The Project Gutenberg eBook of Ricordi di gioventù This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Ricordi di gioventù Cose vedute o sapute - 1847-1860 Author: Giovanni Visconti Venosta Release date: July 31, 2025 [eBook #76598] Language: Italian Original publication: Milano: Cogliati, 1925 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RICORDI DI GIOVENTÙ *** [Illustrazione: Giovanni Visconti Venosta] GIOVANNI VISCONTI VENOSTA RICORDI DI GIOVENTÙ COSE VEDUTE O SAPUTE 1847-1860 QUINTA EDIZIONE MILANO CASA EDIT. L. F. COGLIATI 1925. G. MAGGIONI. 1925 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Industrie Grafiche A. NICOLA & C. — Milano-Varese. CAPITOLO I _Sommario:_ Lettera ai miei nipoti. — Primi anni infantili. — Mio padre e mia madre. — Il bisnonno e il nonno. — Moti in Valtellina alla fine del secolo XVIII. — Prima annessione della Valtellina alla Lombardia, decretata da Napoleone. — L’invasione Austro-russa e il brigantaggio. — Il Governo Napoleonico. — La ristaurazione del Governo Grigione dinanzi al Congresso di Vienna. — La Valtellina definitivamente riunita alla Lombardia nel 1815. — Usi e costumi a Milano nel 1848. — Il colera in Lombardia nel 1836. — La venuta nel Lombardo-Veneto dell’Imperatore d’Austria Ferdinando I successo a Francesco I. — Primi insegnamenti politici. — Un accidente pericoloso. — Divertimenti e feste in casa Trotti, episodi. — L’Istituto Boselli. — Il maestro Pozzi. — Mio fratello Enrico. — I miei primi compagni di scuola nell’Istituto Boselli e nel Ginnasio Pubblico. — Il direttore Boselli e una scappatella di Emilio. — La morte del direttore Boselli. — Le lezioni che ci dà nostro padre. — Giuseppe Revere. — Le vacanze a Tirano. — I miei parenti di Valtellina. — Il congresso scientifico di Milano. — La monografia di mio padre sulla Valtellina. — La Società d’Incoraggiamento. — Il conte Carlo Porro. — La signora Anna Tinelli. — Caso disgraziato avvenuto a mio padre in viaggio. — Mio padre ci toglie dall’Istituto Boselli. — Si va in Valtellina per le vacanze. — Mio padre, colto da grave malore, muore in tre giorni. — Con mia madre, e coi fratelli, si va in casa del cugino don Luigi Quadrio. — Tutta la popolazione di Grosio accompagna la salma di mio padre. — Note storiche. AI MIEI NIPOTI CARLO, ENRICO, GIOVANNI. _Tirano, agosto 1900._ Nel leggere i libri di storia ho avuto più volte la curiosità di sapere che cosa facesse, che cosa dicesse, durante i principali avvenimenti, tutta quella parte di pubblico che non ha l’onore di essere ricordata nei libri. Nel leggere poi qualche libro di storia patria, e specialmente di storia valtellinese, ho avuto anche un’altra curiosità, tutta domestica. Conoscendo la parte presa, da parecchi della nostra famiglia, negli avvenimenti della loro valle nativa, ero tanto più curioso di sapere quali intendimenti avessero guidato quei nostri antenati, quale fosse stato l’animo loro, quali le loro costumanze, e quali vicende avessero attraversato, essi e le loro famiglie. Quando mi venivano questi pensieri, se mi trovavo a Tirano, passavo delle ore nello studio, che conoscete, a frugare tra le vecchie carte d’archivio; e parecchie volte ho potuto rivivere in mezzo ai nostri buoni vecchi, leggendo dei fasci di lettere, o qualche loro scritto, e riuscendo così a sapere, con mio grande interesse, quello ch’essi avessero pensato, o avessero fatto, durante certi tempi fortunosi in cui erano vissuti. Se voi avete ereditato questa mia stessa curiosità, avrete di certo anche quella di sapere che cosa pensassero, e che cosa facessero, vostro padre e i vostri zii in quegli anni, che resteranno famosi nella storia italiana; gli anni che corsero tra il 1848 e la proclamazione del nuovo Regno d’Italia. Ho pensato perciò di riandare nella memoria i miei ricordi di gioventù, e di narrarveli, dolente di non averci pensato prima tenendone nota giorno per giorno. Non è una storia completa di quei tempi che io vi scriverò; molte ne furono già scritte, altre se ne scriveranno, e non arriverete a leggerle tutte. Io m’accontenterò d’esporvi quegli avvenimenti in mezzo ai quali mi sono trovato, o ai quali presi una qualche parte. Vi dirò quello che ne ho veduto io, e quello che ne ho sentito dire, e le impressioni che me ne sono rimaste; vi condurrò in mezzo ad alcuni fatti grandi e a molti fatterelli; vi farò conoscere qualcuna delle persone che ho conosciute allora, gente d’importanza e gente oscura, qualche parente, qualche amico; insomma cercherò di darvi un’idea dell’_ambiente_ in cui sono vissuto a quei tempi. Ho pensato anche a condurvi con me a dare una breve occhiata agli anni che precedettero il 1848, gli anni della mia prima giovinezza, per dirvi qualcosa di mio padre, di mia madre, di mio nonno, e delle nonne, conducendovi in seno della nostra famiglia d’allora. Saranno poche pagine intime, che scriverò soprattutto per voi; e così, se qualcuno all’infuori di voi leggerà questo libro, può saltare il primo capitolo. Se poi, tra questi lettori, qualcuno che fosse di quei tempi scoprisse che nel libro ho commesso delle dimenticanze, cosa probabilissima, spero che mi vorrà essere indulgente, pensando che quei nostri tempi sono assai lontani, e che è già molto se la mia memoria non siasi affievolita di più. Ho fiducia che scrivendo queste pagine non avrò sprecato del tutto la fatica. Forse vi interesseranno, e un poco me ne divertirò anch’io, perchè è sempre piacevole il riandare i tempi della propria gioventù, che, s’ha un bel dire, sono quasi sempre anche i più belli della vita. Nei miei, poi, ce ne furono di veramente belli, e di veramente grandi. Nascere in una patria schiava e divisa, avere in cuore l’ideale della sua libertà, e vederne raggiunta la meta, è una di quelle fortune che hanno rari esempi nella storia. Ed ora, ai giovani l’ideale di renderla grande e felice! Il compito non sarà meno glorioso, perchè non sarà meno grande, nè meno arduo. Lo zio GINO. * * * Incominciando queste pagine proprio dagli anni della mia prima giovinezza, dico subito che furono anni per me sereni e felici; quando ci ritorno col pensiero non so staccarmene, e ne ritrovo ancora vivi nell’animo i ricordi dolcissimi. C’era nella mia famiglia un’atmosfera di amorevolezza e di confidenza tra genitori e figliuoli, che non era comune a quei tempi. Fra le pareti domestiche non sentivo che massime virtuose, non vedevo che buoni esempi, resi tanto più persuasivi e tanto più attraenti perchè accompagnati da una bontà indulgente e serena. Certe massime, pur buonissime, che sentivo da qualche mio parente, da qualche maestro, o da padri di altri fanciulli, pronunziate con quel tono burbero e severo col quale alcuni credono di far impressione sui fanciulli, a me sembravano precetti disgustosi, o per lo meno noiosi. Quanto mi parevano diverse dalle massime e dai consigli dei miei buoni genitori, i cui avvertimenti erano sempre pronunziati con tanta dolcezza! erano così ragionati, e tanto persuasivi! Quando, più tardi, coi compagni del Ginnasio o del Liceo, tutti dal più al meno birichini, si evocavano certe massime domestiche severe, e parecchi le mettevano in ridicolo, il mio pensiero correndo ai miei buoni genitori, trovava un freno, o per lo meno un rimorso. Oh, nel giudizio finale non potrò davvero accampare la mancata educazione quale circostanza attenuante! Mi vedo ancora dinanzi agli occhi, dopo tanti anni, vive e parlanti le figure di mio padre e di mia madre, quando erano nel fior degli anni, e mi pare ancora di sentire la loro voce e i loro discorsi; i discorsi che facevano con le persone grandi e con noi ragazzi. Eravamo tre fratelli; Emilio che aveva tre anni più di me, ed Enrico che ne aveva tre di meno. Un fratellino maggiore di tutti, Nicoletto, era morto ancor bambino, prima ch’io nascessi. Mio padre aveva la persona alta ed elegante; aveva il contegno distinto e riservato. Sul suo viso, una certa mestizia che sovente lo adombrava, quasi fosse il presagio d’una fine immatura, si mutava facilmente in un sorriso pieno di dolcezza e di bontà. Aveva l’animo retto e calmo, in lui era altissimo il sentimento della giustizia e dell’equanimità. La sua intelligenza era forte e serena; amava gli studi, ed aveva molta coltura, specialmente in materie giuridiche, economiche e letterarie. Conosceva bene anche le matematiche. Mia madre, Paola Borgazzi, era una donnina bella, piacente, elegante, piena di brio e di spirito. Aveva una religiosità convinta e profonda; rigida per sè, ma indulgente e amabile, direi, verso gli altri. Soleva dire che anche tra i santi preferiva quelli miti e indulgenti a quelli accigliati e severi. Era una sua massima, che se una persona aveva commesso un fallo non bisognava sfuggirla, ma cercarla, per rialzarne l’animo, e facilitarle la redenzione. Voleva che anche la virtù fosse attraente, e ci diceva sempre che tra le virtù la _carità_ è la più bella. Con noi figliuoli era affettuosissima, e come metodo d’educazione non conosceva che la mitezza e l’indulgenza. Quando noi tre fratelli facevamo troppo chiasso, cosa che succedeva di frequente, essa andava a rinchiudersi nel suo gabinetto; per cui il babbo soleva dire che, quando eravamo cattivi, la mamma invece di castigar noi castigava se stessa. Eppure anche quello era per noi un castigo, perchè allora ci mettevamo dietro l’uscio a piangere e a supplicare finchè la porta si aprisse. Emilio, ch’era molto tenero, si metteva a capo di tutti a piangere. Coi lunghi capelli biondi inanellati che gli scendevano sulle spalle, e cogli occhi celesti, pareva l’angelo del dolore. Dunque, figliuoli, immaginatevelo così vostro padre, quand’era bambino. All’occorrenza però era un bel diavoletto anche lui. Mia madre aveva lo spirito pronto e arguto, e per di più un talento d’imitazione quale non vidi mai in nessuno. Essa alle volte si metteva a rifare un’intera conversazione, a ripetere un colloquio, una discussione tra parecchi, imitando le voci, e rispecchiando le persone, con una tale verità d’osservazione e in un modo così perfetto, da dar proprio l’illusione d’udire quelle persone stesse. Accanto a queste qualità piacevoli e brillanti dello spirito, c’erano in mia madre anche delle solide e profonde virtù, che in lei vivevano nascoste, ma che nei giorni del dolore furono la sua guida e la sua forza. In casa nostra, poi, dagli amici e dai nostri vecchi contadini sentivo spesso parlare del bisnonno e del nonno, che avevano lasciato lunga e grata memoria di sè. Il mio bisnonno, Francesco, lo vedevo dipinto su un quadro, in un salotto della nostra casa di Tirano, con una bella giubba rossa, e con delle carte in mano, che indicavano il tempo del Governo Grigione in Valtellina e di quand’egli era Gran Cancelliere della Valle. Di lui era rimasta la fama d’uomo di molta rettitudine e di alta autorità. Del nonno, Nicola, le memorie, naturalmente più recenti, parlavano come d’un personaggio che in Valtellina aveva avuto una parte importante durante gli avvenimenti fortunosi della Rivoluzione francese. Mio nonno aveva fatto gli studi a Roma, in un Collegio di Gesuiti, e c’era rimasto parecchi anni, pur ritornando in famiglia ogni anno per le vacanze. Il viaggio dalla Valtellina a Roma, a quei tempi, e cioè intorno al 1770, non era un affare da poco. Si faceva la Valtellina a cavallo ed il lago di Como in barca; poi a Milano c’era un vetturale all’albergo dei Tre Re, che con un legno a quattro cavalli conduceva a Roma, impiegandoci circa due settimane. Il nonno, durante gli anni del collegio, era stato molto attorniato perchè entrasse nella Compagnia di Gesù, e s’avviasse alle Prelature. Da principio si era dimostrato non alieno, giovanetto qual era, e lusingato dai superiori, che ne apprezzavano il forte ingegno. Egli era poi amantissimo degli studi di cultura classica ed archeologica, che gli rendevano seducente il soggiorno di Roma. Ma i suoi genitori, di cui era l’unico figlio maschio, si mostrarono vivamente contrari a quella sua idea giovanile; e forse l’avrebbe smessa egli stesso. Ma a troncare ogni incertezza venne la Bolla di Clemente XIV, che sopprimeva la Compagnia di Gesù. Allora lasciò Roma, e ritornò in famiglia. I Padri del Collegio, sparsi con altri Gesuiti per tutta Europa, continuarono per qualche tempo a tenere con lui una corrispondenza, nella quale parlano della ferma fiducia che la _Compagnia_ (alcuno di loro la chiama _la Madre_), risorgerà infallibilmente, e riferiscono gli affidamenti che ricevono da personaggi e da Governi. Pare che il mio nonno a questa risurrezione non ci credesse molto, e che intanto abbandonasse il pensiero di ritornare a Roma. Passano circa dieci anni, e la corrispondenza langue; poi mio nonno, nel 1783, si marita a Milano con donna Francesca, figlia del conte Fabio Castiglioni, che morì in età ancor fresca. Qualcuno dei Padri sopravissuti si lamentò con mio nonno del suo matrimonio, meno un certo Padre Mezzi di Bergamo, che gli scrive una lettera scherzosa, la quale finisce col dirgli: «Se non te ne è venuta la vocazione, compensa la Compagnia col mettere al mondo molti gesuitini, futuri Padri». Le raccomandazioni del Padre Mezzi non ebbero fortuna. Mio nonno, appena ritornato in famiglia, riprese i suoi studi storici, avviando in Valtellina e nella Valle Venosta profonde ricerche sulla traccia di un albero di famiglia che andava documentando. Raccolse documenti e numerose pergamene, che conserviamo, illustrando con indagini, non prima fatte, molti punti della storia valtellinese, riguardanti specialmente i secoli XII e XIV. Poi dal 1786 al 1815 lo vediamo rivolgere tutta la sua attività agli avvenimenti politici di cui fu teatro la sua valle nativa. La cospirazione contro il Governo Grigione[1], l’invasione francese[2], l’annessione della Valtellina alla Lombardia, la reazione austro-russa, il Regno italico, la restaurazione coi trattati del 1815, avvenimenti ricchi d’episodi anche in Valtellina, lo ebbero attore attivissimo in servizio della patria[3]. Dopo questi avvenimenti, di cui vi do un cenno sommario nelle note in fine di questo capitolo, mio nonno si ritirò da ogni pubblico uffizio; più tardi fu eletto dai Comuni Deputato Nobile alla Congregazione Centrale in Milano. Osservando le carte e i documenti di quell’epoca, che dimostrano l’integrità e l’energia del suo carattere, e la sua vasta cultura, è a deplorarsi che i casi non abbiano condotto mio nonno a spiegare tante doti in un campo più vasto. Egli venne a stabilirsi a Milano nel 1823, quando si maritò suo figlio; morì l’anno 1828. * * * Se spingo il mio pensiero, lontano, nei tempi, della mia infanzia a cercarvi qualche fatterello, o piuttosto qualche impressione, mi si affacciano dei vaghi ricordi, che mi dicono quanto fossero diverse le abitudini e la vita di quei tempi. La prima e massima linea di separazione tra quei tempi e i tempi nuovi fu segnata dal 1848. Da allora tutto mutò rapidamente, nelle abitudini domestiche, nella vita cittadina, nelle usanze, nelle menti, direi quasi come se fosse passato un secolo, non un breve tempo. Ripensando ai tempi di prima, tutto mi si affaccia come in un mondo diverso; un mondo più semplice, più rispettoso, e più uniformemente tranquillo, come uno stagno. Noi ragazzi, nella nostra famiglia, come dissi, eravamo educati con una grande dolcezza, ma nelle famiglie degli altri fanciulli, nostri amici, l’educazione era più severa; si ragionava poco, e si ubbidiva molto. In una famiglia di quel tempo non si sarebbe mai udito «si fa tal cosa, o non si fa, perchè nostro figlio, od anche solo la nostra bambina, vogliono o non vogliono!» Una simile pretesa avrebbe fatto ridere come una incredibile stranezza. I balocchi, i divertimenti, erano pochi e semplici. Nelle famiglie signorili si pranzava tra le quattro e le cinque del pomeriggio, e dopo pranzo si andava in carrozza al Corso, che si svolgeva tra la Porta Orientale, ora Porta Venezia, e i bastioni vicini, sotto la direzione d’un Commissario di polizia a cavallo, seguìto da due ussari. Le carrozze che vi intervenivano erano molte, e tutte a due cavalli. Una signora non sarebbe andata mai in un legno a un sol cavallo, e non usciva a piedi che seguita da un domestico in livrea. Non c’erano vetture pubbliche, come ora; c’erano solo dei fiacres a due cavalli in alcune piazze della città, e servivano specialmente pei forestieri. I così detti _broughams_ non comparvero che dopo il 1850, e gli _omnibus_ assai più tardi. La prima signora che a Milano sfoggiò un elegante _brougham_, a un cavallo, venuto da Parigi, fu la marchesa Ippolita d’Adda Salvaterra Pallavicino. Di questo fatto allora si parlò molto a Milano. Alle ville, in campagna, ci si andava coi cavalli proprî, perchè non c’erano ferrovie, all’infuori del breve tronco di dodici chilometri tra Milano e Monza, aperto nel 1842. Noi andavamo nelle nostre case in Valtellina, distanti da Milano da 160 a 170 chilometri, col nostro legno e coi nostri cavalli, impiegandoci tre giorni. L’illuminazione a gaz per le vie di Milano non principiò che nel 1845. Alle volte il babbo e la mamma ci conducevano al teatro _alla Scala_, ove si diceva che c’erano dei grandi maestri e de’ grandi cantanti; ma ciò che m’interessava soprattutto era il _balletto comico_, che chiudeva lo spettacolo dopo il _ballo grande_[4]. Qualche volta poi nostro padre ci conduceva a sentire il Modena, e, ci diceva: «Quando sarete grandi, vi farà piacere ricordarvi di questo attore.» Una delle impressioni, che mi rimase viva per parecchi anni, fu lo spavento che aveva messo in tutti la prima invasione del colera in Lombardia. Mio padre si conservava calmo, come di solito, ma mia madre era spaventata, e volle lasciare Milano. Si andò a Torino, ma prima di passare il Ticino si dovette fare una quarantena di parecchi giorni in una villa, che mise a nostra disposizione il conte Francesco Annoni, amico e parente di mio padre. Alcune stampe di quel tempo raffiguravano il colera in forma d’un diavolo, anche più brutto del solito, che percorreva i paesi spargendo un veleno. Per me dunque il colera non era altro che quel diavolo, e mi guardavo sempre in giro per scansarlo, caso mai comparisse. Dopo il colera, ci fu nel 1838 l’ingresso solenne in Milano di Ferdinando I, il nuovo Imperatore d’Austria, ch’era successo al padre. Fui condotto anch’io su un terrazzino del corso di Porta Orientale a vedere lo spettacolo della fastosa sfilata di cavalieri in ricchi costumi, di araldi, e di cocchi dorati. Quando arrivò la carrozza, tutta oro e cristalli, nella quale c’erano l’Imperatore e l’Imperatrice, parecchi lungo la strada incominciarono ad applaudire ed a sventolare i fazzoletti. Io guardavo con tanto d’occhi e bisogna dire che in quel momento avessi levato di tasca il fazzoletto anch’io, perchè a un tratto mi sentii prendere fortemente pel braccio da un giovinetto più alto di me, che mi era vicino, e che mi disse bruscamente: «Guardati bene dall’applaudire quando l’Imperatore passerà qui sotto!» Fissai quel giovane stupefatto, e senza capire nulla, ma mi guardai bene dall’applaudire. Poco dopo domandai alla mamma la spiegazione di quel comando; essa mi rispose che quel giovanotto aveva avuto ragione, ma che certe cose le avrei capite più tardi. Era questa una risposta che sentivo sovente, e non chiesi altro. Quel giovanotto si chiamava Guido Susani, che rividi molti anni dopo, e col quale entrai in amicizia; un’amicizia che fu spesso attraversata da nuvole e da temporali, poichè quell’arroganza, sotto i cui auspici avevo fatto la sua prima conoscenza, lo accompagnava sempre, sia che avesse torto, sia che avesse ragione, come in quel giorno dell’entrata dell’Imperatore. Ma siccome i bambini molte volte vanno ruminando tra sè nel pensiero sulle cose udite e non capite, soprattutto quando si dice loro che son cose che capiranno più tardi, così ho poi ruminato anch’io sulle parole del Susani, e a poco a poco, pigliando a volo una parola qua, una parola là, sentendo parlare da mia madre della storia pietosa di Teresa Confalonieri, e del Pellico da mio padre, imparai che gli austriaci erano una cosa detestabile. In casa nostra non erano mai venuti nè uffiziali, nè alti funzionari austriaci. Bisogna dire che la parola _diplomatico_ avesse colpito, a quei tempi, la fantasia di mio fratello Emilio, poichè ricordo che quando gli domandavano, come si fa coi bambini «Che cosa vuoi fare quando sarai grande?» rispondeva: «Voglio fare il _diplomatico_!» e si rideva. Una volta però, quando fu più grandicello, il babbo gli disse: «Sta bene, se tu dici ciò come un proposito di studiare seriamente; ma ricordati che nel nostro paese c’è un governo che non dobbiamo servire!» L’anno dopo la venuta dell’Imperatore fui mandato a scuola per far la prima classe elementare, ma un caso disgraziato, che poteva essermi fatale, mi fece interrompere le lezioni per alcuni mesi. Un giorno fui preso dalla curiosità di sapere cosa ci fosse nell’armadio di una stanza di servizio, che vedevo sempre chiuso: l’apersi, e in mezzo a molte bottigliette ne trovai una sulla quale era scritto _Malaga vecchio_: ne tracannai un sorso; mi sentii come una fiamma in bocca, e caddi a terra. Era acido solforico. Fui in grave pericolo per parecchi giorni, soffrendo molto; guarii lentamente, e ne risentii per un pezzo. Mio fratello Emilio, che andava a scuola già da tre anni, aveva i suoi piccoli amici, ch’eran parecchi, ma i tre intimi erano i figli del marchese Antonio Trotti, Lodovico e Lorenzo, che poi morì giovane, e Saule Mantegazza. Queste amicizie erano naturalmente accompagnate da quelle dei rispettivi parenti; in casa Trotti poi ci andavano altri ragazzi, e di carnevale c’erano delle lezioni di ballo, delle belle festicciuole anche in costume, e delle recite. Era un grande divertimento, e i miei genitori conducevano anche me. Una sera però Emilio ebbe un dispiacere, ed uno lo ebbi anch’io. Emilio ballava con una bambina d’Azeglio, vestita alla Bernese con una gran cuffia; urtati nel ballare, caddero tutt’e due; fecero per rialzarsi, ma in grazia del cuffione della bambina e delle maglie strette che aveva Emilio, non ci riuscirono; ruzzolarono sotto una tavola, e ci volle un po’ di tempo per levarneli. Emilio, da quel giorno, non volle ballar più. Il mio dispiacere l’ebbi alcune sere dopo. Mia madre aveva combinato con la marchesa Fanny d’Adda De Capitanei ch’io ballassi una quadriglia con la sua bambina, Lauretta. La quadriglia andò disastrosamente, e non seppi più neanche dove fosse andata a finire la mia ballerina. Per un pezzo, anche dopo quella sera, io continuai a incolparne quella bambina, mentre essa continuò a prendersela con me. Chi mi avrebbe detto allora che quella bambina sarebbe un giorno diventata mia moglie! Eppure la nostra prima conoscenza è datata da quella sera, e cominciò con un disaccordo che doveva essere il primo e l’ultimo. Da bambini, noi tre fratelli eravamo gracili, nervosi, vivacissimi. Perciò nostro padre non volle mandarci a scuola, e neanche farci insegnar l’alfabeto, che dopo i sette anni compiuti. Così, fino a quell’età, non si fece che giocare, saltare e passeggiare, accompagnati dal babbo, ch’era sempre con noi, e prendeva occasione da ogni piccola cosa per interessarci a tutto ciò che si vedeva. Allora non c’erano scuole di ginnastica, ed in casa nostra non c’era un giardino; perciò nostro padre ne aveva preso uno in affitto, dove ci conduceva ogni giorno a far il chiasso, mentre lui se ne stava sotto una pianta con un libro in mano. Le scuole pubbliche elementari a quei tempi erano scarse, e non buone. Nei Ginnasi e nei Licei c’era qualche bravo professore, e anche celebre, ma si studiava poco, e superficialmente. A Milano c’erano diversi Istituti d’insegnamento privato, e tra questi il _Boselli_ e il _Racheli_ erano i due più importanti, che accoglievano i figliuoli di molte tra le migliori famiglie. Noi fummo mandati all’Istituto Boselli, ove c’erano alcuni tra i migliori professori d’allora, tra i quali Achille Mauri, noto letterato, e che più tardi nella Camera Piemontese, nel Senato italiano e nel Ministero della Pubblica Istruzione, lasciò un nome caro ed onorato. Nell’istituto Boselli la prima classe elementare era tenuta da un certo maestro Pozzi, uomo di moltissimo ingegno, il quale, dopo aver fatto il professore di matematica in un Liceo, aveva voluto dedicarsi ai fanciulli, per esperimentare certi suoi metodi che dovevano condurli a imparare rapidamente il leggere, lo scrivere, un po’ d’aritmetica, ed altre belle cose. I metodi del maestro Pozzi, davvero ingegnosissimi, consistevano in una serie continua di giochi traverso i quali si imparava in fretta, senza fatica, anzi divertendoci moltissimo. De’ suoi sistemi alcuni sono rimasti, e sono in uso, senza che alcuno rammenti chi primo li introdusse. Tra i suoi scolaretti il Pozzi poi ne sceglieva alcuni, e, sempre a furia di giochi, insegnava loro cose che facevano sbalordire i buoni genitori, quando presentava i suoi piccoli allievi agli esami, come cagnolini ammaestrati. Ma non c’erano solo i giochetti, c’era di serio nella scuola del Pozzi che l’insegnamento diventava facile, attraente, rapido, senza stancare mai la mente tenera dei bambini, e senza far nascere quelle ripugnanze precoci che ispiravano molte volte le vecchie scuole. Il maestro Pozzi lasciò la scuola pochi anni dopo, e morì giovane. Tra gli ultimi suoi scolari ci fu mio fratello Enrico, a cui prodigò cure affettuose e pazienti, che non dimenticherò mai. Mio fratello Enrico, a cagione d’una malattia cerebrale avuta da bambino, era giunto fino agli otto anni senza quasi poter profferire le parole. Si temette da principio che fosse muto; ma non era sordo, e dava segni d’intelligenza svegliata. Mio padre s’intese col maestro Pozzi, il quale a poco a poco, in un paio d’anni, riuscì a snodar la lingua ad Enrico, e a farlo parlare, con un seguito di espedienti ingegnosi e amorevoli. Mio fratello Enrico diventò un uomo di mente svegliata e acuta; ebbe l’animo buono e giocondo, lo spirito pronto e arguto. Tutto amore pei suoi fratelli, le sue preoccupazioni, i suoi pensieri, eran tutti, e sempre, rivolti a loro, con un affetto quasi figliale. Finchè visse, le abitudini mie furono le sue; eravamo sempre insieme, in casa, in campagna, nelle conversazioni, nei divertimenti; non ci lasciavamo mai. Il suo carattere aperto e leale, la grande bontà del suo animo lo rendevano caro ai molti che lo conobbero e che ne cercavano con premura l’amicizia. Morì a 46 anni, nel 1881, e la sua perdita, che rimpiango ogni giorno, mi lasciò privo quasi d’una parte di me stesso. Il maestro Pozzi aveva per assistente un chiericotto, che pareva avviato a divenir prete; ma quel chierico abbandonò presto il collare e l’insegnamento dell’alfabeto. Più tardi lo ritrovai, quando fui alla Università; si chiamava l’avv. Antonio Mosca e fu mio professore di legge. Dopo il 1859 diventò deputato, e fu un’illustrazione del Foro Lombardo. Il direttore, Antonio Boselli, aveva dato molta riputazione al suo Istituto circondandosi sempre di ottimi professori. Quanto valesse lui non lo so, ma ne’ suoi alunni non destò l’impressione simpatica lasciataci dai suoi maestri e professori. Ne avevamo paura; era duro, severo, e distribuiva con grande facilità ingiurie e scappellotti, specialmente a quelli che teneva in pensione. Le prime confidenze su queste abitudini manesche del Boselli le ebbi da alcuni condiscepoli della prima classe ginnasiale. Eravamo in tre sul medesimo banco, e io ero nel mezzo. Fin dal primo giorno feci una grande amicizia coi miei due compagni, e incominciarono le confidenze, mentre si mangiavano i due panini concessi nella mezz’ora della ricreazione. Due panini, nulla di più; i regolamenti scolastici, allora, non permettevano altro, e la concessione d’un po’ di companatico era un affare non facile. Il mio vicino di sinistra era un giovanetto magruccio, pallido, timido; aveva due gran mani, gonfie, rosse pei geloni, e sanguinolenti. Era un convittore, e mi raccontava che il Boselli li faceva alzare col lume nell’inverno prima di scuola, e li metteva a studiare in camerotti freddi, distribuendo poi con facilità fior di ceffoni senza economia; e mi diceva che quando i convittori erano irrequieti, il Boselli, chiamando _morbosa_ l’irrequietudine, somministrava loro dei purganti. Non so dei purganti, ma dei ceffoni ne pigliava parecchi anche il mio povero compagno. Poverino! e infatti aveva l’aria intimidita e malinconica. Ma non lo era di natura, poichè quando più tardi, divenuto io amico in casa sua, ci ritrovammo, in mezzo ai suoi fratelli, lo rividi vispo, allegro, e tutt’altro che timido. Ma allora mi faceva tanta compassione! Solo mi pareva che un giovinetto così mingherlino, così timido, avesse un nome troppo solenne, troppo da uomo grande; si chiamava Malachia De Cristoforis. Il mio compagno di destra era molto diverso; aveva dodici anni, era tarchiato, aveva il fare risoluto, e lanciava anche qualche bestemmia, specialmente contro il latino. Suo padre l’aveva messo nella _Pensione Boselli_ solo per alcuni mesi, cioè mentre era assente con parte della famiglia, lasciata in Spagna. Però, diceva questo mio compagno, se nel frattempo il signor Boselli mi somministrasse un qualche ceffone, allora farei una «_conspiracion_ in collegio, e poi un _pronunciamento_, e occorrendo una _revolucion_, come si fa in Spagna.» «Sei spagnuolo?» gli domandai. «No, sono di Val Seriana, ma mio padre è cittadino onorario di Saragozza, ove è chiamato _el Dio del do di petto!_» Io non capivo niente. Ma il mio amico mi raccontò che suo padre in tre _piazze_ dove fece tre _stagioni_, in Spagna, era ricevuto come un _Rey_. Basti dire che a Toledo gli studenti gli staccarono i cavalli e trascinarono essi la carrozza; a Valladolid illuminarono la città per lui. Quando poi c’era la sua serata, allora fioccavano inviti, poesie, serenate, regali, e si lanciavano pel teatro dei canarini: e il mio amico non la finiva più nel raccontare cose meravigliose, intanto che si sbocconcellavano que’ due panini. Io e gli altri compagni lo ascoltavamo pieni di meraviglia e quasi d’invidia; ci pareva proprio il figlio d’un Re. Due mesi dopo venne a prenderlo un bell’uomo, senza barba, che cantarellava, intanto che il signor Boselli gli faceva vedere l’Istituto. Era il cittadino di Saragozza, che veniva a prendere suo figlio per ricondurlo in Spagna. Tutti salutammo affettuosamente il nostro amico, facendo mille propositi per l’anno dopo. Ma l’amico non ritornò più, e non seppi più nulla di lui. Si andava alla fine d’ogni mese al Ginnasio di S. Alessandro (ora Beccaria) a fare un breve esame, chiamato _esperimento_, su qualcuna delle materie della classe, insieme agli alunni del Ginnasio pubblico. Ci trovavo press’a poco sempre gli stessi scolari, ch’erano molto biricchini e insolenti, soprattutto con noi delle scuole private; per cui correvano spesso delle busse. Parecchi mi canzonavano perchè avevo i capelli rossi, e mi lanciavano dei proverbi popolari poco lusinghieri. Per un po’ fingevo di non badarci; poi ne pigliavo qualcuno, e gli davo una buona strigliatina. Mi dicevano in milanese: _Guardet de la toss e di cavei ross; Qui ross in difficil de conoss_. Tra questi scolari ne avevo notato specialmente due, che stavano sempre tra loro, col fare brusco e con la faccia accigliata. D’uno seppi più tardi ch’era il figlio d’un Commissario di Polizia; l’altro; ch’era anche il più altezzoso dei due, per un pezzo non sapemmo chi fosse; ma qualcuno tra noi disse che doveva essere il figlio d’un generale, perchè una volta venne a prenderlo suo padre con in capo una feluca. Un giorno, nell’uscir di scuola, gli domandammo: «E tu chi sei? Chi è tuo padre?» — «Mio padre» rispose in tono fiero il ragazzo «è Commissario di Sanità del Municipio.» Ma siccome noi avevamo l’aria di non aver capito, e si rideva, il ragazzo replicò, con fare d’importanza e di compassione per la nostra ignoranza: «Mio padre è il Capo che sta al di sopra di chi accalappia i cani!» Rammento ancora un grosso guaio ch’ebbe una volta mio fratello Emilio nella scuola Boselli. Non so per qual ragione, la sua classe era stata un giorno messa tutta in castigo e privata della ricreazione. Che fecero allora gli scolari? C’era su una stufa grande, e fatta a colonna, un busto in gesso dorato, ch’era il ritratto dell’Imperatore d’Austria; gli scolari, approfittando d’un momento in cui il professore era uscito dalla classe, buttarono una corda al collo del busto, e con una forte tirata lo rovesciarono a terra, mandando tutto in frantumi l’infelice Imperatore[5]. Apriti cielo! I sospetti più gravi caddero su mio fratello Emilio, come ispiratore e principale esecutore del delitto. Boselli, a buon conto, gli diede una terribile lavata di capo, accompagnata da parole ingiuriose; mio fratello allora mise i suoi libri sotto il braccio, e se ne andò a casa. Il giorno dopo, mio padre accomodò la faccenda alla meglio. Boselli, quando ci strapazzava, soleva dedurre dalle nostre scappatelle le più terribili conseguenze: «Si incomincia colla disobbedienza, poi di questo passo si finisce sulla forca!» Molti anni dopo, nel 1853, vennero i processi di Mantova, le forche furono rizzate davvero, e mio fratello Emilio corse un grave pericolo. «Che Boselli l’avesse indovinata?» mi disse un giorno Emilio. Infatti c’era mancato poco. Ma i vecchi alunni del signor Boselli dovevano presto perdonargli le strapazzate, gli scappellotti, i purganti, e i suoi pronostici, poichè venute le _Cinque Giornate_, egli fu tra i primi ad accorrere al Broletto, che fu uno dei punti di ritrovo dell’insurrezione, e vi rimase ucciso. Devo però dire che, a quei tempi, il migliore dei miei maestri è stato mio padre. Egli ci faceva, dopo la scuola, delle ripetizioni, ch’erano vere lezioni, e con grande amorevolezza e chiarezza c’insegnava ben più di quanto avevamo sentito, e talvolta non capito a scuola. Con mio fratello Emilio, maggiore di me, come dissi, e che era dotato di molta precocità d’ingegno e di molta volontà di studiare, le lezioni eran lunghe, ed erano seguite poi da discorsi istruttivi durante le passeggiate che si facevano dopo le lezioni. Molte volte ci accompagnava nelle paseggiate il poeta Giuseppe Rèvere, anzi ricordo che parecchi de’ suoi bei sonetti li scrisse in casa nostra. Uno dei modi di educazione di mio padre era quello di stare co’ suoi figli più che poteva, di esigere da noi una confidenza illimitata, ricambiandocene molta, e di considerarci come persone un po’ superiori alla nostra età; così ispirava in noi il sentimento della responsabilità e del dovere. Eravamo trattati da piccoli uomini, cosa che ci lusingava assai; per cui era grande il nostro impegno per tenerci a quel livello. In Valtellina, ove passavamo le vacanze, mio padre alle volte interrompeva i miei spassi, non di rado un po’ sfrenati, coll’affidarmi qualche incombenza campestre, in cui ci volesse dell’assiduità e dell’attenzione. Non è a dire come ne fossi superbo, e con quanta serietà mi ci mettessi. Ciò avveniva specialmente nel tempo delle vendemmie, che mio padre, buon agricoltore e buon enologo, dirigeva in casa sua diligentemente, introducendo metodi allora nuovi, e prendendo Emilio e me come suoi aiutanti. Mio padre amava i contadini e ne era fortemente riamato; volontieri s’intratteneva con loro, s’occupava dei loro affarucci, e il suo studio era sempre frequentato da contadini che venivano a chiedergli aiuti e consigli. Specialmente affezionata gli era l’intera popolazione di Grosio, colla quale la nostra famiglia aveva avuto da parecchi secoli, tradizionali legami di interessi e di affetti. Sentimenti riaccesi anche più vivamente da non lontane memorie: quelle che si riannodavano al mio avo, don Nicola, il quale, anche in mezzo alle gravi occupazioni della sua vita operosa, non aveva mai dimenticato i suoi Grosini, ed era stato in ogni occasione difensore e consigliere amorevole degli affari loro e del Comune. C’erano in quel tempo in Tirano parecchie buone e distinte famiglie, ora in parte scomparse; e noi ci avevamo anche dei parenti, poichè mio padre aveva tre sorelle che si maritarono in Valtellina, nelle famiglie Cattani, Quadrio e Merizzi. Tra i parenti voglio ricordare specialmente due, che lasciarono nel mio animo una cara e indelebile memoria; e questi furono un cognato di mio padre, don Antonio Merizzi; e un suo cugino germano, don Luigi Quadrio, prete e parroco nel paesello di Bianzone. Don Luigi Quadrio era un sacerdote severo nella condotta, dignitoso nella persona; aveva ingegno, coltura, idee larghe e liberali, come molti a quel tempo nel clero lombardo. Modestissimo, nemico di ogni rumore mondano, non volle cariche, che lo avrebbero condotto a diventar Vescovo, e passò la maggior parte della sua vita nei paeselli di Bianzone e di Mazzo in Valtellina, amatissimo dal popolo, venerato dal clero, dedito ai suoi studi e alle cure intelligenti e solerti della sua piccola parrocchia; spendendo tutto il suo in beneficenza. Tra lui e mio padre c’era un grande accordo di sentimenti e di pensieri; c’era un legame