti insieme da un sottile filo di seta nera e che nella loro buia custodia non avevano perduto la prisca elasticità, tantochè si attortigliarono al dito di Lidia, quasi il contatto d’una cosa viva li ridestasse alla vita. O a chi mai avevano appartenuto quei capelli? Da quanti anni erano stati recisi? Da quanti anni la persona che se n’era fatta bella aveva detto addio alla luce del sole? E che legami avevano esistito tra lei e la zia Maddalena? Erano capelli d’uomo o di donna? Pur c’era da scommettere che non fossero d’uomo; erano troppo chiari di colore, troppo morbidi, troppo ricciuti.... Ma a che pro perdersi in queste fantasticherie se il libro avrebbe spiegato ogni cosa?
Lidia sedette al tavolino. Sofia rimase in piedi dietro di lei, appoggiandosi con la persona alla spalliera della seggiola, e spingendo il braccio per di sopra l’omero della sorella fino a sollevar la coperta dell’arcano volume. La prima cosa che si presentava allo sguardo era una mezza dozzina di fogli di carta asciugante accuratamente incollati lungo il margine interno del libro. Fra due di questi fogli lo scheletro d’un fiore. Un botanico l’avrebbe probabilmente giudicata [18] una camelia. Povera sepolta viva! Che affetti, che speranze, che dolori voleva ella significare? Era ella l’epitaffio di quella tomba? Appiedi del suo gambo leggevasi sopra un pezzettino di carta gommata la scritta: 15 febbraio 1812. Indi, girando altri due fogli, l’occhio si fermava su un manoscritto un po’ tremulo, un po’ ingiallito, quantunque non fosse antichissimo. In fatti, esso portava in capo la data 23 luglio 1852. Non v’era nessun altro titolo. Soltanto la scrittura era divisa in capitoli. Lidia cominciò a leggere mentre Sofia stava intenta cogli orecchi e cogli occhi. Ascoltiamo.
[19]
Eravamo, ieri dopo pranzo, secondo il solito, Giannina ed io, sedute presso il poggiuolo della mia camera che guarda sul Canalazzo. Il sole s’era appena nascosto dietro le case dirimpetto, il cielo, frastagliato di nubi rossastre, era percorso da torme allegre di rondinelle, che ora scendevano rasente i tetti, ora si perdevano nei fondi del limpido azzurro. Sull’acqua leggermente increspata riflettevansi le calde tinte dell’orizzonte, e le brune gondolette scivolavano via rapidissime e silenziose. Era insomma un tramonto veneziano, uno di quei tramonti che poeti e pittori si son provati inutilmente a riprodurre. Io sentivo in me la malinconia sublime che desta lo spettacolo delle cose belle, sentivo il bisogno di evocare le memorie, tristi o liete, della mia vita.
[20]
— Mah! Giannina — esclamai — ti ricordi di quarant’anni fa? Via, parliamo un poco del passato. —
Giannina è diventata sorda e mi toccò ripetere la frase con voce più alta.
Ella sollevò lentamente il capo che aveva lasciato cader sonnecchiando sulla sua calza, mi guardò con un sorriso languido, ahi quanto diverso da quello d’un tempo, e mi disse — parliamone pure, padroncina. —
Non c’è caso, ho sessantacinque anni, ma Giannina non vuol saperne di chiamarmi in altra maniera. Ed io, allorchè sento questa parola di padroncina, provo una voglia matta di correre allo specchio (correre, si intende, come si può alla mia età) e di guardare se per avventura fossi tornata la giovinetta di mezzo secolo addietro.
Parliamone pure, è presto detto. Ma Giannina ci sente poco, e ha ormai tante lacune nella sua memoria. Dio mio! Come la povera donna va decadendo rapidamente! Ha cinqu’anni più di me, ma cinqu’anni in questo nostro periodo della vita, ove non si cammina ma si corre verso la tomba, cinqu’anni sono un’epoca intera.
Quando, fattasi notte, lasciammo il terrazzino per rientrare nelle stanze e Giannina andò in traccia dei fiammiferi per accendere il lume, io sentii una voce nel [21] cuore che mi ripeteva: Bada, Giannina è vecchia; bada, i colloqui che per tanti anni furono la tua maggiore dolcezza ti saranno presto impossibili; la confidente de’ tuoi pensieri non morrà forse ancora, ma non isperare ch’essa ti renda ciò che le desti in custodia, non isperare ch’essa ti ripeta ciò che le hai narrato nelle ore di soave abbandono. Come si cala un’ombra sulle stanche pupille, così va calandosi un velo sullo spirito della poveretta, e i contorni delle cose le sfumano ogni dì più innanzi agli occhi della memoria.
Tremai, lo confesso, più per compassione di me che di lei. Son sola; non ho amici, non ho parenti se non lontani, non ho che l’antico e devoto affetto di Giannina e la compagnia delle mie rimembranze. Io vivo nel passato; da poco meno di otto lustri non provo, non desto simpatie intorno a me. M’illumina il raggio d’altri giorni, la fiamma d’altri giorni mi scalda. Sorrido all’ebbrezze fuggevoli, piango ai disinganni amari, ai dolori tremendi d’un tempo ormai svanito da un pezzo. Se dimenticassi, sarei veramente una mummia. Dimenticare! È possibile? E perchè no? Non dimentica forse Giannina? Ebbene; io li vo’ chiamar tutti a raccolta i miei ricordi, e per salvarmi contro le insidie dell’età, vo’ subito [22] consegnarli alla carta. Scrivo per me, non per altri. Finchè mi basteranno gli occhi, potrò rileggere questo quaderno; se diverrò cieca, troverò un’anima pietosa che me lo legga finchè mi duri l’udito; e quand’io sarò morta, la persona a cui esso cadrà in mano, lo abbruci: a che pro conservarlo? A che pro percorrer meco una via seminata di tombe?
Ho detto che richiamerò tutti i miei ricordi, ma non è esatto. Nella mia esistenza v’è un solo pensiero nel quale consumai quanto fu grande la mia potenza d’amare, di credere, di soffrire. Perchè dovrei occuparmi del resto?
Oh! ben io rammento il vecchio palazzo che mia madre, ultimo rampollo d’una famiglia patrizia decaduta, aveva portato in dote al babbo, negoziante arricchitosi nel commercio colla Dalmazia e la Grecia. Di quel palazzo non ho però mai compreso una cosa: perchè lo si fosse fabbricato sopra un canale interno, sucido e angusto in guisa che soltanto i gatti dagli abbaini e dai tetti delle case di fronte potevano vederne l’intera facciata. Ma! I nostri nonni erano pur curiosi. Rammento la lunga sala un po’ buia co’ suoi finestroni a vetri ottagoni, con le sue pareti a stucchi, co’ suoi gran medaglioni sulle soprapporte. E in [23] quei medaglioni mi par di vedere ancora i ritratti ad olio degli antenati di mia madre, quali in corazza, quali in toga senatoriale. L’uno avea preso parte alla guerra di Candia, l’altro aveva manipolato le leggi, quello lì in fondo poi, con quel viso arcigno e severo, era stato nientemeno che inquisitore. Non so perchè, quando Angelo, il vecchio barcaiuolo, mi prendeva in braccio perchè io vedessi meglio quel mio famoso trisavolo, io sentivo venirmi la pelle d’oca, ciò che non m’impediva però ch’io mi gonfiassi alquanto, pensando d’avere avuto un parente di quella fatta.
Angelo aveva servito come gondoliere il mio nonno materno, ed era il solo personaggio della casa che conservasse gelosamente le tradizioni aristocratiche. Era ormai pensionato, ma per tutto l’oro del mondo non avrebbe ceduto ad altri la funzione di spazzar via le tele di ragno dai ritratti gentilizi. Egli adoperava a tal’uopo una granata di straordinaria lunghezza, che soleva aver domicilio in un angolo della sala e che nessuno, all’infuori di lui, poteva toccare. A me piaceva molto di assistere alle sue abili manovre con quell’arma portentosa, e, per un tacito accordo, egli soleva farmi chiamare prima di accingersi alla grande impresa. Come si può creder [24] le cure più minuziose erano consacrate al ritratto dell’inquisitore, e Angelo trovava invariabilmente che, quando le ragnatele non ne deturpavano la fisonomia, egli aveva tutto l’aspetto di persona, severa sì, ma di ottimo fondo. Un’altra occupazione del valent’uomo era quella di caricare ogni domenica l’orologio a pendolo infisso alla parete della sala. L’orologio era antico e sentiva i danni dell’età, per cui, se in origine, caricato alla domenica, faceva il debito suo fino alla domenica successiva, negli ultimi tempi aveva preso l’abitudine di fermarsi nella giornata del sabato. Angelo però non mutava sistema; diceva che pel corso di cinquant’anni, sotto Sua Eccellenza Andrea, e Sua Eccellenza Pasquale, e Sua Eccellenza Gasparo, aveva fatto così, e che così farebbe tutta la vita, e che gli orologi non si devono tormentare. Io avevo molta stima di Angelo, ma quando la mamma sul dopo pranzo del sabato mi mandava in sala a veder che ora fosse, e io, trovando le sfere sempre al medesimo posto, non sapevo che cosa rispondere, dicevo sommessamente che, in onta a ciò che si usava sotto le loro Eccellenze Andrea, Pasquale e Gasparo, non sarebbe stato un delitto il caricare quell’orologio ogni sei giorni, invece d’una volta per settimana. Angelo aveva poi un difetto [25] molto più grave. La sua devozione per mia madre era illimitata, ma col babbo si teneva in sussiego, ed era facile accorgersi che non lo aveva nelle sue grazie. Un giorno si arrischiò fino a dire — Non ho mai capito perchè Sua Eccellenza la signora Lucietta abbia preferito di sposare il padrone anzichè il nobil uomo Antonio Renier, che apparteneva ad una gran famiglia, e che non potè sopravvivere al suo rifiuto. —
Io ripetei questa frase alla mamma, che mi sgridò e mi fece divieto di passar tanto tempo in cucina. Ma la legge non fu osservata che quarantotto ore.
Quanto a mio padre, egli aveva un numero infinito di faccende, e fuori che a pranzo, lo si vedeva pochissimo. Nondimeno io gli volevo bene, e quantunque sapessi che ci correva molto tra lui e l’avo inquisitore, non potevo acconciarmi all’opinione sfavorevole di Angelo sul conto suo. Egli mi parlava con calore straordinario d’un mio fratello chiamato Carlo, che contava parecchi anni più di me, e ch’io non avevo mai visto, perchè s’era assentato di Venezia poco dopo la mia nascita, e stava compiendo in Francia la sua educazione. Di là scriveva certe lettere lunghe lunghe, che il babbo non rifiniva mai di leggere, e di trovare assai interessanti, perchè descrivevano, diceva [26] lui, avvenimenti strepitosi, i quali accadevano in Parigi. Mia madre invece non pareva aver grande simpatia per questo ragazzo, del quale discorreva di rado e di malavoglia. Quanto a me, non capivo come una donnina giovane qual’era mia madre, potesse avere un figliuolo così grande e grosso. Esposi i miei dubbi in cucina, ove mi si disse che Carlo era nato da un’altra moglie del papà. — Dunque — sclamai sorpresa — io ho due mamme. — La qual sentenza produsse un’ilarità sconfinata nella servitù, e distraendo l’attenzione di tutti i presenti fu causa occasionale che il gatto Mauli saltasse dall’impiantito sulla tavola, dalla tavola sulla scansia, e dalla scansia sulla gabbia del canarino Joli, che rimase salvo per miracolo, ma perdette da quel dì il buonumore. In questo grave avvenimento ammirai per la prima volta la presenza di spirito di Giannina, l’aiutante femminile del cuoco. Visto che il micio stava aggrappato alla gabbia con le due zampe anteriori, e in sì disagiata posizione faceva una specie di altalena che avrebbe terminato inevitabilmente con una catastrofe, pose una sedia sopra la tavola, vi montò sopra, ghermì bravamente Mauli per la collottola e lo slanciò nello spazio. Bellissima impresa per una fanciulla di dodici anni, chè quel giorno [27] Giannina non ne aveva di più. Mentre si compivano sì eroiche gesta, Angelo, che prendeva le cose sul serio, mi spiegava come i bimbi non potessero avere due mamme, nè gli uomini due mogli in una volta (a meno che non fossero turchi, che Dio scampi e liberi), e come quindi la madre di Carlo fosse morta prima che S. E. la signora Lucietta sposasse il babbo. Io ricordo che tutte queste spiegazioni mi produssero in capo una grandissima confusione.
La mamma era un angiolo di bellezza; vestiva da regina ed era caritatevole per modo che, nelle rare volte in cui escivamo di casa a piedi, essa dispensava ai poveri tutto il danaro che aveva in borsa, e se non l’era sufficiente, se ne faceva prestare dai conoscenti che incontravamo per via. Da certi colloquii che m’era riuscito cogliere qualche volta, capivo anzi che le si faceva colpa di spendere troppo, non solo in carità, ma anche in oggetti di acconciatura, onde arrivavano a casa innumerevoli polizze da tutti i bottegai delle Mercerie. Io però trovavo che la mamma aveva ragione, giacchè ero profondamente convinta che quanto più uno spende tanto più è ricco, e ad esser ricca io ci tenevo moltissimo. Oltre a ciò la mamma era vispa, allegra, e [28] diceva sempre di non voler darsi pensiero di nulla. Io, per imitarla, non volli darmi pensiero delle lettere dell’alfabeto, che un buon prete s’era fitto in capo di farmi imparare.
S’io volessi annoverare qui tutti i personaggi che mi passarono dinanzi nella mia infanzia, dovrei discorrer senza dubbio dello zio Avogadore, ch’io conobbi vecchissimo, ma del quale mi restò nella mente lo sguardo sereno e la parola benevola. In casa nostra credo di averlo veduto tre o quattro volte; era portato su per le scale, indi lo adagiavano in un seggiolone a bracciuoli, e il crocchio domestico si faceva completo e si atteggiava riverente intorno a lui. Mio padre saliva dal banco, lo zio Baldassare veniva dalla biblioteca, la mamma correva a baciargli la mano, e Angelo, con una scusa o con l’altra, rimaneva in piedi nella stanza e guardava il buon vecchio con occhi imbambolati e umidetti di lagrime. Io poi posavo volontieri la testa sulle sue ginocchia, mentr’egli mi carezzava i capelli e mi toccava scherzevolmente le guancie. — Quello sì è un santo — diceva Angelo, dopo averlo messo in gondola, e ritengo ch’egli avesse ragione. Come spesso mi accadde di sentire ripetere più tardi — Ah! se ci fosse ancora lo zio Avogadore! —
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Quanto allo zio Baldassare, fratello del babbo, gli era un uomo piccolo, asciutto, nervoso, serio, con occhi vivi e lampeggianti. Aveva viaggiato assai, e mia madre, che non lo aveva in gran simpatia, confessava ch’era un sapientone, tantochè bastava vederlo per sbadigliare. Soleva passare la maggior parte della giornata nella biblioteca, ch’era una bella stanza, con le pareti rivestite dall’alto al basso di librerie assai pregevoli per fregi ed intagli del Brustolon. Angelo mi narrò che quel lavoro era stato ordinato da Sua Eccellenza Gasparo, mio nonno, il quale voleva dare un alloggio decoroso ai quattro mila volumi della sua famiglia. Era però avvenuto un fatto curioso. Quando le biblioteche furono condotte a termine, si trovò che costavano troppo, e il nonno, per pagarle, vendette i libri a un lord inglese. Lo zio Baldassare le aveva ripopolate con nuovi acquisti. Questo mio zio era uomo di poche parole, ma io non potevo che dirne bene. Mi tirava amorevolmente le orecchie ogni mattina quand’io andavo a salutarlo, mi faceva veder spesso di bei libri con figure in colori, e mi regalava una magnifica bambola nel mio giorno onomastico. Una volta mi disse che avevo sale in zucca, e si propose di farmi da maestro.
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Un altro individuo che ricorrerà (pur troppo!) assai spesso su queste pagine, era il signor Venanzio Agliucci, di cui mi toccherà discorrere diffusamente, ma sul conto del quale sarò adesso brevissima. Non più nel fiore di giovinezza, aveva però ancora una persona disinvolta e un aspetto gradevole. Portava con grazia la parrucca, era sempre vestito con una certa eleganza e moveva le gambe con passo di ballo. Dalle sue labbra atteggiate a un perpetuo sorriso non uscivano che frasi melate, la sua persona spargeva intorno a sè dolcissimi effluvii. Accompagnava la mamma al cembalo, e di tratto in tratto cantava anch’egli un’arietta e pareva andare in deliquio per la commozione. Lo invitavano spesso a pranzo, ed egli veniva sempre con un rotolo di carta tutta fregi intorno ai margini, sulla quale erano vergate scritture portanti il titolo di Madrigale, sonetto, ecc., ecc. Al momento delle frutta, il signor Venanzio apriva il rotolo e declamava con enfasi e gestendo quelli ch’egli chiamava parti della sua musa. Sul conto di lui erano in casa assai varie opinioni. La mamma lo proteggeva in modo singolare, Angelo osservava che si poteva dir quello che si volesse a carico del signor Venanzio, ma che, dopo mia madre, egli era il solo di cui si capiva a prima vista che [31] se non era nobile, era almeno stato sempre coi nobili. Il babbo lo riceveva con cortesia, ma senza effusione, e lasciava apparir chiaro che non gli era simpatico. Lo zio Baldassare poi non celava il suo dispetto di vederselo attorno, gli rispondeva appena e andava brontolando fra sè parole che non avevano l’aspetto di complimenti. — Bellimbusto fannullone ed ipocrita! — l’intesi un giorno esclamare, mentre il signor Venanzio si accommiatava. In mezzo a sì discordi pareri io ero neutra, però d’una neutralità piuttosto sospettosa ed ostile che fidente e benevola. Per quanti doni di chicche e di ninnoli mi venissero da lui, io non sapevo vincere la mia riluttanza a dargli un bacio. Oh! era stata ben altra cosa con lo zio Avogadore, era ben altra cosa anche con lo zio Baldassare!
Un anno memorabile per tutti i conti fu il 1797. Della caduta della Repubblica dirò poi. Fu certo un gran fatto, ma prima che esso accadesse, altri avvennero per me importantissimi. Io compivo in febbrajo i dieci [32] anni. Fino a sette m’ero intesa a ripetere su tutti i tuoni: — Che bella bimba! — Dai sette ai nove udii bisbigliare: — Eppure Maddalena prometteva meglio — Quando toccai i dieci, sorpresi più volte la frase: — Com’è imbruttita! — E allora la mamma e gli altri di famiglia, non so se per conforto o per istruzione, mi predicavano: — Non importa esser belli, bisogna esser buoni — locchè mi faceva un dispetto da non potersi credere. E quantunque ragazzina affatto, ci pensavo e ripensavo, ma buon per me che vennero altri accidenti a distrarmi. Proprio in febbraio ebbi due comunicazioni: prima, che mio fratello Carlo s’era mosso di Francia per tornare a Venezia; seconda, che un altro fratellino, o sorellina che fosse, sarebbe arrivato di lì a pochi mesi per tutt’altra parte. Corsi difilata dalla mamma a lagnarmi che di questo fratellino, il quale abitava tanto lontano, non mi si fosse mai tenuto parola; ella sorrise malinconicamente, e mi licenziò dicendo che aveva male di stomaco. Comunque sia, non mi pareva che ai due viaggiatori si preparassero troppo festose accoglienze. Della venuta di Carlo non esultava schiettamente che lo zio Baldassare. Mio padre forse ne gioiva in cuor suo, ma sembrava che la sua gioia non fosse scevra di preoccupazioni. Alla mamma [33] era evidente che la cosa dava gran noja. Quanto all’altro aspettato, era meglio non discorrerne. Solo a menzionarlo si vedevano musi lunghi da metter paura. Perciò l’arrivo di Carlo fu per me argomento di consolazione indescrivibile. Era un bel giovinetto sui diciott’anni, alto, spigliato, disinvolto, allegro, e che prese subito a volermi bene. La mia intimità con Angelo, che si era rallentata da qualche mese, subì un nuovo crollo alle sgarbate parole che il gondoliere pronunciò sul conto di mio fratello. — Quella gente lì è la nostra rovina — brontolò il vecchio bisbetico — il suo signor Carlo è un sanculotto, un giacobino.
— Che sanculotto? che giacobino — proruppi col massimo sdegno. — Egli è Carlo Lisari, figlio del babbo.
— Sì, sì — soggiunse Angelo senza darmi retta — vogliono farla a San Marco. Ma vedranno chi la vincerà. Oh! i parrucconi han fatto andarsene con le pive in sacco ben altri personaggi di questi. Ma se toccasse a me, o che non ci sono i piombi per nulla?
— Tu farnetichi — diss’io, che non capivo una sillaba di questi discorsi, e gli voltai le spalle inferocita.
In casa, Carlo, ch’era pettinato moderatamente, declamò contro le code e le parrucche. [34] E il babbo e lo zio si lasciarono persuadere dalla sua eloquenza, tantochè parrucche e code scomparvero in brevissimi giorni. Asserirei il falso se dicessi che la cosa non mi desse noia. Quando mio padre mi prendeva confidenzialmente sui suoi ginocchi (e continuava in queste abitudini, benchè io fossi già grandicella) io solevo occuparmi a giocherellare col suo codino, e mi seppe male di perdere questo innocentissimo passatempo, che, a creder mio, alimentava la mia affezione figliale. Ma i miei scrupoli durarono poco, crescendo ogni dì l’influenza che Carlo esercitava sopra di me. Egli s’era maravigliato assai di trovarmi così digiuna d’ogni istruzione, e si accinse con zelo indescrivibile a dirozzare il mio spirito. Ed io ricambiai le sue premure. Ciò che mi era sembrato fino allora intollerabilmente uggioso mi accese invece di vera passione. Leggevo poco e di mala voglia, e in men che non si dice fui ridotta a segno di non potermene star senza un libro sotto gli occhi o una penna in mano. I miei progressi furono altrettanto rapidi quanto sino allora erano stati tardi, e lo zio Baldassare ne trasecolava per la contentezza. La mamma, che da alcuni mesi era indisposta e passava buona parte della giornata in letto, ogni volta ch’io mi recavo a salutarla, sosteneva [35] che Carlo avrebbe finito col farmi perder la salute e ch’ero già divenuta più magra e più pallida. Ma io mi divertivo siffattamente di quel nuovo sistema di vita che non l’avrei mutato per tutto l’oro del mondo, e mi pareva sempre di non fare abbastanza presto ad apprendere tutte le cose che m’insegnava Carlo. Che arca di scienza che era lui! Altro che l’avo inquisitore! Questi s’era tanto rimpicciolito a’ miei occhi, che una mattina, dopo una bella lezione di mio fratello sui due poli e sull’equatore, corsi in sala, mi presentai dinanzi al ritratto, e gli feci le boccaccie in segno del mio disprezzo.
Intanto i tempi si facevano grossi davvero. Ogni giorno c’era una novità, ogni giorno Angelo aveva la faccia più scura. Di tratto in tratto poi sorgevano paure di tumulti, e allora, anche s’era di mezzodì, si chiudevano le imposte dei mezzanini e si davano i catenacci alle porte di strada. Una volta ci fu un serra serra. Si tirò fuori uno schioppo irrugginito e lo si diede a Tommaso, il cuoco, il quale era stato militare. Bisogna credere però che collo smettere la divisa egli avesse smessi altresì gli umori belligeri, inquantochè non parve assai lieto dell’incarico avuto, e diceva che se mai fossero venuti (nessuno sapeva chi dovesse [36] venire), l’opporre resistenza sarebbe stato una vera pazzia. Mi ricordo benissimo che Carlo si trovava fuori di casa e ch’io ero molto inquieta sul conto suo, ma che la confusione di Tommaso mi esilarava lo spirito. Ed ho sempre negli orecchi la sua ingenua esclamazione nel sentir battere una imposta per un gagliardo colpo di vento: Madonna! Che la fosse una schiopetàa? Tommaso era padovano, e benchè fosse in Venezia da fanciullo in su, nelle grandi occasioni si serviva del suo dialetto nativo.
Da parecchi mesi si faceva un gran discorrere di un certo generale Buonaparte, e a questo nome lo zio Baldassare si fregava le mani in silenzio, e Carlo andava in visibilio e asseriva che un capitano simile non lo aveva avuto nemmeno l’antichità. Avendo io ripetuto a Angelo una tale sentenza, egli divenne frenetico, e dichiarò che a spazzar via simil gente bastava la sua granata. Così dicendo, egli guardò il domestico arnese, che molto pacificamente era appoggiato alla solita parete e non sapeva certo a quali eroiche gesta lo si volesse far servire.
Insomma, nel maggio avvenne la catastrofe. Cadde la Repubblica, e io, troppo acerba d’età per comprendere la portata politica di questo avvenimento, serbo una dolorosa memoria della disperazione di Angelo. [37] Il poveretto ora stringeva i pugni in atto di minaccia contro i giacobini, ora si stemprava in lagrime, e si strappava i bianchi capelli, e diceva di non voler sopravvivere al Leone di san Marco. Se la prendeva con me, con mio padre, collo zio, con Carlo soprattutto, e anche un po’ con la mamma, la quale non aveva sposato il nobil uomo Antonio Renier. Io però stentavo a comprendere come quel matrimonio, seppur fosse successo, avrebbe potuto salvare la Repubblica. Certo si è che il dolore d’Angelo non era punto mentito, e ben se ne videro presto gli effetti. L’indomani d’un giorno in cui egli aveva fatto in cucina una scena così violenta che il resto della servitù era salito a lagnarsene con la mamma, intesi bussare all’uscio della stanza ov’io studiavo con Carlo. Era Angelo. Aveva una faccia così pallida e stravolta che metteva paura. Mio fratello parve un momento inquieto; e come gli era nota l’antipatia del vecchio gondoliere per lui, si levò in piedi, quasi ponendosi in atto di difesa. Ma quel tapinello di Angelo non minacciava nessuno. Si trascinò sino da me tutto umile, e benchè io non fossi che una fanciulla, mi prese la mano e me la baciò.
— Padroncina — mi disse — fui or ora da Sua Eccellenza la signora Lucietta, e vengo a prendere commiato anche da Lei.
[38]
— Come! — esclamai, e mi tremava la voce per la commozione — ti hanno licenziato?
— No, padroncina — egli rispose — ma sto male, vado a casa da mio genero.
— Angelo, non puoi stare con noi, non puoi farti curare qui? Il babbo e la mamma sono tanto buoni...
— Sua Eccellenza la signora Lucietta — rispose il vecchio che non riconosceva altri padroni che mia madre — me l’ha già offerto, ma io voglio andare a morire coi miei. — E, com’io accennava a interromperlo — Sì, — continuò egli — mio genero è barcajuolo a Cà Manin, e la Maria, mia figlia, fu per dieci anni cameriera dai Pesaro; essi mi chiuderanno gli occhi, e mi parleranno sino all’ultimo momento di San Marco e dei nostri parrucconi. —
V’era nel tuono della sua voce un misto d’ambascia e di rimprovero che mi faceva pietà e mi confondeva ad un tempo.
— Morire! — sclamai, sforzandomi di sorridere — Che pensieri son questi? Via, coraggio, Angelo.
— Oh! ci vorrebbe altro ch’io dovessi vivere! No, no, padroncina — egli soggiunse tentennando il capo — non sono più tempi questi per il vecchio Angelo. Così fossi morto sei mesi fa, prima che i miei poveri [39] occhi vedessero questi orrori.... Basta, padroncina, grazie di tutto, la mi perdoni delle mie mancanze, e si ricordi qualche volta di me che le ho voluto bene come a una mia creatura, e mi dica un’Ave Maria... se adesso se ne dicono più. —
Tornò a prendermi la mano e a baciarla, poi cogli occhi inondati di lagrime e con passo incerto si avviò presso l’uscio. Mentre ne afferrava il saliscendi, parve che gli mancassero le gambe, e Carlo accorse rapidamente per sostenerlo. Angelo si rizzò con subito sforzo, e voltandosi con una certa dignità piuttosto sprezzante — Grazie — disse — non ho bisogno di nulla. —
Indi uscì.
— Pover’uomo! — sospirò Carlo — egli non mi può soffrire e morirà vittima dei suoi pregiudizi. Tuttavia questa sua tenacità di opinione è assai rispettabile....
Io però appena badavo alle sue parole. Dallo spiraglio dell’uscio che aprivasi nella sala seguivo con l’occhio i movimenti di Angelo. Il vecchio gondoliere girava lentamente tutto all’intorno guardando uno dopo l’altro i medaglioni infissi nelle pareti. Si fermava davanti a ciascun ritratto e restava immobile qualche secondo. Allorchè si trovò al cospetto di quello dell’inquisitore lo guardò con occhio [40] più amoroso e più intento, e borbottò alcune frasi di cui non potei cogliere che queste parole: per l’ultima volta.
L’antica granata, con cui Angelo faceva guerra ai ragni e negli ultimi tempi si era proposto di spazzar via Napoleone Buonaparte, era nell’usato angolo della sala. Il meschinello riuscì a sollevarla con le deboli braccia, l’appoggiò sulla tela del medaglione e stava accingendosi per l’ultima volta, come aveva detto pur dianzi, al suo lavoro quotidiano di ripulitura, quando, o perchè non gli reggessero le forze, o pel soverchio dell’emozione, stramazzò per terra insieme al suo arnese. Fummo tosto a soccorrerlo Carla ed io, e subito dopo accorsero gli altri di casa e la gente di servizio. Lo zio Baldassare, che se n’intendeva un poco di medicina, gli tastò il polso e disse che a suo parere egli si risentirebbe, ma che, tra per l’età, tra per lo stato dell’animo, era a dubitarsi che si trattasse di cosa seria. Volevano trasportarlo in una stanza disoccupata del palazzo, ma io mi opposi e dissi — No, babbo; no, zio — la mamma, sempre indisposta, era rimasta nella sua camera — è meglio che lo mandiamo a casa di suo genero. —
— E perchè?
— Lo desidera lui. Ha detto che vuol morire fra i suoi. Non è vero, Carlo?
[41]
— È vero — rispose mio fratello — ma non sarà forse il caso di morire. —
Queste ultime parole furono pronunciate con tuono indagatore, e assai più con la brama che con la speranza di avere una risposta soddisfacente. Tutti rimasero muti.
Io mi aggrappai ai fianchi di mio padre, e insistei singhiozzando — Non negargli quest’ultima grazia, papà mio. Mandalo ove egli desidera andare. —
Si fece a modo mio. Guardai ancora una volta quei capelli bianchi, quella faccia leale, quelle mani callose, poi, condotta via da Carlo, rientrai seco nelle stanza ond’eravamo usciti, e, nascondendo il viso tra i guanciali del sofà, mi misi a piangere dirottamente. Carlo mi carezzava i capelli dicendo — Piangi pure, poverina. Era un’anima onesta. — E poi, fattomisi presso, mi bisbigliava all’orecchio — Stassera, se sarai buona, dirò al babbo e alla mamma che ti accompagno in piazza, e invece andremo a vedere come sta Angelo. Io non entrerò nella camera, sai ch’egli non ne avrebbe piacere, ma ci entrerai tu, e così potrai vederlo nuovamente. Sei contenta? —
Oh! ero contenta per modo che non seppi far di meglio che gettar le braccia al collo di Carlo e baciarlo e ribaciarlo su ambe le guancie.
[42]
Quel giorno fu a pranzo da noi il signor Venanzio. Aveva dimesso anch’egli la coda, e parlava di politica con un calore straordinario. Io ne capivo poco, sempre però quanto bastava ad accorgermi che se lo zio Baldassare e Carlo erano giacobini, il signor Venanzio era più giacobino di loro. — Ce n’è voluto — egli disse — ma finalmente ci siamo riusciti. Era tempo che questo baraccone cadesse. L’ho sempre detto io, e quando non l’ho detto l’ho pensato, che al nostro secolo non possono durare simili governi. Luce, luce ci vuole ormai, luce e libertà. Altro che misteri, altro che inquisizioni! E l’aristocrazia, si può dar nulla di più assurdo? Che cos’è la nascita? Un caso. Mio padre era amministratore di famiglie patrizie, ma mio nonno vendeva sardelle salate, e ne ho piacere, e ne vado superbo. Io, non lo nego, ho vissuto molto coi nobili, ma perchè ci ho vissuto? Per dir loro la verità schietta e tonda, e son sicuro che da nessuno ne hanno intese di così grosse come da me! Non le hanno capite? Le hanno pigliate per complimenti? Tanto peggio per loro. Che colpa ne ho io se sono diventati anche cretini? Non ho bisogno di domandar scusa alla signora Lucietta che non ha pregiudizi, e, quantunque nobile, fu sempre un’eccezione, ma la verità è una [43] sola. Del resto, perchè ho frequentato io questa casa di preferenza alle altre? Perchè qui vi si respirava meglio, perchè qui non ci erano fumi, perchè insomma qui vedevo divise le mie idee... —
A questo punto dovetti fare uno sforzo supremo, per impedire che Carlo gettasse un bicchiere sul viso al signor Venanzio. Egli ne aveva certo una voglia grandissima. Lo zio Baldassare si alzò bruscamente da tavola e uscì della stanza conducendo seco il nipote.
Ma il signor Venanzio non se ne avvide o non se ne curò, e proseguì il suo discorso rivolgendosi in ispecialità a mio padre, che stava ad ascoltarlo con la rassegnazione di un santo.
Quand’egli se ne fu andato, Carlo, rientrando nel salotto da pranzo, mi prese da parte e mi disse — Vedi, Maddalena, quell’uomo lì è una fra le più sucide e vigliacche creature, che vi siano al mondo.
— Oh! — esclamai — com’è possibile? Se la mamma ne ha tanta stima? —
Carlo non mi disse nulla, si annuvolò in viso e mi lasciò.
Da un’altra parte della stanza mia madre disputava a mezza voce col babbo. Favellavano certo dello stesso argomento, e intesi la mamma che diceva — L’avete preso a perseguitare. In fin dei conti... —
[44]
Ma in questo punto fu notata la mia presenza, e il dialogo venne interrotto.
Perchè mia madre difendeva quell’uomo, e perchè a me spiaceva tanto ch’ella lo difendesse?
Il periodo della vita più ricco d’impressioni, più fecondo di sorprese e di cambiamenti, è senza dubbio quello che comincia all’estremo limite dell’infanzia, attraversa l’adolescenza e giunge sino al principio della giovinezza. Ridire ciò che in questo periodo si è pensato e sentito, ridire le dolci fantasie e le speranze audaci e i sùbiti scoramenti è impresa da lasciarsi ai romanzieri di professione. Chi non vuole inventare, ma domanda alla penna soltanto che gli riproduca fedelmente il vero, deve, di necessità, esser parco, mentre in così turbinoso affollarsi d’immagini poche sono quelle che si presentino con chiari e spiccati contorni. Forse una frase rende lo stato dell’anima in quell’epoca singolare: non sapersi spiegare e non osar chiedere.
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Qui è la differenza dalla prima infanzia, la quale non capisce, ma, petulante e importuna, non si perita di rivolgere alcuna inchiesta per ardita che sia. Tra le cose che, undicenne, io non riuscivo a spiegarmi, e pur non m’arrischiavo d’indagare, era il perchè della freddezza con cui era stata accolta nella famiglia la mia sorellina Clara. Per me fu una festa il suo nascere; passar lunghe ore alla sua culla, era un diletto pieno di soavità. Mi pareva che i lini, ond’ella era ravvolta, non bastassero a riscaldare le sue tenere membra, se non vi si mesceva un alito d’amore. Perciò io m’ero stretta nuovamente a mia mamma, la quale, sola della casa, mostrava di voler bene alla piccina. Il babbo, per solito così affettuoso, la guardava appena, e sempre con le ciglia aggrottate, lo zio Baldassare non poteva sentire il suo vagito senza conturbarsi, e Carlo scansava di vederla e di discorrerne. Ma perchè? domando io. Ella sì ch’era bella! Aveva, ancora in fasce, l’occhio dolce e vivace di mia madre, aveva i lineamenti delicati di lei, e quando mi sorrideva, pareami di veder mia madre sorridere. Nessuno combatteva le mie simpatie, ma nessuno le incoraggiava. Se io, con uno sforzo supremo, prendevo Clara in braccio e la portavo di qua e di là per le [46] stanze, nessuno, all’infuori della balia, si offriva di pigliarsi il mio fardello, nessuno con un gesto, con uno sguardo, con una parola, faceva buon viso ai miei scherzi. Povera bimba! sotto che cattiva stella era nata! La servitù teneva tratto tratto, su tale proposito, singolari discorsi, di cui però non poteva cogliere il senso. E questi discorsi erano tenuti per lo più, dopo le visite del signor Venanzio. Carlo aveva per me le usate premure, ma aveva anch’egli cambiato d’umore. Diceva che il 1797 era stato per lui un anno tremendo. Tuttavia si occupava della mia educazione con un fervore incredibile. A sentirlo, ero una scolara senza l’uguale al mondo. Quantunque non insuperbissi delle sue lodi, avevo la coscienza di progredire rapidamente. M’ero data allo studio con passione febbrile; cercavo in esso una distrazione al tedio della mia vita domestica, facevo dei libri i discreti confidenti de’ miei pensieri. Se la mestizia del babbo, o di mio zio, o di Carlo m’aveva turbato, se la sbrigliata gajezza di mia madre m’aveva ferito, se la sguajataggine del signor Venanzio m’aveva offeso, era ai libri ch’io chiedevo conforto.
A tredici anni provai un gran dolore. Carlo ebbe per istrada una scena violenta col signor Venanzio. Altra scena succedette [47] in casa, e, per la prima volta nella mia vita, vidi la mamma piangere. Io ne capivo assai poco, capivo però che mio padre, uomo cui la soverchia bontà toglieva l’energia del volere, era assediato da due opposte influenze, quella di suo figlio e di suo fratello, e quella di sua moglie. Per molti giorni non comparve il signor Venanzio. Ma una mattina, mentre io ero nella camera da letto di mia madre, e Clara raggomitolata sul pavimento giuocava ai miei piedi, intesi aprir l’uscio. Era desso. La bimba si levò di terra e gli corse incontro festosa. Egli si chinò sopra di lei e la coperse di baci. La mamma, udendo la sua voce, venne in fretta dalla stanza vicina. Io uscii, non so perchè, non so come, adirata contro il signor Venanzio, contro mia madre, contro la stessa Clara. Avevo un bisogno immenso di piangere e piansi. La sera Carlo mi prese per mano, e mi disse — Maddalena, io parto... L’ho deciso... Il babbo lo sa ed è contento.... Non accorarti, sorelluccia mia. Anche lontano, vedrò d’esser sempre teco... ti scriverò ogni settimana... Non ti basta? Ti scriverò ogni giorno... e tu pure mi scriverai, e faremo conto d’essere insieme... Via, via, piccina... tornerò, sai?... — Io ero sopraffatta da questa notizia, per modo che non riuscivo a trovar parole. Quando potei snodare [48] le labbra ruppi in singhiozzi, gettai le braccia al collo di mio fratello, e con voce rotta gli chiesi — Ma perchè parti? Ma dove vai? — Egli si svincolò dolcemente dalla mia stretta e mi disse — Vado nella Repubblica cisalpina, vado dove vedrò poste in atto le idee che furono il sogno della mia gioventù, vado dove posso aver modo di lavorare per la liberazione della nostra povera patria. — Indi mi diede un bacio e soggiunse — Domattina tornerò a salutarti. Calmati intanto — E mi lasciò. Rimasi alcuni minuti come trasognata; poi mi venne in animo di favellar con lo zio Baldassare, di strappargli dalle labbra qualche più persuasiva spiegazione di un fatto così subitaneo, di pregarlo che s’interponesse per trattener Carlo. Ma lo zio Baldassare era appunto con Carlo in segreti colloqui. Stettero insieme tutta la notte. La mattina mio fratello partì, e non potei vederlo da solo a sola. Lo accompagnammo col babbo e con lo zio fino alla gondola. Egli ci baciò in silenzio tutti e tre, e disse con voce commossa — A rivederci. — I gondolieri, puntando coi remi, si allontanarono dalla riva. — Addio, addio — tornò a dir Carlo. Nel punto in cui il canale fa una svolta, una grossa barca, di quelle che noi Veneziani chiamiamo peate, tenne ferma la [49] gondola alcuni secondi. Carlo, spingendo la testa dal finestrino, guardò dalla nostra parte. Noi eravamo ancora immobili sui gradini dell’approdo, ed egli ci risalutò più volte coi cenni del capo e col fazzoletto. L’ingombro fu rimosso, i remi si tuffarono liberamente nell’acqua, e la cara visione sparì... Anima nobile, anima ardente, quando e dove potrò incontrarti? Risalimmo le scale senza scambiarci una parola. Giunti nell’ampia sala che mi pareva più muta, più mesta, più buia del solito, alzammo gli occhi ad un tempo... poi ci separammo frettolosi. Avevamo tutti e tre il cuore gonfio, bisognoso di sfogo, ma tutti e tre sentivamo istintivamente ch’era meglio tacere, non chiedere, non far confidenze che avrebbero potuto essere accuse... Mia madre era chiusa con Clara nelle sue camere....
Quante cose imparai in quel giorno! Quante ombre presero forma! Che fitto velo di tristezza si calò sull’anima mia! O giovinette, cui per avventura cadesse fra le mani questo quaderno, compiangetemi, e che il cielo vi salvi dal peggior degli affanni: dubitare della madre nostra. Nè gioventù, nè beltà, nè ricchezze possono riempire il vuoto lasciato nell’anima dalla fede perduta verso chi vi nutrì del suo latte.
Mia madre era sempre buona meco, [50] scherzosa, amorevole; le grazie del volto e il brio naturale di lei che avevano esercitato un fascino su tutti quelli che le erano vissuti dappresso non potevano certo rimaner senza effetto sopra di me. Quante volte, vedendola così vispa e leggiadra, sapendola così pronta alla simpatia e al benefizio, io sentivo rinascere in cuore l’antica tenerezza! Ma quegli slanci erano soffocati da altri pensieri che irresistibili mi si affollavano alla mente e mi costringevano di nuovo in un gelato riserbo. E Clara, la fanciulla bellissima ch’io solevo tener pargoletta sui miei ginocchi, che con le mie cure avevo voluto risarcire della freddezza altrui, perchè non era più ai miei occhi quella d’un tempo? Che forza arcana mi allontanava da lei, sì che la mobile vivacità delle sue pupille mi riusciva incresciosa, e le brune ciocche de’ suoi capelli non m’invitavano più alle carezze, e le inflessioni stesse della sua voce mi ferivano come suoni sgraditi? Non lo so;... so che quando il signor Venanzio, fattosi frequentatore sempre più assiduo della nostra casa, la prendeva tra le sue braccia e la copriva di baci, mi pareva come se una lama affilata mi trapassasse le carni. Essa, alla sua volta, vistasi negletta, aveva molto rimesso della sua espansione; non mi sfuggiva, ma nemmeno mi [51] cercava, e soleva starsene con la mamma, che omai non faceva mistero delle sue predilezioni per lei.
Oh i giorni mi correvano pur tristi e l’avvenire mi si presentava pur sotto tetri colori! La procella si librava minacciosa sulla nostra famiglia senza scoppiar mai. Io ne sentivo l’afa pesante, e m’auguravo talora che il turbine si scatenasse per uscire da una situazione intollerabile. Ma era inutile augurio. Ero ridotta a udire intorno a me querele impotenti, a vedere incancrenirsi le piaghe per mancanza del coraggio delle amputazioni. E m’adiravo con tutti, e una cupa misantropia andava investendomi a poco a poco.
Due sole cose mi consolavano: la corrispondenza epistolare con Carlo e lo studio. Mio fratello s’era arruolato nell’esercito cisalpino, e il suo reggimento era stato spedito al settentrione della Francia, sulle coste dell’Oceano. Di là egli mi scriveva regolarmente, mi suggeriva le letture più acconcie, mi narrava le sue occupazioni, mi confidava le sue speranze, e, soprattutto, manteneva caldo in me l’amor della patria e della libertà. Egli era fra quelli che il trattato di Campoformio non aveva potuto intieramente alienar dalla Francia, e che solo dalle armi francesi aspettavano la redenzione [52] dei popoli. Perciò anelava alla guerra, unico mezzo, egli diceva, di finirla per sempre con le vecchie Corti coalizzate fra loro. Pel genio del Buonaparte aveva una ammirazione sconfinata, ma lo credeva troppo ambizioso. Di tratto in tratto vi erano nelle sue lettere divinazioni profetiche — Temo — egli mi scriveva un giorno — l’onnipotenza militare; mi par di vedere le antiche legioni romane pronte a passare il Rubicone al cenno di Cesare. — Un’altra volta deplorava ch’io non potessi leggere l’orazione scritta pei Comizi lionesi da Ugo Foscolo — quell’Ugo Foscolo — egli soggiungeva — a cui dobbiamo il Jacopo Ortis, e che prima del 97 viveva in Venezia. Vorrei che tu vedessi — erano le sue parole — con che schietto animo egli invita il vincitore a fare il debito suo verso l’Italia. Saranno adempiuti i suoi voti? Speriamolo, sorella mia, chè a questo patto soltanto io potrò risalutare la mia città natale. — Carlo toccava di rado il tasto doloroso delle faccende domestiche, e se io mettevo in campo questo argomento, lo schivava con arte grandissima. Che se per avventura io insistevo, egli mi raccomandava che avessi pazienza e pensassi che la donna è come di passaggio nella casa in cui nacque, che il vero suo nido è altrove, che il segreto del suo [53] destino non è nella sua camera di fanciulla, ma nella sua camera di sposa. — Tollera il resto — egli mi suggeriva — ma non patire che ti si immoli sull’altare dell’orgoglio o della ricchezza; non lasciarti, giovinetta inesperta, dare in braccio di chi non abbia prima conquistato il tuo cuore... —
Così scriveva mio fratello, confortandomi a sopportare il presente in vista dell’avvenire. Ma, ohimè, i cari sogni che certo allegravano le mie coetanee non avevano virtù redentrice per me. Nelle pagine degli scrittori, e nell’ideale della fantasia, io trovavo la donna non dissociata mai dalla grazia e dalla bellezza, e mi pareva che, ove non fossero queste due qualità, nè l’ingegno femminile potesse aver pregio, nè l’amore sollevarsi a gentile passione. Oh! chè valeva all’anima mia esser pura ed ardente, se nè il lampo degli occhi la rivelava, nè la venustà delle membra, nè la musica della voce? Quale io mi ero, non deforme certo della persona, ma sottile, asciutta, più alta che non si convenga al mio sesso, priva persino di quella freschezza di carnagione che suole andar compagna alla gioventù, io non sapevo vincere il sospetto che lo stimolo dell’interesse e non altro avrebbe potuto far chiedere la mia mano. Perciò ero guardinga, gelata, tarda [54] nel rispondere. Mia madre, ch’era tutto l’opposto, e che ormai si sdilinquiva per Clara, la quale cresceva leggiadra e vezzosa al pari di lei, non poteva a meno di rimproverarmi il mio contegno, ed esclamava talvolta — Dio buono! La bellezza la si porta seco nascendo e non c’è colpa a non averla, ma la cortesia poi dipende da noi altri stessi. Come vuoi viver nel mondo così diversa da tutti, sfuggendo tutti...? Basta, sarà sapienza la vostra (e alludeva, oltre che a me, a Carlo e allo zio, ch’ella credeva ispiratori della mia condotta), ma è una sapienza che fa essere molto infelici! — Dal suo punto di vista ell’aveva ragione, nè io potevo dirle tutte le cause che avevano inacerbito il mio spirito. A ogni modo queste punzecchiature frequenti portavano il loro sassolino a quella barriera che lenta, insuperabile, andava formandosi tra mia madre e me.
Io passavo parecchie ore del giorno in biblioteca con lo zio Baldassare. Discorrevamo di Carlo, rileggevamo le sue lettere, e vivendo seco in comunione di spirito, riuscivamo per qualche momento a dimenticare la triste realtà. Il babbo veniva anch’egli talvolta a prender parte ai nostri colloqui, e il suo viso malinconico e sparuto s’illuminava di gioia passeggiera, se, parlando [55] del suo figliuolo, egli ne rammentava l’infanzia, e l’intelligenza precoce, e la bontà impareggiabile. Allora egli si animava tutto, e si sarebbe detto che gli anni, corsi dopo quell’epoca, s’involassero da lui come stormo d’augelli che improvviso lasciano il nido. Ma poi sopraggiungeva l’idea del presente, l’idea di questo figlio partito dal suo paese, slanciatosi in mezzo ai pericoli perchè la casa paterna non gli offriva più asilo ospitale, e quest’idea bastava a raddensar le nubi sulla fronte del povero vecchio. Vecchio era divenuto realmente mio padre, ed io me ne accorgevo con indicibile rammarico. I capelli gli si erano in poco d’ora imbiancati, profondi solchi gli segnavan le gote, e camminava curvo della persona. Gli si notava in volto quella stanchezza della vita che desta un senso di così dolorosa pietà e che ha tanta rassomiglianza con la stanchezza fisica. Chi n’è affetto sembra piegare il collo e le ginocchia sotto un peso invisibile. Gli è che il peso non è fuori, ma è dentro, nel cuore. E pensare che un po’ d’energia usata a tempo avrebbe salvato ogni cosa. Ma mio padre sfuggiva la lotta, e omai si era deciso a soffrire in silenzio. — Hai ragione, ma è inutile — egli diceva a suo fratello, se per avventura questi metteva in campo certi argomenti. In tal guisa si succedevano [56] gli anni, divorando il tempo più bello della mia giovinezza, abbeverando di fiele e di dubbi quell’epoca della vita che suol esser sacra alle illusioni e alle gioie. O spiriti superficiali, che vi atteggiate a censori dei vostri simili, vi siete mai curati d’indagare le cause di ciò che forma oggetto dei vostri pretensiosi giudizi? Perchè vedete scorrer l’acqua torbida e limacciosa, sclamate: era torbida e limacciosa la fonte. Non è vero: la fonte era limpida e pura, nel suo cristallino zampillo si frangevano allegri i raggi del sole, attraverso il suo specchio, come dietro a nitida lente, brillavano le venature del sasso; furono le immondezze trovate lungo la via che l’hanno resa così.
Precipitavano intanto gli avvenimenti politici. Venezia, fatta austriaca nel 1797, diveniva francese nel 1805, dopo Austerlitz. Il signor Venanzio, ch’era stato prima aristocratico, poi democratico sfegatato, e più tardi devotissimo degli Absburgo, mostrava grande entusiasmo per questo nuovo cambiamento, e diceva che così almeno vi sarà un poco di libertà. Io non gli badavo. Mi ero avvezza a considerarlo come un rettile immondo che lo strano capriccio di qualcheduno della mia famiglia aveva introdotto nella casa. Però le mutate condizioni di Venezia [57] mi riempivano l’animo di gioia. Era così rimosso uno tra gli ostacoli che si frapponevano al ritorno di Carlo. Non erano rimossi tutti pur troppo, nè io nutrivo speranza ch’egli verrebbe a star lungamente con noi; ma vederlo anche per pochi giorni, ma udir la sua parola calda ed onesta, ma rinfrancarmi ne’ suoi consigli, era per me, ormai disavvezza della gioia, un sogno di suprema felicità. Il Signore mi aveva insidiato anche questa consolazione. Il reggimento di Carlo, che non aveva preso parte alla campagna del 1805, fu, dalle sponde dell’Oceano, sbalestrato in Germania. Combattè ad Auerstaedt e a Jena, e dopo una breve sosta in Berlino, ebbe l’ordine di procedere ancora verso l’Est per fronteggiare i Russi che si avanzavano. La mia anima era invasa da funesti presentimenti, e le lettere di mio fratello, per quanto cercassero parer fiduciose e serene, tradivano esse pure una profonda malinconia. — Fiocca la neve — egli mi scriveva nel dicembre 1806 dalle rive della Vistola — e il vento sibila con lugubre suono tra le foreste d’abeti. Noi tentiamo d’ingannare il freddo raccogliendoci intorno a grandi fiammate di paglia accesa o di vimini, e di coprire, cantando, il gemito sinistro del vento. Ahimè! Io penso in quei momenti al nostro focolare [58] domestico, penso alle nostre canzoni veneziane. E dire ch’io speravo d’essere questo inverno presso di voi, nella nostra vecchia biblioteca, ove la vampa del camino manda sì leggieri riflessi; dire che speravo di rivedere te, e il povero babbo, e il nostro arcigno ma ottimo zio. Sono invece qui a mille leghe dalla mia Venezia, e chi sa.... Basta, Maddalena, non voglio amareggiarti, ma se tu sapessi come presto arrivi una palla! —
Come si avverano le profezie di sventura! La penna esita a descrivere la serie di lutti che colpirono la mia casa nel terribile anno 1807.
Era in febbraio quando ci piombò addosso come un fulmine la notizia della morte di Carlo. Egli era caduto il 5 di quel mese in una scaramuccia che processe di pochi giorni la battaglia di Eylau. Credetti che mi si spezzasse il cuore, ma io avevo bisogno di tutte le mie forze per reggere a novelle prove. Il babbo, ormai [59] innanzi negli anni e infermiccio, soverchiato dal dolore pella perdita del suo Carlo, si mise a letto poco dopo ricevuto il fatale annunzio, e passò di vita entro brevissimi giorni. Rammento i singhiozzi di mia madre inginocchiata presso il capezzale del moribondo, rammento il bacio da me deposto su quelle labbra già irrigidite, mentre il prete legge a bassa voce nel suo breviario e lo zio Baldassare, con passo rapido, con gesto convulso e con pupilla torva come di belva chiusa nella gabbia, va su e giù per la stanza. Pur mio padre si spense placido com’era vissuto, accomunando in un amplesso supremo sua moglie e sua figlia, e costringendo con amorosa preghiera il riluttante fratello a stringer la destra a mia madre. Anche Clara fu fatta entrar nella camera, e anche su lei, poverella, scese, benedicendo, la mano paterna. In quel momento mi parve che al mio dolore si mescesse qualche cosa di soave e di santamente ineffabile, mi parve che le battaglie segrete dell’anima mia si quetassero tutte e le ombre svanissero e rinascesse la fede. Ahimè! Sarebbe convenuto che il santuario del tetto domestico non fosse profanato da estrani, sarebbe convenuto.... oh! ma basti per ora di ciò.
Al babbo tenne dietro lo zio. Però egli, [60] robustissimo di fibra, lottò per un mese contro la morte. In quel mese io dovetti sempre vegliare presso di lui. Egli non volle nella sua camera che me e un infermiere. Un giorno, sentendosi ormai bell’e spacciato, ordinò all’infermiere che ci lasciasse soli, e presami la mano nella sua, ch’era madida di freddo sudore, mi disse con voce che sotto l’abituale ruvidezza tradiva una profonda emozione:
— Maddalena, se mi dispiace morire è per te. Tu resti sola. — E ripetè cupamente: — Sola! Sappi però ch’io volli metterti in grado di non chinar la fronte dinanzi a nessuno. Tu sarai ricca, assai più ricca di tutti gli altri della famiglia. La sostanza di tuo padre, già assottigliata, fu divisa in tre parti, fra te, tua madre e tua sorella Clara. La sostanza mia, che è intatta — e pronunziò questa frase con enfasi — verrà tutta a te.
— Ma, zio — interruppi — questa è una ingiustizia.
— Tu sai pazza — egli rispose bruscamente. — Fin che Carlo era vivo, il mio erede universale era lui. A te io non assegnavo che trentamila lire di dote. Tuo fratello però aveva l’obbligo d’abbandonare il servizio militare entro un anno; di venirsi a stabilir teco, e di non lasciarti finchè [61] tu non fossi accasata. Ora egli è morto. Tu non hai più nè fratello, nè padre, nè zio. Non posso darti un appoggio, ti do la ricchezza, che è una potenza per chi sappia valersene.
— No, no, zio, ve ne supplico — io incalzai — non vogliate creare una disuguaglianza nel seno della famiglia. Io non potrei consentirvi, io dovrei riparare all’opera vostra...
Egli non mi lasciò finire la frase, e con uno sforzo gagliardo alzò la testa dal capezzale, e piantandomi in viso due occhi fiammeggianti — Bada — esclamò — io ho ancora ore di vita che bastano a rifare il mio testamento. Sol che tu non muti proposito, chiamo oggi stesso il notaio e dispongo di tutto il mio a favore d’una pia fondazione. Passerò alla posterità per un grande filantropo, ma la casa che porta il mio nome sarà fra pochi anni nella miseria, e tu, tu sconsigliata che ripudii il benefizio non potrai assistere nè tua madre, nè tua sorella. Ah tu vorresti ch’io scioccamente prestassi mano a folli scialaqui, tu vorresti ch’io permettessi che ciò che fu accumulato dall’onesto lavoro servisse ad alimentar parassiti.... Senti, Maddalena, io rispetto in te la ragazza e la figlia, non costringermi a dire di più...
[62]
— Oh — proruppi piangendo — Siete pur crudele nella vostra generosità. Ma Clara, Clara, che conta poco più di nove anni, che colpa ha, che cosa vi ha fatto?
— Che colpa ha? Che cosa mi ha fatto? — diss’egli rapidamente e con un tuono che mi metteva i brividi addosso — Maddalena, non insistere, per quanto hai di più caro al mondo, non insistere. — Indi, mutando a un tratto l’inflessione della voce e l’atteggiamento della fisonomia, continuò con inusata dolcezza: — Clara, tu dici. Ha essa con le sue manine carezzato i miei capelli bianchi, come tu solevi dieci anni fa? Ha essa indovinato, come tu indovinasti, che, quantunque taciturno e severo, io avevo bisogno d’affetto come il fiore di rugiada? È ella venuta al pari di te nella mia biblioteca a cacciar la bionda testina fra i polverosi volumi, a sorridermi d’uno di quei sorrisi infantili che riscaldano come raggi di sole? Fu essa, come tu fosti, l’amica, la confidente, la discepola del mio Carlo, di colui nel quale io avevo riposto il mio orgoglio e le mie speranze? No, Maddalena, essa ha vissuto in un altro mondo, ha obbedito ad altre influenze. E tu pretenderesti che questo povero vecchio, sul punto di morire, la considerasse simile a te? Pur non credere, fanciulla mia, ch’io ti voglia [63] figliuola snaturata e cattiva sorella. Quando l’imprevidenza avrà portato i suoi frutti, sarà allora il momento di stendere la mano soccorritrice, sarà allora il momento di esser generosa. Ma la tua generosità potrà ricondurre nella nostra casa la quiete e il decoro, la mia sarebbe oggi una complicità invereconda.