d’affetto quasi fraterno, che il buon sacerdote continuò con noi pure, fin che visse. Dopo il 1840, una prima e lieve aura di risveglio nazionale aveva cominciato a spirare in Italia coi Congressi scientifici, ch’erano stati avviati in alcune città. Al Congresso, che si doveva tenere in Milano nel 1844, si voleva dare una speciale importanza, e perciò se ne cominciarono i preparativi fin dall’anno prima. Vi prendevano parte le persone più notevoli e più colte di Milano; si preparavano temi e studi di argomenti patrî e cittadini. C’era in tutti un ridestarsi di attività, di intendimenti patriottici, e di vaghi presentimenti. Il Cattaneo, che preparava il suo libro sulle _Condizioni morali e civili della Lombardia_, s’era rivolto a parecchi studiosi per avere delle notizie economiche, statistiche, morali, riguardanti le diverse provincie lombarde. Si rivolse a mio padre per aver quelle della provincia di Sondrio. Mio padre si mise al lavoro, e fece una completa monografia della Valtellina, che per la sua importanza non fu trasfusa nel libro del Cattaneo, ma fu per intero pubblicata negli _Annali di statistica_. Presentata al Congresso, ne ebbe grandissime lodi, e mise allora in vista mio padre, che viveva di solito in un modesto riserbo, e gli diede molta notorietà. Fu allora che entrò in relazione più intima con quel gruppo di studiosi, fra i quali Cesare Correnti, che poco dopo dovevano diventare uno dei nuclei più importanti dell’azione e della lotta politica. Mio padre era socio, e assiduo frequentatore, della Società d’Incoraggiamento delle scienze, lettere ed arti, che aveva una ricca biblioteca, ed era un ritrovo di studiosi, ma che, per la natura dei tempi, limitavasi ad essere poco più d’un casino di lettura. Nell’occasione del Congresso si pensò di risollevarla e di farne un centro di studi attivi e fecondi. Si nominò una Commissione incaricata di stendere il programma; mio padre ne fu il presidente, e lesse una prima relazione sull’argomento. Io allora ero un giovanetto, e non saprei dire quali fossero gli intenti di mio padre e della Commissione; solo ricordo ch’egli ne discorreva calorosamente col Correnti, col Rèvere, e col conte Carlo Porro, in un locale municipale ove il Porro si occupava dei primi ordinamenti del nascente Museo di storia naturale. Vi si radunavano parecchi, che non conoscevo, e mio padre, che ci aveva sempre con sè, vi conduceva Emilio e me. Più volte vi sentii parlare della Società Palatina, onore in passato di Milano, e augurio di speranza per l’avvenire. Il conte Porro doveva morire subito dopo le Cinque Giornate, come vedremo, ucciso da un soldato, mentre era condotto prigioniero ed ostaggio. E ben presto doveva morire mio padre. Mio padre era pure tra i frequentatori della casa di donna Anna Tinelli, signora colta, e nota a Milano pel suo talento artistico e per le sue belle miniature. Nel suo salotto conveniva un piccolo mondo politico, quale era compatibile coi tempi, ed erano avanzi di gente complicata nei movimenti del 1831. Il marito di lei era stato processato e condannato in contumacia, e s’era riparato in America. Anche donna Anna era stata inquisita dallo Zaiotti, e se n’era liberata con fermezza e con presenza di spirito. Durante il processo Paride Zaiotti soleva interrompersi con qualche storiella, poi ripigliava il filo, per confondere gli inquisiti. Una volta avendo ricevuto una lettera, s’interruppe ridendo: «Ecco uno che mi scrive — al Signor Adone Zaiotti; — le pare che io sia un Adone Zaiotti; — le pare che io sia un Adone?» E donna Anna prontamente: «Non è un Adone, ma non è neanche un Paride!» Zaiotti riprese il fare brusco. Da donna Anna andavano pure assiduamente Arese, Belcredi, il marchese Gaspare Rosales, i genitori miei e di mia moglie, e parecchie altre persone appartenenti a famiglie cospicue, liberali ed anti-austriache. Ai primi di settembre del 1846, finite le scuole, che allora duravano tutto il mese d’agosto, si partì per Tirano. Le vacanze di quell’anno incominciarono con auspici che si sarebbero detti più lieti del solito. Mio padre aveva incominciato uno studio economico sulla Beneficenza religiosa e la Beneficenza civile, e correggeva le bozze d’una seconda edizione, di molto ampliata, del suo libro sulla Valtellina. Queste occupazioni, le sue nuove amicizie, il nuovo campo d’attività intellettuale che presentiva, erano argomento in quei giorni d’una viva soddisfazione nell’animo suo, e lo distraevano da una preoccupazione malinconica che lo turbava da parecchio tempo in seguito a un caso disgraziato che gli era avvenuto. Il caso era stato che nel ritornare dalla Valtellina, una notte, la _Diligenza_ in cui si trovava era ribaltata da un’alta ripa, tra Sondrio e Morbegno. Un certo Scala, di Grosotto, che si trovava nella Diligenza, era rimasto morto; e a mio padre, in seguito alla scossa avuta, era andata mano mano indebolendosi la vista d’un occhio, fino ad offuscarsi completamente. Questo fatto lo impensieriva assai, e gli aveva lasciato dei presentimenti dubbiosi e mesti. Ora, il mutamento improvviso delle sue abitudini solite veniva con molta opportunità a sviarlo dai pensieri molesti, e a ridargli la calma serena dell’animo e l’attività geniale della mente. Mia madre, che lo adorava, ne gioiva ed era in vena di vivacità e di spirito più che mai. Io poi avevo dentro di me una secreta gioia, che mi faceva parere quell’autunno il più bello di tutti. Mio padre, per non so quale disgusto che aveva avuto col direttore Boselli, aveva fissato di farci continuare gli studi in casa, alla ripresa delle scuole. S’era fatto intanto un programma di escursioni sui monti e di scarrozzate, e si principiò con una gita a Poschiavo in una numerosa compagnia. A Poschiavo allora s’andava per una strada appena carreggiabile, a cavallo o su carrette. La brigata non poteva essere più allegra; e ricordo che mia madre fu in quel giorno (e doveva esserlo per l’ultima volta nella sua vita), della più gioconda festività. Nel ritornare, sulla sera, fummo sorpresi da un temporale e da un forte acquazzone. Per un tratto di strada non breve non trovammo ove ripararci, e intanto soffiava un vento gelato che veniva dalle gole del monte Bernina. Nella notte mio padre si sentì male; gli si sviluppò un violento malore, e tre giorni dopo spirava, ai 24 settembre del 1846. Presente a sè fino agli ultimi momento, volle salutarci tutti, raccomandando i suoi figli a quanti erano accorsi in casa nostra. A me disse: «Sii d’aiuto in ogni cosa alla mamma, e seguine sempre i consigli... te ne troverai contento per tutta la vita». I ricordi di mio padre e i consigli di mia madre dovevano essere infatti una delle fortune della mia esistenza. Mia madre era caduta in terra svenuta, e fu in delirio per parecchi giorni. Io e i miei fratelli fummo condotti quella sera in casa di mio zio Merizzi; il giorno dopo venne a prenderci il cugino don Luigi Quadrio e ci volle presso di sè nel suo paesello di Bianzone, ove fu condotta poi anche mia madre. Saputasi a Grosio la morte di mio padre, tutta la popolazione in massa scese a Tirano, che dista dodici chilometri, e volle averne la salma per accompagnarla là, dove riposavano tanti della nostra famiglia. Mio padre aveva da poco compiuti i 48 anni. Egli ebbe la sventura di passare la maggior parte della sua vita nel periodo di quella morta gora in cui visse l’Italia tra il 1815 e il 1848. La sua mente, i suoi studi, la riputazione che s’era acquistata gli avrebbero certamente riservata una parte politica importante nei grandi avvenimenti che seguirono da poco la sua morte; ma questa immaturamente lo tolse alle speranze del paese, e all’affetto di quanti lo conobbero. Di questi sentimenti si rese interprete Cesare Correnti in una Commemorazione che lesse alla _Società d’Incoraggiamento_, e che fu uno de’ suoi scritti più ispirati e gentili. NOTE. [1] Prima ancora che cominciassero i tempi fortunosi della Rivoluzione Francese, mio nonno, unitamente alle persone più cospicue della Valle, prese parte attiva ad una agitazione legale contro il mal governo del Ducato di Milano, ossia all’Austria, quale garante dei patti che esistevano tra i Valtellinesi e i Grigioni; patti che poi il Governo dominante aveva continuamente violati. Il Governo Grigione, cominciato in Valtellina dopo la caduta del Ducato di Milano, nel 1512, era stato interrotto durante la guerra dei trent’anni, dalla rivoluzione del 1620, nota sotto il nome di _sacro macello_, seguìta da una lunga guerra, e poi ristabilito dalle Potenze nel 1639. Il Governo, detto delle Tre Leghe, risiedeva a Coira, ed era formato da una gerarchia, che dava le cariche pubbliche, specialmente in Valtellina, in appalto ai maggiori offerenti, i quali poi se ne compensavano facendo traffico della giustizia e dell’amministrazione nei paesi soggetti. Si comprende quanto fosse aborrito, e quanti odiosi ricordi avesse lasciato in Valtellina quel Governo. [2] Avvenuta nel 1706 l’invasione dei Francesi in Lombardia, la Valtellina poco dopo insorse contro i suoi dominatori Grigioni, e ottenne che il generale Bonaparte l’aggregasse alle provincia lombarde, con un decreto pubblicato il 7 brumaio anno VI (28 ottobre 1797). In principio la Valtellina attraversò anni tristissimi, prima col governo giacobino, poi coll’invasione austro-russa; e allora si vide un tal Simeone Paravicini mettersi a capo della reazione e della guerra civile. Gli Austriaci entrarono nella valle, arrestando e mandando a Innsbruck quali ostaggi parecchie tra le persone più note, che erano alla testa del movimento liberale. Mio nonno, specialmente ricercato, riuscì a fuggire, traverso gravi pericoli. I paesi dell’alta Valtellina allora furono invasi da bande di disertori, di fuggiaschi dai paesi limitrofi, e di malviventi d’ogni specie, che inaugurarono un periodo di assassinii e di ladroneggi, chiamato poi il tempo dei _briganti_. Mio nonno, ritornato in paese dopo la battaglia di Marengo, e dopo il ritorno dei francesi, fu chiamato a diverse cariche pubbliche; e fu anche più volte preso di mira, lui e le sue case, dai briganti. Nell’esercizio dei suoi uffizi andava sempre armato, e seguìto da qualche famigliare parimenti armato. I fatti di brigantaggio si ripeterono poi in Valtellina nel 1809 in seguito a moti avvenuti in alcuni paesi, al riaprirsi della guerra tra la Francia e l’Austria. Le gesta dei briganti formarono poi una leggenda durata un pezzo, che sentivo raccontare dai vecchi quand’ero ragazzo; e nella leggenda i nomi di mio nonno e della sua famiglia erano frequentemente ripetuti. [3] Si pensi con quale terrore si temesse dai Valtellinesi la possibilità d’una restaurazione del Governo Grigione dopo il 1815, alla caduta del Governo Napoleonico. Perciò il Consiglio Dipartimentale, anche a nome di tutte le Rappresentanze Comunali della Provincia, deliberava di mandare una missione a Vienna per scongiurare il pericolo, e per patrocinare presso il Congresso lo _statu quo_, cioè l’unione della Valtellina alla Lombardia. Furono eletti e mandati a Vienna due Delegati, il conte Diego Guicciardi, già ministro e Presidente del Senato del Regno Italico, e Gerolamo Stampa di Chiavenna. Rimasero a Vienna parecchi mesi, informando, nel frattempo, di quanto avveniva, il Consiglio, gli amici, e tra questi, specialmente, mio nonno, a cui diedero i protocolli della loro missione, ossia un diario in cui segnavano giornalmente le trattative ed i colloqui coi diversi Rappresentanti delle Potenze al Congresso. Da questi protocolli, conservati in casa nostra, si rilevano le brighe e gli sforzi dei Grigioni per riavere la Valtellina, le mosse dei Delegati per sventarli, i propositi politici, ed i vari progetti delle Potenze. L’Austria, naturalmente, accoglieva il voto dei Valtellinesi, che la loro Valle rimanesse provincia lombarda, ed aveva già occupato Chiavenna; il solo ambasciatore di Sardegna, San Marzano, appoggiava questa soluzione, dicendo che non bisognava lasciar aperte nuove porte agli stranieri traverso le Alpi. La Francia e l’Inghilterra propendevano a fare della Valtellina un Cantone svizzero autonomo. Altre Potenze, e parte dei Cantoni svizzeri stessi, non si mostravano da principio favorevoli a questa soluzione, per non ingrandire la Confederazione, specialmente con un Cantone Cattolico. Intanto acquistava favore, e stava per trionfare, una soluzione intermedia, quella di riunire ancora la Valtellina ai Grigioni, ma costituita in Quarta Lega. Così eravamo da capo, e si riapriva una nuova serie di discordie civili. Quando, improvvisamente, piomba in mezzo al Congresso, come una bomba, la notizia che Napoleone era fuggito dall’Isola d’Elba, ed era sbarcato il 1.º marzo a Cannes. Allora, in fretta e in furia, vengono decise varie quistioni pendenti, e il _lembo alpino del paese lombardo_ viene subito concesso all’Austria, che le Potenze volevano cattivarsi, ansiose di spingerla contro Napoleone. I Valtellinesi furono lieti d’avere scossa l’odiata signoria dei Grigioni; non avevano raggiunta l’indipendenza, ma erano ritornati lombardi ed italiani, ottenendo finalmente per sempre un governo civile e regolare. La Valtellina fu ufficialmente chiamata la Provincia di Sondrio. [4] Alla _Scala_ l’opera veniva interrotta a metà dal ballo, detto _grande_; finita l’opera c’era il ballo _piccolo_, o _balletto comico_. Di questi _balletti_ ne fu celebre uno, che rappresentava in caricatura tutti i giovani eleganti milanesi più noti a quel tempo. [5] Nella _Cronistoria_ di Alessandro Gianetti edita da L. F. Cogliati, si legge: «Il direttore dell’Istituto Boselli, in obbedienza delle ricevute ingiunzioni, dispose per l’insegnamento de’ suoi allievi del canto dell’inno austriaco. Ma non pochi di questi allievi vi si rifiutarono, e non lo cantarono. Tanto era il sentimento di italianità che quegli scolaretti avevano già assorbito nell’ambiente delle loro famiglie. Quei giovanetti erano i fratelli Mancini, i fratelli Guy, i fratelli De Cristoforis, i fratelli Visconti-Venosta, Carissimi, Emilio Bignami-Sormani, ed altri.» CAPITOLO II. 1847. _Sommario_: Ritorno a Milano. — Io e i miei fratelli continuiamo gli studi in casa. — L’amicizia con Cesare Correnti. — Prime letture patriottiche. — Gli amici del Correnti, e i ritrovi in casa sua. — I funerali di Federico Confalonieri. — Una carestia in Lombardia, e una grande questua a Milano con intenti politici. — La morte dell’Arcivescovo Gaisruck, e l’elezione del Romilli. — L’amnistia data da Pio IX e le prime dimostrazioni. — Ricevimento e dimostrazioni al nuovo Arcivescovo. — Primi tafferugli e primo spargimento di sangue. — L’autunno del 1847 in Lombardia. — Gli inni a Pio IX. — Amici di Tirano, Giacomo Merizzi. — Ritrovi in casa Correnti. — Il _Nipote del Vesta Verde_. — Prime dimostrazioni e pubblica agitazione. — La dimostrazione del non fumare. — Il Governo Austriaco aumenta le guarnigioni nelle città Lombardo-Venete. — Metternich manda a Milano Ficquelmont, poi Hübner con una missione politica. — Le rimostranze del Consigliere Nazari di Bergamo al Governo. La morte di mio padre aveva mutato interamente l’aspetto di casa nostra. S’era partiti da Milano per la campagna, tutti lieti e felici, ed ora si ritornava alla città in condizioni tanto diverse, e tutti con la tristezza nell’anima. Mia madre, accasciata da un dolore senza conforto, che le dava tratto tratto delle crisi nervose acute, spasmodiche, s’era rinchiusa nelle pareti domestiche, s’era allontanata da tutte le sue conoscenze, e non vedeva più che i suoi fratelli, le sue sorelle, qualche parente, e qualche vecchio amico. E così continuò finchè visse. La sua vita era spezzata; la sua natura gioconda era scomparsa; e ben rare volte le rividi sulle labbra il bel sorriso sereno di una volta. Il mondo era finito per lei, come soleva dire; le sue cure non erano rivolte che ai suoi figli; e sorretta da una fede ardente, una fede pur sempre tutta indulgenza e bontà, non aveva altra speranza che di rivedere suo marito in una vita senza fine. Noi riprendemmo i nostri studi, con professori che ci davano le lezioni in casa; e per non staccarsi, in quei giorni mestissimi, dalla famiglia, anche Emilio incominciò in casa il corso degli studi universitari di legge. Nostro padre, morendo, aveva fatto dire a Cesare Correnti che gli affidava la direzione degli studi letterari de’ suoi figli; sicchè s’incominciò subito a trovarci col Correnti con molta frequenza, e con molta intimità. Questa direzione degli studi, veramente, non fu molto assidua, nè molto efficace; in quell’anno le menti erano distratte da ben altre preoccupazioni, e gli animi cominciavano a commuoversi al soffio di quelle vaghe aspirazioni, e di quei nuovi entusiasmi che preludevano al quarantotto. Ma se nel Correnti non ho trovato il maestro de’ miei studi, posso dire d’aver trovato presso di lui la mia prima educazione patriottica. Convenivano in casa sua molti studiosi, e sopratutto, molti giovani in cui il sentimento della patria, raccolto dagli esempi dei primi martiri italiani del 21 e del 31, e da scritti recenti che li avevano infiammati nelle Università, cominciava a manifestarsi con un insolito bisogno di attività e di azione. Li sentivo parlare dell’Azeglio, del Guerrazzi, del Giusti, del Gioberti, del Pellico, del Berchet, del Balbo, del Mazzini; e allora m’affrettavo a procurarmi anch’io i libri di questi autori, e li leggevo e rileggevo, riscaldandomi sempre più a questo nuovo fuoco della patria ideale. Ma l’autore che prediligevo sopra tutti era il Berchet. Ne sapevo a memoria le poesie, le recitavo, le declamavo nella mia stanza, le ripetevo ai miei compagni, e se ne prendevano tutti insieme delle vere ubbriacature. Giovanetti e giovani s’infiammavano a quei versi, e nei loro animi scendeva intanto profondo l’amore all’Italia e l’odio al dominio straniero. Nel ripeterli, pregustavano la voluttà del farsi uccidere per la patria; e questo sentimento rimase alto nei loro animi fino al giorno in cui furono chiamati a farsi ammazzare davvero. Pochi poeti ebbero il vanto d’avere così profondamente scossa la fibra dei propri lettori, e d’avere avuto una così grande influenza patriottica nel loro paese. Non era poca l’influenza anche degli scritti di Giuseppe Mazzini, ma però meno unanime e più discussa. Le idee mazziniane erano diffuse e accolte con entusiasmo, soprattutto tra i giovani delle Università, ed avevano molti seguaci anche in casa del Correnti. I suoi frequentatori più assidui, di tanto in tanto, si passavano l’uno l’altro, di soppiatto, e con fare un po’ misterioso, qualche foglietto manoscritto o a stampa, e allora non sbagliavo nel pensare tra me ch’era uno scritto del Mazzini. Io non ne conoscevo ancora gli scritti maggiori, ma avevo per lui una vaga ammirazione, ch’era il riflesso di quella che mi manifestavano, a parole tronche e misteriose, i giovani maggiori di me. In quei tempi, o poco prima, era stata fatta a Lugano un’edizione in tre volumi, di scritti letterari del Mazzini: _Scritti letterari di un italiano vivente. Quest’edizione era stata diretta in secreto, a quanto mi si diceva_, da Cesare Correnti, e da qualche suo amico. Si diceva che pure del Correnti fosse una prefazione ai versi del Giusti, che per qualche tempo erano corsi manoscritti per Milano. Tra gli amici più intimi del Correnti ce n’erano d’ogni classe sociale. C’eran dei preti, come il Lega, il Mongeri, il Vignati, e qualche altro valente; c’erano dei giovani del patriziato, come il Porro, Cesare Giulini, Guerrieri, Giovanni e Carlo d’Adda, Giulio Carcano; c’eran degli artisti, dei giovani ingegneri, medici, professionisti seri e studiosi; e anche dei buontemponi compagni di Università, cacciatori e bevitori, ma pieni di buona volontà, che venivano a prendere gli ordini, e si incaricavano del contrabbando patriottico dei libri e dei giornali e, alla fine, dei fucili. Fu questa varietà di conoscenze che rese possibile a Cesare Correnti di esercitare, in tempi difficili, una larga e forte influenza. La coltura, la gentilezza dell’animo, l’ingegno immaginoso, che sapeva trovare per ciascuno il linguaggio più affascinante, gli davano un grande prestigio e una grande autorità su quanti lo avvicinavano. Ed egli se ne valeva per infervorare tutti nell’amore all’Italia, e per tenerli pronti a qualsiasi audacia allo scopo di liberarla dagli stranieri. Queste varie sue amicizie gli resero possibile la molta influenza ch’egli ebbe nel mantenere, nella diversità delle tendenze e delle opinioni, la concordia per il grande intento comune. Anche in lui stesso le tendenze erano diverse, e più volte si contraddissero; ma il suo era uno di quegli ingegni larghi, critici, che d’ogni cosa vedendo tutti i lati, non sempre sanno appigliarsi con fermezza a un lato solo. Nella stessa vita giornaliera andava soggetto a mutamenti improvvisi, rapidi, passando dalla attività all’inerzia, dall’entusiasmo alla sfiducia. I giorni più belli, più gloriosi, della sua vita furono quelli che precedettero il quarantotto. Allora ebbe l’intuizione chiara, sicura, della meta prima e immediata a cui si dovevano dirigere le aspirazioni e l’opera di tutti, e ch’era la _Rivoluzione per l’Indipendenza, col Piemonte e Casa di Savoia_. Con questo programma egli cospirava in quei giorni, riunendo e disciplinando i suoi giovani amici mazziniani e i suoi amici monarchici del patriziato. In Milano c’erano parecchi altri gruppi di patriotti, ma i più, direttamente o indirettamente, facevano capo a lui. Da lui partivano consigli, istruzioni, parole d’ordine fino al gran giorno della Rivoluzione. Questa fu fatta da tutti i cittadini, e se non ebbe un generale-capo, si può dire che nel prepararla ci fu un capo di Stato Maggiore, e fu Cesare Correnti. L’elezione di Pio IX, avvenuta nell’estate dell’anno antecedente, e i primi atti del nuovo Pontefice avevano fatto vibrare anche nelle persone più tranquille, più ignare o lontane da ogni idea rivoluzionaria, come pure nelle persone più ardenti o meno religiose, un nuovo sentimento ch’era comune; un sentimento di patriottismo mistico e di vaghe idealità, che ravvolgeva e trascinava tutti. Mio fratello Emilio ed io andavamo dal Correnti la sera, parecchie volte per settimana. C’era sempre un andirivieni di gente, e una conversazione talora animata, talora a bassa voce, a crocchi, e con tutta un’apparenza cospiratoria. Io ero giovane assai, non capivo tutto, tacevo, e sorbivo ogni parola con un’attenzione religiosa. La mia mente, la mia anima intanto si informavano a quelle idee, a quei sentimenti che mi aleggiavano intorno, e che infondevano in tutto me stesso quell’idealità patriottica di cui dovevo sentir viva l’eco durante tutta la vita. Le acque tranquille, stagnanti da tanti anni, della vita milanese andavano ora ogni giorno più increspandosi e sollevandosi. Il 1846 era finito con una _dimostrazione_, in occasione dei funerali del conte Federico Confalonieri, morto nel mese di dicembre a Hospenthal mentre ritornava in Italia. La Polizia aveva voluto che i funerali fossero modesti, e che sulla porta della Chiesa fossero scritte queste sole parole: «_A Federico Confalonieri requiem_». Ma all’uffizio funebre assistette una folla straordinaria di cittadini, che riempiva la Chiesa e la piazza di S. Fedele, folla nella quale vedevansi le persone più elette della cittadinanza, venute a rendere l’estremo omaggio al martire illustre. Contro il Confalonieri s’eran fatte delle leggende odiose, che facevano risalire a lui certe responsabilità nell’eccidio del Prina, e su ciò erano stati diffusi dei libelli, che poi si seppero provenienti dalla Polizia austriaca. Far nascere sospetti, o diminuire il prestigio degli uomini che avevano tenuto alto il patriottismo italiano, era un compito della Polizia, contro cui cominciava a reagire il sentimento pubblico. E ora quelle leggende poliziesche cominciavano a venire sfatate. Nei primi mesi dell’anno c’erano stati agitazioni e tumulti di contadini in molti paesi di Lombardia afflitti dalla carestia, cagionata da inondazioni e da una straordinaria scarsità dei prodotti. Ciò aveva promosso da parte dei proprietari molte misure di beneficenza, con evidenti propositi di fratellanza e di patriottismo. Anche in Milano il pane era rincarato, il lavoro era diminuito, e nelle classi operaie c’era disagio e penuria. Si formò allora un Comitato di signore, assai numeroso, nel quale erano rappresentate le famiglie più note del patriziato e dell’alta borghesia, con l’intento di fare una grande questua nella città, e di portar sussidi nelle famiglie popolane. Il Comitato si radunava in casa del conte Vitaliano Borromeo, ed era presieduto dalla contessa Maria Borromeo d’Adda. Quelle signore andavano esse stesse, in commissione, in tutte le case dove c’erano delle famiglie povere, e salivano nelle abitazioni. Si faceva così un’opera di fratellanza, e si stringevano legami d’affetto tra le varie classi sociali. Gli episodi di queste visite, e dei colloqui che avvenivano, erano l’argomento di tutte le conversazioni di quei giorni. Quest’opera di carità avveduta e patriottica fece molto rumore; ognuno ne comprese l’intento, ch’era quello di creare una viva corrente di simpatia tra le classi povere, affratellandole e preparandole ad incontrare concordi i grandi avvenimenti di cui gli animi cominciavano ad avere un vago presentimento. * * * Nella primavera di quell’anno venne a Milano Riccardo Cobden a tenere dei discorsi sul libero scambio, e la parte più eletta della cittadinanza gli fece una calorosa accoglienza con banchetti e con discorsi. Gli animi avevano cominciato a risvegliarsi dal lungo sonno, e alla notizia dell’amnistia politica data da Pio IX c’era stata una prima dimostrazione al Teatro della Canobbiana, dimostrazione imponente e clamorosa, nella quale si fecero ripetere più volte gli inni al Pontefice, che si cantavano a Roma. Era un’eco delle dimostrazioni che si andavano facendo in quei giorni da un capo all’altro d’Italia, e che dovevano provocare presto una prima e grave misura da parte dell’Austria, l’occupazione, cioè, di Ferrara, quale minaccia al Papa; mentre poi nelle Provincie Lombardo-Venete l’Austria cominciava a prendere una attitudine sospettosa e rabbiosa. Ma nessuno usciva ancora dalla legalità; e le autorità austriache dovevano ogni giorno mandarne giù qualcuna, fingendo di non accorgersene, o di pigliarsela in pace. Fra le più indigeste ci fu la missione a Torino del conte Gabrio Casati, Podestà di Milano, incaricato dal Consiglio Comunale di portare in dono alla sposa di Vittorio Emanuele, figlia dell’Arciduca Raineri Vicerè del Lombardo-Veneto, una coppa artistica che alcuni anni prima le era stata destinata in occasione delle nozze. Carlo Alberto e Vittorio Emanuele avevano accolto il Casati con distinzioni e con onori di cui s’era parlato molto a Milano, e che avevano fatto saltar la mosca al naso al conte Buol, ministro d’Austria a Torino. E poco dopo il conte Casati conduceva a Torino il maggiore de’ suoi figli facendolo inscrivere nell’Accademia militare. Ma l’avvenimento più importante, che doveva fare scattare il governo austriaco e condurre quelle prime avvisaglie a fatti più gravi, fu la nomina del nuovo Arcivescovo di Milano. Nel novembre del 1846 era morto l’Arcivescovo Gaisruck, nato a Klagenfurt l’anno 1769, che occupava la sede di Milano da ventott’anni. Il Gaisruck era un uomo di costumi semplici, illibati; schietto e gaio; non aveva la mente molto alta, ma era di carattere fortissimo. Il suo spirito era abbastanza largo e liberale, o piuttosto _giuseppino_, come dicevasi allora, e non amava i frati e le monache, talchè, finchè visse, nella sua vasta diocesi non ce ne furono. Egli non voleva nella sua Diocesi un Clero _regolare_, non dipendente da lui ma dai Generali di Roma. — «Cardinale ed Arcivescovo di Milano, nella mia Diocesi comando io» — soleva dire. Conosceva gli uomini, e sapeva sceglierli bene: nei suoi seminari ci furono allora non pochi professori, sacerdoti, che emergevano per ingegno e per dottrina. A lui si deve in gran parte se a quei tempi si formò in Lombardia un clero colto, stimato ed amato, che seppe più tardi immedesimarsi nella vita del popolo e nelle aspirazioni nazionali. Nel primo quarto di secolo la Diocesi milanese era ingombra di preti scagnozzi, avanzi di conventi laicizzati, e di frati sfratati durante la rivoluzione e il governo giacobino; preti e frati che diedero tanti argomenti alla vena inesauribile del Porta: onde si disse più tardi che il clero milanese era stato purgato da Carlo Porta e dall’Arcivescovo Gaisruck. L’Arcivescovo fu il solo alto funzionario che a quei tempi sapesse resistere, all’occorrenza, e spuntarla, dinanzi al potere centrale di Vienna; per questo correva la voce che egli fosse figlio dell’Imperatore Leopoldo, e che da ciò gli venisse la sua autorità e la sua forza. Egli morì mentre si recava al Conclave del 1846 portando il veto dell’Austria contro l’elezione al Papato del Cardinale Mastai Ferretti, che fu poi Pio IX. Dopo la morte del Gaisruck, vennero, per molte cause, tempi meno buoni, e fu allora che anche il clero della Diocesi milanese andò mano mano declinando e scemando nella cultura; salvo, si intende, nobili eccezioni. Gaisruck fu certamente un ottimo Arcivescovo, ma le sue qualità e la sua azione non dovevano essere apprezzate che più tardi. Quando morì, il sentimento pubblico cominciava a rivolgersi, in ogni cosa, verso le aspirazioni nazionali; in lui non si vide che il Prelato austriaco, e non fu rimpianto. Tutta Milano, da quel momento, non pensò più che ad avere un Arcivescovo italiano. Passaron, peraltro, parecchi mesi prima che questo desiderio fosse soddisfatto. Il Municipio, e molti autorevoli cittadini, non avevano risparmiato ufficî, per riuscire nell’intento. Il Governo austriaco voleva mandare uno dei proprii prelati, ma trovò difficoltà e resistenze ne’ suoi stessi candidati, sicchè non poteva venirne a capo. Finalmente Vienna e Roma si misero d’accordo col nominare Arcivescovo di Milano il Vescovo di Cremona, Bartolomeo Romilli, bergamasco. A Roma piaceva un Arcivescovo che non seguisse le idee _giuseppine_ del Gaisruck, e Vienna si rassegnò alla nomina d’un Arcivescovo italiano, sapendolo di carattere mite e debole. Ma il pubblico non fece allora questi ragionamenti, e perchè l’eletto era italiano andò in visibilio. Dopo la nomina, incominciarono tra il Governo e il Municipio, dietro cui stava tutta la cittadinanza, delle difficili e minuziose trattative circa gli onori da rendersi al nuovo Arcivescovo. Il Municipio voleva nascondere sotto quelle onoranze molti sottintesi patriottici, e fingeva che non ce ne fossero; il Governo fingeva di non capire, e voleva delle onoranze minori, fingendo di crederle più consone ai cerimoniali. Con simili sottintesi, molto complicati, era facile che le cose finissero male, e così avvenne, presto. Il nuovo Arcivescovo entrò in Milano il 4 settembre, attraversando mezza la città, da S. Eustorgio al Duomo, con un corteggio sfarzoso, che non finiva più. Lungo la strada erano stati eretti tre archi dedicati a S. Ambrogio, a S. Carlo e a S. Galdino, il Vescovo della Lega Lombarda, e sui quali c’erano delle iscrizioni, scritte da Achille Mauri, che avevano dato argomento a lunghe trattative colla Censura. San Galdino, soprattutto, aveva trovato delle forti resistenze; ma alla fine il Governatore, ch’era il conte Spaur, e il direttore di Polizia, il barone Torresani, dovettero ingollarsi anche S. Galdino. La sera tutta la città fu illuminata, e ci furono grandi dimostrazioni all’Arcivescovo dinanzi al suo palazzo, in piazza Fontana. La dimostrazione però aveva un carattere le cui intenzioni erano evidenti, specialmente in uno dei punti della piazza, ove s’eran dato ritrovo un gruppo di giovani amici del Correnti, tra’ quali mio fratello Emilio. S’era gridato molto _viva Pio_ IX e anche _viva l’Italia_, ma, all’infuori di qualche colluttazione colle guardie di polizia, non era avvenuto nulla di grave. La popolazione mostrò vivamente il desiderio che l’illuminazione fosse ripetuta. Il Governo non voleva; il Municipio insisteva; e alla fine l’illuminazione fu concessa, ma con un mal garbo che mostrava la volontà di farla finita. La seconda sera le dimostrazioni all’Arcivescovo furono più clamorose; e a un tratto una colonna di giovani irruppe nella piazza del Duomo e nella piazza Fontana, cantando gli inni a Pio IX. Allora il Bolza, ch’era un commissario di Polizia feroce e odiatissimo, si gettò sulla folla alla testa di guardie con le daghe sguainate. Ne venne un grave parapiglia, nel quale i cittadini ebbero un morto, certo Abate, e nove o dieci feriti. Il dado era tratto. Con quel primo sangue versato incominciava la lotta aperta tra i milanesi e il Governo austriaco; la lotta doveva essere lunga e terribile, e molto sangue doveva essere versato ancora, prima che si raggiungesse la vittoria. La seconda sera della dimostrazione noi non eravamo a Milano. Dopo le scuole e gli esami, che allora terminavano alla fine d’agosto, si andava subito in campagna. Ma poco dopo avemmo a Tirano la visita di Cesare Correnti e di Romolo Griffini, giovane medico, amicissimo nostro, i quali ci narrarono tutto ciò che era avvenuto, ciò che s’era fatto, e ciò che si voleva fare, per tener viva e allargare l’agitazione patriottica. Si fecero con loro parecchie gite, tra le quali una allo Stelvio, fermandoci in tutti i paesi e paeselli che si attraversavano, entrando nei casolari dei contadini, conversando, spiegando all’ingrosso la quistione italiana, e distribuendo a profusione certe medaglie con l’effigie di Pio IX e col motto _viva l’Italia_. Poi, se nessuno ci vedeva, armati d’un pezzo di carbone si scriveva su qualche muro: _viva l’Italia_, _viva Pio IX_, in alto, o in qualche punto ove le cancellature non fossero facili. E devo dire che non lo furono in fatti, perchè vedo ancora qua e là, con grande compiacimento, le traccie di quei primi miei saggi calligrafici, dopo tante vicende e dopo tanti anni. L’autunno del 1847 fu lieto e festoso in tutta la Lombardia. In ogni paese si cantavano continuamente gli inni a Pio IX, da per tutto si vedevano archi a Pio IX, e su ogni muro c’era scritto _viva Pio IX_. C’era in tutti una grande animazione, una festività, una fiducia sicura, una speranza che non discuteva, e il vago presentimento di grandi avvenimenti. Anch’io e i miei fratelli quell’autunno si fece un gran cantare gl’inni a Pio IX; mio fratello Emilio, e i nostri compagni di Tirano, studenti e maggiori di me, li avevano imparati nelle scuole e li avevano diffusi tra gli altri amici del paese. Si cantava specialmente la sera, tenendoci al largo dai gendarmi. Mi pare ancora di sentirle quelle stonature patriottiche; mi pare ancora di vederli quegli amici, che a braccetto e pieni di entusiasmo vociavano per le strade a squarciagola. Tra quelli che ricordo di più c’erano i fratelli Ulisse e Giovanni Salis, un Zanetti e un Ricetti, studente di medicina, che vedremo più innanzi; due fratelli Della Croce, di cui uno, Benedetto, diventò poi un valoroso colonnello d’artiglieria; un Carlo Visconti Venosta nostro parente, che morì in fresca età; e un giovane rimpatriato da poco, e che si faceva notare pel suo camminare impalato, per le sue cravatte dure di crine, e pel suo accento italo-austriaco. Questo giovane, di famiglia tiranese, si chiamava Giacomo Merizzi, e veniva dal collegio Teresiano di Vienna, dove aveva passato molti anni facendovi i suoi studi. Il Governo austriaco concedeva facilmente ai giovani di famiglie nobili italiane dei posti gratuiti nel _Teresiano_, ove si imparavano la lingua dell’Impero, la legislazione austriaca e il diritto amministrativo. Poi, persuaso di averne fatto dei buoni e fedeli funzionari, appena usciti dal collegio dava loro un buon impiego negli ufizi governativi. Così era avvenuto del Merizzi, il quale aveva avuto bensì l’anno prima l’impiego a Milano, e aveva l’aria d’un perfetto austriaco, ma era uscito dal collegio con la testa piena di astruserie filosofiche-sociali, ed era un rivoluzionario. Ecco perchè ora, in attesa di meglio, stonava con noi gli inni a Pio IX. Venuto il 1848, il Merizzi lasciò l’impiego, fu nei volontari, poi si ritirò a Tirano, e vi esercitò l’avvocatura. Visse sempre ritirato, anzi solitario; e amava vegliare le notti lavorando, e dormire di giorno. Durante il decennio della resistenza, delle cospirazioni, e nei giorni della riscossa, non partecipò molto agli entusiasmi dei giovani d’allora, forse perchè i suoi ideali si libravano in altre sfere. Ebbe qualche ammirazione per Mazzini e per Garibaldi, ma nessuna per Cavour. Odiò gli altri uomini principali del risorgimento, e dava in escandescenze a nominargli il Sella, come a pestargli un piede. Era d’animo buono e gentile, e parlava con molta mitezza; ma poi, di tanto in tanto, usciva dalla sua solitudine, andava in qualche pubblica riunione, e allora teneva dei discorsi d’una incredibile violenza. I radicali, e i malcontenti valtellinesi fecero di lui, naturalmente, un candidato alla deputazione, e lo opponevano di solito a mio fratello Emilio; finchè, andata la sinistra al potere nel 1876, e fatte le elezioni dal Nicotera, vinsero. Fu eletto un paio di volte, andò all’estrema sinistra, pronunziò un paio di discorsi a frecciate repubblicane e violenti, ma non trovò molto favore, nemmeno fra i suoi vicini. La Sinistra era da poco al potere, voleva rimanerci, voleva essere un partito di governo, e non amava amici compromettenti e guastamestieri. Si ritirò prestissimo dalla vita politica, e rientrò nella sua solitudine taciturna. Morì sui cinquant’anni, e sebbene la mia casa e la sua a Tirano fossero vicine, non ci vedevamo che ad intervalli, e di parecchi anni. Allora, siccome il tema dei nostri discorsi era, come doveva essere, limitato, così ricordavamo qualche volta i tempi in cui si cantavano insieme gl’inni a Pio IX. * * * Finito l’autunno, e ritornati a Milano per riprendere gli studi, le nostre visite al Correnti diventarono anche più frequenti e interessanti. Ci si andava la sera, poichè di giorno egli era occupato nel suo ufizio del Debito Pubblico, ove era impiegato. I discorsi vi si andavano sempre più accalorando, e l’argomento principale era quello delle dimostrazioni che si volevano promuovere con atti, o con scritti, prendendo ogni occasione che si presentasse opportuna. Tra i molti progetti messi innanzi dal Correnti ci fu quello di pubblicare un almanacco popolare, per l’anno nuovo, nel quale si parlasse molto dell’Italia, in quei modi velati, s’intende, che fossero conciliabili con la Censura e con la Polizia. Il progetto piacque a tutti, tutti ci si mise di buona volontà, e in poche settimane l’almanacco fu pronto alla meglio. Anche il nome fu presto trovato. C’era un vecchio almanacco, che dava le previsioni del tempo e i numeri del lotto; era nelle mani di tutto il popolino di Lombardia, e si chiamava il _Vesta Verde_. Il nuovo almanacco fu chiamato dunque il Nipote del Vesta Verde, il nome fece fortuna. Ci scrissero il Correnti, Pietro Maestri, Romolo Griffini, Giovanni Cantoni, mio fratello Emilio, ed altri giovani studenti. Tra le cose scrittevi da Emilio ci fu anche una certa canzone dello _Spazzacamino_ che, messa in musica, ebbe i suoi giorni di voga e di popolarità. Il _Nipote del Vesta Verde_ uscì col finire dell’anno, ed ebbe uno straordinario successo; successo che ora non si comprenderebbe. Ma tutti ci lessero quello che c’era e quello che non c’era, e parve quasi una parola d’ordine, un grido di guerra. La sua grande popolarità indusse poi il Correnti, e l’editore Vallardi, a continuare la pubblicazione per molti anni ancora. Esso attraversò i dieci anni terribili che corsero dal 1849 al 1859; ci scrissero press’a poco i medesimi, parecchi dei quali erano emigrati, ed altri, tra cui Enrico Fano. La parola del _Nipote del Vesta Verde_, dignitosa sempre, non era più pronunziata che con quel filo di voce ch’era consentito dalla durezza dei tempi; esso s’accontentava di tener vivo col suo nome la memoria dei giorni in cui era nato. Il grand’affare di tutti, nello scorcio del 1847, e sul principio del 1848, furono quelle dimostrazioni, che mano mano andarono crescendo fino al giorno della rivoluzione. Alla rivoluzione però non ci si pensava ancora. Alle dimostrazioni tutto serviva di pretesto. Ogni giorno c’era una parola d’ordine: _Tutti a Porta Romana!_ in omaggio alle riforme di Pio IX; e il corso di Porta Romana diventava, fino a nuovo ordine, il passeggio pubblico affollato, elegante, della città. Su quel corso c’era, e c’è ancora, una vecchia casa, sul cui portone si vede scolpito in caratteri antichi e rozzi: _tempo e pacentia_; la gente vi si affollava dinanzi come a leggere una _parola d’ordine_. (Casa Noseda, 9). Giungeva la notizia di moti rivoluzionari in Calabria; e la parola d’ordine era che si portasse il _cappello alla calabrese_; e tutti lo portavano, col dovuto pennacchio. La Polizia lo proibiva; e allora si cercava di imitarlo, portando un cappello a tuba, che aveva una fibbietta sul davanti e il pelo arrovesciato da una parte per fingere il pennacchio. Poi venne la volta dei vestiti di velluto di fabbrica lombarda, in odio al panno austriaco. Insomma ogni giorno ce n’era una; e la Polizia, che il pubblico si divertiva a schernire in mille modi, montava sulle furie, ed era sempre in grandi faccende, alla ricerca del _Comitato_, poichè s’era messa in mente che tutto fosse misteriosamente decretato da un Comitato segreto. La dimostrazione più importante, che superò l’aspettativa di quelli stessi che l’avevano pensata, e che doveva condurre a luttuosi avvenimenti, fu quella del non fumare. Asteniamoci, si disse, dalle contribuzioni volontarie; dunque col principio dell’anno nessuno fumi. E al primo di gennaio non si fumò più. Non si fumò più nè per le strade, nè in casa, per quanto il sacrifizio riuscisse duro a moltissimi. I nostri nemici sulle prime ne risero, e la cosa parve loro puerile; ma essa riuscì una così forte dimostrazione di disciplina, che non tardò a impensierirli, a irritarli, come vedremo presto, e a far loro perdere la testa. Da Vienna intanto si mandavano nuove truppe nel Lombardo Veneto, e si rafforzavano in ogni città le guarnigioni. Ma il Governo Centrale non capiva che l’aria era mutata, e che i tempi cominciavano a farsi minacciosi; colla pedanteria, che gli era abituale, non sapeva staccarsi in nulla da quei sistemi e da quei metodi ch’erano il suo dogma politico. Il podestà Casati aveva fatto molte esplicite e coraggiose rimostranze, ma gli era stato risposto con dei sermoni e con dei consigli agro-dolci. Metternich aveva mandato a Milano nell’ottobre un suo diplomatico, il conte di Ficquelmont, con la missione di osservare, di persuadere i sudditi che avevan torto di lagnarsi, di distrarli, e di riferire. Alla fine Metternich, quando cominciò a impensierirsi per gli affari d’Italia, nominava a Milano una speciale Commissione, chiamata _Conferenza_, allo scopo di mantenere unità d’azione tra le autorità politiche e militari. Appartenevano a questa _Conferenza_ il Vicerè Raineri, il Governatore di Lombardia conte Spaur, il maresciallo Radetzki, comandante supremo delle truppe del Lombardo Veneto, e il conte di Ficquelmont per la parte diplomatica, soprattutto pei rapporti coi diversi Stati italiani, in quei giorni pressochè tutti in fermento. Ma il conte di Ficquelmont rimase poco a Milano. Richiamato a Vienna sulla fine del febbraio 1848, gli succedette ai primi di marzo il barone Hübner, il quale poi rimase prigioniero a Milano dopo le Cinque Giornate, ed è quel medesimo che si trovò a Parigi nel 1859 ambasciatore d’Austria, a sentire le famose parole di Napoleone III che furono il primo squillo di guerra. Il conte di Ficquelmont, nel breve tempo in cui fu a Milano, aveva fatto allestire un bell’appartamento nel palazzo Marino, ove ora risiede il Municipio, e si preparava a tenervi dei ricevimenti e a dare dei pranzi, per incominciare a risolvere la questione italiana. Aveva con sè la moglie e una figlia, la contessa Clary, una bella e simpatica signora, la quale doveva, circa vent’anni dopo, diventare la suocera del conte di Robilant, ambasciatore d’Italia a Vienna. In quei vent’anni quanti avvenimenti! Il conte di Ficquelmont, la moglie e la figlia, prodigavano gentilezze a quanti riuscivano a conoscere, ma questi eran pochi; andarono a far visita a moltissime signore dell’aristocrazia milanese, ma queste non si fecero mai trovare in casa. I ricevimenti e i pranzi non accoglievano, e malinconicamente, che poche famiglie di austriaci e di impiegati; e così anche questa parte della missione andò fallita. Intanto le acque ingrossavano, e salivano ogni giorno più. Nel 1815, quando era stato creato il Regno Lombardo-Veneto, venne istituito un Corpo amministrativo, chiamato la Congregazione Centrale, in cui erano rappresentate tutte le Provincie, simulacro d’una autonomia che non esistette mai. Questa Congregazione avrebbe dovuto essere l’interprete dei bisogni del paese. Essa però era stata sempre tenuta in nessun conto, e quindi era placidamente rimasta in un lungo sopore. Ma in quei giorni il rappresentante di Bergamo, l’avvocato G. B. Nazari, sorse a un tratto a proporre che la Congregazione si facesse interprete del pubblico malcontento, ne studiasse le cause, e ne proponesse i rimedi. Una tale proposta, che usciva da un corpo sempre umile e silenzioso, mise il campo a rumore. I consigli delle Provincie vi fecero eco, e la seguirono; alcuni persino misero innanzi chiaramente il concetto dell’autonomia amministrativa. Il consigliere Nazari ricevette congratulazioni e festeggiamenti da ogni parte; e intanto il Vicerè Raineri, il Governatore conte Spaur, l’inviato straordinario di Ficquelmont, il maresciallo Radetzki, il direttore della polizia barone Torresani, e tutte le autorità austriache grandi e piccole, montavano sulle furie, strepitavano, si affaccendavano, e cercavano invano il bandolo di quella matassa che ogni giorno si ingarbugliava loro di più nelle mani. E cercavano il _Comitato_ secreto, quello che, secondo loro, dirigeva tutto. Così finiva a Milano l’anno 1847. Il Governo austriaco, pedantescamente fedele alle sue tradizioni, non sapeva prendere nessuna di quelle grandi risoluzioni che sole possono mutare il corso degli avvenimenti. E i suoi sudditi Lombardo-Veneti, pieni di entusiasmo e di fede, avevano preso la rincorsa giù per una china, in fondo alla quale c’era il precipizio o la salvezza. La fortuna volle che i nostri nemici nulla capissero, e nulla prevedessero. CAPITOLO III. 1848. I. _Sommario:_ La dimostrazione del non fumare. — La sera del 1.º gennaio. — In casa di mia nonna. — Provocazioni militari. — Feriti e morti. — Le riunioni continue in casa Correnti. — Il caffè della _Peppina_ e quello della _Cecchina_. — Carlo Cattaneo contrario alla rivoluzione. — L’attitudine dell’aristocrazia. — La rivoluzione di Parigi del 24 febbraio. — La rivoluzione di Vienna del 13 marzo. — Grande dimostrazione a Milano per chiedere le riforme. — Il 18 marzo incomincia la rivoluzione. — Ciò che vedo in via Monforte e presso la colonna di S. Babila. — Giovani armati. — Luciano Manara e i suoi amici. — Angelo Fava e Carlo Cattaneo. Il Governo, le Autorità militari e la Polizia di Milano cominciavano a perdere la bussola, e la pazienza. Da Vienna venivano alle Autorità locali ordini rigorosi ingiungenti la resistenza e la forza; i militari e la Polizia anelavano a menar le mani. La prima occasione, o, meglio, il primo pretesto, l’ebbero dalla dimostrazione del non fumare. Questa cominciò, come ho detto, il primo gennaio. La prima giornata passò lietamente. La gente scendeva in strada, passeggiava, per vedere la dimostrazione, e i cittadini incontrandosi, si ammiccavano anche senza conoscersi, per congratularsi reciprocamente che nessuno, proprio nessuno, avesse il sigaro o la pipa in bocca. La sera, in tutte le case, in tutti i caffè non si parlò d’altro; e non si fumò. Ma il giorno dopo, ch’era una domenica, la faccenda cominciò a farsi seria. Le strade erano percorse da ufficiali e da soldati in gran numero, che fumavano, fin con due sigari in bocca per ciascuno, per aver l’aria ancor più provocatrice; e una folla, che andava crescendo, li seguiva, e tratto tratto li fischiava. Un ufficiale, il conte Neipperg, figlio di Maria Luigia Duchessa di Parma, il quale con aria provocante se ne stava fumando sulla porta del caffè Martini, di fronte al Teatro la Scala, dopo una colluttazione con alcuni aveva ricevuto uno schiaffo. Il Podestà Casati, che si dava d’attorno per raccomandare ai cittadini la prudenza, e alle guardie di Polizia la moderazione, s’era trovato in mezzo a un gran tafferuglio, e sulle prime era stato arrestato anch’esso. Quelle prime avvisaglie non dovevano essere che il preludio dei fatti ben più gravi che seguirono poi. La sera del 3 gennaio mi trovavo in casa della nonna, con mia madre. Vi si discorreva del fumare, e delle dimostrazioni della giornata. Nè i miei zii, nè altri, in casa della nonna, avevano mai fumato; la nonna, che si avvicinava ai novant’anni, diceva di credere che due de’ suoi figli avessero fumato quand’erano ufficiali nell’armata Napoleonica, ma ne parlava come d’una scappata giovanile, scusabile tra gli orrori della campagna di Russia: approvava quindi la dimostrazione del non fumare, ma non capiva perchè mai il Governo non fosse dello stesso parere. Quando entra mio fratello Emilio, col fare concitato, e con gravi notizie. Veniva dal centro della città per avvisare la mamma, e per tranquillarla, sul proprio conto, nel tempo stesso. Bande di soldati si erano sparse per la città, ubbriachi, fumando e provocando quanti incontravano. Qua e là la folla li circondava, ed essi sfoderavano le sciabole, gettandosi sui cittadini inermi. C’erano già stati parecchi feriti, e vicino alla Galleria De Cristoforis era stato ucciso, con un colpo di sciabola sulla testa, il vecchio Consigliere d’Appello Manganini. In ogni punto della città accadevano atti di violenze soldatesche, e fatti di sangue; si parlava già di parecchi morti, e d’un centinaio di feriti tra i cittadini. Il giorno dopo si seppe che quella sera stessa, un gruppo di cittadini, tra i quali c’erano Carlo d’Adda, Cesare Giulini, Enrico Besana, Manfredo Camperio e il Podestà Casati, erano entrati nel Palazzo Marino, dove alloggiava il Ficquelmont, per esporre lo stato della città, e protestare con vive parole contro l’eccidio che vi accadeva. Il Governatore, alla sua volta, ne incolpava le provocazioni, e il d’Adda gli aveva risposto: «Forse che il cuoco del conte di Ficquelmont, ch’è tra gli uccisi, era d’accordo con noi per provocare gli austriaci?». La città rimase sdegnata, ma non atterrita. Le proteste d’ogni ordine di cittadini, e le dimostrazioni si succedettero con maggiore insistenza e con maggiore entusiasmo, fino a che il 22 febbraio il Governatore Spaur pubblicò la legge marziale, che iniziava un periodo di severe repressioni e legalizzava le violenze militari. Giovanetto qual ero, e di solito non uscendo di casa solo, avevo però veduta qualcuna delle dimostrazioni, e m’ero trovato anche in mezzo a qualche tafferuglio; ma poi tornavo a casa, per non tenere in agitazione mia madre. Mio fratello Emilio ci prendeva invece una parte attivissima. Egli faceva il primo anno degli studi legali universitari privatamente in Milano; i suoi professori però solevano dire a mia madre, e al nostro tutore, lo zio don Giovanni Borgazzi, che questo loro scolare era un giovane di molto ingegno, ma che non aveva la testa a casa, e che pensava molto più alla rivoluzione che alla filosofia del diritto. Le notizie di quei giorni, e i propositi pei giorni seguenti, le discussioni sulle idee e sui fatti che si andavano svolgendo, li sentivo in casa Correnti, dove andavo con mio fratello quasi ogni sera. Ricordo ancora vivamente quelle serate interessanti, talora commoventi, piene di entusiasmo e di fede, che furono la mia prima scuola di patriottismo e di politica. Nello studio del Correnti, in via della Spiga, ch’era tutto un disordine di libri ammucchiati e di carte sparse, c’era ogni sera un andirivieni di molte persone, che venivano a portar notizie, a riceverne, a discutere sui fatti d’ogni giorno, a preparare le dimostrazioni, e a raccogliere la parola d’ordine per gli altri crocchi d’amici, che si radunavano in altre case o in altri ritrovi. In mezzo a tutti Cesare Correnti era, come già dissi, un vero capo di Stato Maggiore; era, nel gruppo de’ suoi amici, la mente direttiva, ed aveva su tutti un assoluto predominio. Egli lo esercitava nello spingere all’azione e nel mantenere la concordia tra le diverse correnti d’opinioni che si agitavano intorno a lui. Occorreva che un’alta idealità patriottica predominasse in tutti alle singole opinioni ed ai partiti; e verso questa idealità il Correnti infiammava gli animi costantemente. In questo suo lavoro di propaganda e di disciplina, che possiamo dire rivoluzionarie, aveva trovato un forte contradditore in Carlo Cattaneo. Il Cattaneo era certamente, a quei tempi, uno dei cittadini più cospicui di Milano. I suoi studi economici, studi non coltivati allora da molti a Milano, e il suo _Politecnico_, gli davano notorietà ed autorità; la sua casa era un centro di studiosi, filosofi, economisti, giuristi, della scuola del Romagnosi. Aveva il carattere altero e sdegnoso, e, per un certo orgoglio d’intelletto, si teneva lontano dalle opinioni dei più. Pregato più volte di prender parte alle manifestazioni patriottiche che si andavano apparecchiando nei primi mesi del 1848, egli vi si era sempre rifiutato, considerandole quasi come ragazzate. Le sue opinioni lo conducevano per una strada affatto diversa, sulla quale, a dir vero, era pressochè solo. Era repubblicano, federalista. Sognava un’Italia divisa in varie repubbliche, per arrivare alle quali era disposto ad intendersi coi Principi italiani, e anche forestieri, salvo a strappar poi loro a una a una tutte le libertà. Credeva possibile di accomodarsi a questo modo anche con l’Austria pel Lombardo-Veneto, e sognava un’autonomia, amministrativa e in parte militare, come esiste oggi in Ungheria. Seguendo questa utopia, egli aborriva soprattutto dall’idea di chiamare Carlo Alberto a farsi condottiero della guerra per l’indipendenza italiana, la cui conseguenza sarebbe stata la formazione di un forte stato monarchico nell’alta Italia. Repubblicano e democratico, non vedeva in tale concetto che una cospirazione di nobili e di conservatori. Udii dire in casa Correnti che Alessandro Manzoni, interrogato su questo disparere, rispose: «Oggi tutto è utopia, ma tra l’utopia bella dell’unità e quella della federazione, sto per l’utopia _bella_.» Più volte il Correnti, col mezzo di amici comuni, aveva cercato di persuadere il Cattaneo, e di smoverlo; ma sempre inutilmente. Egli guardava d’alto in basso i giovani cospiratori, e questi, naturalmente, se ne lagnavano, e non lo amavano. Molti anzi lo criticavano aspramente, e il Cattaneo li chiamava _ragazzi_. Le intelligenze colla parte aristocratica il Correnti le coltivava col mezzo di amici suoi, ch’erano Cesare Giulini, Carlo Porro, Carlo d’Adda, Anselmo Guerrieri. Vedeva di frequente il Podestà Casati, essendo professore d’uno dei figli; l’altro figlio era all’Accademia militare di Torino. Le adesioni erano larghe, e risolute. Le famiglie aristocratiche milanesi, che nel 1815 avevano accolto con qualche favore il governo austriaco, sia per la poca simpatia verso il regime napoleonico, sia pei buoni ricordi tradizionali lasciati in Lombardia dal governo di Maria Teresa, ora, disilluse ed irritate, se ne staccavano sempre più, si schieravano risolute nell’opposizione, e guardavano al Piemonte. La rivoluzione di Parigi del 24 febbraio, e il movimento liberale che andava manifestandosi in ogni punto d’Europa, spingevano anche Milano alla rivoluzione. L’eccitazione degli animi cresceva ogni giorno, e parecchie famiglie di impiegati e di ufficiali austriaci, sbigottite, si disponevano alla partenza. Primi a partire, sul principio del marzo, furono il de Ficquelmont e il Vicerè, colle famiglie, diretti a Bolzano. Ficquelmont, mandato come un fine diplomatico, aveva scoperto che i Milanesi si annoiavano. Era vero, ma non era tutto. Il Vicerè Raineri, zio dell’Imperatore Ferdinando, aveva due figlie, di cui una era andata sposa al Principe di Piemonte Vittorio Emanuele, e cinque figli maschi. Noi giovanetti quando s’incontravano a passeggio i cinque arciduchi, impalati, seri, con una gran tuba, e con un gran precettore, si rideva, e ci parevano anche molto brutti. In compenso era molto bella la madre, l’arciduchessa Elisabetta, sorella di Carlo Alberto. Sulla bella Viceregina, e sul brutto Vicerè, correvano vari pettegolezzi di Corte, di cui giungeva l’eco fino a noi ragazzi. Anche il Governatore Spaur, dopo aver proclamato la legge marziale, se n’era andato. «_Fanno fagotto, fanno fagotto_», diceva la gente, tutta ilare, e fregandosi le mani. Ma rimanevano Radetzki, con l’Hübner, col Vice Governatore O’Donnel e col barone Torresani, direttore della Polizia. — Non avevano quindi fatto _fagotto_ i personaggi più importanti. A Radetzky, che da parecchio tempo aveva dato l’allarme a Vienna, erano stato a mano a mano rinforzati i presidi in Italia fino a 80.000 uomini, e con lui c’erano i generali Walmoden, Carlo Schwarzenberg, Clam Gallas, Wohlgemuth, Wöcher, Schönhals. La guarnigione di Milano era stata portata a diciottomila uomini. C’era da riflettere, ma per fortuna nessuno rifletteva. Non rifletteva che Carlo Cattaneo, il quale ad alcuni amici che s’erano recati ancora da lui la sera prima della rivoluzione perchè si unisse a loro, aveva dato un reciso rifiuto[6]. Egli si disponeva invece a pubblicare un giornale, il _Cisalpino_; nel nome c’era il programma. C’era, invece, in tutti il presentimento di grandi novità e di grandi avvenimenti, che nessuno sapeva precisare, ma di cui tutti parlavano. A un tratto si sparse intorno la notizia d’una rivoluzione scoppiata a Vienna il 13 marzo. La commozione fu grande e generale in Milano, e sebbene non si sapesse nulla di preciso, pure tutti si agitavano e si chiedevano: «E noi cosa si fa?» Ma poco dopo corse la parola d’ordine, che si dovesse fare una grande dimostrazione per chiedere le riforme, sostenendola, dicevano i più animosi, anche con le armi. * * * Alcune sere prima del 18 marzo, essendo andato da Correnti ci trovai qualcosa di insolito. Gli amici che vedevo a intervalli erano più numerosi, anzi ce li vidi pressochè tutti, e tutti avevano il fare misterioso, il piglio agitato, risoluto. Si scambiavano domande e informazioni, poi se ne andavano, senza trattenersi un po’ in chiacchiere, come facevano le altre sere. Pareva che ciascuno avesse fretta di recarsi ad altri convegni, e sentivo specialmente nominare due noti caffè, il caffè della _Peppina_ e il caffè della _Cecchina_. Sapevo che il caffè della Peppina, situato in via del Cappello, era un ritrovo di artisti, di professionisti e di cospiratori, che chiamerei democratici. Tra quelli che ci andavano sentivo nominare De Luigi, Maestri, Gerli, Cantoni, Tagliaferri, Pezzotti, Lazzati, Gadda, Brioschi, Finzi. Il caffè della Cecchina era una specie di Club situato in alcuni mezzanini del caffè Martini, di fronte al teatro la Scala, frequentato da molti giovani tra i più noti, come i fratelli Giovanni e Carlo d’Adda, Guido Borromeo, Cesare Giulini, Giovanni Curioni, Carlo Taverna, Alessandro Porro, i fratelli Guy, i fratelli Prinetti, i fratelli Jacini, Simonetta, Camperio, Manara, Besana, i Mainoni, giovani eleganti e dell’alta società. Questi due caffè erano, di solito, il quartiere generale delle dimostrazioni, soprattutto da quando il Casino dei Nobili, situato ove ora c’è la Società Patriottica, era stato chiuso per ordine della Polizia. Nelle ultime sere che precedettero il 18 marzo non vidi il Correnti. Mio fratello Emilio, che allora ci andava subito dopo pranzo, quella sera aveva l’aria un po’ misteriosa anche lui. La mattina seguente essendomi imbattuto in uno degli amici più fidi del Correnti, il giovane ingegnere Angelo Tagliaferri, e avendogli domandato che novità ci fossero, egli mi rispose sotto voce: Aspettiamoci per sabato un grande avvenimento. Il sabato atteso era il 18 marzo[7]. Gli amici del Cattaneo vollero fare un nuovo tentativo presso di lui, ma inutilmente; furono respinti di nuovo. Si separarono, e decisero per la rivoluzione. Intanto si venne a sapere che erano arrivati da Vienna dispacci al governo con decreti che abolivano la censura, annunziavano una legge sulla libertà della stampa, e convocavano pel 3 luglio gli Stati e le Congregazioni Provinciali. Si seppe ancora che il Podestà e il Delegato avevano convocato d’urgenza il Consiglio Comunale e il Consiglio Provinciale. Abbiamo veduto fin qui quali fossero le disposizioni dei più, nelle classi dirigenti; ma che cosa ne pensava il popolo? Il popolo non aveva modo d’esprimersi; non c’erano riunioni, non c’erano giornali che ne manifestassero, anche velatamente, l’opinione. Eppure il sentimento nazionale andava gradatamente svegliandosi, e faceva strada in tutti. Gli ultimi fatti, il sangue sparso in settembre nelle dimostrazioni per l’Arcivescovo, e in quelle del 3 gennaio, le dimostrazioni continue che chiamavano il popolo ogni tanto in istrada, avevano fatto scendere fino ad esso quell’agitazione contro gli austriaci che partiva dalle classi superiori. Il terreno era buono; il governo poliziesco e gretto, la diversità del linguaggio, mantenevano la divisione, creavano l’impopolarità. Dopo il 1815 era scomparsa quella vantata bonarietà, di cui c’era la tradizione dai tempi di Maria Teresa, di fronte all’alterigia spagnuola e alla prepotenza francese, e che aveva fatto parere ai nostri bisnonni meno odioso il governo austriaco. Ma gli austriaci ora erano in uggia a tutti, e su loro si riversavano tutti i motteggi popolari. Col nome di _tedeschi_ si chiamavano gli oppressori, dal soldato semplice a Radetzki, dal poliziotto all’Imperatore. _Abbasso i tedeschi_ voleva dire tante cose, che coi tedeschi non hanno a che fare; la distinzione venne più tardi. _Fuori i tedeschi_, voleva dire fuori il governo dell’Austria, era il grido dell’indipendenza e della libertà. Era un grido chiaro, accetto a tutti, senza distinzioni, nè discussioni; e in quel grido stava il secreto dell’umanità e della fraternità. Dunque _fuori i tedeschi_, ossia gli _austriaci_, e con questo grido si scese in istrada. La mattina del 18, tra le dieci e le undici, una gran folla, stipata in piazza del Duomo, si metteva in colonna per recarsi al Broletto, sede del Municipio, a chiedere al Podestà e alle autorità cittadine che si mettessero alla testa del popolo per muovere insieme al palazzo del Governatore, e chiedere le Riforme. E la colonna, ossia un’innumerevole folla, si mosse, inondando le vie, e levando un alto rumore, come un mare in burrasca. Con questo primo atto incomincia la rivoluzione delle _Cinque Giornate_; rivoluzione che ha i suoi episodi in ogni via della città, già narrati e descritti da testimoni oculari e dai molti che hanno scritto su quel grande avvenimento. Non è quindi la storia delle _Cinque Giornate_ che io rifarò; io mi propongo soltanto di scrivere alcuni episodi veduti da me, che, si noti, ero un giovanetto, e quello che in quei giorni sentivo dire intorno a me. Fin dalle prime ore del mattino mio fratello Emilio, ch’era ritornato da Correnti, rientrando aveva detto alla mamma e a me che in quel giorno ci sarebbe stata una grande dimostrazione, la quale avrebbe potuto finire anche con la rivoluzione. La povera mamma raccomandò a Emilio la prudenza, e le si velaron gli occhi di lacrime. Principiò da quel giorno nel suo cuore, ch’era grande, la lotta tra l’amor di patria e l’amor infinito per i suoi figli; lotta che per tanti anni doveva essere piena di dolorosi contrasti e costarle molte ansietà e molte lacrime. Povera mamma! All’annunzio datomi da Emilio pensai di mettermi subito anch’io in istato di guerra. Uscii di casa un po’ di soppiatto, poichè fino allora, secondo gli usi del tempo, io non avevo che una libertà limitata, e corsi a comperarmi due piccole pistole innocue, e un gran cappello alla calabrese. Poi, rientrato, tolsi da un cassetto una coccarda tricolore, alquanto vistosa, che mi aveva regalata pochi giorni prima una cuginetta, e la cucii in secreto sul davanti del cappello. Con ciò, dal canto mio, ero pronto agli avvenimenti. E gli avvenimenti non tardarono a presentarsi. Era mezzogiorno. Un rumore, da prima cupo e lontano, ma che avvicinandosi pareva quello d’una folla in festa, che battesse le mani e gridasse degli evviva entusiastici, clamorosi, ci chiamò tutti, noi e i vicini, ai balconi e alle finestre, le quali si andavano spalancando in ogni casa. Era la _dimostrazione_ che arrivava, preceduta dalle carrozze dell’Arcivescovo, del Podestà e del Municipio, avviandosi al palazzo del Governo. Noi abitavamo in via della Cerva, al primo piano della casa che fa angolo con quella parte di via Monforte che conduce alla chiesa di S. Babila. Spinto dalla curiosità e dal desiderio di far qualcosa anch’io, scesi in istrada e mi avviai verso la folla che procedeva in colonna serrata. Nell’uscire, m’ero trovato sul pianerottolo con un inquilino del secondo piano, il dottor Restelli, il quale scendeva le scale insieme ad un altro giovane medico, il dottor Angelo Tizzoni: l’uno e l’altro avevano il fucile in ispalla, e furono i due primi armati che vidi unirsi alla _dimostrazione_ così detta _pacifica_. M’ero appena messo tra la folla, quando alcuni vedendo questo giovanetto con una così grande coccarda tricolore (nessuno ancora l’aveva al cappello), cominciarono ad attirare l’attenzione su me con qualche _bravo ragazzo!_ e con qualche _evviva la coccarda!_ Detto fatto, parecchi tra quelli che m’eran vicini mi presero tra le braccia e mi sollevarono in alto, provocando una piccola dimostrazione speciale in mio favore. Anzichè stare in alto io mi sarei sprofondato. Mi dibattevo, e pregavo mi si lasciasse andare. Ma fu inutile, e fui portato in trionfo per un centinaio di passi. Una sola faccia riconobbi in quel momento tra le moltissime che vedevo rivolte a me, ed era la faccia di Carlo Tenca, che rideva e mi ammiccava con benevolenza. Quando, ad un tratto, a liberarmi venne il rumore d’un colpo di fucile; mi si lasciò cadere, e ruzzolai per terra. Il mio trionfo era finito; ero salito e caduto precipitosamente, come succede nelle rivoluzioni. La folla si era arrestata. Si sentì dapprima un rumore assordante di voci, anzi di urli, che venivano dalle vicinanze del palazzo del Governo; poi la folla cominciò a retrocedere, come presa da un panico; poi quegli urli diventarono più vicini e distinti, e non s’udiva più che il grido: _all’armi! all’armi!_ Mi tirai dietro la porta d’una casa, per non farmi travolgere dalla folla. Poco dopo vidi rovesciare, presso il ponte di S. Damiano, un carro di botti vuote che vi stava fermo, e si principiò la prima barricata tra un baccano indiavolato. Poi sentii suonare a stormo le campane della vicina chiesa di S. Damiano; poi il rumore secco di alcune fucilate; poi un grido: _evviva i morti!_ alto, terribile, che parmi ancora di riudire oggi mentre scrivo, dopo tanti anni. In breve la via Monforte rimase deserta, e rasente al muro mi diressi in fretta verso la chiesa di S. Babila, fino alla colonna da cui ha principio il corso Venezia, chiamato allora di _Porta Orientale_, e popolarmente _Porta Renza_. Mi fermai alquanto a contemplare lo spettacolo così nuovo, e che tanto entusiasmava, delle bandiere tricolori che ornavano ogni finestra. Erano bandiere improvvisate quella mattina, bandiere fantastiche, fatte di coperte, di scialli, di cenci, purchè fossero bianchi, rossi e verdi. E dalle finestre le signore gettavano alla folla, che applaudiva, coccarde e nastri tricolori. Tra quella folla agitata parecchi erano già armati con fucili da caccia; alcuni avevano delle carabine o qualche fucile militare introdotto dal Piemonte. Tra quegli armati riconobbi parecchi giovani miei amici, o di mia conoscenza, tra i quali Lodovico Trotti, i fratelli Mancini, Emilio Morosini, i fratelli Dandolo, Luciano Manara, Carlo De Cristoforis, e mio cugino Minonzio, che diventò poi, quasi vent’anni dopo, colonnello e cap. di stato maggiore del generale Cialdini. Questi giovani, in unione con altri, sotto la guida di Luciano Manara, avevano fatto venir secretamente dei fucili dal Piemonte, e durante l’inverno si erano esercitati tutt’insieme e di nascosto al maneggio delle armi ed avevano preparate munizioni e cartucce[8]. Quei giovani valorosi, entusiasti d’amor patrio, ed ispirati nel tempo stesso a idee mistiche e religiose, prima di scendere in istrada armati, erano andati, circa in trenta, in una chiesa a ricevere l’assoluzione quali _morituri_ da un buon prete, il coadiutore Sacchi. Li conduceva un barnabita, il padre Piantoni, e il precettore dei Dandolo, il prof. Angelo Fava. Corsero poi alle barricate, e furono primi tra i più audaci nei principali combattimenti per cinque giorni. Educatore ed ispiratore di alcuni di quei giovani, specialmente dei Dandolo e del Morosini, era il Fava, che diventò poi, durante il Governo Provvisorio, capo della pubblica sicurezza in Milano, e più tardi Segretario Generale al Ministero dell’Istruzione Pubblica in Torino. Quella mattina era sceso in istrada coi suoi alunni; io lo intravidi dal piazzale di S. Babila in mezzo a una folla che ad un tratto sbucò precipitosa dalla via Bagutta. Quella folla veniva dalla via Monte Napoleone sospinta dalla truppa, che poco prima aveva fatto fuoco su di essa. Molti anni dopo, ricordando col Fava alcuni fatti delle Cinque Giornate, e dicendogli che l’avevo visto sbucare da via Bagutta dopo le fucilate di via Monte Napoleone, egli mi raccontò questo episodio: «In via Bagutta mi ero imbattuto pochi minuti prima in Carlo Cattaneo. Io ero stato tra quelli che nei giorni prima della rivoluzione avevano cercato di persuaderlo ad essere con noi. Egli mi aveva opposto un costante rifiuto. Avevo a lungo discorso con lui, rimanendo e l’uno e l’altro nelle nostre opinioni e nei nostri propositi. La rivoluzione, secondo lui, era un errore, e sopra tutto un’impresa impossibile. Ma ora la rivoluzione era scoppiata, e non c’era più da discutere. — Dove vai, Cattaneo? — gli dissi — vieni con me! — Dove vado? — mi rispose — _Quando i ragazzi hanno il sopravvento, gli uomini vanno a casa!