— Dio buono! Ma qual parte volete impormi? A vent’anni volete farmi arbitra e giudice?
— Io voglio farti — egli ripigliò solennemente — la vigile custode dell’onor del tuo nome. Chi potrebbe tener le tue veci...? Ah lo so ciò che intendi dirmi. La tua parola non avrà autorità. La tua presenza non basterà a nulla impedire.... Ebbene, checchè avvenga, quando sia colmo il calice delle umiliazioni, quando sentirai che questo tetto non deve più accoglierti, tu avrai almeno, retaggio supremo, la tua indipendenza. Rammentalo, ancora un anno, e la legge ti fa padrona di te.
Io piangevo.
— Piangi, piangi, figliuola mia — egli mi disse — chè il tuo cammino non è cosparso di rose. Inesperta della vita, tu resti sola in mezzo a fiere battaglie, ma gli esempi domestici t’insegnino che la grazia e la bontà a nulla valgono nella donna [64] senza l’energia della lotta, come a nulla vale nell’uomo la rettitudine dell’animo senza il coraggio di smascherare le ipocrisie e di tagliare i nodi che non si sciolgono. No, Maddalena, la virtù vera non è quella che tutto sopporta e a tutto si piega. La tolleranza del male porta seco l’indifferenza del bene. Chi non sa armarsi d’un santo flagello per colpire l’iniquità non trova più sul labbro il sorriso che accoglie le cose belle, non trova nel petto la calma serena dei sentimenti gentili. Io posso dirtelo, o figliuola, io che l’ho provato in me stesso, io che ne fui testimone in altri. Quante esistenze non furono, più delle mie, bersagliate dalla fortuna! Pure se il mio volto fu di rado illuminato dalla gioia, se una cura assidua mi fu quasi sempre stampata sul fronte, quale credi tu che ne fosse la causa? Questa dolorosa certezza di aver più volte nella mia vita assistito come spettatore impassibile ai danni che con uno sforzo gagliardo avrei potuto riparare, di essermi sentito mancare nei momenti più solenni l’energia necessaria per porre ad effetto i generosi propositi. Ero giovanissimo, ero pieno della baldanza dei vent’anni, quando, in uno de’ miei primi viaggi a Parigi, vagando per un sito remoto e disabitato, vidi un ubriaco cader nella Senna. [65] Corsi sul ciglione dell’argine donde l’infelice era scivolato. Il freddo dell’acqua l’aveva ridesto al senso del pericolo, il suo volto, pur dianzi spirante unicamente la stupida ebbrezza, s’era atteggiato allo spavento e alla disperazione. Avvertì la mia presenza, tese verso di me le sue mani convulse, mi domandò aiuto con grida strazianti. Io, nuotatore esperto, ero sul punto di slanciarmi nel fiume, ma esitai all’aspetto di quella corrente sì rapida, e, nel suo sordo muggito, sì minacciosa. Il tapinello scomparve, nè più venne a galla. Ripigliai il mio cammino contristato, arrossente di me medesimo. Avevo sempre dinanzi agli occhi quella fisonomia disfatta dal terrore, quelle mani protese, nè l’immagine potè più dileguarmisi dalla fantasia. E, da quel giorno, ogni volta che lasciai morire infecondo un buon pensiero, ogni volta che per mancanza di coraggio non feci intero il debito mio, la tetra visione mi si ripresentò paurosa e beffarda, e una voce insistente mi ripetè in fondo al cuore: Tu non sei un uomo!
Lo zio Baldassare andava accendendosi in volto con visibile esaltazione. Tentai calmarlo.
— No, no — egli rispose — non cercare inutili parole di conforto. Cerca piuttosto [66] d’essere tu stessa quali non fummo nè tuo padre, nè io, quale era Carlo soltanto, Carlo che, oggi forse, se non lo coprisse la terra, spazzerebbe via le immondezze di casa nostra...
— Oh zio, mio padre, morendo, ha perdonato!
— Tuo padre era un santo — egli rispose — nè la virtù dei santi può chiedersi a tutti.
— Oh sono pure infelice! — sclamai, lasciando cadere il capo sulla sponda del letto.
— Coraggio, Maddalena — egli ripigliò con voce più dolce. — Forse brilleranno giorni migliori per te. Tu non sei bella, ma la virtù e la ricchezza ti chiameranno gli adoratori d’intorno. Però sii guardinga, fanciulla mia. Serbati a chi possa meritarti coll’ingegno operoso, coll’animo libero, sii un premio all’amore, non uno stimolo al capriccio. Diffida dei nomi sonori, diffida d’un’aristocrazia infracidita che forse vorrà sciogliere un poco del tuo oro nel suo sangue azzurro, ricordati che abbiamo i nostri antenati anche noi, quantunque non siano di quelli che si fanno effigiare nei medaglioni. Il tuo bisavolo paterno, o Maddalena, portava un ruvido cappotto di lana spesso stillante onda marina, il suo braccio [67] non aveva maneggiato la spada, ma il timone ed il remo, le sue labbra non sapevano piegarsi a sdolcinature, ma sulla fronte ampia e severa gli si leggeva l’ardimento del marinaio che sfidò le tempeste, l’orgoglio dell’uomo che superò mille pericoli. Non dimenticare, o ragazza, queste tue origini, non arrossirne.
— Io arrossirne! Che dite mai? — proruppi rizzandomi in piedi con moto subitaneo.
— Il Cielo ti rimeriti di quella onesta fiamma di sdegno che ti lampeggia negli occhi — egli sclamò consolato. — Ed ora promettimi che tu rispetterai il mio testamento.... promettimelo.
Il tuono delle sue parole non ammetteva repliche. Chinai il capo assentendo.
Levò le scarne sue braccia, mi prese faticosamente la testa con ambo le mani, e appressata la mia fronte alle sue labbra, vi stampò un bacio. — Indi mi disse:
— Addio, Maddalena, il nostro colloquio è finito.
Mi tolsi di là cogli occhi inondati di pianto. Giunta alla soglia mi voltai nuovamente. Lo sguardo dell’infermo era sempre fisso sopra di me; pareva ch’egli volesse scolpire la mia immagine nelle pupille da cui fuggiva la luce. Esitai, fui [68] sul punto di gettarmi io ginocchio a’ piedi del suo letto, d’intercedere grazia presso di lui per quelli che avevano amareggiato i suoi ultimi anni, ma egli mi arrestò con un gesto, e mi ripetè: — Addio, addio, a più tardi.
················
Tre giorni dopo, immobile dietro le vetrate della mia camera io vedevo sfilare il funebre corteo che accompagnava all’estrema dimora colui che, mancati mio fratello e mio padre, simboleggiava per me la famiglia.
Nella turba mercenaria che, camuffata in foggie strane, seguiva la bara con aste e gonfaloni, tra le femminuccie pettegole e i bimbi curiosi accorsi al gradito spettacolo, correvano intanto i comenti che io udivo, non avvertita.
— Le disgrazie vengono sempre a tre a tre — diceva gravemente una portatrice d’acqua alla sua vicina.
— Come a tre a tre? — domandava un’altra meno informata delle faccende di casa nostra. — Non son stati due i defunti? Prima il signor Antonio e poi il signor Baldassare?
— E il signor Carlo non lo mettete nel conto? Sapete, il figlio del primo letto del signor Antonio, quel bel giovinotto che [69] partì sei o sette anni addietro e morì nel febbraio in guerra?
— Ah! è morto anche quello lì?
— Sicuro, non lo sapevate?
— Però, disse una vecchia zitella gran frequentatrice di chiese — il signor Baldassare aveva assai poca religione.... Dicono che non volesse nemmeno il prete.
— Gesumaria! che tempi! — esclamò la fruttajola della cantonata.
— E sapete — saltò su a dire un omaccione il quale aveva una voce sì grossa che gli era impossibile parlare adagio — che ha lasciato tutto il suo alla nipote?
— Cospetto! Quella lì diventa una bella signora.
— Ma! che fortuna! bisogna nascere con la camiciuola.
— Del resto, ei dev’esser stato un incubo pella famiglia quel signor Baldassare. Sempre così serio e taciturno. Il vero contrapposto di Sua Eccellenza Lucietta, tutta gaja ed affabile.
— Che angiolo è quella donna! Anche in questa occasione diede venti zecchini alla chiesa, e venti ne fece distribuire ai poveri.
— In fin dei conti, adesso la starà meglio anche lei. Era tanto sacrificata! —
Mi parve che fosse ora di metter termine [70] a quel cinguettio, e sporsi un momento il capo dalla finestra.
Gli oratori parvero turbati assai e si dileguarono guardandosi in viso. Molti alzarono gli occhi verso di me e mi fecero un umile e profondo saluto. Una donna alzò il bambino per disotto le ascelle affinchè mi vedesse meglio. Avrei giurato ch’ella gli susurrava all’orecchio: — Vedi, quella giovane lì è la più ricca della parrocchia. Che fortuna!
Ero invidiata e mi sentivo tanto infelice. L’innocente allegria dei prim’anni era sfumata. Sfumate le speranze, retaggio prezioso della mia età. Scoloriti i cari volti, mute le domestiche voci che avevano popolato di sorrisi e di suoni la casa. Le persone così diverse d’indole, ma così concordi noi cingermi del loro amore, erano scomparse dalla terra. Prima di tutti il povero Angelo, cui già da dieci anni copriva la tomba, e ch’io avevo ognor presente allo spirito con quella sua fede cieca ne’ suoi principî, con quella sua schietta affezione per mia madre e per me. E, ora, nel corso di pochi mesi, mio fratello, mio padre, mio zio! Mio zio che mi aveva detto: tu resti sola! Sola! Ma non viveva mia madre, ma non viveva Clara, la mia sorellina! Oh maledetto lo spettro che si era frapposto tra me e loro!
[71]
Ecco: mi sembra ancora udirlo il campanello che chiama alla colazione. Esco della mia camera, traverso la sala, guardo i vecchi medaglioni appesi alle muraglie (non v’è più Angiolo che si prenda cura di loro e ne levi la polvere e i regnateli!), guardo l’antico orologio di cui mi suonò all’orecchio fin da bambina l’uniforme tic-tac, ed entro nel nostro gajo tinello d’estate. La luce del sole, moderata dalle tendine verdi a larghi festoni, si riposa compiacente sui paesaggi a vivi colori onde sono dipinte lo pareti, e sui fiori e le frutta che adornano le soprapporte. Mia madre ha lasciato appena il suo telaio da ricamo, è vestita di mussolina nera, porta un monile di granate al collo bianchissimo, e un pajo di buccole pur di granato agli orecchi. Com’è bella, com’è giovane malgrado i suoi quarant’anni! Clara, anch’essa abbrunata, ripone in fretta la sua pupattola, dono del signor Venanzio. La mamma mi dà un bacio in fronte; io stento a non piangere vedendo preparata per tre quella tavola ove solevamo sedere in cinque. Seggo nondimeno al mio posto, ma non so portare un pezzo di pane alla bocca. Alla fine il dolore prorompe, e nascondendo il volto fra le mani, scoppio in singhiozzi.... È pur mia madre quella che mi tocca, che mi [72] carezza, che mi conforta, sono i suoi capelli ch’io sento lambirmi le guancie e rasciugar le mie lagrime, è la sua voce che mi dice: — Su, Maddalena, fatti animo.
— Oh, mamma, mamma, eppure, malgrado tante disgrazie, noi potremmo ancora esser felici.
— Come? Parla, la mia figliuola, che vuoi ch’io faccia per te?
Le ho cinto il collo delle mia braccia, i miei occhi sono fissi nei suoi, mi pare che un vago senso d’inquietudine sia dipinto sul suo bel viso; m’è tuttavia impossibile di trattener la frase che ho già sulle labbra.
— Viviamo soli, mamma, voi, Clara ed io. Non dovremmo forse bastare a noi stessi? —
Ahi! La sua fronte si è annuvolata, ed ella cerca di svincolarsi dalla mia stretta.
— Va, tu se’ una cattiva e una visionaria — ella esclama allontanandosi alquanto. Indi con accento di dolore sentito: — Ah! mi hanno tolto il cuor di mia figlia!
— Non è vero, non è vero, mamma — io grido correndole appresso.... In quell’istante odo nella sala un suono di passi ben noti, mia madre si ricompone rapidamente, Clara muove verso l’uscio, ed ecco farsi innanzi lindo, azzimato, il signor Venanzio.
[73]
Le mie lagrime cessano di cadere, le parole mi s’impietrano sulle labbra, un tremito m’invade tutte le membra.
Il signor Venanzio è pure un uomo compito. Il suo abbigliamento è quale si addice a persona che viene a fare una visita di condoglianza, il suo volto è coperto da un velo di profonda mestizia; anche il suo passo di ballerino ha rimesso alquanto della sua elasticità, quasi per dimostrare che nemmeno le gambe sono in lui estranee al nobile sentimento della simpatia. Egli bacia la mano a mia madre, poi si china ed abbraccia Clara che gli è corsa incontro sollecita, e finalmente viene verso di me umile, ossequioso e compunto.
Il sangue mi sale al capo, e con un gesto imperioso: — Indietro! — grido — non mi parlale, non mi toccate. Voi siete la causa di tutti i guai della nostra famiglia. S’io fossi padrona, questa casa vi sarebbe chiusa per sempre. —
Mi beai un istante della sua confusione, assaporai la voluttà dell’offesa; indi, senza por mente a ciò che diceva mia madre, uscii della stanza.
Accoglimi nuovamente, o mia camera silenziosa. Qui, contemplando i rabeschi delle tue travi, gli stucchi delle tue pareti, ordirò la tela de’ miei pensieri. Io popolerò [74] di cari fantasimi la tua solitudine, io ti farò il nido dell’anima mia. Tu ridimmi la calda, allegra parola che suonava sullo labbra di Carlo, quand’egli veniva, mattiniero, a svegliarmi; tu serbami i dolci lineamenti paterni, e le austere ma oneste sembianze di mio zio! Però fino a quando, o mia camera silenziosa, potremo noi vivere insieme, fino a quando potrò io accettare l’ospitalità di questo tetto profanato?
Ma ormai non sarà fuori di proposito il dire qualche parola di più sul signor Venanzio. Chi era egli? Che cattiva stella l’aveva messo sul nostro cammino?
Nata di madre nobile e di padre appartenente a quella classe che i francesi intitolarono terzo stato, ho attribuito a questa disparità d’origine tra i miei genitori le principali amarezze della mia adolescenza e della mia gioventù; schieratami per tempissimo dalla parte di quegli ond’io portavo il nome, non ho mai amato l’aristocrazia. [75] Pur non disconobbi ciò che in lei v’era di buono, non chiusi gli occhi allo splendore che le era rimasto in onta alla sua decadenza. La vidi spensierata, corrotta, con la mente ingombra da pregiudizi, scettica nei crocchi e bigotta nel confessionale, affabile con la plebaglia e disdegnosa con la media cittadinanza; pur quella corruzione di rado scendeva fino alla frode e all’intrigo; quell’imprevidenza si accompagnava sovente a una certa liberalità, a un bisogno di spargere intorno a sè l’allegria ed il benessere, quell’angustia d’idee non escludeva una vivacità sempre spontanea e talora piccante. In mezzo poi alla turba passava di tratto in tratto qualche veneranda e austera figura di gentiluomo, sulla cui fronte mesta e pensosa si confondevano il ricordo dell’antica grandezza e la coscienza dell’umile stato presente. Pochi di questi eletti avrebbero bastato a salvar dal disprezzo tutta una casta.
Non ho amato dunque l’aristocrazia, ma nemmeno l’odiai, nemmeno fui accesa verso di lei d’un cieco livore.
Ove ho portato tutta la mia potenza di odio e di sprezzo fu su quegli uomini, i quali, usciti della classe di mezzo che ha per blasone il lavoro, si avvinghiano alla nobiltà come piante parassite, rinunciano a [76] ogni indipendenza di pensiero e d’azione, e cercano di confondersi seco, acquistandosene i titoli con la consuetudine e facendosi da lei perdonare l’abuso coi sorrisi compiacenti e con le blandizie servili. Uno di questi uomini era il signor Venanzio. Il padre di lui aveva goduto d’una certa riputazione come amministratore di alcune case patrizie. Non era legale, ma la gran pratica degli affari gli teneva luogo di studi, e molti dicevano che, quando si aveva lui per confidente, si poteva fare a meno d’avvocato. Il giovinetto Venanzio lo accompagnava di qua e di là, e poich’era piuttosto prestante della persona e aveva un cotal garbo di modi, gli si faceva dappertutto buon viso. Suo padre voleva iniziarlo nella sua professione, affinch’egli potesse essergli intanto d’ajuto e succedergli col tempo. Venanzio obbediva di malavoglia, ma era parimenti un prezioso alleato pel genitore, rendendosi caro prima alla parte infantile e poi alla parte femminina della nobiltà. Fanciullo, giuocava coi piccioli rampolli delle Eccellenze, si lasciava dar qualche scappellotto senz’aversene a male, e non faceva mai opposizione alle penitenze che gli erano imposte dai futuri membri del Gran Consiglio e del Consiglio dei Dieci. Ai sedici o diciassett’anni cominciò ad entrare nelle buone grazie delle [77] gentildonne sulla cinquantina; ai venti, osò voli più alti, e non dispiacque a meno appassite bellezze. Cinguettava un po’ francese, ballava con grazia e cantava in voce di falsetto. I servitori delle famiglie patrizie a poco a poco s’erano avvezzati a chiamarlo Eccellenza, e i barcajuoli dei traghetti, che lo vedevano sempre con una gentildonna o con l’altra, gli davano anch’essi il medesimo titolo. Quantunque il vecchio Agliucci si fosse accorto che il suo Venanzio cresceva egoista e doppio come le cipolle, egli non rifiniva di cantarne le lodi, tant’era lusingato dalle accoglienze che si facevano al suo figliuolo nella buona società. Egli morì, prima assai che cadesse la repubblica, e molto prima che io nascessi, dimodochè io parlo di lui soltanto per le relazioni che n’ebbi, non perchè l’avessi mai conosciuto. So che chiuse gli occhi tranquillo, sicuro che il suo erede manterrebbe la sua riputazione di valente e probo amministratore e di confidente dei nobili. Questa seconda parte del suo presagio si avverò ad esuberanza; non così la prima. Venanzio raccolse la clientela paterna, ma molti osarono dubitare della sua abilità, e taluno (ci son tanti maligni a questo mondo!) spinse l’audacia sino a non crederlo un fior di galantuomo. Su dieci de’ suoi amministrati, otto [78] andavano in rovina in un pajo d’anni, ma egli aveva la fortuna che, in onta a tutto, la grande maggioranza dei corbellati non gli scemava punto la propria benevolenza. Non era un ragioniere come suo padre, ma vestiva così bene, era così officioso, e, nelle occasioni solenni, aveva sempre un brindisi pronto. Così campava discretamente, conduceva una vita elegante, e per le maniere e per l’abito c’era da scambiarlo con un gentiluomo. Tra le famiglie ch’ebbero la rara ventura di aver questa gioja per uomo d’affari, vi fu pure la famiglia di mia madre, Rezzinelli. Il mio nonno materno, per quanto m’assicuravano, lo teneva caro come la pupilla degli occhi suoi, e pur vedendo ogni giorno assottigliarsi il suo patrimonio, ripeteva sempre che non poteva esservi più brava e buona persona di questo signor Venanzio. Allorchè la mamma, sedicenne appena, uscì di convento, il vecchio Rezzinelli, che non aveva null’altro di suo tranne un palagio ipotecato, stette in forse se darla in isposa al nobiluomo Renier o all’Agliucci. Ma il nobiluomo Renier passava i sessanta, era sciancato e paralitico, e la mamma, bella come un amore, non volle saperne. L’Agliucci invece, pur sentendosi assai onorato dall’idea che un’Eccellenza non fosse alieno dal farlo suo genero, si [79] schermì abilmente, locchè fu giudicato dal nonno come una prova di singolare modestia. Si presentò mio padre, vedovo con un figlio, ma ricchissimo e riputatissimo negoziante. Al momento non c’era di meglio; Venanzio stesso fece vedere al suo cliente che un partito simile non era da sprezzarsi, che il signor Lisari non pretendeva dote, che c’era il guajo della nascita plebea, ma che in casa la superiorità sarebbe stata della moglie, che nessuno avrebbe detto la signora Lisari, ma bensì avrebbero continuato a dire Sua Eccellenza Rezzinelli: onde il buon vecchio vinse le sue riluttanze, ammirò il disinteresse e l’abnegazione del suo Venanzio, e consentì a questa unione.
Visto sua figlia maritata e certo che non le mancherebbero i savi suggerimenti del suo beniamino, come avesse fornito il suo còmpito sulla terra, morì. L’Agliucci fu amico di casa...... e il resto si sa, o almeno s’immagina. Mio padre lo credeva dapprima sincero e leale, e quando s’avvide dell’inganno non ebbe più la forza di sbarazzarsene. E, in verità, sbarazzarsi del signor Venanzio era la cosa più difficile del mondo. Non v’era, in apparenza, uomo meno permaloso di lui, attribuiva le offese a effetto di cattivo temperamento o di cattiva digestione, e moveva incontro con dolce sorriso [80] a quelli che non gli avevano risparmiato nè sfregi, nè ingiurie. Terribili avversari son questi a cui manca ogni dignità; credete di averla finita, e vi tocca sempre incominciare da capo. La scena, ch’io avevo fatto a quest’uomo spregevole il giorno dei funerali dello zio Baldassare, non aveva sortito alcun pratico risultamento. Ero io che mi ritiravo quando lo sentivo venire: ecco tutto. Così tirammo innanzi per qualche mese, mentr’io aspettavo con l’ansietà con cui il malato aspetta l’aurora, che si compisse il mio ventunesimo anno, e che la legge mi sciogliesse da ogni subordinazione.
················
Verso la fine del 1807, Venezia era pur lieta e festosa. L’uomo singolare che aveva riempito il mondo della sua fama stava per giungere fra le nostre lagune, l’oltraggio di Campoformio pareva cancellato. Tutti dicevano che si apriva per noi un’era di felicità e di grandezza. E io volevo sollevar l’anima accasciata dai lutti domestici agli alti pensieri della patria e della libertà, volevo esultar della gioja che mio fratello avrebbe provato in quei giorni, se la sorte gli avesse concesso di vivere alcuni mesi di più e di essere allora in Venezia. Pur qualche volta, io mi persuadevo, rimproverandomene, che, per quanto facessi, non [81] riuscivami di sprigionar la vena dell’entusiasmo, mentre altre fiate, io ero assalita dal dubbio che la grandezza e la felicità che ci si prenunziavano non fossero quelle che Carlo mi aveva insegnato ad amare. Nel 1797, egli era insofferente della decrepita repubblica nostra, chiusa, secondo lui, a ogni spiraglio di luce. Veniva di Francia, impregnato di quelle idee, pieno di baldi ardimenti, che parevano destinati a rigenerare il mondo. Dopo, egli fremette contro la tirannide austriaca e fuggì della sua città per prender le armi, ma, sì prima che poi, ciò che gli stava addentro nell’anima era l’ideale della dignità umana restituita a nuovo splendore, l’ideale d’una società ove non vi fossero nè tiranni, nè schiavi. Alzare un uomo fino alle stelle, fosse pur vincitore di cento battaglie, costringere il linguaggio all’espressione dei più servili concetti, rimettere in onore le formule grate ai despoti antichi per rendere omaggio a colui che aveva spiegato la bandiera del secolo, era questo il punto a cui si doveva arrivare, era questa la meta che ci aveva sì lungamente sorriso? Rileggevo le ultime lettere di Carlo. Esse erano ben lontane dallo spirar l’entusiasmo che spiravano le prime. Si vedeva che il mondo reale gli appariva diverso da quello ch’egli si era [82] rappresentato colla fantasia. Finchè si trattava di sottrar Venezia ai Tedeschi, una fede gagliarda gli reggeva la lena, ma raggiunto quello scopo, perchè combattere ancora?
Dissi testè ciò ch’io provassi versa l’aristocrazia. Non m’ero mai chinata dinanzi al prestigio de’ suoi nomi, illustri un giorno per nobili imprese, poscia tristamente famosi per folli prodigalità e per dissolutezze invereconde. Tuttavia a veder gli eredi di coloro che avevano fatto giungere il grido del leone di Venezia sino alle più remote contrade, a vederli gareggiare adesso nel baciar la polvere calcata dal conquistatore, io non potevo a meno di provare un senso di mortificazione....
L’Imperatore, o (come lo si chiamava nelle Notizie del Mondo, giornale di quei tempi) l’eroe de’ secoli, l’augustissimo nostro sovrano, il comune nostro padre, doveva arrivare in città la domenica, 29 novembre.
— Dicono che bisogna assolutamente andargli incontro con la gondola sino a Fusina — osservò il giorno innanzi mia madre.
— Dicono! — rispos’io — Chi è che lo dice?
— Oh bella, tutti — ella rispose un poco infastidita — Credi che una famiglia come la nostra possa farsi scorgere in un momento simile? Che una Rezzinelli abbia [83] diritto di mancare a una dimostrazione fatta dall’intera città? Tu già non vuoi mai renderti ragione delle esigenze portate dal nome di tua madre.
— Io penso al nome paterno, che è pure il mio e dovrebbe essere il vostro, e penso che questo nome significa oggi tre lutti domestici.
— Già, già, questo è il tuo ritornello. Come se non ci fossi che tu sola a ricordarli.
— Oh, in verità — risposi io con amarezza — che se li ricordaste non vi verrebbe la voglia di assistere domani alla cerimonia.
— Hai colto nel segno. Proprio una festa! Ci sarà da non potersi muovere per cinque o sei ore, si rischierà che ci colga la pioggia, la nebbia, e che so io, e la chiami una festa!...
— Ma sì, ma sì — saltò a dire Clara, alzandosi da un panchettino ov’ell’era seduta e agitando con moto leggiadro la sua bella testina — la mamma ha ragione, e Maddalena è una cattiva... Non badarle, sai, mamma...
— Sta tranquilla, ci andremo, la mia bimba — rispose mia madre baciandola in fronte.
Pur Clara non parve appieno rassicurata, e soggiunse. — Bisogna andarci senza fallo! Non sei già intesa col signor Venanzio?
[84]
— Ah! c’è anche il signor Venanzio? gridai.
— No, no, non c’è. So la cortesia di mia figlia e non l’ho invitato, volendo lasciar piuttosto un posticino per lei.
— Per me! Potevate dispensarvene. Lo sapete pure ch’io non vengo. Richiamate il signor Venanzio. Egli farà benissimo le mie veci.
— Non ti ricordi, mamma — riprese Clara — che cosa abbia detto il signor Venanzio? ch’egli non può venire, che va nella bissona dei Savii, e che spera di far presentare un’epigrafe all’Imperatore.
— Oh perchè non gli presenta un sonetto che aveva già bell’e fatto?
— Che sonetto? — chiese mia madre.
— Oh bella! Quello che aveva composto nel 1798 pegli Austriaci e che il povero Carlo aveva imparato a memoria. Cominciava così:
O progenie d’Absburgo alma e famosa...
— Che ragazza! — sclamò mia madre indispettita. — Non sai più aprir la bocca che per dir cose sgradevoli.
Era vero. A poco a poco io andavo perdendo tutta l’amabilità femminile. Nel dolore, che rende molti migliori, non si era affinata che la mia intelligenza. Ero acre [85] nel linguaggio, sgarbata nei modi, sarcastica spesso, avevo acquistata la certezza del male. L’orgoglio nativo, gl’insegnamenti di mio fratello m’erano un usbergo contro la colpa, ma io odiavo il vizio più che non credessi alla virtù, e un simile stato dell’animo è il meno conciliabile con la gentilezza. Esso pone la rampogna sulle labbra e il disprezzo nel cuore.
Per quel giorno non si disse di più.
Il mattino seguente per tempissimo, mia madre, che nei momenti critici ricorreva spesso al sistema degli ambasciatori, mi fece chiedere dalla cameriera se mi fossi risolta ad accompagnarla; ch’ella, dal canto suo, non poteva a meno di andare. C’era di mezzo il decoro della famiglia sua. Se avessero saputo che una ch’era nata Rezzinelli era rimasta a casa in quell’occasione!
Col medesimo plenipotenziario le feci sapere che non avevo mutato d’avviso, ed ella partì sola con Clara.
[86]
Mi ha sempre colpito come una prova delle dovizie accumulate dai Veneziani la indifferenza con la quale essi costruivano i loro palazzi nelle parti più remote della città, lungo le stradicciuole e i canali ove l’angustia dello spazio non consentiva nemmeno di apprezzare il lavoro dell’architetto. Il forestiero, che percorre in gondola il Canalazzo e rimane abbagliato da quella successione meravigliosa di monumenti, non può ancora formarsi una giusta idea della quantità e della ricchezza dei marmi profusi su queste isolette, nei tempi antichi povero asilo di pescatori.
Il palazzo ove noi abitavamo, non era certo tra i più belli di Venezia. Tuttavia esso era vasto e grandioso, e la facciata che dava sopra uno de’ nostri rii aveva al primo piano un ampio terrazzo nel mezzo, su cui si aprivano i cinque finestroni della sala, e tre terrazzini per parte, che rispondevano ad altrettante stanze e ciascuno dei quali abbracciava due finestre. Il piano superiore [87] aveva la medesima disposizione; solo vi mancavano i terrazzini. La cornice che compiva la facciata era sopraccarica d’ornamenti, e l’architetto più ricco di fantasia che di buon gusto aveva voluto farvi tagliare nel marmo teste di mostri, canestri di frutta e di fiori, trofei, e roba simile. Il terrazzo del primo piano figurava poi d’esser sorretto da sei cariatidi sotto le quali si spalancava l’immenso portone dell’approdo, sormontato dallo stemma della famiglia. Ebbene; fin da quando ero bambina, mi faceva l’effetto che da tutta questa mole si levasse un grido affannoso: aria e luce! Non potevo scendere in gondola e guardare io su senza provar compassione per quelle cariatidi a cui non giungeva un raggio di sole, per quelle finestre che a considerarne l’ampiezza parevano destinate a consentire allo sguardo immensi orizzonti, e che invece non avevano dinanzi a sè che un cumulo di tugurî accavallati gli uni sugli altri, sucidi, poveri, cadenti, e una fondamenta larga forse due braccia, spalleggiata da un muricciuolo sconnesso. E, di giorno, nulla in verità m’invitava ad affacciarmi alla finestra. Bisogna però convenire che la sera tutto cambiava d’aspetto. La scena si cingeva d’un’attrattiva misteriosa. Il tremolìo delle stelle nella sottile [88] striscia di firmamento concessa alla vista dalle due file di case che correvano parallele lungo il canale, il silenzio dell’ora rotto soltanto dallo scivolar d’una gondola o dalla misurata cadenza di un passante invisibile che percorreva la fondamenta o attraversava il ponte vicino, e di tratto in tratto ad una finestra un lume improvviso, una voce ripercossa da quella massa ciclopica di fabbricati, oppure, nelle sere di luna, uno sprazzo argentino sopra la vetriata d’un terzo piano, creavano un insieme che offriva largo pascolo alla fantasia. Oggi, signori miei, il gas ha tutto sciupato. Chi gusterà mai più la poesia notturna di un rio se un petulante fanale dichiara guerra alla luna e impedisce allo sguardo abbagliato di riposarsi nel mite chiaror delle stelle?
La mattina del 29 novembre 1807 era, benchè fossimo così innanzi nella stagione, mite e serena, e io potei starmene un paio d’ore nel terrazzino a godere del movimento insolito che regnava nel rio e nella fondamenta dirimpetto. (Non c’è bisogno di rammentare che noi Veneziani diamo il nome di fondamenta alle strade che, fiancheggiate da un lato da case, hanno dall’altro lato un canale). Nelle prime ore vi fu un passaggio interminabile di barche, molte [89] delle quali scoperte, bizzarramente ornate e piene d’uomini e di donne in vestito di gala; poi, fino al mezzogiorno, una furia di popolo che traversava il ponte e si dirigeva verso San Marco. Tre colpi di cannone tirati dal vascello ammiraglio e il suono a doppio delle campane della basilica di San Francesco della Vigna, di San Geremia e dei Frari, annunziarono, secondo l’avviso già pubblicato il 26 dal podestà Renier, il momento dell’imbarco delle autorità alla Piazzetta. Indi a poco la contrada si fece silenziosa e deserta. Ad affacciarsi alle finestre pareva di essere in una città incantata. Non il susurro d’un remo, non un passo d’uomo, non l’alito d’una mosca. Se qualche volto umano compariva dietro le vetrate delle case circostanti, era senza dubbio un volto pallido, malaticcio, di persona tenuta a forza lì dentro. Se ad ogni mezz’ora una figura si disegnava dietro il parapetto d’un ponte, era qualche vecchierella che non s’era sentito il coraggio di cacciarsi in mezzo alla folla, o che serbava fede all’antica Repubblica. Suonò il vespero, e alcuni colombi del vicinato mossero, secondo il solito, verso San Marco per recarsi all’usato balcone delle Procuratie a ricevervi il pasto quotidiano, ma li vidi tornarsene indi a poco [90] sgomenti e andar girando su per una cornice quasi tenendo consulta fra loro. Venezia era in quel giorno troppo distratta per pensare ai suoi colombi. Tolsi da un cassetto una ciambella, e sminuzzatala, aprii un momento la finestra e ne sparsi le bricciole sul terrazzino. Vennero a uno, a due, a tre, prima timidi e sospettosi, poi confidenti ed alacri, gemendo di quel loro gemito carezzevole che somiglia il murmure della marina, allungando il collo e alzando gli occhi per veder la mano che attraverso lo spiraglio dell’imposta socchiusa continuava a distribuire loro il nutrimento. Io ero rimasta mezzo appiattata dietro una tendina per non isgomentare i miei ospiti, ma essi parevan voler farmi animo affinchè io mi recassi tra loro, ed uscii. Alcuni spiccarono il volo, tornando però di lì a un istante, altri si sollevarono a mezz’ala fino al davanzale del poggiuolo, altri, ed erano i più, rimasero tranquillamente a piluccare lo bricciole non ancora consumate. Si schiuse una finestra dirimpetto; una giovinetta pallida pallida guardò quella scena curiosa, indi fece un cenno col capo e sparì. Dalla camera ov’ella si trovava s’intuonò una canzone, una delle nostre vilote veneziane così soavi e patetiche. Era una voce di donna. Non poteva esser che [91] quella della ragazza veduta testè, poichè era esile, stanca, come la sua personcina. Mi giunse agli orecchi una strofa:
Voi far far una ghirlanda
Tutta rose da maschin,
Vogio metterla da banda
Fin che morta sarò mi.
Al canto tenne dietro qualche colpo di tosse. Indi la voce riprese:
Voi far far ’na cassa fonda
Che ghe stemo drento in tre,
Lo mio padre, la mia madre,
Lo mio amore in brazzo a me.
Si fece silenzio. Mi portai la mano agli occhi e vi trovai una lagrima. Mi guardai attorno. I piccioni erano tutti scomparsi. Era forse per effetto della malinconia di quel canto? Sciocca! Avevano divorato sin all’ultimo bricciolo. Ecco la vera ragione della loro partenza.
Rientrai frettolosa nella stanza, chiudendo le imposte. Avevo la tristezza nell’anima, e il freddo nell’ossa. Il fuoco del camino era quasi spento e suonai il campanello perchè lo attizzassero. Entrò Giannina.
— O Giannina — diss’io — non sei andata in piazza?
— Con questa furia di gente? S’immagini se son gusti per me!
[92]
— Senti — ripresi — chi è quella ragazza che sta nella casa di fronte e ha l’aspetto così pallido e malaticcio?
— Ah! — rispos’ella — la Mariettina. Poveretta! Le è morto lo sposo in guerra nel giugno passato, e lei non seppe più darsene pace e s’è buttata in tisico.
— Sventurata fanciulla! — sclamai — E sarebbe stata bellina!
— Averla vista un anno fa! — soggiunse Giannina — Nessuno avrebbe certo pensato che le dovesse capitare una malattia simile.
Giannina si mise a soffiare nel fuoco. Io mi adagiai sopra una sedia a bracciuoli vicino al caminetto, guardando il bizzarro guizzo delle fiamme che correvano lungo i tizzoni. La breve giornata di novembre volgeva al suo termine, una nebbia sottile si calava lentamente per l’aria, e quasi quasi avrebbe convenuto accendere il lume, quando cominciò a farsi un po’ di moto. S’intesero nuovamente le artiglierie e le campane, poi a questi rumori lontani altri ne successero di più vicini. Cedetti alla curiosità, e, copertami alla meglio, tornai ad affacciarmi al terrazzo con Giannina. Qualche gondola cominciava a passar pel canale. Una fra le prime si fermò dinanzi all’approdo di una casa attigua alla nostra, [93] e i barcajuoli dissero che i loro padroni erano scesi in Piazzetta e li avevano rimandati. Due o tre finestre si aprirono; taluno si fece vedere al muricciolo della fondamenta.
— Dunque, Toni — disse uno sciancato, rivolgendosi a uno dei barcajuoli, che stava sparecchiando la gondola — Un grande spettacolo, non è vero?
— Sono domande da farsi! — rispose l’interrogato, che aveva una grande voglia di discorrere. — Una cosa simile non s’è veduta mai.
— Come? — esclamò una vecchia da un quarto piano — Neppure quando han fatto doge il Manin? Neppure quando il Bucintoro andava alle nozze del mare? Neppure quando son venuti qui i Duchi del Nord? Andate lì, che siete giovani voi altri, e restate con tanto di bocca aperta per tutto. Ma quello che s’è visto da noi vecchi non tornerà più, statene certi....
— Oh la comare — disse beffeggiandola il barcajuolo, e guardando in su per cogliere la fisonomia della sua interlocutrice — io vi ripeto che se anche aveste gli anni di Gerusalemme — voleva dire senza dubbio Matusalemme — non potreste raccontare nulla che fosse paragonabile a quello che racconteremo noi a’ nostri figliuoli.
[94]
— Lasciala cantare, lasciala cantare, Toni — soggiunse un altro ch’era sopraggiunto in quel momento — e tira innanzi. C’era un’infinità di gondole?
— Che bella novità! Non ne avreste trovata una disponibile a un traghetto a pagarla a prezzo d’oro. Gondole, barche, bissone, peote, di tutto c’era. Una flotta....
— Già. E il freddo?
— Chi lo sentiva? Se le aveste viste le nostre gentildonne com’erano in fronzoli! Pareva che le fossero a un ballo. E per veder meglio volevano salir sulla prora o sulla poppa della gondola, e smessa la superbia, si appoggiavano a noi con tutta la persona, tanto da farci venir l’acquolina in bocca....
— Diamine! E i remi intanto?
— O che, li si poteva forse manovrare i remi! Parevano come inchiodati fra una gondola e l’altra, ed era già molto tenerli con una mano diritti come piuoli, tanto per far di tratto in tratto qualche movimento da mandare innanzi la baracca. Già, se si è giunti a Venezia, fu tutto merito della marea.
— Di’ su, di’ su, e quali erano le bissone più belle?
— Sì, che ho proprio voglia di fare una filastrocca lunga come una messa cantata. [95] Ma non capite, benedetta gente, che non la finirebbe più? Certo la peota del console di Spagna era fra quelle addobbate con maggior lusso. C’erano i gondolieri vestiti alla spagnola, e poi gli staffieri in piena gala, e a prora e a poppa le bandiere di Spagna e di Teluria....
— Asino! Che Teluria? — saltò a dire il suo compagno, il quale aveva fino allora atteso solamente a collocar nell’androne gli arredi della gondola — Etruria dev’essere.
— Via, Etruria e Teluria è tutt’uno.
— Per me — soggiunse il secondo gondoliere salendo lentamente i gradini della riva — ho trovato più bella la peota del Magistrato delle acque, e la bissona dei Savi. E dove lasci poi quelle di ca’ Albrizzi, di ca’ Michiel, di ca’ Pisani, per tacer di tante altre?
— Ehi, Toni — gridò dal ponte un nuovo venuto — e l’Imperatore l’hai visto?
— Come vedo te. Egli era in piedi sulla sua peota, circondato da principi e da principesse, il Re e la Regina di Baviera, la principessa di Lucca, il principe Eugenio, o chi so io.
— E gli è piaciuto lo spettacolo?
— To! Come s’io gli avessi discorso. Ma, in verità, egli può essere il più gran [96] principe della terra, che, se non gli piacesse la nostra laguna, sono pronto a dirgli in faccia che non capisce che cosa sia bello. D’ingressi trionfali egli ne ha fatti oramai in tanti paesi, ma Venezia, via, non ce n’è che una. Son cose che abbiamo visto le mille volte, ma quando lasciate da parte le isole, si entra nel bacino del Molo e si ha dinanzi tutta quella meraviglia della Riva degli Schiavoni, e le cupole di San Marco, e il palazzo ducale, e le due colonne di Marco e Todero, e il campanile, e la Zecca, e la Chiesa della Salute, e più in fondo le due torri dell’arsenale, non c’è altro da fare che mettersi in ginocchio e ringraziar Dio e la Madonna santissima che ci fece nascer veneziani.
— Quest’è vero, Toni — disse un’altra donnicciuola della parrocchia. — E figuratevi che quantità di gente vi sarà stata sulla Riva.
— Non se ne discorre neanche. E non solo sulla Riva la gente era pigiata come le acciughe in barile, ma alle finestre, sui ponti, sui campanili, sui cornicioni delle case, sui tetti, sugli alberi dei bastimenti. È un miracolo se non son nate disgrazie....
— Anzi, si dice che ce ne siano nate due — interpose un omaccione venuto in quel punto dalla piazza. — Dicono che sia [97] caduto in acqua e non abbia potuto salvarsi un marinaio, che s’era spinto troppo avanti sulla prora del suo legno, e che da uno dei finestrini del campanile di San Francesco della Vigna sia precipitato un ragazzo, restando sul colpo.
— O che ci credete voi a queste storie? — interruppe l’ottimista Toni. — Son notizie false che mettono in giro i patatuchi che ci voglion male.
Si udì nuovamente la voce stridula del quarto piano:
— Sta a vedere che ora non nasceranno più disgrazie, con sarà più permesso di rompersi il collo o le gambe!
— Taci, brutta strega — gridarono, guardando in alto, parecchi di quelli ch’erano colà radunati....
— Sì, sì, ma intanto la polenta rincara, e rincarirà di più....
— Taci, che ti colga il malanno, uccellaccio di malaugurio....
La finestra si chiuse.
— O chi è quella sputasentenze? — chiesero alcuni.
— Non la conoscete? — risposero più voci. — È la Betta, la vedova del rigattiere. Aveva due figli coi Tedeschi, e le sono morti tutti e due in guerra. Perciò coi Francesi la non ci ha buon sangue.
[98]
— Poveraccia! Non ha poi tutto il torto — osservò una donna. E soggiunse: — Meno male che adesso non ci hanno più ad esser guerre.
— È naturale. L’Imperatore ha fatto metter giudizio a tutti. E ormai non c’è più nessuno che osi fiatare. Chi alza il capo suo danno.
— Così dev’essere.
— E anche al caro dei viveri — disse il gondoliere Toni, che non aveva potuto ancora mandar giù il pronostico della Betta — credete voi che l’Imperatore non saprà metterci rimedio? Come? Ha dettato la legge ai Re della terra e non saprà regolare il prezzo del pane e della polenta in modo che la povera gente possa campare? Aspettate un poco. A tutto in una volta non gli è dato provvedere, perchè in fin dei conti gli è un uomo anche lui, e un uomo, per grande che sia, non è Domeneddio, ma quando si sia messo in quiete, vedrete se non ci penserà, se non la farà finita con gli abusi!
— Toni ha ragione da vendere — gridarono molti ad un tempo. — Viva l’Imperatore!
— Viva! viva!
— Come cambiano i gusti! — osservò un venditore di mele cotte, che doveva [99] esser filosofo e che portava al collo un recipiente di latta con la sua merce. — Prima si gridava Viva San Marco, poi Viva la libertà, più tardi Viva l’Austria, e ora finalmente si grida Viva l’Imperatore.
Questo discorso non fece effetto. Invece tutti si volsero da una parte donde veniva una voce fessa che domandava in tuono pieno di compunzione:
— E in chiesa gli è andato subito, non è vero?
Era una femminetta, notissima baciapile della parrocchia, la quale smoccolava il lumicino d’un capitello della Madonna infisso nel muro a piedi del ponte.
— Altro che subito! — le fu risposto da uno dei presenti. — Appena sceso in Piazzetta, vi corse difilato col suo seguito.
— Oh benedetto! E dicevano ch’egli era eresiarca!
— Già i preti per un Te Deum più, un Te Deum meno non patiscono indigestione — brontolò il venditore di mele. E si allontanò gridando a più riprese con cadenza uniforme: — Pomi cotti! Chi vuol pomi cotti?
Intanto s’era fatto bujo davvero. I due gondolieri diedero la buona notte ai loro interlocutori, e chiusero a catenacci il portone della riva su cui erano stati fino allora. Gli altri si dispersero gradatamente.
[100]
Dopo le cinque, arrivò la gondola di casa con Clara e mia madre. Essa era elegantissima come sempre, mostrava dieci anni meno della sua età, e la sua fisonomia acquistava in quella sera una speciale bellezza dall’animazione che vi era diffusa. Cambiò vestito in un attimo, e poi comparve in abbigliamento da casa nel salotto da pranzo, vispa, leggiadra, serena. Del nostro diverbio del giorno innanzi la non si ricordava nemmeno. Quante cose mi raccontò a tavola! A ogni momento si rivolgeva a mia sorella e dimandava: — Non è vero Clara? — Ma Clara era stanca e assonnata, e aveva appena la forza di rispondere di sì. La gondola nostra, mercè la bravura dei barcaiuoli, era stata sempre in ottima posizione, mia madre aveva visto davvicino l’Imperatore, aveva salutato tante conoscenze, ne aveva anche rannodato di quelle ormai cadute in disuso; tutta gente della sua classe (voleva dir nobili), e molti le avevan chiesto di me, e dettole che pareva [101] impossibile come una giovane della mia età e della mia fortuna si ostinasse a menare una vita così ritirata. Ma già, avevano soggiunto quei tali, non istaremo molto a trovarle noi un partito che le convenga. Bisogna farla diventare dei nostri.
Io risposi seccamente ch’era un onore a cui rinunziavo assai volentieri, ma mia madre era in così benevola disposizione d’animo che non si risentì punto del mio modo poco cortese. Quando il pranzo fu terminato, Clara, che quasi dormiva in piedi, fu affidata a una cameriera e mandata a coricarsi. La mamma si alzò, e, presami per un braccio, si mise a camminar meco su e giù per la stanza. Rammento sempre come ogni volta che passavamo davanti allo specchio io fossi costretta ad ammirar la sua svelta persona, e gli occhi scintillanti, e i capelli neri e finissimi che vagamente le si arricciavano sulle tempie, e cedessi a lei senza contrasto non solo la palma della bellezza, ma quasi quasi anche quella della gioventù.
Senza dubbio essa aveva da farmi qualche comunicazione o qualche proposta, ma non sapeva risolversi, e favellava di cose inconcludenti, ora ravviandomi una ciocca di capelli, ora aggiustando una piega del mio vestito, ora infine dando un po’ più di simmetria al fichu ch’io tenevo al collo.
[102]
— Dite la verità, mamma — io le chiesi fermandomi d’improvviso in mezzo alla stanza — avete qualche argomento che vi sta sul cuore?
Questa domanda così repentina parve sconcertarla, e balbettò con imbarazzo: — Che pensiero ti frulla pel capo? Che cosa vuoi ch’io m’abbia?
Poi, incapace com’ella era di tener nulla nascosto, soggiunse in fretta: — Ebbene, volevo dirti....
Qui s’interruppe nuovamente. Era chiaro ch’ella non sapeva girar la frase come si conveniva. L’intensa attenzione ch’era certo dipinta sul mio volto non le rese più agevole l’esprimersi. Essa disse in fretta: — Che occhi mi fai! Desideravo avvertirti soltanto che ho deciso di metter Clara in educazione alle Salesiane.
Avrei giurato che non era questa la confidenza ch’ella andava meditando; tuttavia sclamai: — Volete farla dunque crescere in un convento?
— Sì — rispos’ella. — Mi sono anche consultata con altri.... con persone che se ne intendono.... che s’interessano a noi, e tutti a una voce mi dissero che è un pensiero eccellente. C’è il fiore delle nostre ragazze. — E qui mi sciorinò una filastrocca di nomi patrizi.
[103]
— Pure — osservai — avete pensato a ciò che il povero babbo diceva dell’educazione claustrale? A ciò che ne diceva mio zio?
— Benedetta creatura che sei! Sempre questi nomi in bocca. È vero. Tuo padre e tuo zio avevano, su questo proposito, certe idee.... Ma erano pregiudizi antiquati. Una dozzina d’anni fa era di moda non aver religione, non andar mai in chiesa, ridere di tutto le cose sacre.... Bravissimi! Le belle cose che si son viste! E se ne sarebbero viste ancor di più belle se il Primo Console non avesse rialzato gli altari.... Ma tu sei una giacobina ostinata....
— Via, mamma, lo sapete, io rispetto le vostre convinzioni, io non attacco la vostra fede. Ma vi par proprio un debito di religione di far educar Clara in un modo contrario a quello che suo padre avrebbe desiderato?
E mio malgrado nel pronunziar queste parole la mia voce tremava e i miei occhi si fissavano inquieti nel volto di mia madre. Oh che non avrei dato per mirar la sua fronte altera e serena, per leggere nel suo sguardo tranquillo la smentita d’ogni oltraggioso sospetto!
Ella invece abbassò alquanto le ciglia, e rispose:
[104]
— Ma non sono io che tengo oggi il posto del padre? Non sono io che debbo pensare oggi al bene della mia creatura?
— Sì, siete voi, ed io, lo so perfettamente, non ho alcun diritto su mia sorella; ma lasciatemelo dire, anche in ciò che fate per vostra figlia, voi obbedite a straniere influenze.... È il signor Venanzio che continua l’opera sua....
— Oh Maddalena, come sei ingiusta! Tu odii quell’uomo!
— E dovrei amarlo? — gridai, facendo un gesto di ribrezzo.
— Eppure egli non anela che a poter trattarti come una figlia!
Quella frase fu per me una rivelazione, non forse inaspettata del tutto, ma ugualmente terribile.
— Non era dunque di Clara — proruppi — che volevate parlarmi? Era di questa nuova vergogna che si prepara alla nostra povera casa, e ch’io, sciagurata che sono, non posso stornare? Ma, checchè avvenga, ch’egli non osi chiamarmi sua figlia. Non ho fatto nulla per meritarmi un’onta simile.... Però non sarà vero, ditemi ch’io deliro.... Dio mio! Dio mio! voi tacete. Dunque non m’ero ingannata?
— Ah tu lo abborri! — sclamò mia madre, percorrendo rapidamente la stanza. — Tu abborri me.....
[105]
— Io abborrirvi?
— Sì, sì.... tu sei pura, tu non hai macchia, tu sei nata per far la parte di giudice, e la prima che si presenta dinanzi al tuo tribunale è tua madre. Oh sta bene! Sono queste le idee moderne.... Ma tu non hai capito che una povera giovane sbalestrata fuori della sua classe doveva far buon viso a chi le ricordava il suo mondo perduto, la sua infanzia, le sue abitudini. Ne ho colpa io se, uscita di convento, mi dissero: la tua famiglia è in rovina, bisogna che tu sposi o il nobile Renier o il signor Lisari? Il nobile Renier era malato e deforme; prescelsi l’altro. E sai che cosa mi bisbigliarono all’orecchio, quando, alla vigilia degli sponsali, io mi mostravo malinconica e perplessa? Mi bisbigliarono: Prendilo, e poi sarà quel che sarà.
— Oh! mamma, ve ne scongiuro.
— No, no, hai voluto farmi parlare e parlerò. Bada, sai, lo giuro innanzi a Dio, non ho nulla da rimproverare a tuo padre. Egli fu pieno di cure e di attenzioni per me.... Ma ebbe il torto di sposarmi. Era già vedovo, aveva venti anni più di me, aveva un figlio con cui non potevo andar d’accordo.... O come il buon senso non gli fece intendere ch’io non gli convenivo? Tuo zio Baldassare l’aveva ben capita, e [106] con quel suo piglio brusco mi disse poco dopo il mio matrimonio: Nè voi eravate fatta per la nostra casa, nè noi eravamo fatti per voi. Tuo zio aveva ragione. Tra i congiunti che m’erano rimasti uno solo mi parlò un linguaggio severo: lo zio Avogadore, che hai conosciuto bambina. Egli disapprovava il modo in cui mi avevano sposata, ma mi ripeteva sempre: Sii savia, modesta, casalinga. Il lusso e la leggerezza delle nostre donne son quelli che mandano a soqquadro la Repubblica.... Anche quella voce si è ammutolita. Rimasero gli esempi di cento amiche d’infanzia, di cento condiscepole, rimase l’eco della frase con cui i miei più cari s’erano accomiatati da me: Sposalo, sarà quel che sarà....
— Basta così, per carità. Voi dimenticate chi vi ascolta.... Ve ne supplico, lasciamo il passato, io non ho il diritto di domandarvene conto. E se fui fredda, riservata con voi, perdonatemi; e se per avventura obliai il rispetto che una figlia deve a sua madre, son pronta a chiedervene grazia in ginocchio. Tornerò docile, fiduciosa, riverente come una volta, amerò Clara come l’ho amata quando ella era in cuna e io m’ero una ingenua fanciulla, ma snidate quel serpe di casa nostra, non cambiate il nome onorato di mio padre col nome di lui....
[107]
— Dio santo! — ella esclamò. — Ecco una madre che può anche aver sbagliato, ma che oggi non ha che un mezzo di riparare al suo fallo, e vuole appigliarsi a quel mezzo, e vuol provvedere all’onore della sua casa e alla salute della sua anima; ed è sua figlia che le si oppone, sua figlia che, rigida, inesorabile, non trova parole che di rimprovero e di condanna....
— Ah no, mamma, pensateci, voi non potete sragionare così. Non potete credere che se commetteste errori, ch’io non indago e non giudico, la sola espiazione ne sia quella da voi ideata. Come! Una donna, e badate ch’io parlo in generale, avrà dimenticato i suoi doveri di sposa, e l’unica ammenda al suo fallo sarebbe quella di maritarsi, vedova appena, con l’uomo che la fece traviare dal retto sentiero! Ma la sua famiglia è dunque per nulla? La sua famiglia, che risentì pur l’effetto de’ suoi traviamenti, che vide turbata da questi la sua pace domestica, non ha dunque nessun diritto di chiederle: Sii nostra ora almeno, sii tutta nostra; di porre a questa condizione il ritorno dell’antica confidenza e l’oblio?... Lo sa il Cielo, mamma, ch’io non vorrei parlarvi in questa guisa, ch’io comprendo come altro dovrebb’essere il linguaggio di una figlia verso la sua genitrice, [108] ma ho taciuto per tanto tempo che dovete perdonarmi questo primo e forse ultimo sfogo....
— Tronchiamo questo colloquio, o Maddalena — disse mia madre. — Tu sei giovane, non hai esperienza della vita, non sai che ogni creatura umana deve obbedire al suo destino...
— Oh il destino! — interruppi — siete voi, donna religiosa, che me ne parlate? A che cosa serve la volontà?
— Orsù, figliuola mia, ciò che suscita il tuo sdegno non succederà nè oggi, nè domani. Io non sono dimentica a tal punto dei riguardi del mondo. Tu intanto potrai ripensarvi con animo riposato, e son certa che ti convincerai del tuo torto....
— Ah non crediatelo — io risposi prima ch’ella avesse finito la frase. — Neppure se vivessi mille anni!
Io era esterrefatta. Noi ci trovavamo di fronte, madre e figliuola, entrambe, profondamente convinte di esser offese nei nostri sentimenti più legittimi, nei nostri affetti più sacri. O nell’animo di lei, o nel mio era certo una strana confusione del bene e del male, era in ambedue una impossibilità assoluta d’intendersi. La barriera che a poco a poco s’era andata formando tra mia madre e me si allargava [109] ora repentinamente tanto da parermi ostacolo insuperabile. Avrei offerto vent’anni di vita per appianarla, per richiamare le lagrime sulle mie ciglia e le parole affettuose sul labbro, ma tutto era vano. Io non udivo che le ultime frasi di mio zio: — Quando sia colmo il calice delle conciliazioni, quando sentirai che questo tetto non deve più accoglierti, tu avrai almeno, retaggio supremo, la tua indipendenza.
Uscii della stanza senza dir parola, e mi chiusi nella mia camera. Non mi coricai, non dormii quanto fu lunga la notte, ma ribattei da me stessa tutte le obbiezioni che si presentavano al piano il quale parevami imposto dal mio decoro. Io ero sul punto di esser maggiorenne, di divenire padrona della sostanza ereditata da mio zio; dovevo ormai viver sola, abbandonare a ogni costo la casa materna.
Sul far dell’alba si bussò alla mia porta. Aprii. Era mia madre. Ella, avvezza ad alzarsi sulle undici, s’era tolta del letto in quell’ora; ella, che non abbandonava la camera prima d’essersi lisciata, profumata e abbigliata con ogni cura, mi si presentava con la chioma scomposta e con la veste discinta. Oh il suo cuore era buono, migliore per molti lati del mio! L’idea d’una rottura con sua figlia non le dava pace, ed [110] ella veniva per iscancellare ogni traccia delle scene occorse la sera precedente.
A che ripetere il nostro colloquio? A tutto ella si sarebbe piegata; ad allontanar da sè quell’uomo, giammai. Invano, vinto ogni riserbo, io le dipinsi con le tinte più fosche la natura insidiosa di colui, invano le dissi che ov’ella sperava trovar la felicità e la calma non avrebbe trovato che il rimorso e la rovina, invano le pronosticai un tempo nel quale egli avrebbe distrutto la sua fortuna, avvelenato il suo cuore, tradita la sua fede. Ella scrollava il capo, mostrava talora una vaga apprensione ch’io potessi appormi giustamente, ma finiva sempre coll’esclamare: Ciò che dimandi è impossibile!
Quand’ella mi lasciò, il mio animo era commosso, ma la mia determinazione era più ferma che mai, e la mia fantasia correva dritta alla nuova esistenza che mi si apriva. Stetti così un paio d’ore, finchè la voce di Clara mi strappò alle mie meditazioni.