_ — e mi voltò le spalle». Ma a quello scatto improvviso seguì poi la riflessione: il Cattaneo aveva la mente troppo alta per ostinarsi in un rifiuto sdegnoso e inerte. Chiamato dopo tre giorni in Municipio lo vediamo a capo d’un _Comitato di difesa_ con Enrico Cernuschi, con Giorgio Clerici, con Giulio Terzaghi prender parte risoluta ed energica alla rivoluzione[9]. Intanto la rivoluzione era incominciata e da per tutto sorgevano barricate; dai portoni delle case uscivano carrozze ch’erano subito rovesciate; dalle finestre venivano gettate tavole, sedie, materasse e masserizie d’ogni sorta; il selciato e le pietre dei marciapiedi venivano messi sossopra, tutto era ammucchiato con febbrile attività, e ogni strada in pochi momenti era asserragliata da barricate che sorgevano a poca distanza l’una dall’altra. Ero fuori di casa ormai da parecchie ore, e pensai di rientrare per non lasciare troppo a lungo in agitazione la mia buona mamma. Emilio non rientrò che a notte inoltrata ed eravamo in non poca agitazione per lui; egli era stato lungamente trattenuto con Lodovico Trotti in una delle vie che fiancheggiavano la piazza del Duomo poichè sulla Cattedrale c’erano i cacciatori tirolesi che facevano fuoco su quanti cercavano di attraversare la piazza. Emilio ci raccontò i fatti a cui aveva preso parte, o che aveva udito da altri; ci narrò che gli austriaci avevano assalito e preso il Broletto, facendo molti prigionieri tra i nostri e conducendoli in Castello quali ostaggi; ci disse i nomi di alcuni di questi, e i nomi dei primi caduti, tra i quali il nostro antico Direttore di scuola, il Boselli, che era stato ucciso a colpi di baionetta sulla porta del Broletto. NOTE. [6] Ecco come il Cattaneo racconta la visita avuta da alcuni giovani la mattina del 18 marzo: «La sera del 17 marzo, uno degli amici miei, che veniva all’istante dalla casa del conte O’ Donnel, Vice-presidente del governo, avendomi annunziato che una nuova sedizione in Vienna ci apportava l’abolizione della Censura, deliberai tosto, di pôr mano pel dì seguente alla pubblicazione d’un giornale. Parevami propizio il momento d’indirizzare i cittadini a estorcere immantinente all’attonito governo quanto più si potesse di armamenti o di libertà; e recarci sopratutto in poter nostro i nostri soldati. Conveniva metterci in grado di dar principio alla lega italica con mani guarnite, sicchè il vicino regnante, fattosi costituzionale da troppo pochi dì e solo per nostro amore, ci fosse alleato se voleva, ma non padrone. Ricordo nuovamente che l’impresa dei cittadini comprendeva il conquisto dell’indipendenza insieme e della libertà. Una indipendenza servile, una indipendenza all’austriaca o alla russa, non mi pareva cosa da farsi se non per disfarla da capo. Per siffatte mezze imprese non mi pareva lecito insanguinare la patria. «Avevo appena finito di scrivere in fretta il mio primo foglio, quando poco dopo l’alba due amici vollero entrare da me, ragguagliandomi che il podestà Casati dopo mezzodì doveva recarsi dal Municipio al governo, per dimandare a nome del popolo alcune concessioni; volevano essi avere l’avviso mio su ciò ch’era per loro a farsi, nel quasi inevitabile evento di un conflitto. Questa smania di correre immantinente alla forza, quando nulla si era fatto per possederla e ordinarla, mi pareva troppo favorevole al nemico, che sapevamo presto e bramoso. «Il Podestà farà mitragliare i cittadini, io dissi: egli va da cieco dove lo spingono; ma voi con che forze volete assalire una massa di ventimila uomini, che si è preparata di lunga mano a fare un macello, e lo desidera? Quanti combattenti avete? — «Quei giovani non avevano a mano che qualche dozzina d’altri cacciatori.» — «Non vedete, risposi, che vi vogliono parecchie migliaia d’uomini bene armati e ben comandati?» — «Mi dissero che tutta la città si sarebbe mossa, e che si avevano pronti quarantamila fucili. — «Questi quarantamila fucili li avete visti?» — «Non li abbiamo visti; ma sappiamo che il Comitato direttore li aspettava di Piemonte.» — «Andate dunque prima a vedere se sono arrivati; andate al comitato-direttore. E siete poi certi che questo comitato vi sia» — «Senza dubbio; tutti ne parlano.» — «— Ebbene, vedrete che infine non avremo nè comitato, nè fucili. Io conosco da un pezzo codesti ciambellani; hanno una fede cieca in Carlo Alberto, e saranno corrisposti come al solito. Carlo Alberto non ama la libertà; e non può amarla. Bisogna pigliar tempo per armarci, e perchè tutta l’Italia si metta in grado d’aiutarci; non ci vuol meno che tutta l’Italia. Andiamo adagio; non cacciamo in bocca al cannone un popolo disarmato, finchè almeno non ci mettono alla assoluta necessità della difesa» — Li amici se ne andarono poco di me contenti. Ne vennero altri; e si fecero li stessi discorsi; altri m’invitarono a non so quale adunanza, a due ore, nella Galleria; io intanto portavo a uno stampatore il mio manoscritto.» _Dell’insurrezione di Milano nel 1848, e della successiva guerra, Memorie di C. Cattaneo_ (Bruxelles, Società Tipografica, 1849, pag. 29-31). [7] La sera del venerdì 17 marzo, Cesare Correnti raccomandò agli amici di trovarsi la mattina seguente in casa del dottor Attilio De Luigi, in via Disciplini. Ci andarono Achille Maiocchi, Daverio Perroni, Guido Borromeo, Giovanni Pezzotti, Anselmo Guerrieri Gonzaga, Pietro Bonetti, Achille Griffini, Alberico Gerli, Giovanni e Gaetano Cantoni, Giuseppe Finzi, i fratelli Lazzati, ed altri. Correnti quando ebbe intorno gli amici disse loro non potersi più ormai differire lo scoppio della rivoluzione; essere ormai necessario anticiparlo, e propose perciò si facesse il giorno seguente, il 18 marzo, per le vie di Milano una dimostrazione, armata questa volta, per affrontare gli austriaci, se questi assalissero i cittadini. Alle parole del Correnti soffocammo un grido di gioia, disse il Gerli, ci stringemmo le mani, e ci separammo. La mattina seguente eravamo tutti in casa del De Luigi, all’ora fissata, e dopo breve discussione si convenne di affidare il Governo provvisorio al Municipio, con facoltà di aggregarsi chi volesse; intanto il Podestà Casati doveva chiedere a O’ Donnel, Vice Governatore in assenza dello Spaur, che la Polizia fosse affidata al Municipio, e si conchiuse di accompagnare il Podestà al palazzo di Governo per ottenere quanto si chiedeva. (La _Rivoluzione Lombarda_ del 1848-59, di _Vittore Ottolini_, pag. 60). [8] «Riuniti in piccola brigata, scrive Emilio Dandolo, nel suo libro sui _Volontari Lombardi_, passavamo delle ore ad imparare gli esercizi militari. La notte ci trovava raccolti in qualche cameretta remota a fondere palle e a preparare cartucce. Ogni nostro giardino, ogni nostro cortile racchiudeva, in fosse, casse di munizioni procacciate dai nostri risparmi, a quella nostra età oltremodo penosi.» Tra quei giovani ricordiamo i fratelli Croff, i fratelli Broggi, Gerolamo e Alessandro Borgazzi, Manara, i fratelli Dandolo, Fioretti, Testa, i fratelli Mancini, Lodovico Trotti, Saule Mantegazza, Carlo De Cristoforis, Bussi, e qualche altro che non rammentiamo. Tutti furono alle barricate. — Era sempre con loro Angelo Fava. — In via Rugabella, nel giardino di casa Valerio, i fratelli Lazzati ed altri avevano nascoste delle armi. Carlo Alberto vi mandò un carico di polveri nelle Cinque Giornate, che non fu possibile far penetrare in città. [9] Il _Comitato di difesa_ si trasformò in un _Comitato di guerra_ di cui era presidente il conte Pompeo Litta, già capitano d’artiglieria al seguito di Napoleone I, e ne erano membri Cattaneo, Cernuschi, Clerici, Terzaghi, Carnevali, Lissoni, Cerani, Torelli. CAPITOLO IV. 1848. II. _Sommario:_ Il secondo giorno della rivoluzione. — L’aspetto delle vie. — Broggi. — L’ing. Alfieri nostro casigliano prende il comando del quartiere e mi mette di guardia su un tetto. — Ospitalità nelle famiglie. — La mattina del lunedì. — Assalto alla casa del Duca Visconti. — Il figlio del mio portinaio. — Ferimento d’un ufficiale. — Don Cesare Ajroldi e la barricata di S. Babila. — Terza giornata. — Con mia madre e mio fratello passiamo in via Durini, nel Collegio Garnier. — Il Console Pontificio. — L’ing. Alfieri impazzito. — La barricata del Seminario e i palloncini dei seminaristi. — Formazione del Governo Provvisorio. — La proposta d’armistizio. — La guarnigione austriaca. — La presa della Caserma del Genio. — Note sull’armistizio e sui fratelli Borgazi. All’alba del giorno seguente, una domenica, Emilio era uscito di casa di buon’ora, ed anch’io ero sceso, e m’ero fermato sul limitare del portone, socchiuso come tutti gli altri portoni. Pioveva; nella via della Cerva non si vedeva nessuno; tutt’in giro era un profondo silenzio, non interrotto che dal suono continuo delle campane a storno, e da qualche colpo di cannone. Tutte le persiane eran chiuse, o socchiuse. Mi spinsi piano piano fino allo sbocco della strada, e vidi che anche la via Monforte era abbandonata e silenziosa. La barricata del ponte era stata distrutta dagli austriaci durante la notte e gettata in parte nel canale detto il _Naviglio_. Al di là del ponte, in vicinanza del palazzo del Governo, si vedevano dei soldati, che ora procedevano guardinghi, ora si ritiravano tenendosi ai lati della strada, sotto le gronde, coi fucili in direzione delle finestre, e pronti a far fuoco appena vedessero una persiana semiaperta. A un tratto vidi venire dal piazzale di S. Babila, rasente il muro, un giovane armato di carabina; egli si fermò al vicolo Rasini, e si appostò dietro l’angolo. Questo valoroso, che doveva morire poche ore dopo, era Giuseppe Broggi. Dal punto in cui s’era messo, incominciò a far fuoco contro i soldati che erano nelle vicinanze del ponte, e ogni suo colpo ne faceva cadere uno. Così, solo, in meno di mezz’ora ricacciò fino al bastione i soldati che avanzandosi lentamente si preparavano ad occupare la via Monforte. Il Broggi, quando vide che tutta la via era sgombra, si avanzò fino al ponte, e presa la strada del _Naviglio_ si appostò di nuovo, facendo fuoco, all’angolo del Corso. Qui ebbe, sulle prime, il medesimo fortunato successo, finchè una palla di cannone, rimbalzando dallo stipite di una porta, che ne conserva ancora la traccia, gli squarciò il petto. Per alcune ore tutto fu quiete e silenzio nelle vie Cerva e Monforte. Di tanto in tanto qualcuno si affacciava alle finestre, o con passo prudente usciva dalle porte, e allora si avviava in istrada un po’ di conversazione, per chiedersi e scambiarsi qualche notizia. Non tutti, naturalmente, erano eroi; chi aveva l’aria spaventata; chi sommessamente arrischiava qualche parola di prudenza o di biasimo; chi si millantava; chi, senza allontanarsi dalla porta, prudentemente, faceva progetti e propositi terribili. Tutti, anche i migliori, erano esaltati, e ben diversi del solito. Tra le persone più agitate del quartiere osservai un certo ingegnere Alfieri, che abitava nella stessa nostra casa; uomo di solito tranquillo e di poche parole, diventato ora loquacissimo e di maniere strane. Egli s’era trovato il giorno prima in via Monte Napoleone nel momento di quel gran parapiglia in cui la folla, che ritornava dal palazzo del Governo, veniva accolta a fucilate da una compagnia di soldati. Vivamente impressionato, aveva avuto tutta la notte, come mi disse poi il suo servitore, una gran febbre, e improvvisamente era impazzito. Ma nessuno lo sospettò allora, e parve soltanto un patriota dei più ardenti. L’ingegnere Alfieri, a un tratto, chiamò tutto il vicinato e parecchi delle case vicine a raccolta in una corte; dichiarò che da quel momento egli prendeva il comando del quartiere e che tutti avrebbero dovuto obbedire a lui solo sotto la più severa disciplina. La cosa parve a tutti naturalissima, e l’ingegnere cominciò a dare i suoi ordini. Ordinò che si preparassero dei pannolini bagnati per spegnere le bombe, e che si mettessero delle caldaie al fuoco per gettare acqua ed olio bollente sui soldati; poi mandò alcuni nelle cantine, e sui tetti, per sorvegliare le spie e i nemici nascosti. Anche su ciò non si ebbe nulla da ridire. A me, che avevo le pistole, diede l’ordine di tenermi accovacciato dietro l’abbaino d’un tetto, ove mi condusse egli stesso, per sorprendere un nano che, a suo dire, faceva dei segnali dai tetti, ai soldati. A nessuno, dico, venne il sospetto che a quel nostro comandante avesse dato di volta il cervello. Erano tutti esaltati da un bisogno di fare e di credere; più un comando era misterioso, e più ci trovava devoti. Si viveva all’infuori della realtà; la realtà era il complesso dei sentimenti e delle speranze di tutti; era un amore infinito per l’Italia; era la sicurezza della vittoria! Rimasi parecchie ore sul tetto, dietro il mio abbaino, osservando innanzi tutto se compariva il _nano_, e poi le linee dei soldati, che tratto tratto sfilavano sui bastioni, a passo rapido, e guardando i campanari che picchiavano a martello le campane sulle torri di tutte le chiese. Tutto ciò, tra un rumore continuo di grida, di fucilate, di cannonate, che assordavano l’aria, e tra il sibilo tetro delle racchette e delle bombe. Nel guardare lungo la via, vidi presso il ponte sul _Naviglio_ di S. Damiano, stesi sul lastrico, due cadaveri, che vi giacevano probabilmente dal giorno prima. E infatti seppi poi che i soldati venuti dal bastione a rioccupare il palazzo del Governo, appena n’erano usciti O’Donnel e le Autorità milanesi, nel caricare la folla e nel risospingerla al di là del ponte, erano in alcune case, e saliti sui tetti, avevano gettato in istrada quei due infelici che vi stavano appiattati, e di cui vedevo i cadaveri. In quel momento mi sentii risuonare nell’anima, con una profonda pietà, quel grido: _evviva i morti!_ con cui avevo sentito il giorno prima la folla salutare le prime vittime. I morti erano là. E non ristavo dal guardarli da lontano, con quella specie di fascino che ci tiene avvinti alle cose che si fanno meditare. Chi erano quei morti? Venne la sera, e il _nano_ non compariva; per di più avevo una gran fame, e ciò contribuì a persuadermi che la mia missione fosse pel momento finita. Cercai la scaletta per la quale ero venuto, ed ebbi l’ingrata sorpresa di vedere che l’uscio era chiuso a chiave. L’aveva forse chiuso il mio stesso comandante, per assicurarsi meglio che avrei eseguito la consegna datami. Che cosa fare? Non mi rimaneva che di aggirarmi pei tetti, come un gatto, di fumaiuolo in fumaiuolo, col pericolo di finire in istrada, in cerca d’un’altra soffitta aperta e d’un’altra scaletta. Le trovai; scesi; ed eccomi in una casa, e in mezzo a gente che non conoscevo. In altri tempi sarei stato accolto come un ladro, ma in quel giorno fui accolto come un amico, come un figliuolo di casa. Narrai la mia avventura a quella buona famiglia, in mezzo alla quale ero capitato; mi si fece una gran festa, si parlò del _nano_, e si voleva anche trattenermi a cena, se non avessi fretta di rivedere mia madre. Non è facile descrivere l’ospitalità che in quei giorni si trovava in ogni casa. I pericoli, e le vicende della lotta, obbligavano spesso a cercar rifugio nella prima casa che capitasse. Tutti trovavano dappertutto un’accoglienza fraterna e festosa. Pareva che Milano fosse una sola famiglia. Si era in quei giorni tutti amici e fratelli; tutti si soccorrevano a vicenda, si abbracciavano, si davan del tu. Dalle strade si saliva nelle abitazioni, e vi si trovava un letto per riposare, un bicchier di vino, un boccone per rifocillarsi. Ciò alle volte diventava una vera necessità. In alcune vie tutte le botteghe eran chiuse, e le comunicazioni erano difficilissime. Qualche cuoco, o qualche servitore che si era azzardato ad andare in cerca di commestibili, era stato ferito o ammazzato. La città era bloccata, e al quarto giorno i viveri cominciarono a scarseggiare. La larga ospitalità, che metteva in comune le provviste di quelli che ancora ne avevano, diventava una vera provvidenza. I ricchi e le persone agiate distribuivano, nelle strade e nelle case, viveri e soccorsi a quanti si presentassero loro, fossero o non fossero poveri. I signori distribuivano larghi soccorsi ai popolani e agli operai, che in quei giorni della rivoluzione si trovavano necessariamente disoccupati. Soccorrevano in ogni maniera anche le loro famiglie, ed essi volonterosi e coraggiosamente si adoperavano in ogni più audace azione, e volonterosi ubbidivano a chi li dirigeva e li comandava. Nessun furto avvenne in quei giorni, mentre tutte le case erano aperte a tutti e non guardate da nessuno. Milano era una famiglia sola; tale fu la fisionomia morale della rivoluzione. La mattina del lunedì, di buon’ora, qualcuno venne ad avvisarci che i soldati si avanzavano, che avevano oltrepassato il ponte, e che pareva si disponessero ad occupare tutta la via. Sarebbe stata da parte loro una bella mossa, che avrebbe potuto condurli a pigliare alle spalle le barricate del corso di Porta Orientale. L’allarme fu grande, tanto nella casa nostra, quanto nelle case vicine, e tutti si misero ad asserragliare le porte per timore d’una invasione. Il figlio del nostro portinaio, certo Cecco Migliavacca, giovanotto alto e robusto, detto fatto, principiò a disselciare il cortile, e a portar sassi su un balcone della casa dal quale si dominava l’imboccatura della strada. Io lo aiutai in questo lavoro, e in pochissimo tempo ci fu su quel balcone una abbondante provvista di sassi. Quando, ad un tratto, che cosa vediamo? I soldati si avanzano rapidamente, coi fucili puntati alle finestre, e quattro zappatori colle asce alzate, comandati da un ufficiale, principiano a menar colpi a tutta forza contro il portone della casa del duca Visconti di Modrone, che fa angolo tra via Monforte e via della Cerva. Quella casa era zeppa di gente, venuta a ricoverarsi dalle case più minacciate di via Monforte, e trattenuta con una generosa ospitalità dal Duca. Il mio giovanotto cominciò a lanciar sassi furiosamente: io l’aiutai del mio meglio, e i soldati qua e là retrocedevano, senz’accorgersi sulle prime da qual parte venisse quella grandinata. Tutto ciò fu l’affare d’un minuto. Intanto il portone di casa Visconti stava per cedere ed era imminente una qualche grave sciagura: quand’ecco aprirsi la finestra d’una casa vicina, che fa angolo col vicolo Rasini, e nella quale abitavano alcuni canonici della chiesa di S. Babila. A quella finestra si affaccia un prete, il quale, tra le fucilate che gli tirano dalla strada i soldati, spiana un fucile, prende di mira l’ufficiale e lo colpisce. Questo fatto improvviso atterrisce i soldati, che rapidamente fuggono al di là del ponte, portando seco il ferito. La casa Visconti era salva. Chi era quel prete? Il vicinato disse subito che era don Cesare Ajroldi. Io lo vidi, quel prete, mentre lanciavo i sassi, ma nella commozione del momento non potei ravvisarlo. Sul nome di quel prete si fecero poi correre voci disparatissime, con l’evidente intenzione di non richiamare una speciale attenzione su nessuno. Parecchi avevano anche l’indiscrezione di domandare all’Ajroldi stesso se fosse stato lui l’eroe di questo episodio, ma egli si schermiva sempre. Uomo d’ingegno e distinto predicatore, l’Ajroldi, dopo il ritorno degli austriaci, fu tenuto per dieci anni in una specie di esilio; lo mandarono curato in un paesello di poche centinaia d’anime; dopo il 1859 ritornò a Milano, diventò Monsignore del Duomo, ed occupò diverse cariche cittadine nella beneficenza, tra la stima generale. Dopo quel fatto venne l’ordine, non so da chi, di erigere una forte barricata di fianco a S. Babila, per difendere il Corso, e per proseguire poi, con altre barricate, di mano in mano fino al ponte. Eccoci, dunque, tutti quelli del vicinato, a costruire in gran fretta una barricata, servendoci di masserizie e di materiali che generosamente ci venivan dati dalle case vicine. Don Cesare Ajroldi, sceso in istrada esso pure, aveva preso a dirigerne la costruzione. La barricata era finita, e già si pensava a costruirne un’altra, quando gli austriaci avanzarono di nuovo fino al ponte con due pezzi d’artiglieria, e ci tirarono alcune cannonate. La nostra barricata si sfasciò, e in breve fu messa sossopra. Ci mettemmo in fretta a ricostruirla, ma mentre stavamo collocando dei sacconi e delle materasse per difenderla meglio, una palla di cannone l’attraversò, schiacciando e recidendo la testa d’uno ch’era in mezzo a noi, un certo Perelli. Don Cesare e il Migliavacca trasportarono il morto nella vicina chiesa di S. Babila, e tiratici tutti in disparte, commossi, assistemmo una seconda volta allo sfacelo della nostra barricata. Non tentammo allora di rizzarla nuovamente, e poco dopo anche gli austriaci ritirarono i loro cannoni, e pel momento non fecero più nessuna mossa in avanti. Nullameno i fatti di quella mattina avevano messo in allarme tutto il quartiere. Il duca Visconti cominciò a raccogliere gente per farne dei difensori della sua casa, e questi furono il primo nucleo d’un reggimento di volontari, che poi equipaggiò a sue spese e condusse al campo. Il duca in quei giorni era sempre in mezzo alla strada, con un sacchetto di lire austriache, dette zvanziche, che vuotava e poi riempiva, distribuendo sussidi agli operai, ai popolani, alle donne del quartiere e dei quartieri vicini. Intanto le case di via Monforte e di via Cerva venivano in parte abbandonate dagli inquilini, che cercavano di rifugiarsi in vie meno esposte, in punti meno minacciati. Correva la voce che gli austriaci si preparassero ad un nuovo e più vigoroso assalto, scendendo dalla via Monforte. La mattina del terzo giorno Emilio, capitato a casa, dopo averci narrate le sue vicende, ma in modo da non spaventare la mamma, la persuase a lasciar la casa, e a portarsi altrove con me e col fratello Enrico. Mia madre pensò allora di recarsi nella vicina via Durini presso una certa _madame_ Garnier, ch’essa conosceva e ch’era la direttrice d’un Collegio di fanciulle situato nel palazzo Durini. Non è à dire con quanta festa ci accogliesse quella buona signora, la quale aveva già messo a disposizione di altri, ch’erano venuti a chiederle ospitalità, i locali delle sue scuole. C’era perciò, in quel Collegio, un andirivieni continuo di amici e di amiche della Direttrice, di giovanotti armati e di combattenti che venivano a portare e a sentir notizie, a veder le sorelle, o le madri che v’erano accorse, a rifocillarsi, a riposarsi, o a farsi medicare se feriti. Tutto ciò in un Collegio di fanciulle! Ma chi ci badava allora? Tutti rispettosi, tutti fratelli; la gente aveva ben altro pel capo. Dopo che ci fummo collocati alla meglio nella nuova abitazione, mi venne la curiosità di ritornare in via Cerva, e di dare una capatina in via Monforte per vedere se gli austriaci avanzassero. In via Cerva trovai un assembramento di persone, e pareva anche che ci fosse un po’ di parapiglia, precisamente dinanzi alla casa Perelli, dove noi abitavamo. Che cosa era avvenuto? In quella casa abitava pure un certo De Simoni, console pontificio; ora un messo, scortato da alcuni cittadini armati, era venuto ad invitarlo a un ritrovo dei Consoli che, come si seppe poi, volevano chiedere un abboccamento al maresciallo Radetzki. Ma il messo e la pattuglia erano stati bruscamente fermati dall’ingegnere Alfieri, il quale gridava che senza il suo permesso il Console non sarebbe uscito di casa. Il Console intanto s’era affacciato alla finestra, ed era principiato un curioso colloquio tra lui, l’Alfieri, il messo e quelli della strada. Finalmente il Console, in uniforme, scese, e allora l’Alfieri si mise a gridare: «Vedete quest’uomo? Questa è la spia che tutti andiamo cercando da due giorni... ammazzatelo!» Il povero Console, che non ne capiva nulla, si agitava, tremava; ma per fortuna le smanie dell’Alfieri furon tali e tante che tutti finalmente si accorsero, cosa non facile in quei momenti, che aveva smarrita la ragione. Dopo un chiasso indiavolato, l’Alfieri cadde a terra dibattendosi. Raccolto da alcuni pietosi fu condotto all’Ospedale, dove pochi giorni dopo morì delirando. Non fu in quei giorni il solo caso di pazzia improvvisa. La mattina del 21, sull’albeggiare, dopo parecchie ore dormite saporitamente su una branda, nell’anticamera del Collegio Garnier, non ostante lo scampanìo continuo di quasi tutti i campanili della città, scesi in istrada e m’imbattei subito in alcuni che, con una sciarpa tricolore a tracolla, si affannavano a dar ordini in nome del Comitato di difesa e a disciplinare l’insurrezione: non fosse altro, ne avevano la buona intenzione. Caduto anch’io nelle mani di questi capi, fui messo subito di sentinella ad una innocua barricata, che chiudeva la via Durini dalla parte del Verziere. Il mio comandante, dopo aver osservato le mie pistole, non trovandole forse abbastanza micidiali, volle aumentare il mio armamento, e mi mise in mano un fioretto da scherma, poi mi diede la parola d’ordine: _Papa Pio_. Poco dopo venne un altro capo, il quale trovò opportuno di rinforzare il posto, e mi diede un compagno, ch’era un buon vecchietto, armato di una lancia antica. Gli confidai la parola d’ordine, e fummo subito amici. Venne una pattuglia: «_Alt!_» gridò il vecchietto, «la parola d’ordine!» — «_Concordia, coraggio_» rispose il capo della pattuglia. — «Veramente», osservò il vecchietto, «la parola d’ordine sarebbe un’altra... però, siamo tutti italiani, e passino pure...» Rimanemmo appoggiati alla barricata chiacchierando, io e il mio vecchietto, ch’era un impiegato in pensione, per un paio d’ore. Il vecchietto mi raccontò che il Podestà era stato _promosso a Governo Provvisorio_; e mi confidò le ingiustizie che aveva subite durante la sua carriera, concludendo che se _arriveremo a diventar noi i tedeschi_... Alla fine cominciammo a domandarci che cosa facevamo noi lì. Il nemico non si lasciava vedere; si combatteva in tutt’altre parti della città; intorno a noi tutto era silenzio; la curiosità chiamava tutti altrove; e anche noi due, dataci la buona sera, ce ne andammo pei fatti nostri. Riacquistata la mia libertà individuale, mi portai alla Corsia dei Servi (ora Corso Vittorio Emanuele), e poi mi spinsi innanzi verso il Corso di Porta Orientale. Vidi con stupore la barricata dei chierici del Seminario, la più formidabile di quante ce ne fossero in tutta Milano; una barricata tutta fatta coi lastroni di granito dei marciapiedi, che sbarrava il Corso, ed era alta parecchi metri. Vidi sventolare sulla più alta guglia del Duomo la bandiera tricolore, messaci, seppi poi, dal Torelli, un amico di mio padre, che vedevo in casa nostra a Milano e a Tirano. Vidi poi alzarsi i palloncini, fatti dai seminaristi, per mandar fuori di città i bollettini e i proclami del Governo Provvisorio[10]. Vidi cose serie e cose buffe, ma che allora a me, e a tutti, parevano serie anch’esse; vidi le barelle su cui erano trasportati feriti e morti; e vidi dei bellimbusti, con corazze lucenti, sciarpe e cappelli con penne d’ogni colore, con spadoni antichi, che passeggiavano, come cantanti sul palcoscenico. Ammiravo anche loro. Ritornato sul tardi al mio quartiere generale, presso mia madre, in casa Garnier, ove continuava l’andirivieni di conoscenti e non conoscenti, seppi le nuove di tutti i fatti che s’erano andati svolgendo nella giornata. Seppi ch’era stato costituito il Governo Provvisorio, e che il conte Martini aveva potuto penetrare dalle mura in città, recando da Torino l’assicurazione datagli da Carlo Alberto che le truppe piemontesi avrebbero varcato il Ticino. Seppi che i consoli s’erano recati dal maresciallo Radetzki, e che il giorno prima un maggiore austriaco si era presentato al Governo Provvisorio per proporre un armistizio. A quella notizia, il viso di _Madame_ Garnier, che in cuor suo cominciava ad essere inquieta per l’andirivieni crescente degli ospiti, si illuminò d’un breve raggio di speranza. Ma subito chinò gli occhi, rassegnata, perchè, tra gli applausi degli astanti, si sentì che il Governo Provvisorio aveva respinto la proposta. Questa notizia veniva a mano a mano ripetuta festosamente da quanti venivano, e tutti la ripetevano a un modo ch’era evidentemente quello della verità. Il Governo, cioè, aveva riunito il Comitato di difesa, e i principali comandanti delle barricate. La discussione era stata breve. Il conte Durini e il conte Pompeo Litta, ex militare Napoleonico, avevano osservato che l’armistizio poteva esserci utile per lasciare a Carlo Alberto il tempo di giungere a Milano e prendere gli austriaci alle spalle. Ma gli altri, unanimi, dimostrarono le ragioni prevalenti per respingere la proposta, la quale era stata pur respinta dai Comitati di guerra e di difesa, recentemente nominati. Del Comitato di guerra, nominato il terzo giorno, aveva accettato di far parte anche il Cattaneo[11]. I felici e importanti successi ottenuti dagli insorti nella quarta giornata, la presa della caserma del Genio (l’attuale palazzo della Cassa di Risparmio) e di altre caserme, nelle quali s’eran fatti dei prigionieri, avevano nei più accresciuto l’entusiasmo e la fede, e dissipato in parecchi i dubbi e la paura. Dopo la presa delle caserme e dei vari posti militari, il numero dei cittadini armati era di molto cresciuto, e si facevano più fitte le fucilate, di cui giungeva l’eco dai vari punti della città. C’era già nell’aria il presentimento della vittoria, e si pareva tutti mezzo matti per l’esaltazione e per la gioia: non si vedevano che facce stravolte per la fatica, per l’insonnia, e per l’ebbrezza della lotta e del pericolo: tutti avevano la voce rauca, tutti avevan fame, e cercavano di rifocillarsi, sicchè pareva un boccone ghiotto anche il pezzo di pane secco che veniva offerto da chi ne aveva ancora un poco in serbo. Gli austriaci, sia per indecisione, sia per un certo sprezzo militare di fronte a dei borghesi quasi senz’armi, s’eran lasciati sorprendere il primo giorno, e poi non avevan saputo riaversi con una offensiva risoluta e audace. Al quarto giorno la lotta era diventata difficile, ma nei primi due giorni, con un’azione vigorosa, le truppe avrebbero potuto soffocare la rivoluzione senza molta difficoltà, prima che fosse proclamato l’intervento di Carlo Alberto. Radetzki giustificò la sua ritirata con buone ragioni; ma le ha trovate dopo. Alla fine, le barricate, le tegole che piovevano dai tetti, e quell’incessante sonare a stormo di tutti i campanili della città, avevano sbalordito, scoraggiato i soldati. I generali, tra le notizie incerte, allarmanti, di Vienna, di Torino, e delle città lombarde, pressochè tutte insorte, erano rimasti dubbiosi e inerti. Le truppe stettero quasi sempre sulla difensiva, certamente ostinata e valorosa, ma i loro assalti alle barricate furono pochi, e poco vigorosi. La sera del quarto giorno gli austriaci avevano perduto quasi tutti i posti e tutte le caserme dell’interno della città; erano ancora però padroni del Castello e dei bastioni che circondano la città, e delle porte. Tra i posti perduti nell’interno della città c’era stato, come ho detto, il palazzo del Genio militare, ove ora si trova la Cassa di Risparmio. Ne aveva diretta la presa Augusto Anfossi, che aveva militato all’estero. Dirigeva il fuoco da un balcone d’una casa dirimpetto, quando una palla lo colpì in fronte. Ma l’assalto era continuato, per opera del manipolo d’insorti capitanati dal Manara, in cui erano il Dandolo, il Morosini, Manfredo Camperio, i Mancini, il Minonzi, ed altri; finchè un ciabattino sciancato, Pasquale Sottocornola, si portò ad appiccare il fuoco alla porta della caserma, incendiandola, così fu costretta alla resa. _L’assalto a una porta_ — fu il pensiero, fu la parola d’ordine dei combattenti, del Governo Provvisorio e del Comitato di difesa, nella notte tra la quarta e la quinta giornata. Con ciò si sarebbe rotto quell’anello che circondava la città; gli armati accorsi dai paesi vicini sotto le mura[12] sarebbero entrati in Milano, e con essi i viveri che cominciavano a scarseggiare. L’impresa era certamente grave e difficile, ma in quel momento tutto pareva possibile nell’ebbrezza delle prime vittorie. NOTE. [10] La costruzione della barricata, e la costruzione dei palloncini, erano state dirette, come seppi più tardi, da uno dei chierici anziani, Antonio Stoppani, che aveva allora 23 anni. Lo Stoppani diventò poi sacerdote, e fu il celebre geologo e scrittore a tutti noto. [11] Più tardi, quando alla verità si sovrappose la leggenda, molti vollero attribuirsi il merito d’aver respinto l’armistizio; si disse, tra l’altre cose, che il Governo Provvisorio lo accettasse, e che il solo Cattaneo lo respingesse: la verità è più semplice. Io mi atterrò a quanto ne scrisse Luigi Torelli, presente a quel Consiglio, nei suoi _Ricordi delle Cinque Giornate_, cronaca esattissima d’ogni fatto della Rivoluzione: «Essendo presente anch’io a quel Consiglio, posso darne qualche ragguaglio. Riuniti in numero non minore al certo di quattordici o quindici, poichè, oltre il Governo Provvisorio, v’era il Comitato di guerra ed il Comitato di difesa (del quale io faceva parte), il presidente Casati espose la domanda di sospensione d’armi del generale Radetzki. Chi prendesse primo la parola non rammento; certo il signor Cattaneo fu uno di quelli che parlarono contro, ma sul numero di presenti tre soli opinarono per l’accettazione; gli altri, senza aver d’uopo di sforzi di rettorica di nessuno, la ripudiarono risolutamente, perchè era evidente che, in ogni modo, era più utile a Radetzki che a noi. «Quando venne il mio turno, senza ripetere le ragioni degli altri, aggiunsi solo: che nella mia qualità di capo delle pattuglie, dovevo poi dire che si andava ben errati, se mai si credeva che quand’anche si avesse accettata la sospensione, i combattenti l’avrebbero rispettata; di disciplina non vi era nemmen l’ombra. Inoltre potrei anche appellarmi ai molti che spero ancora esistano, per rammentar loro come, durante il breve tragitto da casa Vidiserti a casa Taverna, si gridasse ad alta voce, _no, no, non accettiamo sospensione_; e questo fu ripetuto perfino nella sala maggiore di casa Taverna, che precede quella dove si tenne in Consiglio. Voi vedete dunque che senza nulla detrarre al merito reale del signor Cattaneo, non è quella circostanza che si può addurre come di gran servizio reso al paese.» [12] Da principio si decise di tentare l’assalto della città entrando dal bastione di Porta Comasina (oggi Porta Garibaldi). Se ne incaricò Gerolamo Borgazzi alla testa di alcune centinaia di persone ch’egli aveva condotte dalla campagna. Ma durante l’assalto rimase morto. Questo era fratello d’un Alessandro Borgazzi che, durante le dimostrazioni, insultato da un ufficiale, nipote del Ficquelmont, lo aveva bastonato. La _Gazzetta d’Augusta_ aveva stampato che un nobile milanese aveva aggredito un Thurn, e ch’era stato arrestato. Questi Borgazzi erano cugini di mia madre. CAPITOLO V. 1848. III. _Sommario:_ La quinta giornata. — Preparativi per la presa di Porta Tosa. — Il prete che benedice i combattenti al ponte di Porta Tosa. — In piazza del Verziere. — I feriti. — I _Martinitt_ dell’Orfanotrofio. — La bandiera alla _Madonnina_ del Duomo. — La presa di Porta Tosa. — Di guardia su un tetto. — Il pittore De Albertis. — L’aspetto della città nella notte dal 22 al 23. — La ritirata degli austriaci. — Le vie di Milano e l’entusiasmo pubblico all’annunzio della ritirata degli austriaci. — Gli abiti detti alla _Lombarda_. — Nel Castello. — Partenza di un manipolo di volontari con Luciano Manara. — Gli ostaggi. — Le notizie dei paesi insorti in tutto il Lombardo-Veneto. Sentivo dire che s’era pensato di dare l’assalto a Porta Comasina, ma che colla morte del Borgazzi l’impresa fosse fallita; e che poi si progettasse un assalto alla Porta Ticinese, ma la resistenza vigorosa che vi si trovò, e varie altre circostanze che rendevano difficile l’impresa, facessero mutar consiglio. Alla fine era prevalso il progetto dell’assalto a porta Tosa. Questo fatto, che è certamente uno dei più importanti della rivoluzione, fu preparato e diretto con molte cautele, con ordine, e con un piano predisposto. Ci furono un’ala destra e un’ala sinistra di combattenti di fianco al corso, che si avanzavano attaccando le truppe dei bastioni per distrarle dal punto centrale, ch’era la porta; e contro la porta furono dirette, lungo il corso, le barricate mobili con le quali si doveva alla fine prenderla d’assalto. I meglio armati, e i più risoluti, avevano il comando dei vari gruppi di combattenti, ai quali era affidata l’esecuzione di questo piano. Le barricate mobili erano grandi cilindri, fatti di fascine legate con corde, che venivano sospinte innanzi rotolandole, e dietro le quali stavano i nostri combattenti. Le aveva pensate, e fatte eseguire, Antonio Carnevali, già professore alla scuola militare di Pavia durante il Regno napoleonico. Furono queste barricate che resero possibile l’avanzarsi dei nostri sotto le fucilate d’un reggimento di fanteria, e sotto la mitraglia d’una batteria, che difendevano la porta. Trovandomi sulla piazza del Verziere assistetti alla costruzione d’una di tali barricate; e più tardi, verso il mezzogiorno, spinto dalla curiosità e dal desiderio di far qualcosa anch’io, mossi verso il ponte di porta Tosa, per arrivare almeno fino all’imboccatura del corso. Da lontano, nella direzione del bastione e della porta, si sentiva il rumore continuo delle fucilate dei soldati, e dei colpi di carabina dei nostri; e a brevi intervalli la mitraglia, rimbalzando sul selciato, giungeva fino al _Naviglio_. Il ponte, tra il Verziere e il tratto di strada che conduce al corso di porta Tosa, era asserragliato da una forte barricata, alla cui custodia stava un drappello di cittadini armati. Quand’io mi presentai (ero un giovanetto mingherlino), non mi fecero neanche l’onore di domandarmi dove volessi andare. Uno diede un’occhiata, sorridendo, a me e al fioretto di cui ero armato, e mi fece un gesto che voleva dire di lasciare il passo ad altri, e di tornare indietro. Infatti non si lasciavano passare che persone armate di carabine o di fucili, oppure popolani robusti, che venivano con fascine, con pali, con corde, per rafforzare le barricate mobili. Passare il ponte voleva dire andare al fuoco sotto la mitraglia, voleva dire gettarsi in una mischia terribile, e affrontare la morte. Mentre ero rimasto lì sui due piedi, un po’ mortificato, per essere stato tacitamente dichiarato inabile, e guardavo l’affaccendarsi affannoso di chi andava e di chi veniva, vidi che al di là della barricata stava ritto un prete: aveva un crocifisso in mano, e dava l’assoluzione in _articulo mortis_ ai combattenti, che si inginocchiavano dinanzi a lui prima di andare al fuoco. Quello spettacolo, grave e solenne nella sua semplicità, e tanto caratteristico di quei giorni e di quel tempo, non si cancellò più dalla mia memoria. Passai quasi tutta la giornata nella piazza del Verziere e nelle strade vicine, facendo anch’io un po’ di tutto, per quel che potevo nel limite delle mie forze, aiutando a portar travi ed assi, sacconi e masserizie per rinforzare le barricate. Poi c’era sempre qualche notizia o qualche ordine da portare; o si era chiamati in un’osteria, o in un caffè, o in qualche casa a fonder palle e a far cartucce. Intanto venivano a mano a mano i feriti, portati nelle case o all’ospedale. Vidi tra questi, su una barella, un bel giovane, squarciato dalla mitraglia; mi si disse ch’era l’ingegnere Stelzi. Di tanto in tanto cadevano anche nella piazza dei razzi, o _racchette_ come le chiamavano allora, che erano ancora in uso nell’artiglieria austriaca. Questi razzi molte volte riuscivano innocui; ma in quel giorno vidi parecchi cittadini rimanerne feriti. Andavano e venivano dal ponte dei piccoli e coraggiosi messaggeri, che avevano libero il passo, e ch’erano gli alunni dell’Orfanotrofio, detti dal popolo i _Martinitt_. Col loro mezzo i combattenti del corso di porta Tosa comunicavano coi varî punti della città, e col Comitato della difesa. Questi valorosi figlioli della beneficenza cittadina erano argomento dell’ammirazione di tutti. E tutti, ogni tanto, alzavano gli occhi in alto, nella direzione della più alta guglia del Duomo, sulla quale sta la statua della Vergine, con cui i milanesi sono in grande confidenza, come col genio tutelare della casa, e la chiamano la _Madonnina_. Essa vede da tanti anni le nostre gioie e i nostri dolori; situata sì in alto, pare più vicina al cielo, al quale i milanesi amavano sperare che dicesse in quei momenti una buona parola per loro. Quando, nella terza giornata della rivoluzione, si vide sventolare in mano alla _Madonnina_ la bandiera tricolore, nessuno dubitò più della vittoria. Da tutta la città si levò un grido di trionfo e di gioia, come se la _Madonnina_ avesse fatto causa comune con noi, e avesse preso Milano sotto la sua protezione[13]. E ogni tanto si guardava in su, per assicurarsi che la bandiera della _Madonnina_ sventolasse ancora. Verso la sera della quinta giornata, le grida _vittoria, vittoria_, fecero accorrere e affollare verso il ponte quanti erano in piazza, e questa volta la barricata e i suoi custodi non valsero più a trattenere la gente. Potei anch’io passare il ponte, e avanzarmi fino all’imboccatura del corso. La mitraglia non rimbalzava più; tutto il combattimento s’era ridotto alla porta. Era stata presa, poi incendiata, poi ripresa dagli austriaci, poi ancora dai nostri; ora bruciava. Gli austriaci si erano ritirati, lateralmente, sui bastioni, e facevan fuoco sulla folla che correva verso la porta. Le prime case del corso, in vicinanza al bastione, ardevano, e le fiamme si elevavano alte nell’oscurità, crepitando; il terrore di quello spettacolo era accresciuto dalle grida della vittoria, dagli urli degli assalitori, e dai lamenti acuti dei feriti, o di donne fuggenti. Ogni tanto qualche panico ricacciava e disperdeva la folla, che poco dopo ritornava con nuovo furore. Corsi a casa a confermare anch’io la gran notizia della presa di Porta Tosa, chiamata da quel momento dal popolo Porta Vittoria (Decreto 6 aprile 1848), e trovai mia madre agitatissima, perchè ormai da ventiquattro ore non s’era più veduto Emilio. Non lo rivedemmo che la mattina seguente, e allora ci narrò le varie peripezie della giornata, che gli avevano impedito di venire in via dei Durini. Calata la notte, e cessato il fuoco a Porta Tosa, si principiò a sentire un cannoneggiamento lontano, che pareva venisse dalle vicinanze del castello. Ed ecco subito giungere ordini nelle case di sorvegliare attentamente i tetti, le soffitte, i fienili, poichè pareva che incominciasse un bombardamento più vigoroso. Eccomi ancora di guardia su di un tetto, questa volta della via dei Durini, passandoci una notte umida, fredda, appoggiato ad un fumaiuolo, e ravvolto in una coperta di lana; nè la stanchezza nè il sonno mi avrebbero potuto vincere dinanzi allo spettacolo spaventevole di quella notte. Dalle parti del castello e lungo un tratto dei bastioni, si vedeva una grande striscia di fuoco, che in vari punti si elevava con fiamme alte e sinistre nella notte nerissima. Erano incendi di case e colonne di fumo, era il fuoco dei battaglioni austriaci e delle artiglierie, che assieme tiravano contro la città, senza tregua, con un rumore indiavolato, che scoteva l’aria e la terra. Era uno spettacolo cupo, grandioso, che la notte rendeva più misterioso e spaventevole. Tutti, come seppi poi, erano rimasti in piedi quella notte, compresi da un muto terrore; tutti s’erano domandati ansiosamente se un corpo d’insorti, o una avanguardia piemontese, fossero venuti a dar l’assalto alle mura; o se principiassero l’incendio e il saccheggio della città. Tutti erano trepidanti, silenziosi. Anche le campane a martello in alcuni punti tacevano. — «_Alt!