Rammentai che anch’essa era in procinto di abbandonare la casa e che le fredde pareti di un chiostro l’avrebbero accolta fino al dì che, inesperta del mondo, ella fosse andata a marito. Rammentai che su lei pure pesava una dura fatalità, e che la [111] infanzia non sorrisa da tutti gli affetti domestici, non nudrita dalla virtù di esempi illibati, avrebbe steso un’ombra sul suo avvenire. Onde mi vinse un senso di tenerezza, da lungo tempo, lo confesso, non provato per lei, e la chiamai a nome. Ella, che attraversava saltellando la sala, parve piuttosto maravigliata, e rispose all’appello quasi riluttante e peritosa. La presi per ambe le mani e l’attirai a me, guardandola fisa entro que’ suoi grandi occhi, che mi erano sembrati sì belli quand’essa era bambina e io formavo la mia delizia di vegliare sulla sua cuna e di tenerla sulle mio ginocchia. Oh quegli occhi erano belli anche adesso, ma non c’era caso, non mi piacevano più.
— Senti, Clara — le chiesi — e ci vai volentieri in convento?
Ella battè festosamente le palme, e sclamò: — Oh quanto!
— Ma non ti dispiace di lasciare la tua casa, di lasciar noi?
Clara abbassò alquanto le ciglia, grattò col piede il pavimento, e disse biascicando le parole:
— Sì, mi dispiace, ma non tanto come mi sarebbe dispiaciuto una volta....
— Spiegati meglio — io soggiunsi.
Ella si schermì, torcendo il volto da un’altra parte. Ma io insistei:
[112]
— Di quando intendi parlare, Clarina?
Stretta così, ella rispose a mezza voce, sempre guardando verso terra:
— Di quando tu contraddicevi meno la mamma.
Sentii una trafittura al cuore. — Ma tu credi dunque, o Clara — io le chiesi — ch’io non voglia bene alla mamma?
Ella non disse nulla e continuò a schermirsi. Mi chinai con la persona per sorprendere il suo sguardo, che pareva sfuggirmi. Una lagrima lenta lenta le scendeva lungo la guancia.
— Vedi, cervellino che sei, come lasci correre la tua fantasia. Tu piangi.... — E continuai, asciugandole gli occhi: — Ti ricordi chi prendeva le tue difese anni addietro quando facevi le tue bizzarrie di bambina? Ti ricordi chi, col lembo del tuo grembiale bianco, ti tergeva le lagrime, e, guardandoti fisa in volto, finiva col farti sorridere..... Oh mi affliggo che tu te ne vada.
— Verrai a trovarmi — ella interpose timidamente. — E poi rischiarandosi in viso: — C’è un così bel giardino!...
— Ah! l’hai visto!
— Sì, ormai da due settimane. Mi ci condussero la mamma e il signor Venanzio.
— Anche il signor Venanzio?
[113]
— Anch’egli, e parlò molto attraverso la grata con la superiora, ma non lo lasciarono andar più avanti.
— Dimmi, e come avviene che a me si discorse soltanto iersera di questa risoluzione?
— Ah! la mamma voleva comunicartela prima, ma fu il signor Venanzio che ne la sconsigliò, soggiungendole che v’è sempre tempo.
— Carino! E, in confidenza, tu gli vuoi bene al signor Venanzio?
— La mamma ripete sempre che devo considerarlo come un secondo padre.
— Ah sì!... va.... va, proruppi indispettita, alzandomi bruscamente dalla seggiola.
— Vedi come mi scacci... E poi dici che non ho ragione...... — ella mormorò allontanandosi.
Compresi il mio torto, e la trattenni ancora un istante. — Sì, poverina — le dissi — tu non ne hai colpa. — E piegatami sopra di lei, le diedi un bacio sulla bocca. Ahimè! nè le mie labbra avevano calore nel darlo, nè le sue nel riceverlo.
[114]
Pochi mesi dopo questo colloquio, mia madre aveva giurato fede di sposa al signor Venanzio. Clara si trovava in convento, ed io ero insediata nella mia nuova abitazione, con Giannina e altre due o tre persone di servizio. Non ero riuscita senza difficoltà ad accasarmi così da sola, non vi ero riuscita senza levare un grandissimo scandalo, ma, in fin dei conti, poichè nessuno poteva mettere in forse il mio diritto, poichè io disponevo d’un largo censo mio proprio, gli ostacoli furono presto superati. Orgogliosa per indole e noncurante degli altrui giudizi, io affrontavo senza sgomenti la singolarità della mia posizione e ne godevo con molta temperanza i vantaggi. Dicevano ch’io ero un uomo, che ne avevo le forme, la statura, i movimenti meno aggraziati, e quest’accusa, che una volta mi aveva fatto tanto soffrire, che aveva ferito in me il senso estetico (mi perdonino i signori uomini), io la raccoglievo ormai come un guanto di sfida, e volevo ch’ella mi valesse la padronanza [115] assoluta di me stessa, de’ miei gusti, de’ miei sorrisi e delle mie lagrime. Era già poco men che decisa a rimanermene zitella. Sentivo che sarei stata sposata per la mia dote, e quest’idea mi metteva i brividi. Se di tratto in tratto le fantasie a cui s’apre volonteroso un cuor di vent’anni venivano ad agitarmisi festosamente dinanzi, io le scacciavo come si scaccia una conoscenza insidiosa, usa a promettere ciò che non sa mantenere. E cercavo quell’equilibrio morale che mio fratello Carlo assicurava trovarsi nel mondo, tantochè, a chi operi secondo la propria coscienza, le scabrosità della via, che parevano insuperabili, a mano a mano si spianano, e ciascheduno può raccogliere intorno a sè tanto di luce e di calore che basta a tenergli vive e serene le facoltà tutte dell’anima. Fede gagliarda e ristoratrice che Carlo portò quasi intatta nella sua tomba, e ch’io forse avrei lentamente rassodata in me stessa se i disinganni e i dolori non avessero finito col distruggerne sin le radici. Pure allora, nel novello mio nido, lungi da uno spettacolo contro cui si ribellava l’intero esser mio, visitata dalle mie ricordanze, andavo provando come un senso di pace e di conforto. La balda certezza di aver seguito l’unica via impostami dal dovere era bensì turbata qualche volta da una [116] lieve ombra di dubbio. Quante non sono le donne, io pensavo in quei momenti, che passano a seconde nozze senza che le figliuole si atteggino a giudici della condotta materna, e abbandonino, sdegnose, il tetto domestico! Ma erano impressioni che si dileguavano con la rapidità del baleno, e non tardava a soccorrermi l’idea che, s’io m’ero indotta a un passo sì ardito, non era già perchè mia madre aveva deciso di rimaritarsi, ma perchè io non potevo e non dovevo veder trionfante colui che aveva distrutto la pace e la felicità nella nostra famiglia.
Passai, pochi giorni or sono, dinanzi al palazzino ove ho abitato sei anni. Non lo si riconosce più. Diedero di bianco ai muri, colmarono col gesso le scanellature delle quattro colonne che ornavano il terrazzo del primo piano, aprirono nella facciata nuovi fori che le tolgono ogni simmetria e che stuonano orribilmente con lo stile della fabbrica, e, come se non bastasse, sotto ogni finestra dipinsero in rosso certi cosi tondi che vogliono simulare il marmorino e pajono mortadelle. Guardai in alto e non vidi più l’altana di legno intorno alla quale s’arrampicava una vite che poi, flessuosa, piegavasi ad arco, foggiando una specie di pergolato, il quale offriva in estate le sue [117] ombre, in autunno i suoi grappoli. Tra foglia e foglia sbucava talvolta, circa quarant’anni fa, una testolina bionda, così bella che sono men belli al paragone gli angioletti onde Tiziano circondò la sua Madonna. Ahi! la vite è scomparsa, la testolina bionda riposa nella chiesetta gentilizia di un castello lontano;.... io soltanto, povera mummia, sono ancora qui.
I magnati della parrocchia, tostochè io presi stanza nella nuova dimora, vennero a presentarmisi con grande solennità. Lo speziale e fabbriciere mi disse che aveva una nipote assai a modo, assai colta, la quale pareva deliberata a non maritarsi, e sarebbe andata orgogliosa di fare la mia conoscenza. Il vicario, ch’era stato uomo di lettere e aveva conosciuto Gaspare Gozzi, si diede premura di offrirmi i suoi omaggi e di farmi sentire alcuni suoi componimenti poetici. Veniva poi di tratto in tratto il mio notajo accompagnato dal figlio d’un suo cugino ch’egli aveva preso nello studio seco, e ch’era un giovane sui ventiquattro a’ venticinqu’anni, di molti sospiri, di poche parole e di pochissimo sugo. Questi personaggi erano i frequentatori più assidui d’una piccola conversazione ch’io tenevo il lunedì sera, cedendo alle istanze di don Gaudenzio, il vicario, il quale, dopo fatto il chilo a [118] casa sua, sentiva il bisogno di aiutar la digestione col discorrer di Gaspare Gozzi presso qualche conoscente. Non mancavano poi i visitatori avventizi, gli spasimanti della mia dote, fattisi introdurre con l’uno o con l’altro pretesto, non mancava infine un pajo delle vecchie relazioni di casa rimastemi fedeli anche dopo la mia trasmigrazione. Si troverà abbastanza strano che, giovane, indipendente, ricca, io non sapessi farmi centro d’una società più vivace, ma il fenomeno si spiega presto; chi consideri il mio carattere e le condizioni della società veneziana d’allora. Di quella d’adesso non so davvero; è tanto tempo ch’io vivo fuori dal mondo! Quarant’anni addietro, insomma, una società, all’infuori dell’aristocratica, in Venezia non c’era. La sapienza del nostro patriziato se n’era ita da un pezzo; erano rimaste negli uomini le tradizioni del lusso, nella donna era rimasto il brio schietto e spontaneo che, unito alla venustà delle forme e alla facilità dei costumi, ne rendeva la conversazione desiderata e attraente. Quanto di migliore il resto d’Italia e d’Europa mandava fra noi affluiva volonteroso in quelle case, in quei crocchi, chiusi in generale ai Veneziani che non fossero nobili, ma aperti ai forestieri di tutte le classi, pur che avessero una riputazione qualunque di ricchezza, [119] o d’eleganza, o d’ingegno. Artisti e poeti trovavano ogni sera accoglienze ospitali in appartamenti sfarzosi, giocondati dai sorrisi di donne bellissime e dal fascino d’un dialetto incantevole. Chi traversava la notte i canali nella gondola taciturna, vedeva splender le faci dietro i finestroni degli storici palazzi, e udiva accordi di musiche e scoppiettìo di voci allegre da far credere che Venezia tenesse ancora lo scettro dei mari e fosse all’apogeo della sua potenza e della sua gloria. A chi però non aveva modo di varcar le soglie delle case patrizie, e non amava mescersi al chiasso dei bagordi popolari, ai lunedì del Lido, alle sagre romorose ove dalle baracche di legno destinate alla confezione dei tradizionali bigné uscivano colonne di fumo puzzolente, e i merciai ambulanti assordavano con le loro grida, a chi, insomma, cercava modesti e casalinghi ritrovi era risposto inesorabilmente: Sta solo. Mancava una classe che, non ripetendo l’esser suo dai fasti e dalla ricchezza degli avi, ma dal suo lavoro presente, pur nutrisse nell’anima il culto delle cose belle e gentili, e superando il patriziato per la serietà dei propositi, gli si accostasse per la cortesia delle forme e per la raffinatezza dello spirito. Solo ch’io avessi voluto, quel mondo elegante mi sarebbe [120] stato aperto, nè il mio cognome borghese vi avrebbe fatto ostacolo. Mia madre era nobile e l’aristocrazia veneziana ebbe sempre una certa indulgenza pei nati di madre nobile, anche se il padre era plebeo. Generalmente anzi il padre non si conta. O che cosa è un padre? La signora ha certo commesso un error grossolano nello sposare un uomo senza nascita, ma, via, alla fin fine vi possono essere state le sue buone ragioni, può essere stato un capriccio della famiglia, e non bisogna poi tenergliene il broncio tutta la vita. Pur ch’ella mostri di non aver troppo rispetto pel suo consorte, pur ch’ella insegni ai domestici a tirare una linea di confine tra lei, eccellenza, e lui, semplice cittadino, le si fa grazia e la si tratta come s’ella non fosse uscita mai dell’ovile. Quanto a’ suoi figliuoli, si può amnistiarli anch’essi fintantochè sono giovani, non hanno una posizione indipendente e posseggono discernimento bastevole per sapere che la genitrice d’illustre prosapia deve essere amata e venerata in grado molto maggiore del signor padre di oscure ed umili origini. Più grave è il caso inverso, quando il gentiluomo s’impalma con una semplice cittadina. Allora la casta è veramente ferita sul vivo. Non si tratta soltanto d’una persona che ne esce, come avviene allorchè la gentildonna [121] accetta un marito che non è suo pari; si tratta d’una famiglia patrizia che consente a lasciar infiltrare una vena di sangue comune nel suo sangue blù, e che poi, col prestigio del suo gran nome, coprirà gli ibridi prodotti di questo pasticcio, come copriva per lo addietro i frutti dei connubi purissimi. Diamine! qui c’è anche la frode. I figli del plebeo e della patrizia non potranno mai dimenticare che sono di una razza inferiore ai nobili; i figli del patrizio e della plebea lo dimenticheranno invece senza dubbio quando non lo si richiami spesso alla loro memoria. Comunque sia, le idee alle quali io ero stata nudrita, gl’insegnamenti della persona che io avevo stimato sopra tutte le altre, mi avevano fatto sorger nell’anima una ripugnanza invincibile verso quella società tutta lustro ed orpello, e benchè io non fossi cieca al punto da disconoscerne le attrattive, non m’ero indotta mai ad entrarvi. Le ultime vicende, com’era naturale, me ne avevano cresciuta l’avversione e me ne avrebbero a ogni modo reso più malagevole l’ingresso. So che mi ci si biasimava senza ritegno. Una giovinetta che aveva per madre una Rezzinelli! Fare uno scandalo di quella sorte! E ci fosse stata almeno una ragione seria! Fuggire di casa con un amante, s’intende, ma [122] lasciare il domicilio unicamente perchè la madre, perduto il primo marito, ne piglia un secondo che non vi accomoda, è una pedanteria di cui non è capace che una borghese, brutta ed antipatica per soprammercato. Insomma, io conoscevo di vista soltanto quelle brillanti gentildonne, alcune delle quali non passarono senza lasciare un’eco dietro a sè; le vedevo o mollemente sdrajate nella gondola voluttuosa, o percorrenti con una cascaggine tra l’affettato e il naturale le nostre maravigliose procuratie, appoggiandosi al braccio dell’uno o dell’altro cicisbeo, e cinte da uno stormo di adoratori più o meno illustri, fra cui un giorno si notava Antonio Canova, un altro Ippolito Pindemonte, un altro ancora Francesco Aglietti, e, posteriormente al periodo entro cui si compie questa mia storia, Giorgio Byron, sebbene, lievemente difettoso com’egli era, schivasse di andarsene a piedi. Ed esse poi, le gentildonne famose, erano, per tacer d’altre, la Renier Michiel, la Benzoni, la Teotochi Albrizzi, osservatrice acutissima, esperta del pari nelle arguzie della parola e nel maneggio della penna. Fui da lei una sola volta, a undici o dodici anni, accompagnata da mia madre che la visitava sovente, e m’accorsi subito di non esserle piaciuta. A lei, innamorata [123] del bello, non poteva andar a sangue la mia persona angolosa, lunga, sottile, a lei, tutta brio, non poteva esser simpatico il mio fare severo, impacciato, confuso. Ero ancor fanciulla, ma dal fiore s’indovina il frutto, e la sagace patrizia deve aver capito subito ch’io non sarei mai divenuta nulla d’elegante e di leggiadro. Siccome poi le impressioni che si ricevono non sono, molte volte, che il riflesso di quelle che si destano, io pure serbavo un pochino di ruggine verso colei che mi aveva squadrata da capo a piedi, aveva atteggiato le sue labbra aristocratiche a un leggiero sorriso, e s’era lasciata leggere sulla fronte in lettere cubitali: Mi sei uggiosa.
Ma basti di ciò. Io ero entrata nel mio nuovo sistema di vita con ben altre idee che quella di farmi il centro d’un ritrovo brillante, e di volgere le mie ricchezze alle cene, ai balli, alle veglie fastose. Conoscere, se me ne fosse capitato il destro, qualche persona di vero merito, coltivare il mio spirito, fare un po’ di bene intorno a me senza chiasso e con retto criterio, ecco il fine ch’io avevo assegnato alla mia modesta esistenza. V’era in ciò un fondo d’egoismo? Agivo io soltanto nello scopo di sottrarmi alla lotta, di affogar nei comodi materiali gli ardori importuni della [124] giovinezza? Lo ignoro. Mi alzavo per tempo, e la mia prima visita era pe’ miei vasi di fiori, i quali, per la massima parte, passavano la state all’aria aperta in altana, e l’inverno scendevano a tenermi compagnia in un salottino ov’io avevo fatto venire da Parigi apposta per loro un mobile elegante a parecchi piani. Ivi sbocciavano in silenzio sotto a’ miei occhi le aristocratiche camelie, che s’erano formate già una certa riputazione per la rarità della specie e la bellezza del colore; ivi si aprivano in marzo i pallidi giacinti schierati in fila sulla mensola del caminetto entro le loro bottiglie. Ed ivi poi si vedevano in tutte le stagioni alcune pianticelle di geranii e di amorini, con cui mi pareva d’aver fatto una particolare amicizia, tantochè avrei giurato che quand’io li inaffiavo ed essi rizzavano il capo, mi dicessero: grazie. Più tardi ricevevo ogni giorno tre o quattro fanciulle povere del vicinato, ch’io avevo preso sotto la mia protezione e a cui frattanto insegnavo a leggere e scrivere. La tenerezza per l’infanzia, ch’era stato uno de’ primi sentimenti svegliatisi nell’anima mia, e che si era raffreddata ad un punto quando una strana ripulsione mi allontanò dalla piccola Clara, quella tenerezza si rifaceva or più viva che mai. Qualche volta mi balenava [125] l’idea di adottare una fra quelle creaturine per mia figliuola; intanto ero con tutte gentile, espansiva, vivace. Giannina (adulatrice!) mi diceva ch’io divenivo persino bella quand’ero in mezzo a quella nidiata, tanto dolce era il sorriso che mi si dipingeva sulle labbra e negli occhi. E come le capitavano volentieri da me, le fanciulle! Con che franchezza mi dicevano i loro piccoli affannucci, o i loro desiderii, e i loro pensieri! Per solito mi chiamavano rispettosamente signora, ma nei momenti d’espansione si lasciavano sfuggire l’epiteto più carezzevole di amia, zia. Allora, se io le avevo udite, arrossivano fino alla radice dei capelli, e si nascondevano il viso nel grembialino. Ma io non mi scandolezzava di quell’appellativo confidenziale, e a poco a poco, quando uscivo di casa a piedi, sentivo bisbigliar nei crocchi infantili della parrocchia: — Guarda la zia Maddalena. Benchè avessi la gondola, me ne valevo di rado, e preferivo far lunghe passeggiate in compagnia di Giannina, fattasi ormai una cameriera di garbo. Andavamo pochissimo in piazza, spesso nei luoghi meno frequentati di Venezia. La gente s’era ormai avvezza a vederci, conosceva, se non il nostro nome, il nostro grado rispettivo e soleva bisbigliarci dietro:
[126]
— La cameriera compra di gran lunga la padrona. Non c’era nulla da ridire a una verità tanto assiomatica; tuttavia, a sentirla ripetere ad ogni piè sospinto, mi si affacciavano mille riflessioni alla mente. Pensavo all’eterna gioventù di mia madre, alle grazie del suo viso e della sua persona, al fascino ch’ella aveva esercitato sulla società e che la società aveva esercitato su lei, e sorprendevo talora in me stessa un sentimento che somigliava all’invidia. Indi accusavo la mia severità intollerante, e mi dicevo con amarezza che la virtù non era poi tanto difficile quando la natura era stata matrigna. Ma, in complesso, erano ubbie passeggiere, e l’equilibrio del mio spirito si ristabiliva senza troppo sforzo. Quand’ero in casa, leggevo senza misura nè tregua. Ai libri che lo zio Baldassare mi aveva lasciato, io andavo aggiungendo tutte le pubblicazioni nuove che uscivano in Italia ed in Francia e che un libraio di Milano era incaricato di spedirmi. A ore perse scarabocchiavo le mie impressioni. Se avessi imparato tutto quello che ho letto, se avessi tratto un reale profitto da tutte le mie indagini capricciose, sarei pur divenuta una donna sapiente. Ma mi pare che accingersi allo studio sia un po’ come mettersi in cammino. Chi ha una meta e [127] vi si avvia risolutamente, stando in moto anche un palo d’ore al giorno soltanto, fa più strada di chi, senza scopo alcuno, va girelloni dal levar del sole al tramonto. Del resto, io non avevo ambizione, o ne avevo troppa, cose che si equivalgono, come si equivale lo starsene nel proprio nicchio o il voler fare un viaggio nella luna. Delle mie cognizioni, quali esse fossero, non menavo vanto, e forse, se non si fossero visti grandi mucchi di libri su tutte le tavole, le cornici, i canterali della casa, nessuno mi avrebbe giudicato una donna alquanto diversa dal comune. Prima di continuare nel mio racconto, devo dare ancora alcuni tocchi a questa pittura della mia vita; quindi prendo fiato e ripiglio.
E, innanzi tutto, che cosa avveniva di mia madre, e quali erano le mie relazioni con lei? Ella, che aveva pianto dirottamente e s’era strappati i capelli all’annunzio del mio fermo proposito di lasciarla e di viver da sola, a poco a poco s’era data pace e [128] forse s’abituava senza volerlo a non aver dinanzi a sè un censore importuno. Non conobbi mai natura meno artificiosa della sua. Sincera prima nel suo dolore, ella era poi sincera altrettanto nella sua calma. Sposando il signor Venanzio, ella aveva soddisfatto il più ardente de’ suoi desiderii, quello di poter slanciarsi nel suo mondo, di poter aprire il suo quartiere alla miglior società. Inoltre s’era messa in regola con la coscienza, aveva acquietato certi suoi scrupoli religiosi fattisi vivi in lei negli ultimi anni. Il nuovo marito, dal canto suo, pago di essersi assicurato (o lo credeva almeno) un avvenire di agiatezza e di tranquillità, non si opponeva in alcuna guisa ai suoi gusti. Egli, che in realtà, esercitava una influenza illimitata su lei, in apparenza le serviva da figurante, era diventato il marito di Sua Eccellenza, e lasciava che, invece di chiamar mia madre la signora Rezzinelli-Agliucci, si chiamasse lui il signor Agliucci-Rezzinelli. Ciò poco gli premeva, egli aveva la libera amministrazione della sostanza e non bramava di più. Dicono anche ch’egli facesse affari, non tutti lisci e non sempre felici. Avaro non era sicuramente, e mia madre non aveva mai trovato così allentati i cordoni della borsa. La casa era tutta dipinta ed [129] ammobigliata a nuovo, il numero dei famigli era cresciuto, e per la sala, resa più buia da certe tende a larghe frangie e a drappelloni di stoffa oscura che ne mascheravano le ampie finestre, passeggiava da mattina a sera maestosamente un servo in livrea con l’unico ufficio di aprire e di chiuder gli usci. Un pennello sacrilego aveva ritoccato nei loro medaglioni le immagini dei vecchi avi materni. Erano sparite le tinte calde che il tempo aveva abbrunate. L’armatura del guerriero di Candia aveva assunto un pallido colore di squama di pesce, gli occhi dell’inquisitore, già cupi e profondi, erano divenuti sentimentali e svenevoli, e il suo mantello rosso pareva la raccolta di tutte le creste dei galli del pollivendolo. I libri dello zio Baldassare formavano parte della mia eredità; erano però rimaste a mia madre, come cose di famiglia, le biblioteche scolpite dal Brustolon, e, in attesa di nuovi ospiti che venissero a popolare i vuoti scaffali, la stanza era occupata da due pappagalli e una gazza, che il signor Venanzio ammaestrava nelle ore del mattino. Del resto, mia madre aveva il tatto di non discorrermi quasi mai di suo marito. Fra lei e me ci vedevamo due volte per settimana. Un giorno ella si recava a casa mia, un altro io le rendevo [130] la visita. Ella mi riceveva sorridente, festosa, amorevole, con una ingenuità quasi infantile, tanto da farmi ricordare la bella mammina che s’era accompagnata a’ miei giuochi e ch’io avevo adorata ne’ miei primi anni come un tipo di perfezione. Della sua vita intima mi parlava di rado. Amava principiare i nostri colloquii con qualche proposta di matrimonio. Io cominciavo col riderne, ma s’ella si lasciava sfuggire una frase troppo comune: — Non capisci che vogliamo farti entrare nei nostri? — io mi rannuvolavo, ed ella passava ad un altro argomento con la volubilità con cui la capinera salta dell’una all’altra frasca. E allora mi descriveva i suoi balli, e la sua acconciatura dell’ultima festa, e quella della festa ventura, e come fossero vestite le bellezze più in voga del tempo, e com’ella avesse danzato fino al mattino, e via via. Poi, colta da un pensiero, si picchiava la fronte e gridava: — Orsù, tu t’annoi, non è vero? — E, dandomi un bacio, diceva a modo di conchiusione: — Andiamo, signora nonnina, perdoni alla nipote. — Curiosa donna! Sul più bello tornava alla carica circa al matrimonio, e, s’io non le badavo, correva dietro a una sua fantasia prediletta e sclamava: — Capisco che tu vuoi maritarti a tuo modo. Io mi rifarò su Clara. [131] Quella lì deve maritarsi secondo i miei gusti. Devono essere i primi giovani del paese quelli che andranno a gara per averla in isposa! — E pronunziava certi nomi sonori come se già le si fosse presentata una ventina di postulanti ed ella non avesse che l’imbarazzo di scegliere. Allorchè ella veniva a casa mia, portava sempre qualche regaluccio per me o per Giannina, girava tutte le mie stanze, guardava il mio ricamo e confessava di sapere appena tener l’ago, si cacciava le mani fra i capelli vedendo libri da ogni parte, e non capiva come si potesse tener tanta carta senza esser tormentati dalle tignuole; si ravviava il vestito fermandosi davanti a un nitido specchio di Murano che ornava il mio salotto; spiccava qualche fiorellino da’ miei vasi e non rimaneva tranquilla un istante. La sua bella voce armoniosa suonava come un gorgheggio d’usignolo per le mie stanze. Era felice? Chi lo sapeva? Solo un dì credetti scorgere un velo di stanchezza sulla sua fronte. Essa era appunto nel mio salotto, ed esaminava la stoffa di alcune tende, alla divisa che vi erano state messe da poco. Ad un punto mi chiese:
— Tu non ricevi quasi nessuno?
— Pochissimi — rispos’io.
— Nè il tempo ti par lungo?
[132]
— Tutt’altro!
— Non ti capisco, ma t’invidio.
— Davvero, mamma?
— Sì, perchè non hai bisogno di stordirti.
— Ma voi, dunque, questo bisogno lo avete?
Ella stette un momento perplessa, poi si nascose il volto fra le mani, sì ch’io credetti quasi che piangesse. Però si ricompose in un attimo, sorrise del suo sorriso più bello, diè una scrollatine di spalle, e mormorò: — Sciocchezze! — Scosse il campanello per chiamare la mia cameriera, affinchè le desse uno spillo e l’ajutasse a mettersi il cappellino e lo scialle, fece svegliare i barcajuoli che dormivano saporitamente in gondola, e scese la scala col passo leggiero ed elastico d’una giovane diciassettenne che non ha nè memorie che la turbino, nè timori che la sgomentino.
Giannina, che l’aveva accompagnata sino alla gondola, mi ricomparve dinanzi ridendo, tantochè io le chiesi che cosa avesse.
— Ah! — ella rispose — Sua Eccellenza la signora Lucietta ha un certo modo.... Mi pose una mano sotto il mento come s’io fossi una bimba, e volle ch’io la guardassi in viso, indi esclamò: Sai che tu sei divenuta veramente una bella donna, o Giannina? [133] E non trovasti ancora nessuno che te lo dicesse?
Quando mia madre le fece questa parlata, Giannina aveva già ventisette anni compiti ed era realmente una bella donna, un tipo degno del Veronese. Povera Giannina! Chi se lo immaginerebbe vedendola oggi così spelata e grinzosa e con tre soli denti in bocca? Ma quarant’anni fa la era cosa ben diversa. Che capelli, che occhi, e che spalle sopratutto! Sono andate giù di moda quelle spalle. Adesso o un grasso indecente o una magrezza sfacciata. Tutto polvere di cipro, stecche e cotone! Moltissimi avevano detto a Giannina ch’ella era bella, ma ella non aveva dato retta che a un solo, e, secondo me, al peggiore de’ suoi spasimanti. Era un artigiano lungo di statura e corto di cervello, più giovane di lei, e senza voglia di lavorare. Alla prima leva ordinata dai Francesi lo avevano fatto soldato, ma dopo esser rimasto per qualche tempo sotto le armi venne rimandato in patria in permesso, salvo ad esser richiamato appena ve ne fosse il bisogno. Giannina, che aveva giudizio da vendere, non s’illudeva certo sui meriti del suo innamorato, e anzi diceva senza troppi complimenti che a voler esser sinceri bisogna confessare ch’egli diveniva sempre più scemo, [134] ma io credo ch’ella lo riamasse per compassione, che è una tra le forme d’amore più comuni in noi altre donne, quantunque non sia tra le più lusinghiere pegli uomini che ne sono l’oggetto. Paolo, chè tale era il suo nome, disoccupato spessissimo, suggeva intanto il borsellino della sua fidanzata, la quale, ogni volta ch’era richiesta di danaro, dichiarava esplicitamente di voler rompere questa relazione, e, ogni volta che l’aveva pagato, sentiva in cuor suo d’esser più affezionata di prima a quel bel mobile del suo sposo. Ella gli aveva scoperto una buona qualità, ed era quella di lasciarsele dire. Ciò significava che riceveva con molta filosofia le lavate di capo. — E sa ella — mi diceva spesso Giannina — che vantaggio sia quello di avere una persona con cui si possa prendersela per qualunque cosa vada a rovescio? — Quanto al matrimonio, non avevano fretta nè l’uno, nè l’altra, e a ogni modo non c’era da pensarvi finchè Paolo con avesse ricevuto un definitivo congedo. In complesso era un amore calmo, tranquillo, che non impediva a Giannina di attendere ai fatti suoi con molta solerzia e molta intelligenza.
Il tempo è una cosa che, quando è presente, par lunga, e quando è passata, non [135] s’intende mai come fuggisse sì rapida. Conducendo una vita monotona, priva di gagliarde emozioni, io ero giunta a ventiquattr’anni. Il giorno in cui un bel braccialetto regalatomi da mia madre mi annunciò ch’io li avevo compiti, non potei vincere un senso di dolorosa sorpresa. Ero arrivata fino a quel punto, avevo toccato l’età dopo la quale la giovinezza della donna declina, senza raccogliere che arida sabbia sulla mia via. Simile a chi, guadagnata la cima d’un poggio, volge il guardo al cammino percorso e vede lungo le siepi del sentiero le rose, di cui, passando, non avvertì che le spine, io così, volgendomi indietro, vedevo fiorito e ridente il calle che avevo trovato sì melanconico e nudo, e mi sembrava un’amara ironia ch’esso tal m’apparisse quand’io non potevo più ricalcarlo.
Non so se questi pensieri mi si leggessero sul viso in quei giorni, so che la signora Elena, nipote dello speziale e fabbriciere, nel farmi gli augurii d’occasione, mi disse: — Cara Maddalena, non bisogna poi credere che ventiquattr’anni sian molti, li ho compiti un anno fa, e non mi sento per questo men giovane. Credetelo, cara amica, l’età nostra è la vera età in cui una donna può destare affetti seri. — E [136] nel mentre ella concludeva questo discorso, la punta del naso le si andava facendo d’un bel color pavonazzo, segno infallibile della commozione del suo cuore. Non ho mai capito il perchè di questa relazione costante tra il cuore ed il naso della signora Elena; è certo tuttavia che questa relazione c’era e tradiva i riposti sentimenti della pretenziosa zitella. Il naso di lei era come un barometro. Esso segnava lo stato meteorologico della sua anima.
La signora Elena affermava di avere venticinqu’anni, ma io credo ch’ella sbagliasse il conto almeno di dieci. Certo è che ne mostrava poco men di quaranta. Ma ella ripeteva sempre — Siamo coetanee — e soggiungeva poi con vezzo infantile — Andiamo, non voglio dir bugie, lo so che sono un anno più vecchia di voi. — A queste sue affermazioni contrastava un’altra abitudine ch’ella non sapeva levarsi di dosso, ed era quella di voler essere stata presente a una lunga serie di avvenimenti. Allora le date si levavano, terribili testimonii, contro di lei, ed ella s’accorgeva di aver messo i suoi uditori al bivio di crederla vecchia o bugiarda. Sembrandole però che l’ultimo difetto fosse men grave, ella tentava uscir dall’impiccio col dire — Era ben facile capire ch’io scherzavo. — Questa signora [137] Elena si piccava anche di essere donna di lettere, e gustava più di me le poesie inedite di Don Gaudenzio, il vicario, e la narrazione de’ suoi colloqui con Gaspare Gozzi. Ella aveva voluto assistere a una delle lezioni ch’io davo alle mie piccole alunne, ma non ne era rimasta pienamente soddisfatta. Io le parevo troppo indulgente, ed ella diceva sempre — Eh! i miei figli avranno da fare con me. — Io non dubitavo che i figli della signora Elena avrebbero avuto da fare con lei, ma mi pareva che prima essa avrebbe avuto da fare una cosa molto importante con loro, vale a dire, partorirli. A ogni modo, Elena, dopo avermi rivolte gravemente le sue osservazioni, concludeva sempre — Non pigliate mica in mala parte le mie parole, non è vero? Mi sembra che tra noi ragazze debba esserci piena confidenza. — Carina quella ragazza! Del resto, levandone il difetto del naso, del cui colore non si poteva mai esser sicuri, e l’affettazione sentimentale che non l’abbandonava giammai, Elena non era nemmeno un orco. A sentirla, aveva avuto gli spasimanti a staia, ma non aveva mai trovato il suo ideale. Dipendeva, secondo lei, dai grandi rivolgimenti politici che trascinavano nel loro vortice i migliori, i soli che le sarebbero andati a versi. Perciò, ella era [138] d’opinioni conservatrici. E, in questo, andava pienamente d’accordo con Don Gaudenzio, il quale perdonava a un unico rivoluzionario, a Napoleone Bonaparte, che aveva rialzato gli altari, vinto tutti i suoi nemici, ed era Imperatore. La signora Elena assentiva in tuono patetico, tanto da far credere che Napoleone Bonaparte avrebbe potuto essere il suo ideale se l’avesse conosciuto...., ma, sfortunatamente, non l’aveva conosciuto. Il nipote del mio notaio invece, il signor Filippino, tendeva verso le idee radicali, aveva una grande antipatia per la signora Elena e per Don Gaudenzio, manifestava una profonda venerazione per me, e tutte le volte che da taluno era lodata la bellezza d’una donna, diceva sprezzante ch’egli non si preoccupava del corpo, ma dell’anima..... — Sono strali che egli rivolge a me — notava con piglio di superiorità la signora Elena, la quale ci teneva alla bellezza e ricambiava cordialmente l’antipatia del signor Filippino. Quanto a me, son certa che s’egli fosse stato meno timido o io fossi stata più incoraggiante, l’avrei visto a’ miei piedi in atto di farmi una dichiarazione. Ma la sua massima audacia fu quella di dire un giorno che amore uguaglia le più disparate fortune. Sì certo che le uguaglia, purchè amore vi sia [139] da ambe le parti. Per quanto il signor Filippino fosse ridicolo e uggioso, io lasciavo ch’egli venisse a casa mia in riguardo a suo zio, il mio notaio, che m’aveva usato, convien dirlo, cure quasi paterne nel punto in cui io mettevo in atto il mio divisamento di far parte da me stessa. Povero signor Lodovico! Com’egli s’illudeva sui pregi di questo nipote! Con che compiacenza esclamava: che ingegno ha Filippino! non vi pare? E bisognava rispondergli di sì. Il signor Lodovico era stato amicissimo dello zio Baldassare, e m’aveva conosciuta fin da fanciulla. Aveva contratto l’abitudine, ogni volta che mi vedeva, di pizzicarmi con due dita la guancia. Fattami una ragazza grande e grossa, il signor Lodovico non aveva smesso il vecchio uso, ma lo praticava più di rado, visto ch’egli era di piccola statura, e ch’io lo soverchiavo con metà del capo, dimodochè gli era forza, quando voleva prendersi quel gusto, di levarsi in punta di piedi. Uomo d’indole essenzialmente pacifica, non avrebbe mai affrontato a viso aperto i pregiudizi del mondo, nè, trovandosi ne’ miei panni, avrebbe concepito un atto di ribellione simile al mio, ma il suo animo era retto e il suo criterio pieno di naturale equità, onde non poteva a meno di ammettere tacitamente che i [140] miei motivi erano pur rispettabili. Oltracciò nutriva una sincera antipatia pel signor Venanzio, e per quanto circospetto egli fosse, la lasciava trasparir qualche volta. Se io, nel desiderio assai ragionevole di sapere come andassero le faccende di mia madre, almeno dal lato economico, ne chiedevo conto al signor Lodovico, egli mi rispondeva in fretta: — Cara figliuola, che cosa volete che ne sappia io? — Indi tirava fuori la sua rotonda tabacchiera di tartaruga, la prendeva fra il pollice e il medio della mano sinistra, e, dandole una spinta coll’indice della destra, la faceva girar due volte sopra sè stessa. Compiuta questa operazione, soggiungeva: — Ma, non ci vedo chiaro. Questo signor Venanzio vuol far l’uomo d’affari.... Sarà una brava persona... non dico di no... ma non ci vedo chiaro.... — Più di così non si poteva cavargli di bocca, ma era abbastanza per capire che, secondo lui, c’erano dei pasticci.
Dirò ora in qual modo s’intorbidassero le acque stagnanti della mia vita.
[141]
Era un giorno dell’aprile 1811. Uscita con Giannina sull’imbrunire, mi trovavo a pochi passi di casa mia, quando due vaghe fanciullette, che giuocavano vicino ad un pozzo, mi corsero incontro saltellanti e gridando con le loro allegre vocine: — Zia Maddalena! zia Maddalena! — Erano due delle mie piccole alunne, e si pavoneggiavano tutte entro un gonnellino nuovo ch’io avevo loro regalato poco dianzi. Mi chinai a baciarle, mentre Giannina, ch’era stata la sarta delle due bimbe, racconciava loro in dosso il vestito e ne ravviava le pieghe come artista inteso a dar gli ultimi tocchi all’opera sua. Un ufficiale francese di bella ed alta persona si fermò qualche istante a guardarci con un interesse che parea singolare. Non vi posi mente più che tanto, e credendo ch’egli fosse colpito dalla bellezza di Giannina, le dissi in tuono scherzevole: — Ecco un rivale di Paolo.
L’indomani era il giorno in cui solevo recarmi da mia madre. Contro l’usato, anzichè [142] farmi entrare nella stanza da lavoro, il domestico m’introdusse in un salottino contiguo, dicendo soltanto: — Sua Eccellenza è qui. Insieme a mia madre v’era un ufficiale in piedi che stava per accommiatarsi, e non so perchè io arrossissi subitamente, quando, essendosi egli voltato verso di me, mi accorsi ch’egli era il medesimo ch’io avevo visto il dì prima vicino a casa mia. Egli pure parve riconoscermi, ma non mi rivolse la parola finchè mia madre non ebbe pronunciato la solita formola di presentazione. Allora, fattomisi presso, con quel piglio disinvolto che i Francesi hanno comunemente, mi disse in discreto italiano essere una lieta combinazione che lo faceva incontrare con persona la quale egli aveva veduta per la prima volta in posizione sì interessante, attorniata da sì care bambine. Indi soggiunse, che giacchè aveva l’onore di conoscere da alcune settimane mia madre, sperava che uguale relazione avrebbe potuto stringere con la figliuola, e ch’io lo avrei presentato a mio marito e gli avrei concesso di frequentare la mia casa. Gli risposi non senza imbarazzo che non ero maritata, ciocchè lo fece essere desolato, pensando che io fossi vedova, ma io gli dissi che non ero vedova, ciocchè lo sorprese ancora di più. Per mutar piega al [143] discorso, gli chiesi se quell’avermi veduta in mezzo a due bambine gli era parso così interessante per uno speciale amore ch’egli avesse pei fanciulli, ed egli confessò ch’io aveva colto nel segno. Gli chiesi infine se avesse figli; la quale domanda fece rider mia madre, che gridò: — Oh che idea! Al Visconte de Serges — era il suo nome — non passa nemmeno per il capo di essere ammogliato.
È un damerino come gli altri, pensai fra me, egli ci troverà ben poco gusto a venire a casa mia. Pur non potevo rispondere con un rifiuto alla sua domanda, e gli dissi che sarei stata lieta di vederlo.
Quando fummo soli con mia madre, ella mi descrisse in poche parole questa mia nuova conoscenza. — Il Visconte de Serges appartiene a una fra le prime famiglie francesi. È persona di modi squisiti, un vero gentiluomo. Ma stanne in guardia. Dicono ch’egli sia un gran trafittore di cuori. È qui da pochissimo tempo, ma fece già qualche vittima fra le bellezze della nostra aristocrazia.
— Ah! — risposi ridendo — per me non c’è dunque pericolo. Io non sono bella e non appartengo all’aristocrazia.
— Vi appartieni — ella osservò con qualche sussiego — per via di tua madre.
[144]
Fatto si è, che il dì seguente mi vidi comparire dinanzi il capitano de Serges.
Durante il nostro colloquio, mutai d’opinione sul conto suo tre o quattro volte. Lo trovai a vicenda frivolo e serio, disinvolto e impacciato. Non aveva certo il difetto della curiosità, perchè non fece la menoma allusione al mio tenore di vita, come se si fosse trattato di cosa naturalissima. Tornò bensì con palese compiacenza a discorrermi delle due bambine che aveva visto saltellarmi d’intorno, e quando intese che il prodigar le mie cure all’infanzia era per me un conforto e un diletto, mi parve che egli stentasse a frenare la sua commozione. Meno discreta di lui, lo interrogai sulla sua famiglia, e s’egli avesse sorelle che fossero ancora fanciullette, e il cui ricordo gli tornasse alla mente. La sua fisonomia, che s’era illuminata di una luce dolce e buona, si oscurò tutto ad un tratto, non per corruccio, ma per mestizia; pur non tardò a ricomporsi, e mi disse che non aveva sorelle, ma fratelli soltanto, e una cugina, e una vecchia madre che vivevano in un loro castello della Bretagna. — Mia madre! — egli esclamò con un accento sincero. — Che volete? Io l’amo, la sua immagine veneranda mi sta scolpita qui dentro, ho nella memoria le orazioni ch’ella mi ha insegnato [145] bambino, ho dinanzi agli occhi, confusa visione, i suoi abiti vedovili, sebbene, lo confesso, più non rammenti mio padre. Ma ohimè! Noi viviamo, per così dire, in due mondi diversi, le idee di lei non sono le mie, la casa de’ miei avi è un tempio ove andrei a portare le mie preghiere e a deporre i miei voti, non è più il soggiorno ove potrei condurre la vita....
Non so s’egli stesse per farmi maggiore confidenza, so che da un punto all’altro, come chi si accorge di aver sbagliato la strada e rifà i suoi passi, si mise in volto la maschera dell’allegria e portò il colloquio sulle solite frivolezze: sulle feste di Venezia, sull’avvenenza delle nostre gentildonne, sulla musica del nostro dialetto. Poscia si congratulò meco per la bellezza tuttor rigogliosa di mia madre e pel suo brio in società. Disse che era un miracolo come le dame veneziane si conservassero attraenti anche quando l’età dei trionfi galanti dovrebbe esser passata da un pezzo.
— Ebbene, padroncina, che gliene pare? — mi chiese Giannina quand’egli fu partito.
— Mi pare un uomo come tutti gli altri.
— E io scommetterei di no — ella soggiunse — aspetti un pochino e vedrà se Giannina non ha ragione.
[146]
— Che ti frulla pel capo?
— Eh! lo so io.
— Scioccherella che sei. Non capisci che quella è gente della gran società, e ch’io ne sono uscita da un pezzo e non voglio più rientrarvi?
— E allora sposi il signor Filippino — sclamò ella ridendo.
— Oh scimunita! Tiri proprio le impertinenze per i capelli! Ci vorrebb’altro che dessi retta a quel babbuino. Sta tranquilla che non isposerò nè questo, nè quello.
— Cose che si dicono. Penserebbe ella forse di restar zitella tutta la vita?
— E perchè no?
— Su via, padroncina, li lasci tenere alla povera gente questi propositi. Noi sì che si farebbe bene a non mettere al mondo tanti miserabili, ma lor signori, che hanno tutto il ben di Dio, gli è proprio un peccato mortale che non si facciano una famiglia.
— E tu credi proprio, mia buona Giannina, che basti esser ricchi per esser contenti?
— Non dico questo, ma....
— Vedi, per esempio, non sai che per avere que’ tuoi belli occhi si potrebbe rinunciare a molte centinaia di zecchini?
— I miei occhi! Baie! Veda a che cosa [147] mi hanno servito. A far che quello zoticone di Paolo s’innamorasse di me. Bel costrutto davvero.
— Eppure tu sei sicura ch’egli non s’è innamorato del tuo danaro.... e tu l’ami.
— Io!.... Non so davvero se l’ami. È forza d’abitudine. Sono ormai dieci anni ch’egli mi si è appiccicato ai fianchi, e penso ch’egli è il primo venuto e l’ultimo rimasto. Tanti altri mi hanno detto paroline dolci con più buon garbo di lui, tanti altri erano più belli di lui, ma quelli lì potevano trovare cento donne che loro facessero festa. Ma Paolo, grullo com’è, chi lo avrebbe amato, se non lo amavo io?
E, così dicendo, la buona Giannina si passava il rovescio della mano sugli occhi per asciugarsi una lagrima.
Quando fui per coricarmi, nello sciogliere i miei capelli ch’erano luoghi e foltissimi: — Ecco — disse Giannina — un tesoro, che, ne scommetterei, ella ignora quasi di avere. — E, avvicinandone al lume una treccia: — Guardi — soggiunse — come sono fini e lucenti.
La mattina ella non ebbe pace finchè non mi provò una nuova acconciatura. Io lasciai fare, confrontando in silenzio nello specchio il florido e allegro viso di Giannina col mio, ch’era così poco favorito dalle [148] grazie. Tuttavia, senz’accorgermene, mi facevo ogni di più accurata della persona. Ahi! la bellezza non veniva, per quanto di buona volontà io ci mettessi, ma un cangiamento era pur accaduto in me, e mia madre, tutte le volte che ci vedevamo, mi ripeteva con tuono di mistero: — La mia figliuola mi prepara certo una grande sorpresa. Poichè in casa mia il mondo va a rovescio, ed ella non vuol permettermi che io le trovi un marito, bisogna bene ch’io m’aspetti di vedermi capitare un genero dalle nuvole. Sarebbe curiosa che tu convertissi al matrimonio il visconte de Serges.
Follie! Il capitano Gastone non era nemmeno un visitatore assiduo, nè io avrei potuto esigere ch’egli fosse tale. Egli era un ornamento della gran società. Tutte le porte si spalancavano dinanzi a lui, tutti rendevano omaggio all’amabilità de’ suoi modi e alla vivacità del suo spirito. La casa mia poteva offrirgli ben poche attrattive. Io avevo la coscienza di non esser nè sciocca, nè noiosa, ma non m’ero mai decisa a fare del mio appartamento un convegno di brio e d’eleganza, e non pretendevo che chi era avvezzo all’eleganza ed al brio si trovasse ad agio da me.
Nel mio piccolo crocchio la notizia di questa mia nuova conoscenza fu accolta in [149] varia maniera. La parte maschile se ne adombrò. Don Gaudenzio diceva ch’egli aveva molta stima dei signori ufficiali, ma che preferiva di starne alla larga; il giovane Filippino divenne ironico e andava osservando che per piacere alle donne non c’è quanto vestir l’uniforme militare, e suo zio, il signor Lodovico, mi susurrava all’orecchio: — Siate prudente, Maddalena, prima di tutto è francese, poi è soldato, e finalmente è un Don Giovanni; siate prudente. — La signora Elena invece pareva essersi mutata in argento vivo, e l’avevo sempre fra i piedi. Per giustificare la frequenza delle sue visite, ella mi assicurava ch’io le ero ogni giorno più simpatica e che a non vedermi ci soffriva. Povera donna! Poi insisteva perchè ci dessimo del tu, come si dovrebbe far sempre tra ragazze. Dàlli e dàlli, tanto fece che finì coll’incontrarsi col capitano. Finse ritrosia verginale, voleva ritirarsi, ma io la trattenni, ed ella mostrò di cedere alla mia amichevol violenza. Giurerei ch’ella si era preparata la parte. Volle essere a vicenda patetica e vivace, disinvolta e meditabonda. Quantunque il visconte parlasse abbastanza spedito l’italiano, ella sfoggiò tutte le sue cognizioni di francese, e tra lo sforzo grandissimo che ciò le costava, e l’agitazione del [150] suo animo, non ho bisogno di dire se il suo naso fosse divenuto rosso. Credo che ella medesima se ne accorgesse perchè vi portava continuamente il fazzoletto, e perchè dopo quel giorno prese l’abitudine di spargervi sopra un leggero strato di polvere di cipro. L’impressione da lei prodotta sul capitano non fu la più lusinghiera. — Madamigella Elena è asmatica — egli mi disse — e soffia come un mantice. — Dal canto suo, anch’ella fu un po’ disillusa. — Ha la fama d’esser così amabile, così seducente — ella osservò: — io lo trovo assai freddo.
In complesso il capitano de Serges non fu per lungo tempo che un conoscente di più. Egli aveva acquistato una certa dimestichezza in casa mia, mostrava di discorrer meco volontieri, s’era fatte amiche in un giorno le mie alunne, e, se nel recarsi da me ne trovava qualcheduna per via, la carezzava, la prendeva in braccio e faceva rimaner la gente estatica per la sua degnazione. Questa sua simpatia per l’infanzia era prova d’animo gentile, ma forse era spinta a un punto da parer singolare in un soldato avvezzo a cingersi d’una doppia corazza d’indifferenza. Però io non gli domandavo spiegazioni; m’ero accorta che se egli amava talora di far confidenze, non [151] amava mai che gli venissero chieste. Comunque sia, nulla di particolare fra lui e me, nulla che uscisse dai limiti d’una discreta amicizia. Forse io avevo ravvisato in lui qualche aspetto agli altri sfuggito, qualche disuguaglianza di carattere, che, a parer mio, non gli nuoceva punto. Era questa la sola preferenza ch’ei mi accordasse e gliene ero più grata che di qualunque regalo. Se la maggior parte de’ suoi conoscenti lo aveva visto soltanto ridente e sereno, io avevo sorpreso qualche nube sulla sua fronte, egli non aveva arrossito a mostrarmisi diverso da quel ch’egli fosse nei suoi usati ritrovi. Io non sapevo sul suo conto più degli altri, ma sospettavo, indovinavo forse ciò di cui gli altri non avevano nemmeno un lontano presagio. In quella sua vita che si dipingeva come un seguito di trionfi, doveva certo esservi qualche pagina scura; qualche amaro disinganno doveva avergli aperto nel cuore una piaga tuttavia sanguinante. Ebbene; quel dire: Di cento che vedono quest’uomo ogni giorno, che lo vezzeggiano, che lo lusingano, che pendono dalle sue labbra, che si lasciano trasportare fra le sue braccia nel turbinio delle danze, non una forse ebbe un’idea, sia pur vaga e confusa, di tutto ciò, ed io invece l’ebbi, io che lo incontro [152] di rado, io che non sono bella, io che non iscambiai seco nè teneri sguardi, nè misteriose parole, era per me una cagione d’orgoglio, e (perchè non dovrei confessarlo?) di vanità segreta. Chi può dir quante forme vesta, e in quanti fra i più nobili istinti, fra i più gentili sentimenti sappia trovar posto la vanità?
Come rise mia madre un giorno ch’io le dissi: — Il capitano de Serges sembra impensierito nell’idea che possa ricominciare la guerra!
— Impensierito! Lui! Oh come si vede che lo conosci poco! Se per la guerra gli è nato fatto! Se gli ufficiali in tempo di pace sono come pesci fuori d’acqua! Ah carina! T’intendo. A te dispiacerebbe che il capitano partisse, e, per non dir le cose come stanno, attribuisci a lui il disgusto e la meraviglia della partenza. Glielo racconterò al Visconte, e ti terrà il broncio quando sentirà che vuoi farlo passare per un dappoco.... — Vedendo poi ch’io mi turbavo: — No, no, piccina — soggiunse in tuono carezzevole — sta tranquilla, non gli racconterò nulla.
— Via, mamma, vi prego — io risposi seria — non tenete questi discorsi che mi fanno male, io non parlo a caso, e se vi dissi ch’egli è impensierito per timor della guerra, vuol dire che lo so....
[153]
— Lo sai! — ella esclamò, diventando curiosa ad un tratto. — Narra, narra. Avrebbe forse qualche liaison seria? Ne raccontano tante! — E qui mi sciorinò i nomi d’una dozzina di gentildonne che facevano les yeux doux al capitano, chiedendomi con insistenza dopo ogni nome: — Sarebbe per questa? Sembra che tu sii la sua confidente, dunque dovresti saperlo.
Io ero sulle spine, ormai bell’e pentita di aver toccato quel tasto. Non so perchè tutte quelle supposizioni indiscrete di mia madre mi dessero noia infinita. Quantunque non appartenessi alla gran società, conoscevo abbastanza le sue abitudini per non iscandolezzarmene come una uscita appena di convento; era quindi qualche altra ragione che mi turbava e mi faceva sentire così a malincuore le voci sparse intorno agl’intrighi galanti del Visconte. Però che diritto avevo io d’ingerirmi ne’ fatti suoi; che posto potevo io sperare di tener nel suo cuore?
Ebbi un bel da fare a persuadere mia madre ch’io non sapevo nulla, ma che, a creder mio, se il capitano era impensierito lo si doveva attribuire non già ad una tresca amorosa, bensì a qualche altro motivo ch’egli teneva celato. Ella partì scrollando il capo e dicendomi: — Si vede che [154] nemmeno in questo mi rassomigli. Io quello che ho in cuore ho in bocca.
Dopo tutto, le parole di lei mi avevano lasciato una certa impressione, e io andavo persuadendomi realmente ch’ella avesse colto nel segno. Ciò aveva scemato la simpatia con la quale io spiavo ogni cambiamento d’umore di Gastone. Anch’egli si fece più riservato, e la sua inquietudine, benchè gli apparisse di tratto in tratto nel viso, non traspariva più da’ suoi discorsi.
Però, di lì a qualche settimana, mia madre, che aveva nel frattempo teso le sue reti, mi disse con grande solennità: — Tu avevi ragione. Non è possibile che il Visconte sia innamorato di nessuna delle persone ch’io ti aveva menzionate. Feci le mie indagini, e seppi che in molte case egli non va nemmeno più. Chi sa che cos’altro gli passi pel capo? Tutti dicono ch’egli va a poco a poco ritirandosi dalla società. Già questi Francesi sono tante piume.... Non fidartene, Maddalena — ella soggiunse ammonendo: — Non fidartene, bada per una volta alla mamma.
Ch’io volessi fidarmene o no, fui quel giorno di una insolita ilarità. A spiegarne il perchè sarei molto imbarazzata. Che il capitano amasse tutte le gentildonne veneziane, o che non ne amasse nessuna, doveva [155] esser per me la stessa cosa. Ma egli non amava sicuramente. Pure al cuore non si comanda, e come vi sono talvolta malinconie di cui non si può rendersi ragione, così vi sono contentezze inconcepibili a chi le prova. E poichè si danno giorni nei quali può dirsi che l’animo si rifiuti di ricevere le impressioni sfavorevoli, io non mi contristai nemmeno quando Giannina, in un tuono che voleva esser gajo, ma che nel fondo era pieno d’amarezza, mi disse: — Oh lo sa, padroncina, che le voci di guerra si vanno diffondendo in paese, e che il cursore ha detto in gran segretezza al fruttivendolo che i soldati in permesso saranno presto richiamati sotto le armi? Il fruttivendolo, avendo visto passare di là Paolo, lo chiamò per avvertirlo, e Paolo venne da me a confidarmelo tutto sconcertato, e a voler ch’io gli dessi un pajo di lire, parendogli che una tale notizia meritasse d’esser diluita entro un boccale di vino. In verità, io credo che Paolo starebbe bene per un po’ di tempo al reggimento, e non vedrei questo gran male se me lo levassero d’attorno. Ma dico per la cosa in sè. Che ne pensa lei, padroncina? Avremo la guerra sì o no? E non le pare che sarebbe tempo di finirla? E che la sia una bella infamia che la povera gente debba pagar le spese dei capricci [156] di quattro teste coronate? E che ogni momento, quando un padre non può più lavorare e conta sul figlio, glielo portino in capo al mondo, e se una ragazza è lì sul punto di maritarsi (non dico di me, che di Paolo ne son stucca e ristucca e ho tanta voglia di andare a nozze quanta di gettarmi in canale), ma, insomma, se una ragazza è alla vigilia di sposare il suo fidanzato, eccoti un foglio di carta bollata che lo chiama pel tal giorno e la tal ora al corpo e a rivederci al dì del giudizio. Sa che cosa le ho da dire? Che dopo tante rivoluzioni che lor signori han fatto, la povera gente sta peggio di prima, e questa è un’infamia in tutte le regole..... Parlo in generale, perchè del matrimonio non me ne importa un cavolo....
E mentre diceva così, si asciugava gli occhi col grembiale.
Io tentavo consolarla e persuaderla che la guerra non sarebbe poi avvenuta. Su questo proposito avevo io stessa un’opinione curiosa, suggeritami forse, come spesso accade, dal desiderio. Non volevo credere alla guerra, ma non mi doleva ch’ella apparisse come probabile. Nell’incalzare degli eventi, io pensavo, il capitano Gastone sarebbe uscito del suo riserbo, io sarei divenuta la sua confidente, io avrei potuto [157] fare qualche cosa per lui. Poi le nubi si sarebbero dissipate, non sarebbe rimasta che la dolcezza del pericolo sfuggito, e il soave legame delle nostre anime. Così, chi ben consideri, si risolvono quasi sempre i proponimenti eroici onde noi ci vantiamo. Si affronta con la fantasia il mare in burrasca, ma si pensa prima ad assicurarsi la riva.