_ chi sei tu?» chiesi a un tratto ad un’ombra bianca che si avanzava verso di me pian piano, e facendo scricchiolare le tegole del tetto. — «Sono una sentinella, viva Pio IX!» — «Parola d’ordine!» — «_Augusto Anfossi_». E chi mi rispose così venne a sedersi accanto a me, tutto ravvolto in una coperta di lana bianca e con uno spadone antico a due mani sulla spalla. Riconobbi in lui quel guerriero che avevo già osservato più volte il giorno prima al ponte di Porta Tosa, e che, pur accorrendo dove si sentivano le fucilate, procurava che la sua coperta di lana facesse sempre delle pieghe bizzarre con una certa pretesa artistica. Era un giovanotto sui vent’anni. Si principiò, io e lui, con l’almanaccare su quello strepito diabolico e su quei fuochi. Il mio collega ne sapeva quanto me, ma soprattutto ammirava le tinte purpuree incandescenti del cielo. E intanto prese a narrarmi, con la voce rauca, e con un linguaggio un po’ slegato e fantastico, i mille episodi della presa di Porta Tosa e di altri fatti ai quali aveva preso parte, prima con un fucile che gli si era rotto, poi con lo spadone, uno spadone antico, che diceva essere una bellezza. Alla fine gli domandai: — «Sei uno studente?» — «Ma che!» mi rispose con una certa alterigia. «Sono un artista, un pittore!» — «Ed hai fatto molti quadri?» gli domandai. — «No, ma ne ho già in mente tre... ed ora penso a un quadro... _la scena di questa notte veduta da un tetto, la luce dll’alba, e il bombardamento della città!_ che contrasto!... una cosa magnifica! vedrai! che bellezza!» — «Come ti chiami?» — «Sebastiano De Albertis.» Quell’amicizia, incominciata sul tetto, continuò; egli fece parecchi quadri, non la scena veduta da un tetto, che gli diedero una certa fama; fu garibaldino nel ’59 e dipinse delle scene militari; rammentammo più volte la notte passata insieme, appoggiati ad un fumaiuolo. La rammentammo anche pochi giorni prima che morisse, trovandoci in una Commissione che preparava pel 50.º anniversario delle Cinque Giornate quei festeggiamenti ch’egli non doveva vedere. Alle tre dopo la mezzanotte tutto quel rumore diabolico improvvisamente cessò. Seguì un silenzio profondo, ansioso, che durò un paio d’ore; poi ad un tratto si sentirono delle grida lontane, che parevano degli evviva; poi alcuni campanili incominciarono a sonare non a martello, ma a festa; poi un rumore nuovo, come di voci allegre e di gente festosa, scoppiava da ogni punto, cresceva, e saliva distinto fino a noi. — Che c’è? Che sarà? — esclamammo noi due, e corremmo rapidamente in strada. In strada la gente scendeva da tutte le case. Non si sentiva più che un grido: _Sono andati! Sono andati!_ Tutti si ripetevano l’un l’altro la grande notizia, tutti si abbracciavano, si baciavano, piangevano; le porte, le finestre si spalancavano; da ogni finestra sventolava una bandiera fatta coi tre colori; molti vi accendevano dei lumi. Sono andati! Sono andati! Oh, come descrivere a chi non l’ha veduta la gioia, la frenesia di quell’ora! Chi aveva sopportato i dolori e la vergogna della schiavitù provava ora la fierezza del sentirsi libero, la confidenza nelle proprie forze, la fede nel proprio avvenire. Nessuno avrà fatto l’analisi di tutto ciò in quel momento, ma pure c’era tutto ciò in quel grido unanime, pieno di gioia e di ebbrezza — _sono andati, sono andati!_ — che erompeva come una voce sola. — «_Giovanin Bongee_ è vendicato!» fu la prima parola che mi disse il Correnti quando lo incontrai in quel giorno. Dopo avere scambiato anch’io molti abbracci e molti baci, non solo con mia madre, ma con quanti c’erano in casa Garnier, ritornai in fretta a girandolare per le strade, spingendomi verso tutti quei posti dove sentivo che c’erano stati i principali combattimenti. Dappertutto era il medesimo spettacolo; dappertutto sventolavano drappi, tele, cenci d’ogni qualità, purchè fossero bianchi, rossi e verdi; e la gente non cessava dal contemplare, dall’inebbriarsi quasi di quei colori, simbolo di tante speranze e di tanti dolori. Tutti portavano grandi coccarde d’ogni foggia ai cappelli e sui vestiti; e dalle coccarde pendevano medaglie col ritratto di Pio IX e col motto: _Italia libera, Dio lo vuole_. Nelle strade era uno scambiarsi continuo di saluti, di rallegramenti, di abbracci, tra conoscenti e non conoscenti. A ogni passo c’era qualche crocchio in cui si scambiavano notizie, o si narravano i fatti, gli episodi di quei giorni; seppi allora che con quel grande strepito, che ci aveva colpiti nella notte, gli austriaci avevano protetto la loro ritirata. Sentii anche che nelle corti del Castello si vedevano cose raccapriccianti, pozze di sangue, cadaveri di uomini e di donne, fucilati, mutilati. _Sono andati! Sono andati!_ E in tutti era una festa, un entusiasmo che pareva un delirio; tutti eran mossi da una smania di espandersi, di affratellarsi, di affaccendarsi. Molti continuavano il lavoro alle barricate, specialmente quelli che ne erano stati lontani nei giorni antecedenti; le rinforzavano, e persino le abbellivano, gloriosi di quell’opera cittadina, che in quel giorno pareva il presidio eterno della comune libertà. Non mancavano, anzi abbondavano, i tipi comici, che furono poi chiamati gli _eroi della sesta giornata_, che andavano in giro facendo pompa dei più strani costumi; con corazze antiche sul petto, con cappelli piumati o morioni, con stivali di cuoio giallo, con armature ed abiti da teatro. Queste strane fogge di _abbigliamenti patriottici_ continuarono, pur troppo, per molto tempo ancora; e anzi comparve una moda nel vestire, chiamata alla _lombarda_, e che consisteva in un camiciotto, o _blouse_, di velluto nero, di fabbrica nazionale, stretta alla vita da una cintura di pelle da cui pendeva una daga o una spada; colletto bianco, grande, rovesciato sulle spalle; calzoni corti di velluto nero; stivali che arrivavano fino al ginocchio; cappello alla calabrese con pennacchio; e una collana che scendeva sul petto, e da cui pendeva un medaglione, ch’era di solito il ritratto di Pio IX. Anche ad alcuni uomini serî non era sembrato strano, in quei primi giorni, il vestire a un di presso così. E non era sembrato strano neppure a Cesare Correnti, segretario generale del Governo Provvisorio, chè appunto in quei giorni vidi anche lui vestito di velluto, alla _lombarda_, con la fusciacca tricolore a tracolla, e una sciabola al fianco. Anche parecchie eleganti signore adottarono sulle prime questo strano genere di abbigliamento, e trovarono modo di adoperare, quali ornamenti delle _toilettes_, fusciacche tricolori, cappelli alla calabrese, pistole, e persino, Dio glielo perdoni!, spade e sciabole di cavalleria. La festività, mezzo seria e mezzo comica, che seguì in Milano la ritirata degli austriaci, si protrasse per parecchi giorni. Nessuna stranezza stupiva, o pareva tale, usciti tutti come eravamo da quel grande avvenimento, che superava ciò che di più strano poteva figurarsi la nostra immaginazione. Ci furono anche, ad onor del vero, delle manifestazioni e degli atti più serî. Il 24 marzo un manipolo di giovani, ch’erano stati tra i più valorosi durante la rivoluzione, sotto il comando di Luciano Manara, uscivano dalla città inseguendo la retroguardia austriaca. Quei giovani furono il primo nucleo di quel battaglione lombardo di circa ottocento, che, dopo avere valorosamente combattuto a fianco dell’esercito piemontese sui campi di Lombardia, e più tardi alla Cava in Piemonte, chiudeva la sua breve e gloriosa vita militare decimato sugli spalti di Roma. Un altro gruppo di cittadini milanesi s’avviava intanto penosamente, dietro i carriaggi austriaci, verso Verona: erano gli ostaggi. In seguito all’assalto e alla presa del _Broletto_, eseguiti per ordine del generale Wallmoden, sull’imbrunire del 18 marzo, erano stati presi circa cinquanta cittadini, e condotti prigionieri in castello. Tra questi, n’erano stati scelti una ventina quali ostaggi, al momento in cui l’armata si ritirò, nella notte del 22 marzo[14]. Le truppe giunsero la sera del 23 marzo a Melegnano, conducendo seco gli ostaggi, affidati alla custodia d’un Commissario di Polizia, un tal De Betta. Furono rinchiusi in un camerone oscuro, ove poco dopo si vide una luce sinistra, seguita da un colpo, e da un grido; uno degli ostaggi cadde mortalmente ferito; era il conte Carlo Porro. Ne fu incolpato il Commissario De Betta, che poi se ne scolpò, e attribuì il colpo a un soldato, e a un caso fortuito. Il Porro morì il giorno dopo, e fu una grave perdita. Cultore di scienze naturali, fu uno dei fondatori del museo di Milano; cittadino autorevolissimo, era stato in quei giorni uno dei dirigenti il movimento del paese, di cui era un onore e una speranza[15]. Gli ostaggi furono condotti a Klagenfurt, e più tardi vennero scambiati con prigionieri austriaci. Così si chiudeva quel primo giorno di trionfo. I gridi di gioia coprivano molti gemiti, e molte lacrime, come segue la sera d’ogni trionfo; ma la gioia era tanta, che perfino gli afflitti gioivano, o almeno erano più rassegnati nel dolore. Intanto giungevano notizie da ogni parte della Lombardia e del Veneto. Dappertutto era la stessa cosa; come in una polveriera dove si fosse dato fuoco a una miccia, nel tempo stesso in ogni città, in ogni borgata, in ogni villaggio, ognuno a suo modo aveva fatto la sua rivoluzione, quasi vi fosse stata un’intesa, e con gli stessi caratteri di concordia, di entusiasmo, e talora di imprevidenza generosa e ingenua. Le lezioni dell’esperienza vennero poi: inesorabili e dure; ma non turbiamo quei momenti felici. NOTE. [13] Durante i primi due giorni della rivoluzione il terrazzo più alto del Duomo era occupato dai cacciatori tirolesi, che colle loro carabine tenevano sgombre la piazza del Duomo e le vie vicine. Appena cessò il fuoco nel terzo giorno, Luigi Torelli, che fu poi ministro e senatore del Regno, accompagnato da un altro cittadino, ebbe l’idea felice e coraggiosa, di salire sul Duomo per assicurarsi che i cacciatori si fossero ritirati, e di piantarvi la bandiera tricolore per indicare ai cittadini che si era padroni del centro della città; fatto che non solo rialzò gli animi in tutta la città, ma anche nei paesi circonvicini. [14] Fu dato ordine di prendere il Palazzo del _Broletto_, ove risiedeva il Municipio, _a qualunque costo_, al colonnello Perrin che comandava un reggimento boemo. Lo Schönhals però, nella storia sulla campagna d’Italia, attribuisce la presa del Broletto al colonnello Döll comandante del reggimento Paumgater. [15] Gli ostaggi erano: Antonio Bellati delegato (Prefetto) di Milano, conte Giuseppe Belgiojoso assessore municipale, conte Ercole Durini, nob. Pietro Bellotti assessore municipale, marchese Giberto Porro, conte Giulio Porro, nob. Filippo Manzoni, nob. Carlo De Capitani, nob. Francesco Giani, Enrico Mascazzini, nobile Alberto De Herra, dottor Antonio Peluso, Enrico Obicini, Mascheroni, Citterio, ing. A. Brambilla, Carlo Crespi, Carlo Pozzi, Guglielmo Fortis, nob. Carlo Porro. Lungo la strada ne furono aggiunti altri sedici, arrestati tra i notabili dei paesi che le truppe attraversavano nella ritirata. Carlo Porro era fratello del conte Alessandro Porro, che divenne poi Senatore e Presidente della Cassa di Risparmio di Milano. CAPITOLO VI. 1848. IV. _Sommario:_ Dopo la partenza degli Austriaci da Milano. — L’opinione pubblica. — Arrivo di volontari. — La Guardia Nazionale. — Cartucce fatte dalle signore. — La Palestra Parlamentare. — Un orologio rubato e un corpo di guardia. — Il Circolo Repubblicano detto l’Associazione Nazionale Italiana. — La processione del _Corpus Domini_. — Mazzini. — I partiti e la _fusione_ col Piemonte. — I giornali. — Debolezza del Governo Provvisorio. — Cattaneo. — Cernuschi. — Dimostrazioni pubbliche, agitazioni. — Il battaglione dei volontari studenti e chierici. — In casa di mia nonna, zii e cugini. Quando ritorno col pensiero all’impressione generale rimastami di quel breve tempo in cui allora Milano fu libera, e ci ripenso con più maturo giudizio, non ritrovo più ciò avevo tanto ammirato poco tempo prima, ciò che mi aveva tanto esaltato e commosso durante la rivoluzione, e nei mesi che la precedettero; non ritrovo quell’energia, quell’abnegazione, quella concordia di tutti che avevano lasciato nel mio animo dei ricordi così alti ed ammirevoli. Dopo la vittoria parve a molti che tutto fosse finito: l’eroismo si riposò. Tutto ciò che viene dopo non ha più la stessa impronta, non ha più, oserei dire, la stessa serietà, ed ha bisogno di tutte quelle giustificazioni che s’invocano a favore dell’inesperienza. Si passava parte della giornata in istrada. Nei primi giorni si gironzava di crocchio in crocchio a sentir notizie strepitose, che venivan dai paesi di fuori, dalle provincie e da Venezia; o a sentir discussioni politiche, già torbide nella loro ingenuità. Poi, ogni tratto, una dimostrazione patriottica, o una funzione religiosa per vivi e per morti. Poi un ricevimento di qualche drappello di volontari, che veniva dalle città lombarde o da altre regioni. Eran drappelli di solito male in arnese o vestiti in modi bizzarri, che vociavano cose ancor più bizzarre, inneggiando alla concordia con grida fatte per distruggerla. Fra questi arrivi rammento quello d’una schiera di volontari napoletani condotti dalla principessa Cristina Belgiojoso Trivulzio, la quale li aveva arrolati, e ne faceva le spese. Tutti questi drappelli venivano poi riuniti a diversi Corpi di volontari, che mano mano partivano per il campo. Questi Corpi, in cui c’eran pure dei giovani ottimi e valorosi, erano male ordinati, e dimostravano l’insufficienza dei concetti e dei metodi coi quali si credeva dai più che si potesse condurre a fine la guerra. Allora c’erano anche quelli che credevano superflua la venuta di Carlo Alberto e dell’esercito piemontese! Le vie di Milano furono subito inondate da agitatori, da tribuni, da arruffapopoli, che sono l’indizio, come i vermi, d’un corpo in via di dissoluzione. Si dava una grande importanza alla Guardia Nazionale, che molti chiamavano seriamente il _Palladio della Libertà_; nome che le rimase anche per un pezzo. Era stata uno dei dogmi liberali del 1830, e quindi faceva parte dell’ortodossia del tempo. Tanti, che sarebbero stati pel disordine, passavano alla causa dell’ordine solo perchè vestivano l’uniforme di Guardia Nazionale. Quando, il 26 di marzo, entrarono dalla Porta Sempione il generale Passalacqua e il generale Bes con un corpo di belle truppe piemontesi, cinquemila uomini di fanteria e mille lancieri, il fatto commosse meno di quando la gente correva a vedere cinquanta genovesi o venti pavesi, od altri gruppetti di volontari, vestiti alla lombarda, col solito camiciotto di velluto e le solite penne. _Il 22 marzo_, giornale ufficiale del Governo Provvisorio, il giorno prima dell’arrivo delle truppe piemontesi, esortava i buoni milanesi a fare ad esse buona accoglienza, e a non badare a _malumori per conflitto d’opinioni, poichè la loro venuta era un concorso fraterno, e non un intervento politico, ed anzi i piemontesi ci sarebbero stati grati d’aver loro offerta l’occasione di mettersi con noi nell’impresa di cui si trattava_. I buoni milanesi, nella luna di miele della loro vittoria, erano gelosi che altri potessero venire ad acquistare un qualche alloro anch’essi, e forse maggiore. La vittoria li aveva inebbriati e accecati. Che dura lezione li aspettava tra poco! Per avere la Guardia Nazionale c’era da per tutto allora una smania quasi pari a quella che una ventina d’anni dopo ci fu per abolirla. Non era poco quindi l’affaccendarsi anche in Milano, in quei giorni, per ordinare la Guardia Nazionale, a piedi e a cavallo, per eleggere i graduati, per scegliere le uniformi, per stabilirne le prerogative e i servizî. Tutto era argomento di grandi discussioni e di gare; di gare anche tra quelli che avendo una bella barba aspiravano al grembiule di cuoio e alla scure dello zappatore. Quanti buoni padri di famiglia non ho veduto nelle parate, in grazia della barba, sfilare con l’uniforme e con l’aspetto truce del _guastatore_! Più serio e più commovente era l’affaccendarsi in tutte le famiglie, ricche e povere, per apparecchiare biancherie, filacce, bende, e cartucce per i soldati. Ricordo mia madre, e tant’altre signore, che da mattina a sera vi attendevano con passione e con scrupolo. Le cartucce fatte nelle famiglie venivano portate alla caserma del Genio, situata ove ora sorge il palazzo della Cassa di Risparmio; e lì era un continuo andirivieni di signore e signorine, che andavano a portare le cartucce fatte, o a ricevere istruzioni e munizioni per il loro compito giornaliero. A questo ufficio sopraintendeva il dottor Giuseppe Terzaghi, che undici anni dopo doveva essere mio collega, valente e amatissimo, nella prima Giunta Municipale di Milano risorta. Anche in ciò, come in tant’altre cose pubbliche, si procedeva con mezzi piccoli e inadeguati al bisogno, poco seri anche, ma pur rispettabili, per quell’alto e sincero sentimento che animava tutti; poichè la devozione alla patria, e i sentimenti generosi che avevano ispirata e diretta la rivoluzione, furono ancora l’ispirazione d’ogni atto in quei primi momenti della libertà. La proprietà e l’ordine furono rigorosamente rispettati, e c’era in tutti una gara di sentimenti generosi. Erano stati fatti prigionieri non solo molti soldati, ma moltissimi agenti della Polizia, tristi arnesi di rigori e di fatti odiosi, che rammentavano giorni nefasti e privati dolori. Eppure furono perdonati; _offriteli a Pio IX!_ era detto ingenuamente in un proclama dei primi giorni. Nessuna vendetta fu compiuta, nessun fatto di sangue venne a smentire la generosità dei vincitori; nessuna rappresaglia fu fatta per gli uccisi, e per molti atti inutilmente feroci a cui s’erano abbandonati, in alcuni punti della città, i soldati austriaci. Tra le cose poco serie d’allora, che ritrovo nella memoria, c’è anche un Circolo, tipico di quei giorni, e che si chiamava la _Palestra Parlamentare_. Era fatto, come diceva il suo nome, per preparare, con una ginnastica vocale, i futuri oratori della Camera; per trattare in astratto i maggiori problemi della politica e dell’amministrazione degli Stati; e per far piani di guerra e disegni politici per uso dell’Italia. La _Palestra_ era frequentata, naturalmente, da tutti i chiacchieroni disoccupati di Milano, che andavano a sfoggiarvi una rettorica vuota e comica. Confesso però che allora non dicevo così. Giovanetto e inesperto qual’ero, pigliavo tutte quelle chiacchiere sul serio, e invidiavo meravigliato la facondia di quegli oratori. Ma pazienza, se fossi stato solo; il guaio era che moltissimi applaudivano a quelle ciarle, e ci credevano. Così si diffondevano nel pubblico i più strani e deplorevoli concetti sulle faccende pubbliche; e ciò in momenti di tanta gravità. Avevamo la libertà da pochi giorni, e la _Palestra_ ne chiedeva le istituzioni e le forme a cui i popoli più civili non erano arrivati che dopo molti anni, e molte vicende. Mire precoci, che abbiamo vedute poi ripetersi anche più tardi. Uno degli argomenti su cui più si affannavano gli oratori della Palestra era quello della _Costituente_. Lo Statuto di Carlo Alberto, dato da poche settimane, doveva essere abolito, dicevano, e un’Assemblea Costituente doveva, a guerra finita, fare al Regno dell’alta Italia il regalo d’un nuovo Statuto. Si pensi quale Statuto, che specie di Costituzione, ci avrebbe regalato una _Costituente_ sorta in mezzo a tanta confusione di idee e a tanta inesperienza politica! La storia ce le ha mostrate più volte tali _Costituenti_ e tali Costituzioni sorte da esse; Costituzioni con le quali non si governa, e che conducono ai colpi di stato. Eppure il concetto della _Costituente_ si faceva strada ogni giorno più, ed era entrato nei propositi degli uomini politici più influenti, e dello stesso Governo Provvisorio, che doveva farne una condizione nell’atto di fusione col Piemonte. Inutile dire che anch’io, modestamente, ne ero fanatico; senza capirne nulla, si intende. Un piccolo episodio capitato, proprio a me, mi dimostrò in quei giorni come fossero interpretati i nuovi diritti del libero cittadino, che sentivo predicare alla _Palestra_. Stavo leggendo, un dopo pranzo, in mezzo a un gruppo numeroso di persone, un proclama del Governo Provvisorio affisso a un muro, quando a un tratto vedo una mano che mi rasenta il vestito, e mi strappa l’orologio. Mi volto di botto, e piglio pel collo il ladro. Questo protesta, grida, e si appella al pubblico contro di me. Grido anch’io, e reclamo il mio orologio. La gente ci si fa intorno, ascolta or l’uno or l’altro, e non sa a chi dar ragione. Finalmente si fa innanzi un buon cittadino, il quale sentenzia che per decidere la questione bisognava andare a un posto, ch’era vicino, della Guardia Nazionale, ma non alla Polizia «trattandosi, diceva, d’un fatto presunto ma non provato;» e si offre di accompagnarci. Tutti gli danno ragione, ed eccoci poco dopo tutti e tre al corpo di guardia. Il comandante del posto e i militi fanno circolo intorno a noi, e stanno a sentire le nostre ragioni con un contegno imparziale. Io chiesi innanzi tutto che si frugasse nelle tasche del mio contradditore, ma questo vi si oppose, perchè ciò era una violazione delle saccocce, contraria ai diritti d’un libero cittadino, come si diceva anche alla _Palestra_. Allora io proposi che ci conducesse tutti e due alla Polizia; ma anche ciò non fu gradito dal mio ladro, il quale rispose che se non spiaceva a me spiaceva a lui di attraversare la città in mezzo alle guardie. Allora il buon cittadino, il probo-viro, che ci aveva accompagnati, sentenziò una seconda volta, e disse: che potevamo bensì andare alla Polizia, se eravamo d’accordo, ma soli e senza accompagnamento di guardie. Questo parere fu trovato savio da tutti, anche dal ladro. Era sull’imbrunire, ed eccoci avviati noi due, pacificamente, dal corpo di guardia di S. Babila verso la Polizia, che risiedeva nella via di S. Margherita, attraversando la lunga viuzza Bagutta che a quell’ora era anche deserta. Io non ero molto tranquillo, a dir la verità, e mi domandavo come la sarebbe finita. La finì subito: come fummo vicini alla svolta della via Sant’Andrea, il mio compagno si guardò in giro, non c’era nessuno; allora mi diede improvvisamente un gran spintone, che mi fece perdere l’equilibrio; io andai a terra, dietro una barricata non ancora disfatta; e lui via a gambe; volli rincorrerlo, ma non lo vidi più. E non vidi più, s’intende, l’orologio!... Poco dopo ero a casa a raccontare l’avventura alla mia buona mamma; le misi le braccia al collo e piansi. Quell’orologio era il mio primo orologio d’oro, ed era l’ultimo regalo che mi aveva fatto il mio povero babbo. Un Circolo più serio della _Palestra_ e diversamente pericoloso, era sorto frattanto a Milano nell’aprile, sotto il nome di _Associazione Nazionale italiana_, fondato da Mazzini, e che aveva per organo l’_Italia del popolo_. Era un Circolo composto di soci prettamente repubblicani. Io avevo letto diversi scritti di Mazzini, e n’ero entusiasta. La sua fede nell’Italia e in Dio, il suo linguaggio mistico, umanitario, trovavano facilmente la via del mio cuore giovanile e della mia mente vergine di esperienza e di riflessione. Mio fratello Emilio, in quei giorni, aveva conosciuto Mazzini personalmente; io ero troppo giovane per procurarmi questo onore; ma avevo un gran desiderio di conoscerlo almeno di vista. La mia curiosità fu appagata, per la prima volta, in una circostanza che oggi i suoi correligionari crederebbero appena: lo vidi nel corteo della processione del _Corpus Domini_. Siccome in quei giorni tutto si faceva ancora in nome di Pio IX, e del connubio tra la patria e la religione, così anche la processione del _Corpus Domini_ era stata un avvenimento a cui aveva preso parte ogni ordine di cittadini. L’Arcivescovo era seguito da tutto il clero della città; c’era il Governo Provvisorio; c’erano tutte le autorità cittadine, e governative, e tutte le società, compresa l’_Associazione nazionale italiana_ e la redazione del giornale l’_Italia del popolo_, precedute da Giuseppe Mazzini. La processione fece un lungo giro per la città, ch’era tutta riccamente ornata a festoni, a bandiere e ad arazzi. Alla processione facevano ala tutte le legioni della Guardia Nazionale. Ma finiti gli sfoghi della concordia e della fratellanza, che abbracciava tutti, da Pio IX a Mazzini, in un medesimo amplesso, quella luna di miele cominciò a intorbidirsi. Dinanzi alle questioni positive della politica, e ai diversi indirizzi delle faccende pubbliche che ne erano la conseguenza, incominciavano a sorgere le divergenze, e le opinioni si raggruppavano intorno ai vecchi partiti politici e ai partiti in formazione. L’argomento che sollevò le prime discussioni tempestose fu quello della _fusione_, come dicevasi allora, e cioè dell’unione delle provincie lombarde col Piemonte. Chi voleva che la _fusione_ fosse votata subito, chi la voleva differita alla fine della guerra, e chi non la voleva affatto. Il partito della _fusione_ immediata era il più numeroso, come la votazione lo dimostrò; e infatti per la fusione ci furono 561 mila voti favorevoli e 681 contrari: ma gli altri due partiti erano i più chiassosi e irrequieti. Al primo partito appartenevano, naturalmente, i monarchici; agli altri due appartenevano gli ingenui, e tutti i repubblicani. I repubblicani poi erano in parte unitari, capitanati dal Mazzini, e in parte _federalisti_, capitanati dal Cattaneo; il quale in nome delle sue repubblichette dell’avvenire era diventato improvvisamente battagliero, e nemico acerrimo del Governo Provvisorio, di Carlo Alberto, dei monarchici e degli unitari. Il Governo Provvisorio, pur composto di degnissime persone, era alquanto deboluccio, e lo rendevano ancor più debole e incerto le lotte dei partiti, le dimostrazioni della piazza e gli attacchi dei giornali. Talchè, sulla fine del maggio, un certo Urbino, capitanando una mano di esaltati, potè avere l’audacia di invadere il Palazzo Marino e tentare di rovesciare il Governo Provvisorio. Fu un atto breve, insensato, e subito represso, ma che dimostrò come nell’animo di parecchi fosse penetrata la convinzione della debolezza del Governo. I giornali che più vivamente attaccavano il Governo Provvisorio erano l’_Italia del popolo_, organo di Mazzini, la _Voce del popolo_ in cui scrivevano alcuni giovani sotto la direzione del dottor Pietro Maestri e di Romolo Griffini, e l’_Operaio_ diretto da Pietro Perego, il quale ritornati gli austriaci offrì i suoi servigi a Radetzki, e diresse a Verona un giornale ufficiale del Governo militare. L’_Operaio_ era un violento e tristo libello giornaliero, in cui, è doloroso il dirlo, alle volte sfogavano le loro ire partigiane contro il Governo Provvisorio, il Cattaneo ed Enrico Cernuschi. Il Governo Provvisorio era difeso da un giornale ufficiale, _Il 22 Marzo_, in cui scrivevano G. Carcano, L. Sala, E. Broglio, ed altri. Il Cernuschi, che veniva da una modesta famiglia di Monza e che doveva finire suddito francese e milionario, fu uno dei tipi più originali della rivoluzione milanese del quarantotto. Quantunque devoto a Cattaneo, fu tra quelli che vollero la rivoluzione, e vi diede prove di valore. Era un giovane d’ingegno, di qualche coltura e di molto coraggio. Di opinioni repubblicane e di gusti signorili, frequentava le famiglie più aristocratiche di Milano, e faceva l’agitatore contro Carlo Alberto e contro i monarchici; democratico fino a collaborare nel giornale plebeo l’_Operaio_, amava mostrarsi nelle migliori società, conservando abitudini ed amicizie distinte. Vestiva con una certa eleganza affettata, e diversamente dagli altri: aveva il viso completamente sbarbato; portava un cappello basso a larghe tese, sempre la giubba nera, un’ampia cravatta bianca, e il gilè pur bianco e a larghi risvolti alla Robespierre; in ogni stagione non usava che scarpini di pelle lucida. Durante i mesi del Governo Provvisorio, il Cernuschi, bisognava pur dirlo, non fu che uno sterile agitatore; l’anno dopo, come è noto, chiuse a Roma con valore e dignità la sua vita di rivoluzionario italiano, per diventare poi un abile e fortunato finanziere francese. Non prese più nessuna parte agli avvenimenti patrii, e si fece francese. Le agitazioni politiche, le dimostrazioni, le feste patriottiche, in mezzo a un popolo impressionabile e inesperto, nuovo alla politica, inconscio della grave condizione in cui si trovava, esercitavano una pessima influenza sull’andamento della cosa pubblica. Ogni momento si batteva la generale, e accorreva la Guardia Nazionale: ora c’era una dimostrazione per una vittoria; ora la partenza o l’arrivo di volontari; ora qualche forestiero illustre da festeggiare, e nominerò tra questi il poeta polacco Miçkzewich, che mise anch’esso sossopra mezzo Milano. E intanto l’ordinamento delle forze militari, della difesa e della finanza, procedevano a rilento e in modo affatto inadeguato al bisogno. Li rammento ancora quei poveri volontari mal vestiti e mal disciplinati; e quel battaglione di studenti e di seminaristi, ai quali non s’era data neanche una propria divisa militare. Li avevano vestiti con certe giubbette ridicole trovate nei magazzini delle guardie austriache di Polizia, non mutandoci che le mostre gialle in mostre rosse. Se ne rideva; ma avrebbero potuto ispirare piuttosto un sentimento di mestizia. Quei bravi giovanotti, ch’erano il fiore degli studi e delle speranze, per un concetto ideale, ma imprevidente, partivano riuniti tutti in un medesimo corpo; cosa che avrebbe resa più grave la sciagura se nella guerra quel battaglione fosse stato colpito da un disastro che lo avesse in gran porte distrutto, annientando d’un colpo tante vite sulle quali la patria sperava. Andai anch’io a vederli partire. Partivano tra gli evviva, tra gli abbracci, tra le lagrime delle famiglie, che li attorniavano e li baciavano. Era uno spettacolo, come tutto a quel tempo, pieno di poesia e di imprevidenza. Tra quegli studenti, e quei chierici, ci avevo anch’io dei cugini e degli amici: tra i chierici ricordo il cugino Ignazio Borgazzi, che poi morì missionario a Borneo, e tant’altri, che più tardi dovevano diventare l’onore di quel clero lombardo, il quale sapeva così felicemente riunire il sentimento della religione e della patria. In quell’anno io ero studente di ginnasio, e prendevo le mie lezioni in casa. È facile immaginarsi che annata scolastica fosse quella; un bollettino colle notizie gridato da uno strillone, o un rullo di tamburo, bastavano al professore e allo scolaro per interrompere la lezione e farli scendere in strada. Nel luglio poi si fecero degli esami in fretta e in furia, nei quali si veniva licenziati senza che si chiedesse molto, e con una specie di assoluzione. Mio fratello Emilio era studente dell’Università, ma non credo che le _Pandette_ lo occupassero molto: lo occupavano invece la politica, gli amici, i circoli, i ritrovi. Egli aveva fatto la conoscenza personale di Mazzini, il quale aveva per lui molto affetto e molta predilezione. Al Mazzini piaceva circondarsi di giovani intelligenti, per farsene dei collaboratori e dei seguaci; ma seguaci obbedienti. E ciò otteneva facilmente, pel molto prestigio ch’egli sapeva esercitare sulle menti giovanili e entusiaste. Mio fratello era pure legatissimo con Carlo Tenca, che aveva diretta in quegli anni la _Rivista Europea_, e intorno a cui si riunivano, come intorno al Correnti, molti giovani valenti. Per la _Rivista Europea_, ch’era un’ottima Rivista mensile, mio fratello, pur giovanissimo, aveva già scritto diversi articoli, che sentivo lodare. Io ero troppo giovane per appartenere a simili società e a simili ritrovi politici; e dacchè in casa del Correnti, ora assorto nei lavori del Governo Provvisorio, non c’eran più le riunioni come in passato, io dovevo accontentarmi delle conversazioni in casa dei parenti, dove accompagnavo mia madre. Le case dove s’andava di solito eran due; quella della nonna materna, e quella d’uno zio Luigi Borgazzi, il quale aveva una numerosa famiglia. Mia nonna, donna Rosa Borgazzi Caimi, aveva allora 90 anni, e presso di lei si radunavano la sera alcuni dei suoi figli e delle sue figlie; tutte persone mature, serie, un po’ pesanti, ad eccezione di mia madre, ch’era la più giovane di tutte, e conservava uno spirito fine ed arguto. Primeggiava in quella società mio zio Giovanni Borgazzi, ch’era anche il mio tutore, uomo colto, grave, e che aveva occupato non so quale alto posto nell’amministrazione del primo Regno d’Italia. Sua moglie, donna Elena Taverna, era sorella di quel conte che fondò in Milano l’Istituto dei sordo-muti poveri di campagna. Gli altri fratelli erano: don Luigi, amico intimo del conte Mellerio e di tutti i maggiorenti dei conservatori clericali di Milano; don Gaetano, che in sua gioventù era stato insieme col fratello Carlo (morto parecchi anni prima) ufficiale nell’armata napoleonica, e aveva sofferto una lunga prigionia in Russia; e infine don Giacomo, il quale non aveva fatta nessuna delle cose serie che avevano fatte i suoi fratelli, ma si dava l’aria di averne fatte di più; e da mattina a sera era sempre a cavallo. Le sorelle di mia madre, ad eccezione della zia donna Giuseppina Campeggi, non avevano l’aria grave dei fratelli, e si distinguevano tutte per una grande bontà e per una certa piacevolezza di spirito. Donna Giuseppina, invece, la quale in sua gioventù doveva essere stata un’assai bella donna, aveva l’aria severa e matronale, che le veniva forse dalla lunga convivenza col suo defunto marito, ch’era stato presidente d’una Corte d’Appello durante il Regno napoleonico. Lo ricordo ancora quello zio, sempre vestito di nero, con la cravatta bianca a due giri, e con la parrucca incipriata. Quand’ero piccino, gli zii Campeggi alle volte mi volevano a pranzo, ma la mia soggezione era tale che non parlavo finchè ero con loro. Finito il pranzo, lo zio diceva ogni volta con solennità: «I ragazzi dopo pranzo devono _sollazzarsi_;» e per _sollazzarmi_ mi consegnava a una vecchia cameriera, la quale mi faceva giocare al _gioco dell’oca_. Questi miei zii e zie avevano pressochè tutti molti figlioli, parecchi dei quali erano giovani d’ingegno e d’energia, e in quei giorni prendevano parte attiva in vari modi agli avvenimenti della rivoluzione. La conversazione nel salotto della nonna si svolgeva gravemente, e i discorsi erano press’a poco sempre i medesimi. La rivoluzione contro gli austriaci, che non eran più quelli di Maria Teresa, era stata accolta con qualche indulgenza, perchè fatta al grido di _viva Pio IX_; ma era osservata con diffidenza. Sugli avvenimenti del giorno però non si parlava che sotto voce, perchè nessuno aveva osato dire a donna Rosa che c’era stata una rivoluzione. Questa parola, che si univa ai ricordi della rivoluzione giacobina, l’avrebbe fatta cadere in deliquio. Durante le Cinque Giornate erano riusciti a farle credere che un tempaccio orribile impedisse ai soliti della conversazione di venire da lei, aggiungendo per di più che le cannonate erano tuoni. La grave età di lei, e la sordità, avevano reso possibile il lasciarla in questo inganno; ed essa, nei due o tre anni che sopravvisse al ’48, ricordava di tanto in tanto quel gran _temporale_ che per cinque giorni aveva interrotta la sua conversazione, obbligandola a tener chiuse le imposte delle finestre. Più bella e più lieta era l’altra conversazione dove mia madre conduceva me ed Enrico: quella in casa di suo fratello, don Luigi. Ci si andava tutte le domeniche, ed era un allegro ritrovo di giovani e di belle fanciulle, figli di parenti e di amici. Lo zio, che sarebbe stato un vero spegnitoio, usciva di casa subito dopo pranzo, e non tornava che a mezzanotte. Intanto sotto gli auspicî della zia, ch’era una donna buona e simpatica, si faceva il chiasso. Eravamo tutti assai giovani; si giocava, si ballava, e si cantavano gli inni patriottici lietamente. Le belle cuginette! le amavo fraternamente un po’ tutte, per non far torto a nessuna. CAPITOLO VII. 1848. V. _Sommario:_ Primi timori e prime inquietudini. — Il Ministro Wessemberg offre la _pace al Mincio_. — Ripulsa del Governo Provvisorio. — Carlo Alberto e i suoi generali. — Armamenti affrettati. — Offerte generose delle principali famiglie milanesi e lombarde al Governo Provvisorio. — Cattive notizie. — Allarmi. — Agitazione pubblica. — Nomina del Comitato di difesa. — Fanti, Maestri, Restelli. — Mobilitazione della Guardia Nazionale. — Mio fratello Emilio si arruola tra i volontari di Garibaldi, da poco venuto d’America. — Mia madre parte da Milano con me e con mio fratello Enrico. I bei giorni della pubblica felicità cominciavano a tramontare. I loro ultimi raggi sereni erano stati, alla fine di maggio, il combattimento di Goito e la resa di Peschiera. Quei fatti erano stati accolti con uno scoppio di gioia che ricordava il 22 marzo. Ma vennero presto a turbarla le brutte notizie della sconfitta di Curtatone e di Montanara, dei combattimenti dubbiosi di Rivoli, della defezione del re di Napoli, del ritiro delle truppe papaline, e poco dopo della caduta di Vicenza. La vittoria è un gran talismano, e guai a chi se la lascia sfuggire: noi ne facevamo in quei giorni la prima dolorosa esperienza. A quegli indizî che la fortuna cominciava ad abbandonarci, si vedeva già in tutti un’inquietudine, un turbamento, che rannuvolavano gli animi. Andava vieppiù crescendo un vago malcontento; sorgevano accuse e sospetti su tutto e su tutti; le opinioni e le discussioni, specialmente politiche, si facevano più aspre. Le fantasie fino ad allora inebriate dai felici successi, richiamate improvvisamente alla realtà, cercavano la spiegazione dei loro disinganni con le ipotesi più strane. Si principiava ad almanaccare su possibili tradimenti, e a cercare i traditori e le spie. Incominciava così quella discordia degli animi, quell’eccitazione morbosa, quella strana disposizione a negare i fatti per accogliere ogni più strana fantasticheria; incominciava insomma quell’agitazione nella opinione pubblica, che aggravò i nostri disastri e lasciò lunghe e dolorose conseguenze. Cagione di sospetti e di accuse era stata in quei giorni anche la voce corsa che il Governo Provvisorio e Carlo Alberto avessero avviato trattative con l’Austria ad ottenere la Lombardia fino al Mincio. I fatti smentirono la diceria, ma i sospetti continuarono. La verità era ben diversa. Come è noto, nella seconda metà di giugno il Governo austriaco, in seguito a ufficî fatti dall’Inghilterra, erasi dimostrato propenso ad avviare delle trattative di pace con Carlo Alberto e col Governo Provvisorio sulla base della cessione della Lombardia, e il barone Wessemberg, ministro degli affari esteri, ne aveva fatto la formale proposta con un dispaccio ufficiale diretto al Governo Provvisorio di Milano. Questo con una Nota nobilissima, forse più generosa che meditata, aveva respinta l’offerta, dicendo che non voleva fare d’una causa italiana una causa lombarda; poi aveva incaricato uno de’ suoi membri, Antonio Peretta, che si trovava al campo, di informarne il Re Carlo Alberto. I nemici del Governo Provvisorio negarono allora la ripulsa data e il documento del Wessemberg, ma ora tutto ciò è noto. Il Re, che conosceva la iniziativa inglese, ascoltò la lettura della Nota del Governo Provvisorio; ascoltò in silenzio e pensieroso le ragioni, che l’avevano ispirata e che il Beretta gli espose: si contentò di rispondergli, con molta nobiltà e con finezza, queste parole: — _La risposta del Governo Provvisorio è degna della città delle Cinque Giornate_, — e lo congedò invitandolo a passare in una stanza vicina ove erano radunati alcuni generali e lo Stato Maggiore. I generali furono più espliciti, e meno riguardosi del Re. Dissero al Beretta che il Governo Provvisorio dimostrava di ignorare affatto la realtà delle cose; gli dimostrarono che il maresciallo Radetzki aveva nel frattempo raddoppiate le sue forze con truppe nuove venutegli da poco, mentre l’esercito piemontese era affaticato e diminuito senza la speranza di rinforzi, poichè tutte le riserve erano al campo. I generali poi si lagnavano che i soccorsi dei vari Stati italiani fossero venuti a mancare, e che la Lombardia stessa non avesse dato tutto ciò che si sperava da essa; infine conclusero dicendo che se il maresciallo Radetzki avesse fatto un energico movimento offensivo, l’esercito piemontese non sarebbe più stato in grado di respingerlo. Il Beretta riferiva subito tutto ciò al Governo Provvisorio, e le sue lettere sono ora conservate nell’archivio milanese del Museo del Risorgimento. Intanto che il Governo Provvisorio non accoglieva le trattative per la pace, anche Radetzki, che aveva avuto l’ordine dal suo Governo di prestarsi alla conclusione d’un armistizio, si adoperava vigorosamente, perchè tale progetto fosse respinto; e mandava a Vienna il generale Schwarzenberg per dimostrare all’Imperatore ch’egli si riprometteva in breve di respingere l’esercito piemontese e di rientrare a Milano. Così non ebbe allora che pochi giorni di vita, tra le ripulse d’ambo le parti e gli sdegni dei patrioti più accesi, quel progetto della _pace al Mincio_, che dovevamo poi vedere effettuato dopo undici anni di sventure e di dolori per l’Italia. Quegli armamenti, che sarebbero stati preziosi un mese prima, venivano allora affrettati alla meglio, e si vedevano, pur troppo tardi, partire pel campo alcuni corpi di truppe che si erano andati lentamente formando. Partiva, tra questi, un reggimento di fanteria arruolato a spese del Duca Uberto Visconti di Modrone, che n’era il colonnello; reggimento bene equipaggiato, ma composto di gente raccogliticcia, poco istruita e con l’aria poco militare. Altre famiglie dell’aristocrazia milanese avevano contribuito con nuove offerte generose alle spese di guerra, e tra l’altre ricordo la famiglia ducale Litta che aveva allestita a proprie spese una batteria completa d’artiglieria. Ma tutto ciò non era accompagnato da quei vigorosi provvedimenti governativi che sarebbero stati richiesti dalle circostanze. Queste non erano abbastanza valutate nè dal Governo, nè dal paese. Un nuovo e maggior senso di timore e di scoraggiamento cominciava, sul finire del luglio, ad agitare sempre più gli animi. Ogni giorno arrivavano soldati, feriti o ammalati, dagli ospedali delle città più vicine al campo, che ne rigurgitavano. Avevano l’animo depresso; diffondevano notizie scoraggianti, e si vedeva che anche fra le truppe piemontesi il morale era scosso, e la fiducia diminuita. Negli ultimi giorni del mese di luglio si sparse a un tratto la notizia d’una grande battaglia e d’una grande vittoria. Poi si disse che la battaglia continuava; e il giorno dopo incominciarono a girare sommessamente alcune cattive notizie, alle quali nessuno credeva, ma che lasciavano tutti in un certo allarme e in una penosa ansietà. Allora non c’erano telegrafi e le notizie non arrivavano così presto, nè precise. L’ansietà cresceva ogni ora, e le notizie di fatti disgraziati venivano da ogni parte ad accrescerla; notizie confuse, contraddette, confermate, che suscitavano negli uni commozione e dolore; in altri disperazione e furore. Da quel momento fu un continuo succedersi di cattive notizie, di allarmi, di recriminazioni, di progetti inconsulti; le sole voci ascoltate, eran quelle che denunziavano misteriosi tradimenti. Ogni volta che si fermava una carrozza alla porta del Palazzo Marino, e ne scendeva un uffiziale, o qual che altro che avesse l’aria di venire dal di fuori, la folla accorreva sulla piazza di San Fedele, e a grandi grida si chiedeva che i membri del Governo venissero al balcone a dar notizie che fossero, caso mai, allora arrivate. Il Governo, la cui autorità andava indebolendosi ogni giorno più, cedeva a tutti i desideri della piazza: e così ogni momento si vedeva qualcuno del Governa stesso, o qualche segretario, che veniva a leggere dal balcone lettere e dispacci. In mezzo a tanta serietà di avvenimenti non mancavano allora le scene più comiche. Fra il balcone del palazzo e la piazza si incrociavano dei dialoghi, succedevano dei battibecchi. Un giorno il conte Cesare Giulini, stanco d’aver dovuto uscire sul balcone troppe volte, gridò alla folla indispettito: — A questo modo non si governa! — _E ti governa no, mincion_ (E tu non governare, minchione) — gli rispose una voce dalla piazza. Quest’episodio lo raccontava poi, ridendo, il conte Giulini stesso. Il pericolo si faceva intanto d’ora in ora più grave, e il Governo Provvisorio deliberò l’istituzione d’un _Comitato di pubblica difesa_ che fosse centro di tutti i provvedimenti straordinari richiesti dalla gravità del momento. Il 28 luglio venivano nominati membri del Comitato il generale Manfredo Fanti, l’avvocato Francesco Restelli e il dottor Pietro Maestri; tre oneste e intelligenti persone, e a quel tempo tutti e tre repubblicani. Anche questa circostanza non era fatta per rafforzare tra le diverse autorità civili e militari quella fiducia e quella concordia ch’erano tanto necessaria in quei supremi momenti. Il Comitato di pubblica difesa emanò rapidamente decreti sopra decreti, di finanza, di difesa e d’ordine pubblico. Ma siccome non è coi decreti dell’ultim’ora che si mutano le sorti preparate da lunghi errori, così quei provvedimenti farraginosi dovevano riuscire inefficaci in mezzo al trambusto e alla confusione generale. Il Comitato aveva decretato l’arresto e il giudizio statario per coloro che diffondevano _notizie infondate e allarmanti_; ma il pubblico credeva più alle notizie allarmanti e infondate che alle minaccie del Comitato. Il Governo Provvisorio fu allora, e poi, accusato di debolezza e di incapacità, e soprattutto da parte di quelli che avevano maggiormente contribuito a scuoterlo e a indebolirlo. Composto di egregie persone, indicate dalla pubblica opinione per la loro rispettabilità, per l’ingegno, per l’onestà, se non fu sempre pari all’ufficio suo, bisogna pur dire che anche l’intero paese fu inferiore a ciò che le circostanze esigevano. Il Governo Provvisorio ebbe le qualità e i difetti dei propri concittadini di quel tempo. Il governare in un modo diverso, e cioè con mano più vigorosa, rimorchiando tutta la corrente delle illusioni d’allora, sarebbe stato pressochè impossibile. Ci sarebbe voluta una mente unica e possente che si fosse levata al disopra di tutti. Ma quella mente non ci fu, nè gli avvenimenti la fecero sorgere. Tra i molti atti patriottici che onorarono i membri del Governo Provvisorio, voglio qui rammentarne uno, che pochi ricordarono, e che ne rispecchia a un tempo le qualità e i difetti. Il Governo stretto da difficoltà finanziarie, e non sapendo provvedere coraggiosamente a una finanza che rispondesse ai più forti bisogni, cercò di supplirvi con un progetto nobile e generoso. Non riuscendogli di trovare un prestito, anche in piccole proporzioni, per le spese urgenti, pensò di iniziare una sottoscrizione tra i principali proprietari di Milano e di Lombardia, i quali coi loro beni offrissero una garanzia ipotecaria per un prestito di dodici milioni. La sottoscrizione, in capo della quale erano i nomi di Casati, Borromeo, e di altri membri del Governo Provvisorio, raggiunse subito la somma domandata, sicchè il Governo potè affidare al banchiere Carlo Brot, ginevrino stabilito a Milano, amico della casa Rothschild, l’incarico di procurare il collocamento di quei beni ipotecari. Il signor Brot stava compiendo la sua missione a Parigi, quando vennero a troncarla le sfortune della guerra. Alcune lettere del signor Brot, che si trovano al Museo del Risorgimento, fanno fede di questo atto che certamente onora assai i membri del Governo Provvisorio e molti tra i principali possidenti di Lombardia[16]. Gli ultimi atti del Governo Provvisorio e i primi del Comitato di difesa, che gli succedette, dimostravano chiaramente la verità delle notizie allarmanti che arrivavano dal campo, e della gravità degli avvenimenti. Alla fiducia, alla spensieratezza succedevano l’allarme e lo spavento che d’ora in ora si diffondevano per la città, dandole un aspetto agitato e sinistro. La gente seria, di ogni condizione e d’ogni età, andava ad arrolarsi nella Guardia Nazionale mobile, accorreva nelle campagne ad apparecchiare la leva in massa, o faceva del suo meglio per aiutare il Governo nei suoi estremi provvedimenti. I ciarloni e gli arruffoni, che nei momenti gravi non mancano mai, schiamazzando, chiedendo disposizioni violente, impossibili, accrescevano il disordine e la discordia. Parecchi, presi dal panico, lasciavano la città. In quei giorni mio fratello Emilio era partito per Bergamo, con alcuni suoi amici, per arrolarsi in un corpo di volontari che Garibaldi, venuto da poco dall’America, stava riunendo. I garibaldini non portavano allora la camicia rossa, che doveva venire inaugurata dodici anni dopo dai Mille; avevano un modesto cappotto grigio, e solo gli ufficiali, ch’eran quel manipolo che Garibaldi aveva condotto con sè da Montevideo, vestivano un’elegante tunica rossa, con paramani e risvolti verdi, tutta ornata di bottoncini d’oro. «Ecco un giovane che vuol morire con noi,» aveva detto Garibaldi presentando Emilio a Giacomo Medici, ch’era capitano d’una di quelle compagnie. E così Emilio fu arrolato. Chi avrebbe detto all’uno e all’altro, in quei momenti di sciagura e di speranze perdute, che si sarebbero ritrovati accanto un giorno, l’uno Generale e l’altro Commissario del Re di Piemonte, varcando il Ticino, e sulla via del trionfo? Il mio zio e tutore Giovanni Borgazzi venne una mattina da mia madre e la persuase a lasciar Milano, su cui si avanzava ormai rapidamente l’esercito austriaco. Così fu decisa la partenza; e non c’era tempo da perdere, perchè il pericolo cresceva d’ora in ora, e ogni indugio poteva rendere più pericoloso il partire che il rimanere. Come descrivere l’angoscia di quei momenti! Eppure alla severa scuola del dolore la generazione di quel tempo, e la nuova che le succedeva, dovevano imparare quelle virtù che sole potevano dar loro una Patria. NOTA. [16] Subito dopo la rivoluzione fu aperta in Milano una sottoscrizione per offerte alla causa nazionale, ossia per le spese di guerra. La sottoscrizione fu accolta dai cittadini con grande entusiasmo e durante i quattro mesi giunse a quasi tre milioni. Diamo i nomi dei principali offerenti: Duca Antonio Litta, Conte Giulio e Duchessa madre L. 154 mila e una batteria; Duca Tommaso Scotti L. 100 mila; Conte Giuseppe Archinto L. 100 mila; Marchese Arconati L. 100 mila; Conte Castelbarco L. 50 mila; Conte Taverna L. 60 mila; Duca Melzi L. 70 mila; Arnaboldi L. 50 mila. Dalle 10 alle 20 mila lire: D’Adda, Arese, Soncino, Crivelli, Dal Verme, Greppi, Prinetti, Annoni, Ponzone, Bolognini, Besana, ed altri. Il Cattaneo parla sovente dell’avarizia dei patrizî milanesi. — (_Cattaneo, Archivio Triennale_). Intanto veniva decretato dal Governo Provvisorio un prestito forzoso nella Provincia Lombarda di cinque milioni portato poi a quattordici, e un prestito volontario. Poi veniva aperta un’offerta di cavalli, di argenterie e di oggetti preziosi. All’offerta di argenteria contribuirono soprattutto le famiglie patrizie, con una larga generosità, spogliandosi di argenterie artistiche, antiche, preziose, per mandarle alla Zecca, con slancio più generoso che ragionevole. All’offerta di oggetti preziosi, grandi e piccoli, contribuirono tutte le classi cittadine, anche povere; e non si possono rileggere quelle offerte che con commozione. Una finanza severa avrebbe provveduto meglio ai bisogni del Governo, ma allora si preferiva una finanza sentimentale. Pochi mesi dopo, ai provvedimenti severi ed energici pensò il Governo austriaco per proprio conto. CAPITOLO VIII. 1848. VI. _Sommario:_ La partenza da Milano con due mie zie e la Contessa Sormanni. — Attitudine minacciosa dei contadini. — Si parte per Bellinzona in un omnibus sgangherato. — L’aspetto di Bellinzona. — Le notizie della Contessa Sormanni. — Sequestri. — Volontari e soldati sbandati. — Gustavo Modena. — Vado a Lugano alla ricerca di Emilio. — Mi perdo per strada sul monte Ceneri. — A Lugano ritrovo Emilio. — Casa Kramer Berra. — Mazzini. — Preparativi per una spedizione in Val d’Intelvi. — Cattivo risultato della spedizione. — Gli emigrati a poco a poco si disperdono, alcuni vanno in Piemonte, o in Francia. — Altri rientrano in Lombardia. — Mio fratello va a Genova e a Pisa. — Mia madre, con me ed Enrico, nell’ottobre a Tirano. Con mia madre, che partiva con me e con mio fratello Enrico, si univano due sue sorelle, donna Carolina Minunzi e donna Giuseppina Campeggi, e due sue nipoti. La Campeggi era accompagnata da una invisibile amica, la contessa Sormanni; una vecchia signora, d’origine non so se parmigiana o modenese, che aveva passata la sua gioventù in una di quelle piccole corti, e che non capiva altro nè parlava d’altro che di ciò che vi aveva veduto e sentito. Venuta a Milano, ove aveva maritata una figlia, s’era grandemente affezionata a mia zia donna Giuseppina Campeggi, che alla sua volta l’amava molto, pur strapazzandola costantemente, anche quando era del suo parere. Si andò tutti insieme in ferrovia fino a Monza, e siccome allora la ferrovia non andava più in là, si presero alcuni legnetti per recarci a Como. La strada da Monza a Como presentava ogni tratto delle scene tristi, e non era senza pericoli. Sulle piazze dei paeselli, o lungo le strade, si vedevano affollate, o si incontravano, delle turbe di contadini che, chiamate in quei giorni dal decreto della _leva in massa_, avevan l’aria di popolazioni insorte più che di gente che accorresse alla difesa della patria. Da quelle turbe partivano voci minacciose, e anche i nostri modesti legnetti erano continuamente salutati dalle grida di: _morte ai signori_. Le carrozze che avessero l’aria signorile venivano fermate, o obbligate a retrocedere, fra le ingiurie e le minacce. Dappertutto c’era allarme e panico, e si vedevan vecchi, donne, fanciulli che fuggivano con le masserizie sulle spalle, e sempre imprecando ai signori. Ai signori imprecava anche una canzone che udivo cantare, mista di patriottismo e di odii, che oggi si direbbero anarchici, e che aveva per ritornello: Nè a Marian nè a Cantù I tedesch ghe tornen pù E crepa i sciori. Eppure i contadini di Lombardia non erano generalmente nè nemici dei proprietari, nè fautori dell’Austria; anzi tra proprietari e contadini c’erano di solito dei rapporti di benevolenza. Per l’Austria, i contadini, non avevano veramente amore, ma rispetto e timore: gran numero di essi passavano sotto le armi otto anni di seguito effettivi, poi due nella riserva, nei paesi e nelle fortezze del vasto impero austriaco; ne ritornavano educati a una severa disciplina e ad un grande concetto della potenza dell’Austria. Il _tedesco_, come dicevano, era per essi il padrone dei padroni; e nei loro casolari veniva ripetuta una leggenda che narrava come la famiglia dell’Imperatore discendesse dai parenti della Madonna. Nel 1848, l’entusiasmo generale, lo sfacelo momentaneo del governo austriaco, l’influenza dei proprietari e dei preti, che in nome di Pio IX s’erano gettati con entusiasmo nel movimento nazionale, erano state altrettante buone ragioni per indurre i contadini a prender parte anch’essi, senza capirne molto, agli avvenimenti del marzo. Ma venne il giorno delle cattive notizie. Nelle campagne si diffusero rapidamente voci strane e spaventose sulle vendette e sulle sevizie che gli austriaci avrebbero esercitate anche sui contadini, se questi si fossero mantenuti d’accordo coi signori; i preti s’erano, in buon numero, fatti più cauti e riservati, poichè Pio IX aveva abbandonata la causa della guerra per l’indipendenza; e intanto, in mezzo ai timori e alle incertezze, non era mancata, come sempre nei giorni della sventura, l’opera dissolvente e perversa dei tristi d’ogni colore. Ritornando al nostro viaggio, non ci fu facile trovare delle vetture che da Como ci conducessero a Bellinzona, dove eravamo diretti. Finalmente, dopo molte ricerche, si trovò un vecchio _omnibus_, mezzo sconquassato e fuori d’uso, nel quale, pigiati, e silenziosi ci mettemmo in viaggio e passammo il confine con quello schianto dell’animo di chi non sa, nè quando, nè come, lo potrà rivarcare. Ma siccome anche nei momenti più malinconici della vita capitano talora dei casi che destano improvvisamente un’ilarità irrefrenabile, così ecco a un tratto che nel fitto della notte si spezza uno dei lunghi sedili dell’_omnibus_, e metà della compagnia si trova seduta sul fondo colle ginocchia che toccavano il mento. Nessuno s’era fatto male; ma la contessa Sormanni, a buon conto e senza scomporsi, con voce alta e solenne prese a intonare le preghiere colle quali si raccomandano le anime in _articulo mortis_. Negli atteggiamenti nostri dopo quell’avventura, e nella voce della contessa, c’era qualcosa di così comico che si dette tutti in una lunga risata. L’accomodare quel sedile non fu possibile, e metà della compagnia dovette rassegnarsi a viaggiare tutta la notte a quel modo. La contessa Sormanni, come ebbe ben constatato che eravamo tutti vivi, prese a recitare, senza cambiar voce, un rendimento di grazie, seguito poi da un rosario che finì con una preghiera speciale pei viaggianti, pei pericolanti, e pei principi cristiani e regnanti... Arrivati a Bellinzona, nella previsione che il nostro soggiorno non sarebbe stato breve, ci alloggiammo tutti in un appartamento ammobigliato nella casa di certi signori Moro. Intanto, in Lombardia gli avvenimenti precipitavano. Ogni giorno era un succedersi di tristi notizie, e presto ci giunse quella della capitolazione di Milano. Non essendoci allora mezzi rapidi di comunicazione, le notizie giungevano tardi, non era facile appurarle, e l’incertezza e le contraddizioni rendevano tanto più angosciosa l’aspettativa. Si era sperato sino all’ultimo. Si era creduta per un momento possibile quella difesa di Milano _ad ogni costo_, che, come dicevano i proclami verbosi di quei giorni, doveva ristaurare le sorti della guerra. Si pensi dunque con quale dolore sentimmo l’entrata degli austriaci in Milano. La contessa Sormanni, che credeva un dovere della sua pietà il consolare gli afflitti, mentre poi nel fondo del suo animo era meno afflitta di noi, ogni tanto usciva di casa e girava per le piazze e nei caffè in cerca di qualche notizia che a suo parere dovesse esserci di conforto. Di solito non riusciva che a impazientirci di più, e a procurarsi una qualche strapazzata della sua amica, la zia Campeggi; poichè bisognava sapere che la zia amava sapere le notizie e i fatterelli, ma quelli soltanto che le andavano a genio, non i fattacci, e perciò non leggeva giornali; a Milano aveva un segretario, che tra gli incarichi, aveva quello di andare dopo pranzo al caffè a leggere la _Gazzetta di Milano_ per riferirle poi quelle novità che non la disturbassero, e anzi le potessero piacere. La buona contessa, che conosceva i gusti della sua amica, non cessava di andare in cerca di notizie buone e confortevoli; ed eccola un giorno, poco dopo la resa di Milano, rientrare in casa tutta festosa, con un giornale in mano, gridando: «buone notizie, buone notizie!» Tutti le si fecero intorno. La buona notizia era la nomina del principe Felice di Schwarzenberg a Governatore di Milano. Ci fu un urlo di impazienza e di stizza. «Come?» esclamava la contessa. «Non sapete chi sia il principe Felice di Schwarzenberg? parente di case regnanti, e quasi un principe del sangue egli stesso! Non sapete che la sua nomina è per Milano un onore, quasi come se avessero rimandato il Vicerè!» La povera contessa si allontanò brontolando e chiamandoci incontentabili. Pochi giorni dopo veniva pubblicata una _Notificazione_ del maresciallo Radetzky, della quale rimase mortificata anche la buona contessa, che nascose il giornale. Il maresciallo sottoponeva a una contribuzione straordinaria di venti milioni 189 cittadini, scelti tra quelli che avevan avuto cariche dal Governo Provvisorio, o avevano favorito la rivoluzione, a suo criterio. L’elenco dei colpiti incominciava col nome della principessa Belgiojoso, tassata per 800 mila lire; e poi venivano i nomi delle principali famiglie e dei più cospicui cittadini di Milano e delle Provincie Lombarde, con tasse che salivano dalle venti mila lire al mezzo milione. Non era possibile riscuotere tali somme in quei momenti, mentre il paese era esausto pei sacrifici fatti, e i cittadini maggiormente tassati erano assenti. Ma il maresciallo aveva bisogno di denaro, perciò in parecchi casi si contrattava, e si ottenevano dei forti ribassi pur di presentarsi col denaro alla mano. A molti di quelli che non avevano potuto pagar subito furono messi sotto sequestro i beni, e per molti ciò fu una grave rovina. Gli onesti non volevano farsi sequestratari dei loro concittadini, e allora il governo militare pigliava chi gli capitava, e i poveri sequestrati ne facevano le spese. Uno dei casi più gravi fu quello capitato al Beretta, diventato poi dopo il 1859 sindaco di Milano. Il Beretta, nel Governo Provvisorio, di cui era stato membro, aveva avuto l’amministrazione delle finanze. Il Governo austriaco, succedendo al Governo Provvisorio, ne aveva riconosciuto soltanto gli atti amministrativi, e aveva messo a carico del Beretta tutte le spese di carattere rivoluzionario firmate da lui. L’ammontare saliva a una cifra altissima, e il Governo austriaco, per garantirsene, aveva messo sotto sequestro tutti i beni del Beretta. Da quel giorno incominciò una lunga vertenza tra il Beretta, minacciato da una confisca, e il Governo. Il Beretta, che si credeva tutelato da un articolo del trattato di pace, si rivolse anche al Governo piemontese, e con una consulta d’avvocati riuscì a tirare in lungo la lite per dieci anni, finchè venne a liberarnelo la battaglia di Magenta. Durante il nostro esilio di Bellinzona si passavano le giornate in gran parte sulle piazze, per le strade e nei caffè, in cerca ansiosamente di notizie. Le più inverosimili, di solito, erano le più credute; e i propositi più strani e scalmanati erano i più applauditi. Ogni giorno, ogni ora, cresceva il numero dei profughi che venivano da Milano e da altri paesi di Lombardia. A poco a poco le piazze e le strade rigurgitavano d’una folla talora chiassosa e non sempre ispirata alla dignità che le sventure della patria avrebbero richiesta. Molti di questi vestivano ancora la divisa militare, ed erano avanzi di corpi franchi disciolti, o sbandati. Parecchi, laceri, bisognosi di tutto, talora affamati, movevano a pietà. Il maggior numero veniva dal corpo d’esercito del generale Griffini, che da Brescia, traverso la Valcamonica e la Valtellina, s’era ritirato nel Canton Grigione. Questa truppa, in parte riunita, e in maggior parte sbandata, erasi diretta verso il Cantone Ticino, e verso il Piemonte. Altri giravano per la Svizzera, dispersi, e senza mezzi. Gli svizzeri, e le loro autorità, specialmente nel Canton Grigione, non ebbero allora verso questi emigrati e questi soldati italiani un contegno amichevole; e, o per timore degli austriaci, o per simpatia maggiore verso di questi, non mancavano spesso di trattare assai duramente quei fuggiaschi. Tra quella gente errante e dispersa quanti dolori, quanta miseria! e quale perturbamento morale! In giorni di un grande entusiasmo avevano lasciate le case loro, i loro cari, e avevano preso il fucile, credendo che fosse una cosa facile la guerra, una cosa sicura il trionfo! Eran passati traverso tutte le più strane illusioni, e s’erano improvvisamente trovati dinanzi ai più duri disinganni. Le loro menti n’erano uscite scombussolate e sconvolte. Con la maggior parte di loro non era possibile nessun ragionamento calmo; essi avevano bisogno di accogliere e di ripetere, come se fossero verità, le più strane fantasticherie di menti afflitte ed esaltate. Il tradimento! un misterioso tradimento! era la gran parola che, sulla bocca di tutti, dava la spiegazione di tutto. I popoli, nella sventura, hanno sovente il bisogno di trovare la spiegazione dei loro errori in cause misteriose, e di riunire le loro colpe sul capo di qualcuno, il quale diventa il _traditore_! A sentirli, aveva tradito il Governo Provvisorio, avevano tradito i generali, e tant’altri; ma il grande _traditore_ era Carlo Alberto. E chi avesse voluto azzardare un dubbio arrischiava di essere messo nel numero dei traditori esso pure. Rammento di aver veduto in quei giorni parecchi che si affaccendavano a persuadere quei pochi soldati piemontesi che, ammalati o dispersi, non avevano potuto raggiungere l’esercito, che il loro Re era un _traditore_. Quei poveretti non volevano credere, ma gli altri insistevano per indurli a non raggiungere i loro corpi, e a rimanere nella Svizzera in attesa di nuovi e grandi avvenimenti. Quei buoni soldati, in cui il sentimento della disciplina e dell’antica fede valeva più dei ragionamenti che udivano, non si lasciavano persuadere, e riprendevano la strada del loro paese, e la via del dovere. Gustavo Modena, patriota caldissimo, e in quei giorni scalmanato più che mai, dava delle serate a Lugano, a Bellinzona, a Locarno, a favore degli emigrati, e negli intermezzi declamava il Berchet, ripetendo ogni volta l’_esecrato Carignano_, tra un subisso di applausi, e spezzando la sedia a cui s’appoggiava. Povero Berchet! In quei giorni era a Torino; quanto l’avrebbe addolorato quell’applauso! Ritornato dal lungo esilio egli era fra i patriotti più profondamente convinti che la sola salute per l’Italia stava nel riunirsi intorno al Piemonte. E, ammaestrato dalla sventura e da migliore notizia degli avvenimenti, egli deplorava sinceramente quelle parole strappate ai dolori dell’esule in mezzo ai disinganni e alle sventure del 1821! Lugano, Bellinzona, Locarno, tutti i paesi del Canton Ticino rigurgitavano di emigrati. Molti tra questi, e soprattutto i volontari, si trovavano affatto privi di mezzi, e vivevano tra le privazioni e gli stenti. Gli emigrati più agiati o ricchi potevano sovvenirli ben poco, poichè, fuggiti anch’essi all’improvviso e non potendo in quei giorni procurarsi facilmente del denaro, vivevano essi pure in grandi strettezze. Non è a dire quanto la buona contessa Sormanni fosse in pena nel vedere per le strade tanti giovani ancora sofferenti per le fatiche o per le febbri, male coperti dalle loro lacere uniformi, accampati talora sulle piazze, o raccolti nei cortili e nelle stalle. Essa andava a cercarli, e a consolarli. La si vedeva ora in mezzo a crocchi, ora accompagnata da volontari d’ogni paese e d’ogni foggia, che ascoltavano con piacere, e alle volte, divertendosene, i conforti e le prediche amorevoli della buona _madre superiora_, come la chiamavano. Essa infatti aveva nell’aspetto qualcosa di monacale, vestita sempre com’era tutta di nero, con una cuffia bianca che le circondava il viso fin sotto il mento, e con un lungo velo nero che dal capo le scendeva sulle spalle. Nè i suoi conforti si limitavano alle parole. Ogni mattina conduceva qualche gruppetto di volontari, tra i più smunti, a far colazione; ma prima se li tirava dietro in qualche chiesa a sentir la messa. Dopo la resa di Milano, le credule speranze dei rifugiati s’eran tutte rivolte verso i corpi franchi, e specialmente verso quello condotto da Garibaldi. _La guerra regia è finita, ora incomincia la guerra del popolo_, aveva proclamato con ingenua iattanza Mazzini; e siccome le frasi avevano ancora un gran credito in quei giorni, così tutti stavano aspettando la guerra del popolo. Ma ben presto si venne a sapere che il corpo dei volontari di Garibaldi, rimasto per ultimo in Lombardia, dopo alcuni combattimenti sostenuti con valore a Morazzone e a Luino, sopraffatto dal numero, aveva dovuto ritirarsi nel Canton Ticino. Queste notizie ci avevano messi in apprensione per Emilio e per gli amici ch’erano con lui fra i volontari garibaldini, e dei quali non si avevan notizie. Ci rivolgemmo ansiosamente a quanti ci potessero dare qualche notizia, ma fu inutile. Passarono intanto parecchi giorni, e vedendo che mia madre era sempre più agitata pensai di recarmi a Lugano, dove, a quanto si diceva, si trovavan parecchi che avevano appartenuto alle compagnie garibaldine. Risoltomi lì per lì, una sera, e non avendo trovato nè un biroccio, nè un carretto, mi decisi a partire per Lugano a piedi. Per arrivare più presto avrei fatto meglio a partire la mattina dopo, ma fui spinto dal vedere mia madre tanto afflitta; Avevo confidato nella luna che splendeva quella sera. Ma la luna alle volte fa dei cattivi tiri, e quella volta tradì anche me. Nell’attraversare il monte Ceneri avevo voluto affidarmi a una scorciatoia; ma intanto il cielo s’era fatto scuro scuro, cominciò a piovigginare, e io perdetti la strada. Il viottolo che avevo preso m’aveva condotto contro un muro, e non vidi più nulla intorno a me. Allora mi misi a gridare, nella speranza che qualcuno mi sentisse, ma la mia voce si perdeva lontano e non sentivo all’ingiro che i piccoli rumori misteriosi della notte, lo stormire di qualche foglia, il cadere di qualche sassolino, o il fuggire d’un insetto, d’una bestiola che atterrita si rintanava. Mi sedetti per terra e vi rimasi accovacciato, nell’umido, fino ai primi albori. Allora ritrovai alla meglio i viottoli, attraversai la montagna, e raggiunta la strada postale potei dopo alcune ore entrare trionfalmente in Lugano, seduto dietro una vettura su un baule, ch’era il solo posto che avessi trovato disponibile. Lugano presentava press’a poco, ma in proporzioni maggiori, l’aspetto di Bellinzona. Le piazze e le strade erano affollate, e si vedeva un continuo via vai di volontari con le divise lacere, di persone d’ogni ceto ch’erano evidentemente dei fuorusciti. Tra questi trovai subito alcuni conoscenti, e avendo loro detto il motivo per cui ero venuto a Lugano, d’un in l’altro, trovai un soldato del corpo di Garibaldi che aveva scortati i feriti e gli ammalati al passaggio del confine. Costui mi condusse nella casa dove erano stati ricoverati, e in una stalla trovai appunto Emilio sdraiato sulla paglia e ravvolto nel cappotto. Per le lunghe marce, per gli stenti, e per la febbre era caduto su una strada, rifinito; raccolto, con altri ammalati e feriti, era stato condotto in quella stalla. Vedendomi, e scambiateci subito le notizie sue e le nostre, Emilio si rianimò tutto, e poco dopo usciva con me da quell’ospedale improvvisato. Era ancora febbricitante, ma soprattutto era sfinito di forze, e aveva bisogno di riposo e di cibo; ma non aveva più un centesimo in tasca. Si partì subito per Bellinzona, ove le cure amorose della mamma gli procurarono in pochi giorni la guarigione. Dopo un paio di settimane Emilio ripartì per Lugano, chiamatovi da alcuni suoi amici. Si preparavano, a quando dicevasi, dei grandi avvenimenti; e, smanioso anch’io di saperne qualcosa, seguii mio fratello a Lugano. A Lugano