— Non vedi, carina, — la signora Elena l’aveva spuntata e mi dava del tu — non vedi com’è malinconico stassera il Visconte? Io non so davvero se sia conveniente ch’io continui a venir da te nelle ore in cui posso incontrarlo. È chiaro, e la stessa sua riluttanza a rivolgermi la parola, lo prova, ch’egli vorrebbe farmi la corte. Ma io di questi spasimanti non ne vado in cerca, perchè non si riesce che a compromettersi. Gran brutto destino di noi altre povere donne! Se non si sta bene in guardia, una volta o l’altra ci colgono di sorpresa e allora patatrac.
[158]
Indi si fece fresco col fazzoletto per temperare i calori che le salivano alla testa...
Questo comico discorso, fattomi una sera dalla signora Elena, non ebbe altro effetto che di richiamar la mia attenzione sul capitano, il quale, malgrado i suoi sforzi per parer disinvolto, era realmente assai conturbato. Colsi un momento propizio per farmiglisi presso e per chiedergli: — Dunque, capitano, quali novelle?
— Eh! cara Maddalena, si parla più che mai della guerra.
— Son ciarle solite. Ci si è tanto abituati che non si sa divezzarsene — rispos’io. — Del resto, non sarebbe certo quest’idea che vi terrebbe soprappensiero.
— Una volta, no, adesso è altra cosa.
— Sentite, capitano — diss’io a voce bassa e commossa — io sono forse la più discreta, sono certo la meno compromettente delle vostre amiche. Se in nome di questa mia qualità, io vi pregassi di dirmi se posso far qualche cosa per voi, ve ne avreste a male?
— Buona Maddalena — egli rispose stringendomi la mano — nessuna è degna quanto voi delle mie confidenze.... E vi giuro che se dovrò dire ad anima viva quello che mi sta sul cuore, lo dirò a voi.... Ma oggi no.... sarebbe inutile.... sono tuttora perplesso.... [159] domani forse.... oh non sapete quanto bene mi abbiano fatto la vostre parole!
Lo fisai in volto. Una lagrima colava su quelle gote abbronzite, una commozione dolce e profonda era dipinta su quella faccia virile. Veder piangere un essere debole affligge, ma lo spettacolo del dolore là ove tutto spira forza ed energia conturba molto di più. Se chi è avvezzo a sorridere in mezzo al pericolo, a durar con fronte serena le privazioni ed i patimenti, si accascia sfiduciato, dev’esser ben grande la cura che lo rode e travaglia! Oh poter conoscere questo mistero, poter esser consolatrice di questo affanno, ecco qual era in quel momento il fine supremo dei miei desiderii. È l’ambizione delle brutte codesta!.... Oh se la si potesse sapere, se la si volesse scrivere la storia di tante donne brutte! Si vedrebbe quante piaghe esse abbiano risanato che le loro felici rivali hanno aperto!
Speravo di veder Gastone l’indomani, ma egli non venne nè quel dì, nè il dì appresso. Solo nel mattino del terzo giorno mi capitò un suo biglietto: — Cara Madamigella — egli mi scriveva — ho ricevuto l’ordine di andare al Lido con la mia compagnia. Staremo quindi alcune settimane, un paio di mesi forse senza vederci. Intanto addio, e grazie delle offerte del vostro cuor generoso.
[160]
La lettera mi parve molto arida, molto breve; certo non era quella ch’io m’attendevo. Temetti che anche l’annunzio del suo trasloco al Lido fosse un pretesto per sottrarsi a confidenze che gli pesavano, e mi sorse nell’animo il dubbio di essere stata indiscreta. Però non tardai ad aver da mia madre la conferma della partenza del capitano. — Il prossimo carnevale — ella mi disse; eravamo allora nel dicembre 1811 — il Visconte de Serges lo passerà tra l’insalata delle nostre isole. Bel divertimento! Ti confesso però ch’egli era divenuto così ottuso da non render punto gradevole la sua compagnia. Pare impossibile come si sia cambiato da un punto all’altro quell’uomo! Già io l’ho sempre detto che i Francesi son matti.... A proposito. E questa guerra c’è o non c’è? Mio marito, che, come sai, bazzica coi grandi, dice sempre che si vedranno cose non più vedute, e che non si può presagire fin dove porteremo le nostre aquile. Vale a dire fin dove le porteranno, chè certo nè lui, nè io vi ci immischieremo. Venanzio, poi, gli è un coniglio.... Ah! ora mi rammento. Voleva dirti un’altra cosa. Sai di quelle nostre magnifiche biblioteche intagliate dal Brostolon. Le son sempre vuote. Mi è venuta l’idea, bada, è venuta a me e non ad altri, che ti potessero [161] convenire. Tu leggi tanto, hai tanti libri! Noi invece.... lo sai, la non fu mai la nostra passione.... Cosicchè, prima di discorrere con alcuno, ne faccio la proposta a te. Sarebbe facilissimo intendersi....
Queste parole significavano per me l’avverarsi del presagio dello zio Baldassare. — Avete adunque imbarazzi finanziari, mamma? — interruppi.
Ella si meravigliò, e mi rispose: — Che grilli ti passano pel capo? Imbarazzati noi? Con Venanzio, che è un amministratore di quella specie, un amministratore che prima di sposarmi aveva messo in sesto due o tre patrimonii rovinati.
— Badate, mamma, che si dice tutto all’opposto.
— Ah! sicuro, ognuno ha i suoi nemici, e Venanzio ne ha più degli altri. Ma le cose sono quali le dico io, non quali le si dipingono dai chiacchieroni della bottega di caffè. Del resto, quanto a noi, grazie al cielo, si nuota nell’abbondanza. E se non vuoi saperne dell’affare che ti ho proposto, non parliamone più....
Povera mamma! Sempre così spensierata.
Invero c’era più da compiangerla che da rimproverarla. Misurai con l’occhio l’altezza delle mie stanze. Le biblioteche ci sarebbero state forse, ma a gran fatica. Nondimeno [162] accolsi la massima dell’acquisto, deliberata d’informarmi intanto dal mio notajo se vi fossero guai serii nelle faccende di mia madre. Io già presentivo che la catastrofe non doveva essere troppo lontana. Se non vi fosse stato che il signor Venanzio di mezzo, avrei assistito con voluttà fredda e crudele alla sua caduta; ma c’era anche colei che, quali fossero i suoi torti, mi aveva data la vita. Potevo essere indifferente al suo destino?
Il giorno medesimo in cui mi si era fitta nel cuore questa nuova spina, la mia cameriera mi comparve dinanzi con due buccole d’oro ch’io non le avevo mai visto prima.
— Il tuo sposo è diventato prodigo? io le dissi.
— Il mio sposo! Mi canzona? È un regalo; indovini di chi?
— Come vuoi ch’io m’immagini?
— Di sua mamma, sua eccellenza la signora Lucietta.
Beata imprevidenza! Forse alla vigilia d’un disastro, mia madre profondeva i suoi doni come ne’ tempi della sua maggiore ricchezza.
Circa alla guerra, nulla di nuovo. Per lunghe settimane fu una continua alternativa di sì e di no. Paolo non era stato ancora [163] chiamato sotto le armi, ma diceva che quell’incertezza era peggiore di tutto, e per confortarsi si ubbriacava ogni sera a spese della sua fidanzata. Quand’era brillo, diventava estremamente bellicoso e proclamava in tuono solenne ch’era assai meglio andare in battaglia che a nozze. — Spendo pur bene i miei denari — rifletteva Giannina, con quel suo fare burlesco, sotto cui era celato un tesoro d’affetto e di sacrifizio. — Quand’è sincero è stolido, quando è ubbriaco è villano.
Intanto Gastone non si faceva vivo. Non un’ambasciata, non una riga. Forse egli sarebbe partito da un’ora all’altra senza dirmi una parola, senza mandarmi un saluto, forse non lo avrei più visto. Non so esprimere il male che mi faceva questo pensiero. La mortificazione, il dispetto di vedermi trascurata erano un nonnulla al confronto del dolore di non vederlo più. Io non ero niente per lui, ma, era ormai inutile che lo dissimulassi, egli era molto per me. Oh! quanto io ero infelice. Giannina se ne accorgeva, e cercava consolarmi con certi argomenti tutti suoi. Ella mi diceva, tra l’altre cose, che gli uomini non capitano pei versi a noi donne che quando hanno bisogno di noi, e che se il capitano, come aveva lasciato trapelare da’ suoi discorsi, contava sul mio ajuto [164] per qualche cosa, stessi pur sicura ch’egli sarebbe venuto a galla.
Così passò buona parte del carnovale 1812, e si può immaginarsi che carnovale fosse per me. Aliena sempre dai teatri, dai ridotti, dai balli, quell’anno condussi una vita claustrale. Non una volta alla Fenice, non una sera in piazza San Marco. Mi giungeva appena l’eco dell’allegria popolare, clamorosa in quell’anno forse più del consueto, udivo nella notte il canto di qualche maschera avvinazzata o il sibilo dei fischietti, delizia dei monelli veneziani. Mia madre, per iscarico di coscienza, mi aveva invitata a non so quante feste, e aveva fatto le solite meraviglie ch’io, ricca com’ero, giovane e nobile per parte di lei, mi ostinassi a vivere come una cittadina qualunque, e per peggio lasciassi sfuggirmi tutte le occasioni di cospicui matrimonii. — Sei sempre stata un cervellino — ella concludeva — ma adesso ci dev’essere qualcosa sotto, e scommetto che quel famoso capitano ti ha stregata.
Una mattina del febbraio Giannina comparve nella mia camera per tempissimo. Ella era pallida e con la faccia sconvolta.
— Paolo parte stassera — ella esclamò coprendosi il volto con le mani, e, pronunziate appena queste parole, ruppe in un pianto dirotto.
[165]
Si dice che i mali previsti riescono meno penosi. È una verità che patisce di molte eccezioni. L’anima nostra è fatta in guisa che ai timori alterna sempre le speranze. Così non accade quasi mai che si tema per lungo tempo una sventura senza sperar ch’ella non accada, e in questa vicenda di pessimismo e d’ottimismo si forma l’equilibrio a cui l’anima si avvezza. Ma quando la sventura succede, l’equilibrio si sfascia, non si ricordano più i timori, si ricordano le speranze sì a lungo nudrite....
E la povera Giannina ne faceva duro esperimento. Ella aveva scherzato le mille volte, la pazzerella, sulla partenza del suo fidanzato, aveva mostrato non solo di rassegnarvisi, ma di esserne lieta come di cosa che la liberava da una seccatura. In tal guisa ella aveva esaurito tutta la sua forza di resistenza, e ora, sotto il colpo, stava accasciata senza dir parola.
A me pure l’annunzio di Giannina aveva fatto gelare il sangue. Se Paolo partiva, voleva dire che stava per avverarsi ciò che già si era predetto; tutta la guarnigione di Venezia (meno uno o due battaglioni di deposito) era chiamata a Verona per mover di là verso incognita meta. Non bastava la guerra, ormai cronica, di Spagna. Ce n’era in serbo un’altra più grossa. Il capitano [166] Gastone era sicuramente sul punto di lasciar Venezia. O forse l’aveva lasciata! Senza venire da me! Senza rivelarmi il segreto di cui dovevo esser la confidente! Senza immaginar forse ch’io l’amavo, oh sì l’amavo, è vano dissimularlo, e l’amavo più di tutte le altre che gli avevano sussurrato all’orecchio dolci parole, perchè io non pretendevo ricambio all’amor mio, perchè ero rassegnata a chiuder in me stessa i miei spasimi, le mie gelosie, pur di avere un posto ne’ suoi pensieri.
— Meglio esser come te, Giannina — io dicevo, rotto ormai ogni ritegno. — L’uomo che ami parte, ma sei tu che gli dai l’ultimo addio, sei tu che gli fai le ultime raccomandazioni, egli parte riamandoti, ma l’uomo pel quale sento che darei la vita, nemmeno si ricorda ch’io esista, e forse adesso si ride di questa povera donna così ingenua da riscaldarsi il sangue da sola.
Tutto ponderato però, nemmeno la sorte di Giannina era invidiabile.
Paolo, che aveva vestito la divisa militare, venne più tardi ad accomiatarsi da me, e in verità egli non mi pareva tal cavaliere da fare insuperbire la sua dama. Era sempre stata una strana cosa che Giannina se ne fosse innamorata, e lo spettacolo ch’egli dava di sè in quel momento era assai [167] poco decoroso. Quello zotico scimunito, in occasione della partenza, aveva alzato il gomito più del consueto, e non si reggeva in piedi che mutando posizione ad ogni istante per ristabilir l’equilibrio. Ma come gli accadeva sempre quand’aveva bevuto, era arditissimo, e annunciava alla sua bella prodezze memorabili da disgradarne quelle di Rodomonte e d’Orlando.
— Dicono che ci sia la guerra col Russo — egli borbottava: — Oh l’avranno da far con me. L’autocrata delle Russie io gli tiro il collo come se fosse un pollastro. Oh la dev’essere bella! E se vi sarà la guerra con la Russia, non avremo con noi la Turchia?.... Voglio andare a Costantinopoli. Viva il Gran Turco! Viva le donne turche!.... Scusa Giannina, non è per farti torto, ma le donne del serraglio voglio vederle.... Però sempre col dovuto rispetto.... Il buon guerriero non manca di fede alla sua donna. E tu sei quella.... E dopo la guerra si faranno le nozze, con l’intervento della signora Maddalena, che anche lei si sarà sposata in quel tempo.... Viva gli sposi!
Mentre egli farneticava così, la buona Giannina aveva nascosto la faccia nelle palme, e voltatasi verso la parete e a quella appoggiata la fronte, piangeva a calde lagrime. [168] Allorchè egli si mosse, ella lo seguì col capo chino, ponendogli la mano sulla spalla, mentr’egli diceva: — Donne, sempre donne! Timide come conigli e lagrimose come vitelli! Forza, perdio, e specchiatevi nel mio esempio!
Mi accorsi ch’ella non aveva più all’orecchio le belle buccole, dono di mia madre, e, come seppi dipoi, ella aveva impegnato oltre a queste anche quelle che io le avea regalate, e dato fondo a buona parte delle sue economie affine di raggranellare un piccolo peculio pel suo Paolo. Poveretta!
Erano le tre, ed io stavo sola nel mio salottino con un libro aperto dinanzi a me, del quale non mi riusciva di leggere una parola, giacchè ad ogni tratto gli occhi mi si offuscavano e io dovevo far forza a me stessa per non iscoppiare in un pianto dirotto. Pensavo al sogno che m’era balenato un istante alla fantasia e che si dileguava così. Pensavo alla mia giovinezza omai volgente al tramonto senza una lieta memoria, senza una dolce speranza, e mi dolevo meco medesima che poichè Dio non m’aveva concesso nè la grazia, nè la bellezza ch’egli profonde a tante donne, egli mi avesse dato un cuore capace d’affetto, un’anima assetata di gentili emozioni. Che mi giova esser ricca, io dicevo fra me, che mi giova [169] vivere ormai se nulla mi lega alla terra? Chi ha bisogno di me? Mia madre corre alla sua rovina, ma sul fatale sentiero ella trova la gioia e la pace dello spirito; a pormi sul suo cammino non riuscirei ad arrestare i suoi passi, ma soltanto ad affrettarle l’ora terribile del disinganno. Le mie picciole amiche del vicinato, le mie alunne si sarebbero data pace fra poco; d’altronde, non avevo io modo, se fossi morta, di lasciar loro l’agiatezza? Anche Giannina, la buona Giannina, che pur mi avrebbe pianto di lagrime sì calde e sincere, non potevo io farla ricca, non potevo mutare i suoi destini piuttosto lasciandola erede di parte delle mie sostanze che vivendo daccanto a lei?
Un colpo bussato al portone mi tolse a queste lugubri fantasie di suicida. Balzai in piedi, tesi l’orecchio, mi rasciugai le lagrime, mi ravviai i capelli sul fronte, diedi un’occhiata allo specchio, tutto nel volger di pochi secondi. Era desso, era il suo passo, la sua voce.
Prima che Giannina o altri fra i domestici lo annunziasse, egli aveva spalancato l’uscio ed era dinanzi a me.
— Maddalena! — egli esclamò.
Io dovevo tenermi alla spalliera della seggiola per non cadere. Egli accorse, e mi sostenne.
[170]
— Che avete, Maddalena? — egli disse parendo sorpreso della mia commozione.
Non ebbi che la forza di chiedere: — Partite?
— Questa notte — egli rispose. — Oggi soltanto potei ottenere licenza per qualche ora.... Ma, per carità, Maddalena, che avete? Siete così turbata ch’io non mi sento nemmeno il coraggio di parlarvi d’un affare mio, d’un affare che mi sta tanto a cuore!
Queste parole produssero in me una vera trasformazione. Era dunque giunto il momento in cui sarei stata messa a parte dei suoi pensieri, in cui avrei potuto provargli quanto più fida amica gli fossi delle beltà lusinghiere ch’egli incontrava nelle sale patrizie. Ricomposi il volto alla calma, mi sforzai di sorridere, e ripresi il mio posto invitandolo a sedere.
— Oh se sapeste, Maddalena — egli ripigliò a dire — volevo scrivervi, ma fino a ieri non seppi risolvermi ad alcun partito. Mi ascolterete voi con animo benevolo? Mi perdonerete se, pochi mesi addietro, a voi estraneo del tutto, oso chiedervi oggi ciò che si chiederebbe appena ad una sorella?
— Parlate, Gastone: — io sclamai — parlate per amor del cielo. Tutto quello che può fare una donna — fui sul punto [171] di dire una sorella, ma non so perchè la parola non volle uscirmi dal labbro — tutto quello che può fare una donna che vi è sinceramente affezionata, ve lo giuro, io farò.
— Egli mi prese vivamente la mano, e la portò alla bocca coprendola di baci.
— Grazie, Maddalena, grazie.
— Non è una storia lieta, o Maddalena, quella ch’io sono per raccontarvi — cominciò il capitano — non è nemmeno una di quelle storie che si narrino solitamente alle giovanette. Pure, come potrei ricorrere alla vostra bontà, dissimulando il vero o dicendolo a mezzo?
Quattro anni fa, io ero di guarnigione in Verona. Ero giovane, allegro, e, sotto alcuni rispetti, assai poco scrupoloso. Venivo di Spagna, ove avevo durato fatiche e corso pericoli senza numero, e non mi pareva vero di occupare ormai negli spassi galanti il tempo ch’io avevo impiegato fino allora ad ammazzare e a rischiar di farmi [172] ammazzare. Menai una vita dissipata, che non intendo descrivervi e della quale non ho punto ragione di andar superbo. Tuttavia le mie avventure nel mondo elegante non ebbero altre conseguenze che di qualche colpo di sciabola dato o ricevuto, ciocchè per un militare si chiama uscirne assai a buon mercato. Gl’imbarazzi dovevano nascere ov’io me li sarei meno aspettati. Dimorava vicino alla casa ov’io ero d’alloggio una fanciulla del popolo, orfana d’ambo i genitori, e rimasta in cura a due lontani parenti, marito e moglie, gente senza pudore e senza coscienza. Ella era bellissima, e aveva inoltre un fare ingenuo e verginale che contrastava singolarmente con la sfacciataggine de’ suoi ospiti. Appariva manifesto che quegli sciagurati miravano a trar partito dall’avvenenza di lei, e poich’ella non s’acconciava ai loro voleri, le facevano subire mille maltrattamenti. La poveretta andava ogni mattina al suo lavoro cogli occhi gonfii di lagrime, e ne tornava ogni sera con lo sgomento dipinto sul viso, per gli amari rimbrotti, per le ciniche proposte che l’attendevano nel tetto domestico. Pur nè i segni del pianto, nè l’ansietà che corrugava la sua fronte di sedici anni toglievano alla sua bellezza. O piuttosto anzi ell’era, nella sua malinconia, più seducente. [173] Accadde una volta ch’io sentissi scagliarsi un nugolo d’impropérii contro la giovinetta, nè questa era cosa nuova. Però agl’improperii successero le minaccie, e udii, o mi parve, la voce della fanciulla che chiamava aiuto. Obbedendo agl’impulsi dell’umanità, fui d’un salto in istrada, non ebbi che a spinger con forza la porta contigua alla mia, e fatto pochi gradini di legno, mi trovai in una stanza sudicia e affumicata, ove un omaccione teneva per ambe le braccia l’Emilia (era questo il nome della ragazza), mentre una donna piuttosto attempata, dall’aspetto di megèra, le menava spietatamente schiaffi e pugni sul viso. Un bellimbusto tutto odorato di muschio se ne stava in un angolo, dicendo con voce melliflua e sottile: — Fate piano, è meglio andar con le buone. — Al mio comparire il giovinotto se la svignò rapidissimo, e i degni coniugi lasciarono la loro vittima e rimasero immobili, allibiti. Non so che sarebbe accaduto di loro se la fanciulla, rasciugandosi la bocca sanguinolenta, non si fosse interposta, e non mi avesse scongiurato di risparmiarli. Tuttavia non mi mossi di là senz’aver prima dichiarato che al rinnovellarsi di una scena simile le cose non sarebbero passate sì lisce, e che chi avesse posto le mani addosso all’Emilia [174] l’avrebbe avuta da far con me. Sotto l’aspetto contrito delle due creature abbiette e vilissime che mostravano di non aver più sangue nelle vene per la paura, si sarebbe forse potuto scorgere un risolino beffardo, a cui allora non posi mente, ma che mi tornò poscia più volte al pensiero come il presagio di ciò che doveva succedere. L’istinto perverso rendeva indovine quelle anime prave. L’ufficiale apparso così in buon punto come nemico avrebbe finito coll’essere un efficace alleato. Ciò che essi volevano che avvenisse della loro Emilia, sarebbe avvenuto. Io credevo di averla salvata e l’avevo perduta.... Non fu d’altri, fu mia. Con che arti ingannassi la sua buona fede, con che menzognere promesse vincessi la sua ritrosia, io non ve lo dirò, o Maddalena. Ho già troppo parlato. La è una brutta pagina della mia vita, nè il seguito della mia narrazione basterà a scancellarla. La fanciulla aveva un presentimento della sua caduta; pur non disperava ancora di me, pur non sapeva ancor persuadersi che l’uomo il quale l’aveva difesa contro coloro che volevano trascinarla alla colpa, ve l’avesse trascinata egli stesso per lasciarla nel fango.
Affrettiamo il racconto. Quando, irresistibile come la marea che sale, il tedio [175] andava impadronendosi di me, ella mi disse che si sentiva madre. Nel darmi questa nuova il suo sguardo dolce e profondo mi ricercò con sì trepida ansietà i moti del volto ch’io seppi nascondere l’impressione sgradita che la sue parole mi avevano fatto, e volsi il discorso alle cure che le erano imposte dalla sua nuova condizione. E, invero, ella era ormai gracilissima, e, se non l’affetto, l’umanità voleva che le si usasse ogni cortese riguardo. Malcontento di me, ora per aver cominciato quella tresca, ora per non averla saputa finire a tempo, io vedevo che un pensiero le logorava la vita, il pensiero dell’avvenire serbato alla sua creatura. Nè io ero in grado di darle quei conforti, che, soli, sarebbero riusciti efficaci. Per sottrarmi alle noie de’ suoi venali parenti avevo un mezzo infallibile, per consolar lei avrei dovuto parlarle d’un amore che più non sentivo, rinnovarle promesse, che, a mente fredda, mi sarebbero sembrate ipocrisie imperdonabili. Le mezze virtù, o Maddalena, di rado ispirano qualche cosa di buono, e quando non si sappia essere onesti davvero poco frutta non voler essere ipocriti....
E la povera Emilia, di mano in mano che si avvicinava il giorno che avrebbe posto il suggello alla sua vergogna, diveniva [176] più inquieta, più angosciata; strani terrori le assalivano lo spirito; tutte le sue antiche ritrosie di fanciulla, tutti quegli istinti pudichi che l’avevano difesa sì a lungo contro le insidie de’ suoi turpi congiunti, e ch’io avevo saputo vincere con fallaci lusinghe, si ridestavano adesso più gagliardi che mai. Erano stati un tempo il suo tesoro, erano adesso il suo tormento. Invano io le avevo promesso che il suo bambino non le sarebbe stato tolto dal fianco, che nè a lei, nè ad esso alcuna cosa sarebbe mancata; invano avevo tentato di farle brillare dinanzi agli occhi il sogno d’un tranquillo avvenire. Accasciata, con le braccia intrecciate, con le pupille fise a terra senza lagrime, la si sarebbe detta la statua della desolazione. Così affievolita di membra e di spirito, ella subì la prova fatale a tante donne. Quando fui chiamato al suo letto, vidi una gracile creaturina che dormiva entro una cuna, e lei, quella Emilia già così florida e bella, ridotta del color della cenere e coi segni della morte sul viso. Ebbene, o Maddalena, la morte io l’avevo vista mille volte sul campo senza sgomento, l’avevo recata io stesso con la mia spada senza rimorso, ma vederla su quella faccia innocente, su quella fronte ond’io avevo macchiato il candore, ma pensare che quella [177] tragedia si compiva per cagion mia, era tal cosa da soverchiar le mie forze. Mi chinai sul suo guanciale, baciai le sue labbra ardenti dalla febbre, e in mezzo alle lagrime le chiesi che potessi fare per espiar la mia colpa. Ed ella, già così timida, ella che non mi aveva mai chiesto nulla al mondo, resa audace dal fuggir della vita: — Oh Gastone — esclamò — se è vero che mi avete voluto bene — salvatemi dalla collera del Signore, date un nome a quella povera innocente della vostra figliuola;.... fra poche ore sarete libero nuovamente.... sposatemi....
Trasognato mi guardai intorno. Non v’era che il medico in un canto, il quale fece un gesto che voleva dire: — Accontentatela, ella muore. — La richiesta che mi sarebbe parsa folle in altro momento, e a cui, lo confesso, non avrei risposto che scrollando le spalle se Emilia mi fosse stata davanti vegeta e sana, pronunciata in quell’ora, in quel luogo, mi suonò nell’anima come una voce più che terrena, scosse ogni mia fibra, domò ogni mia forza di resistenza, e il cinico don Giovanni d’un tempo non sentì che il bisogno di riparare al suo fallo. Abbreviamo una scena straziante. Prima di sera le formalità necessarie furono compiute, prima di sera Emilia fu mia sposa, prima [178] di sera morì con un sorriso beato sul labbro, e pregando che l’anello nuziale scendesse con lei nella tomba. Ma il matrimonio doveva rimaner segreto, e rimase. Noi uomini siam fatti così. La mia colpa, o, come la chiamavano i miei camerati, la mia buona fortuna fu nota a tutti; nessuno, all’infuori del medico e del mio colonnello (che oggi è in Ispagna), seppe in qual modo io avessi tentato lavarne la macchia. Nessuno suppose che alla povera popolana, divenuta madre a prezzo della sua vita, io avessi dato il mio nome, nessuno suppose che la creatura nata da lei non avesse accresciuto il numero dei trovatelli. Compiangetemi, o Maddalena. Non avevo avuto rossore del vizio, avevo rossore della virtù.
— Voi siete un nobile cuore, o Gastone — io interruppi. — Se non aveste il coraggio di confessare il bene, aveste quello, assai più efficace, di farlo.
Egli non mi rispose, e continuò. — In quartiere mi dicevano: l’avventura è finita un po’ tragicamente. Bisognava troncarla prima. — E qualcheduno soggiungeva: — Con queste benedette artigianelle non bisogna ingerirsi. Nell’alta società sanno più il viver del mondo, e non ci si attaccano ai panni in questa maniera. — Ma poi ripigliavano tutti in coro: — A ogni modo [179] son cose che nascono, e non bisogna poi darsi alla disperazione per così poco. — Io proibii che mi si discorresse mai più di questa faccenda, e poichè non la si voleva terminare, con un bel duello imposi silenzio ai motteggiatori. — Corsero più mesi prima che si risvegliasse in me il sentimento della paternità. Fanny (la si era battezzata con questo nome) mi ricordava un episodio che io avrei voluto dimenticare, e oltreacciò ella era il punto debole del mio segreto, ella era destinata a rivelare quella che mi pareva a vicenda una generosità e una debolezza. Perciò io la guardai per qualche tempo con una freddezza non scevra di dispetto, e le mie visite alla casa ov’io l’avevo affidata alle cure di una buona nutrice erano scarse, brevi, furtive. Tuttavia, di mano in mano ch’ella cresceva e mi sembrava che le sue labbra cominciassero a sorridere, e i suoi occhietti a fissarsi sopra di me in atto di conoscermi, un potere irresistibile mi richiamava più spesso vicino a lei. Avevo tentato di riprendere la mia vita elegante, e non c’ero riuscito che a mezzo. A riempire il vuoto del mio cuore, a dissipare il tedio del mio spirito, a poco a poco non c’era per me che una via: andare dalla piccola Fanny. Qualche volta, a metà d’una festa, oppresso, infastidito, io [180] lasciavo improvvisamente la sala, e correvo alla modesta dimora della mia bambina. Queste mie visite notturne non disturbavano nessuno; io avevo la chiave di casa, entravo per lo più non inteso, non visto. Mi assidevo presso alla sua cuna, porgevo l’orecchio al suo lieve respiro, contemplavo in silenzio il suo volto leggiadro rischiarato dai raggi incerti e tremolanti d’un lumicino da notte. Indi, deposto un bacio sulla sua fronte serena, uscivo più tranquillo, più calmo. Mi pareva come d’aver preso una boccata d’aria pura. Che cosa v’è di bello nell’aria? Nulla, ma s’ella manca, si muore. Così, fra il lezzo di passioni e di piaceri volgari, l’anima affoga se non la ricrea un affetto casto e verecondo. Malgrado di ciò, credete voi forse ch’io abbia scacciato lungi da me i falsi ritegni? Ch’io abbia finalmente sollevato il velo che copriva quella parte della mia storia? No, o Maddalena. Alla luce di cento doppieri si entra nell’alcova della cortigiana; nell’ombra della notte, calcandosi in testa il cappello, e avvolgendosi il ferraiuolo intorno alla persona, si move verso la culla della propria figliuola. L’ordine di trasferirmi a Venezia col mio reggimento venne in buon punto per istornar le ricerche de’ miei conoscenti di Verona, che avevano già cominciato a sospettare di [181] qualche cosa. Fanny, che aveva passato l’anno ed era già svezzata, mi seguì con la sua nutrice, che, giunta qui, licenziai per sostituirle una giovane assai buona e amorevole, che ho ragion di credere non sappia nemmeno esattamente il mio nome. Trovai alloggio alla mia bambina in un sito remoto di Venezia presso una vedova tedesca, la quale vive da sola, e così da circa due anni, visitandola quasi ogni giorno, me la vidi crescer vicino, e diventar sempre più bella, e gioconda, e necessaria alla mia felicità. Anche qui ebbi aperte tutte le porte dell’aristocrazia, anche qui cominciai a slanciarmi nelle facili avventure. Fatica gettata! La calma del mio spirito se n’era ita, o, per meglio dire, io non la ritrovavo che presso alla mia bambina. Ora voi capite, Maddalena, con che animo io sentissi le voci di guerra che tornavano a spargersi. Fui sorpreso sulle prime di trovarmi così dissimile da quel ch’io m’ero una volta, quando, come il cavallo allo squillar delle trombe, io fremevo di gioia all’avvicinarsi del pericolo. Fui sorpreso di non sentirmi più nè acceso dall’amor della gloria, nè infiammato dai sogni dell’ambizione. Altri pensieri, altre cure. In fondo al mio cuore, mal noto a sè stesso, s’era andato formando a poco a poco un [182] nuovo ideale, l’ideale cioè d’una vita tranquilla in cui potessi godere le gioie modeste che a tanta parte degli uomini son pure concesse. Ed ecco lacerarsi la tela delle mie fantasie. Eccomi slanciato in alto mare quando avevo più bisogno del porto. E, innanzi tutto, potete crederlo, la mia mente corse a Fanny. Che avverrebbe di lei? A chi affidarla? E, ve lo giuro, stetti a luogo perplesso, s’io non dovessi scrivere a mia madre, dirle tutta quanta la verità, e consegnare a lei la bambina. Non seppi risolvermivi senz’aver prima fatto un altro tentativo. Il giorno, in cui mia madre saprà tutto, sarà un gran dolore per lei; non voglio che questo dolore si aggiunga a quello che sarà già gravissimo di sapermi partito per una nuova campagna. Oltreacciò, io non so se sarebbe prudente di avventurare oggi a un lungo viaggio la fanciulletta, di farle cambiare abitudini, mentre non è peranco impossibile ch’io ritorni, e vinti gli scrupoli vergognosi e ridicoli, mi sia dato prenderla meco e provvedere io stesso alla sua educazione. Or bene, quand’ebbi accolta l’idea di lasciar Fanny per ora in Venezia, pensai che una sola persona potrebbe vigilarla con affetto di sorella e di madre, una persona che io avevo veduta cercar nelle cure affettuose verso [183] l’infanzia un conforto all’isolamento del suo cuore. Quella persona siete voi, o Maddalena, voi sola. Come una brillante fantasmagoria si è dileguato tutto il resto che mi era parso bello in Venezia; voi siete rimasta. E io supplico voi, non già che prendiate in casa vostra la piccola Fanny, chè dov’ella è può rimanere, e le ho già pagato la pensione di un anno; ma che non isdegniate di vederla sovente, d’invigilarla, di farmene avere, fin che sia possibile, le nuove, di tenerle viva la memoria di suo padre.... E vi supplico anche che udiate oggi questi miei desiderii che forse saranno gli ultimi. Due cose possono accadere, o Maddalena. O che, chiamata ad altri destini prima del mio ritorno, voi dobbiate pensare ad una famiglia vostra, nè certo Fanny può essere un ostacolo alla vostra felicità; oppure che io muoia.... Non vi turbate, amica mia. Chi va alla guerra deve aspettarselo. Ma sì nell’uno che nell’altro caso bramo che Fanny sia restituita ai miei. Nel piego che vi lascio è una lettera pel mio notaio, la quale contiene la fede di nascita della fanciulla, il certificato del mio matrimonio e il mio testamento, in cui nomino erede Fanny della maggior parte della mia sostanza. Maddalena, per quello che avete di più caro al mondo, non mi negate [184] ciò che imploro da voi. Ditemi che, finchè non sarete stretta da più sacri doveri, o finchè non vi giunga la notizia della mia morte, voi non priverete Fanny delle vostre cura pietose, e che quand’anche accadesse uno dei due fatti pei quali dovreste spedire la lettera al suo indirizzo, non vi scosterete dalla povera orfana finch’ella non sia in altre mani fidate.
Com’ebbe conchiuso il suo dire, Gastone stette immobile a guardarmi in atto di trepida aspettazione. Il battito delle sue tempia rendeva testimonianza dell’ansietà del suo animo.
Non saprei esprimere ciò ch’io avessi provato durante questo racconto. Perchè negarlo? Fu in principio una specie di disinganno, fu qualche cosa di diverso da quello ch’io m’aspettavo; ma a poco a poco mi parve come se il mio affetto per Gastone andasse via via sgombrandosi di tutto ciò che non era casto e purissimo, e, invece della tempesta presunta, sentii corrermi le fibre una mite e dolce emozione. E fu appunto questa emozione così nuova e inattesa che mi tenne perplessa un momento, quantunque io fossi già vinta prima ch’egli terminasse. Ma fu una sospensione di pochi secondi, ed esclamai vivamente; porgendo la mano a Gastone — Accetto.
[185]
Non dimenticherò mai com’egli si trasfigurasse a queste parole. Quando un soffio improvviso spazza le nubi che velano il sole, l’effetto non è più rapido e subitaneo. Io avevo dinnanzi a me un altr’uomo. La sua fronte si era spianata, i suoi occhi erano inondati di lagrime, ma traverso quelle lagrime sfavillava la gioia.
Mentre in una mano egli teneva stretta la mia, tolse con l’altra di tasca un grosso piego, e me lo consegnò, dicendomi: — Ecco qui, o Maddalena, la storia de’ miei ultimi anni. Uditemi, non ho che un desiderio, e potete credermi, poichè è un momento solenne questo in cui parlo, non ho che un desiderio, ed è quello di poter provarvi un giorno quanto sia grande la mia riconoscenza.... Se la sorte mi concede di venir io stesso a ridomandarvi il mio sacro deposito, voi lo saprete allora, o buona, o soave Maddalena.... Oggi io non sono padrone del domani, oggi non ho diritto nè di fare, nè di chieder promesse....
Era troppo. In quegli accenti v’era una dolcezza quale io non avevo ancora, nonchè sentita, immaginata nel mondo. Era una speranza che illuminava per me tutto l’avvenire.
— Oh Gastone! — sclamai con voce rotta dai singhiozzi. — Non parlate così, non [186] parlate così. Giurarvi fede sino alla tomba, oltre alla tomba, esser vostra a malgrado della distanza, a malgrado del tempo, sarebbe troppa felicità. Ma non è, non può essere che un sogno.... Ben altri cuori palpiteranno per voi, ben altri occhi lagrimeranno durante la vostra assenza.....
— Nessun cuore come il tuo, nessuna pupilla come la tua casta e amorosa — egli proruppe, cingendomi delle sue braccia e baciandomi in fronte.
Fu un secondo, fu un minuto, fu un’ora? Non so. So che quel bacio l’ho qui, che lo sento ancora fra le rughe della mia fronte, so che nell’anima mi echeggia ancora la musica della sua voce.
················
La giornata piegava al suo termine. Era giunto il momento di separarsi. Gastone partiva quella sera medesima. Egli mi diede l’esatta indicazione della casa in cui albergava sua figlia; quindi, nel prender commiato, mi chiese: — Non volete ch’io porti meco un ricordo vostro?
In uno dei vasi ch’io tenevo nel mio salotto, erano due bianche camelie appena sbocciate. Ne svelsi una e gliela offersi.
Egli la baciò e la nascose nel petto. Disse poi: — Lasciate ch’io spicchi l’altra — e com’ebbi assentito alla sua domanda: — Questa [187] tenetela per memoria mia; e così, in questo salotto medesimo, ci sia dato mostrarci ancora le due camelie appassite, prima che la nostra pianta nuovamente fiorisca.
Fece un moto rapido della persona, scosse il capo come a scacciarne i tristi pensieri, e riacquistala tutta la marziale imponenza dell’aspetto: — Addio, Maddalena — egli esclamò — io m’affido in voi, e il cielo vi benedica.
La sciabola urtando sul pavimento mandò un suono stridulo, l’uscio si richiuse, la cara visione scomparve. Volevo parlare, volevo corrergli dietro, volevo dirgli un’altra volta che per meritarmi il suo amore avrei data la vita, ma le mie forze erano stremate, e caddi sopra una sedia. Quando mi risentii, vidi Giannina curvata sopra di me.
— Padroncina — ella disse — si sente male?
— Oh buona Giannina! — proruppi gettandole le braccia al collo — Io non credevo che si potesse essere a un tempo così felici e così miseri com’io sono in questo momento. Egli è partito.... forse non lo vedrò più.... ma mi ama, e mi ha confidato la cosa più sacra ch’egli abbia al mondo.... sua figlia.
[188]
In quel punto mi si annunziò un servo di mia madre.
— Sua Eccellenza la signora Lucietta — disse il nuovo venuto — mi manda a chiederle s’ella avesse una camelia bianca da darle pel teatro di questa sera.
Una camelia bianca! Ce n’era una, ma ell’era sul mio seno, custodita ormai come una sacra reliquia, e le mie mani corsero al luogo ov’io l’avevo nascosta, quasi per tema che si volesse rapirmela. E mi parve che i suoi freddi petali ardessero in quel momento come il cuore di cui sentivano i battiti.
················
Tutto il dopopranzo, fino all’ora della ritirata, le vie di Venezia furono percorse da militari che, accompagnati dalle loro famiglie o dagli amici, godevano di quegli ultimi momenti di libertà prima di andare in quartiere e disporsi alla partenza. Ostentavano per lo più una clamorosa allegria, nella quale il vino aveva grandissima parte, [189] e a vederne alcuni che davano il braccio alla fidanzata o all’amante, li si sarebbe detti piuttosto alla vigilia delle nozze che a quella d’un viaggio donde così pochi erano destinati a tornare. Per capire di che si trattasse conveniva guardare attentamente le donne. Madri, o spose, il loro aspetto era scemo d’ogni baldanza; non le inorgogliva, come suole, il trovarsi a fianco d’un soldato in uniforme, non ridevano ai lazzi del loro compagno, non sorridevano nemmeno, o era un sorriso languido, fuggevole. Aveano scolpita sulla fronte un’ansietà dolorosa, e gli occhi o erravano dietro chi sa quali larve, o si piantavano in volto alla cara persona che oggi era sì presso, e di lì a pochi giorni sarebbe stata così lontana, in mezzo a tanti pericoli. Momenti solenni, nei quali la virtù visiva s’affina, s’addoppia, e le immagini non si dipingono, si scolpiscono. Poi passano gli anni, i casi succedono ai casi, cento figure diverse s’affacciano, s’avvicendano, si confondono nella pupilla, ma quelle immagini restano senza perder nulla della vivacità primitiva.... Di tratto in tratto gli occhi fisi così si riempivano di lagrime, ma non volevano farlo parere, e se erano sorpresi in quello stato, si abbassavano subitamente o cercavano un altro oggetto su cui posarsi. [190] E facevano mostra di essere attratti forse da un bottone dell’uniforme non perfettamente lucido, o dal collarino non perfettamente diritto, o della cintura un po’ di traverso. Indi le mani, da buone alleate, venivano in aiuto e fregavano quel bottone o rassettavano quel collarino e quella cintura. Più tardi però, al momento di separarsi, cadevano i ritegni, cessava la falsa vergogna, e fra lo scoccare dei baci e il mormorio dei suggerimenti amorevoli e delle promesse colavano abbondanti le lagrime. Anche i pochi che non avevano nè madri, nè sorelle, nè fidanzate che li accompagnassero al quartiere, erano preoccupati, pensosi. — Beati voi! — sclamavano le donnicciuole — che non lasciate nessuno. — Beati? Non so davvero. È felicità il correre con la mente al paese natale, senza rivedervi con gli occhi della fantasia un focolare domestico alla cui vampa si scaldino i dolci parenti, un telaio sul quale lavori una cara fanciulla?... Allorchè, cessato il rullo dei tamburi che battevano a raccolta, le porte dei quartieri si richiusero per non aprirsi che nel cuore della notte alle truppe in partenza, un’ombra di mestizia profonda si stese sulla città. Era carnovale, ma quella sera la piazza non echeggiò di canti, non brillò di fiaccole, [191] nè i chiassi delle maschere fecero rintronare le vôlte delle Procuratie.
Passai la notte agitatissima. Strane visioni di battaglie, di ferimenti, di morti mi turbavano il sonno. Gastone era sempre nel fitto della mischia con la chioma scomposta, con la spada insanguinata, con la pupilla fiammeggiante. A un punto mi pareva ch’egli si voltasse cercando qualche cosa dietro di sè. E allora io, con la picciola Fanny in braccio, mi aprivo il varco tra quella massa confusa d’uomini, di cavalli, di carri, e sollevando quanto più potessi la gentil creaturina, la tenevo così finchè m’incontravo ne’ suoi occhi e vedevo lampeggiare un sorriso di riconoscimento sulle sue labbra. Egli faceva un cenno colla mano e spariva.... Ma, eccolo ricomparire più lungi, tutto circonfuso da una nuvola di fumo.... le schiere s’addensano.... ogni cammino è ingombro.... non posso raggiungerlo. Sempre col mio fardello sulle spalle salgo sopra un rialzo di terra. Le palle mi fischiano rasente gli orecchi o scrosciano sugli alberi, il frastuono è indescrivibile. Egli è là, ov’è maggiore il pericolo... Ahimè! Impallidisce, vacilla, cade.... Quelli che gli sono presso o non se ne avvedono o non se ne curano, ma ecco una figura dal volto bianco come la cera, svelta, elegante, [192] sottile, venuta non so d’onde, non so come, piegarsi sopra di lui, sollevargli la testa, susurrargli qualche parola. Quella figura io la ravviso; è un altro caduto in battaglia, è mio fratello, è Carlo. Che si dicono? Parlano forse di me? Mi cercano?... Nulla ormai può rattenermi.... Corro verso quel punto gridando: Gastone! Carlo! La mia voce stessa mi sveglia, e non resta che la immagine angosciosa del sogno.
Sia ringraziato il cielo. Fa giorno. Vedrò Fanny, potrò cominciare presso di lei il mio ufficio pietoso.
Per recarsi in gondola alla casa indicatami dal capitano era d’uopo approdare alle Fondamente nuove. È uno fra i siti caratteristici di Venezia. Un lungo molo interrotto da ponti e malamente selciato costeggia la laguna nella sua parte più triste. Lo sguardo abbraccia un ampio orizzonte, ma non ne ritrae che un’impressione di malinconia. L’acqua, ch’è pur quella medesima che si spiana voluttuosa e tranquilla nel bacino di San Marco, qui si corruga sovente per qualche buffo di vento freddo, impetuoso. Quand’è cheta, ha certi riflessi singolari come d’acqua stagnante e la sua varia profondità si rivela dalle diverse tinte della superficie. Non bisogna fidarsene; ella ha le sue sorprese fatali, e spesso vicino [193] al luogo ove si discernono quasi l’erbe ed i sassi del fondo, s’apre un abisso ove l’onda travolge nei suoi vortici irresistibili il nuotatore imprudente che s’avventuri fra le sue spire. Gruppi di pali che fanno le veci di pietre miliari e sorgono a determinate distanze segnano alle barche la via da percorrere. A quei gruppi si legano talora i burchi venuti giù per i fiumi con un piccolo carico, o di fascine o di carbone. Bastimenti non se ne veggono; sarebbero arenati. Il sole fugge le case costruite sulle Fondamente con la facciata a tramontana, e si riposa invece su Murano, ma ahi! prima che su Murano, su San Cristoforo e San Michele, isolette destinate ad uso di cimitero. Di lì, qualche pino con la bruna testa sorpassa il livello della muraglia, e dondolandosi gravemente accenna quasi alle miserie che copre. Le gondole scivolano taciturne tragittando i morti all’estrema dimora, e insieme ad esse sono i battelli che vanno a Murano, e i toppi, che, rivestito il felze di tela grossolana bianca o turchina, movono verso la meta più lontana di Burano e Torcello. Ma Murano, ove i nostri vecchi avevano le loro ville, e Gaspara Stampa veniva a disputare di lettere e di cavalleria con messer Trifone Gabriello, è ormai diroccata e mezzo deserta. Le restano, [194] unica ricchezza, le fabbriche di conterie dond’escono i prodotti appariscenti che adorneranno la persona e la casa delle brune principesse del Madagascar, del Capo di Buona Speranza e dell’India. A Torcello la vetusta basilica non vede sotto l’ampia navata che pochi cenciosi ortolani, e nessun console sale la gradinata, reliquia dell’antico palazzo pretorio. Il ricevitore dei dazi è forse il più cospicuo personaggio che si assida talora sulla sedia d’Attila. Anche Burano un tempo era florida e ricca, adesso nei suoi tugurii cadenti vegeta, stentando la vita, una popolazione di contrabbandieri e di pescatori. Le giovinette bellissime, dalla chioma e dalla pupilla nera, logorano gli occhi intrecciando i pizzi che serviranno poi a fregiare il collo ed il seno delle bellezze cittadinesche, finchè la più raffinata industria del Belgio e di Francia non faccia cadere nel dimenticatojo la loro arte gentile. V’era appunto un gruppo di queste buranelle sedute sui gradini dell’approdo ove misi il piede a terra insieme a Giannina il giorno successivo alla partenza del visconte di Serges. Un bianco zendado assicurato intorno alla cintura si arrovesciava loro sul capo inquadrando l’ovale regolare del viso su cui le fatiche ed i patimenti avevano segnalo una traccia di vecchiaja [195] precoce. Una d’esse soltanto, nella freschezza delle carni e nella grazia spigliata delle movenze, conservava tutto il fascino della sua età. Poteva avere sedici o diciassett’anni. Teneva sulle ginocchia un paniere entro il quale andava riordinando alcuni bellissimi merletti. Appena mi vide si levò in piedi rispettosa e le sue compagne fecero altrettanto. Indi mi si mise ai fianchi facendo suonare gli zoccoli col passo breve e affrettato, e sollecitandomi con le curiose inflessioni del suo dialetto, affinchè mi voltassi e dessi un’occhiata alla sua mercanzia. — Che el Signoore la benedissa ela e le soo creatuure — mi disse, quando, per compiacerla, ebbi comperato da lei una piccola bagattella.
C’internammo per una stradicciuola. Un bottaio stava fuori del suo negozio ribattendo romorosamente i cerchi ad alcune botti. Di lì a pochi passi s’allargava una specie di cortile in cui l’erba cresceva rigogliosa fra pietra e pietra. Ivi dimorava la signora Federica..., la vedova tedesca presso la quale Gastone aveva lasciato sua figlia.
La signora Federica ci aprì la porta ella stessa e si presentò sul pianerottolo. Ella era di statura assai bassa, aveva in testa una cuffia con nastri verdi, e indossava un [196] vestito di lana nera su cui spiccava un grembiale bianchissimo. La casa pareva pulita e piccina come la sua persona. Nel farcene gli onori, la signora Federica montava ogni momento o sopra una sedia o sopra un panchettino, ora per rassettare un quadro che non le paresse perfettamente in linea, ora per soffiar via qualche granellino di polvere che si fosse posato sopra un mobile.
— Non si può mai fidarsi della gente di servizio — ella disse introducendomi in un salotto, a un angolo del quale si trovava un’uccelliera piena di canarini. E rivoltasi a loro che facevano uno strepito indiavolato, agitò con piglio minaccioso il fazzoletto, e gridò come farebbe un maestro di scuola agli alunni: — Tacete! tacete! — Indi soggiunse ripigliando il discorso meco: — Il signor capitano ci aveva avvertito che una signora verrebbe a veder la bambina, ma non sapevamo l’ora. Se no, ci sarebbe stato più ordine.
E poichè io le dicevo che dal lato dell’ordine non c’era nulla da desiderare: — Oh mi canzona — rispose — dovrebb’essere ben altra cosa. A ogni modo, dacchè son rimasta vedova, non c’è tanto male. Ma con quei benedetti uomini non c’era caso di evitar la confusione.
[197]
Posto così in rilievo un lato buono della vedovanza, si fermò gridando: Maria! Maria!
— Eccomi! — saltò a dire una voce fresca e squillante, e l’uscio d’una stanza contigua si aprì subitamente.
— Ah! È la signora — osservò la nuova venuta, arrossendo.
— E la bimba? — chiesi.
— Dorme — ella rispose — vuol vederla subito?
A un mio cenno, ella m’introdusse pian pianino nella camera, mentre Giannina rimase nel salotto con la signora Federica.
— Pianse quasi tutta la notte chiamando il suo papà — soggiunse la ragazza, e intanto tirò i cordoni delle tendine per far entrare un po’ di luce.
— Povera piccina! E lo sa che è partito? — chiesi avvicinandomi alla cuna.
In quella un cagnolino di lungo e folto pelo color caffè e latte si levò con moto subitaneo da un suo giaciglio composto di stracci, e mi venne incontro con fare poco amichevole e con gran volontà di guaire se i gesti imperiosi di Maria non lo avessero trattenuto.
— Si figuri — rispose Maria. — Ha tre anni soli, ma è così intelligente! Il capitano iersera venne a svegliarla, e se la tenne in braccio per un’oretta. Le disse [198] che non si sarebbero visti per qualche giorno, ma ch’egli sarebbe tornato portandole di sì belle cose, e ch’ella intanto fosse buona e accogliesse bene una signora che sarebbe venuta a trovarla e facesse conto che la fosse la sua mamma. Non so che cosa la bimba abbia capito; ma piangeva, e così piangeva lui, e non potevo fare a meno di piangere anch’io....
Mentre Maria parlava a bassa voce, io m’ero chinata sulla cuna entro la quale dormiva Fanny. Oh la gentile creatura! I capelli biondi, crespi, finissimi, incorniciavano una testina mirabilmente proporzionata; sotto il velo sottile delle palpebre rosee s’indovinava l’azzurro degli occhi; le labbra socchiuse lasciavano veder due file di bianchissimi denti: un braccio, che pareva fatto col torno, era steso, ignudo, sopra la coltre; l’altro si ripiegava sotto il capo.
— Com’è bella! — non potei a meno di esclamare.
— Altro che bella! — disse la signora Federica, che non aveva saputo resistere al desiderio di prender parte alla conversazione ed era entrata nella camera tirandosi dietro Giannina. — Dica addirittura ch’è un amore.... Mah!... Avrei voluto anch’io avere una bimba così. Però, dopo che [199] mi sono sconciata una volta al tempo del primo marito, non ebbi più figli. Adesso che son rimasta vedova per la seconda volta, bisogna rinunciarvi. Un terzo marito non lo voglio.
E si capiva che non lo volesse; quello che non si sarebbe capito è che altri avesse voluto lei.
Intanto il cagnolino, che, con un salto era balzato sopra una sedia a guardia della cuna, dimenava la coda e mugolava sommessamente.
— E la madre l’avete conosciuta? — chiesi a Maria.
— Non l’ho mica vista, io — ella rispose — mi dicono che somigliasse a Fanny.
Era così bella! pensai fra me e me, e questo pensiero mi diede noia.
— Il capitano — soggiunsi — amava molto la bimba?
— Oh quanto! Veniva a vederla spessissimo e non c’era volta che non avesse le tasche piene di chicchi e di ninnoli. E se la prendeva sulle ginocchia, e la mangiava coi baci, parlandole per lo più in francese, tantochè io non ne capivo sillaba. Tuttavia non mi sono mai potuta persuadere d’una cosa, ed è ch’egli non volesse uscir nemmeno una volta con la [200] cara fanciulla che se ne sarebbe fatta una festa.
— Oh! gli uomini — interruppe la signora Federica — non rinunziano alla loro libertà per tutto l’oro del mondo. Bisogna conoscerli gli uomini — continuò la savia femmina; — ed io ch’ebbi due mariti, li ho conosciuti. — Ciò detto, ella mi si fece vicino, e mi chiese il permesso di togliermi dal vestito due o tre fili bianchi, operazione ch’ella eseguì assai delicatamente tra le punte del pollice e dell’indice.
— A momenti si sveglia — disse Maria.
— Ma! — sclamò la signora Federica — anche lei, povera creatura, comincia presto a patire. Dicono che sia una gran signora, ma intanto non ha mamma, e al padre chi sa che malanni gli capitano con questa brutta guerra. Spacciavano qualche anno fa che tutto era finito, che tutti andavano d’accordo, e, posso giurarlo, non c’era che Gaetano, il mio secondo marito, buon’anima, il quale ripeteva sempre: Vedrai, Federica, che si tornano a pigliar per i capelli. Gaetano è morto, ma la sua profezia si è avverata, ed egli, che ci teneva a indovinar le cose, ne avrebbe gusto.... Oh guardi, guardi, la si sveglia davvero.
Infatti la bambina alzò alquanto il braccio destro e portò la mano istintivamente [201] sugli occhi; i suoi labbretti si aprirono a un lungo sbadiglio, e le palpebre, sollevandosi a poco a poco, lasciarono scorgere due belle pupille azzurre, che si fisavano con sorpresa sopra di me.
— Voglio Maria — furono le sue prime parole dette in tuono piagnucoloso e con una leggera inflessione francese.
Però i suoi pensieri presero subito un altro corso, e la sua voce divenne ilare e gaia sclamando: — Ah! Café-au-lait, tu est ici, petit fripon.
Café-au-lait, così chiamato a cagione del suo colore, non era altro che il cagnolino di nostra conoscenza, il quale, appena s’accorse che Fanny era svegliata, saltò sul suo letticciuolo e si mise a leccarla e a farle ogni sorta di vezzi. Indi la bestiuola si cacciò sotto le coltri fra le risate della bimba, e vi si ravvoltolò dentro pazzamente lasciando tutta scoperta la bella creaturina, che pareva un bocciuolo di rosa.
— Su, su, Fanny — disse Maria prendendo in braccio la fanciulla ormai riluttante e desiderosa piuttosto di giuocare col cagnolino che di alzarsi. Allora Café-au-lait si ricordò delle due persone estranee che si trovavano nella camera, e ci abbaiò contro con tutta la forza de’ suoi polmoni, veramente formidabili in un sì tenue corpicciuolo.
[202]
— Brutta bestia! — gridò la signora Federica. — Eh! se non fosse il grande amore che ho per quel tesoretto lì — e accennava a Fanny — non vorrei nemmeno per sogno che si tenessero cani in questa casa.
Giannina, che aveva poca confidenza coi cani, ed era in quel giorno di pessimo umore, s’era ritirata in un canto, ma io, più ardita, m’ero fatta presso il petulante animale, e non avevo tardato a domarlo con dei pezzettini di zucchero candito ch’egli franse tra i denti con inesprimibile soddisfazione.
E ciò valse a conciliarmi l’animo di Fanny meglio assai di tutte le parlate, che, vestendola, lo aveva fatto Maria affine di persuaderla a darmi un bacio.
Fanny aveva un gonnellino rosa. I suoi capelli, non ancora lunghi abbastanza da essere raccolti in treccia, le ondulavano liberi sul capo, ricadendole spesso con vago disordine sulla fronte e sugli occhi. Rendevano immagine di quelle nuvolette d’oro che circondano il sole al tramonto.
Nel veder Café-au-lait che scherzava meco e mi porgeva amichevolmente la zampa, ella si avvicinò e consentì a ricevere da me un bacio sulla fronte e un confetto in bocca. Senonchè, quando Maria le replicò ch’io ero la signora di cui il suo [203] babbo le aveva parlato la sera innanzi, si rifece scura e si mise a piangere e a chiamare: — Papà! papà!
— Sta zitta, Fanny — le diss’io prendendola in braccio e baciandola. — Il papà tornerà presto.
— Fosse pur vero — bisbigliò sommessa la signora Federica, scrollando il capo in tuono di sfiducia.
Ma la fanciulla non acchetavasi a verun patto, respingeva Maria, rifiutava le carezze di Café-au-lait, che ne era grandemente mortificato, e voleva a ogni costo che la si conducesse alla finestra dicendo: — Il babbo viene di là.
— Benedetta creatura! — esclamò Maria. — È la solita fissazione. Quantunque il capitano non venisse nè tutti i giorni, nè ad ora determinata, ella non aveva mai pace s’io non sedevo a ogni momento a questa finestra tenendo lei sulle ginocchia. E come sentiva da lungi il suo passo! Fosse freddo o caldo, sole o pioggia, ella voleva spalancar le invetriate e spingendosi fuori con la testa agitava le sue manine e gridava: — Papà! papà! — mentre Café-au-lait girando su e già pel davanzale dimenava la coda e guaiva di contentezza. E adesso sta a vedere che cosa accadrà.