c’era in quel momento il fiore dell’emigrazione radicale lombarda, che si raccoglieva intorno a Mazzini, e si affaccendeva non poco. Emilio mi condusse in casa Berra, dalla signora Teresa Kramer Berra, madre d’Edoardo Kramer ch’era un suo compagno di scuola. In quella casa convenivano molti emigrati; vi si sapevano tutte le novità della giornata, e vi si agitavano tutti quei progetti e quelle speranze che sono il conforto e il passatempo degli emigrati. Vi feci anche la conoscenza di alcuni personaggi politici, e ciò mi procurò l’onore di assistere a qualche convegno in cui si cospirava e si preparava una nuova insurrezione. Alcuni di questi convegni erano tenuti anche a Capolago presso una stamperia di cui era direttore il De Boni. Là conobbi e vidi parecchie volte Mazzini. In quei giorni Mazzini era l’idolo di pressochè tutti gli emigrati di Lugano. Non si parlava che di lui, non si ascoltava che lui; le sue teorie, le sue parole erano dogmi indiscutibili e venerati. I suoi amici più intimi, e i molti che volevano parerlo, lo chiamavano semplicemente _Pippo_; e chi parlava in nome di Pippo non aveva bisogno nè di discutere nè di aggiunger altro. Il _verbo_ era assoluto e infallibile. Mazzini aveva il fare e la parola mite e gentile; discorreva in un tono dolce e leggermente ispirato; non gli piaceva d’esser contraddetto, ed era specialmente deferente verso quelli ch’erano del suo parere. Inutile dire che tra coloro che l’ascoltavano in un religioso silenzio, e che ne erano entusiasti, c’ero anch’io. Nelle riunioni di Lugano, o di Capolago, venivo a sapere ogni giorno i particolari dell’invasione armata in Lombardia che si stava preparando; invasione che a poco a poco era diventata il secreto di tutti, e che tutti si confidavano all’orecchio nei caffè. Uno dei più operosi nel predisporre i preparativi era un certo Mora, che avevo veduto l’anno prima in casa Correnti, e che era credo un modesto impiegato. Era sempre in uniforme militare; un uniforme in tela, di non so qual corpo di volontari; e andava in giro col fare cupo e misterioso di chi ha la testa piena di progetti e di secreti; taceva sempre, ma il suo era un silenzio che voleva dire più di qualunque discorso. Evidentemente egli sentiva d’essere il capo di Stato Maggiore dell’invasione, e forse di quella guerra di popolo che Mazzini preparava, e nella quale gli emigrati di Lugano avevano fede più che nelle armi del Piemonte. Ma gli avvenimenti troncarono presto i destini militari del Mora; il quale doveva invece, più modestamente, diventare molti anni dopo l’economo del collegio reale delle fanciulle di Milano, nominato dal Correnti quando fu Ministro dell’Istruzione Pubblica. Quei preparativi destinati a riparare colla _guerra del popolo_, come dicevano, gli errori della _guerra regia_ finirono coi due tentativi di Val d’Intelvi e di Chiavenna. A giudicare dai preparativi, o a dir meglio dai progetti, pareva che si preparasse qualche gran fatto nelle valli e nei paesi lungo il lago, e nella Valtellina; e per questo venuto l’ottobre Emilio lasciò Lugano, e traverso la Svizzera si recò appunto nei paesi dove doveva succedere il movimento insurrezionale. Ma, giunto in Valtellina, con sua sorpresa s’accorse che non se ne sapeva nulla. Parlò coi principali patriotti del paese, e li trovò tutti avversi, per molte buone ragioni, al movimento progettato. Parlò con Enrico Guicciardi, ch’era venuto anch’esso dal Piemonte a Poschiavo, per vedere quei supposti preparativi, e il Guicciardi uomo ardito, ma non facile ad illudersi, ripartì sconsigliando un’impresa che non aveva nessuna seria preparazione e nessuna possibilità di riuscita. Guicciardi ritornò al suo battaglione valtellinese, che si distinse poi alla battaglia di Novara. Ma intanto per ordine di Mazzini, d’Apice e Arcioni, che si facevan chiamare generali, seguiti da pochi, penetrarono nella Valle d’Intelvi, una valle che s’apre dietro il paese d’Argegno sul lago di Como. Il _Comitato insurrezionale_ di Lugano, per assecondare questa iniziativa, ordinò che un corpo, che doveva essere di 400 uomini, composto di emigrati e di volontari sbandati, si portasse in Val d’Intelvi. Ma questo corpo, che non esisteva che in parte, alle prime avvisaglie fu sciolto dal D’Apice, e si disperse. Intanto il generale Wimpfen, il 28 ottobre, mandava da Como contro la Valle d’Intelvi 700 soldati su due piroscafi. Dal paese d’Argegno, verso cui movevano i piroscafi, all’apparire di quelle truppe, si staccò una barca, in cui erano alcune persone, vogando a tutta forza, con l’evidente intenzione di andare all’abbordaggio. Dal piroscafo partì subito un colpo di cannone, e allora la barca vogando con pari forza in senso inverso andò ad arenarsi sulla spiaggia d’Argegno. L’abbordaggio di quei pochi contro un battaglione era fallito; ma così erano tutti nel ’48, audaci e ingenui. Questo episodio, serio e comico, me lo raccontava ridendo uno ch’era in quella barca, Antonio Lazzati, che poi vedremo nelle prigioni di Mantova. Gli austriaci penetrarono nella Valle d’Intelvi, dove si era proclamata una repubblica, che durò tre giorni, difesa da pochi, comandati da un tal Antonio Cresseri e da Andrea Brenta, due valorosi che quasi soli si gettarono sui soldati in marcia. Presi, vennero fucilati a Como. Contemporaneamente, secondo i piani del Comitato di Lugano, e ad onta delle notizie sconfortanti, un altro gruppo di emigrati era penetrato in Valtellina, fin presso a Chiavenna, condotto da Francesco Dolzino, del paese, un valoroso patriotta. Erano con lui il marchese Vitaliano Crivelli, Alberico Gerli, soprannominato _Pepe_, Giovanni e Gaetano Cantoni, il notaio Bordini, l’ingegnere Tagliaferri, tutti milanesi. Ma giunsero presto gli austriaci, che occuparono subito la Valle del Mera. Si fecero le fucilate; e gli austriaci incendiarono alcuni casolari, e il villaggio di Veccia. Nessuno in quei paesi insorse, nessuno si mosse, come s’era preveduto, e i pochi emigrati che avevano tentata quell’impresa, si dispersero. Così finì la breve spedizione, che i meglio informati avevano cercato di impedire. Ma i più avventati e gli illusi l’avevano suggerita e voluta, e Mazzini aveva creduto loro. Dopo queste infelicissime imprese, su cui per alcune settimane s’erano concentrate l’attività e le speranze d’una parte degli emigrati del Canton Ticino, questi, persuasi ormai che pel momento non ci fosse più nulla da tentare in Lombardia, cominciarono a poco a poco a levar le tende. I più tranquilli, e i meno compromessi, rientravano in Lombardia recandosi da prima nei paesi e nelle loro case di campagna; altri si avviarono in Piemonte, mentre i giovani, gli antichi volontari, la parte insomma più energica ed accesa, si indirizzava alla spicciolata verso l’Italia centrale, dove si sperava, come infatti avvenne, che si preparassero nuovi avvenimenti. Alla fine d’ottobre anche la nostra piccola colonia di casa Moro pensò a sciogliersi e a rimpatriare. La contessa Sormanni era la più impaziente di tutti: sentendo ogni giorno qualche nuovo nome di arciduchi o di principi che avevano dei comandi militari in Lombardia, era presa da una grande smania di vederli, non foss’altro, passar per le strade. Tutti le davan sulla voce, e allora si accendevano delle forti discussioni nella colonia. La zia Campeggi, ritornando ai suoi ricordi giovanili, invocava un nuovo Napoleone che mettesse fine a tanti subbugli; mentre la contessa Sormanni sosteneva che i subbugli non sarebbero avvenuti se fosse stata ancor viva Maria Luigia duchessa di Parma. Le zie, le cugine, e la contessa partirono direttamente per Milano. Mia madre pensò di recarsi con me e con mio fratello Enrico a Tirano in Valtellina: Emilio che c’era andato, come vedremo, alcuni giorni prima, n’era già ripartito. CAPITOLO IX. 1848. VII. _Sommario:_ Ritorno a Milano. — Aspetto della città. — Ripartiamo subito per la Valtellina. — I paesi governati militarmente. — Una condanna a Tirano. — I soldati croati, le loro usanze, i loro discorsi. — Gli alloggi militari. — Il maggiore Krall, comandante di Tirano. — Mazzini e la spedizione di Val d’Intelvi e di Chiavenna subito soffocate. — A Tirano studio, con poco successo, il tedesco e la musica. — Alla fine dell’anno ritorniamo a Milano per riprendere gli studi. — Aspetto sempre tristissimo di Milano. — Le notizie sui movimenti rivoluzionari che continuavano nell’Italia centrale. Prima di recarci in Valtellina dovemmo anche noi passare da Milano, fermandoci alcuni giorni. Ci andammo da Arona con un legno, e si viaggiò di notte: al confine fummo ricevuti da un Commissario di Polizia, che dopo alcune interrogazioni ci lasciò passare, e si arrivò di buon mattino in città entrandovi dalla porta Sempione. Che stretta al cuore nell’attraversare la piazza d’armi! Quante volte c’ero stato su quella piazza, nei mesi prima, a vedervi i soldati piemontesi, i volontari, o la guardia nazionale, con l’animo sereno e con la sicurezza che Milano, e forse tutta Italia, erano liberi ormai per sempre! E ora ci bivaccavano, o manovravano, i soldati austriaci tranquillamente, e da padroni. I primi soldati che vidi furon quelli vestiti di color marrone, coi calzoni turchini stretti alle gambe, i croati. Proprio quei croati! che pel nostro sangue latino rappresentavano i barbari; su cui si era formata una leggenda di ferocia selvaggia, e ch’eran stati l’argomento del nostro disprezzo e delle nostre caricature più popolari! Ora i croati padroni colmavano la misura del nostro dolore e della nostra umiliazione! Chiusi gli occhi, e me li sentii bagnati di lacrime. Ma in quel momento mi sentii anche rimescolare il sangue: il mio animo giovanile, ispirato fino allora a un patriottismo sereno, pieno di speranze e di illusioni, sentì tutto il dolore della patria perduta; e ne ebbi uno schianto, pieno di amarezza, e di proposito d’odio e di vendetta. Fu quel sentimento che ispirò e dominò gli animi della gioventù d’allora per dieci anni. A! Milano non ci fermammo che pochi giorni. Che squallore! Non riconoscevo più la città festosa, tutta movimento e entusiasmi, di poche settimane prima. Le strade erano spopolate e deserte; non vi si vedevano che frotte di uffiziali, e pochi cittadini che se ne andavano frettolosi, quasi vergognosi di trovarcisi. Le piazze invece e i luoghi pubblici eran gremiti di soldati, che ci stavano come in un accampamento; lungo i bastioni era accampata l’artiglieria, e nei giardini pubblici bivaccava un reggimento d’usseri. La maggior parte dei palazzi e delle case delle principali famiglie cittadine erano state destinati a caserma e ad ospedali militari. Era cosa ben triste; ed era frequente il vedere sulle porte e sotto i portici di quei palazzi i militari che facevano cuocere il rancio, bruciando gambe dorate di tavolini o di sedie ed avanzi di ricche mobiglie fatte a pezzi. Così, mentre l’amministrazione militare colpiva le principali famiglie con enormi tasse di guerra, i soldati ne occupavano e ne devastavano gli appartamenti. Più presto che si potè fuggimmo da questo triste spettacolo, e si andò in Valtellina io, mia madre e mio fratello Enrico. I paesi della campagna offrivano in quei giorni uno spettacolo non meno triste e disgustoso. Soldati in attitudine nemica dappertutto, e dappertutto prepotenze militari. Di solito un generale o un colonnello erano nelle provincie i comandanti supremi delle città; un maggiore lo era in una borgata, un capitano o anche un ufficiale subalterno in un piccolo paese. Accanto a queste autorità militari sussistevano di nome le autorità civili, ma i militari erano tutto; essi disponevano non solo d’ogni cosa pubblica, ma della vita stessa dei cittadini. Ritornati in un paese che dicevano proprio, lo trattavano come un paese di recente conquista e su cui fossero di passaggio in piena guerra. Vi applicavano le leggi marziali, con un rigore inutile e feroce; ed ogni giorno arrivavano le lugubri notizie di infelici inesorabilmente fucilati perchè trovati in possesso anche solo d’un’arma rotta o dei frammenti d’un’arma. E ciò per rappacificare gli animi: che sapienza di governo! Si sarebbe detto che ciascuno di quei soldati avesse una vendetta da compiere; la vendetta per essere stati cacciati nel marzo. Quei soldati poi, meno gli uffiziali, erano per lo più irritati, pieni di sospetti e di spavento. Erano irritati perchè appartenenti in gran numero alle ultime riserve, avevano dovuto lasciare mogli e figli nei loro paesi; erano sospettosi, e sempre in allarme, avendo passate le Alpi con la fantasia accesa da leggende di tradimenti, di pugnali, di briganti, e di mille cose spaventevoli che avrebbero trovato in Italia. Anche nelle campagne, e nei più piccoli paesi, bisognava dunque vivere ritirati e circondarsi di molte precauzioni. Queste però talora non bastavano. Un giorno a Tirano, per dirne una, un certo Ricetti, studente in medicina, se ne stava fumando alla finestra: passano dei soldati: uno di questi dice che il Ricetti aveva sputato su loro, e lo denuncia al maggiore, il quale lo fa arrestare, e senza verificare il fatto, gli fa dare venticinque bastonate nel cortile del Municipio, obbligando le autorità municipali ad assistere. Il Ricetti era zoppo e sciancato. Il medico del paese, dottor Andres, e il capo del comune avevano invano protestato e supplicato: anzi in pena di ciò il maggiore li obbligò ad assistere al triste spettacolo. I soldati che occupavano la Valtellina erano tutti croati, e appartenevano ai paesi chiamati allora i _confini militari_. Era una gente alta, bruna, e di costumi primitivi e barbara. In casa mia ne erano stati alloggiati parecchi, potevo quindi facilmente osservare le loro abitudini, e di tanto in tanto sapevo anche quel che pensassero, e quale fosse l’ordine delle loro idee. Per quanto barbari e incolti, essi, per quella nota attitudine degli slavi a imparare le lingue, dopo poche settimane di soggiorno in un paese, imparavano quel tanto di linguaggio che bastava loro per farsi capire. Alle volte mi divertivo a farne parlare qualcuno: in loro s’era sempre un non so che di ingenuo, di buono e di feroce a un tempo che facevano strano contrasto. — «_Ti bona taliana_» mi dicevano se regalavo loro qualche cosa; ma poi, benchè non mi illudessi sui loro sentimenti, si affrettavano di soggiungere: «_ma mi mettere anche baionetta in panza a tutta briganta taliana rivoluzionaria._» Erano tenuti con una disciplina severa; ma ad onta di questa rubavano a man salva, soprattutto i frutti di campagna, e quando i cittadini li sorprendevano: _Paga Pio IX!_ rispondevano. Pare che su ciò la disciplina severa chiudesse un occhio. Li vedevo alle volte fare il rancio in mezzo alla corte: piantavano in fila le caldaie, poi ci mettevano a bollire in una specie di grasso puzzolentissimo, insieme al loro rancio ordinario, tutto quello che ciascuno aveva rubato in quel giorno, e cioè fagioli, cavoli, patate, panocchie di grano turco, e persino de’ grappoli d’uva. Tra le cose che rubavano, con una certa predilezione, c’erano le candele di sego, e anche queste finivano nelle pignatte: a meno che non se ne servissero per un’altra loro strana usanza. La quale consisteva nella spalmare di sego delle bende, che attortigliavano intorno alle gambe, infilandole poi in quei loro pantaloni stretti, che tenevano, senza levarli, giorno e notte per delle settimane, e anche per dei mesi. Spalmavano di sego anche il corpo, coprendolo con corpetti attillati: e dicevano che ciò faceva molto bene alla salute, e che li preservava dagli insetti. Crediamolo pure; ma questo bel preservativo li faceva anche puzzare come ognuno può immaginarsi, talchè quando lasciavano un alloggio ci rimaneva un tanfo che durava persino degli anni. Quei soldati non nascondevano il malcontento d’essere stati condotti in Italia, e lo sfogavano contro noi. Essi erano soldati per tutta la vita, ma di solito oltre una certa età non venivano mandati fuori di paese. Questa volta l’Austria aveva dovuto ricorrere alle sue ultime riserve, e li aveva mobilitati tutti, per cui non era raro il caso di vedere nella stessa compagnia il figlio, il padre e il nonno. Questi poveri diavoli, in qualche momento di nostalgia, mi dicevano, che in certi loro villaggi non c’erano rimasti che le donne, i fanciulli, e gli animali domestici; anzi uno di questi soldati confinari mi raccontò che nel congedarsi dalla moglie le aveva detto: _Mi ti lasciare tre porci, cinque pegore, sette galline, due piccoli figli; se mi tornato trovare quattro porci, sei pegore, otto galline dico brava moglie, ma se trovo tre figli mandar via con legnate moglie e figli_. Tra gli uffiziali austriaci si vedevano di frequente persone educate, appartenenti a famiglie buone e distinte; ma tra gli uffiziali croati non ne vidi mai. Si capiva, dalle loro abitudini, ch’eran persone della campagna, di poca levatura e di pochissima educazione. Al pari dei loro soldati sfogavano volontieri la loro rabbia contro gli italiani ch’eran la causa per cui erano stati condotti fuori del paese; e al pari dei loro soldati avevano spesso la mente piena di vaghi terrori. Si trovavano in quei paesi che nella loro fantasia rappresentavano tutta una leggenda, ed erano sempre in attesa di avvenimenti misteriosi che le menti rozze accolgono tanto facilmente. Un giorno uno di questi uffiziali, messo d’alloggio in casa nostra, ma col quale non avevo mai scambiato nè una parola nè un saluto, venne improvvisamente a cercarmi; poi con una strana espressione, e in un gergo che non era molto diverso di quello dei suoi soldati, mi fece a bruciapelo questa domanda: «Se succedesse una rivoluzione, voi mi ammazzereste in casa vostra?» Si noti ch’io era un giovine e lui un uomo grande e grosso. Poi soggiunse subito: «Voi non mi potete ammazzare perchè io sono vostro ospite!» «Ospite no» risposi dopo averlo guardato con quella sorpresa che si può immaginare. «Voi siete qui conquistatore, non ospite». «Sono in casa vostra, dunque ospite, ospite» continuava l’altro. «Bisogna ch’io vi veda senza uniforme per chiamarvi ospite» replicai. L’altro mi guardò fisso, poi se ne andò, meditando forse, sotto questo nuovo punto di vista, il problema dell’ospitalità. E si continuò come prima, incontrandoci qualche volta, senza guardarci e senza salutarci. Il comandante militare e civile di Tirano era un maggiore che chiamavasi Krall, talora feroce e talora bonario, come i suoi soldati. Era buono soprattutto quando aveva bevuto molto, circostanza questa che per fortuna si verificava assai di frequente. I suoi sudditi tiranesi, che se n’erano accorti, quando avevano bisogno di placarlo o d’ottenere qualche cosa sapevano come fare. Più volte le bottiglie dei buoni vini valtellinesi ottennero grazie e favori, e salvarono anche la vita a qualcuno. «Io sono imperatore di Tirano,» aveva esclamato una volta essendo brillo; «e mia moglie intanto conduce i porci al pascolo!» A mantenere i sospetti e gli allarmi dei soldati in Valtellina aveva contribuito quel piano d’insurrezione del Comitato di Lugano, che tutti conoscevano, e ch’era finito coi brevi fatti di Val di Intelvi e di Chiavenna. Ma questi erano bastati perchè la Valtellina fosse tutta fortemente occupata con truppe lungo i suoi confini con la Svizzera. La Valtellina aveva presa una larga parte all’insurrezione del 48, col dare numerosi contingenti di volontari e di disertori dalle file austriache ai vari corpi franchi lombardi. Con gli avanzi di questi corpi, s’era formato in Piemonte un battaglione di bersaglieri valtellinesi sotto il comando del maggiore Enrico Guicciardi di Ponte. Altri patriotti militavano come ufficiali in questi o in altri corpi piemontesi; tra i quali Luigi Torelli di Tirano, che vedemmo nelle Cinque Giornate piantar la bandiera tricolore sul Duomo, e che allora era maggiore di Stato Maggiore nella brigata Solaroli. Gli altri nostri amici, che s’erano riparati a Poschiavo, o in altri paesi del Canton Grigione, erano ancora assenti. Emilio, dopo il colloquio avuto con Guicciardi, e dopo essersi convinto che il movimento per l’insurrezione in Valtellina, non esisteva che nella fantasia del Comitato di Lugano, partì per la Toscana ove pareva che si preparassero dei serî avvenimenti, per prendervi parte; e anche per fare l’università, a tempo perso, come i giovani d’allora, tra una rivoluzione e l’altra. Intanto io m’occupavo ad almanaccare sugli avvenimenti, con quel criterio che potevo avere alla mia età, e a quei tempi in cui tutti ne avevano poco. L’insurrezione ungherese continuava; Venezia resisteva ancora. Si preparavano molti rivoluzionari in tutta Italia, e in questi si sperava molto. Si sperava anche in un ministero democratico a Torino, che avrebbe obbligato Carlo Alberto a rompere l’armistizio Salasco e a ritornare sui campi di Lombardia. C’eran dunque argomenti in abbondanza per alimentare le illusioni nelle teste, a cui solo la dura esperienza di dieci anni doveva dare poi una più giusta visione delle cose. Il tempo passava lento e monotono; io escivo raramente di casa e, per occupare le giornate, e le serate eterne, mi proposi di intraprendere due studî per me nuovissimi, la lingua tedesca e la musica. L’imparare il tedesco non era, e non fu sino al 1859, una cosa lecita al patriottismo puritano d’allora, e tutt’al più si studiava di nascosto quando ce ne fosse la necessità. Mi parve di trovarmi nelle condizioni volute, e mi rivolsi all’unico professore di tedesco che fosse in Tirano, capitatoci da poco. Era un engadinese, un vecchio maestro elementare, il quale mi insegnò i principii di non so quale lingua che fece ridere molto il primo vero professore di tedesco che ebbi più tardi. L’arduo compito di darmi le prime lezioni di pianoforte l’ebbe l’organista del paese. Quel bravuomo ci mise la migliore volontà; e veramente ce ne misi un po’ anch’io; ma, dopo quattro mesi di lezioni indefesse, mi convinsi che in me l’inettitudine ad imparare il pianoforte era pari al piacere che mi dava la musica. In questi casi deplorevoli non bisogna ostinarsi. Io e mio fratello Enrico dovevamo pur continuare i nostri studii, perciò sul finire del dicembre nostra madre decise che si ritornasse a Milano. Le Università e i Licei erano chiusi, e gli studenti era soltanto permesso di seguire i corsi privatamente, riunendosi in piccoli gruppi, che non oltrepassassero il numero di dieci. Io dovevo fare il primo anno di Liceo, ed Enrico la terza classe di Ginnasio. Questi corsi incominciarono per tutti solo col principio dell’anno, e proseguirono alla meglio, o alla peggio, con professori e con scolari che in quei momenti avevano la testa a tutt’altro che agli studi. Che triste invernata fu quella! Chi appena aveva potuto era rimasto all’estero o in campagna; la città era spopolata, e per le strade squallide, deserte, non si vedevano che pattuglie, o torme di soldati. Lo stato d’assedio era duro e inflessibile; quasi ogni giorno comparivano sui muri della città degli affissi del Governo militare, chiamati _Notificazioni_, che intimavano qualche nuova sentenza dei consigli di guerra. A rialzare un po’ gli animi venivano tratto tratto dal Piemonte delle parole di speranza, la speranza che si riaccendesse la guerra; e giungevano le notizie degli avvenimenti della Toscana e di Roma. Veramente quegli avvenimenti non erano che dei moti convulsi di triste augurio, ma la speranza ce li raffigurava in quel momento come il principio d’una nuova risurrezione. Mio fratello Emilio che si trovava in mezzo a quegli avvenimenti, ora a Pisa, ora a Firenze, ce ne mandava di tanto in tanto le notizie; notizie ch’eran l’eco, s’intende, di quelle illusioni di cui si viveva in quei giorni. Persuaso che la guerra per la rivincita fosse vicina, egli s’era arrolato in un battaglione di studenti. CAPITOLO X. 1849. _Sommario:_ L’inverno del 1849. — La denunzia dell’armistizio. — La battaglia di Novara. — I tentativi di far insorgere la Lombardia. — Brescia. — La reazione si diffonde in tutta Italia e solo rimane in arme Venezia. — Roma e il battaglione Manara. — Reduci di Roma e di Venezia. — Dimostrazione del 18 agosto pel fatto della Olivari. — Le bastonate date a parecchi cittadini pubblicamente. — Andiamo nell’autunno a Tirano. — Alloggi militari. — Una cazzaruola fatta volare in strada da mia madre. — Una condanna militare alla mia famiglia. — Perquisizioni militari. L’inverno del 1849, se c’è chi lo rammenta, è rimasto nel pensiero come un ben triste ricordo. Tutto era deserto e squallido. Parecchi come vedemmo, erano ritornati alle loro case, ma chi appena lo poteva se n’era andato in campagna, e tutti poi vivevano ritiratissimi, lasciando deserti i caffè, i ritrovi, e i pochissimi teatri ch’erano aperti. Un po’ la malinconia, e un po’ la paura, tenevano la gente lontana anche dai passeggi e dalle strade dove non si incontravano che soldati baldanzosi e facilmente provocanti. Gli amici, che da poco rientrati raccontavano le peripezie delle loro emigrazioni, portavano anche delle informazioni sconfortanti dall’estero, ove si stendeva, come una nebbia fitta, la reazione trionfante. Nel soccorso della Francia non si sperava più. Fin dai primi d’agosto, quando le sorti della guerra volgevano male, nel Gabinetto di Torino s’era accennato a domandare l’aiuto della Francia, e il Governo Provvisorio, prima che finissero i suoi poteri, aveva deliberato una missione a Parigi, affidata al marchese Anselmo Guerrieri Gonzaga e a Giulio Carcano, per chiedere ufficialmente, con ingenua fiducia, l’intervento francese. Gli incaricati lombardi si unirono a quelli del Governo piemontese, ch’erano il marchese Brignole, ambasciatore sardo a Parigi, e il deputato Ricci. Cavaignac, presidente del potere esecutivo della Repubblica, aveva subito tolto ai nostri rappresentanti ogni illusione; e alle loro insistenze aveva risposto duramente «che una guerra per l’indipendenza e per la formazione d’un forte Stato in Italia, non era negli interessi della Francia». E promise loro al più una mediazione d’accordo con l’Inghilterra. La Francia, che circondavamo di tanta idealità, di tante speranze, la Francia, nel giorno della sventura, ci respingeva. Che disinganno! Si sarebbe pur voluto cercare un qualche filo di speranza, pur di sperare, e si guardava all’Ungheria, tutt’ora in armi e alle volte trionfante; si guardava all’Italia centrale in rivoluzione, a Roma in subbuglio, e a Venezia che teneva ancora alta la bandiera d’Italia. In fine, si guardava al Piemonte, ove nelle sfere politiche e parlamentari, prevalevano sempre più le opinioni estreme, quelle soprattutto che spingevano a riprendere immediatamente la guerra. La ripresa immediata della guerra! Un osservatore tranquillo e spassionato si sarebbe facilmente accorto che questa era una follia. Chi veniva dal Piemonte doveva pur confessare che l’esercito riordinato affrettatamente, e insufficientemente, aveva tuttora l’animo depresso; non aveva fiducia nei capi, e la guerra avrebbe trovato le truppe rassegnate, ma non entusiaste. Si sapeva che si era alla ricerca d’un comandante, d’un generale forestiero; avevano cercato in Svizzera il Dufour, e un generale francese a Parigi; ma inutilmente. Alla fine s’era trovato un polacco, raccomandato dai Comitati d’insurrezione, il Chrzanowski. Questo non conosceva nè l’esercito nè il paese; era un uomo onesto, studioso, ma era un brutto soldato, e non piacque. Chiamarono anche il Ramorino, un avanzo della _Giovane Italia_, e gli diedero il comando d’una brigata. Questo poi disobbedì: si disse che tradì, e fu fucilato. Intanto, durante l’inverno del 48, ci fu la mediazione anglo-francese, la quale si trascinava lentamente e di mala voglia. L’Austria non voleva ceder nulla; la _mediazione_ ci consigliava la rassegnazione, e mano mano ci abbandonava. Il Gioberti, arrivato al Governo, avrebbe voluto, anzichè azzuffarsi coll’Austria, intervenire in Toscana, per ristabilire egli stesso il Granduca e dirigere il movimento liberale, prima che l’Austria ci entrasse. Poteva essere in teoria una buona politica, ma l’Austria, che anelava di riprendere la guerra, non l’avrebbe permessa. La politica del raccoglimento, l’unica consigliata dalla ragione, non c’era chi avesse l’autorità di imporla, nè c’era disposizione nell’opinione pubblica a seguirla. Si voleva la guerra, e ci si andava a capo fitto. La sinistra parlamentare del Piemonte era disposta ad affrontarne la responsabilità, ma poi non aveva l’energia di predisporla. Gioberti cadde e venne il Ministero Rattazzi, chiamato il Ministero democratico, che doveva avverare, dicevasi, gli arditi sogni della rivincita. La consolazione pubblica fu grande, ma presto fu duramente scontata. Venne il mese di marzo: s’avvicinava l’anniversario delle Cinque Giornate, quando il giorno 12 di quel mese, tra una commozione indicibile, i cittadini ridestandosi quasi da un lungo letargo, nel risvegliarsi dagli antichi entusiasmi, seppero ch’era giunto a Milano un uffiziale superiore piemontese, il maggiore di Stato Maggiore Raffaele Cadorna; ch’era sceso alla Villa Reale, presso i giardini pubblici, dove abitava il maresciallo Radetzki, e che gli aveva comunicata la denunzia dell’armistizio pel giorno 20. Il giorno seguente tutte le truppe austriache erano in movimento. I soldati avevano l’aria festosa, le bande suonavano lietamente, i reggimenti sfilavano gridando _urah!_ Gli ufficiali avevano l’aria più baldanzosa e provocante del solito; era uno spettacolo che stringeva il cuore. Radetski aveva pubblicati due proclami minacciosi, uno contro il Piemonte e uno contro i rivoluzionari, dirigendosi ai milanesi e ai lombardi. I cittadini più che lieti erano sorpresi; si sarebbe detto che tristi presentimenti pesavano loro sul cuore. In pochi giorni Milano e la Lombardia rimasero sguernite di truppe, talchè il paese avrebbe potuto facilmente insorgere alle spalle dell’esercito austriaco, se le popolazioni avessero avuto quell’entusiasmo e quella fede che le avevano mosse un anno prima. Ma i tempi erano già grandemente mutati. Gli emigrati lombardi avevano sperato un’insurrezione delle loro provincie e vi avevano fatto penetrare delle armi dal Piemonte. Gli animi però erano dubbiosi, indecisi, anche nelle provincie; alla fede era subentrata la diffidenza, e tutti stavano aspettando gli avvenimenti, anzichè promuoverli. Il Comitato dell’emigrazione lombarda e il ministero piemontese della guerra avevano incaricato Gabriele Camozzi, il cui nome e quello della famiglia erano tra i più popolari nelle vallate bergamasche, per generosità e valore, di suscitare l’insurrezione in Lombardia allo scoppiare della guerra. Il Camozzi infatti aveva passato il confine il giorno 20, appena spirato l’armistizio, e traverso Como e Lecco era giunto a Bergamo, con armi e con bande d’insorti, intimando la resa alla Rocca della città e circondandola. A lui s’era unito un gruppo di altri emigrati armati, tra i quali avevo parecchi amici, e cioè Luigi Sala, già secretario del Governo Provvisorio, Paolo Belgiojoso, Agostino Frapolli. Intanto succedeva la battaglia di Novara. Nei giorni 22 e 23, che furon quelli della battaglia, dai bastioni di Milano si sentiva di tanto in tanto un cupo rombo portatovi dal vento. La gente diceva ch’era il rumore del cannone e accorreva in folla; ma sul volto di tutti si leggeva un’ansia più diffidente che speranzosa. Poi passarono due giorni nell’alternativa di notizie ora buone, ora cattive. Si parlava d’una grande battaglia; d’una battaglia, riuscita favorevole ai piemontesi, secondo alcuni, favorevole agli austriaci secondo altri. Alla fine, pur troppo, giunsero le notizie vere: e qualche giorno dopo si ebbe lo spettacolo dell’entrata delle truppe austriache che tornavano dal Piemonte vittoriose; tornavano spavalde e col mirto in fronte, come esse usavano nei giorni solenni di festa. Non dimenticherò mai la stretta al cuore che provai vedendo un reggimento, che attraversava la piazza del Duomo, con la musica in testa, gridando viva Radetzki, e preceduto da un gruppo di sottouffiziali che portavano come trofeo una bandiera tricolore, non però militare, ma della Guardia Nazionale presa in Piemonte. D’allora non fu che un succedersi di avvenimenti sventurati e di notizie dolorose. Intanto il presidio, che, come s’è visto, occupava Bergamo e ne teneva la città alta, accolse il drappello degli emigrati a cannonate. Gabriele Camozzi aveva chiamato alle armi i suoi compatrioti e gli abitanti delle valli vicine, con un proclama che li eccitava alla rivoluzione. Raccolse infatti 800 volontari, che diresse su Brescia, ma dovette ripiegare dopo le notizie tristissime che arrivavano; e dinanzi a truppe austriache che già tornavano dalla battaglia di Novara. A Brescia invece giunsero delle notizie false e fantastiche. Si parlava d’una grande vittoria delle truppe piemontesi e dell’esercito austriaco in ritirata; un proclama del Comitato repubblicano di pubblica difesa avvalorava queste notizie, e ne dava di più fantastiche ancora. E Brescia insorse. Insorse violentemente ed eroicamente. La lotta, come è noto, durò dieci giorni; e il generale Hainau non entrò nell’eroica città che sulle rovine di oltre 300 case incendiate, tra un monte di cadaveri, e fucilando una cinquantina di prigionieri. Entrò alla testa di quindicimila soldati. Un’altra squadra di emigrati e di insorgenti doveva penetrare in Valtellina, ma non vi giunse. Vi ricomparvero invece, più numerose, e più baldanzose di prima, le truppe austriache, occupando tutti i principali paesi, e tutti i punti militarmente più importanti della valle. In ogni punto d’Italia andava intanto mano mano crollando tutto ciò che la rivoluzione aveva in fretta e in furia innalzato l’anno prima. Solo a Venezia sventolava ancora incolume e gloriosa la bandiera tricolore; e gli occhi di tutti eran rivolti ad essa con malinconica compiacenza e con una vaga speranza; quella speranza che trova sempre negli animi un cantuccio in cui sopravvivere. Si sperava che prima della caduta di Venezia, o di Roma, o dell’Ungheria tuttora in armi, avessero a succedere in Europa avvenimenti in cui fosse dato ritrovare quella fortuna che ci aveva abbandonati. Ma passavano i mesi, e intanto in Europa calavano sempre più fitte le tenebre della reazione ineluttabile, che tutto ravvolgeva e pesava su tutto e su tutti. La caduta di Roma, e gli ultimi fatti della sua valorosa difesa, che si svolsero nel giugno di quell’anno, avevano avuto un’eco di trepidazione e di dolori in Milano, che annoverava molti dei suoi nel battaglione lombardo di Manara, e nei volontari garibaldini. La condotta di quei giovani era stata veramente eroica; le loro file erano state decimate; essi avevano voluto morire in nome di una grande idea, senza speranza di vincere, chiudendo eroicamente l’epopea italiana del quarantotto. Il Manara manifestò questo pensiero in una lettera che scrisse in quei giorni da Roma: «Noi dobbiamo morire per chiudere con serietà il quarantotto... Affinchè il nostro esempio sia efficace, noi dobbiamo morire!» Luciano Manara, il valoroso condottiero del battaglione lombardo, aveva allora 26 anni; era di famiglia ricca, e prima del quarantotto aveva menata una vita elegante, oziosa, notevole soltanto per una avventura che aveva accompagnato il suo matrimonio. Invaghitosi giovanissimo d’una bellissima fanciulla, la signorina Carmelita Fè, e non avendo dai genitori il permesso di sposarla, fuggì con lei. L’avventura, naturalmente, finì col matrimonio, e il gran parlarne che se ne fece diede agli sposi una certa notorietà. Un pittore, celebre a quel tempo, il Molteni, fece un ritratto di lei in un suo quadro la _Confessione_, che poi rividi nella galleria del _Bel Vedere_ a Vienna. Venuto il ’48, Luciano Manara, abbandonata la vita futile, diede tutto sè stesso ai moti politici. Nelle _Cinque Giornate_, come s’è visto, insieme con un drappello di giovani suoi amici combattè ai Portoni di via del Giardino, ora Manzoni, e nei punti ove la lotta era più grave e decisiva, e fu il capitano della presa di Porta Tosa. Poi, con gli amici e con un gruppo di combattenti che lo seguirono, era uscito da Milano inseguendo le truppe austriache e dando prove continue di un valore e di un’audacia che diventarono leggendarie. Dopo la capitolazione di Milano condusse i suoi volontari in Piemonte, ove ne fu formato un battaglione di bersaglieri, di cui egli fu il comandante. Questo battaglione si trovò colle altre truppe lombarde all’avanguardia, alla Cava, quando gli austriaci passarono il Ticino. Anche in quella circostanza il battaglione di Manara si fece onore, finchè dovette ritirarsi con le altre truppe in seguito agli ordini, rimasti misteriosi, del generale Ramorino. Dopo la battaglia di Novara, il battaglione dei bersaglieri lombardi, volendo rimanere nell’azione finchè in qualche punto d’Italia si combattesse per la libertà, si recò a Roma. Questi volontari, i cui uffiziali eran tutti giovani eletti, portarono in mezzo alle truppe repubblicane e garibaldine di Roma i colori e la croce dell’uniforme piemontese, e il grido di guerra: _Savoia_. La loro fede e il loro valore li circondò di un alto