[204]
— Le è entrata proprio in simpatia! — gridò la signora Federica, congiungendo le palme in atto di lieta sorpresa. — Perchè anche i bambini hanno le loro simpatie e antipatie come le persone adulte. Io, per esempio, sono sicura di non essere nelle sue grazie.
E per averne una prova, si avanzò verso la bambina a braccia aperte. Nè l’effetto fu contrario all’aspettazione, chè Fanny, vedendosi venir addosso quella specie di molino a vento, strillò più forte che mai, e si rannicchiò tutta.
— Lo vede? — disse la signora Federica. — Coi bimbi non ci ho mai trovato il verso. Sarà forse per questo che non ne ho avuti.
Per quel giorno mi ristrinsi ad accattivarmi la benevolenza di Fanny e del suo indivisibile Café-au-lait, e vi riuscii più presto che non fosse da attendersi. L’intimità sarebbe venuta poi. Come pure avrei poscia maturato meglio un’altra idea. Padrona dei fatti miei come io m’ero, nulla mi vietava di prendere addirittura Fanny in casa mia. Gastone non m’aveva chiesto tanto, è ben vero, ma che perciò? Non gli avevo io promesso che la sua figliuola sarebbe stata come una figliuola mia, ch’io l’avrei custodita come si custodisce un tesoro [205] fino al giorno in cui egli me l’avesse ridomandata, oppure (non volevo nemmeno pensarvi) altri si fosse presentato a chiedermela in nome suo?
Questi fatti produssero una rivoluzione fra i miei conoscenti. E siccome il pettegolezzo non era meno in fiore quarant’anni fa che non sia a’ nostri tempi, le chiose che si facevano sui casi miei mi vennero tosto all’orecchio.
Seppi, per esempio, che la signora Elena, fingendo difendermi, osservò che non era possibile che vi fosse nulla di male, perchè io ero tal donna da far passare tutte le tentazioni. Ben altra cosa sarebbe stata se si fosse trattato di lei. C’era mancato poco che Gastone non la compromettesse, ma ella non era ragazza da lasciarsi prendere all’amo. — Quanto all’idea che il capitano un dì o l’altro la sposi — soggiungeva la signora Elena — via, le son baje da dar da bevere ai gonzi! Che gli accomodi lasciar Maddalena a guardia della sua figliuola, [206] si capisce; la è savia, istruita, a modo suo veh!.... insomma la non ha e non può avere fumi galanti.... sebbene in quest’affare, s’io fossi maldicente.... basta, non ne discorriamo.... Ad ogni modo, per quell’ufficio lì la è anzi acconcia più di molte.... più di me per esempio.... Ma moglie al Visconte!.... Figuratevi.... Con tante bellezze ch’egli avrebbe alla sua portata senz’uscire dalla sua casta. Che cos’è questa Maddalena? Sua madre è nobile, ma suo padre, suo nonno eran gentaccia.... Che se per caso egli volesse accomodarsi a sposare una borghese, sarebbe proprio te, povera grulla, ch’egli sceglierebbe. Ti sono amica, e agli amici bisogna dire la verità.... Ma credi che un uomo come il capitano (a me è antipatico, ma parlo spassionatamente), un uomo che può piacere, che ha piaciuto, si attaccherebbe a te che sembri un manico di scopa vestito? — Questi ed altri erano i ragionamenti cortesi della signora Elena, la quale, come si vede, nella foga del discorso finiva col credere di avermi per interlocutrice.
Don Gaudenzio, mi assicuravano, faceva un altro genere di considerazioni. — In che tempi viviamo? C’è una ragazza la quale pei suoi motivi particolari, che possono anche esser buoni, vuol viver da sola. [207] C’è un sacerdote della parrocchia, un uomo d’età, già amico di molte brave persone, che frequenta la casa, e, credo, è in grado di dare un consiglio, di dire una parola. No signori. Si fa conto che quel sacerdote non ci sia, non lo si interroga, non lo si consulta, e così, alla cieca, si prendono impegni di quella fatta. Ma sono io forse un bamboccio?
Il signor Filippino era il più inferocito, e dichiarò a Giannina che avrebbe rallentato le sue visite. — So tutto — egli disse, e il mio decoro non mi consente di servir da paracadute a nessuno. Perchè mi chiamo Filippino son forse uomo da tenersi in niun conto? — E poichè Giannina gli chiese che discorsi fossero questi, egli rispose che la sua padrona un giorno si sarebbe pentita di aver badato a un avventuriero invece che a lui. — Se è ricca, sono io forse uno spiantato? Se è dotta, sono io forse un ignorante? Mio zio Lodovico mi avrebbe preso nel suo studio se mi calcolasse uno scimunito?
Quanto allo zio Lodovico, egli pigliava le cose con calma. — Nessuno ha potuto nulla su voi, figuratevi se vi posso io che non sono che il vostro notaio. Filippino è un bravo giovine, ma ebbe torto a farsi de’ castelli in aria, e io non l’ho mai secondato. [208] Siamo giusti. Feci mai un’allusione a questa faccenda ne’ miei discorsi con voi? Vi siete presa una bella croce sulle spalle, e che il Signore ve la mandi buona.
Su mia madre, invece, le mie vicende avevano fatto un’impressione piuttosto favorevole.
— E così — ella disse — è proprio vero che sei fidanzata col capitano? Cioè, intendiamoci, se non ci son corsi impegni formali, ci furono parole che valgono quanto gl’impegni. Ed egli ti ha lasciato in custodia una sua figliuola. Chi se lo sarebbe immaginato? Il capitano vedovo! Quel buontempone! E aveva sposato una femminetta! Basta. Pare ch’egli sia realmente di buona famiglia, e non sarò io che porrò ostacolo alla tua felicità. Del resto, tu sei libera e con quella tua testolina sfido io a metterti bastoni fra le ruote....
A questo punto si levò di tasca un piccolo astuccio di pelle, e aprendolo — Guarda — mi disse — che cosa ti sembra di questo pajo d’orecchini di brillanti? Li ho fatti legare testè, e vorrei che in questa occasione tu li accettassi dalla tua mamma...... In fin dei conti, sebben ci vediamo sì poco, sebbene tu sia divisa da me, e forse non mi stimi, sono pur la tua mamma e ti voglio bene.... Non rifiuterai questo dono, non è vero?
[209]
In mezzo a tutte le peripezie che avevano turbato le nostre relazioni, ella si era mantenuta meco gentile e affettuosa; pur non era nella sua indole il pigliare un tuono patetico. Ella possedeva quella qualità che nelle patrizie veneziane è comune e a cui il nostro dialetto diede un appellativo intraducibile: il cocolezzo. Ora il cocolezzo è piuttosto la forma esterna dell’intenerimento che l’intenerimento vero: e anzi le due cose si combinano di rado fra loro. Mia madre era facilissima alla simpatia; si rallegrava delle gioie, commiserava i dolori altrui. Ma le sue impressioni erano, quanto subitanee, fuggevoli. Tanto al suo pensiero come al suo cuore ripugnava l’immobilità.
Onde le sue parole e più ancora il modo in cui vennero dette mi colpirono singolarmente.
— Rifiutare un vostro dono! — io le risposi — No certo. Ma non vi parrebbe meglio non affrettarvi così? Voi lo vedete, mamma, oggi son tutti sogni sull’aria.... Chi sa quante vicende debbono compiersi ancora!.... Chi sa che un bel giorno tutto non si sciolga e svanisca come una bolla di sapone.... Accettare oggi mi parrebbe un provocare la fortuna. Custodite il vostro presente.... me lo darete allora, quand’egli sarà ritornato....
[210]
— Ma, no — ella riprese con insistenza mettendomi in mano a forza l’astuccio — prima d’allora chi sa che cosa può accadere, io sono una cattiva custode.... Tieni a ogni modo questa roba presso di te.... non sarà forse l’ultima....
— Ma che cos’avete, mamma, io non vi capisco....
— È vero.... Non so nemmen io quel che mi dica. Ma che vuoi?.... Mi angustia il pensiero che tu andrai lontana lontana, e ch’io non avrò più questa casa in cui venir qualche volta....
Che linguaggio insolito era codesto?
— Dio buono — soggiunsi — noi fantastichiamo intorno ad un avvenire remoto. A ogni modo, quella società che vi fu sì cara or è divenuta uggiosa? La vostra casa, la casa che fu anche mia, non vi offre consolazioni e dolcezze? E poi Clara non uscirà presto di convento? Non la mariterete qui, a modo vostro?
La nube di tristezza che velava il volto di mia madre si fece più scura.
— Uscir di convento! — ella disse a mezza voce e quasi fra sè: — Ma è poi certo che n’esca?
— Come? — chiesi con accento affannoso, e sentii una stretta al cuore pensando che la fanciulla la quale mi aveva [211] destato prima un affetto gagliardo, poscia una ripulsione invariabile, potesse essere inferma senza ch’io lo sapessi — Clara è forse malata?
— No, no, calmati, Maddalena, ella è sanissima, ma è un pezzo che mi si ripete su tutti i tuoni ch’ella sta egregiamente dov’è, e che sarebbe un onore per noi se la si decidesse a pronunciare i voti... Parrebbe ch’ella non ne fosse aliena.... Bada — soggiunse vedendo che a questa notizia io m’accendevo in volto — bada che per ora non c’è nulla affatto, ch’ella è semplice educanda, e ha tempo ancora quasi un paio d’anni per prendere una risoluzione.... Nessuno presume di violentar la sua libertà....
— Oh mamma — proruppi con infinita amarezza — ma non avete pensato che cosa direbbe mio padre,.... nostro padre.... d’una simile idea? Egli che abboniva i conventi, che li chiamava sepolture di vivi, se sapesse che si medita di chiudervi per sempre una che porta il suo nome! Perdonate, madre mia, è una profanazione codesta, è un delitto....
— Dio Santo — ella esclamò — Ma se Clara lo desiderasse veramente? Potrei io far violenza alle sue inclinazioni? Ho fatto forse violenza alle tue?
[212]
— Ma che dite mai? Non è possibile che una giovinetta nell’aprile della vita, bella, perchè avete detto voi che la è bella....
— Oh bellissima — interruppe mia madre con palese compiacenza.
— Non è possibile ch’ella sia disposta a rinunciare al mondo, o che, almeno, si renda conto di quel che si faccia. Dite piuttosto che v’è qualche cosa che voi mi tacete, qualche cosa che forse voi stessa ignorate. Si ordisce una cabala contro Clara, e voi non aprite ancora gli occhi. Oh povera mamma! Ve ne avvedrete troppo tardi che Maddalena aveva ragione....
— Ah! tu torni agli antichi sospetti, torni a dar corpo alle ombre.
— Alle ombre! — replicai vivamente — Il cuore, che non isbaglia, mi dice che non le sono ombre, ma dolorose realtà. Si vuol farvi complice di un intrigo nefando, si vuol colpirvi in ciò che si doveva rispettare in voi, sopra ogni altra cosa.... Coraggio, mamma, sono parole aspre le mie, ma valgono meglio delle sdolcinature degl’impostori. La vostra energia, ch’è sopita da tanto tempo, si svegli per amore di vostra figlia, salvate lei, salvate il vostro decoro.
— Vergine Santa! Sei sempre la stessa. Sempre pronta a pigliar fuoco come un [213] fiammifero. Che cosa supponi? Che cosa vuoi ch’io faccia?
— Che cosa voglio che facciate? Ve lo dirò subito, e capirete che cosa suppongo. Dovete mettere alle strette quell’uomo, quel cattivo genio della nostra famiglia....
— Maddalena, tu dimentichi che parli di mio marito....
— Vostro marito.... lo so, pur troppo.... Dovete dirgli ch’è ora di farla finita coi sutterfugi, che non vi appagherete più di adulazioni servili, che volete sapere un po’ come stiano i vostri affari, e quanto vi manchi alla vostra totale rovina, e perchè si prepari il sacrificio di vostra figlia....
— Noi in rovina! — ella rispose maravigliata come già aveva risposto altra volta quando s’era trattato l’affare delle biblioteche. — Ma sei pazza?
— E allora — io incalzai — come spiegate le vostre parole di poco fa?
— Davvero che staresti bene avvolta in un manto d’inquisitore. Che possano esservi momentanei imbarazzi non c’è nulla di strano.... I possidenti mancano spesso di moneta spicciola.... E poi mio marito ha tanti crediti... deve aver tanto danaro anche dal Governo..... e adesso, con la guerra, è naturale che tutti siano restii a pagare.... Ma quanto all’andarcene in rovina.... via, [214] finchè c’è Venanzio che amministra le cose mie, non lo crederei nemmeno se lo vedessi.
Più di questo non c’era modo di levarle di bocca. Molto ella ignorava senza dubbio, ma appariva chiaro ch’ella taceva anche parte di quello che le era noto. In principio aveva obbedito alla sua natura schietta, spontanea; poi, s’era accorta d’essere andata tropp’oltre, s’era messa in guardia verso sè medesima, e, contro il suo costume, dissimulava il proprio pensiero. Il triste uomo che l’aveva resa dimentica de’ suoi doveri esercitava un segreto fascino su di lei; pur facendo mostra di secondarla in ogni capriccio, e di esserle servo docile ed ossequioso, egli era riuscito a padroneggiarla completamente, e nulla v’era di più sincero dell’amore e della stima di mia madre per esso.
Decisi di rivolgermi al mio notaio per avere informazioni maggiori. Egli era imbottito di umani rispetti, ma chi avesse un po’ d’arte finiva col farlo parlare. — Chi può saper nulla? — era la sua prima risposta. Nello stesso tempo componeva le labbra ad un suo particolar risolino, tanto per far capire ch’egli sapeva moltissimo. Allora bisognava stringergli i panni addosso, lusingare la sua vanità, dirgli che tutti portavano [215] alle stelle la sua perizia nel trattare gli affari, che non c’era quanto lui per conoscere a menadito il dare e l’avere delle famiglie veneziane, e così di seguito.
Nel momento della compera delle famose biblioteche i responsi del signor Lodovico erano stati assai sibillini. — Chi può saper nulla? — egli mi aveva detto secondo il solito. Poi aveva soggiunto: — Quel signor Venanzio, cara mia, è un uomo singolare. Ha rovinato tre o quattro fortune di grandi famiglie, ma quanto a lui è sempre riuscito a camparla bene.... È ingegnoso, non c’è dubbio, e trova modo di spillar sangue dal muro. Si è potuto ingerire nelle forniture del palazzo reale, e lì deve aver guadagnato una bella moneta.... Anzi dicono (ma non sarà vero) che nel fare gli acquisti comperasse tutto in quantità doppia per mettere a nuovo anche il suo appartamento. Il denaro usciva naturalmente dalle casse dello Stato. Brava gente, non è vero, piccina? — E qui si fregava le mani con compiacenza, e poi, alzandosi in punta dei piedi, mi pizzicava la guancia. — Del resto, non tutte le ciambelle riescon col buco, e qualche speculazione dev’essergli andata male. Poi spendono troppo, spendono troppo, spendono troppo. È un vizio che vostra madre ha sempre avuto anche lei....
[216]
Ora poi il signor Lodovico era stato più laconico, ma più esplicito. — Chi può saper nulla? si vedono in giro certe carte. Basta. Per un paio d’anni potranno ancora campar da signori, ma poscia?... Se la signorina Clara si risolvesse?...
— A che cosa?
— Via, a prendere il velo, lasciando metà della sua sostanza al convento e metà alla famiglia.... Voci che corrono.... Forse chiacchiere degli oziosi e null’altro.... Del resto, voi mi fate commettere una indiscrezione. E perchè? Come se per la signorina Clara aveste una gran tenerezza....
Era dunque questo il piano del signor Venanzio! A questo miravano le tronche parole di mia madre, le sue allusioni alla vocazione di Clara! A questo si doveva giungere dopo tanti intrighi e tanto bassezze! Ma in fin dei conti, perchè maravigliarmene, perchè dolermene? La fortuna s’era incaricata di vendicare mio padre, mio fratello, mio zio. È vero, la mia genitrice era ferita sul vivo, ma poteva ella dirsi innocente? Dopo aver riscaldato una serpe nel seno, non era naturale ch’ella ne sentisse i morsi? Quest’uomo che l’aveva affascinata, resa obliosa dei più sacri doveri, oggi la puniva egli stesso della sua confidenza nella persona della sua figliuola. [217] Era giusto. E Clara? Dal giorno in cui, sospettosa del vero, la riguardai come una intrusa all’ombra del mio nome e del mio tetto, non mi parve ella rea d’esser nata e di aver attossicato nascendo la vita delle persone che mi furon più care? Ebbene, se la sua cattiva stella la traeva a perdizione, se colui al quale spettava l’ufficio di proteggerla cospirava egli stesso a’ suoi danni, ero io che dovevo porgerle una mano soccorritrice? Io che dovevo turbar l’opera della giustizia divina?... Ma era veramente giustizia? Questo flagello che risparmiava il maggior colpevole poteva esso esser guidato dalla volontà della Provvidenza?... Indi io arrossivo di me, de’ miei primi pensieri, e mi vinceva una pietà infinita di mia madre che, sconsigliata, correva verso l’abisso, di Clara che, inconsapevole, diventava vittima d’una bassa cupidigia, e senz’avvedersene era tratta al sacrificio della sua gioventù e del suo cuore. Mi era lecito di lasciarla cadere senza una parola, senza offrirle una tavola di salvamento, senza farle capire che in un angolo di Venezia v’era pure una creatura che si ricordava di averla amata bambina, di aver vigilato i suoi sonni, e che ancora, per quanto volesse schermirsene, era stretta verso di lei da un vincolo sacro?... [218] Dato questo indirizzo alla mente, i dubbi s’aggiungevano ai dubbi, i rimorsi ai rimorsi. Era stato coraggio, era stata virtù il lasciar la casa paterna, e lo sfuggire la lotta? Era stata prova d’animo equo e temperato la mia ripulsione per Clara, il non aver voluto vederla dacchè ella era entrata in convento? E dire ch’eran corsi da allora più di quattr’anni, e ch’ell’abitava nella mia stessa città! Come accade, mi venne una fretta subitanea, eccessiva, di riparare al lungo oblio, di porla sull’avviso, e dopo aver atteso quattr’anni, mi pareva che anche le ore fossero secoli. E messo in seconda linea per un momento il pensiero di Fanny, di Gastone, delle vicende che, nel volger di poche settimane, avevano rinnovellato i miei destini, deliberai di vedere senz’altri indugi questa povera Clara.
Ebbene, l’ho vista. Un giorno di visita, a un’ora nella quale ero certa che non mi sarei imbattuta in mia madre, mi recai all’antico convento delle Agostiniane a San [219] Giuseppe di Castello, dove s’era ridotto fino dal 1801 un manipolo di suore della Visitazione fuggite di Francia. Era la prima volta ch’io entravo in un chiostro, e non saprei significare a parole l’impressione provata nel salire i tre gradini e nel battere alla picciola porta che mette a quel monastero. Mi pareva che dovesse schiudermisi un mondo nuovo. La torriera che venne ad aprirmi era veneziana; corta, grossa, baffuta, con occhietti scintillanti e guancie rubiconde, come persona a cui non sono ignoti i piaceri della cantina. Guidata da lei, attraversai il vestibolo, poi alcune stanze terrene alquanto buie, e fui introdotta nel parlatorio. Lo splendido sole che m’aveva accompagnata lungo la via, pareva non aver modo di far sapere lì dentro che c’era, tanto mi sembravano scuri que’ luoghi e tanto pesante l’afa che vi si respirava. E sì che m’era noto esservi nel convento un ampio giardino e più cortili, ma le poche finestre del pianterreno non prospettavano certo su nulla di allegro. In questa clausura l’aria, la luce, il sole sono considerati come veleni, da tenersi sotto una rigida disciplina e da somministrarsi soltanto a centellini appunto come s’adopera coi veleni, quando il medico li prescrive. Serve a parlatorio comune una lunga fila di stanze che corrispondono [220] ad altrettante stanze interne accessibili soltanto agli inquilini del chiostro e che comunicano con esse mercè grate di ferro. Nello spazio di muro che sovrasta ciascuna di queste grate è, in lettere cubitali, un’iscrizione francese contenente una sentenza di San Francesco di Sales. Ampi seggioloni foderati di cuoio stanno davanti alle inferriate, e sono destinati alle visite, le quali non sanno se parlino coi prigionieri o siano prigioniere esse medesime. È uno stringimento di cuore, quantunque sia certo che fra gli ordini monastici questo delle Salesiane non sia de’ più rigidi ed eccessivi. Mi ricordo che, entrata appena, vidi dietro ad una dello prime grate una suora ancor giovane, e alla cui fisonomia il vestito nero e il bavero bianco, che ne involgeva la testa e si fermava in linea orizzontale sul petto, dava un singolare risalto. Senonchè il suo viso scomparve dietro un denso velo ch’ella s’acconciò in fretta quando un’altra torriera venne ad annunziarle che un uomo, forse il padre o il fratello, domandava di lei. All’ora in cui chiesi di Clara, le visite erano ancora poche; gli ampi seggioloni erano quasi tutti vuoti. Fui pregata d’attendere un minuto, e, non so perchè, mi parve un secolo. Ero inquieta, nervosa. Che accoglienza mi avrebbe fatto [221] Clara? Dopo quattr’anni ch’io non la vedevo, ch’io non le avevo inviato, nè un saluto, nè un ricordo, non avrebb’ella potuto voltarmi a dirittura le spalle e rispingere ogni mio avvertimento, ogni mio consiglio?.... Ma zitto..... Sento aprirsi un uscio nella stanza di là della grata, è Clara; dietro di lei c’è una suora.... ahimè una guardiana, una spia. Come farò a parlare liberamente? Clara è vestita di nero, non ha il bavero bianco intorno alla testa e sul petto, non è tosata, ha raccolti in treccie i capelli lunghi, fini, copiosi. Come s’è fatta grande, e come sarebbe bella se le foggie goffe del convento non togliessero snellezza alla sua persona. Ha quattordici anni compiuti; è ormai una ragazza.
— Siete voi, Maddalena! — diss’ella, riconoscendomi subito — che novità!
— Lo so, è una novità — risposi — Avrai detto male di me. Ma a proposito, torna a darmi del tu.
— Ah! del tu — ella soggiunse un po’ imbarazzata — e dunque vivete.... vivi sola ora.
— Sì, sì, te l’avrà detto la mamma — replicai in fretta — Ma narrami piuttosto di te. Come ti trovi? Quando pensi d’uscirne?
La suora, ch’era stata un po’ indietro, si [222] avvicinò verso la grata aggiustandosi la croce d’argento che le pendeva dal collo.
— Ne pourriez-vous pas parler français? — diss’ella rivoltasi a Clara. — Je ne comprends pas encore un mot de votre italien.
— Ce n’est pas possible, sœur Brigitte — rispose speditamente mia sorella guardandomi in modo che significava: — Non dir sciocchezze e lascia fare a me — ce n’est pas possible, car ma sœur ne sait pas le français. Mais je vous traduirai tout ce que nous disons.
— Eh! bien.... alors — concluse suor Brigida, come per mettersi in pace colla propria coscienza. Sembrava però ch’ella non fosse pienamente soddisfatta, perchè aggiunse a mezza voce — C’est dommage pourtant. — E si guardò attorno cercando cogli occhi se per avventura potesse mettere altri al suo posto. Ma non c’era caso. Una suora che passò in quel momento era ai fianchi d’un’altra educanda, una bella brunetta, chiamata a una grata poco discosta.
— E adesso parla liberamente — disse Clara — ma prima d’entrare in discorsi serii, narrami un po’ com’è finito il carnevale. Son due settimane che non viene la mamma, e quest’anno poi si sono fitti in capo di non distrarmi con certe descrizioni, con certi racconti. Sicchè, quand’anche vien [223] lei, che una volta era un piacere a sentirla, adesso c’è il babbo....
— Il signor Venanzio?
— Sicuro. Vuoi che non sappia ch’egli ha sposato la mamma! Il babbo, dicevo, le tura la bocca, e si parla invece di digiuni, di vigilie, di cerimonie, di prediche, ch’è una cosa da morire....
— Ma, dunque, vogliono davvero che tu vada monaca?
— Qu’est ce que vous dites donc, mesdemoiselles? Allons, Claire, traduisez-moi.
— On parle du carneval — rispose Clara senza scomporsi. E le raffazzonò una descrizione bislacca delle nostre feste e delle nostre mascherate. Questo ella chiamava tradurre i nostri colloqui.
— Que c’est drôle le carnaval de Venise? — sclamò suor Brigida. — Que ce doit être beau à voir.... de loin! Continuez continuez.... Ces masques donc?....
Capii che il chiostro non esercitava sull’animo di Clara nè una speciale attrattiva, nè una speciale ripulsione. Gli affetti non s’erano ancora destati in tutta la loro vivacità nel suo cuore. Anzi mi pareva che la clausura tendesse a crescere in lei quell’amore di sè di cui ella dava segni anche da bimba. In fin dei conti, lì dentro non ci si stava male. Anche all’andare alla [224] messa ogni momento vi si abituava.... Solo ci sarebbe voluto un po’ più di libertà, una frequenza un po’ maggiore di visite, qualche festina di tratto in tratto.... Del resto, almeno non v’erano seccature, e checchè avvenisse al di fuori, entro quelle mura c’era quiete perpetua. — E non è poco — ella concludeva — con questo scompiglio che c’è nel mondo. Per miracolo c’è la guerra anche adesso....
Io mi affaccendavo a dimostrarle che appunto quella indifferenza per le cose esterne, quel languore dell’anima è la peggior disgrazia della clausura, e che chi vi si affida, o si pente più tardi o finisce col diventare una mummia. E perchè, intanto, anche dietro la grata vicina erano comparse un’educanda e una suora, abbassai notevolmente la voce.
— De quoi parlez-vous donc, maintenant? — chiese suor Brigida.
— Oh mon Dieu, sœur Brigitte, de petits riens. Elle me donne de nouvelles d’une vieille servante de la maison, voilà tout.
— Et pourquoi parle-t’elle si bas?
— Êtes vous curieuse! C’est qu’elle se fatigue vite la voix. Elle est faible.
— Pauvre demoiselle — sclamò suor Brigida con accento di simpatia. — Seriez-vous poitrinaire comme moi? Et quel est [225] le régime que vous suivez? Ah j’oubliais, vous ne comprenez pas le français. Demandez-le lui, Claire.
E mentre Clara le spacciava non so che frottole, suor Brigida passò attraverso la grata una mano lunga e sottile, tenendo aperta una scatoletta di giuggiole. — Prenez-en, prenez-en, cela fait du bien.
Quando fummo sul punto d’accommiatarci, Clara mi disse: — Non si avrà mica sempre la fortuna di poter parlare come si è parlato oggi. Tutte le altre suore intendono a maraviglia l’italiano. Perciò quando tu abbia da dirmi qualche cosa, porta teco una o due ciambelle, e mettivi dentro un biglietto. Facciamo tutte così.
— Ma questo sistema di bugie non ti par vergognoso? Non è la miglior conferma delle mie parole?
— Che! — rispos’ella — son peccatucci veniali.
Oh beata innocenza dei chiostri!
Suor Brigida, facendo un profondo inchino, e dicendo: — Allons, Claire — si allontanò per la prima. Nello stesso momento si mossero anche dalla grata vicina, e l’altra educanda venne con un saltino presso a Clara, le pose sulla spalla la mano sinistra, e agitando l’indice della destra con un piglio fra lo scherzevole e il minaccioso: — Bada — le [226] disse — se la settimana ventura, quando ci sia mio cugino, tu non lasci che suor Brigida venga a far la guardia a me, la ti va male. — E, rivoltasi dalla mia parte, soggiunse in tuono di leggiera canzonatura: — Ah! mademoiselle ne comprend pas le français.
Indi le due amiche si dileguarono. Allorchè io uscii, il parlatorio era pieno di gente. Babbi e mamme, fratelli e sorelle, congiunti vicini e lontani, conoscenti d’ogni genere si affollavano innanzi alle grate. Pareva d’essere in un alveare. Vidi alcune gentildonne a cui io non dovevo essere ignota, perchè al mio passaggio si voltarono, e udii bisbigliare il mio nome.
Nel richiudere dietro a me la porticina del convento, mi sentii rinata. Un’aria fresca e schietta mi soffiava sul viso, il cielo sereno mi si stendeva sul capo, e il sole, non impedito più dai vetri appannati, o dalle persiane, inondava la bella Via Eugenia, che allora appunto si stava compiendo. Il quartiere popoloso brulicava di gente, ma si sarebbe potuto scommettere che in tutta quella strada non si dicevano tante bugie quante se ne andavano dicendo nel parlatorio delle Salesiane. Nulla era più alieno dalla mia indole dell’artifizio e del sotterfugio, e pensando al mio colloquio con Clara io arrossivo [227] per mia sorella e per me. È ben vero ch’io non avrei potuto altrimenti dire a Clara l’animo mio, ma ciò non mi rendeva meno penosa l’idea d’esser stata stromento d’una piccola frode. Quello poi che mi aveva fatto un’impressione più sgradevole si era la disinvoltura con cui Clara conduceva il suo piccolo intrigo. Non era uno sforzo ch’ella facesse; era un’abitudine, di cui ella non comprendeva nemmeno come altri potesse maravigliarsi. Senza dubbio, tutte le sue compagne si trovavano nella condizione medesima, e ciò attenuava forse in un certo senso la sua colpa; ma che sposa, che madre sarebb’ella riuscita portando nella sua famiglia un naturale abborrimento della sincerità? Ebbene, io avevo compiuto il mio dovere, l’avevo, nel corso del nostro dialogo, messa sull’avviso, le avevo detto in qual modo ella potesse farmi giungere le sue notizie se mai per avventura le fosse occorsa l’opera mia. A che continuare adesso le mie visite? A che mostrare a Clara una tenerezza ch’io non avevo, e ch’ella nemmeno si sognava di chiedermi? V’erano ben altri obblighi ch’io non dovevo dimenticare per cagion sua, obblighi nei quali io avevo ormai riposto ogni mia dolcezza ed ogni speranza.
Oh! s’egli tornasse, e io potessi rendergliela [228] florida e vispa, e vedessi brillar lagrime di consolazione sul suo ciglio paterno, e, senza nulla chiedere, senza ricordargli nessuna dello parole sfuggitegli nel nostro ultimo abboccamento, lo udissi dirmi ancora — Maddalena, ti ringrazio e ti amo — quale felicità sarebbe stata uguale alla mia, che lunga serie di prove non mi sarebbe parsa agevole e lieve!
Eravamo già innanzi nel marzo, l’esercito d’Italia si trovava in Baviera, con la persuasione di dover volgere i passi verso le frontiere russe e di essere alla vigilia di una guerra grossa e terribile, ma senza che vi fosse per anco nulla di positivo. Le ostilità non erano state dichiarate, gli ambasciatori non s’erano mossi e i negoziati diplomatici continuavano. — Vedete che tutto si risolve in nulla — dicevano gli ottimisti. — Hanno paura di mettersi in guerra con noi — aggiungevano altri che s’erano identificati con Napoleone e la grande armata. Non mancavano finalmente coloro i quali deploravano che non si rompessero gl’indugi e che non si facesse quello che s’era fatto altre volte, sgominando i nemici in un paio di settimane.
Gastone scriveva della immensità dei preparativi, del passaggio continuo di truppe, di generali, di principi e della solennità [229] misteriosa con cui si andava disponendosi a un’impresa che sarebbe riuscita degna della Francia. In mezzo a quel frastuono d’armi, il furore della gloria, malattia dell’epoca, andava impadronendosi a poco a poco di lui, e la trepidanza con cui egli aveva abbandonato Venezia non traspariva più dalla sua lettera. Nell’aprile lo si promosse maggiore, proprio nei giorni in cui il suo corpo d’esercito si metteva in marcia verso l’Oder. Finalmente, nello scorcio di quel mese, la guerra non fu più dubbia. Si seppe che lo Czar di Russia era partito da Pietroburgo pel campo; Napoleone, dicevano i giornali, si sarebbe mosso anch’egli fra poco da Parigi. E gli stessi giornali affermavano che se l’Imperatore era costretto a una nuova campagna (la quale sarebbe stata anche l’ultima), la cosa doveva attribuirsi alla tracotanza dei Russi. In poco d’ora ci saremmo sbarazzati anche di loro, e nulla più avrebbe turbato la beatitudine di una pace perpetua. Questi i sogni, questi i presagi onde si pascevano gli spiriti in quell’epoca d’accecamento funesto. Non mancavano però i profeti di sventura. Chi aveva viaggiato l’Europa assicurava che si aveva sotto i piedi un Vulcano, che i rancori, che il desiderio della vendetta covavano tremendi sotto le apparenze [230] dell’ossequio e della devozione; ma erano voci isolate cui soverchiava il coro degli apologisti. Gastone in marcia verso la Vistola era amareggiato da una sola cosa; egli confrontava con l’accoglimento presente quello ricevuto dalle popolazioni tedesche nel 1806 e 1807. Allora eravamo nemici — egli scriveva — adesso siamo alleati. Ma allora i giovani avevano fede in noi. Malgrado l’onta della disfatta, essi ci venivano intorno con piglio amichevole, salutavano in noi i banditori delle nuove idee, non avevamo di pienamente avversi che i principi, l’aristocrazia e gli eserciti. Adesso è tutto l’opposto. Principi, aristocrazia, esercito sono al nostro fianco, è il popolo che non può soffrirci....
Nondimeno queste ombre non turbavano la confidenza serena di Gastone nel trionfo. Di mano in mano che si avvicinava il pericolo, si dissipavano i suoi timori, i suoi dubbi. Vinceremo — egli scriveva — e non vi sarà stata in verun tempo impresa pari alla nostra. — Intanto i fogli avevano raccontato la partenza dell’Imperatore da Parigi il 9 maggio, il suo arrivo a Dresda con l’Imperatrice, i ricevimenti, le feste, l’accorrere di sovrani a rendergli omaggio; a baciare un lembo del suo vestito, a mendicare una sua parola, uno sguardo, un [231] sorriso. L’eco di quelle cerimonie giungeva fino al campo, e Gastone ne sentiva lusingato il suo orgoglio di francese e di soldato della grande armata. — Tutti s’inchinano alla Francia, tutti piegano il capo dinanzi alla rigeneratrice del mondo. — .... Non era così che parlava mio fratello anni addietro, quando egli vedeva Napoleone mutare il ruvido sajo di capitano nella fastosa porpora del manto imperiale. Non era questa la rigenerazione del mondo ch’egli invocava.
Avanti! avanti su questo terreno che brucia! Presto anche le lettere di Gastone muteranno tenore.... E poi?...
Eravamo nell’estate di quel memorabile anno 1812. Fanny passava meco la maggior parte del giorno. La sua presenza era come un raggio di sole. Co’ suoi crespi capelli d’oro, co’ suoi occhi azzurri e profondi, con la personcina snella e aggraziata, con la sua voce tutta musicale dolcezza, ella riempiva la mia casa, e, più della mia casa, [232] il mio cuore. Nessuna tra le fanciulle ond’io avevo confortato la mia solitudine aveva saputo destare in me affetti cari e soavi come questa fanciulla. Ella possedeva quella precocità d’intelligenza che sogliono avere i bambini nati in condizioni straordinarie, e che si risolve in domande singolari, o in più singolari silenzi, ove la loro picciola mente sembra occupata in uno sforzo superiore all’età per trovare la chiave di qualche enigma. Chi ero io per lei? Simile alle altre bimbe che venivano presso di me e che guardavano questa nuova arrivata, questa contessina, come la chiamavano, con un’ammirazione non scevra d’invidia, Fanny mi dava il titolo di zia, ma le altre bimbe erano spesso accompagnate dalle loro madri, ed ella domandava di tratto in tratto — Ov’è la mia mamma? — Talora si arrestava subitamente in mezzo a’ suoi giuochi, lasciava cadere il cerchio o la palla, e accostandomisi tutta umile e mortificata, mi fissava in volto i suoi begli occhi e diceva un’unica parola: Papà. Il suo indivisibile Café-au-lait mi rivolgeva anch’esso in questi casi uno sguardo indagatore e mugolava sommessamente. A tre anni e mezzo, Fanny non poteva avere un’idea chiara di ciò che fosse la posta, ma ella mi aveva visto così inquieta, così [233] ansiosa al giungere di qualche lettera, che se si bussava alla porta, ella smetteva di saltare e di correre e porgeva l’orecchio per sentire chi fosse; poi se realmente era il fattorino e mi consegnava un piego suggellato, non c’era nè trastullo, nè compagnia che la tenesse dall’affrettarsi verso di me e accovacciarmisi ai piedi e posar la testina su’ miei ginocchi, talora ripetendo, a foggia d’inchiesta, quella sua parola papà, talora nemmeno aprendo bocca, ma standosene zitta e raccolta. E allorchè prendendola in braccio io le dicevo: — Il babbo manda tanti baci alla sua Fanny — la sua fisonomia s’illuminava, ed ella faceva un segno a Café-au-lait, il quale m’era addosso di un balzo, e leccava a vicenda la sua padroncina e me, per manifestar poi la sua ilarità in modo clamoroso col saltare su tutti i mobili. Però a mano a mano che la grande armata procedeva sul suo cammino, quelle lettere lungamente attese, aperte con mano tremante, mi gettavano un invincibile turbamento nell’anima; gl’infausti presagi scacciavano le belle speranze, una tristezza, invano combattuta, s’impadroniva di me, e i miei occhi s’innondavano di lagrime. Allora ero certa d’incontrare gli occhi della povera Fanny, umidi anch’essi ed inquieti, e volevo sorridere, ma non mi [234] riusciva, e rompevo invece in un pianto dirotto. Ella mi gettava le braccia al collo e piangeva ella pure. Verso la fine di luglio mi giunse un foglio di Gastone che portava la data del 30 giugno, ed era scritto da un villaggio indecifrabile. Ci siamo, — egli mi diceva. — Il nemico non viene verso di noi, onde tocca a noi di andarlo a cercare. Dove? Non si sa. È un mondo incognito, immenso, dove avremo per guida la nostra buona stella e il genio di Napoleone. Il passaggio del Niemen fu cominciato ier l’altro e finito oggi. Un terribile uragano che scoppiò ieri mise un po’ di disordine nelle nostro file. Il grosso dell’esercito aveva varcato il fiume il 24, e dev’esser stato uno spettacolo imponente. Pur che volete che vi dica? Questo silenzio che c’è d’intorno a noi mi sgomenta, questa vastità di terreni senz’anima viva mi produce un senso di stanchezza e di tedio, questa marcia non interrotta da battaglie mi fa l’effetto di un funerale. Il nostro esercito così gaio per solito sembra dividere in parte le mie impressioni. Oh Maddalena, quando rivedrò la mia Fanny, quando rivedrò voi? — Mentre cammino per queste strade aride, sabbiose, penso che la felicità sarebbe costì e ch’io me ne dilungo a ogni passo....
Quel giorno Fanny senza pronunziare [235] una parola s’era arrampicata dietro la mia seggiola, e guardava la lettera ch’io tenevo aperta dinanzi a me, come s’ella avesse potuto decifrarne i caratteri. Café-au-lait mi aveva posato una zampa sulla spalla e pareva che volesse stimolarmi a dir qualche cosa.... Ma non ci fu verso che mi uscisse una parola di bocca. Baciai la bambina che mi guardava, e per distrarla mi misi io stessa a giuocare con lei. Ella stette un momento in forse, e cominciò a giuocare di malavoglia, ma poi riprese la sua ilarità consueta. Il cagnolino, che regolava il suo umore su quello della bimba, dopo aver sulle prime dato a divedere che la soverchia allegria non gli pareva cosa dicevole, si levò di dosso gli scrupoli e con innumerevoli capriuole richiamò a sè l’attenzione di Fanny, de’ cui trastulli egli era il fidato compagno. Io lasciai che Maria stesse a guardia della bambina e mi ritrassi nella mia camera. Non ne potevo più. Una cura assidua, profonda mi logorava. Una voce intima mi ripeteva: Non tornerà. E Fanny? Quale sarà il suo destino? In che mani sarà ella consegnata? Che voci d’amore conforteranno la sua infanzia? Sia ch’io la vedessi melanconica, sia che mi ferisse l’orecchio il suono delle sue allegre risale, non sapevo ormai guardarla [236] senza commozione. Mesta, io pativo del suo soffrire presente, gaia, mi straziava l’animo il pensiero ch’ella, povera creatura ingenua e nuova alla vita, non aveva idea di ciò che forse l’avvenire le preparava. Oh sarebbe stato pur meglio che Gastone, partendo, l’avesse lasciata a me senza vincolo alcuno, all’infuori di quello di restituirgliela s’egli fosse tornato!
I messaggi del campo si facevano rari. Pur di tratto in tratto giungevano. In agosto ebbi una lettera del 25 luglio. — Cominciano i combattimenti — scriveva Gastone. — Il 23, il primo corpo ha dato e vinto una battaglia sulla Mischwoska contro l’esercito del principe Bagration, di gran lunga più numeroso. Noi non abbiamo avuto finora che scaramuccie di nessun conto. Ieri, nel pomeriggio, comparve tra noi l’Imperatore. Fu accolto con entusiasmo, ma è cupo, concentrato, e non par più quello di Austerlitz. Annunziato dallo scalpitar dei cavalli e da un gran nembo di polvere, scomparve ugualmente fra un nembo di polvere. Quando lo rivedremo? Chi sa? Tutto è misterioso in questa guerra.... Noi siamo assetati di pugne. La marcia è faticosa, i villaggi che s’incontrano solo a grandi distanze sono abbandonati dagli abitanti prima del nostro arrivo, e non vi si [237] trovano provvigioni. L’ululato dei cani nelle fattorie deserte, il mormorio solenne delle foreste d’abeti empiono l’anima di lugubri presagi. I soldati, sopratutto i giovani, patiscono senza misura. Il caldo e la fame decimano le nostre file, che il fuoco ha lasciato finora pressochè intatte. Vi è specialmente una gran moría nei cavalli, e le strade sono disseminate dei loro corpi che appestano l’aria. Il bel baio che comperai in Germania quando fui nominato maggiore è morto anche lui. Dovetti acconciarmi con una vecchia rozza che non so quanto durerà.... Ah! ecco il cannone! Sia ringraziato il cielo.... Baciatemi Fanny. A voi non dico altro se non che custodisco sempre sul mio petto la vostra camelia. Addio.
Ho forse bisogno di dire quale fosse lo stato dell’anima mia? Ormai io mi maravigliavo che altro avesse potuto occuparmi; tutti i miei pensieri erano conversi nell’uomo che si allontanava da me ogni giorno più, e nel vago angioletto che mi stava accanto. Clara, gli affari del signor Venanzio, l’avvenire di mia madre non avevano virtù di richiamare la mia attenzione; il mio antico crocchio s’era quasi sciolto, le mie piccole alunne non trovavano in me l’usate premure.
— L’hai presa con troppo calore — diceva [238] mia madre le poche volte in cui ci vedevamo — E se poi nasce una disgrazia, che cosa vuoi farci?
La signora Elena s’era accomiatata in tutte le regole. — È uno scandalo — ella diceva — Nemmeno se fosse sua moglie sarebbe tanto agitata. E poi quella bambina che c’è sempre per i piedi e che nessuno sa bene che roba sia, e donde venuta.... E finalmente quella insopportabile bestia, quel Café-au-lait che ha portato in giro per tutta la casa il mio cappellino!
Anche il signor Filippino aveva smesso affatto le sue visite. Venivan soltanto a lunghi intervalli il signor Lodovico e Don Gaudenzio. Ma Don Gaudenzio, non trovando più modo di discorrere di Gaspare Gozzi, era un pesce fuor d’acqua, e il notaio si limitava a scrollare il capo e a mormorare: — Brutti affari! brutti affari!
La mia consolatrice, la mia confidente era la buona Giannina. Il suo affanno, poveretta, lo aveva anche lei, ma lo nascondeva per non accrescere il mio. — Vedrà che torneranno, torneranno tutti e due quelli che aspettiamo, il suo, perchè il Signore non vorrà commettere questa ingiustizia di aggiungere un altro colpo ai tanti che hanno martoriata la sua gioventù; il mio perchè gli è un buono da nulla e i buoni [239] da nulla hanno sempre fortuna.... Paolo non mi scrive, non sa scrivere.... e seppur sapesse, son certa che non si prenderebbe una briga simile.... vuole tutti i suoi comodi, lui, ma il cuore mi dice ch’è vivo. Oh ne son sicura! La settimana scorsa, mi pare d’averglielo detto, ebbi le sue notizie col mezzo della fruttaiuola che ha un figlio nello stesso reggimento, ma quello lì è un bravo giovane, è stato a scuola, e scriveva a sua madre che Paolo era nella sua compagnia e stava benissimo.... Ma che cosa le discorro di me? Quello che preme è il signor maggiore.... E vedrà che non accadranno disgrazie, e che ci sarà un’ora di felicità anche per lei....
Passavano le settimane, passavano i mesi. Una cupa inquietudine era diffusa per la città. V’erano tanti che avevano al campo i figli, i fratelli, i mariti, e le cose andavano sì in lungo. Le notizie dei giornali erano sempre color di rosa. I nostri si avanzavano intrepidi, l’Imperatore godeva perfetta salute, i Russi fuggivano. Ma della pace non si discorreva mai. Poi i cannoni della piroga tuonarono a festa. S’era vinta una gran battaglia, una battaglia straordinaria, in confronto alla quale Marengo, Austerlitz, Friedland erano una bagatella. Indi giubilo immenso nella massa della [240] popolazione, ansietà infinita in quelli che avevano i loro cari nell’esercito. Dopo la gran vittoria verrà la pace, ma, Dio santo, non si può saper chi siano i morti, chi siano i feriti? Come giungono tardi lo lettere!
Ah! finalmente. È un dopo pranzo di settembre avanzato. Siamo in altana. La piccola Fanny sostenuta da Maria spicca i grappoli che si vanno maturando sulla vite, Café-au-lait spicca salti bizzarri fino a prender fra i denti la falda del vestito della sua piccola amica. Giannina ed io sediamo in un angolo meste, pensose, ora discorrendo della battaglia, ora cercando di dare al dialogo un altro indirizzo, senza che ci riesca. Anche la confidenza di Giannina è scossa. Corrono strane voci fra il popolo. Si dice che interi reggimenti siano stati distrutti, nessuna tra le conoscenti di Giannina ha notizia de’ suoi. Anzi vengono da lei a chiederle se sa nulla, se Paolo le ha fatto saper nulla. — Ma, benedette creature — ella risponde — non ve l’ho già detto che Paolo non iscrive mai. — Ed ecco Café-au-lait con le orecchie tese piantarsi sul primo gradino della scaletta di legno che dall’altana scende all’ultimo piano della casa e agitar la coda con moto convulso. È una lettera che porta lo scritto di [241] Gastone..... Signore! Che tu sii ringraziato. Sono quattro pagine vergate in calligrafia minutissima. Hanno la data del 9, due giorni dopo la terribile battaglia della Moskowa, la cui descrizione mi fa drizzare i capelli. Gastone era stato al fuoco tutta la giornata, e aveva visto cadergli a fianco i suoi capi, i suoi più fidi compagni d’arme. Era stato promosso colonnello, ma non era lieto nè dell’avanzamento, nè della vittoria. — Per quanto io fossi avvezzo allo spettacolo della morte — erano le sue parole — non mi bastò l’animo di percorrere il campo di Borodino il dì seguente alla battaglia. Il suolo era coperto di feriti e d’uccisi. Ogni acclamazione era soffocata dai gemiti che si alzavano da tutte le parti. Le bolgie infernali che il vostro Dante descrive non devono aver presentalo un uguale spettacolo di desolazione e di patimenti.
Quanti amici miei che voi pure avrete inteso nominare, quanti che vostra madre ha conosciuto, ornamenti delle veglie veneziane, quanti hanno chiuso il 7 la vita nel fiore degli anni! Quante mani che io avevo stretto il mattino erano irrigidite la sera! Oh il mio grado acquistato a questo prezzo è ben caro! — E qui seguiva una lunga tavola necrologica formata dei nomi dei più brillanti ufficiali che attorniavano le [242] nostre gentildonne. — Abbiamo vinto — proseguiva Gastone — e di qui a pochi giorni saremo a Mosca. Ma poi? Avremo forse la pace? Alcuni lo dicono, ma io ne dubito. Ci sta dinanzi un popolo che ci abborre d’un odio selvaggio, che getta nel fiume le sue provvigioni per non lasciarci pane, che arde le sue case per non lasciarci tetto. Quell’odio s’alimenta d’orgoglio nei capi, di superstizione nel volgo, che ci crede venuti a insidiar la sua fede, a devastare le sue chiese, a oltraggiare i suoi Santi. Se aveste visto, Maddalena, la vigilia della battaglia, sul far della sera una lunga fila di ceri lentamente percorrer le colline ov’era accampato l’esercito russo e apparire e dileguarsi a vicenda secondo che le macchie d’alberi erano più o meno fitte, se aveste inteso levarsi solenni salmodie religiose in mezzo a quella luce fantastica, vi sareste sentita voi pure misteriosamente commossa. Era la cosidetta Madonna miracolosa di Smolensko che i preti greci portavano in processione lungo i bivacchi. Mi tornarono a mente le ingenue cerimonie vedute da fanciullo nella mia credente Bretagna quando mia madre cercava d’infervorarmi della sua pietà.... Questo popolo sarà ignorante, io dissi a me stesso, ma combatterà fino all’ultimo come [243] hanno combattuto i Vandesi. — La lettera si chiudeva con alcune parole d’affetto per Fanny e per me; indi v’era un poscritto. — Ebbi occasione di veder dopo la battaglia quel giovane (mi sembra abbia nome Paolo) che è fidanzato de votre gouvernante (Gastone dava questo titolo a Giannina). Egli non ricevette nemmeno una graffiatura. Quantunque ritenga ch’egli avrà già scritto alla sua amante, stimo opportuno di darvi questa notizia nel caso che la sua lettera fosse andata smarrita.
Nell’estremo della miseria ci vuol così poco a render felici! Il messaggio di Gastone era lugubre e tale da destar più terrori che speranze; nondimeno Gastone era vivo e l’anima mia si riposava in questo pensiero. Checchè egli ne dicesse, la guerra doveva aver raggiunto il suo culmine; era impossibile che dopo una carnificina sì spaventosa non si sentisse da ambe le parti il bisogno di venire agli accordi. A ogni modo un pericolo simile non sarebbe tornato, e s’egli era sfuggito ai rischi più gravi, o perchè non isfuggirebbe ai minori? E Giannina, la mia buona Giannina com’era lieta! Nel suo forzato sorriso dei giorni scorsi non v’era stata mai gioia sì vera come nelle lagrime che le sgorgavano copiose giù per le guancia. Ella mi confessò [244] che da quindici notti non chiudeva occhio, che la fiducia ch’ella mostrava era tutta ostentata, che pur troppo ella temeva che Paolo fosse morto o ferito, e non c’era caso che le venisse fatto di avvezzarsi a questa idea. Aveva torto, ma lo amava, s’era abituata ad amarlo. E adesso, a saperlo vivo, ella si sentiva rinata, e mi chiedeva scusa se da qualche tempo ell’era stata meno assidua nel suo servizio. Vedrei adesso se le sarebbe ritornata la lena.... E così dicendo ella baciava Fanny, Maria e anche Café-au-lait, col quale non soleva aver troppa simpatia, e saltava per l’altana come una bambina. Angelica creatura! Io l’avevo trovata sempre uguale, sempre piena di zelo e d’affetto, ed ella s’incolpava di negligenza e di distrazione!
Fanny che aveva smesso di spiccare i grappoli d’uva, venne pian pianino a posarmi le mani sulle ginocchia, e col suo bel visetto rivolto all’insù, mi mormorò quella sua solita parola: Papà. — Oh sì, dolce amorino mio, il tuo babbo tornerà presto, e ti porterà tante belle cose.... Eh sta ferma, bestiuola — gridai poscia rivolta a Café-au lait che m’era balzato in grembo e leccava la bocca della sua padroncina. — Via, vieni qua — soggiunsi tosto — oggi devi far festa anche tu — e, alzatami [245] da sedere, tolsi dal vassoio su cui avevano portato il caffè una palla di zucchero, ond’egli era assai ghiotto, e la slanciai per aria. Il cagnolino prese la mira, spalancò la bocca, spiccò un salto, e, raccolta la palla fra i denti e la lingua, ricadde al suolo con la schiena indietro e fece mille bizzarre capriuole prima di ripigliare l’equilibrio. Fanny si smascellava dalle risa, e noi con lei...... Poveri illusi! Avevamo tanto bisogno di sperare che un fuggevole barlume ci produceva l’effetto del sole in pieno meriggio!
Ahimè! Non era, no, il sole in pieno meriggio quello che aveva balenato un istante fra le nostre tenebre, era l’ultimo chiarore del crepuscolo che si diffondeva nel cielo innanzi che la notte vi avesse incontrastato dominio. La notizia sinistra dell’incendio di Mosca, prima sussurrata sommessamente nei crocchi, poi ingigantita dalla voce pubblica e attenuata invano dai fogli ufficiali, ebbe per me una tremenda conferma da una [246] lettera di Gastone che me ne dipingeva gli orrori a tinte vivissime. Per tre giorni, 16, 17 e 18 settembre, le fiamme avevano divorato la superba metropoli in cui la grande armata era entrata sul cader del 14. Per tre giorni le truppe affaticandosi invano a sterminare uno sciame d’incendiari che correvano la città come Eumenidi forsennate, avevano dovuto cercarsi un varco attraverso quella bolgia infernale mentre le muraglie scrosciavano e le stridule vampe con sottilissimi guizzi investivano le cupole e i minareti, e mille e mille uccelli selvatici sbucando dai loro nidi invasi dal fuoco si libravano sul firmamento mettendo spaventosi ululati. Una pioggia dirotta aveva sola potuto estinguere l’ampia fornace, e l’esercito era in parte ritornato ne’ suoi quartieri. Ma era sopraggiunto un guaio peggiore degli altri. I vincoli della disciplina erano infranti; i soldati si sguinzagliavano al saccheggio della capitale deserta. Ciò che non s’era visto fino allora in un esercito francese, si vedeva in quel tempo; la voce dei capi non aveva più autorità; tutti comandavano, nessuno obbediva. — Mentre vi scrivo — diceva Gastone — odo a poca distanza un fuoco di moschetteria. Si fucilano due sergenti, rei d’insubordinazione. Erano fra i migliori dell’esercito, fra i più valorosi. Uno [247] d’essi era stato meco in Ispagna. Lo vidi questa mattina — Colonnello — egli sclamò — non avrei mai supposto di morire così.... Ma credetelo, non è colpa mia, è colpa di questa terra maledetta...... Basta, bisogna morire da uomini...... Sento il rullo dei tamburi. È la compagnia che sfila davanti ai cadaveri....
Un luogo silenzio seguì a questa lettera, nè occorre ch’io narri quale fosse la mia ansietà. Intanto non c’era diceria per quanto strana che non si spargesse in paese. Chi rammentava che i Francesi erano in ritirata, chi soggiungeva che tutto l’esercito era sul punto di essere fatto prigioniero e che lo stesso Imperatore era già stato preso dai Cosacchi. Non si menzionavano battaglie perdute, ma si preconizzavano i disastri venturi, era come l’aria impregnata della vicina procella. Tuttavia gl’increduli erano ancora moltissimi; bastava rammentare i successi di un esercito ritenuto invincibile per dubitare di questo cambiamento subitaneo della fortuna. Le notizie ufficiali erano scarse e non ispiravano più fiducia; le notizie private non davano una giusta idea dello stato delle cose. Ognuno si occupava (ed erano ben pochi quelli che scrivevano) del suo reggimento, della sua compagnia, di sè stesso. Poichè era noto ormai a tutti [248] ch’io ero io corrispondenza con un colonnello, madri, sorelle, amanti si affollavano alla mia porta. Era uno strazio. Che cosa sapevo io, povera donna, io che, dopo Mosca, ignoravo perfino se Gastone fosse vivo? Nondimeno si voleva vedere l’ultima lettera ch’io ne avevo ricevuta, leggervi la descrizione dell’incendio, indovinar fra le righe quello che non era scritto.... Poi c’erano lagrime, e singhiozzi, e imprecazioni a stento frenate contro chi cagionava tanta rovina. Il comandante di piazza mi fece dire che tenessi per me le mie lettere; e mi guardassi bene dallo spargere notizie allarmanti. Vana cautela! La costernazione s’era impadronita degli animi. Solo l’annunzio della pace avrebbe potuto calmarla. E il cannone, banditore dei grand’avvenimenti, taceva.
Don Gaudenzio, venuto a visitarmi, scrollava il capo, e diceva: — Che nessuno ci senta, figliuola mia, ma i regni fatti senza il timor di Dio hanno le fondamenta d’argilla.... È la prigionia del pontefice Pio VII a Savona ch’è la vera causa di tutte queste disgrazie.
Mia madre, secondo il solito, piena di contraddizioni, manteneva le sue abitudini di vita galante, alternandole con una sequela di pratiche religiose. La sera ella si acconciava per la conversazione, la mattina, [249] con alloggiamento raccolto e vestita a bruno, andava alla messa o al confessionale: — C’è qualche cosa per aria — ella mi disse una volta — bisogna badare all’anima. Pensaci anche tu, Maddalena, che, per tua disgrazia, fosti educata con le idee francesi. — Poi, vedendo ch’io ero preoccupata ben d’altro: — Ah — proruppe — tu pensi al colonnello.... Il colonnello!... Non so avvezzarmi a chiamarlo così. L’ho sempre conosciuto per capitano — Può dire ch’è andato avanti d’un tratto.... Eppure pagherei a vederlo nel suo nuovo uniforme.... Deve fare una magnifica figura.... Ma voglia il cielo che possiamo vederlo.... Povera Maddalena!... Hai aspettato tanto.... non volesti mai abbadare alla tua mamma, che ti avrebbe maritata da un pezzo e con fior di partiti.... e adesso sei in queste angoscie. Un militare.... ai tempi che corrono..... pur troppo bisogna esser preparati a tutto.... — E poi mi assaliva d’inchieste sulla bambina. — Anche quella Fanny, sarà un tesoretto, non lo nego, ma non affezionarleti troppo.... quando poi ti tocchi staccartene..
— Oh non me ne parlate, non me ne parlate, mamma — io sclamavo invariabilmente quando veniva in campo questo discorso. E sentivo infatti che di tutti i dolori [250] che la sorte mi preparata questo era il più terribile, il più spaventoso. Perdere il solo uomo che mi avesse parlato d’amore, il solo uomo che io avessi amato, soffocare tutti quei desiderii, tutte quelle speranze che sono il retaggio d’ogni cuore di donna, era già un sacrifizio quale Iddio non dovrebbe chiedere a una sua creatura; ma perdere questa fanciulla, fare d’un colpo la infelicità mia e quella di lei, perchè un’intima voce mi diceva ch’ella sarebbe stata infelice.... oh era peggio, mille volte peggio! E mi rimproveravo aspramente di non aver detto a Gastone durante il nostro ultimo colloquio ch’egli mi permettesse di far sempre le veci di madre alla sua figliuola, o almeno di non aver avuto il coraggio di scriverglielo dopo che egli era partito. Ma per iscriverglielo conveniva pur accennare alla possibilità della sua morte, nè le mie forze bastavano a tanto.
Una sua lettera pervenutami in novembre m’indusse finalmente a romper gl’indugi,.... ma ero io ancora in tempo? Nel percorrere quel triste messaggio mi pareva che un ferro arroventato me ne scolpisse ad una ad una le parole nel cuore. Era scritto alla fine d’ottobre, dopo la battaglia terribile di Malojaroslawetz, dopo aver riveduto il campo di Borodino seminato di [251] cinquantamila cadaveri insepolti, durante la ritirata spaventosa che doveva acquistare una sì nefasta celebrità nella storia. — Addio, mia buona Maddalena — egli scriveva — addio, mia piccola Fanny. La speranza di rivedervi, che sostenne il mio coraggio, che mitigò le mie sofferenze, è oggi svanita. Questa terra ingoia gli uomini. Più ancora che per le palle nemiche, più ancora che per la lancia cosacca, qui si muore di stanchezza, di freddo, di fame. Noi siamo decimati da nemici invisibili e non ci resta da far altro che incrociar le braccia ed attendere il colpo. Addio, Maddalena; se entro due mesi dal momento io cui vi giunga questa mia lettera, voi non avrete novella di me, spedite pure a Nantes il documento che vi ho lasciato, e dite a Fanny ch’ella non ha più padre. Addio, angelo. Possa il bene che mi avete fatto ricadere a mille doppi su voi, e consentirvi una vita tranquilla e serena. Che la mia memoria non sia per voi cagione d’amarezza. Ch’ella non turbi un’ora sola della vostra felicità. Ma nel vostro crocchio domestico, quando, ormai trascorsa la giovinezza, sederete presso il vostro sposo, in mezzo ai vostri figliuoli, e, nell’abbandono dei cari colloqui, ricorrerete col pensiero il passato, rammentatelo qualche volta (chè potete rammentarlo senza [252] rossore e senza pericolo) il nome di quest’uomo che vi affidò il suo più dolce tesoro, fatemi un posto presso di voi, vicino al vostro focolare, e se tutto non finisce con la tomba, il mio spirito, si rallegrerà per virtù vostra d’una gioia ineffabile.
Fanny, che ormai io avevo presa meco, era in quel momento nel vicino salotto con Maria, il suo cagnolino e altre due o tre bimbe. Giuocavano a gatta cieca, e io sentivo le loro allegre risate. La non s’era accorta che mi fosse giunta una lettera; se no me la sarei vista certo ronzare d’intorno.... Di fuori faceva freddo, pioveva un’acqua agghiacciata che picchiava sui vetri della finestra. Ma in casa mia c’era un raggio di sole, e quel sole era lei...
Corsi alla mia scrivania e vergai questa lettera: — Gastone! Il vostro ultimo foglio mi strazia l’anima. Per carità, non disperate affatto della Provvidenza, lasciate ch’io confidi che non dovrò adempiere al lugubre incarico che mi deste. Ah non sapete, oltre a tutto, ciò che vorrebbe dire per me l’abbandonar Fanny, per Fanny lo staccarsi dalle mie braccia? Oh Gastone, io non voglio nemmeno supporre che questa mia non vi trovi ancora sano. Ebbene, io vi supplico di una cosa. Datemi facoltà, checchè avvenga, di tener meco Fanny. Non [253] vi preoccupate del mio avvenire; questo affetto riempirà la mia vita. Accordatemi il permesso, se occorre, di distrugger le carte che mi avete lasciato pel vostro notaio. Fanny vivrà ignorata dalla vostra famiglia, ma le mie ricchezze le basteranno senz’aggiungervi le vostre, ed ella troverà in me una madre che la cingerà delle più tenere cure. Ho il presentimento, perdonatemi, ho il presentimento che nel vostro castello paterno ella non sarebbe felice.... Con le idee aristocratiche di vostra madre, questa fanciulla nata da un matrimonio clandestino, piombata, per così dire, d’improvviso nella famiglia, chi sa come sarebbe accolta?.... Rispondetemi subito.... Se sapeste, io vi scrivo con la mano convulsa, con gli occhi appannati, con un’emozione di cui non conobbi l’uguale.... Oh se questo pensiero può confortarvi, s’esso può darvi forza a durare i patimenti del cammino, se a voi, blandito dalle più superbe bellezze, non viene a tedio la meschina cui la natura non largì venustà di persona ma solo potenza d’affetto, sappiatelo ancora una volta, o Gastone, io vi amo. Vi amo per voi, vi amo per la dolce creatura che mi affidaste. Tornate, e Fanny sarà la nostra figliuola. Che se il Signore non vuol concedervi di rivedere i vostri cari, ella sarà figlia mia.
[254]
Suggellata in fretta questa lettera, volli portarla io stessa alla posta. Uscii studiando il passo come il giungere quindici minuti prima all’officio postale abbreviasse l’immensa distanza che mi separava da Gastone.
L’impiegato a cui consegnai il foglio, quando ne vide la soprascritta in cui non era indicata la città ma soltanto il nome del corpo d’esercito e il numero del reggimento comandato da Gastone, non potè trattenersi dal borbottare qualche cosa fra i denti e dal dirmi poi: — Badi, signora, io prendo anche questa lettera come ne ho preso parecchie altre pel campo, ma non so farmi mallevadore che arrivi.... — E soggiunse mentre scriveva qualche cosa sulla coperta: — Brutte notizie! Brutte notizie!
— Ma c’è qualche cosa di recente? di ultimo? — chiesi, articolando a stento le parole per la soverchia commozione.
— Brutte notizie! Brutte notizie! — replicò l’altro. — Pare che vi sia un nugolo di nemici, proprio come le cavallette d’Egitto.... Mah!... — E qui si tacque per paura di compromettersi.
Ritornai a casa col cuore spezzato. Periva in me l’ultima speranza.
················
[255]
Ormai nemmeno i giornali avevano più coraggio di mentire, tacevano.
Se migliaia e migliaia di cuori non avessero palpitato per quei valorosi che sei mesi prima avevano percorso pieni di baldanza l’Europa, ed ora lottavano contro l’avverso destino, se un fremito sordo non avesse agitato tutte le popolazioni, stanche ormai di pagar sì largo tributo di sangue, si sarebbe potuto credere che tutto fosse finito. Non una lettera giungeva dal campo; silenzio profondo. Napoleone e la grande armata parevano come un vascello sommerso in mezzo all’Oceano; l’onda vi passa sopra e cela allo sguardo ogni traccia della voragine che si aprì ad inghiottirlo. Il domani era involto in un mistero profondo. Scomparso l’esercito che aveva fatto tremare l’Europa, scomparso l’uomo a’ cui piedi s’erano inchinati i re della terra, che sarebbe avvenuto? Anche l’esultanza dei nemici era mista di perplessità e di sgomento. Quando crolla la quercia secolare che pur contendeva i raggi del sole a un largo tratto di campagna, ogni sguardo la cerca e si sorprende di non vederla più. Quelli stessi che la reputavano dannosa alla vegetazione delle piante minori sono in su le prime piuttosto maravigliati che lieti della sua caduta.
[256]
Così allorchè, sullo scorcio di dicembre, venne pubblicato un bollettino dell’Imperatore e si seppe poi l’arrivo di lui a Parigi, il primo sentimento non fu di sdegno verso l’ambizioso che immolava tante vittime alla sua cupidigia e sapeva sottrarsi alla morte, ma fu di sollievo. Il signore del mondo è tornato, egli penserà a sventar la procella.... Indi a poco però sorse un grido da tutte le parti.... — E gli altri? E gli altri? — Ma degli altri non ancora un messaggio, una parola. Si sapeva soltanto che quelli che restavano erano in lotta cogli uomini, con la fame, col freddo....
Il termine, passato il quale io avrei dovuto scrivere a Nantes per obbedire agli ordini di Gastone, era già mezzo trascorso. Ogni mattina io mi svegliavo con la speranza di ricevere una lettera, ogni sera posavo la testa sull’origliere con l’anima più sfiduciata. Non cercavo più fra le coltri il sonno, ma il riposo. Però le coltri stesse mi riuscivano insopportabile peso; talora, nel cuor della notte, io balzavo dal letto, e recandomi tacitamente nella stanza contigua ove Fanny dormiva con la sua Maria, e col cagnolino raggomitolato ai piedi, restavo qualche minuto immobile a contemplarla. Una pace così dolce e serena era diffusa nella sua fisonomia, un sorriso così innocente [257] scherzava sulle sue labbra, che io pendevo sulla sua cuna quasi attendendo che da lei mi venisse un raggio di quella pace, di quella fede. Stolta lusinga! Io non potevo scacciare da me il pensiero che fra poco anche la mia ultima consolazione sarebbe svanita, che di tutto il mio bel sogno non sarebbe rimasta che la memoria.
Giannina era tornata anch’essa in mille affanni pel suo fidanzato, ma, secondo il costume, non lo lasciava scorgere, ed era preoccupata anzitutto di me e di Fanny. Però usciva di casa spesso, e si recava da qualche parente o da qualche amica per raccogliervi le voci che correvano in paese. Indi tentava di dare un colore ottimista alle notizie udite qua e là, e voleva far animo a me ed a sè stessa, dicendo — Vedrà che ogni cosa finirà bene. Lo sa che qualcheduno ha scritto.... qualcheduno è arrivato.... È stato un freddo immenso, ecco tutto....
Ma nè dalle lettere di chi aveva scritto, nè dalle parole di chi (raro come le mosche bianche) era arrivato, riusciva possibile argomentare ciò che fosse successo degli altri, e trarre argomento di conforto. S’era rotto il fascio che tiene unito un esercito; non v’erano più nè divisioni, nè reggimenti, nè compagnie, non v’erano che manipoli d’uomini intesi soltanto ad [258] aprirsi un varco fra i ghiacci, a fuggire da una terra inospite e fatale. Nessuno conosceva, nessuno curava il vicino. A fianco un momento l’uno dell’altro, si smarrivano per la via, e seppur procedevano insieme, quando l’uno cadeva, non una mano si chinava a raccoglierlo.... Scalpitavano dietro, e si vedevano lungi nell’immensa pianura, in mezzo ai larghi fiocchi di neve e turbinanti com’essa, i corridori cosacchi; l’urrà selvaggio dei barbari si mesceva al sibilo del vento tra i nudi rami delle foreste; le poche case trovate lungo il cammino non offrivano che un asilo infido, gli allegri fuochi di paglia non rendevano il sangue alle membra irrigidite, ma le incancrenivano; giù pegli argini dei fiumi o pel declivio delle alture, vestite d’una lastra di ghiaccio, rotolavano confusamente i cannoni e i cavalli travolgendo seco i fuggiaschi. Ora, se in mezzo a questo infuriare del cielo e degli uomini, taluno toccava un suolo amico, se riusciva a guadagnare la patria, era un’ironia chiedergli e com’egli fosse arrivato e che fosse avvenuto de’ suoi compagni.... Che poteva egli saperne? Rammentava egli forse l’ultimo giorno in cui li aveva veduti?..... Talvolta pensando ch’egli si era salvato da pericoli che l’umana fantasia non comprende, egli rispondeva alle inchieste affannose — Sono [259] tornato io, torneranno anche gli altri. — Ma chi lo udiva, chi aveva inteso come egli era tornato, doveva scrollare il capo sfiduciato e pregar pei suoi cari. Ne vidi anch’io uno di questi reduci; sembrava uno spettro, non si ricordava neppure a qual reggimento avesse appartenuto, quali fossero stati i suoi capi; ne aveva cambiati tanti!
Il tempo passa inesorabile, e così era venuto il gennaio 1813, e Venezia, malgrado i lutti di tante famiglie, aveva indossato nuovamente il suo abito carnevalesco, e già aveva aperto i teatri e si disponeva ad aprire i Ridotti. La spensierata regina dell’Adriatico, perduta ogni altra potenza, conservava lo scettro dei bagordi e dei chiassi.
Il tempo passa inesorabile, e al 25 di quel mese ricorreva il giorno nel quale io avrei dovuto eseguire gli ordini di Gastone. Ma, di mano in mano che quel giorno si avvicinava, le mie forze scemavano, i miei dubbi ingigantivano, e l’idea del dovere che [260] addietro m’era parsa sì chiara andava facendosi in me singolarmente confusa. Fanny non aveva il più lontano presagio ch’ella avrebbe potuto un giorno esser tolta dal mio fianco. Avevo per mesi e mesi nudrito in lei la fede che il suo babbo sarebbe tornato; poi, venutomi meno il coraggio di alimentare in lei una speranza che si era via via dileguata da me, avevo preferito tacere. Ed ella pure taceva; solo mi guardava talvolta come usano i bimbi, quando passa per la loro testina qualche cosa che sentono di non dover dire. Un dopo pranzo, eravamo vicino al caminetto, io la presi su’ miei ginocchi e le dissi: — Senti, Fanny, se la zia Maddalena dovesse andarsene....
— Andrei seco — ella rispose.
— E se — proseguii — vi fossero persone che venissero a prenderti e ti conducessero via.... in un bel castello, con tanti bei fiori..
Io non avevo la forza di proseguire.
Ella alzò i suoi limpidi occhi azzurri, e me li fissò in viso ridendo, come s’io parlassi per celia; poi, visto ch’io continuavo a star seria, si annuvolò a poco a poco, e gridò: — Cattiva! — Rimase un momento imbronciata, quindi ad un punto diede in un pianto dirotto, rumoroso, cingendomi il collo colle sue braccia e appoggiando il capo [261] sulla mia spalla. Café-au-lait, che, immobile, col muso all’insù, con le orecchie tese, scosso solo qualche volta da un leggero fremito, aveva assistito a questa scena, allorchè intese i singhiozzi della sua padroncina, s’impuntò sulle zampe e col pelo irto e mandando fiamme dagli occhi mise un guaito fra il lamentevole e il minaccioso, come volesse dirmi: — O perchè tormentare quella bimba?
Dio mio! Dio mio! Ma che devo fare?
— Non piangere così, il mio angioletto, non pianger così. Sii buona; non ti divideranno da me, no.... Andiamo, rasciughiam quegli occhietti.... Oh che bimba!
Sa il cielo se ce ne volle prima di farla smettere, e sa il cielo ciò ch’io provassi.
Nè le mie parole valsero a rassicurarla appieno; chè ell’era divenuta ormai sospettosa, e in mezzo a’ suoi giuochi si arrestava sovente e si guardava attorno, e se io non ero nella stanza, mi chiamava e correva tutta trafelata a cercarmi, nè aveva pace finchè non mi avesse ricondotta seco trascinandomi per un lembo del vestito.
Oh quante volte, gettando gli occhi sul piego fatale lasciatomi da Gastone, provai un impeto cieco e fui sul punto di distruggere ogni cosa! — Chi avrebbe potuto ridomandarmi Fanny quando più non fossero [262] esistite le prove ch’elle era figlia del visconte di Serges? — Ma no, io non potevo far ciò, gli ordini di Gastone erano chiari e precisi, ed erano ordini d’un padre che disponeva delle sorti della sua bambina. Avevo io il diritto di trasgredirli? Oh perchè, perchè, stolta ch’io fui, non m’ero decisa prima a scongiurarlo ch’egli li revocasse? Perchè avevo spedita la mia lettera quand’egli non poteva più riceverla?
Però, allorchè giunse il momento di compiere il debito mio, nè di Gastone si sapeva novella, presi invano la penna per iscrivere a Nantes, invano cominciai, due tre, quattro volte, la lettera destinata a rapirmi il mio ultimo bene; bastava la voce di Fanny, il suo sorriso, il suo passo, a spegnere la mia energia. E le obbiezioni mi si affacciavano innumerevoli, e se prima m’erano sembrate folli ed inani, mi sembravano allora valide e giuste, e scompigliavano il mio criterio. Nello scrivermi che io informassi dopo due mesi il suo procuratore, Gastone non sapeva, non poteva sapere ciò che sarebbe avvenuto di poi. Egli non prevedeva la dispersione terribile della Beresina che aveva rotto ogni legame nell’esercito, che aveva dato in mano ai Russi i nostri migliori soldati. Io m’affrettavo a crederlo morto e forse egli era prigione, [263] e non gli si permetteva di dar notizie di sè, ma tostochè fosse conchiusa la pace egli sarebbe tornato, sarebbe corso in traccia della sua Fanny, e a trovarla ancora presso di me, florida, gaja, amorosa, lo avrebbe risarcito di tutti i disagi, di tutti i dolori sofferti! O forse, ferito, con le membra rattratte dal gelo, egli languiva in terra lontana, ma appena la primavera avesse intiepidita l’aria, avrebbe potuto lasciar la coltrice, e mi avrebbe mandato una riga, e io sarei corsa da lui, ovunque egli fosse, portandogli la sua figliuola! Vederlo mutilato, deforme, da così bello ch’egli era, che importa? Mi sarebbe parso anzi meno strano ch’egli amasse me, me, scema d’ogni grazia e d’ogni avvenenza. Ma, in verità, perchè disperare? Ne andavano pur tornando di questi sbandati, e dicevano tutti: — Chi sa? Quando men si crede, uno che si riteneva estinto in quella catastrofe, può comparirvi dinanzi. — Sì, un soldato, ma un colonnello!
Un giorno capita un tale, vuol parlare in gran segreto con Giannina. Porta una lettera d’un soldato chioggiotto che si trova nell’ospitale di Varsavia, ferito. Quella lettera è diretta alla famiglia di lui, ma ha un poscritto che dice: — Presso la signora Maddalena Lisari, nella parrocchia, ecc. ecc., [264] deve trovarsi una cameriera di nome Giannina. Avvertitela che nella stessa mia ambulanza vi è il suo fidanzato Paolo.... il quale perdette una gamba, ma è in via di guarigione e potrà alzarsi fra poco. Egli la saluta e la prega di mandargli qualche denaro. — Tralascio di descrivere le feste di Giannina. In quel tempo, nel quale i propri cari si piangevano per morti, era suprema ventura il dire: Sapete, il tale non fu ucciso, perdette soltanto un braccio, una gamba, o le perdette tutte due, ma vive, ma uscirà presto dallo spedale.... Quante povere famiglie furono consolate da una notizia simile!... — Oh — sclamava Giannina — vedrà, vedrà, anche pel colonnello non ci saranno poi tutti questi guai. Anche a lui sarà toccato qualche cosa di analogo a quel capo scarico di Paolo. Ebbene, ci vuol pazienza, è affar d’abitudine. Siamo avvezzi a veder la gente con due braccia, con due gambe, ma a mano a mano che questi signori tornano dalla Russia ci avvezzeremo a vederli con un braccio o con una gamba sola. Creda a me, i deformi ci parranno gli uomini completi.... — E poi correva nella sua camera, e metteva insieme il suo oro e la poca moneta che aveva raggranellata, e stava per barattare tutto e per fare una rimessa al suo [265] Paolo, ma io non glielo permisi e volli supplire con la mia borsa ai suoi desiderii. Durai una fatica immensa a far ch’ella accettasse; le pareva, poveretta, che non ci fosse lo stesso merito, le pareva ch’egli, il suo Paolo, avrebbe capito per aria che quelli non erano i frutti de’ suoi risparmi, ma bensì denari avuti dalla sua padrona, e che perciò egli non li avrebbe ricevuti con uguale soddisfazione. Quando finì col persuadersi, si mise al tavolino, e chiamando a raccolta tutte le sue cognizioni, scrisse una lettera al suo sposo, scorretta, ma così piena d’affetto, che se quell’asinaccio non si leccava le dita d’essere amato da una donna simile non c’era da far più conto di lui che d’una talpa o d’una marmotta. Nè Giannina si dimenticava de’ miei affanni, e scriveva fra l’altre cose: — Fatti leggere anche questo ultimo periodo (chè tu, per tua disgrazia non sai neppur sillabare) e figgitelo bene in capo. In ricambio del danaro che ti mando tu mi devi un servigio. Conviene che tu t’informi subito del colonnello Gastone di Serges che veniva in casa della nostra signora in Venezia, e qualunque sia la notizia che tu possa raccoglierne, buona o cattiva, tu me la faccia avere. Hai capito?
Era tuttavia ben debole la speranza di [266] sapere alcun che con questo mezzo. Ricorsi ad un altro espediente. Scrissi, cioè, una lettera non firmata al notaio di Nantes dicendo esservi in Venezia persona, che non poteva dare il suo nome, alla quale occorreva, per ragioni gravissime, di sapere che notizie positive vi fossero intorno al visconte Gastone di Serges. Essere impossibile pel momento l’offrire maggiori spiegazioni, supplicarsi però di voler rispondere una sola riga ferma in posta a un indirizzo che si confessava non essere il vero.
Così, con affannosa ansietà, io attendevo risposta da due parti.
E la prima risposta venne, non da Varsavia, ma da Nantes. Che forza io dovessi fare a me stessa, dopo aver tanto aspettato quella lettera, par romperne i suggelli, lascio immaginarlo a chi si trovò nel mio caso. Il notaio Moussu (era il suo nome) doveva essere un uomo molto occupato; il suo foglio non conteneva che pochissime righe di scritto. — «Non ho l’abitudine di rispondere a chi non si fa conoscere — egli diceva — ma l’urgenza della domanda m’induce a fare una eccezione. Del visconte Gastone di Serges non si hanno notizie positive. Lo si teme morto, ma non si è certi. Si continuano le indagini. Potrebbe [267] esser ferito e prigioniero. Se chi scrive ha cose gravi da comunicare, si rivolga a me, procuratore ed amico del Visconte. Però è necessario anzitutto togliere gli anonimi e i sotterfugi.
«Andrea Moussu
«Notaio a Nantes.»
Questo messaggio, in altri tempi, mi avrebbe afflitto; nel momento in cui lo ricevetti mi consolò. Non era dunque tolta ogni speranza. Gastone poteva ancora esser vivo. Parvemi inoltre di essere in pace con la mia coscienza. Non avevo eseguito puntualmente gli ordini del Visconte, ma avevo fatto sapere ai suoi ch’egli aveva seri interessi in Venezia.... Anzi mi sembrava dovermi applaudire del mio operato. Il desiderio di Gastone era pur quello che sua figlia rimanesse meco fino al suo ritorno o fino all’annunzio della sua morte. Poichè questo annunzio non v’era, io non dovevo badare alla sua ultima lettera, ma regolarmi a seconda delle intenzioni ch’egli mi aveva manifestato a voce prima di partire. Perciò ripresi la penna, e scrissi a Nantes ch’io ringraziavo del cortese riscontro, che non m’era dato ancora svelarmi, nè spiegar le gravi ragioni che mi avevano mossa, ma che pregavo soltanto, [268] allorchè o della salvezza, o della morte di Gastone si sapesse qualche cosa di sicuro, di voler darmene avviso......
Poi stetti aspettando.
Che non si disse sull’aspettazione! Qual poeta novellino o provetto non consacrò a questo tema i suoi versi! Vivere in una sospensione continua dell’animo, al mattino affrettare la sera, alla sera il mattino, scuotersi al rumor d’ogni passo, al fruscio d’ogni veste, all’aprirsi d’ogni uscio, non poter attendere a una occupazione seguita, piangere, sospirare, corrucciarsi anche degli annunzi lieti, anche con le persone care, se non sono le persone e gli annunzi che si aspettano, sentirsi posseduti da un pensiero unico, assiduo, da un assiduo ed unico affetto, non provar simpatia per le gioie e pei dolori degli altri, ma creder che tutti gli altri debbano aver simpatia per le gioie e i dolori propri, favellare a caso, risponder distratti, ecco ciò che produce l’attesa. Ecco qual era il mio stato.
Da Varsavia e da Nantes uguale silenzio. Giannina non aveva ricevuto più notizie del suo sposo, ed era anche lei sulle spine. Verissimo ch’egli nè sapeva scrivere, nè aveva l’abitudine di scomodarsi per la sua fidanzata, ma, nel mandargli il danaro, ella lo aveva supplicato con tanta insistenza a [269] informarsi di Gastone e a rispondere, che ella non sapeva persuadersi come, se non gli fosse accaduta sventura, egli avesse potuto esimersi dal trovar fra i suoi camerati chi vergasse una lettera per conto suo. Andò in traccia della persona che le aveva recato le prime notizie, ma non potè cavarne altro senonchè la certezza che il soldato chioggiotto per mezzo del quale Paolo si era fatto vivo era in convalescenza a Varsavia e scriveva regolarmente alla sua famiglia. Forse avrebbe giovato andare a Chioggia. Giannina non lo diceva, per tema di darmi noja, ma io lo compresi e le diedi licenza che andasse. Invero erano corse ormai parecchie settimane dacchè ella aveva scritto a Varsavia, e quel silenzio era abbastanza singolare. Dopo aver aspettato ancora alcun poco, ella intraprese la gita. Si riserbava anche a lei, poveretta, uno di quei dolori che avvelenano l’esistenza. Il dì appresso, sempre col pensiero di Gastone, com’è facile immaginarsi, e combattuta fra la speranza e il timore delle notizie che Giannina avrebbe potuto recarmene, io non ebbi un momento di pace. Era notte quand’ella giunse, Dio mio, in quale stato. Non l’avevo mai vista così, nemmeno nei suoi giorni più angosciati.
— Parla, per carità, Giannina, che cosa [270] è accaduto? Sta male? È morto forse?..... E Gastone? — soggiunsi a voce più bassa, parendomi sconveniente di rivolgerle questa domanda mentr’ella era già tanto turbata.
— No, padroncina, nulla ho potuto saper del visconte.... Ma lui, oh infame! è peggio che morto....
— Calmati, spiegati.
— Sì, sì, mi spiego subito.... Infame!.... Quando mi presentai da quella famiglia (una famiglia patriarcale; c’è un nonno che avrà novant’anni, e poi i figli, e le nuore, e i nipoti, tutti attorno, pieni di riverenza e d’affetto), quando mi presentai e dissi il mio nome, e ciò ch’io chiedevo, li vidi, qual più, qual meno, turbarsi e farsi cenno col capo come a significare: Badate di non dir nulla.... — Ma io non mi mossi.... mi mostrai forte, preparata a tutto, indifferente quasi.... Alla fin dei conti — dissi per incuorarli — dopo un disastro simile c’era da aspettarselo pur troppo.... ma almeno esser fuori delle incertezze.... poter pregare il Signore pei poveri defunti.... e certo il Signore darebbe pace a quelli che restano.... Una delle nuore trasse un sospiro, un uomo, scuotendo la cenere della sua pipa, si passò una mano sugli occhi, ma il vecchio teneva saldo, e continuava a ripetere..... Cara creatura, non ne sappiamo niente, ma faremo scrivere a [271] Nane, ed egli risponderà subito..... oh quello lì scrive come il signor vicario!... e quando avremo notizie, buone o cattive, verrà uno dei miei nipoti a portarvele.... Già essi ci vengono spesso a Venezia..... — Io però avevo capito da un pezzo che essi sapevano tutto, e non volevo andarmene se non avessi loro strappato il segreto. Dissi una bugia.... Ebbene, buona gente, io lo calcolo morto e sciolgo il mio voto. È un voto che ho fatto alla Vergine quando Paolo è partito.... S’egli muore, vo monaca....
La donna che aveva prima sospirato non seppe reprimere un’esclamazione. — Monaca per quello lì!
L’avo voltò faticosamente la testa dal suo seggiolone e slanciò alla giovane uno sguardo pieno di rimprovero, ma senza amarezza. Alle corte; ormai ero messa sulla strada e a forza d’insistenza riuscii a sapere la verità.... Infame!... Proprio quella mattina, veda combinazione, avevano ricevuto una lettera del loro Nane, nella quale, dopo tante altre cose, diceva loro che era scandalizzato del contegno d’un suo commilitone. Non avrebbe mai creduto che si potesse esser furfanti simili..... Stia a sentire, stia a sentire.... Appena avuto il danaro..... ch’era molto, pur troppo....
— Non era poi tanto — interruppi.
[272]
— Ah padroncina, bisogna che le domandi perdono in ginocchio. Lei sa che m’ha costretta ad accettare il suo regalo perchè io non dovessi dar fondo a’ miei risparmi, nè vendere i miei ori.... Ebbene, accettai. Ma poi mi parve, stolida! che non era bello ch’io non facessi nessun sacrificio, e mi sentivo una spina al cuore, scimunita! e impegnai tutto, fuori di queste buccole che ho agli orecchi, e presi la moneta che avevo in cassetto, e feci un monte d’ogni cosa, e gli spedii, sa quanto?
— Dillo, via....
— Per più di cento zecchini veneti.
— Oh che grulla. Ebbene?
— Ebbene. Quando li ebbe, scrive Nane, era sul punto di uscire dell’ambulanza e trattò gli amici la sera stessa con gran cortesia. Ma, subito, il mattino dopo, cominciò a metter su boria e a dire che quei denari non erano già risparmi della sua fidanzata; no, tutt’altro, erano i fitti di alcune case ch’egli aveva in Venezia. E già, egli era ricco, e di quelle rimesse se ne sarebbero viste continuamente.... Poi, invece di disporsi a partire, si mise a bazzicare pel paese, e va di qua, va di là, con la sua gamba di legno, brutto mostro, s’imbattè in un’ostessa meno giovane di lui, ma non isprovvista di beni di fortuna, benchè [273] debba esser corta di cervello, e si spacciò con lei per un gentiluomo veneziano, malgrado che i compagni se ne prendessero giuoco e gli dessero la berta, e la infinocchiò per modo, che.... ma non par credibile.....
— Ebbene?
— L’ha sposata!
Nel tuono con cui Giannina pronunziò il suo discorso, e sopratutto nell’accento da lei dato all’ultima frase v’era qualche cosa di sì vivace e piccante, che, malgrado la serietà dell’argomento, se l’animo mio non fosse stato turbato per altre ragioni, scommetto che avrei dovuto finire col riderne. Pensare che i miei denari avevano contribuito a far passar quello zotico di Paolo per un gentiluomo e a dargli in moglie un’ostessa polacca!
— Sicuro — ripigliò Giannina percorrendo la stanza per lungo e per largo — ha sposato l’ostessa. Figuratevi che tipo.... Già me la immagino.... sarà corta e grossa.... tutta stillante lardo dalle braccia e dal viso.... E lui! Oh il bel mobile. Con la sua gamba di legno.... Ha voglia il cielo che quando l’ostessa sappia la verità, la te la rompa sul capo la tua gamba di legno....
Ma presto mutò tenore, e immobile e [274] torcendosi le dita. — Oh! disgraziata ch’io sono — gridò. — Val dunque la pena di aver amato un uomo per dieci anni di seguito, di averlo amato senza peccare d’infedeltà neppur col pensiero, di non aver badato alle dicerie della gente, di aver tollerato i suoi difetti, di avergli sacrificato la propria gioventù, di aver atteso con pazienza da santi finch’egli si decidesse a romper gl’indugi e darvi il suo nome, val la pena di aver fatto tutto ciò perchè poi la vile e malnata creatura vi pianti lì per la prima venuta, per una che nè lo conosce, nè egli conosce, e dopo aver detto a voi mille volte: vedremo, penseremo, sposi lei dalla mattina alla sera con la stessa indifferenza con cui si beverebbe un uovo!... Va là anche tu, maledetto pegno — ella sclamò quindi strappandosi dal dito l’anello e gettandolo in terra con gran diletto di Café-au-lait, il quale era presente, e poichè vide rotolare sul pavimento qualche cosa di luccicante, spiccò tre salti arditissimi — va là anche tu, e che nessun uomo mi parli, e che nessun uomo mi guardi. Tutti scellerati! tutti traditori! — E non potendone più, si lasciò cader sulla seggiola e diede in uno scoppio di pianto.
Povera Giannina! Così degna d’esser felice!
[275]
I gruppi vengono al pettine, e gli affari di mia madre si andavano avviluppando ogni dì più. Per quanto io fossi distratta da altri pensieri, non potevo chiudere gli orecchi alle voci che me ne giungevano da varie parti. — È un edifizio che si tien su a forza di puntelli — dicevano alcuni — ma un bel giorno dev’essere uno scroscio meraviglioso. — Mia madre non aveva neppure nel carnovale 1813 mutato il suo tenore di vita, era andata, secondo il solito, ai teatri ed ai balli; ma chi la vedeva assicurava che le sue acconciature erano quelle degli anni scorsi rimesse a nuovo, nè, soggiungevano, poteva essere altrimenti, chè ormai nessun negozio di merceria le faceva credito. In casa si cambiava ogni mese la servitù, e la ragione era quella che non si pagavano mai puntualmente le mercedi. A sentire mia madre, c’era invece un pervertimento nella razza dei camerieri. Intanto i licenziati sparlavano e la casa era screditata senza rimedio. Il signor Venanzio, [276] espertissimo negl’imbrogli, si arrampicava sugli specchi e pareva un miracolo com’egli potesse ritardar la catastrofe. S’era messo anche a fare il negoziante, e il vestibolo del palazzo Rezzinelli era tutto pieno di botti e di sacchi che dovevano rammentare a mia madre giorni migliori, quando quelle botti e quei sacchi non erano ciurmerie, ma affari belli e buoni. Allora ella si turava il nasino aristocratico, e sollevava schizzinosa le falde del suo vestito di seta; adesso, con la sua fede cieca nel signor Venanzio, si riprometteva mari e mondi da quelle speculazioni, e se si voleva metterla sull’avviso, esclamava: — Eh via! Son baie! Volete insegnare a Venanzio voi? Egli può mandarvi a scuola tutti.
Però c’era un grave guaio. La catastrofe di Russia aveva fatto ritenere un momento che si sarebbe venuti per forza o per amore agli accordi. Invece le cose prendevano una cattiva piega, e tutti sentivano venirsi addosso una nuova guerra. Crescevano quindi le diffidenze; gli affari diventavano più malagevoli e i creditori più ispidi che mai.
— Il naufragio è vicino — diceva il signor Lodovico facendo girare la tabacchiera.
Quanto a me, avevo fermato irrevocabilmente i miei propositi. Assistere il signor [277] Venanzio, l’uomo che aveva insidiato l’onore del mio nome, diviso la mia famiglia, costretta me a lasciare il tetto materno, giammai. E il signor Venanzio ne era così persuaso che, sebbene vilissimo, non osò farmi dirigere la più lontana preghiera. Del resto, la sola che avrebbe potuto discorrermene, mia madre, era tenuta all’oscuro della verità. Fosse la boria di non lasciare che sua moglie lo credesse rovinato, fosse che la sua natura insidiosa non gli consentiva di esser franco, nemmeno se la franchezza poteva giovargli, fatto si è ch’egli non si era mai aperto con lei. Aveva consumato a oncia a oncia il suo patrimonio dicendole sempre che investiva il danaro in ispeculazioni che avrebbero reso il cento per cento, e sotto questo pretesto, a quanto mi si era detto, le aveva tolto dopo l’ultimo carnovale le sue gioie con la promessa di restituirgliele nell’autunno seguente. Comunque sia, io non avrei fatto nulla per esso. Ma io non ero dimentica de’ miei doveri verso mia madre, e sapevo che non m’era lecito sottrarmi ad alcun sacrifizio per salvarla dalla miseria e dalla vergogna. V’era finalmente Clara raggirata in perfida guisa per indurla a cingere il velo e ad abbandonare una parte della sua sostanza. Ebbene; non l’avevo io avvertita di ciò che [278] si tramava a suo danno, non le avevo offerto di aiutarla s’ella credeva che le sue forze non bastassero a resistere? In verità, vedendola in convento, la non mi era sembrata così innocentina da lasciarsi prendere all’amo, e se malgrado ciò le piaceva andar monaca, non ero io che dovessi pigliarmi soverchio affanno. Al cuore non si comanda, ed io, per quanto facessi, non riuscivo ad amarla. Tuttavia, era mio intendimento, nel provvedere alla sorte di mia madre, di patteggiare anche la libertà di colei ch’era pur mia sorella, di fare in modo cioè che la uscisse intanto dal chiostro e, fuori d’ogni influenza, potesse decider da sè della sua persona e de’ suoi averi.
Ma da questo lato le cose andarono più rapide ch’io non credessi, poichè Clara, con quella buona memoria che hanno le persone bisognose di qualche servigio, s’era ricordata perfettamente delle mie esibizioni, e una sera a ora tardissima, quando meno me l’aspettavo, una gondola approdata alla mia riva mi conduceva proprio lei, fuggita, non so come, dal ritiro. Era stato quella mattina il signor Venanzio a discorrere con la superiora, e, per le relazioni ch’ella aveva avuto intorno a questo colloquio, le faccende stringevano, e si voleva a ogni costo farle prendere il velo. Ella però, che aveva ben [279] altro pel capo e aveva promesso a Roberto (chi era questo nuovo personaggio?) di esser sua sposa, aveva trovato la via di deludere la vigilanza delle monache ed era venuta a cercar ricetto da me. Il suo Roberto era a parte di questa fuga e non avrebbe mancato di presentarsi l’indomani per aver nuova di lei. Ch’io la proteggessi quindi da chi avrebbe fatto il possibile per richiuderla in convento, e che favorissi i suoi amori con l’ottimo, con l’onesto, coll’impareggiabile Roberto.... La pregai che andasse adagino; che, circa al proteggerla, avrei posto in opera la mia influenza perchè si rispettasse la sua libertà, ma che quanto all’ottimo, all’onesto, all’impareggiabile Roberto, di cui ella non sapeva dirmi nemmeno il cognome, era chiaro ch’io non potessi pel momento impegnarmi a nulla. Ella non avrebbe finito più di discorrere, ma io la persuasi a prendere intanto qualche cosa da cena e a coricarsi; stesse tranquilla, che non sarebbero venuti i birri a portarla via. Giannina, che non l’aveva mai avuta nelle sue buone grazie, e che dopo il fiero disinganno toccatole era assai frastornata, le dava fretta e rispondeva con monosillabi alle sue mille interrogazioni. Ma non è agevole impresa il frenar lo scilinguagnolo di una educanda. — Ma via — sclamò ad un punto la cameriera [280] impazientita — non parli così forte, chè sveglia Fanny. — Fanny! O chi è Fanny — chiese Clara. E poi, guardandomi, soggiunse — Ma dimmi? Saresti forse maritata? E nessuno me lo avrebbe detto? E avrei una nipotina?.... — Che sogni! — risposi — no, che non sono maritata. — O — continuò la pettegola senza scomporsi — sarebbe un matrimonio clandestino, come ha fatto la zia d’una mia compagna d’educandato.... Oh che male c’è? — Tu sei una bimba — interruppi io seria seria, e parli senza pensare. Chiunque sia Fanny, non occupartene questa sera, fatti accompagnar da Giannina, e va in letto. — Ih! — diss’ella un po’ infastidita — che tu debba esser sempre così sentenziosa. — E se ne andò, mentre io mi dolevo che mi fosse capitata questa nuova molestia. Ma, in fin de’ conti, osservavo meco medesima, è pur colpa mia!
La mattina, Clara mi fece dire che, camuffata da educanda, non sarebbe uscita di camera, ch’io le mandassi quindi qualche vestito mio. Davvero la ci doveva fare una bella figura. Ella era sette o otto dita buone più corta di me, ed era assai più rigogliosa, più florida. Perciò, quand’ella mi si presentò con un strascico lungo un braccio, e col corpetto non abbottonato, non potei [281] trattenermi dal ridere. E la scena divenne più comica quando Café-au-lait, fra per trovarsi faccia a faccia con una persona sconosciuta, fra per veder quella persona vestita degli abiti miei, montò sulle furie e si scagliò con tanta veemenza addosso a Clara ch’ella, volendo ritrarsi sbigottita, incespicò nella coda e fu a un punto per cadere.
Quietammo la bestia, ma Clara era tutta impaurita e confusa, e non capiva più dove si trovasse, e guardava ora a quella bimba a lei sconosciuta che mi chiamava zia Maddalena, ora a quel cagnolino che pareva dolersi del suo arrivo con la fanciulla, ora finalmente a me che non le davo la chiave dell’enigma.
Io avevo fatto pregare mia madre che si recasse a casa mia, ed ella mi comparve dinanzi con la faccia stravolta quale io non l’avevo ancora veduta. Sapeva della fuga di Clara, ma allorchè io le dissi che la ragazza si trovava da me, ella, anzichè tranquillarsi, proruppe in una serie d’invettive assai poco consentanee alla mitezza del suo carattere e alla usata cortesia de’ suoi modi, chiamando lei colpa di tutto, lei vera e sola cagione della rovina della famiglia. Era chiaro che la bomba era scoppiata, e che anche agli occhi di mia madre, poveretta, [282] s’era squarciato il velo che le aveva per tanto tempo nascosto l’abisso. Meno si capiva com’ella attribuisse il disastro a Clara, ma pure di ciò mi resi presto ragione. La fuga di un’educanda da un convento non era uno di quei fatti che commovessero la cittadinanza, nè metteva allora, come avrebbe messo qualche anno più tardi, tutta la polizia sulle orme della fuggitiva; era nondimeno un avvenimento che non poteva rimanere segreto e di cui il pettegolezzo s’impadroniva con singolare compiacenza. Appena giunse ai caffè della piazza la voce che la giovinetta Clara Lisari, educanda alle Salesiane, s’era involata nel cuor della notte, dicevano, con un amante; mentre il signor Venanzio aveva spacciato fino al dì prima ch’ella era ormai persuasa di pigliare il velo, e che in tal guisa buona parte del suo patrimonio sarebbe stato rinunciato alla famiglia; se ne fece uno sclamore grandissimo, e i creditori del signor Venanzio non vollero più saperne di tergiversazioni. Allora il degno personaggio, tornando a casa, aveva maledetto il giorno e l’ora della nascita di Clara, aveva imprecato a sua moglie, a me, e s’era disposto alla fuga. Ma lo si era fermato in tempo, e lo si teneva in provvisoria custodia finch’egli saldasse certi suoi debiti e rendesse [283] conto di certi affari.... — Un uomo come Venanzio! — sclamava mia madre. — Che infamia!... Ma tu lo salverai, non è vero, Maddalena? — Io! In verità, se avessi creduto alle stregonerie, avrei attribuito ad un filtro il singolare acciecamento di mia madre per quel malvagio. Ella non aveva in cuore che lui, e nell’idea che Clara gli avesse dato l’ultima spinta verso il precipizio, non voleva nemmeno vederla, e andava ripetendo: — Oh! se ci tornerà in convento! Se Venanzio la farà stare a dovere! Disobbedire a Venanzio! Oh ci tornerà! — Così tacevano in lei i sentimenti più sacri, e solo restava quella folle e malnata passione sopravvissuta ai disinganni e all’età. Nè quando io le feci intendere che, conscia de’ miei obblighi verso di lei, non ero disposta a fare un sol passo in favore di suo marito, ella si mostrò meno acerba a mio riguardo. Mi chiamò una figlia indegna, e proruppe in altre escandescenze che amai far le viste di non intendere. Non volle trattenersi più a lungo in casa mia, e uscì senz’abboccarsi con Clara.
Venne più tardi con fisonomia molto annuvolata il signor Lodovico, mio notaio, e mi chiese un colloquio a quattr’occhi.
— Che cosa si fa? — diss’egli in tuono di profondo mistero.
[284]
E dovevo ripeterlo? E non avevo detto già mille volte ch’ero pronta a far tutto quello ch’era necessario e che le mie forze consentivano per mia madre, ma che non avrei fatto nulla pel signor Venanzio?
— È presto detto — rispose il signor Lodovico — ma se nella maggior parte delle obbligazioni del signor Venanzio v’è anche la firma di Sua Eccellenza la signora Lucietta!
— Che! — sclamai! — È impossibile. Ella mi avrebbe pur lasciato trasparir qualche cosa!
— Ma se quella benedetta donna non si ricorda nemmeno di aver firmato? E il peggio si è — soggiunse il notaio — che non si tratta mica di affari lisci da potersi accomodare a un tanto per cento. Si tratta d’imbrogli, nei quali, solo che i creditori lo vogliano, c’è la stoffa per un processo criminale coi fiocchi.
— Ah! — gridai con un impeto irresistibile. — E volete ch’io lo salvi! Come! Da sedici anni in qua, egli avrebbe avvelenato la mia esistenza, avrebbe distolto dal retto cammino mia madre, avrebbe ucciso mio padre, mio zio, fatto partir Carlo per non tornare mai più, costretta me a uscire dalla mia casa, e adesso che la giustizia divina lo coglie, adesso ch’egli sta per pagar la [285] pena di tutte le sue iniquità, dovrei io stessa servirgli di scudo? Siete pazzo?
— Benissimo — riprese egli con la sua solita calma. — E vostra madre?
— Mia madre! Mia madre! Voi siete un uomo d’affari e non sapete suggerire un espediente.... non sapete dir nulla.
— Che espedienti volete ch’io trovi? Sono cambiali sottoscritte e non si scherza. Del resto — egli soggiunse con una leggera ironia — toglierò una delle ragioni della vostra inquietudine. Supponendo per un momento che voi pagaste tutte le obbligazioni firmate cumulativamente da vostra madre e dal signor Venanzio, rimangono sempre abbastanza debiti e abbastanza imbrogli per far che quest’ultimo vada in prigione.... — Mi guardò fiso coi suoi occhietti scintillanti, e sclamò stropicciandosi le mani. — Ah! siete cattiva. Ho piacere che non abbiate voluto saperne di Filippino.... Avreste pervertito anche lui.... È un agnello.
— Sì, sono cattiva — risposi, sentendo che ciò ch’egli diceva per ischerzo conteneva una parte di vero — sono cattiva, ma non è colpa mia. Vorrei vedere chi potrebbe esser buona dopo aver passato tante prove quante io ne passai.... Ma ditemi dunque, e badate di non trarmi in inganno è proprio possibile di salvare mia madre sola?
[286]
— Adagio, figliuola mia, parliamo un pochino d’affari. Il precipizio è più fondo ch’io non credessi.
Indi mi espose fedelmente la situazione. Egli aveva seco in nitide cifre la lunga lista dei debiti del signor Venanzio dei quali mia madre s’era fatta responsabile, e, sommatili insieme, ne risultava una cifra assai grossa. — Vedete, cara Maddalena — egli conchiuse, ripiegando la carta e mettendola in tasca, — che un sacrifizio di questa natura non si può pretendere nemmeno da una figlia.
— V’ingannate — io replicai: — ditemi piuttosto se ciò ch’io possedo è bastevole.
— Su ciò non v’ha dubbio; e vi resterà ancora, se non l’opulenza, una discreta agiatezza.
— Voi mi credevate non solo cattiva, ma snaturata — proruppi alzandomi in piedi. — Non sapete che quando morì lo zio Baldassare, vale a dire sei anni fa, egli mi lasciò unica erede di tutto il suo patrimonio, escludendo da ogni legato Clara, escludendo mia madre? E volete ch’io nel ricevere quel benefizio, che creava una disuguaglianza a mio favore nella famiglia, non intendessi gli obblighi che me ne derivavano? Egli stesso, lo zio, che pur non amava nè mia madre, nè Clara, nell’accordare [287] a me una preferenza ond’io tentai invano schermirmi, nell’impormi di rispettare la sua volontà, pronunciava parole che mi suonano ancora all’orecchio: — Non credere, fanciulla mia, ch’io ti voglia figliuola snaturata e cattiva sorella. Quando l’imprevidenza avrà portato i suoi frutti, sarà allora il momento di stender la mano soccorritrice, sarà allora il momento di esser generosa. Voi lo vedete, signor Lodovico, il momento è venuto.
— Ma — obbiettò il notajo — in questo intervallo sopraggiunsero fatti nuovi ed imprevedibili. Voi avete, non dico strette, ma iniziate altre relazioni che portano altri doveri, avete qui una bambina....
— Oh, amico mio, con toccate una piaga che sanguina. La morte ha squarciato la tela ch’io aveva ordito in un’ora d’ebbrezza.... No, credetemi, io non m’illudo.... Seppur mi manca una notizia precisa, io sento qui, nel mio cuore, ch’egli è morto. E Fanny!... Oh! il solo pensarvi mi strazia l’anima.... Fanny è ricca.... ha una famiglia a cui dovrò consegnarla....
Alle corte. Il signor Lodovico ebbe da me l’incarico di procedere a quant’era necessario per comporre gli affari nei quali mia madre s’era ciecamente compromessa. A Clara rimaneva la parte lasciatale dal [288] babbo, io dell’eredità dello zio Baldassare avrei conservato abbastanza per vivere di una vita raccolta e modesta, e per fare altresì un piccolo assegnamento alla mamma quando Clara si fosse maritata ed ella non avesse quindi potuto più abitare con la sua ultimogenita. Così adempivo a’ miei doveri di figlia; avrei almeno riconquistato l’affetto materno?
Circa a Clara c’era da chiarire un punto tuttavia oscuro. Chi era quel Roberto a cui la giovinetta con enfasi di collegiale aveva giurato eterna fede, e per amor del quale era fuggita di convento? La fanciulla che teneva di sua madre per la spensieratezza, quantunque fosse molto più furba, e, diciamolo pure, molto meno schietta di lei, non ne sapeva o non se ne ricordava il cognome. Certo egli doveva averglielo detto una delle prime volte che s’eran visti, quando egli, rematore espertissimo, veniva col battello sotto al muricciuolo che cingeva il giardino del convento, ed ella, aiutata da una compagna, a cui aveva reso uguale servigio, s’arrampicava faticosamente sino a sporger col capo al disopra del parapetto e poteva sostenersi cinque minuti in quella critica posizione. Ma tanta era la paura di esser sorpresa, e tanto la sgomentava ogni stormir di fronda che non aveva raccolto [289] senonchè qualche suono confuso. In altri colloqui, avuti poi meno disagiatamente, non v’era più stata occasione di mettere in campo il cognome. Ella lo aveva chiamato soltanto Roberto. Sapeva bensì ch’egli era di buona famiglia, che suo padre era provvisto di beni di fortuna ed esercitava la mercatura. — Ma come mai — diceva Clara con voce piagnucolosa — non si è egli ancora fatto vedere? — Quanto a me, ero d’avviso che non lo si sarebbe nemmeno più visto, e che tutto sarebbe finito come finiscono le galanterie di due ragazzi. Però m’ingannavo, e codesto Roberto era molto più serio ch’io non avessi supposto. Egli non tardò a presentarmisi, e a dirmi che, per quanto condannabile fosse il modo in cui egli aveva iniziato una relazione con mia sorella, egli si rendeva ragione di tutti i suoi doveri. Amava perdutamente la bella, l’adorabile Clara, voleva presto o tardi, farla sua sposa. Non si sgomentò della catastrofe che colpiva in modo indiretto la nostra famiglia. Il cognome di Clara era Lisari, egli disse, ed era un cognome che non aveva macchia. Osservatogli da me che Clara era sotto la dipendenza di sua madre e che a sua madre non era possibile discorrere pel momento, visto la concitazione del suo animo, egli si dimostrò prontissimo [290] ad aspettare, e a far tutto quello ch’io volessi, pur che gli fosse dato contare sul mio appoggio. Sull’esser suo, sui suoi disegni per l’avvenire mi offrì le informazioni più particolareggiate e soddisfacenti. Insomma mi pareva un giovane raro, una mosca bianca, nè potei fare a meno di dire a Clara — Va là che sei proprio nata con la camiciuola. E poi sosterranno che la bellezza è una superfluità!....
A occuparsi degli altri, anche se l’occupazione è forzata, si dimenticano per poco le proprie angustie, ed io così, in quei giorni di crisi che avevano assottigliato di tanto la mia vantata ricchezza e accresciuto, con la fuga imprevista di Clara, le mie cure ed i miei fastidi, avevo distratto alquanto l’animo dal pensiero più assiduo, più intenso che mi logorasse la vita, dal pensiero di Gastone e di Fanny. Nessuna lettera da Nantes o da altra parte che mi desse nuova del Visconte. Quanto a Fanny, ella andava ripigliando la sua tranquilla [291] serenità. Aveva cominciato col guardar curiosamente Clara; poi vi si era avvezza e non le badava. Non avevano però, mia sorella e lei, una grande simpatia reciproca. Clara amava poco i bambini, e so che quando le fu noto com’io mi fossi fatta la custode di Fanny, ebbe a dire ch’io avevo gusti assai strani e ch’ella non si sarebbe mai presa una briga simile. Cose che mi disgustavano e mi facevano desiderar vivamente che mia madre si sbrigasse a riconciliarsi seco e l’accogliesse in casa. Ma la povera donna era ancora intrattabile. Non solo non m’era grata per ciò ch’io avevo fatto per lei, ma non mi perdonava di aver diviso le sue sorti da quelle di suo marito, e non voleva veder nè me, nè Clara, che con la sua fuga scandalosa aveva precipitato il disastro. Certo ove l’animo mio fosse stato scevro di passioni, avrei dovuto riconoscere che le ragioni di mia madre non erano basse ed ignobili, e poichè ell’amava quell’uomo, e ne aveva fatto il signore della sua vita, riusciva naturale ch’ella si dolesse che la mano ond’ella era stata soccorsa avesse invece respinto lui nell’abisso. Ma io riandavo i segreti dolori di mio padre, e mi vinceva un impeto di gelosia pensando ch’egli, savio, buono, onesto, amorevole, aveva sofferto in silenzio [292] spregi ed onte infinite da quella donna medesima che oggi sfoggiava tutte le virtù femminili in favore di colui dal quale aveva appreso l’oblio dei propri doveri. Oh lo stato del mio animo non può essere inteso che da chi si sia trovato in condizioni pari alle mie, e io non auguro a nessuna giovane una tale sciagura! Sì, io esultavo oggi della vergogna che ricadeva sul capo al signor Venanzio; la sicurezza che una condanna ignominiosa l’avrebbe colpito mi empiva d’una gioia feroce. Non lo dissimulo e non me ne lodo; so che questa gioia dei mali altrui deve ripugnare a chi abbia senso di gentilezza, ma io non giudico, narro. Del resto, io tengo per fermo che se quella triste consolazione non fosse venuta a interrompere il corso de’ miei pensieri sempre rivolti ad un punto, sempre informati a una cupa e inquieta mestizia, il mio spirito si sarebbe accasciato senza rimedio.
Non dovevano però tardare gli avvenimenti destinati a riaprire, e questa volta in modo più crudele che mai, la mia piaga. Ogni settimana io mandavo alla posta per sentire se fosse giunta una lettera all’indirizzo ch’io avevo dato al notaio Moussu, e quando mi si diceva che non v’era nulla, ne provavo un infinito sollievo. Quelle lettere [293] non potevano più essere una speranza, erano una minaccia, un incubo che mi pendeva sul capo. Esse non potevano dirmi ormai che una cosa: Gastone è morto. E questa cosa significava: Restituite Fanny. Perciò io non osavo più scrivere a Nantes. Anzi, trascorso il 1813, avrei smesso altresì di far le mie ricerche alla posta. Mi sarei forzata a credere che non vi fossero sicure notizie della fine di Gastone, e che quindi io non avessi diritto di consegnare in mani d’altri il deposito ch’egli mi aveva confidato. Indi avrei tentato di vivere dimenticata dal mondo, di vivere sola con Fanny e per Fanny, di vederla crescere sotto a’ miei occhi, di educarla, e di dirle poi, quand’ella fosse grandicella: Fanny, tu appartieni a una cospicua e ricca famiglia francese, ma tuo padre è partito un giorno per la guerra e ti raccomandò alle mie cure dicendo che sarebbe venuto a prenderti. Non venne, e tu capirai che cosa significhi un padre che non viene più a cercar di sua figlia. Tu lo capisci, è morto. Avrei potuto condurti nel castello de’ tuoi avi, e saresti cresciuta in mezzo all’opulenza ed al lusso. Ma sarebbe stato mestieri ch’io mi separassi da te, e non ne ebbi la forza. Ti tenni meco, cercai di fare per te quello che avrebbero fatto i tuoi genitori [294] se fossero vissuti, i tuoi congiunti se t’avessero allevata fra le pareti domestiche. Oggi giudica tu. Se errai, perdonami; se vuoi ritornare presso la famiglia di tuo padre, eccoti i documenti che provano i tuoi diritti; decidi...
Sogni! Una mattina di agosto (eran corsi già tanti mesi, il signor Venanzio era sotto processo, e mia madre, benchè addoloratissima, s’era riconciliala con Clara) io insegnavo a Fanny a compitare, quando il servo ch’era stato alla posta mi consegnò una lettera. Ella portava l’indirizzo da me dato al notaio Moussu, e non v’era dubbio che fosse sua. Il sangue mi si gelò nelle vene, un pallore di morte mi si diffuse sul volto mentr’io ne fransi i suggelli con mano tremante. Fanny s’accorse del mio turbamento, perchè chiamò sbigottita Giannina. Io lessi: — «In questi giorni soltanto si potè accertare la morte del colonnello Gastone, visconte di Serges, successa il 28 novembre 1812, nel terribile passaggio della Beresina. È quindi venuto il momento per l’anonimo di svelarsi e di espor le gravi ragioni che lo avevano mosso a chiedere questa notizia.»
«Andrea Moussu, Notaio a Nantes.»
Non una parola che temperasse il significato tremendo di questo messaggio, non [295] una parola spirante simpatia. Come una lama affilata che recide l’ossa ed i nervi, esso recideva l’ultime mie speranze, e io mi sentivo travolta in un abisso senza fondo. Oh chi aveva vergato quelle linee doveva essersi inaridito il cuore nella polvere degli archivii e aver chiuso il proprio orizzonte nel breve cerchio de’ suoi scaffali! Nelle mie lettere vergate con mano tremante esso non aveva indovinato nemmeno una donna. Chi sa! L’anonimo appariva nel suo pensiero un creditore importune, o un postulante avvezzo ai benefizi del Visconte, e oggi desideroso di raccogliere i rilievi della sua eredità.... Ma, del resto, bella pretesa la mia, che si apprezzasse il mio sagrifizio, e si avesse pietà del mio dolore, se non ero stata meno cauta e prudente nello scrivere che il notaio non fosse nel rispondere.
Quando alzai gli occhi dal foglio nefasto avevo a un lato Giannina, e dinanzi a me Fanny. Era quieta, composta in viso ad un’aspettazione rassegnata e tranquilla come avrebbe potuto essere piuttosto una ragazzetta di dodici o quattordici anni che una bimba di quattro. Ella sentiva che c’era qualche cosa di molto serio, di molto tristo; ella sentiva che bisognava esser buoni, non domandare, attendere, e se ne stava zitta, lisciando con la mano il suo cagnolino che [296] si era alzato sulle due zampe e le si appoggiava alla persona e pareva invitarla a dirgli di che si trattasse.
— Povera Fanny — esclamai aprendole le braccia — non hai più babbo.
Allora, certo, alla sua mente tenerella balenò la ricordanza confusa dei baci e delle carezze paterne, e rivide l’alta e marziale persona, e le piume ondeggianti al cappello, e la smagliante uniforme, e l’elsa poderosa ch’ella aveva invano tentato d’impugnare con le sue manine.
— Adesso voglio restar sempre con te — ella disse quand’ebbe finito di piangere. E questo pensiero pareva rasserenarla.
Dovevo io strapparle anche questa illusione? Non n’ebbi coraggio, e le risposi: — Sì, bimba mia, resterai sempre meco.
In tutto quel giorno ella non volle scostarsi un momento da me; non toccò nemmeno uno de’ suoi balocchi, non permise a Café-au-lait che le saltasse addosso come era suo costume, e la sera mi pregò che l’accompagnassi io a letto invece di Maria.
Quando, spogliata, s’inginocchiò sulla coltrice e congiungendo le mani s’accinse a mormorar la sua breve preghiera, fu colta da un’idea e mi chiese timidamente: — Io solevo pregar pel papà; ma ora?....
— Prega ugualmente, carina.
[297]
— Ma se è morto?
— I buoni non muoiono — risposi — Vanno in un altro luogo ove si sta meglio di qui.
— Ed io potrò trovare il babbo in quel luogo?
— Sicuro che lo troverai, ma di qui a molto tempo....
— Dimmi, e ci sarà anche la mamma?
— Sì, angelo, ci sarà anche lei.
— Ma come farò a conoscerla che non l’ho mai vista?
— Oh sta tranquilla che la ti conoscerà lei, e ti verrà incontro, e ti prenderà tra le sue braccia... Intanto va, dormi, carina — soggiunsi rassettandole le coltri.
— Sì, ma voglio che tu pure ci venga in quel luogo.
— Oh cara, ci verrò, ci verrò.
— E perchè non ci potremmo andar subito?
— Dormi, dormi, tesoretto mio, non ci si va quando si vuole. Bisogna aspettar che ci chiamino.
E mi chinai sulla bambina che già aveva abbassato le palpebre, e ravviandole una ciocca di capelli sulla fronte, le diedi un bacio per accomiatarmi. Pareva ch’ella dormisse, ma si scosse ad un tratto, e gridò: — Café-au-lait! Café-au-lait!
[298]
La fida bestiuola ch’era a piedi del letto, tutta mortificata perchè la sua padroncina non l’aveva, secondo il solito, chiamata a prendere il suo posto, mise un guaito di gioia, e saltando sul capezzale di Fanny leccò me e lei a vicenda, mentre la fanciulla diceva: — Povera bestia, t’avevo dimenticata stasera, ma non mi accadrà più, sai.... — Indi, rivoltasi a me.... — Zia Maddalena — disse — in quel luogo, là dove non si può andarci se non chiamano, chiameranno anche Café-au lait?
Ma non aspettò la risposta, e chiuse gli occhi, e questa volta si addormentò davvero.
In quella cameretta tutta innocenza, ove non si sentiva altro che l’alito della bambina, mi misi anch’io in ginocchio, io che non pregavo da un pezzo, e scongiurai il Signore che mi desse la forza di compiere il mio dovere, di eseguire, per quanto mi costasse, gli ordini di Gastone. Ogni cosa era ancora in mia mano; s’io avessi distrutto il piego che conteneva la fede di nascita di Fanny e il testamento del Visconte, chi avrebbe chiesto della fanciulla? Quando pure fosse giunto sino alla famiglia di Serges la voce che il colonnello aveva lasciato una figlia, era presumibile che se ne domanderebbe conto troppo sollecitamente, [299] se il trovarla avrebbe significato divider con lei una sostanza ormai distribuita fra gli altri congiunti? Però Gastone aveva una madre, con l’anima ottenebrata da pregiudizi aristocratici, ma sempre madre. Certo a lei non dorrebbe di accogliere fra le sue braccia un pegno del figlio perduto! E a ogni modo, avevo io il diritto di tradire la volontà espressa d’un padre? Quello ch’io credevo amor per Fanny non era piuttosto amor di me stessa, non era paura dell’isolamento in cui sarei rimasta dopo la sua partenza? Ma s’ella non voleva separarsi da me, se il lasciarmi l’avesse fatta patire, morire forse! Dio mio! Morire! Fanny, la vispa Fanny! Lei che, amorosa e fidente, s’era addormentata con un mio bacio, lei che mi aveva fatto prometterle di rimaner sempre seco! Però, d’altra parte; e il mio pensiero oscillava come pendolo ora di qua, ora di là; s’io non restituivo Fanny ai suoi parenti, s’io annientavo le prove ch’ella fosse una de Serges, quale sarebbe stato il suo nome, quale il suo posto nel mondo? Se, un giorno, ella mi avesse rimproverata, ella stessa, di averla lasciata crescere una trovatella, di averla esposta alle celie insolenti delle sue coetanee!.... Se, un giorno, avesse dovuto arrossire dinanzi all’uomo del suo cuore, se la mia parola non [300] fosse bastata a persuadere ch’ella nasceva di nozze legittime, se, per cagion mia, fosse stata infelice! Ah no! era impossibile; il mio cammino era inesorabilmente segnato.
Altre ragioni contribuivano ormai a farmi romper gl’indugi. Le sorti della guerra volgevano infauste alle armi francesi, e già in Venezia si andava discorrendo della possibilità di un assedio. In mezzo all’usata spensieratezza della popolazione si facevano strada sinistri presagi. Si sarebbe patito la fame, e con la fame avremmo avuto la peste, e chi sa che altro flagello. Le donnicciuole parlavano del castigo di Dio, il clero, timido ancora e rimesso, tant’era lo sgomento che il solo nome dell’Imperatore infondeva negli animi, benchè ormai la fortuna paresse averlo abbandonato, bisbigliava per le sacrestie che la cattività di Pio VII e la proclamazione del Re di Roma gridavano vendetta, e che, secondo il solito, ne avrebbero patito anche gl’innocenti; i fidi a San Marco speravano che si sarebbe ripristinata la Repubblica, e dicevano che per riavere la Repubblica bisognava affrontare allegramente qualunque prova. Erano questi i meno sfiduciati; tutto il resto della popolazione non sapeva quello che si volesse: ne avevano passate tante! Prima San Marco, poi la Repubblica democratica, [301] poi i Tedeschi, poi Napoleone. C’era da sbollir tutti gli entusiasmi. La libertà! Chi ne parlava più? Chi vi credeva? Pur che s’abbia la polenta a buon mercato, purchè non mandino ogni giorno le nostre creature al macello, vengano anche i Turchi! Ma, intanto, altro che buon mercato! Non v’era cosa che non rincarasse, le famiglie prudenti si approvvigionavano per qualche mese, e fra la poveraglia che aveva appena il modo di vivere alla giornata, venivano a galla certi figuri di mal augurio, dicendo: Ah! i signori fanno le loro provviste. Tanto meglio! Sapremo dove sfamarci. — Vergine santa! che tempi! — sclamavano i più paurosi. A star qui dentro ci minaccia il blocco. A uscir di città, non si sa dove mettersi al sicuro che non ci capiti addosso una truppa o l’altra. Beati quelli che sono a due piedi sotto terra e non si trovano fra questi trambusti!
Fu ai primi di settembre, sotto l’impressione di questi discorsi, che un giorno presi dal suo cassetto il piego fatale, e lo inchiusi in una lettera al notaio Andrea Moussu. Quand’ebbi affidata questa lettera alla posta, mi parve d’aver sottoscritto la mia sentenza di morte. Avrei voluto dispor l’animo di Fanny a ciò ch’era irrevocabile, avrei voluto avvezzarla a star meno con me, ma [302] le parole mi morivano sulle labbra, ma io non sapevo respingerla quand’ella mi veniva presso, e colla sua vocina squillante mi diceva: — Zia Maddalena, dammi un bacio.
Questa volta la risposta non si fece attendere. La famiglia de Serges, scriveva il notaio, aveva letto con grande maraviglia i documenti lasciati dal Visconte, e s’era doluta che la persona a cui quei documenti erano stati consegnati li avesse tenuti occulti sì a lungo. La disgraziata liaison del Visconte aveva afflitto soprattutto la nobile signora Viscontessa sua madre; nondimeno, poichè un vincolo così disuguale era stato all’ultimo momento benedetto dalla chiesa, si era pronti ad accogliere nel castello la fanciulletta Fanny affine di darle una educazione conforme al suo nome e al suo grado. Le vicende politiche esigevano che non si perdesse tempo; perciò questa lettera di poco avrebbe preceduto Monsieur Simon, antico servo di casa de Serges, e [303] Mademoiselle Ernestine, gouvernante, che la nobile viscontessa de Serges, madre del defunto Visconte, assegnava alla bambina. Era inutile, anzi non si desiderava che altre persone di Venezia l’accompagnassero. Quanto a lui, uomo d’affari della famiglia, egli era incaricato di chiedere la nota delle spese occorse pel mantenimento della jeune Vicomtesse, a cui il defunto Visconte non avesse provvisto. Saputo questo, soggiungeva la lettera con calma imperturbabile, la nobile famiglia non avrebbe mancato di far avere un congruo compenso a chi aveva custodito per tanti mesi una de Serges.
Oh come s’inganna chi crede di poter dire: Ho toccato il limite estremo delle sventure e dei patimenti! Io, povera martoriata, l’avevo creduto; ma no, c’era da durar peggio, peggio assai. Perder Fanny era ancora un nonnulla, bisognava aggiungervi questa umiliazione d’esser trattata come una mercenaria. Non vi offrivano nemmeno una parola di grazie, vi offrivano, se volevate riceverla, una borsa. Oh! Fanny, e a te pure irrigidiranno il cuore, e tu pure dimenticherai, fra gli splendori del tuo soggiorno, la zia Maddalena che ti ha tanto amata. Ma se invece, o mio gracile fiore, quell’aria non fosse fatta per te, se quella stessa gelida boria con cui si trattava la [304] donna che ti aveva raccolta si usasse verso di te, figlia di oscura popolana, se gli scherni avvelenassero la tua anima ingenua, togliendoti, oltre alla felicità, anche la gentilezza e la confidenza di chi vive cinto d’amore e di cortesia, o che delitto non avrei commesso dandoti in mano a simil razza di gente?
E non era lecito di prorompere, di rendere offesa per offesa, perchè non ne ricadesse il colpo sulla bambina, perchè quelle anime ingenerose non se ne vendicassero sul suo capo innocente!
Oh che pena era allora il metter da parte i vestitini di Fanny e la sua biancheria, proprio come si fa per una sposa che lascia la casa materna! Che pena era sentirla parlar del futuro e di quando sarebbe grande, come se il futuro (che dico il futuro?), la domane, non avesse dovuto sbalestrarla in altri paesi, in mezzo ad altre abitudini!
E la era in altana con la Maria e col suo inseparabile amico, quando mi si presentarono Monsieur Simon e Mademoiselle Ernestine. Sapevo pure ch’essi dovevano venire; tuttavia a vederli sentii una trafittura al cuore.
Erano d’aspetto molto diverso. Monsieur Simon pareva un uomo verso i sessanta; [305] di capelli bianchi, raso accuratamente, di persona giusta, asciutto, impettito. Vestiva di nero da capo a piedi, era il vero tipo di un antico servo di casa patrizia. Parve non s’aspettasse di entrare in una dimora signorile, perchè quando, guardandosi intorno, vide le belle mobilie e gli eleganti addobbi della stanza, il suo volto si compose a maggior riverenza, e mentre al primo affacciarsi sulla soglia non s’era che leggermente inclinato, nel farsi innanzi e nel porgermi una lettera del notaio Moussu che constatava esser lui la persona incaricata, insieme a Mademoiselle Ernestine, di prender Fanny, si piegò ad angolo retto in atto umile ed ossequioso.
Meno rigida nelle movenze era Mademoiselle Ernestine, ma era altresì molto più antipatica. Giovane ancora, le si leggeva in fronte la pretensione di esser bella, e di fare impressione. Aveva nelle membra un’affettata cascaggine, il tuono della voce rivelava uno studio singolare di dolcezza e d’intenerimento. Ma gli occhi socchiusi, inquieti, dicevano di non fidarsene, e la voce stessa, quando usciva naturale, aveva in sè qualche cosa di acre, di stridulo che disgustava. Sotto le apparenze fredde e diplomatiche di Monsieur Simon poteva forse esservi un cuore generoso; l’unzione di Mademoiselle [306] Ernestine non doveva invece essere che la maschera dell’egoismo.
La spigliatezza colla quale io parlavo il francese produsse un effetto gradevole su ambedue i messaggeri, che senza dubbio s’aspettavano di trovare in me una zotica bourgeoise. Nè fu minore la loro soddisfazione quando dissi che anche Fanny si esprimeva speditamente nell’idioma di suo padre. — Madame la Vicomtesse en sera bien aise — dissero ad una voce. Quando però io tentai di avere informazioni esatte intorno alla famiglia de Serges, Monsieur Simon mi rispose col maggior laconismo possibile. Seppi soltanto che convivevano nel castello la vecchia viscontessa Renata, madre del visconte Gastone, paralitica da più anni e condannata ad essere trasportata dal letto alla poltrona e dalla poltrona al letto, due figli e due nuore coi loro bambini, più una nipote, orfana sino dall’epoca del Terrore, la Marquise Virginie, dernier réjeton d’une des premières familles de France — osservò Monsieur Simon.
— Pauvre demoiselle! — sclamò Mademoiselle Ernestine.
Chiesi spiegazione di questa frase, ma Mademoiselle Ernestine, arrestata da un gesto di Monsieur Simon, non parlava più.
— Elle a perdu ses parents sur l’échafaud — disse [307] il servo rispondendo invece della sua compagna. — Voilà, ce que Mademoiselle Virginie entendait dire.
Ed ecco un gran batter d’usci, e un suono di risate, fresche, spontanee come i gorgheggi di un canarino.
Fanny, ignara de’ due nuovi arrivati, spinse con forza la porta, ed era sul punto di correr verso di me. Ella vestiva un abitino grigio orlato di nero, aveva una ghirlanda di foglie di vite bizzarramente intrecciata nei biondi capelli, e i suoi bellissimi occhi azzurri mandavano scintille. Ma quando vide i due sconosciuti si annuvolò ad un tratto, e se ne stette sospesa, senza andar nè innanzi, nè indietro.
Café-au-lait abbaiava intanto con tutta la forza de’ suoi polmoni, onde Mademoiselle Ernestine si rannicchiò dietro Monsieur Simon, che gravemente diceva: — Calmez vous, Mademoiselle.
Per quietar la smorfiosa cameriera chiamai Giannina, e le diedi ordine di portar via Café-au-lait, cosa che parve offender Fanny, non avvezza a veder usati simili sgarbi al suo favorito. E fece anch’ella atto di andarsene, ma io la chiamai presso di me, e levatale di capo la ghirlanda che mi sembrava in quell’ora un intempestivo ornamento, le posai una mano sulla spalla e [308] le dissi — Sii buona, o Fanny, e stammi a sentire.
Mi guardò raccomandandosi, come presaga di qualche trista nuova.
— Bimba mia, tu hai tanto giudizio che non si può nemmeno calcolarti una fanciullina che non ha compito ancora i cinqu’anni.... Tu capisci le cose, come le capiscono i grandi.... La mamma del tuo povero babbo.... la tua nonna vuol conoscerti, e ha mandato quelle due persone a prenderti... Zitta, bimba, lasciami finire.... Domani intanto tu andrai con loro...... sii buona..... e poi — soggiunsi facendomi violenza per dire una pietosa bugia — e poi verrò anch’io a raggiungerti, e torneremo indietro insieme....
— Ma io non voglio andare — replicò ella inghiottendo le lagrime.
— La charmante enfante — sclamò Mademoiselle Ernestine, e si fece presso per carezzar la bambina. Ma questa non volle saperne, e pestando i piedi con dispetto, cacciò il capo fra le mie ginocchia e gridò più forte che mai: — Non voglio andare, non voglio. — Mademoiselle, infastidita, si ritrasse.
— La persuaderemo — diss’io in francese — ma ci vuoi pazienza, povera creatura! Si può dire che dacchè ella ha lume [309] di ragione non vede altri che me e la mia Maria, e quel suo indivisibile cagnolino.
Mademoiselle Ernestine, colta alla sprovveduta, lasciò sfuggire una di quelle note disarmoniche e dispettose che si sprigionavano dalla sua laringe quand’ella non si ricordava di modularle. — J’espère bien que nous ne devrons pas prendre avec nous cette vilaine.... cette bête qui parait être très-incommode.
Monsieur Simon le slanciò uno sguardo severo, e facendo dalla sua seggiola un profondo inchino verso di me, disse: — Nous dependrons en cela des ordres de Madame.
— Hai sentito Fanny, se sarai buona, e se quieterai Café-au-lait, potrai portare in viaggio anche lui. Su via, il mio tesoro, non disperarti, vedrai che bei siti, che bel giardino! Altro che la nostra piccola altana! E poi vi saranno i tuoi cuginetti che ti faranno un’accoglienza magnifica.... N’est-ce pas vrai, M. Simon, que ses petits cousins seront bien aises de la voir?
— Je le crois bien — rispose l’interrogato; ma Mademoiselle Ernestine, punta perchè non avessi rivolto a lei la domanda, fece una smorfia che pareva dire: — Io invece non lo credo niente affattissimo.
Ma nè la promessa della compagnia di [310] Café-au-lait, nè la prospettiva del bel giardino e dei cuginetti valse a calmare Fanny, che si teneva stretta al mio vestito, e ripeteva: — Voglio restare con la zia Maddalena.
Con l’animo straziato, com’è facile immaginare, assicurai Monsieur Simon e Mademoiselle Ernestine che quelle resistenze si sarebbero vinte, e che il dì appresso, perchè gli avvenimenti incalzavano, e non c’era da perder un minuto, ogni cosa sarebbe pronta per la partenza. Offersi loro di alloggiare in casa mia per quella notte, ma erano già scesi all’albergo, e non desideravano far trasportare i loro bagagli; sarebbero passati il mattino a prender la bimba. Convenni che nel tragitto sino a Fusina sarebbe andata in gondola anche Maria, la quale non poteva nemmen ella acconciarsi all’idea di lasciar la fanciulla ch’ella aveva tenuto seco fin da quando era stata svezzata. Benchè non sapesse una parola di francese e non si fosse mai mossa di Venezia, la buona ragazza avrebbe consentito ad andar con Fanny in capo al mondo, ma le istruzioni di Monsieur Simon erano esplicite. Egli non doveva condur seco personne fuori della bambina. Una eccezione fu fatta per Café-au-lait, quantunque Mademoiselle Ernestine lo vedesse [311] assai di mal occhio e mostrasse di provar rammarico del facile assenso dato da Monsieur Simon alla mia preghiera. Debbo dirlo? Intercedendo affinchè Café-au-lait potesse accompagnare Fanny, mi pareva di darle almeno un difensore, un amico che l’avrebbe confortata in mezzo a gente indifferente ed ostile.
Soltanto quando fummo soli, la piccina consentì ad alzar la testa che aveva tenuta sino allora celata nel mio grembo. Povera creatura! Un’ora prima sorridente, festosa, incoronata come un allegro genietto, ora colla chioma scomposta, cogli occhi gonfi di lagrime, con una stanchezza desolata dipinta sul viso. Non piangeva più, tremava come di freddo, e le sue labbra stentavano ad articolar parole.... Oh! se avessi potuto dirle: è stato un brutto sogno; non c’è nulla di vero in quello che hai inteso finora. Ma no, tutt’altro, bisognava invece tornare alla carica, tormentare la piaga aperta nel suo cuoricino. E soprattutto bisognava mentire. — Non si tratta che di pochi giorni, sai? Fanny. — Mi guardava, voleva credermi, ma per quanto facesse, non vi riusciva.... Nel salotto, sopra un panchettino, c’era una carta con entrovi delle perle di Murano di vari colori. Fanny s’era messa quella mattina [312] a infilarne una collana per farmene dono, poi, con la facile volubilità dei bambini, aveva tralasciato, dicendo: — Finirò domani. — Ma dopo ch’ella ebbe inteso come domani appunto ella dovesse partire, si ricondusse tacitamente presso il panchettino, e ripigliò il suo lavoro. A ogni perla ch’ella passava nell’ago una lagrima le colava dal ciglio, pur non si mosse dal suo posto fin che non ebbe finito. Allora, annodati insieme i due capi del monile, venne da me, mi posò sulle ginocchia la sua povera offerta, e disse: — Quando sarò tornata, te ne farò una più bella.
Triste, ma rassegnata, prese in braccio Café-au-lait, e gli raccomandò che se voleva accompagnarla fosse buono, e non abbaiasse a Mademoiselle Ernestine, e non facesse di quei salti sconsiderati che faceva in casa. Café-au-lait non capiva nulla, ma era tutto turbato di quelle insolite prediche.
La sera, l’ultima sera ch’ella dormiva sotto il mio tetto, Fanny ebbe un nuovo scoppio irrefrenabile di pianto, e ripetè che non voleva partire se io non andavo seco; poi si acquetò con la promessa che non avrei lasciato correre più d’una settimana senza raggiungerla. Era stanca, aveva tanto patito in quel giorno che il sonno scese [313] benefico a ristorare il suo corpicino. Pochi minuti dopo ch’ella aveva chiuso gli occhi, le traccie del dolore sparirono dal suo viso, un roseo incarnato le tornò sulle guancie, e da tutta la gentile fisonomia spirava una pace contenta e serena. Dormi, dormi, angioletto, finchè la provvida natura contende alle lugubri immagini il mondo dei sogni. Verrà giorno pur troppo che i tristi pensieri della vigilia varcheranno quella soglia misteriosa, e verranno all’origliere ove poserai il tuo capo innocente!
Passai la notte al tavolino. Scrissi prima al notaio Moussu, frenando la mia collera per le sue offerte ingiuriose e dicendogli anzi ch’io ne incolpavo me stessa, che non gli avevo dato modo di meglio conoscermi. Una sola cosa avrebbe potuto confortarmi della perdita di Fanny: il saperla felice; una sola cosa io chiedevo: che mi si informasse talora di lei. Quindi mi feci coraggio, imposi silenzio al mio orgoglio, e vergai una lunga lettera alla viscontessa Renata, alla madre di Gastone. A chi, meglio che a lei, potevo raccomandare la figlia del figlio suo? Fui umile, io così altera, infinsi i miei sentimenti, io così sdegnosa d’ogni simulazione. Fanny, comunque nata, io dicevo, portava scritto in volto la nobiltà del lignaggio paterno. Benchè [314] bambina affatto, io non dubitavo ch’ella avrebbe saputo corrispondere alle accoglienze che certo le si preparavano. Forse era un po’ timida, poichè in Venezia aveva veduto pochissimi, ma il suo cuore si apriva presto alla simpatia. Tutto si sarebbe ottenuto da lei, pure di amarla. Nè io dubitavo che la si sarebbe amata. Che se l’avere per oltre un anno e mezzo custodita con cura gelosa una figliuola del visconte Gastone era un titolo a mio favore presso la nobile famiglia de Serges, io supplicavo che si volesse richiamar il mio nome alla memoria della piccola Fanny, e che non mi si chiudesse la porta in faccia se un giorno io venissi a darle un saluto. — I primi chiarori dell’alba mi sorpresero mentre io suggellavo questa lettera, che avevo dovuto ricominciare tre o quattro volte prima di venirne a capo.
Giannina, entrando per tempissimo in camera mia, mi trovò alzata. — Povera padroncina — ella sclamò, — la non si è neppur messa a letto, stanotte. Oh! ha ragione, sa. C’è da impazzire, a pensar che se ne va via quell’angioletto. E anche per me, con quell’allegrezza che posso aver nell’anima, anche per me era una gran distrazione il vederla, l’udirla, il giuocare con lei. Ma quando il Signore ha segnato una [315] casa, non c’è scongiuri che tenga, le disgrazie ci piovono dentro come a tetto scoperto. Che cosa abbiamo fatto di male noi due per aver questa sorte?
— Che vuoi che ti dica, buona Giannina! Pazienza.
— Pazienza! Pazienza! — ella ripetè spalancando le imposte. — È un bel rimedio la pazienza.
Il sole indorava i tetti delle case dirimpetto. — Che bel sereno! — sclamò Giannina.
— Meno male. Fanny avrà un buon viaggio — diss’io. E, guardando l’oriolo, soggiunsi: Sono le sei. Passeranno a prender la bimba alle nove. Bisognerà svegliarla.
— Oh la lasci dormire un altro po’. Chi sa come dormirà domani!
— E Maria s’è alzata?
— Era in piedi quando entrai or ora nella camera. Mi fa una gran pena anche lei....
— Su, via, non ci pensiamo e andiamo dalla bambina.
Un raggio di sole si riposava sul letticciuolo di Fanny. Café-au-lait, che aveva passato la notte rannicchiato a’ suoi piedi, s’era desto a quel raggio, e in quel momento spalancava la bocca a un lungo sbadiglio e stendeva le quattro zampe. Al vederci [316] spiccò un salto, e venne a lambire le vesti a Giannina e a me.
— Tu pure avrai le tue tribolazioni, povera bestia — disse Giannina, che, contro l’usato, vedeva tutto nero.
Fanny sorrideva nel sonno. Non seppi resistere alla tentazione, e chinatami su lei, le diedi un bacio, quanto potei più leggiero, sulle labbra. Si scosse, e socchiudendo gli occhietti: — Oh, eri tu, zia Maddalena. Sognavo proprio di te.
— Grazie, angelo — risposi sbadatamente. — Ma ora è tempo che tu ti alzi. Lo sai che devono venirti a prendere.
Il suo viso si fe’ scuro scuro, e temetti che tornassimo alla scena di jeri. Ma le dissi e le replicai tante volte che se fosse stata buona sarei andata a prenderla entro pochi giorni, che frenò la sua gran voglia di piangere, e malinconica sì, ma tranquilla, si lasciò vestire. Le mettemmo attorno tutta biancheria di bucato; poi, per la prima volta, affinchè non le dessero noja, annodammo in due treccie i suoi capelli che di costume le piovevano sciolti sugli omeri, e finalmente Giannina le acconciò in dosso un nuovo abito, semplice, a mezzo lutto, che le pareva dipinto. In altri momenti che festa la si sarebbe fatta di questa novità!.... Venne quindi a colazione in [317] salotto, lì ov’ella soleva far salire Café-au-lait sopra una seggiola alla sua destra e metteva la puppattola alla sinistra, ma quel giorno lasciò la puppattola in un canto, e posò in fretta sul pavimento la scodella di Café-au-lait, che levava il muso in aria per capire i motivi di quelle nuove disposizioni. Intanto io raccoglievo i balocchi di Fanny, sparsi qui e là nella stanza.
— Che cosa fai, zia Maddalena? — ella chiese, guardandomi.
— Vo’ collocar questa roba nella tua valigia.
— Ma perchè? Non devo tornare fra pochi giorni?
E nell’accento con cui ella pronunziava questa domanda v’era un dubbio così angoscioso, un’ansietà così desolata, che non le lasciai tempo di finire, e dissi — Hai ragione. Smetto. Pensavo però che per questi pochi giorni....
— No, zia Maddalena, finchè non sono teco, non voglio giocar più.... — Indi soggiunse: — Vorrei salire in altana.
Ancora una volta i suoi piedini fecero suonare la scaletta di legno che metteva a quel nostro pensile orto, ancora una volta la sua testina sbucò tra il frascato, e le sue mani tenerelle colsero un grappolo della vite domestica.
[318]
Monsieur Simon e Mademoiselle Ernestine furono precisi all’ora stabilita. Monsieur Simon era più diplomatico, Mademoiselle Ernestine più svenevole del dì precedente. E dir ch’io dovevo affidare a queste due persone la mia Fanny! Mi scoppiava il cuore in pensarlo. Chiamai da parte Monsieur Simon, che, al confronto, m’ispirava meno antipatia, e quasi con le lagrime agli occhi gli raccomandai la bambina. Poscia, tolta di tasca una borsa, nella quale erano parecchie monete d’oro, gliela offersi a compenso delle cure ch’egli avrebbe per la piccola viaggiatrice. Ma egli corrugò la fronte con alterezza patrizia, e mi disse che jamais la noble maison de Serges ne lui aurait fait une honte semblable. E, con queste parole, respinse l’offerta. Capii di aver sbagliato e gliene chiesi scusa. Vous n’étiez pas censée de me connaître, egli rispose. Quell’orgoglio, ch’era pur segno di nobiltà d’animo, mi piacque, ed io replicai che le sollecitazioni che non osavo più fare al servo le facevo al gentiluomo, e ch’io speravo ch’egli sarebbe andato orgoglioso di protegger la figlia del visconte Gastone. — Elle n’aura pas besoin d’être défendue — diss’egli chinandosi leggiermente.
Era l’ora della partenza. Presi fra le mie braccia Fanny e la copersi di baci. Ma dovetti [319] deporla presto, perchè sentivo ch’eravamo ambedue sul punto di piangere. Le acconciai io stessa il cappellino di paglia intorno a cui ondeggiava un sottil velo nero; poi ella mi diede la mano perchè la accompagnassi fino alla gondola. Café-au-lait, abituato a non lasciar Fanny un solo istante, veniva dietro macchinalmente e pareva aver capito che non doveva nè abbaiare, nè saltellare. Allorchè fummo alla riva, esso balzò in barca pel primo, ma quando vide ch’io m’accomiatavo nuovamente dalla bambina, montò sulla prora e guaì tre o quattro volte in tuono lamentevole. Poi, la gondola non essendosi ancora mossa perchè Monsieur Simon e Mademoiselle Ernestine stavano disputando fra loro sul posto ove sedersi, l’amorosa bestiuola spiccò un salto e m’afferrò il vestito coi denti, come mi volesse trascinar dietro a sè.
— Su, via — sclamò uno dei barcaiuoli — il cane parte o resta?
— Café-au-lait! — gridò la vocina di Fanny.
A quella voce, ch’esso non aveva mai lasciato senza risposta, Café-au-lait abbandonò il lembo della mia gonna, e dopo avermi slanciato uno sguardo di rimprovero e di dolore, ridiscese nella barca col muso chino e con la coda fra le gambe.
[320]
— Zia Maddalena! Zia Maddalena! ti aspetto presto.
— Addio, angelo.
Rifeci tutti i gradini, e piegatami con la persona, baciai un’altra volta la mia bella innocente che, tenuta da Maria, spingeva la testa fuori del finestrino.
Addio! addio! Il pesante portone della riva s’è chiuso, e l’ampio vestibolo del palazzo è rimasto nell’ombra. Così le tenebre hanno involto il mio povero cuore. Dopo la breve estasi d’un giorno, le dolci speranze; dopo le speranze, i timori; dopo i timori, la desolata certezza. Ma sin che Fanny animava di sua presenza la casa, l’anima mia non era derelitta. Oggi sì che posso chiedere: Perchè vivo?
Fanny era partita uno degli ultimi giorni di settembre. Al 3 ottobre il Vicerè d’Italia dichiarava Venezia in istato d’assedio; al 6 compariva l’ordine, che già i più cauti avevano prevenuto, di approvvigionarsi. La città era cupa, pensierosa. Nelle sagre, nei [321] luni nel lido brillavano alcuni sprazzi dell’antica allegria, ma anche in quei brevi intervalli era un’allegria forzata, morbosa. Girando con Giannina per le parti più remote di Venezia, vedevo sulla soglia dei miseri tuguri intere famiglie cui andava via via mancando il lavoro e cui sarebbe fra poco mancato il pane. Erano madri il cui seno esausto non aveva più latte, erano bambini squallidi, gialli, cogli occhi infossati, con le labbra penzolanti e senza sorriso, erano uomini che, trovando chiusa l’usata officina, stavano seduti sul gradino della porta, coi gomiti appuntati sulle ginocchia, col viso nascosto fra le mani, taciturni, accasciati, immobili. Quand’io passavo, i fanciulli tendevano la mano ed io mettevo qualche soldo in mano a tutti. Essi mi benedicevano e mi pareva che la loro benedizione dovesse ricader su Fanny, sulla mia tenera pellegrina. Ov’era essa? Era giunta? Come l’avevano accolta?
Circa alla metà del mese, un dopopranzo, nel tornare a casa con Giannina da una delle solite passeggiate, ci ferisce l’orecchio un fievole guaito. È buio e non furono ancora accesi i fanali. Accovacciata presso allo stipite del portone di casa v’è una bestia che si lamenta e che fa vani sforzi per rizzarsi sulle zampe. Bussiamo; un servo [322] apre tenendo un lume. Giannina ed io molliamo entrambe un grido. Quella bestia che si agita e si lagna è Café-au-lait. Dio buono! In quale stato! Ha il pelo irto, le ossa che paiono sul punto di uscir dalla pelle. Dev’esser tutto pesto perchè al solo toccarlo ulula in modo compassionevole; però sembra lieto d’essere fra le sue vecchie conoscenze e ci lambisce amorevolmente la mano. Trasportato in casa, rifocillato, parve rimettersi alquanto e cominciò a muovere qualche passo. Ma come era egli tornato? Come aveva potuto abbandonare Fanny? Come trovare la via? Abbandonare Fanny! No, egli non l’aveva abbandonata sicuramente; chiamata a giurarlo dinanzi a Dio, l’avrei giurato senza paura. L’avranno piuttosto scacciato spietatamente, avranno tentato di affogarlo per isbarazzarsene, i malvagi! Ed esso, levatosi dal pericolo, chi sa come, e perdute le traccie della sua amica, avrà errato a lungo sinchè il provvido istinto l’avrà ricondotto a Venezia. Il più singolare era com’egli fosse riuscito a traversar la laguna, ma non mancavano gli esempi di cani che, inavvertiti, erano scivolati in qualche barca a Fusina od a Mestre, e così avevano potuto arrivare in città. Del resto è agevole immaginarsi come l’ipotesi più naturale non fosse la sola che [323] mi si affacciasse allo spirito. Mi funestavano terribili apprensioni che anche a Fanny fosse incolta sventura, che l’arrivo del cane celasse qualche orrendo mistero e m’irritavo con la povera bestia che non sapeva risolvermi il dubbio. Café-au-lait era malinconico, concentrato, girava per le stanze come un’anima in pena, se s’imbatteva in qualche oggetto che avesse appartenuto a Fanny, un ritaglio di veste, un balocco, vi si fregava attorno mugolando sommesso; se nei miei discorsi con Maria o con Giannina usciva il nome della bimba stava a sentirci col muso all’aria, con le orecchie tese, e dimenava la coda e guaiva.... Ma dì qualche cosa, Café-au-lait, spiegati.... Maria che aveva accompagnato i viaggiatori fino a Fusina non sapeva nemmeno ella che cosa pensarsi. Ella assicurava che Mademoiselle Ernestine, durante il tragitto, s’era riconciliata con la bestia e se l’era presa in braccio... Così andò per lunghi giorni finchè una lettera del notaio Moussu mi sollevò di parte delle mie angosce. Fanny era arrivata presso la famiglia. La viscontessa Renata l’aveva trouvée assez bien, ma era dolente che la bimba fosse così poco istrutta dans les pratiques religieuses, e nel mentre incaricava lui, il notaio, di ringraziarmi pel mio désinteressement, lo incaricava [324] eziandio di esprimermi il suo rammarico per questa circostanza che la costringeva a rifar l’educazione morale della sua nipotina. Ipocriti! Io ve l’ho data schietta, ingenua, spontanea, e voi volete chiudere il suo spirito nelle strettoie del bigottismo. A ogni modo, poichè senza questo rimprovero io non avrei forse avuto notizie di Fanny, ben venga anche questo rimprovero! Del resto, nessun particolare circa al viaggio. Nulla che mi desse la chiave del ritorno di Café-au-lait.
E, a scrivere, ammesso pure che avessero voluto rispondermi la verità, era ormai fatica gettata. La terraferma era piena di nemici, le lettere, o si smarrivano, o erano trattenute per via, o non arrivavano al loro destino che per miracolo. Che giorni tristi volgevano per Venezia! Non passava dì che non giungessero feriti. Li conducevano lungo i canali, in barche spesso scoperte, ammonticchiati gli uni sugli altri. Non si poteva affacciarsi alla finestra senza vedere uno di questi convogli, non si poteva tener le imposte aperte senza udir gemiti ed imprecazioni. L’ospitale era zeppo per modo che un giorno convenne trasportar in altro luogo parte degli infermi. Li trasportarono a braccia per le strade. Che spettacolo! Ai primi di novembre [325] gli Austriaci erano già a Mestre. Gli avvenimenti precipitavano. E in quei giorni appunto, singolare ironia! si compiva la facciata del Palazzo Reale in piazza San Marco coll’innalzamento dello stemma in pietra viva che portava nel mezzo un N coronato e nel campo una stella sormontata da un’aquila coi fulmini agli artigli. La folla guardava mormorando; alcuni slanciavano sommessamente qualche epigramma, presto soffocato dalla paura della polizia. Di tratto in tratto le reminiscenze degli antichi bagordi s’imponevano irresistibili alla popolazione, e allora un ordine inatteso, bizzarro, serviva di pretesto a un po’ di baccano. Così una domenica sera, appena pubblicato il divieto di uscir di notte senza lume, si videro comparire in piazza San Marco duemila lanternini d’ogni forma e colore portati in giro da allegre frotte d’uomini e donne che cantavano e saltavano come fosse di carnovale. A queste follie faceva riscontro la comparsa del pan nero, la fucilazione dei disertori in campo San Francesco della Vigna, la mortalità straordinaria negli ospedali, l’accattonaggio per tutta la città. Con sì lieti auspici si apriva l’anno 1814. Nondimeno la festa dell’Epifania, secondo l’usato, si pubblicò l’avviso che permetteva le maschere, [326] e la domenica successiva alcuni lustrissimi fecero capolino sotto le Procuratie. Però, fischiati dal popolo, si ritirarono. A render più intollerabili gli altri patimenti della poveraglia si aggiunse il freddo. Intere famiglie senza pane, senza tetto giravano per le strade chiedendo misericordia; sui gradini dei ponti, sulle soglie delle case, esposti al vento, in mezzo alla neve, migliaia d’indigenti sfoggiavano i luridi cenci e le membra piagate. In mezzo a questo strazio il carnovale passava furtivo, quasi vergognando di sè. I Ridotti e i teatri erano aperti, ma pochi ci andavano, e chi ci andava non osava dirlo; le maschere giungevano in gondola ai brillanti ritrovi e in gondola pure ne uscivano, non avendo il coraggio di mostrarsi per le vie; la cavalchina, insuperato spettacolo della nostra Fenice, attirava appena qualche centinaio di persone, e i palchi, che solevano vendersi gli altri anni a più di dieci zecchini l’uno, potevano aversi quella sera per una ventina di lire.
Dal di fuori giungevano notizie confuse. Qualche volta il cannone tuonava annunziando vittoria, ma più spesso correva su mille bocche la voce di portentosi disastri che i proclami ufficiali mal potevano celare. E il Governo, sentendo mancarsi sotto [327] il terreno, diveniva sospettosissimo, ordinava la chiusura dei caffè, proscriveva la consegna di tutte le armi, faceva percorrer le contrade da pattuglie innumerevoli.
In quei giorni appunto venne condotto a termine il processo del signor Venanzio. Convinto di truffa, lo si condannò a sei anni di carcere. Fu per mia madre un colpo di fulmine. Irreconciliabile meco perchè nell’aiutarla non avevo voluto porgere una mano soccorrevole anche al suo secondo marito, ella s’illuse però sino all’ultimo momento. Venanzio, ella diceva, avrebbe saputo sbugiardare tutti i suoi calunniatori, Venanzio sarebbe uscito innocente. Allorchè intese la sentenza, proruppe contro i tribunali e contro gli avvocati, disse che i suoi nemici avevano corrotto i giudici e che fra questi nemici ero anch’io. Se, anzichè sottrarlo al pericolo di una condanna ignominiosa io ve l’avessi spinto, ella non avrebbe potuto trattarmi più duramente. Ella non veniva più da me, ma io mi recavo qualche volta a vederla. La famigliarità carezzevole de’ suoi modi che s’era conservata in mezzo a tutte le crisi, che, in mezzo a tutte le vicende aveva mantenuto nelle nostre relazioni un certo abbandono affettuoso, quella famigliarità era scomparsa affatto. O non mi parlava, o la [328] sua parola suonava rimprovero. Avevo voluto vincere il mio punto, avevo voluto dividerla dall’uomo ch’io odiavo fin da piccina. Il mio beneficio (e, quanto a me, giuro che non avrei chiamato così un servizio reso a mia madre) era stato anch’esso un mezzo per raggiungere questo scopo; ella non poteva essermene grata. Ma già non c’era da sorprendersene. Io appartenevo a una razza mercantile, non avevo la delicatezza dell’aristocrazia, non l’avevo mai capita, lei, che usciva da una famiglia patrizia. Se m’era riuscito persino di attraversare le sue intenzioni su Clara! Non lo sapevo che questa, ch’era la sua vera figliuola, ella voleva maritarsela a modo suo? Io invece, col pretesto che si cercava d’indurla a prendere il velo (come se fosse stato un disonore ed una disgrazia), l’avevo aizzata contro i suoi genitori, e avevo fatto buon viso alle sue tresche con un negoziante a cui adesso avrebbe bisognato darla per amore o per forza, mentre, prima, ci sarebbero stati a dozzine i partiti per lei nella nobiltà veneta. No, no, io non avevo fatto il bene suo, avevo fatto il suo male, e tutto per odio di Venanzio.... Ma ce la saremmo contata fra poco, quando fosse venuto il regno della giustizia, chè già le cose non potevano durare in questa guisa [329] sicuramente, e il Signore l’avrebbe finita coi frammassoni, coi liberali. Allora Venanzio sarebbe uscito di prigione, e ci sarebbero entrati altri che adesso camminavano per le piazze e si spacciavano per santi e per filantropi... Questi e simili discorsi teneva, farneticando, mia madre, e destava, più che ira, pietà. Nè ella si era cangiata soltanto nei modi; era trasformata altresì nell’aspetto. Della sua bellezza, fino a pochi mesi addietro, così rigogliosa, non restavano ormai che pallide traccie. I capelli, pur dianzi nerissimi, le si erano inargentati subitamente; i suoi occhi, che una volta non sapevano piangere, davano segno di aver versato gran copia di lagrime negli ultimi tempi; la persona svelta ed eretta s’era alquanto curvata. Insomma gli anni, i quali parevano per lo addietro averla dimenticata, l’avevano ad un tratto raggiunta. Dopo la catastrofe di suo marito s’era ritirata anche dalla sua società prediletta e si circondava soltanto di alcuni preti della parrocchia che le riempivano la testa di fanfaluche e accarezzavano la sua crescente bigotteria. Clara, egoista per indole, non si dava troppo pensiero di distrarla, ma badava a fare all’amore col suo Roberto, e disarmava le collere materne col fingere un gran fervore religioso. — Almeno Clara ha [330] questo di buono — diceva mia madre — ch’ella non vive da eretica come Maddalena. Il convento le ha servito almeno a farla timorata di Dio.
È agevole immaginarsi che, in questa condizione di cose, io ero sempre più inesorabilmente condannata alla solitudine. Il mio antico crocchio s’era tutto disperso. Veniva soltanto a visitarmi talora Don Gaudenzio, ma l’avevano nominato parroco a Castello e, vecchio com’era, non si avventurava volentieri alla lunga passeggiata che gli toccava fare per giungere sino a casa mia. Inoltre non c’era più la signora Elena che volesse udire le sue poesie inedite, non c’erano più compagni per giuocare alle carte, ed il buon sacerdote finiva sempre col trovarsi spostato.
Giannina e Maria, ch’io avevo tenuto meco anche dopo la partenza di Fanny, erano in quel tempo (lo dico senza vergognarmene punto) le mie due migliori amiche. Alla disuguaglianza della nascita e dell’educazione riparava la bontà schietta dell’animo e la simpatia con cui dividevano entrambe le mie tacite angoscie. Café-au-lait, giunto nel miserevole stato che descrissi poc’anzi, era oggetto costante delle loro cure; esse amavano in lui la bambina ond’esso aveva diviso i giuochi e vegliato [331] i sonni, e della quale esso sapeva in quel momento più di noi tutti, e certo col suo guaito lamentava la sorte. La povera bestiuola, circondata da tante sollecitudini, ricuperava lentamente il vigore del corpo, i suoi ossicini andavano rivestendosi d’un più denso strato di polpa, il suo pelo tornava a farsi lucido e fino, ma chi rammentava il vispo Café-au-lait d’una volta, non poteva riconoscerlo senza fatica. Era tardo nelle sue movenze, i suoi occhi, già così vivi e lucenti, erano come appannati, e la sua voce un tempo così sonora moriva spesso in un gemito. Nessuno lo vedeva più fare un salto, nessuno l’udiva più dialogar dalla finestra coi cani del vicinato; per solito si metteva presso al caminetto e stava lì disteso, scaldandosi alla vampa che guizzava capricciosa lungo i tizzoni.
Io non ero certo avara; però fino dagli ultimi anni vissuti nella casa paterna avevo cominciato a persuadermi che la dissipazione nuoce a sè senza giovare agli altri. Temperatissima ne’ miei bisogni e ne’ miei desiderii, avevo, dopo l’eredità dello zio Baldassare, accresciuto il mio patrimonio. Ma le recenti vicende di mia madre, l’assegnamento che avevo dovuto farle, gl’impegni che m’era toccato assumere per sanare i suoi debiti avevano operato un effetto [332] contrario e mi avrebbero reso necessarie alcune economie nel mio sistema domestico. Senonchè, quello non era il momento da pensarvi. Nè a me, nè ad alcuno che avesse senso d’umanità, sarebbe bastato l’animo di licenziare in mezzo a tanta miseria parte della servitù o di ritirar la mano che soleva correr pietosa a lenimento degli altrui dolori. Era il mio conforto, era la mia religione in quei tempi tristi il fare intorno a me più bene ch’io mi potessi. Ogni giorno facevo dispensar pane e brodo ad alcuni fra i più bisognosi della parrocchia; ogni giorno raccoglievo a scaldarsi intorno a un buon fuoco e a rifocillarsi a una colazione semplice ma succulenta di cui portavano i rilievi alla loro famiglia, le fanciulle che anni addietro venivano da me a impararvi a leggere e a scrivere. Povere creaturine! In quella dolce temperatura, dinanzi a quella tavola appetitosa esse dimenticavano per pochi istanti le loro finestre senza imposte, il loro focolare senza legna, il loro desco senza pane. E anch’io dimenticavo tante cose vedendole sorridere. Ma poi, se uscivo di casa, e m’imbattevo per via in altri fanciulli pallidi, con le labbra e cogli occhi scoloriti per fame, mi si stringeva il cuore, e dicevo fra me: — E a questi chi ci pensa?
[333]
Sulla fine di marzo la situazione era diventata intollerabile. La carestia era a tal punto che nemmeno ai ricchi era dato trovare pan bianco. Come in Francia ai tempi della rivoluzione, lunghe processioni di donne percorrevano le contrade di Venezia e si recavano sotto le finestre del comandante superiore a Santo Stefano levando altissime grida, nè le sentinelle poste agli accessi di quella piazza bastavano a impedire l’invasione dell’esercito femminile. Ormai la disperazione rendeva audaci, gli arresti, le minacciate fucilazioni non impaurivano più; s’imprecava al Governo, si esultava dei successi degli eserciti nemici. Ricordo sempre che la domenica di Pasqua (era il 10 d’aprile) si udirono le salve d’artiglieria del vascello austriaco ancorato alla Piave che festeggiava una vittoria. Tutta la città fu in moto; la gente accorreva sulla riva degli Schiavoni, sulle Fondamente nuove per raccogliere quei suoni, per confortarsi nel pensiero della prossima liberazione. Come dissi già, ogni concetto politico era sparito dall’animo dei Veneziani; liberazione significava soltanto il termine dei patimenti corporali. Indi si vide il triste spettacolo della vigliaccheria umana. I soldati della guarnigione, che pure erano in gran parte italiani, ch’erano abbronziti [334] dal sole dei campi, che sotto generali famosi avevano traversato l’Europa, erano ormai oggetto di abbominio e di scherno; i valorosi, i buoni erano gli Austriaci, i caiserlicchi che nove anni addietro non si potevano soffrire. Orribile a dirsi, s’insultavano perfino i nostri feriti, quando passavano, gemendo, nelle barche delle ambulanze; i mutilati che, reggendosi a fatica, uscivano dall’ospedale, erano fatti segno di sconci epigrammi. Gli accattoni, le donnicciuole, i fanciulli affamati trovavano un sarcasmo contro queste povere vittime del dovere che parlavano il nostro idioma, che combattevano intorno a una bandiera nostra, che, per la prima volta, formavano il nucleo d’un esercito italiano. Un esercito italiano! Ma chi se ne curava? Chi vi credeva? Quasi nello stesso tempo il vicerè Eugenio e il generale austriaco Nugent avevano parlato in nome dell’indipendenza d’Italia, ma le moltitudini non si davano pena per sapere quale dei due parlava sul serio. La frase era stata ormai tanto abusata!
Non dico poi del giubilo con cui fu accolta la nuova dell’ingresso delle truppe alleate in Parigi e della destituzione di Napoleone. Poichè si era certi che il gigante non poteva muoversi, tutti i pigmei [335] si levarono con grande schiamazzo in nobile gara di vituperi. Quelli che avevano mendicato un suo sguardo, che avevano baciato la polvere calcata dai suoi piedi, che umili o contriti avevano seguito i suoi sfolgoranti corteggi, lieti di passar per lacchè del signore del mondo, adesso andavano a gara per raccogliere una manata di fango e gettargliela in viso. Quando, il 19 aprile, si seppe esser giunta la notizia della cessione di Venezia, essersi dato l’ordine di levar dalla piazzetta la statua di Napoleone e dalla facciata del palazzo lo stemma imperiale, la folla accorse dai più remoti angoli della città per assistere allo spettacolo, e si sarebbe fatta giustizia da sè se non fosse intervenuta la truppa. Indi nacquero risse e ferimenti. La canaglia, sempre codarda, trovava il coraggio per commettere una viltà, e si scagliava sulle baionette italiane che facevano siepe all’effigie del principe caduto. Nondimeno la statua non venne rimossa che il mattino del 20 alle cinque, e benchè fosse ancora notte, la Piazzetta formicolava di popolo, che pareva aver dimenticato il freddo, la fame e ogni specie di patimenti nel gran giubilo di quell’istante. Il giorno stesso strepitose acclamazioni salutarono un generale austriaco sbarcato sul Molo. I vecchi capitani della Repubblica, [336] reduci dalla guerra di Chioggia e dalla battaglia di Lepanto, non potevano accogliersi con maggiore entusiasmo. O Venezia, il cielo, prolungando la mia triste esistenza, mi consentì di vederti rigenerata a una prova di sangue e di fuoco; tre anni fa un altro assedio ti lavava da ogni taccia di fiacchezza; i tuoi figli, languenti per fame, non invocavano il nemico, ma combattevano sugli spalti; scrosciavano le palle ardenti sui tetti, ma nessuno diceva d’arrendersi; la pestilenza infieriva, ma i malati sul loro letto di dolore morivano col sacro nome d’Italia sul labbro. E quando convenne capitolare, e gli Austriaci, al suono delle loro musiche, ornati il capo di mirto, percorsero le vie della città riconquistata, non una voce si levò ad applaudirli, non un fazzoletto si agitò incontro ai vincitori.
Dallo spiraglio di queste imposte socchiuse, io vidi i loro ufficiali vestiti di pompose uniformi e con le piume ondeggianti al cappello, li vidi sdraiati nelle gondole voluttuose guardando con inquietudine le grandi moli dei bruni palazzi, e le case che pareano deserte, e rammentai il tempo in cui tutte le porte si aprivano, tutte le fronti si spianavano allegre dinanzi ai nuovi signori. E adesso, o mia povera patria, il giogo ti pesa sul collo, nè per quanto è [337] vasto l’orizzonte che abbracci con l’occhio, un lembo d’azzurro interrompe il tuo cielo grigio e uniforme; ma il tuo nome è redento, ma il sorriso della cortigiana non deturpa il tuo volto atteggiato a maestoso dolore. La mia anima è chiusa ad ogni dolce impressione, ma non è chiusa però a quest’orgoglio, di saperti, o mia patria, rispettata da tutti, di saperti nobile e grande nella tua sventura, io, che ti vidi così bassa e spregievole!
Certo allora, nel 1814, quello che mi feriva maggiormente non era che si lasciasse cader con indifferenza il Governo italico legato al carro d’un desposta; era che a sei o sette anni di distanza s’imprecasse vilmente a ciò che si era schifosamente adulato, che l’arrivo dei nuovi stranieri paresse suprema ventura.
Questo pazzo giubilo durò più settimane, non così però che in mezzo al giubilo non rimanesse posto per la lurida miseria, per l’accattonaggio sfrontato e per le aggressioni notturne. Indi il popolo si diede alla devozione, e il podestà Gradenigo invitò la città a una funzione religiosa di sette giorni consecutivi, a principiare dal 5 maggio. Tutte le parrocchie dovevano successivamente recarsi alla basilica ad adorarvi il Sacramento ivi esposto in permanenza. Finita [338] la settimana, e come a suggellare la cerimonia, sarebbe successa una processione generale in piazza San Marco. Inutile dire i preparativi che se ne fecero, la folla che vi accorse. Non erano spettacoli per me, ma seppi che da tutti i balconi delle Procuratie pendevano tappeti ricchissimi, che si accalcava alle finestre, sui tetti, sul campanile, e una pubblicazione dell’epoca dice che v’intervennero 995 sacerdoti, 165 ex-monache e 21.065 secolari. Queste cifre spiegano abbastanza come Venezia nel maggio 1814 ringraziasse il cielo della sua schiavitù.
È agevole immaginarsi che il mio primo pensiero, appena finito l’assedio, fu quello di scrivere in Francia per chiedere conto di Fanny. Erano sette mesi ch’io non ne avevo notizia, e in sette mesi quante cose potevano esser succedute! Durante il blocco, il pensiero ch’era inutile spedir lettere e che non era sperabile riceverne faceva sì ch’io mi rassegnassi tristamente al silenzio; la mia inquietudine si destò, ed accrebbe [339] a mille doppii tostochè le comunicazioni postali furono ristabilite. Mi pareva che se il notaio Moussu, o i congiunti di Fanny avessero avuto senso d’umanità, essi non avrebbero tardato a informarmi della bambina; la loro trascuratezza riempiva il mio animo de’ più sinistri presagi. Il minor male ch’io potessi supporre era che Fanny si trovasse fra gente senza cuore. E come mai simil gente avrebbe potuto renderla felice! Ma spesso io temevo molto di peggio. L’idea del ritorno di Café-au-lait si associava nel mio spirito a non so che larve paurose ond’io torcevo inorridita lo sguardo. Esse fuggivano come i sogni quando la ragione era presente appieno a sè stessa; come i sogni mi si riaffacciavano quand’io lasciavo libero il corso alla fantasia.
I messaggi, tanto aspettati, arrivarono. L’uno, brevissimo, del notaio, mi diceva che Fanny era un po’ tarda a ricambiare l’affetto della sua famiglia, era di carattere un po’ chiuso e maussade, ma che alla lunga avrebbe finito certo coll’adattarsi. L’altra lettera era di Monsieur Simon. Era vergata con moltissimo studio, ma l’accuratezza della calligrafia non serviva che a porne in maggior risalto l’infelice grammatica e la dicitura contorta. Monsieur Simon mi scriveva in gran segretezza scongiurandomi di [340] non mettere in ballo il suo nome. Mi scriveva perchè aveva potuto persuadersi coi suoi propri occhi dello straordinario amore ch’io sentivo per la jeune vicomtesse. Non gli era dato nascondermi che la piccola Fanny stava poco bene. Dopo un incidente avvenuto durante il viaggio e in causa del quale s’era smarrito il fedel cagnolino, la bimba non aveva mai cessato di piangere fino al suo arrivo, e aveva concepito una avversione invincibile per Mademoiselle Ernestine. Giunta al castello, la sua malinconia, anzichè diminuire, s’era accresciuta ed ella non aveva voluto associarsi ai suoi nobles cousins, che, dal canto loro, non erano stati prévenants verso di lei. La sola persona con cui si trattenesse di buon grado era egli, ma la nobile viscontessa Renata non amava che una figlia del defunto Visconte passasse molte ore con un doméstique. Le aveva preso, in luogo di Mademoiselle Ernestine, una bonne della Normandia, excellente demoiselle d’une famille noble appauvrie par la révolution, ma non pareva che tra la fanciulla e lei ci corresse una gran simpatia. Poi v’era la marquise Virginie, donna di carattere così strano.... E qui alcuni puntini tradivano le reticenze di Monsieur Simon. Insomma, era la conclusione della lettera, egli la vedeva deperire [341] e ne soffriva nel fondo dell’anima, perchè s’era affezionato alla fanciulla più di quanto potessi credere. Perciò aveva pensato di rivolgersi a me per consiglio e mi pregava ch’io gli rispondessi a Nantes a un nome supposto affine di non dar sospetti in famiglia. Mademoiselle Fanny, che non era une enfant, ma une véritable demoiselle, sapeva ch’egli mi aveva scritto, ma non lo avrebbe certo detto a nessuno. Ella mi mandava tanti baci, e mi aspettava sempre, ripetendo a tutti ch’io avevo promesso di andarla a prendere.
Questo epistolario con Monsieur Simon, la sola anima pietosa che vi fosse in casa de Serges, si protrasse per alcuni mesi. Fanny mi si dipingeva sempre malinconica, sofferente, aliena dai giuochi della sua età. Ella spianava la fronte e snodava le labbra, soltanto quando poteva sguisciarsene dalla sua guardiana e recarsi presso Monsieur Simon, a discorrere di Venezia, di me, del suo Café-au-lait. Le era stata una grande consolazione il sapere che questo suo cagnolino fosse vivo e avesse trovato modo di tornarsene a casa, ma poi s’era disciolta in lagrime pensando che solevano trastullarsi insieme e che ormai non si vedrebbero più, poichè la zia Maddalena, cattiva, aveva fallito alla sua promessa e non veniva a prenderla e ricondurla a Venezia.
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Si può credere che allegria mi facessero queste comunicazioni. Quand’esse mi mancavano, tremavo, quando giungevano, piangevo. Tuttavia il silenzio mi sarebbe stato maggiore strazio e lo scambio di lettere con Monsieur Simon formava parte integrale del mio piccolo mondo. Io vivevo più che mai entro il mio guscio di chiocciola. Non potevo cacciarne fuori il capo senza un disgusto profondo. La mia patria, che porgeva volonterosa i polsi alle nuove catene, mi destava un senso misto di pietà e di ribrezzo. Mia madre aveva perduto le grazie della persona e dei modi che, negli anni addietro, cingevano d’un fascino irresistibile la sua frivolezza, passava metà della giornata in chiesa e nell’altra metà imprecava a tutti coloro che avevano contribuito a rovinare il suo Venanzio, compresovi il Governo austriaco che non aveva capito esser suo primo dovere, appena entrato in possesso della città, di liberare quell’integro uomo. Clara diventava sempre più bella, ma i germi dell’egoismo portati nel nascere, educati nelle pareti del chiostro, davano frutti meravigliosi. Ella aveva completamente aggiogato a sè il buono e savio giovane che s’era invaghito della sua avvenenza, e ne aveva fatto un docile strumento della sua volontà. Anche l’amore [343] era in lei un modo di soddisfare i suoi gusti; nulla di più. Associarlo all’idea del sacrificio, dell’abnegazione, non era cosa ond’ella si sentisse capace. Io la vedevo pochissimo. Ella s’era ricordata di me quando aveva creduto ch’io potessi esserle utile, io aveva fatto per essa ciò che mi pareva mio obbligo di fare. Cessato in lei il bisogno, svanito in me il senso del dovere che mi aveva indotto ad accorrere in suo soccorso, prevalsero le antiche ritrosie, le antiche ripugnanze, inesplicabili, invincibili. Accade nella vita di società che vi siano persone alle quali occorre esser presentati ogni volta, giacchè, per quanti siano i colloqui che avete con loro, esse vi rimangono estranee. Nelle famiglie il contatto d’ogni giorno spesso non basta a creare la dimestichezza intima, la dimestichezza dell’anima; troncata, per una ragione o per l’altra, la convivenza, sparisce qualsiasi alimento alle mutue relazioni, e il cuore con sua meraviglia s’accorge di non sentire alcun vuoto. Così accadeva fra Clara e me. Ci evitavamo per un tacito accordo. Il sacro nome di sorelle non bastava a stringerci insieme. Quando io me le avvicinavo, sorgeva a frapporsi tra me e lei il pensiero della predilezione che il signor Venanzio aveva mostrato per essa, dei discorsi che [344] mi avevano ferito l’orecchio al momento della sua nascita, delle parole proferite dallo zio Baldassare prima di morire.
Del resto, se le mie inclinazioni mi avevano sempre fatta schiva dei convegni romorosi e del viver brillante, lo stato presente del mio animo non era tale da indurmi a cangiar sistema. Quando pur lo avessi voluto, quando pure avessi cercato, ultimo rimedio alle cure assidue, affannose, il frastuono assordante della società leggera e pettegola, la dura necessità mi avrebbe ormai impedito di appagare il nuovo capriccio. Avevo perduto quasi tutte le mie vecchie relazioni, l’amor mio pel Visconte aveva compromesso il mio nome verso quelli (e son tanti!) che sorridono indulgenti a mille tresche spudorate e non perdonano alla fanciulla un affetto onesto, avevo infine, nelle ultime vicende, assottigliato per guisa il mio patrimonio da esser costretta alla più rigida economia. Non ero mai stata bella, ma adesso non ero nemmeno più giovane. Avevo ventisette anni, e quella età che brilla come la luce del meriggio sul volto della sposa felice, si riflette come un malinconico tramonto sul fronte della zitella disingannata del mondo. A ventisette anni è cominciata per la donna l’età delle memorie; povera lei se quelle memorie son tristi!
[345]
Avevo avuto un bel sogno ed era svanito; sotto i ghiacci della Beresina erano state sepolte tutte le mie speranze. Non mi restava che una camelia avvizzita sul petto, e lontano, lontano, un altro pallido fiore sbocciato al sole d’Italia ed ora chiuso fra i cristalli d’una serra, ahimè, moribondo anch’esso come la mia gioventù, come la gioventù del mio cuore!
Fanny è a letto da due giorni — mi scriveva Monsieur Simon nell’agosto 1814. — Non sarà nulla, ma io sono triste ed impensierito. La mi parve così pallida questa mattina, quando le portai un poco di brodo. Si mise a sedere, e volle prender colle sue manine la tazza, ma quelle manine tremavano come foglie. — Pochi giorni dopo, il fido servo mi annunziava che Fanny s’era alzata, ma era sempre debole, e, secondo lui, avrebbe avuto bisogno di cambiar aria.
Mi balenò alla mente un pensiero subitaneo; volare a Nantes, commuovere l’animo del notaio Moussu e persuaderlo a darmi il suo appoggio, andare seco, se fosse possibile, o sola, s’egli non avesse voluto accompagnarmi, alla residenza dei de Serges, gettarmi ai piedi della viscontessa Renata e scongiurarla, in nome della memoria del suo Gastone, a permettere che Fanny venisse [346] a ristorare le sue forze in Italia. Oh! io non potevo credere che la vecchia signora fosse deliberata a far morire la figlia del suo figliuolo. E sentivo ch’io avrei accettata qualunque condizione ella mi avesse imposto, sentivo che s’ella mi avesse detto: ad ottenere ciò che bramate occorre che non siate più per Fanny la zia Maddalena d’un tempo, ma un’umile ancella obbediente al cenno della compagna ch’io le avrò dato; ebbene, io avrei risposto di sì.
Tarda a risolvere, pronta nell’eseguire, comunicai il mio proponimento a Giannina. Voleva ella venir meco? Ella sarebbe venuta fino in capo al mondo, mi disse. In quei tempi viaggiare era un’impresa seria; non era facile nemmeno uscir della propria città, era difficilissimo uscir dello Stato. Vinsi nondimeno gli ostacoli, mi accomiatai da mia madre, che mi disse ch’ero pazza, e partii. Café-au-lait voleva a tutti i costi venir meco, ma io lo lasciai in custodia di Maria, dicendogli: — Sii buono, e chi sa ch’io non torni con Fanny. — A questo nome si scosse, mise un guaito, e mi fissò con uno sguardo rassegnato.
Mi feci precedere da due lettere, l’una pel notaio Moussu, l’altra per Monsieur Simon. Non avevo voluto attender le risposte, perchè potevano per avventura distormi [347] dalla partenza, ed era mia consuetudine, una volta fermo un proposito, di evitar tutto ciò che potesse rimuovermene, di non rimeditarlo neppur io per tema che un novello esame me lo facesse apparire meno opportuno.
Percorsi un’infinità di paesi senza vederli, facendo sosta le ore necessarie per prendere un po’ di riposo e di cibo, non un minuto di più. Appena giunta a Nantes, mi recai dal notaio Andrea Moussu, dall’uomo nel quale Gastone aveva riposto una fiducia, che, per l’esperienza ch’io ne avevo fatto, non mi sembrava punto meritata. Maître André, così lo chiamavano a Nantes, aveva ricevuto appena da un giorno la mia lettera, nè s’era per anco rimesso dallo scompiglio che l’annunzio del mio prossimo arrivo gli aveva prodotto. A prima vista la sua fisonomia non rivelava che l’imbarazzo e lo sbigottimento, ma un osservatore pacato vi avrebbe scoperto eziandio l’espressione di quella fiacca e tarda benevolenza che non è aliena dal giovare ad altri, quando però non le costi troppe noie e fastidi. — La malheureuse idée que vous avez eue! — fu la prima frase con cui egli entrò in argomento. — La sciagurata idea! Venire a Nantes, col proposito di vedere i de Serges, che vivevano, [348] si può dire, fuori dal mondo, e che erano gente rispettabilissima ma piuttosto sospettosa, specialmente verso i forestieri! Ero poi certa che sarei stata ricevuta?
— Ma — gli risposi — io non vengo per visitaro i de Serges, ma per veder la piccola Fanny, la figlia del visconte Gastone. L’averla custodita per oltre un anno presso di me doveva pur legittimare la mia presenza al castello.
— Sì, sì — egli disse — è innegabile che la famiglia di Serges ha contratto degli obblighi verso di voi, e avrebbe voluto soddisfarvi.... Mon Dieu! non vi offendete, ne donnez-pas une interpretation blessante à mes paroles; intendo dire ch’essa avrebbe voluto soddisfarvi in modo consentaneo al vostro decoro.
— Non v’è che un modo solo — interruppi. — Quello di permettermi ch’io vegga Fanny e ch’io la salvi.
— Salvarla! Salvarla! È in poter vostro di salvarla? S’ella è gracile, se subisce le conseguenze della sua nascita....
— Ah! — esclamai, — dunque è vero ch’essa mi muore.... Ditemi, ditemi tutta la verità, parlate in nome del cielo....
Il notajo si guardò attorno inquieto. Egli aveva paura di me, e non osava chiamare in suo ajuto per non tradirsi. Cercò di [349] comporre le labbra ad un risolino. — Ma no che non la muore. Chi vi ha raccontato queste esagerazioni? Que vous allez vite avec la fantaisie, vous autres italiens! È un pezzo che non veggo mademoiselle Fanny, ma non credo ci siano tutti questi guai. Credo soltanto che sia malaticcia....
— Ma non era! — io proruppi. — Era vispa, era florida, era gioconda, quando uscì della mia casa. Anche lontana dalle mie braccia, se avesse trovato amore, sarebbe cresciuta bella e rigogliosa, ma qui l’hanno uccisa, hanno avvelenata la sua fanciullezza. Infami!
— Tacete, — egli gridò sbigottito. — Non sapete che parlate della nobile famiglia de Serges?
— Me ne importa molto a me dei de Serges! Conoscevo uno solo di questa famiglia che aveva veramente l’anima nobile, ed è morto. Poveretto! egli fidava in voi, a voi egli raccomandava la sua bambina.
— No, no, — rispose frettolosamente maître André. — Io non ero che il suo uomo d’affari. Ho tutelato gl’interessi di mademoiselle Fanny e v’assicuro io ch’ella ha un bel patrimonio....
— Oh era ben altro il debito vostro! Se aveste interpretata davvero la volontà di Gastone....
[350]
— Ebbene, che avrei dovuto fare? Que vouliez vous que je fisse?
— Dovevate vigilare su lei, dovevate toccare in suo favore quei cuori di bronzo, mummificati tra la boria aristocratica e la bigotteria....
— Mademoiselle!
— Ma non perdiamoci in chiacchiere. Forse c’è tempo di riparare a tutto. Bisogna partir subito pel castello dei de Serges, bisogna che voi mi accompagniate.
— Comment! — sclamò il notajo. Ch’io vi accompagni.... Ma io ho i miei affari.
— Spicciateli e vi attenderò.
— Plait-il? — diss’egli. — E che volete fare quando siete lì? — Indi soggiunse a mezza voce: — Quel diable de femme!
— Prima di tutto voglio vedere Fanny. Poi parlerò io alla vecchia viscontessa. È impossibile ch’ella non si pieghi a lasciar venire per qualche mese la fanciulla in Italia.
— Credo che voi v’inganniate molto — egli rispose. — A ogni modo i medici non permetterebbero questo viaggio....
— Ma dunque ella sta assai male.... E voi mi fate perder tempo, e non sentite il bisogno di romper gl’indugi e di venir meco da quella che si può dire la vostra pupilla?
[351]
— Ma pupille! Ma pupille! Ma io non ho inferenza che ne’ suoi affari. Ci mancherebbe altro!... E poi, lo sapete che il castello dei de Serges è a dieci miglia da qui, che ormai è tardi e non ci si arriverebbe che verso sera, e che finalmente io non posso far attaccare la mia carrozza perchè ho il cavallo malato....
— Chi vi domanda la vostra carrozza? C’è la mia. Permettetemi.
E, così dicendo, scossi un campanello che v’era sul tavolino.
Il notaio mi guardava a bocca aperta. Entrò un servo, e gli ordinai, in nome del suo padrone, che non osava contraddirmi, di recarsi subito all’albergo ov’io ero scesa con Giannina e di farvi attaccare senza indugio la mia carrozza, prescrivendo al cocchiere di venirci ad aspettare al portone della casa.
Il servo stette un momento sospeso e domandò timidamente: — Monsieur va partir?
— Per qualche ora — risposi.
Il signor Moussu passeggiava in lungo e in largo la stanza, sbuffando e pronunziando alcune frasi tronche. — Che cosa devo fare? Se mi rifiuto non c’è modo di liberarsi mai più da questo demonio. Quelle femme! Doveva toccare a me!... — Nel punto di lasciar la stanza il servo si voltò [352] nuovamente, e immobile con la mano sul saliscendi dell’uscio: — Vado — disse indirizzandosi al suo padrone: — Je vais.
— Ma sì, ma sì — rispose questi impazientito. — Quante volte bisogna ripetere le cose!
— Grazie — sclamai quando fummo soli — grazie della vostra compiacenza.
— Tenetevi i vostri ringraziamenti — egli replicò in tuono piuttosto burbero. — È una violenza bella e buona. Ma non mi accadrà più, oh non mi accadrà più certamente. Je ferai garder ma porte.
Tornò un momento al suo scrittoio, mise in ordine alcune carte, e poi si voltò verso il muro, e, levandosi in punta di piedi, guardò un polveroso barometro ch’era appeso alla parete. — Tenez — egli disse segnando col dito — tenez, il barometro è al variabile. — Avvicinatosi alla finestra, sollevò la tendina e girò gli occhi attorno.
— Non vedete che non c’è neppur una nuvola? — osservai.
— È anzi troppo sereno, troppo soffocante. Siamo in settembre; fa un caldo di luglio. Non ci mancherebbe altro che mi toccasse un acquazzone.
— Ma se vi ripeto che non c’è nuvole...
— Non c’è nuvole! non c’è nuvole! Se [353] non ce n’è, ce ne possono venire.... — E tornò a percorrere la stanza su e giù brontolando fra sè; — Quelle contrariété! Quelle étrange femme!
Allorchè si venne ad annunziarci che la carrozza era pronta, il notaio si ritirò un momento in un camerino per farvi la sua toilette. Mi ricomparve dinanzi con un gran cappello sotto il braccio, una cravatta bianca alta cinque dita intorno al collo, una lunghissima redingote verde mare e un paio di brache nanchino strette al ginocchio.
Lo seguiva il servo con un ombrellone blù in mano e un pesante ferraiuolo sotto il braccio.
Non potei astenermi dal manifestar le mie maraviglie per tanti preparativi. — Se avete detto poc’anzi che fa un caldo da estate.
— Se fa caldo, potrebbe far freddo — rispose sentenziosamente maître André. Indi soggiunse: — Andar così dai de Serges senz’avviso, come se si trattasse di persone di confidenza.... è mal fatto, malissimo fatto.
Salimmo in carrozza. I vicini si affacciavano alle finestre per veder maître André che partiva avec une étrangère. Alcuni salutavano rispettosamente. Dovetti lasciare Giannina, perchè il notajo dichiarò di non [354] volere a niun patto andare dai de Serges avec deux femmes, tanto più che la gouvernante, com’io gli aveva detto, era assai bella, et cela aurait fort scandalisée madame la vicomtesse qui était on ne peut plus sevère à l’égard de ses doméstiques. Del resto, io calcolavo di tornar nella sera e dormire all’albergo.
Trovandosi a suo agio nella comodissima sedia di posta, maître André spianò alquanto la fronte e sciolse lo scilinguagnolo. Il suo tema favorito era l’antichità della famiglia de Serges. Questa, da cui ci recavamo, era la branche cadette che risaliva al 1300, ma la branche ainée era anteriore al mille. Peccato ch’essa si estinguesse con la marquise Virginie. Ma!.... E qui parve volesse cominciare un discorso di cui si pentì. Disse quindi che tra i de Serges v’erano stati crociati, guerrieri, legislatori e che doveva essere una gran bella cosa poter vantare simili antenati.
Non potei trattenermi dall’osservare che la soddisfazione era meno grande di quanto si credesse, poichè io, per esempio, avevo fra i miei antenati altissimi dignitarj della Repubblica, e non trovavo che questo bastasse a render felici.
La notizia produsse una viva impressione sull’animo di maître André che disse subito: — Voi [355] dunque siete nobile — e, in pari tempo, mi offrì di prendere il suo posto ove c’era meno sole.
Io risposi che non ero nobile perchè gli avi di cui avevo parlato erano avi materni, e mio padre apparteneva invece alla borghesia. Il notajo si raffreddò alquanto e non insistette nella sua offerta di farmi cambiar posto. Tuttavia continuò a parlarmi con notevole deferenza e mostrò una speciale premura per aver notizie di mia madre che aveva sortito natali così distinti. Poi cominciò a discorrere di Venezia e della Repubblica di San Marco, sfoggiando cognizioni veramente ammirabili e peregrine. Egli credeva che in Venezia la massima parte delle case non avessero altra uscita che per acqua, credeva che il Bucintoro fosse, dopo il doge, la carica suprema dello Stato, e che i sospetti politici si spacciassero per la via da sicarj prezzolati dal Governo. Del resto, siccome era uomo d’idee conservative, non disapprovava quella condotta energica, e diceva che, se in Francia si fosse usata un’eguale severità, non si sarebbero viste le pazzie del 1789 e gli orrori del 1792 e 1793. Avrei voluto rispondergli, ma in quel momento la carrozza si arrestò ad un tratto. Mi balzò il cuore, credendo che fossimo giunti, ma maître André, [356] cacciando la testa fuori del finestrino, mi disse che il castello dei de Serges era distante ancora due miglia, ma che ci conveniva fermarci per alcuni minuti per lasciar passare una processione. Io non vedevo ancora nulla, ma sentivo uno scampanio lontano, e più presso come un ronzar d’api nell’alveare. Finalmente da un viottolo laterale spuntarono due o tre preti, il più giovane dei quali teneva un crocifisso, e dietro di loro veniva una fila di contadini d’ambo i sessi e di tutte le età, che cantavano a piena gola non so che salmi. Maître André mi spiegò ch’erano gli abitanti di un piccolo villaggio dei dintorni che tornavano da una chiesa votiva, ove c’era una Madonna miracolosa, e mi soggiunse che di queste processioni se ne facevano ogni giorno o per una ragione o per l’altra. In quella le salmodie furono interrotte da alcune grida di Vive le Roi, a cui fece eco clamorosamente la folla. Il notajo aprì in fretta lo sportello della carrozza, e sceso sulla strada cominciò a gridare anch’egli con tutta la forza de’ suoi polmoni: Vive le Roi! Vive le Roi! agitando con una mano il cappello, con l’altra il suo ombrellone blù, tantochè molti di quei contadini lo riconobbero, e s’intese qualche voce sclamare: — Tiens, voilà maître André! — Egli [357] rientrò allora in carrozza con l’aspetto soddisfatto, e disse: — Era pur tempo che tornassero i nostri Principi! — La processione stava per finire, e il cocchiere era sul punto di rimettersi in movimento, quando, fra gli ultimi del corteo, vidi, o mi parve, una nota persona, e non potei a meno di chiamare: — Monsieur Simon! Monsieur Simon! Il notajo, sorpreso, chiedeva, senza ch’io gli badassi: — Qu’est ce que c’est? Qu’est ce que c’est?
Il chiamato alzò la testa e si guardò intorno. Era desso, era monsieur Simon, ma mi pareva molto invecchiato da quando io l’avevo visto in Venezia. Si avvicinò alla carrozza e mi riconobbe. — Ah! mademoiselle, c’est vous? — furono le sue prime parole.
— E Fanny? — io chiesi subito ansiosamente.
— Ah! — mi rispos’egli. — Voi potete salvarla.... Sono stato anch’io a visitar la Madonna miracolosa di X.... pregandola ch’ella affrettasse la vostra venuta.... ed eccovi qui.... Solo un miracolo può avervi fatta giunger sì presto....
— Non c’è punto miracolo — diss’io — e vi avevo pur scritto che dovevo giungere.... Ma, per carità, toglietemi da questo strazio. Fanny è veramente in pericolo?
[358]
Monsieur Simon a un mio cenno era entrato in carrozza e ci eravamo messi in cammino al gran trotto. Maître André borbottava prima di tutto per questa soverchia velocità che non gli sembrava scevra di pericoli, e poi perchè non trovava bienséant che un doméstique stesse nell’interno della sedia da posta invece di salire sul cassetto col cocchiere.
— È una settimana — continuò monsieur Simon — che Fanny s’è rimessa a letto. In principio parevano i suoi soliti incomoducci, ma poi il medico cominciò a scrollare il capo, e chiese di parlare con la viscontessa Renata....
— Ebbene?...
— Le disse che non ci vedeva chiaro e che mademoiselle Fanny era immensamente debole....
— Si sarà chiamato un altro medico? — soggiunsi.
— Sì — egli rispose — il miglior medico della città.
— Ed egli?
— Ripetè le stesse cose dette dal suo collega, e osservò che forse avrebbe giovato alla bambina il tornar per alcuni mesi nella sua aria nativa.
— Ah! — sclamai trionfante — dunque potrò condurmela meco!
[359]
— Hélas — proruppe monsieur Simon — il medico disse altresì ch’era troppo tardi....
— Troppo tardi! Dio mio! No, non può essere. Ma ora, che fa la bambina?
— È assopita da un pezzo. La sua bonne è sempre al suo capezzale.
— Ma la sua nonna, ma i suoi zii, i suoi cugini?
— Madame la vicomtesse Renée, lo sapete, è paralitica, e passa tutto il giorno in una sedia a ruote entro la quale gira pel pianterreno. Del resto, la vicomtesse ha fatto quel che ha potuto. Ora è rassegnata, dice que la volonté de Dieu soit faite, e si conforta pensando che la figlia di suo figlio almeno mourra en bonne chrétienne. Ella volle che, questa notte, le père Théophile, confessore della famiglia, rimanesse sempre nella camera della malata.
— Dio! Dio! Ma che cosa le han fatto in questa casa? Già il suo primo supplizio fu quello di dover lasciarmi.... Poi venne l’incidente del viaggio, quel triste incidente che non seppi mai con esattezza....
— Quello di Café-au lait? — egli ripigliò — Mon Dieu, fu una cattiveria di mademoiselle Ernestine. Il cane le dava noia, ed ella la notte, dopo la nostra partenza da Venezia, mentre Fanny dormiva, [360] lo gettò dal finestrino della carrozza in un fiume che andavamo costeggiando. Io, che sonnecchiavo, intesi un tonfo nell’acqua, ma non ci badai. All’alba, ci accorgemmo che la pauvre bête non v’era più. Mademoiselle Ernestine, messa alle strette da me, confermò tutto....
— Infame! E Fanny?
— Potete immaginarvi se ne patisse. Da quel momento giurerei di non averla più vista a ridere.
Nel mentre raccontava questi particolari, monsieur Simon si passava il rovescio della mano sugli occhi per asciugarvi qualche lagrima. Io ero come trasognata. M’aspettavo di trovar Fanny gracile, pallida, sofferente, ma questa idea di assistere alla sua agonia non aveva mai funestato il mio spirito. Nè volevo ancora persuadermene. La mia presenza, la mia voce, la promessa di ritornare a Venezia, di riveder Maria, Giannina, Café-au-lait, le avrebbero infuso senza dubbio novello vigore. I medici non sapevano nulla. Il solo monsieur Simon aveva côlto nel segno dicendo ch’io potevo salvarla.
— Pauvre enfant! pauvre enfant! — mormorava fra i denti maître André. — Non credevo certo che fossimo a tal punto.
Monsieur Simon mi segnò col dito una [361] macchia d’ippocastani a poca distanza. — Dietro quegli alberi — egli disse — è il castello de Serges. Bisogna però allungare alquanto la strada a cagione d’una svolta del fiume.
Infatti, per arrivar subito, sarebbe convenuto attraversare la Loira.
— Ma! — osservò maître André — venti anni fa questi luoghi videro cose orribili. Ve ne ricordate, monsieur Simon?
— Se me ne ricordo! — rispos’egli facendosi il segno di croce. — Non ero anche allora presso i de Serges? Non fui io che raccolsi la marchesina Virginia dopo che le furono massacrati i genitori e i fratelli? Gli scellerati!...
— Però — riprese maître André — è singolare come i giacobini risparmiassero la branche cadette dei de Serges. Tutte le loro ire si concentrarono sulla branche ainée....
In quella, superata una rapida svolta della strada, si giunse dinanzi a un’ampia zona di terreno prativo, in fondo alla quale vedevasi la casa de Serges. Era un fabbricato bianco, vasto, massiccio, che, malgrado lo si chiamasse castello, aveva tutt’altra apparenza che di castello feudale; nè merli, nè torri, nè ponti levatoi. Il vero castello de Serges, mi disse monsieur Simon, aveva [362] appartenuto al ramo primogenito della famiglia, sorgeva a dieci o dodici miglia di là, ed era stato arso e raso dalle fondamenta durante la rivoluzione.
Monsieur Simon continuò a discorrermi, ma io non gli badavo più. I pochi passi che ci dividevano dalla cancellata del palazzo mi parevano più lunghi dell’intero cammino percorso. Io giravo gli occhi con inquieta curiosità dall’una all’altra finestra della facciata, cercando indovinare la camera ove languiva Fanny.
Monsieur Simon colse il mio pensiero a volo, e mi disse: — La camera di mademoiselle Fanny riesce dalla parte opposta del fabbricato.
Il sole, vôlto al tramonto, dardeggiava gli ultimi raggi, ma il mite crepuscolo non aveva invitato nessuno dei de Serges ad uscire. Non v’era anima viva nè sulla spianata, nè ad alcuna delle numerose finestre dell’abitazione. Al giungere della carrozza un grosso cane di guardia scosse rumorosamente la sua catena, uscì con mezzo il corpo dal canile, guardandoci con occhi iniettati di sangue e abbaiando. Il suo lungo ululato si ripercoteva sulle muraglie della casa.
— Chut, Léon — disse monsieur Simon, scendendo rapidamente, e mettendo la mano sulla testa del mastino, che si aquetò.
[363]
Maître André brontolava sempre: — Vorrei sapere un po’ che cosa son venuto a fare io. Che bisogno c’era di me? E se non si riparte entro un’ora al più, non c’è nemmen caso di essere a Nantes questa notte.
Finalmente comparve un servo sulla scalinata del palazzo.
— Chiedetegli di Fanny — dissi a monsieur Simon.
Ma l’interrogato rispose: — Je ne sais pas.
La viscontessa Renata si trovava in un salotto del pianterreno, ammobigliato all’antica, con molti fregi e dorature sulle suppellettili e sulle pareti, e con un affresco mitologico sul soffitto. Malgrado di ciò, quella stanza aveva un aspetto assai triste, così triste che sentii stringermi il cuore nell’entrarvi. Due signore, giovani ancora, ma non belle, sedevano su un divano al disopra del quale erano affisse tre incisioni, cioè, i ritratti del re Luigi XVIII, di Luigi XVI e di Maria Antonietta. La [364] viscontessa era adagiata in una poltrona e aveva dinanzi a sè un tavolino, ove un ecclesiastico, che seppi poi essere il Père Théophile, sfogliava un libro. La fisonomia della dama non aveva a prima vista nulla di ripulsivo e vi si scorgevano anzi i segni di una bellezza non comune, quantunque da lungo sfiorita. Però gli occhi di lei vi si figgevano in volto con uno sguardo così freddamente indagatore, le linee del suo viso erano così rigide, gli stessi suoi capelli bianchi avevano un luccicore così metallico, che non si poteva affacciarsele senza capire la soggezione ch’ella ispirava a quanti l’avvicinavano. Ella vestiva a lutto, ma il suo volto esprimeva piuttosto la severità che il dolore. Quand’io entrai preceduta da monsieur Simon, chè il notajo Moussu, benchè famigliare di casa, non aveva voluto fare la parte di presentatore; ella sollevò il capo che era appoggiato alla spalliera della poltrona, e tenendosi con ambo le mani ai bracciuoli, protese alquanto verso di noi la parte superiore della persona, senza che nè un sorriso incoraggiante le rischiarasse la fisonomia, nè una parola le uscisse dal labbro.
Monsieur Simon si avanzava rispettoso verso di lei, ma io lo precedetti, e mi precipitai a’ suoi piedi. Le avrei baciate le [365] mani, ma mi avvidi ch’essa non poteva toglierle di dov’erano senza ricadere per indietro.
Le due signore ch’erano sedute sul divano si alzarono in piedi, l’ecclesiastico richiuse il libro e mi guardò con curiosità. Allorchè pronunziai il mio nome, che non poteva essere ignoto in casa de Serges, la viscontessa Renata aggrottò le ciglia, e gli altri che si trovavano nel salotto fecero un leggero segno di sorpresa. Senonchè la viscontessa girò attorno gli occhi e parve che ciò bastasse a creare l’immobilità ed il silenzio.
— Il visconte Gastone mio figlio — ella disse invitandomi ad alzarmi — ebbe più confidenza in voi che in sua madre o in alcuno della sua famiglia. Fu a voi sola ch’egli partecipò i suoi trascorsi giovanili, a voi ch’egli affidò le sue ultime volontà e il frutto de’ suoi errori....
— Viscontessa — io interruppi, derivando il coraggio dal bisogno di difender Gastone e Fanny — quella fanciulla era sua figlia legittima innanzi alle leggi umane e divine.
— Lo so — rispos’ella senz’alterarsi per la mia interruzione, ma guardandomi in modo che significava: non sono avvezza a permettere che mi si tronchi il discorso — lo [366] so, e se così con fosse, ella non sarebbe stata accolta in casa de Serges. Però Dio è provvido. Nella sua infinita sapienza egli ha capito che una de Serges, nata come nacque la piccola Fanny, non poteva nè vivere sott’altro tetto che questo, nè rimanere qui a lungo senza soffrire l’umiliazione delle sue origini.... Meglio per lei.
— Cielo! — sclamai — è dunque morta?
— Non ancora. Ma il padre Teofilo, che uscì testè dalla sua camera, afferma ch’ella è in estremo di vita.
Il Padre Teofilo chinò il capo in segno adesivo.
— Ah! ch’io la veda, ch’io la veda — gridai — forse c’è ancora tempo.
— È giusto — disse la viscontessa. — Padre Teofilo, chiamate qualcheduno.
Il Padre Teofilo stava per iscuotere il campanello, quando monsieur Simon, che era rimasto in un angolo della stanza, si avvicinò e disse: — Se la signora viscontessa permette, l’accompagnerò io.
— Mademoiselle — soggiunse la vecchia signora, accomiatandomi, — la vostra visita mi è giunta improvvisa e non mi richiama certo a lieti pensieri. Nondimeno in casa de Serges l’ospitalità fu sempre sacra. Il mio maggiordomo verrà ad indicarvi le stanze che vi sono destinate.
[367]
Le parole erano cortesi, ma non per questo l’espressione del volto della viscontessa si fece più dolce.
— Oh — proruppi, mal frenando le lagrime, — a me basta un posto presso il letto della mia Fanny.
Mi avviai verso l’uscio. Le due signore tornarono a seder sul divano, chiamando vicino a sè il notajo Moussu, che sino allora era rimasto impalato senza dir parola; la viscontessa si sdrajò nuovamente sulla poltrona e il Padre Teofilo riaperse il libro che aveva chiuso al mio arrivo.
Preceduta da monsieur Simon, salii una breve scala, traversai due anditi ed alcune stanze, e giunsi a un’anticamera, ove una donna, seduta dinanzi a un tavolino e col capo nascoste fra i gomiti, dormiva profondamente. In un angolo erano ammonticchiati alcuni balocchi. L’uscio della camera attigua era socchiuso. Colà languiva la mia Fanny, e nella mia dolorosa impazienza di deporre un bacio sulla sua fronte precorsi monsieur Simon, ed entrai.
Una giovane (era la bonne addietro nominata) al rumore dei passi s’era avvicinata all’uscio, e vedendo una persona sconosciuta stava per isbarrarmi il cammino e per chiedermi chi io mi fossi, ma io fui più rapida di lei, e prima ch’essa potesse [368] pronunziar parola, ero già al letticciuolo della bambina, chiamando con voce rotta dai singhiozzi: — Fanny! Fanny! — Monsieur Simon era intanto venuto in mio soccorso e tranquillava mademoiselle Louise (così si chiamava la bonne), che probabilmente mi aveva preso per una pazza.
Non era un sogno? Ero dunque presso alla mia Fanny, ero presso alla fanciulla ch’io avevo ricevuta dalle braccia d’un padre e custodita come una figliuola! Quegli occhi spenti eran suoi, sue quelle labbra scolorite, quelle guancie infossate; quell’alito affannoso era proprio l’alito suo ch’io avevo sentito soave e fragrante come soffio di zeffiro che è passato traverso un’ajuola di fiori? — Fanny! Fanny! — gridai, piegandomi sopra di lei. — Non mi conosci più? Sono la zia Maddalena!
Anche la prima volta ch’io l’avevo vista, due anni e mezzo addietro, nella sua casetta presso alle Fondamente Nuove, anche allora ella dormiva. Ma era un altro sonno. Come entro il bocciuolo ancor chiuso si indovina la rosa, s’indovinavano sotto le palpebre abbassate i belli occhi cilestri; scherzava il sorriso sulla sua bocca tumidetta, e la vita florida e piena si rivelava nella giusta rotondità delle membra e nel misurato respiro. Povera, povera Fanny! [369] Una mano affilata e bianca come la cera le penzolava dal letto, l’altra era nascosta sotto la coltre. Aveva la testa leggermente piegata da una parte e i biondi capelli diffusi le facevano intorno un’aureola. Come le eran cresciuti questi capelli negli ultimi mesi! Con che curva leggiadra le venivano giù fino agli omeri!
Ma ella non mi vedeva, non mi sentiva. Monsieur Simon, commosso, si era anch’egli avvicinato al letto, e ripeteva, per confortarmi: — Courage, mademoiselle, c’est la volonté du Seigneur.
— La volontà del Signore! — io sclamai. — Ma egli adunque si compiace del male! Non era meglio non farla nascere se a cinque anni, per sottrarla a maggiori sventure, bisognava ucciderla? E io, povera donna, che cosa vi ho fatto, o mio Dio, che dobbiate martoriarmi così? Avevo amato un uomo ed è morto, sarei vissuta per questa bambina e mi fu rapita. Tuttavia, anche lontana, mi sarebbe bastato saperla felice, e invece debbo vederla spirare.... Siete pur crudele, o Signore.... Ma no, ma no, perdonatemi. Non so quel ch’io mi dica. Salvatela, o Signore, e io verrò umile ai vostri altari.... La baldanza del mio pensiero è fiaccata.... L’anima mia domanda di credere.... Non respingete, o mio Dio, [370] questo cuore che ritorna a voi.... Porgetemi una mano soccorritrice, salvatemi la mia Fanny!
Gli ultimi chiarori del crepuscolo s’erano ormai dileguati, una lampada da notte posata sopra un cassettone illuminava fievolmente la camera. Fanny viveva ancora, ma sempre immersa in un sopore profondo e mortifero. Il medico, uomo piuttosto attempato, assai grave, assai duro e stecchito, venne sulle prime ore della sera, esaminò la piccola malata, e alle interrogazioni ansiosamente rivoltegli, rispose: — La scienza non ha più nulla da fare. — Indi partì.
Mi sembra di aver visto allora la fisonomia compunta e antipatica del Padre Teofilo, che, ridottosi nella stanza vicina, recitava a bassa voce le preghiere de’ moribondi, mi sembra d’aver respinto le offerte fattemi a più riprese di riposo e di cibo, ma non saprei dirlo, perchè le reminiscenze mi si affollano confuse allo spirito. Solo ricordo, e mi par cosa viva e presente, ch’io ero lì accovacciata sopra un panchettino alla sponda del letto, cogli occhi fissi nel volto della bambina, con gli orecchi intenti a qual si sia più lieve romore che movesse da lei. E ad ogni tratto mi alzavo e avvicinavo la lampada [371] e cercavo il ridestarsi della vita in quella faccia solcata dal dolore. S’era intanto levata la luna, e i suoi raggi, entrando per una finestra laterale di cui non erano state chiuse le imposte, riempivano la camera di una luce fantastica. Fuori i rosignuoli cantavano fra gli alberi, e ai loro allegri gorgheggi facevano singolare contrasto i lunghi latrati del cane di guardia ripetuti dall’eco negli spazi solitari. Veniva di lontano il suono dell’ore. Contai le nove, le dieci, le undici. Non era ancora scoccata la mezzanotte, quando, accostata la lucerna agli occhi della fanciulla, mi parve che per la prima volta ella facesse atto di risentirsi. Passai in fretta il lume nell’altra mano, e posando la destra sulla fronte della malata, mi piegai sovr’essa e chiamai: — Fanny! Fanny!
Non era un’illusione, non era un sogno. Questa volta lo sue palpebre si apersero lentamente, e le sue pupille, ahi! sceme dell’antico splendore, si fermarono sopra di me.
— Non mi conosci, Fanny? Sono la zia Maddalena. — E nel pronunziare queste parole, tentai di comporre il volto al sorriso.
Ella mi aveva ravvisata, ella mi aveva intesa. Una contentezza ineffabile si dipinse sulla sua fisonomia, le sue labbra si mossero, [372] ella tentò di parlare, mi chinai ancora di più per udirla, la sua voce finì in un bisbiglio, ma in quel bisbiglio io distinsi le parole: Zia Maddalena.
— Sì — sclamai — sono la zia Maddalena, che viene a prenderti, a ricondurti a Venezia....
Mi arrestai ad un punto. La fronte su cui io tenevo la mano era divenuta fredda, l’ansare del petto era cessato. Riavvicinai la lampada, e.... caddi riversa mettendo un grido. Era morta!
Mademoiselle Louise, che dormiva in una poltrona, si destò in sussulto. Monsieur Simon, il quale, senza dirmi nulla, aveva vegliato nella stanza attigua, comparve nella camera, e mi risollevò da terra, mentre il Padre Teofilo benediceva il cadavere, e due donne di servizio componevano nel suo letto la povera estinta con le braccia intrecciate sul seno e un crocifisso d’ebano fra le mani. Mi si voleva condur via dalla stanza, ma io mi vi opposi, e restai lì immobile col viso nascosto fra le palme, guardata dalla gente di casa con una curiosità che non era punto benevola. Il solo monsieur Simon, che non aveva voluto allontanarsi, prendeva parte al mio dolore e piangeva silenzioso in un canto. Però, verso un’ora del mattino, il Padre Teofilo, che s’era ritirato [373] nella sua camera, lo fece chiamare, ed egli, dopo aver invano tentato di togliermi di là ed accompagnarmi nel quartiere che la viscontessa aveva messo a mia disposizione, si assentò, dicendomi che sarebbe tornato subito. Io rimasi sola con due fantesche, che di tratto in tratto mi slanciavano una occhiata sospettosa e che favellavano tra loro in un dialetto ch’io non potevo comprendere. Tutto quello ch’io vedevo, tutto quello ch’io sentivo mi pareva un sogno. Ero io nel castello dei de Serges, e la creatura inanimata che mi stava dinanzi era l’allegra Fanny che de’ suoi canti e del suo riso aveva riempiuto la mia dimora? Come acque di fiume, che, rotte le dighe, si precipitano nella campagna, le rimembranze si affollavano impetuose nella mia mente. E ricordavo il primo incontro con Gastone, le prime confidenze da lui ricevute, e il giorno solenne dell’addio, quando mi fece depositaria del suo prezioso tesoro, e a me che lo amavo in silenzio, parlò dolci, insperate parole d’amore. Ricordavo i bei sogni, le care illusioni così presto svanite, le ore passate presso Fanny, le lettere ricevute dal campo, ricordavo la lunga, e ahimè! inutile attesa. Mi passava davanti, gentile visione, la Fanny d’una volta; ella correva per la stanza, saliva in altana, spiccava i [374] pampini della vite, o i fiori dei vasi, ridiscendeva facendo suonar de’ suoi passi la scaletta di legno, e via via per tutto l’appartamento, incitando il suo cagnolino a seguirla, si dileguava e ricompariva come un leggiadro folletto. Non salterai più, non cingerai più di ghirlande i tuoi biondi capelli, o mia buona Fanny. Ecco, tu giaci immobile, o bella irrequieta; i raggi della luna che giungono fino al tuo letto fanno ancora più pallido il tuo viso, che non invidiava il color della rosa. Così tu languisti entro la casa paterna, così ti hanno fatta morire quelli che avrebbero dovuto nutrirti del loro sangue. E tuo padre non era a difenderti, tuo padre non vegliava su te, egli perito da quasi due anni fra i ghiacci di Russia!
Oh! io soffoco. Un po’ d’aria, un po’ d’aria.
M’avvicinai al balcone onde entrava la luna, e vidi con sorpresa che non era una finestra, ma un uscio a vetri aprentesi sopra una scala che metteva in giardino.
Nel bisogno invincibile di trovarmi all’aperto, discesi, e mi avviai per un sentiero fiancheggiato da due filari di pioppi. La notte era bellissima; un lieve venticello agitava le fronde; ai trilli melodiosi dei rosignuoli rispondeva il monotono gracidar [375] delle rane nei fossi. Sulla ghiaia sottile scricchiolante sotto i miei piedi e rischiarata dalla luna si projettavano come bizzarri ricami le ombre degli alberi; da non viste aiuole di fiori uscivan fragranze. E io procedevo, col cuore spezzato, in mezzo a quella gelida indifferenza della natura. Procedevo macchinalmente, senza una meta, senza saper dove andassi, attratta forse da un romor singolare che cresceva di mano in mano ch’io continuavo nel mio cammino. A un punto m’accorsi che il terreno non era più ghiaioso, che avevo lasciato da un pezzo dietro a me i due filari di pioppi, e che senz’avvedermene io salivo per un lento declivio. Lo strepito assiduo che m’aveva prima ferito l’orecchio si faceva più vicino, più insistente; guadagnai l’erta sdrucciolevole, non pel soverchio pendio, ma per uno strato d’erba molle di rugiada che conveniva traversare per giungervi, e abbassando lo sguardo vidi ch’ero sull’argine d’una riviera, non so se la Loira, o uno de’ suoi confluenti. Il suono ch’io avevo udito era quello dell’acqua che metteva in movimento le ruote di alcuni molini. Dal ciglio dell’argine al livello del fiume saranno stati circa otto a dieci metri, giù per una china scoscesa, ripidissima. Ancora un passo, e io potevo trovare in quell’acqua romoreggiante [376] l’oblio, la pace eterna. Ero sì stanca di vivere! Stetti in quella terribile sospensione d’animo alcuni secondi, poi, risentitami, mi voltai a guardar dalla parte ond’ero venuta. Solitaria, imponente, la bianca mole del palazzo de Serges sorgeva in mezzo alla campagna. Eran chiuse tutte le imposte del primo e del secondo piano, ma la luna scintillava come su lucido acciaio sulle vetrate del terzo. Nessuna voce, nessun movimento. Ma ecco una delle finestre aprirsi ad un punto. Che fosse quella per avventura la camera di Fanny? No, non è possibile. Essa non si trova nè da quel lato della casa, nè in quell’appartamento. Qualcheduno si affaccia al davanzale. Sembra una donna, ma non mi vien fatto capir nulla di più. La figura sparisce, poi ricompare, poi si dilegua di nuovo. Per brevi minuti il chiarore d’una lampada oscilla dentro la stanza; indi si rifà buio completo. Ebbene. Che v’ha di strano in tutto ciò? Se uno fra gli abitatori di casa de Serges ama alzarsi nel cuor della notte, che deve importarmene? A ogni modo, ridiscendendo macchinalmente il declivio dell’argine, come macchinalmente io lo avevo prima salito, non so staccare lo sguardo da quella finestra che non s’è più richiusa. E prima di entrare nell’angusto viale di pioppi che mi [377] toglie il prospetto del castello, alzo un’altra volta gli occhi e guardo a quel punto che mi attrae con un fascino misterioso. Ripigliando il sentiero poco dianzi percorso, sentendo mormorar di nuovo sul mio capo le fronde degli alberi e gorgheggiar gli uccelletti, e la ghiaia minuta suonar sotto i miei passi, provo uno strano sgomento, provo il senso pauroso della solitudine, e m’affretto, m’affretto, come incalzata da una forza irresistibile. La camera ove ha cessato appena di battere il cuore della mia piccina, quella camera è la mia meta, il mio posto. E già parmi d’esservi giunta, e già veggo l’ultime piante che fiancheggiano il viale, allorchè una donna bianco vestita, sbucando improvvisamente fuor d’una macchia, mi sbarra il cammino, e mi dice in francese con un tuono di feroce sarcasmo: — Ah! È morta!
Mi arretrai sbigottita, volli mettere un grido, ma la mia voce finì in un gemito soffocato.
La sconosciuta si avvicinò lentamente. Ella era di persona poco più bassa di me, con lunghi capelli neri diffusi; con grandi occhi bruni lampeggianti sotto le ciglia foltissime. Avea pallido il volto e sparuto, ma sarebbe stata ancor tanto bella se una espressione sinistra non ne avesse deturpato la fisonomia.
[378]
Io m’ero addossata al tronco di un albero, inetta sì ad avanzare che a retrocedere. Se quella donna avesse voluto uccidermi, sento che non sarei stata in grado di oppor la menoma resistenza.
Ella incrocicchiò le braccia sul petto, e misurandomi da capo a piedi con un sogghigno beffardo, sclamò: — Vous êtes l’italienne.
— E voi — risposi, raccogliendo tutte le mie forze — voi siete certo la marchesa Virginia.
— Ah! — ella proruppe — il cuore ve lo ha detto. Sono la marchesa Virginia.
Scosse con alterezza il capo, rigettando dietro la nuca i capelli che le ombreggiavano la fronte, e continuò: — Ma il cuore non vi ha detto tutto, io fui la fidanzata del visconte Gastone.
— Voi!...
— Io stessa! — E tornò ad affissarmi con gelido scherno, quasi volesse chiedere: — Non vi sembro più bella di voi? — Indi proseguì: — Ah! nello scegliervi per sua confidente egli vi ha taciuto questa parte della sua storia. Egli non vi disse che molto tempo addietro, quando egli aveva diciotto anni ed io ne avevo quindici, vi fu una fanciulla abbastanza ingenua da credere alle sue parole, da abbandonarsi [379] nelle sue braccia. Fumavano le rovine del mio castello vandese, erano calde le ceneri de’ miei parenti, ed io potevo (sciagurata!) porger l’orecchio a lusinghe d’amore, e inebbriarmi di mendaci promesse... Era una notte limpida come questa, era in questi boschetti; come adesso, uscivan profumi dai fiori e canti dagli alberi, ed egli giurava all’ospite derelitta, alla congiunta orfana che l’avrebbe vendicata dei suoi genitori uccisi, delle sue case arse, de’ suoi beni confiscati.... Infame! Egli ha tradito il suo re, la sua fede, ma che importa il resto? ha tradito me.... Quando tutti imprecavano a lui perchè era corso ad arruolarsi negli eserciti della rivoluzione, io sola lo difendevo.... — per lunghi anni penosi senza vederlo, senza ricevere una lettera sua, io l’attesi, l’amai.... Credetti al suo pudore di gentiluomo.... Quando lo seppi morto, quando la sua mano irrigidita non poteva più reintegrare il mio onor di fanciulla, non lo maledissi, ma piansi.... Inginocchiata nel nostro tempietto domestico, pregai pace a colui ch’io non avevo cessato di chiamare il mio sposo.... Giunsero le vostre lettere.... il velo è caduto.... Immemore de’ suoi doveri verso la marchesa Virginia, egli aveva (oh! il sant’uomo) rammentato quelli verso una vil popolana, e da lei, inanellata al letto [380] di morte, aveva raccolto questa immonda creatura, nata Dio sa di che amplessi....
— Oh marchesa — io interruppi, fulminata da questo racconto, ma più di tutto offesa dallo strale lanciato contro la povera bimba e contro l’estinta ch’io non avevo mai conosciuto — Fanny era figlia del Visconte....
— Sia pure — ella ripigliò con uno sguardo terribile — tanto peggio per lei! Ella era qui a simboleggiarmi il suo cinico abbandono, i suoi turpi abbracciamenti con una estranea; tanto peggio per lei!...
Dio mio, che sospetto infernale mi balena nell’anima? — Ma dunque — chiesi con voce tremante — voi l’avete uccisa, avvelenata forse?
— Sì — rispos’ella aggrottando le ciglia — l’ho avvelenata se si può avvelenar con lo sguardo, se si può avvelenare con l’odio. Lascio a voi italiani mescer filtri mortiferi, io sento in me stessa la fatale potenza di scavar la tomba a quelli che abborro.... Era bella, era gentile, era gracile, aveva bisogno d’amore, e non trovò che la gelata indifferenza degli altri e l’odio mio. Ogni volta ch’io fissavo su lei i miei occhi fulminei la vedevo impallidire e piegarsi tremula come un giunco agitato dal vento. Il sorriso era scomparso dalle sue [381] labbra, il sangue non colorava più le sue guancie....
— Basta, basta.... troncate questo supplizio.
— E voi — ella continuò con voce più forte, e alzando il braccio in atto minaccioso.... Ma non fu che un istante. Ella lasciò ricadere il braccio sul fianco, lo sdegno feroce cedette nuovamente il posto al sarcasmo, scrollò il capo in segno di sprezzo, e disse — No, voi non siete la madre di Fanny, no, egli non può avervi amata. L’altra almeno sarà stata bella, giovane, ardente, ma voi.... Andatevene, âme de gouvernante!
E stava per allontanarsi, ma in me era colma la misura e io avevo omai vinto ogni sgomento. Approssimatamele e postale una mano sulla spalla: — Voi siete una infame — le gridai nell’orecchio. — Seppure — soggiunsi — per vostra scusa, non siete una pazza.
A questa parola, si sarebbe detto che un demone si fosse impossessato di lei. I suoi occhi mandarono fiamme, ella si cacciò le mani nei capelli, e l’ampio volume delle treccie sciolte sollevato sulla sua testa, parve acquistar proporzioni colossali e ingigantire la sua persona. Credetti ch’ella fosse per gettarsi sopra di me, nè sperai di [382] poter difendermi.... Ma in quel punto un uomo si slanciò fra noi. Era Monsieur Simon sceso a cercarmi in giardino, poichè non mi aveva più trovata nella camera di Fanny. Alla vista del vecchio servo la marchesa Virginia si fece mansueta come un agnellino, il suo volto perdette ogni espressione di ferocia; ella appoggiò il capo sulla spalla di lui, e si lasciò condur via senza dir motto. Egli la guardava con una pietà riverente, in atto di vassallo che guarda la sua regina caduta, con quella umiltà che non contiene bassezza perchè significa rispetto alla sventura, non ossequio alla potenza.
— Aspettatemi qui un momento — mi diss’egli a bassa voce nel partire.
Infatti non passarono due minuti ch’egli era già tornato. Ma non pronunziò parola sull’accaduto, e accorgendosi ch’io ero in procinto di favellargliene, troncò il discorso con una frase — C’est une malheureuse.
Monsieur Simon avrebbe desiderato condurmi da un’altra parte del castello, ov’era il quartiere dei forestieri; ma io non vi accondiscesi, e volli passare il rimanente della notte nella camera della mia Fanny.
Ella sola restava intatta nel santuario delle mie memorie; vittima rassegnata e innocente, ella era morta senza compiere, [383] nè meditare vendette. Se suo padre aveva commesso errori, ella li aveva espiati; se le cose testè udite distruggevano il bell’ideale ch’io m’ero fatto di Gastone, pur ch’io contemplassi il suo volto a cui la morte ridonava l’antica serenità, sentivo un bisogno immenso di perdonare.
L’alba era penetrata già nella camera quando la stanchezza mi vinse, e piegando la testa sulla spalliera del seggiolone, caddi in un breve sopore. Al destarmi mi trovai a fianco Giannina partita nel cuor della notte da Nantes nel presentimento che mi fosse accaduta sventura.
— Partiamo di qui, padroncina — furono le sue prime parole.
— Subito — rispos’io afferrandola per un braccio; ma i miei occhi caddero sul letto ove giaceva Fanny, e soggiunsi — subito no, restiamo finchè non l’abbiano tolta di là.
E scoppiai in un pianto dirotto, irrefrenabile. Vidi Giannina avvicinarsi al guanciale della povera morta, levar di tasca un paio di forbici, recidere una ciocca della bionda capigliatura di Fanny, e legarla poi rapidissima, con un sottil filo di seta nera. Indi me la porse con una mano, nascondendosi il viso con l’altra e dicendomi: — Prenda, padroncina, è tutto quello che possiamo portar via da questa casa.
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Entrarono di lì a poco due servi in lutto profondo e annunziarono che la viscontessa aveva ordinato che i funerali di Mademoiselle si facessero con la pompa dovuta al grado d’una de Serges. Il corpo sarebbe rimasto esposto due giorni, vestito di bianco, sparso di fiori, affinchè tutti gli aderenti e i coloni, anche quelli che abitavano a parecchie leghe di distanza, potessero vederlo. Nella camera, mutata in cappella ardente, si sarebbero scambiati due ecclesiastici a recitar preghiere senza interruzione. Alla fine del secondo giorno avrebbero avuto luogo i funerali solenni nella chiesetta gentilizia dei de Serges e la sepoltura nelle tombe di famiglia. Monsieur Simon, nel confermarmi tutte queste disposizioni, soggiunse che le révérend père Théophile era incaricato dalla viscontessa d’invitarmi ad assistere a tutte queste cerimonie, e osservò che, dans les circonstances, Madame la vicomtesse a toujours des procédés de grande dame.
Ma queste rappresentazioni d’un lutto ufficiale erano superiori alle mie forze, e io chiesi di partire quel giorno medesimo, dopo aver deposto un ultimo bacio sulla fronte di Fanny.
— Dieu nous a frappés tous — mi disse la viscontessa allorchè io mi accomiatai da [385] lei. Indossava un abito nero, come il dì precedente, ma di lana anzichè di seta, e neri erano altresì il colletto, i polsini, i pendenti agli orecchi, e la catena e i gingilli dell’orologio. Oh s’io avessi potuto ricacciarle in gola quel singhiozzo di cocodrillo, se avessi potuto dirle come quel dolore infinto non faceva che render più odioso il suo delitto!
Nel salire in carrozza monsieur Simon venne a capo scoperto ad aprirmi lo sportello, e mi baciò la mano.
— Grazie — gli dissi — grazie per quello che avete fatto per Fanny.
Il legno si mise in moto e io abbandonai per sempre quei luoghi funesti......
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Che mi rimane più da narrare? Nella rapida successione di fatti accaduti durante gli ultimi mesi, i dolori, i disinganni m’erano come passati, turbinando, d’intorno, io ne avevo sentito il cozzo violento e l’acre puntura. Ma ora soltanto, nella calma desolata, ne sentivo tutto l’immane pondo. Ora soltanto essi mi schiacciavano come cappa di piombo, contendendomi l’aria e la luce. I miei palpiti erano quasi cessati, la fonte delle mie lagrime era inaridita. La ciocca di capelli recisa dalla testa di Fanny e la camelia regalatami da Gastone erano [386] gli unici oggetti che avessero ancora virtù di commuovermi; erano le sacre reliquie di un passato ormai irrevocabile. Però anche l’immagine del visconte s’era offuscata ai miei occhi, anche la dolcezza di serbare illibata la memoria di lui m’era contesa.
Poco dopo il mio ritorno a Venezia, morì Café-au-lait. Si sarebbe detto che l’amorosa bestiuola si fosse aspettata ch’io le riconducessi la sua padroncina; vedendomi tornar sola, perdette l’ultima speranza e nulla la sostenne più in vita.
Nella casa di mia madre io non trovavo ormai nemmeno il sorriso, che, in onta ai frequenti dissensi, mi aveva accolto per tanti anni. La mia povera genitrice, invecchiata di parecchi lustri in pochi mesi, non vedeva in me che una nemica del suo Venanzio e profondeva la pensione ch’io le passavo in doni alla chiesa ed in messe per intercedere dal Signore la prossima liberazione del prigioniero. Clara era amata e felice e non si curava di me.
Divenni egoista; avevo raccolto sì poco dalla simpatia, che m’avvezzai all’indifferenza. Gli avvenimenti che andavano via via succedendosi non mi rallegrarono, se lieti, non mi afflissero, se tristi. Solo, quattr’anni fa, vedendo sventolare il tricolore, e Venezia segnare una pagina gloriosa nella [387] storia, esultai d’una gioia fuggevole. Oggi, senz’altri che Giannina nel mondo, veggo talora passarmi dinanzi la fantasmagoria dei giorni che furano, e domando a me stessa s’io sono davvero quella medesima che traversò un tempo sì fiere procelle. Non vivo più, vegeto; ho la coscienza della mia caduta e non ho la possa di rialzarmi. O pagine ch’io vergai, chiamando a raccolta con uno sforzo supremo i miei pensieri, ditemi voi ch’io non fui sempre così, persuadetemi voi che la sacra fiamma dell’affetto non fu sempre spenta nell’anima mia.
A sessantacinque anni non m’è più dato sperar di riaccenderla. Perciò depongo la penna, ed aspetto che sia tronca questa vita che non so rendere nè gradevole a me, nè utile agli altri.
* * *
Si era fatto giorno da un pezzo quando Lidia e Sofia ebbero finito la lettura del quaderno della zia Maddalena. La cameriera, venuta per isvegliarle, non aveva potuto frenare un grido di sorpresa vedendo le sue padroncino già alzate, e sedute al tavolino. Esse, che stavano appunto scorrendo le ultime righe, colte così all’impensata, [388] chiusero in fretta il volume, ma ciò non impedì che il quaderno della zia fosse scoperto e girasse per le mani dell’intera famiglia.
Però Nannetta non si persuase che il libro fosse uscito dal suo ripostiglio nella maniera più naturale del mondo; senza dubbio quella subita apparizione era dovuta a un mal giuoco della defunta, e quando in una famiglia nascono simili cose, disse la prudente femmina, il meglio che possa fare una guattera a modo è di cercarsi un altro servizio. Ecco la ragione per cui Nannetta, dopo due lustri e più, lasciò casa Alzini.
FINE.
Prezzo L. 3.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.