rispetto anche tra i volontari di diverso partito; rispetto che rifulse sulla causa che li aveva condotti a Roma. Tra i reduci del battaglione Manara avevo parecchi amici, ma in quello scorcio dell’estate ne rividi ben pochi. Alcuni erano feriti, come Emilio Dandolo, Lodovico Mancini, il pittore Gerolamo Induno, il dottor Scipione Signoroni; altri si ritirarono in campagna, o si tenevano nascosti per non venire arrestati, come era avvenuto a Lisiade Pedroni. I cadaveri di Manara, di Morosini, di Enrico Dandolo, dopo lunghe pratiche, e molte difficoltà, erano stati trasportati a Vezia nella tomba di famiglia dei Morosini; poi la salma di Manara fu trasportata a Barzanò nella cappella di famiglia, oggi appartenente a casa Manati. Rividi un mese dopo i reduci da Venezia, che colla salvaguardia della capitolazione avevano potuto rientrare liberamente nelle case loro. Erano sorvegliati, ma lasciati tranquilli. Nei primi giorni si vedevano a gruppi per le strade: tutti avevano l’impronta delle lunghe sofferenze patite; nullameno nell’attitudine e nei discorsi conservavano alto il morale, come chi ha coscienza d’aver fatto onoratamente il proprio dovere. Era uno spettacolo ben mesto il vedere quegli ultimi avanzi delle nostre brevi speranze! Caduta Roma, caduta Venezia, caduta l’Ungheria, il _quarantotto_ non pareva più che un sogno, e gli animi si sentivano sgomenti pensando al lungo servaggio che forse ci attendeva, come se fossimo ritornati al 1815. A ricordarci la nostra condizione c’era lo stato d’assedio, c’era un governo militare, forestiero e baldanzoso, che ci guardava con disprezzo, e senza il freno della responsabilità. Uno degli atti di prepotenza cieca che in quei giorni venne a rivoltare maggiormente gli animi, fu quello d’una pubblica bastonatura data in Milano. Il fatto avvenne nel mese di agosto. La guarnigione celebrava il 18 la festa dell’Imperatore, e una certa Teresa Olivari, modista, che dicevano in buone relazioni cogli ufficiali austriaci, mise alla finestra un drappo giallo e nero in segno di festa. La casa dove abitava la Olivari era dietro il _Coperto dei Figini_, ora scomparso per dar luogo alla piazza del Duomo, in una via chiamata dei Borsinari, che pure non esiste più, e che fiancheggiava l’attuale lato settentrionale dei portici. L’esposizione di quel drappo fece fermare la gente; a poco a poco si formò un assembramento, e incominciarono gli urli e i fischi. Accorsero molte guardie di Polizia che, appoggiate da una compagnia di soldati uscita dal palazzo reale, circondarono la folla e arrestarono quanti non eran riusciti a fuggire. In quella folla c’ero anch’io, ma fui tra quelli che potettero svignarsela. Pochi giorni dopo, trentaquattro tra gli arrestati, comprese due donne, ricevevano le bastonate pubblicamente sul piazzale dinanzi al castello. E il comando militare mandava al Municipio il conto dei bastoni e delle medicazioni! Conto che il podestà Pestalozza rimandava con parole sdegnose. L’indignazione prodotta da questo fatto fu grande. Un nuovo odio, quello dell’affronto, si aggiungeva al cumulo degli odii antichi, e sempre più profondo si faceva l’abisso tra il paese e i suoi dominatori. Non lamentiamocene. La durezza e l’ignoranza dei governanti militari giovarono non poco alla causa finale dell’indipendenza. Essi diedero alle provincie italiane dell’Austria l’aspetto non di provincie regolarmente governate, ma di paesi provvisoriamente occupati colla forza come in guerra; resero sempre più acuto e stridente l’odio nelle popolazioni soggette; col governo militare e con uno stato d’assedio di otto anni continui mantennero viva la questione italiana dinanzi all’Europa civile; e offersero la vittoria al genio di Cavour. A quei marescialli e a quei generali austriaci furono eretti statue e monumenti nei loro paesi; in verità, ne potremmo loro erigere anche noi. Venuto l’autunno si andò in Valtellina, e questa volta con noi c’era anche mio fratello Emilio ch’era tornato a Milano dopo la restaurazione del Granduca di Toscana, e dopo che fu sciolto il battaglione degli studenti, nel quale egli si era arrolato. Era triste e disgustosa la vita che si conduceva nella città; ma spesso era anche peggiore quella dei piccoli paesi quando vi si trovavano dei presidii militari. Gli abusi e le prepotenze dei capi secondarî, ancor meno osservati e meno frenati, riuscivano più odiosi, e talora più fatali. Si stava male a Milano, ma trovammo che a Tirano si stava anche peggio. Il paese era zeppo di soldati, tutti della Croazia, sospettosi, irosi, e sempre in allarme: i confini verso la Svizzera erano occupati da forti posti militari, e percorsi costantemente da pattuglie. Ogni branco di pecore veduto da lontano era subito creduto una banda rivoluzionaria. Nè li rassicurava l’amicizia che i grigioni in allora dimostravano agli austriaci, ben più che agli italiani. Eravamo a Tirano da pochi giorni quando un atto di impazienza e di disgusto di mia madre ci procurò una punizione militare. Per entrare nel salotto, dove mia madre stava di solito, si attraversava un salone che voi, nipoti miei, conoscete e che conduceva, da un lato della casa, ad alcune stanze che erano occupate dagli uffiziali cui eravamo obbligati forzatamente a dare l’_alloggio_. Che cosa vede un giorno mia madre? Gli _attendenti_ degli uffiziali avevano piantato in mezzo al salone un fornello, servendosi dei colonnini e di parte del davanzale del balcone che avevano distrutto; poi con delle sedie spezzate avevano acceso il fuoco sotto una cazzeruola, da cui usciva un fumo nauseante. Mia madre, a quello spettacolo, uscì per un momento dalla sua calma consueta, e pigliata la cazzeruola pel manico la fece volare fuori dalla finestra prima che gli _attendenti_ croati arrivassero ad impedirnela; poi si rinchiuse nel suo gabinetto. Per alcuni minuti si sentì rintuonare la casa di voci irate, e di sciabole ripercosse sullo scalone; poi tutto ritornò nel silenzio di prima. Ma alcuni giorni dopo ci capitò dal comando militare di Sondrio una _Sentenza_ con la quale la famiglia Visconti-Venosta, colpevole di un contegno ingiurioso verso gli _attendenti_ degli uffiziali alloggiati in casa, veniva punita con l’occupazione della casa, a tempo indeterminato, dando alloggio cioè a un’intera compagnia, ossia a duecento soldati. Poche ore dopo l’intimazione della Sentenza arrivò la compagnia, occupò tutti i locali della casa che meglio garbavano al capitano, e noi fummo obbligati a ritirarci in poche stanze. Condanne di questo genere, multe ai Comuni per frivoli pretesti, arresti, e di tanto in tanto qualche fucilazione, erano i fatti soliti di quei giorni. Si viveva in continue apprensioni. Le piccole vessazioni giornaliere dei comandanti del luogo si alternavano colle vessazioni maggiori dei comandanti delle Provincie. Ogni tanto capitava a Tirano improvvisamente da Sondrio qualche uffiziale superiore, o qualche commissario di Polizia, accompagnato da una scorta di soldati, che venivano a far perquisizioni, o a prender nuovi provvedimenti di sicurezza. Non so come, poichè allora era un secreto, qualcuno del paese n’era spesso prevenuto alcune ore prima, e allora i principali patriotti, a buon conto, pigliavano subito il largo: tra questi c’eran sempre il buon parroco di Tirano don Carlo Zaffrani, mio fratello Emilio, mio zio Merizzi, i fratelli Salis, il dottor Andres, l’ingegnere Antonio Della Croce e Luigi Negri. Parecchie volte arrivarono simili avvisi durante la notte, e allora alla spicciolata si pigliava la montagna e si andava al di là del confine a Campocologno o a Brusio, villaggi svizzeri, ricoverandosi in qualche osteria. Un giorno si corse un brutto pericolo. Mio zio Merizzi venne a dirci di buon mattino che nella notte erano arrivati da Sondrio un Maggiore e un Commissario, che avevano fatto circondare di soldati il paese, e che avevano principiata una severa perquisizione nelle case per scoprire se ci fossero armi. Mia madre sapeva ch’erano state consegnate da un pezzo alcune armi che c’erano in casa, ma a buon conto chiamò il fattore per avvisarlo della imminente perquisizione. Allora il fattore ingenuamente confessò che aveva consegnate le armi vecchie fuori d’uso, ma che aveva trattenuto un fucile rimasto in casa l’anno prima consegnatogli da un volontario. Fu per tutti un momento di grande ansietà. Mia madre fece chiamar subito un vecchio cantiniere di casa per fargli spezzar l’arme e nasconderne poi i pezzi. Ma il cantiniere, vedendo mia madre tanto agitata, disse: «Stia tranquilla... quest’arme scomparirà, ma non la romperò, nè la consegnerò... la metterò in salvo... ci penso io.» Ogni protesta da parte nostra fu inutile. Il cantiniere nascose il fucile in una gerla in mezzo al fieno; poi, colla gerla sulle spalle attraversò il paese, passò in mezzo ai soldati, e andò a sotterrarlo in una vigna. Poco dopo avevamo la perquisizione in casa, e intanto il buon cantiniere se ne ritornava tranquillamente da una spedizione che avrebbe potuto costargli la vita. Mia madre non mancò di mostrargli largamente la sua gratitudine per l’atto generoso. Quell’autunno fu continuamente funestato dalle notizie dei rigori, delle prepotenze militari, degli arresti, e delle fucilazioni, di cui ci arrivava l’eco sinistra da ogni punto delle provincie lombarde e venete. Si viveva in continui timori, e in continui sospetti. Ogni cattivo soggetto, ogni pessimo arnese della Polizia, per vendetta o per guadagno poteva farsi delatore, ed ogni delatore era creduto. Che giorni angosciosi furon quelli! CAPITOLO XI. 1850. I. _Sommario:_ Squallore della città anche nell’inverno del 1850. — Stato d’assedio rigoroso. — Propositi per la resistenza al Governo austriaco. — Disciplina patriottica. — Astensione dai pubblici divertimenti. — La contessa De Capitanei Serbelloni, e le serate di famiglia in casa sua. — La sala di scherma in casa dei miei cugini Paravicini. — Il cugino Carlo Minonzi. — Faccio la conoscenza della contessa Maffei. La nostra casa di Tirano era diventata quasi inabitabile dopo che era stata occupata da una compagnia di croati; perciò sullo scorcio del mese di ottobre, appena ultimati alcuni nostri affari, ritornammo a Milano. Fu un’invernata ben squallida anche quella del 1850! Lo stato d’assedio era rigorosissimo, e la città aveva tutt’ora l’aspetto d’un accampamento. Le famiglie ricche ritornarono tardi dalle loro campagne; e ogni manifestazione di attività e di vita cittadina vi era spenta, come in una città ove dominasse un’epidemia. Gli emigrati, ch’erano stati numerosissimi, durante l’inverno, ritornavano mano mano, alla spicciolata, all’infuori dei più compromessi; molti richiamati dalle loro necessità domestiche, e molti anche seguendo la giusta ispirazione che per la patria si opera meglio in paese che fuori. Come naufraghi sbattuti sulla riva quei profughi che rientravano, e ch’erano stati in gran parte i più operosi nella rivoluzione, si ritrovavano, si narravano i passati dolori, e si consultavano sulle sorti infelicissime del paese, e sulla via da tenere. Tutto era finito, tutto era perduto! Non s’erano perdute soltanto delle battaglie, s’erano perdute quella concordia e quella fede che avevano sollevati e diretti gli animi fino allora. La leva possente che aveva mossa la rivoluzione pareva spezzata per sempre. Il Piemonte abbattuto, la monarchia sospettata, i capi più autorevoli e popolari dispersi o sfatati; e l’Europa, infastidita di noi, ci ripeteva duramente di rassegnarci al nostro destino e di non molestarla più oltre. Sembrava che si ripetessero anche per noi i destini della Polonia. Ogni illusione, ogni più fantastica speranza non aveva dinanzi a sè il più lontano pertugio da cui intravvedere un raggio di luce. In una simile condizione di cose poteva parer naturale, e quasi giustificabile, che l’accasciamento degli animi consigliasse almeno una momentanea rassegnazione, e che in questa il paese cercasse di medicare le recenti ferite, e di risollevare almeno le proprie forze economiche. Ma una nobile e felice ispirazione respinse allora, con unanime consenso, ogni timido consiglio della ragione. Tutto è perduto? Dunque si ricominci da capo! Tale fu la gloriosa parola d’ordine di quei giorni, che uscì spontanea dal sentimento di tutti. Verso quale meta? Per quale strada? Con quale bandiera? Ognuno aveva la propria, ma era unanime il sentimento di non ristare, e di tirar dritto, fosse pure all’oscuro e verso l’ignoto. Era unanime il sentimento della _resistenza_, della _resistenza_ a ogni costo! La _resistenza_ doveva durare quasi dieci anni, traverso gravi dolori e gravi sacrifici: e durò con una disciplina rigida, e che riescirà quasi inconcepibile ai nostri nipoti. Le provincie lombardo-venete, Milano alla testa, diedero per dieci anni l’esempio d’un paese che in nome della propria nazionalità vive completamente separato dagli stranieri che lo governano; che con quel Governo rifugge dall’aver rapporti; e che tratta i suoi dominatori come un’orda passeggiera di occupanti. La vita giornaliera di questo rigido programma doveva riuscire ben dura; ma fu vissuta, e non si piegò mai. Le Cinque Giornate furono certamente una bella pagina della storia milanese; me chi studierà i fatti del nostro risorgimento nazionale dovrà concludere che col decennio della _resistenza_ Milano ha scritto una pagina ancor più gloriosa nella propria storia. Perocchè è più facile il diventare un eroe in un giorno di battaglia, che il conservare l’animo alto e fiero durante una prigionia di dieci anni. E appunto di quegli anni della prigionia ossia della resistenza, io cercherò di parlare, raccogliendo quei pochi ricordi che mi sono rimasti nella memoria; sicuro, e dolente, di non poter riunire che una parte piccolissima dei fatti giornalieri di quei tempi... Altri, vorrei sperarlo, ne riuniranno di più, e meglio di me; a me intanto par quasi di adempiere a un dovere portando il mio contributo, sia pure tenue, a quei ricordi che formano una pagina tanto gloriosa della storia di Milano. Milano in quei tempi ha salvata la causa dell’indipendenza italiana. Giovani e giovanetti, studenti d’Università, di Licei, di Ginnasi, tutti insomma, respirando in quell’ambiente patriottico, seguirono subito con entusiasmo il programma dei più provetti, mettendoci per di più tutto l’ardore dell’età loro. I reduci dalle campagne del quarantotto, dall’assedio di Venezia e dalla difesa di Roma, erano argomento tra noi giovanetti di ammirazione e di esempio: ci proponevamo di emularli nelle lotte dell’avvenire, e intanto ne seguivamo i consigli nella lotta giornaliera della resistenza. Cominciò allora a formarsi negli animi nostri quel sentimento di devozione illimitata alla patria, di disciplina, e di abnegazione, che tanto contribuì a formare il carattere di quella giovane generazione la quale doveva tenere allora accesa la fiaccola della speranza, e scendere poi sui campi di battaglia nel 1859 e nel 1860. Nel programma di quei giorni c’era l’astensione dai teatri, e da qualunque pubblico divertimento, caso mai ce ne fossero: ma ce n’erano ben pochi, poichè lo stato d’assedio proibiva ogni più piccola riunione. Anche i teatri erano pressochè tutti chiusi, all’infuori del teatro alla Scala, che il Governo militare faceva tenere aperto per divertire gli uffiziali della guarnigione che ne erano pressochè i soli frequentatori. Anche nelle case private non c’erano nè ricevimenti, nè balli che non avessero un carattere affatto domestico, e della maggiore intimità. E io ritornai alle serate presso i parenti, e alle festicciole domenicali colle cugine, lieto di poter combinare le esigenze del lutto della patria con la smania che avevo di ballare. La mia qualità di ballerino instancabile mi procurò il piacere di venire presentato alla contessa Giovanna De Capitanei di Scalve, nata Serbelloni, nella cui casa si radunavano le sue figlie, i generi, le nipoti e le loro amiche, e dove tra giovani e giovanette si facevan quattro salti la sera una volta per settimana. La contessa De Capitanei, com’era chiamata generalmente, ma che rimasta vedova erasi rimaritata col conte Luigi Attendolo Bolognini, era figlia del duca Alessandro Serbelloni e della principessa Rosina Sinzendorf di Vienna, sicchè aveva molti parenti in Austria, e tra questi anche qualche generale dell’esercito austriaco; aveva una posizione cospicua a Corte, quale dama di Palazzo e della Croce Stellata, ed era amica della Vice-Regina, l’arciduchessa Maria Elisabetta sorella di Re Carlo Alberto. Il suo passato, la sua parentela, le sue amicizie le avevano creato dei legami nelle _alte sfere_ sociali e politiche di Vienna. Nullameno aveva assistito con molta tolleranza, e talora con una certa simpatia, agli avvenimenti rivoluzionari di Milano, ai quali avevano preso parte attiva i suoi generi e i suoi parenti dell’aristocrazia milanese. Essa di solito se la sbrigava dicendo che gli austriaci d’allora non erano più quelli del buon tempo antico, alludendo ai tempi di Maria Teresa e di Giuseppe II. Dopo il ’48 troncò ogni relazione coi parenti e cogli amici austriaci. La contessa Giovanna era un tipo di tempi ormai tramontati, e che perciò si osservava con curiosità. Quando parlava del passato non mancava di manifestare la sua antipatia per Napoleone che le aveva detta una sgarbatezza; solo ricordo che conservasse di lui. Il generale Bonaparte, pranzando un giorno in casa Serbelloni, le aveva chiesto il nome, e saputolo aveva soggiunto: «Ah sì, avrei dovuto accorgermene dal naso.» I Serbelloni avevano tutti un naso aquilino spiccatissimo. La contessa De Capitanei aveva avuto un unico figlio maschio e tre figliuole. Il maschio, conte Pirro, respirando già l’aria dei nuovi tempi, e ad onta delle sue alte parentele austriache, s’era compromesso negli affari politici del 1821, e s’era arrolato nelle truppe piemontesi durante l’insurrezione militare: poi aveva dovuto emigrare. La contessa ebbe allora un lungo carteggio con Metternich (che mia moglie nipote di lei conserva ancora) per ottenere al figlio una grazia che non fu concessa che assai tardi, quando il conte Pirro, malato e sfinito, non poteva ormai tornare in patria che per morirvi. Con lui si estinte il ramo dei De Capitanei di Scalve. Delle tre figlie la maggiore sposò un Carcano, e le altre due sposarono due fratelli, i marchesi Francesco e Giuseppe d’Adda Salvaterra. La contessa Giovanna, quand’io la conobbi, era una vecchia sui settant’anni: aveva abitualmente una strana acconciatura del capo, fatta d’un berretto di velluto nero che le scendeva a punta sulla fronte, alla Maria Stuarda; e pur essendo donna di cuore aveva il fare imperioso e risoluto. Le era sempre piaciuto di ostentare un po’ il fare e le abitudini da uomo; girava per le sue campagne a cavallo sola, e raccontava con piacere che ferrava essa stessa i propri cavalli da sella, quand’era in campagna, non fidandosi del manescalco. Alle conversazioni della contessa feci la preziosa conoscenza dei suoi generi, Francesco e Giuseppe d’Adda, due tra i più ferventi patrioti dell’aristocrazia milanese, fratelli di quel marchese Camillo d’Adda che figurò tanto onorevolmente nei processi del 1831; e rividi quella Lauretta, figlia del marchese Francesco, con la quale mi ero bisticciato per una quadriglia in casa Trotti quando eravamo bambini, ora fatta una giovane da marito, e che doveva, come già dissi, diventare un giorno mia moglie. Ma oltre al ballare ci voleva anche qualche esercizio che potesse parere di carattere patriottico, come per esempio la ginnastica e la scherma; la scherma soprattutto pel caso di duelli con uffiziali austriaci, duelli ch’eran pure nel programma della resistenza, e che già ci frullavan per la testa. Ma le sale di ginnastica e di scherma eran chiuse. Allora si pensò, d’intesa con alcuni miei cugini ed amici, di farci noi una sala per quegli esercizi. Un mio cugino studente di medicina, Lamberto Paravicini, fu l’anima di quel progetto; ci procurò una stanza a terreno nella casa di sua sorella, e propose che si dovesse dipingerla e arredarla noi stessi. Per alcuni mesi ci passammo le sere sulle scale, come tanti imbianchini, con le secchie e con pennelli dal lungo manico, a dar tinte, a tirar linee, e a dipingere certi emblemi patriottici, fatti col carbone, che volevan essere trofei e stemmi delle città d’Italia. Poi con una cena, e con brindisi sottovoce, se ne fece la inaugurazione; e in parecchi amici per alcuni anni ci si andava qualche ora ogni sera facendo esercizi di ginnastica e di scherma, divertendoci, e anche facendo i nostri _complotti_ patriottici in parecchie occasioni. La scherma ci veniva insegnata da qualche amico buon tiratore; fra gli altri ricordo Battaglia e Francesco Rosari. Le sciabole avevano l’impugnatura di ferro, ma la _lama_ di legno, poichè allora non se ne permettevano altre. Anzi una volta i gendarmi di Tirano, per maggior zelo, mi sequestrarono anche le sciabole di legno. La nostra sala di scherma e i ritrovi che ci si tenevano, durarono parecchi anni. Un altro mio cugino, Carlo Minunzi, ch’era uffiziale in Piemonte, alle volte faceva qualche breve corsa a Milano, di solito nascostamente, e allora capitava sempre nella sala a salutar gli amici. Carlo Minunzi era un bel giovane, ardito e gioviale; tra i cugini e gli amici godeva molte simpatie, e vi aveva anche una certa autorità per le molte prove del suo coraggio. Nelle _Cinque Giornate_ era stato uno tra i più audaci nel manipolo Manara, che poi aveva seguito col primo gruppo di volontari usciti da Milano. Poco dopo era stato nominato uffiziale nei granatieri piemontesi quando Carlo Alberto aveva voluto premiare, con un grado nel suo esercito, alcuni tra i volontari più meritevoli. Dopo la battaglia di Novara, a cui prese parte, rimase in Piemonte, ove continuò la carriera militare: fu in Crimea, diventò uffiziale di stato maggiore, fece le campagne del 1859, del 1860 e del 1866, in quest’ultima campagna come colonnello sottocapo di stato maggiore del generale Cialdini. Quando prima del ’59 capitanava il Minunzi nella nostra famosa sala di scherma, era una festa per tutti. Egli era buon ginnasta e buon tiratore; ma soprattutto era un soldato dell’esercito piemontese; e al Piemonte si guardava sempre con una secreta simpatia, anche in quei primi anni dopo il 1849 nei quali bisognava essere mazziniani. Sul finire dell’inverno del 1850 feci una cara conoscenza, quella della contessa Clara Maffei, presso cui dovevo trovare un’amicizia affettuosa e quasi materna, e la cui casa m’ha lasciato dei ricordi indimenticabili. Mio fratello Emilio l’aveva conosciuta parecchi mesi prima, e la contessa sentendomi nominare aveva voluto conoscere me pure. Sulla contessa Maffei ha scritto un bel libro ricco di informazioni veritiere, e di giusti apprezzamenti, Raffaello Barbiera. Avrei poco da aggiungere a quel libro, ma il nome della contessa mi verrà sovente sotto la penna, poichè è legato ai principali miei ricordi di quel tempo. CAPITOLO XII. 1850. II. _Sommario:_ La contessa Clara Maffei e il suo salotto. — Il conte Cesare Giulini. — Amici intimi e amiche della contessa. — Il _Crepuscolo_. — Carlo Tenca e i suoi collaboratori. — Carmelita Manara Fè, i suoi amici, e la contessa Ermellina Dandolo. — Ufficiali e soldati ungheresi. — Il conte Bethlen e suo nipote. — Primi accenni a nuove cospirazioni. — Organizzazione dei Comitati rivoluzionari in alcune città di Lombardia e del Veneto. — Il prestito di dieci milioni bandito da Mazzini per ordire la rivoluzione. — Primi processi politici a Venezia. — Dottesio condannalo a morte. — Il Comitato centrale di Mantova e il sacerdote Enrico Tazzoli. — Il Clero lombardo e il Governo austriaco. Clara Maffei aveva allora trentasei anni, ed era divisa da qualche anno da suo marito, il poeta Andrea Maffei; era figlia unica del conte G. B. Carrara Spinelli, e tutti la chiamavano la _contessa_. Era una donnina piccola, piacente più che bella, elegante, di maniere distinte e gentilissime; parlava bene, ogni suo discorso era improntato a un patriottismo ardentissimo, e si affezionava ai suoi amici e alle sue amiche tanto profondamente e imparzialmente da farci dire ch’essa aveva una spiccata predilezione... per tutti. La prima volta che entrai nel suo elegante salotto, a un secondo piano di via Bigli, condottovi da mio fratello, la mia soggezione fu grande; ma la contessa mi accolse con una affabilità tanto disinvolta e amorevole, invidiandomi scherzevolmente la mia età giovanile, che mi parve di esserle amico da un pezzo. D’allora, finchè visse non passò giorno, quand’ero a Milano, che di giorno o di sera, foss’anche per pochi minuti, non facessi la mia visita alla contessa Maffei. A quel tempo, e fino al 1859, la società di casa Maffei si componeva di pochi, ai quali però si potrebbe applicare il notissimo _pochi ma buoni_; tutti amici intimi e tutti patriotti, d’animo alto e vigoroso. Da quel salotto elegante e intelligente si irradiava una luce e direi quasi una volontà direttiva di azione patriottica, che ebbe una grande influenza morale in quegli anni, difficili e duri, della resistenza. Il giorno della mia presentazione c’era nel salotto il conte Cesare Giulini che non conoscevo ancora personalmente. Aveva fatto parte del Governo Provvisorio, e approfittando dell’amnistia era ritornato da poco a Milano, convinto, come diceva, di poter meglio servire il suo paese vivendo in patria che nell’esilio. E infatti fu tra quelli che lo servirono con maggiore efficacia; lo servì con l’autorità del suo nome, col suo ingegno, colla sua generosità, coll’esempio, e colla costanza della sua fede. Fermissimo sempre nei suoi principî liberali monarchici, era tollerante ed amico di molti che allora professavano principii diversi, purchè fossero saldi come lui nel volere l’indipendenza della patria. Ogni opera buona, benefica e patriottica, trovava in lui un iniziatore o un appoggio generoso. Il suo largo censo era tutto a servizio della patria e del bene: faceva continui acquisti di libri, e di opere costose, che poi prestava e diffondeva tra quanti gliene facevan richiesta, quasichè la sua fosse una pubblica biblioteca circolante, per diffondere gli studi e la coltura tra i meno favoriti dalla fortuna. Cesare Giulini aveva avuto un fratello maggiore di nome Rinaldo, di cui sentii parlare dal Correnti e da altri come d’un giovane d’ingegno superiore e di grandi speranze. Era di quel gruppo cui appartenevano Correnti, i fratelli Porro, Giovanni e Carlo d’Adda, e la sua morte fu un lutto nella gioventù liberale di quel tempo. Loro avo era stato il conte Cesare Giulini, l’illustre storico di Milano; e il loro padre il conte Giorgio, alla caduta del Governo napoleonico, era stato membro della Reggenza Cesarea. Tra gli amici più intimi che vedevo allora giornalmente dalla contessa Maffei ricorderò, oltre mio fratello Emilio e il Giulini, Carlo Tenca, Tullo Massarani, Giulio Carcano, Antonio Cussalli, il dottor Romolo Griffini, Antonio Allievi, Giacomo Battaglia, Antonio Lazzati, Carlo De Cristoforis, l’ing. Tagliaferri, il dottor Bartolomeo Garavaglia, Innocente Decio, Emilio Bignami Sormani. E quando dai loro paesi d’altre provincie venivano a Milano, non mancavano mai G. B. Camozzi di Bergamo, Giuseppe Finzi, il marchese Fossati, Giuseppe Zanardelli, Giuseppe Verdi. Di giorno venivano alcune signore della società elegante e aristocratica, da poco tornate dalle loro campagne o dall’estero in Milano. Di sera ci venivano solo alcune amiche più intime, le signore Saulina Viola Barbavara, Orsola Bianconi Robecchi, Giulietta Pezzi, e poche altre. Alcuni anni dopo il numero degli amici e delle amiche si accrebbe, e il salotto, pur conservando un carattere d’intimità, accolse altre persone note nel campo degli studi e del patriottismo, e giunse presto all’apogeo della sua fama e della sua importanza. In principio di quell’anno Carlo Tenca aveva fondato un giornale settimanale, che chiamò il _Crepuscolo_, con l’intento di farne un centro di studi e di aspirazioni politiche, sebbene non fosse, e non potesse essere, collo stato d’assedio, un giornale esclusivamente politico. L’importanza e l’influenza di questo giornale, che usciva una sola volta la settimana e trattava principalmente di letteratura, di arte o di scienze economiche, divennero subito grandi e diffuse. Gli articoli erano tutti ispirati alla nobiltà e alla rigidità del carattere del suo direttore. In quegli studi si intravedeva sempre un fine elevato e patriottico, per quanto lo concedeva la difficoltà dei tempi. In ogni numero c’era una rivista che esponeva con rara abilità i fatti politici della settimana avvenuti in ogni parte del mondo, ma serbando sempre il più assoluto silenzio su ciò che avveniva in Austria o nelle provincie italiane ad essa soggette. Questo silenzio che non poteva essere incriminato, fu la continua protesta del _Crepuscolo_; tutti la comprendevano, ed ebbe un’efficacia più grande di qualsiasi manifestazione clamorosa. Il _Crepuscolo_ fu un esempio raro di quanto possa esser grande l’influenza d’un giornale, dovuta non solo all’importanza degli scritti, ma alla rispettabilità e al carattere degli scrittori. Il primo numero del _Crepuscolo_ uscì il 6 gennaio del 1850, e col Tenca i suoi primi collaboratori furono Tullo Massarani per articoli di lettere ed arte; mio fratello Emilio per scritti di letteratura, di scienze sociali e politiche; Antonio Allievi, Antonio Colombo, Innocente Decio che scrivevano di economia politica, di statistica, di scienze giuridiche; Eugenio Camerini che faceva la critica letteraria e Giuseppe Mongeri la critica d’arte; il dottor Romolo Grifoni e Giovanni Cantoni, i quali vi trattavano questioni di scienze naturali e di igiene. Più tardi vi scrissero Emilio Bignami Sormani, Giacomo Battaglia, che morì poi nel combattimento di S. Fermo, e Enrico Fano: tra i molti corrispondenti delle provincie ricordo Gabriele Rosa, Giuseppe Zanardelli e Giovanni Rizzi, che poi fu uno degli amici intimi nel salotto della Contessa. Il Tenca, ingegno sodo, versatile, coltissimo, oltre la rivista politica, scriveva d’un po’ di tutto, ed esercitava una censura severa sugli scritti de’ suoi amici, per mantenere al giornale una continua uniformità negli intenti e nel modo di manifestarli. In quell’anno feci un’altra cara e preziosa conoscenza: fui presentato alla signora Carmelita Manara Fè, la vedova di Luciano Manara, una signora intelligente, interessante, e che non ostante le sofferenze d’una salute disfatta conservava ancora i lineamenti, direi raffaelleschi, della sua primitiva bellezza. Diceva allora, con molta serenità, di non aver più che un polmone; e forse era vero perchè morì poi etica; come morirono etici i suoi tre figli. Il suo salottino era frequentato da egregi giovani, quasi tutti reduci dalle ultime campagne, di cui parecchi erano stati commilitoni e uffiziali nel valoroso battaglione di suo marito; e tra questi il più assiduo era Emilio Dandolo, nelle cui braccia appunto suo marito aveva a Roma esalata l’anima generosa. In quell’anno però il Dandolo era partito per un lungo viaggio in Oriente con Lodovico Trotti. Dopo le peripezie del 1848 e del 49 quei due valorosi giovani avevano protratto, più che avevano potuto, il ritorno nel loro afflitto paese. Nel salottino della Manara conobbi allora la contessa Ermellina Dandolo, seconda moglie del conte Tullio, padre dei fratelli Dandolo, della quale mi occorrerà di parlare più avanti in questi miei ricordi. La vita intima e confidente nei piccoli crocchi di amici ci era resa tanto più preziosa, e direi necessaria, dalla durezza stessa dei tempi, e dagli incredibili rigori d’un governo militare, che rendeva impossibile ogni più piccola manifestazione di vita pubblica. I ritrovi, i colloqui fidati, le ansie, e talora i pericoli attraversati; crearono tra gli amici di quel tempo dei ricordi e dei vincoli come tra persone scampate insieme da un disastro. Dappertutto le condizioni pubbliche erano tristi, e la vita era dura in quel periodo della reazione violenta. In Ungheria, per esempio, erano succeduti, e succedevano, fatti gravi e raccapriccianti: dell’esercito insurrezionale degli honveas dodici generali erano stati impiccati, i soldati erano stati incorporati forzatamente nei reggimenti austriaci, e così pure gli uffiziali di qualunque grado quali semplici soldati. Rammento a questo proposito un episodio capitatomi nell’inverno di quell’anno. Viveva a Milano un conte Bethlen, ungherese e già maggiore degli ussari, assai ricco, il quale, parecchi anni prima del 1848, era uscito dall’esercito e stabilitosi a Milano aveva sposato una cugina di mio padre, donna Teresa Gianella. Era un uomo alto e forte, aveva il viso e il naso schiacciati, i baffi rossicci, lunghi ed irti; ma aveva l’animo buono e gentile; le sue maniere erano dolcissime, e da gran signore; veniva molto in casa nostra, ove lo vedevo fin da bambino. Una mattina di gennaio me lo vidi ad un tratto capitare nella mia stanza, non avendo trovata mia madre ch’era uscita di casa. Il suo aspetto era tutto mutato, il suo viso era stravolto, e aveva un’espressione d’ira e quasi di ferocia. Quella sua faccia, di solito tanto bonaria, mi parve in quel momento la faccia selvaggia d’un soldato barbaro; il suo occhio era diventato duro e scintillante; nel suo fare c’era qualcosa di violento, da far paura. «Che c’è? che cosa è successo?» gli domandai ansiosamente e spaventato. «Vieni, vieni subito con me... vedrai, vedrai!» mi rispose, e volle che lo seguissi. Nevicava. A grandi passi mi condusse nella via del Monte di Pietà, dov’egli aveva una bella casa. Gli chiesi ancora, timidamente, per strada che cosa fosse successo, ma egli non mi rispondeva che con lo stringermi fortemente la mano. Arrivati alla porta della sua casa, e tirandomi dietro uno degli stipiti, mi additò poco distante, e dal lato opposto, il palazzo dell’attuale Cassa di Risparmio, dove allora c’era la caserma del Genio militare. Dinanzi al portone della caserma passeggiava in su e in giù una sentinella, un bell’uomo alto, ravvolto in un gran cappotto, e tutto coperto di fiocchi di neve. «Vedi quel soldato?» mi chiese, «quello è mio nipote, il capo futuro della mia casa, è il conte Bethlen, colonnello degli Honveds nella guerra dell’indipendenza!» E su quel viso, la cui espressione s’era fatta ancora più dura e minacciosa, scendevano intanto due lacrime. Quanto dolorosa doveva essere, in quel momento, la rivolta nell’animo aristocratico e fiero di quello zio![17] In quei giorni per le strade di Milano se ne vedevano parecchi di tali soldati semplici, attillati e dal portamento distinto, ch’erano stati uffiziali, e anche uffiziali superiori dell’esercito insurrezionale ungherese, ora incorporati nei reggimenti austriaci quali semplici soldati. Per quanto il regime dello stato d’assedio fosse duro e grave di pericoli, per quanto fosse recente il ricordo dei disastri, e ben lontana la possibilità d’una riscossa, pure qua e là si riannodavano i fili spezzati dei vecchi legami politici, e si cominciava a riaccendere qualche focolare di cospirazione, per quell’intesa generale del resistere e del principiare da capo. Queste prime cospirazioni, che poi andavano man mano crescendo, erano di carattere mazziniano. La bandiera monarchica, dopo le sconfitte del 1848 e del 1849, aveva perduto gran parte del suo prestigio nella fantasia popolare di Lombardia, ove non esisteva una tradizione monarchica nazionale. Il Piemonte, intento seriamente a rimarginare le sue ferite, con una savia e dignitosa politica di raccoglimento, non era fatto per eccitare e per soddisfare le impazienze degli oppressi. Le promesse piene di mistero e di nebulosità di Giuseppe Mazzini; i suoi scritti miti e a un tempo intransigenti come di un apostolo; la sua parola ispirata, affascinante; la sua opera di propaganda e di azione costante, giornaliera; il suo lavoro, che tendeva a una riscossa vicina, dovevano esercitare un gran fascino sulle fantasie di patriotti ardenti che volevano affrettare la rivincita della Patria. Era quindi naturale che i seguaci di Mazzini fossero diventati allora assai numerosi, e che le nuove cospirazioni di Mazzini in quei giorni erano seguaci convinti di tutte le sue idee; parecchi lo seguivano in nome del principio unitario; altri perchè persuasi che soltanto con un’agitazione continua si potesse tener vivo il programma della resistenza. E questi infatti li vedremo staccarsi subito dal Mazzini quando Cavour, colla sua mano forte e sicura, prese secretamente la direzione della resistenza, e alzò la bandiera dell’indipendenza nazionale. Nell’inverno tra il 49 e il 50, come seppi da Emilio, vi era stata una riunione nello studio di Francesco Brioschi, che dava allora lezioni di matematica; e in questa adunanza si manifestò la scissione tra due diverse tendenze. Il Tenca, seguito dall’Allievi, da mio fratello Emilio e da altri, sostenne che bisognava tener vivo il sentimento nazionale e di resistenza cogli studi, colle pubblicazioni, per quanto si poteva, e coll’agitazione delle idee. Gli altri furono invece per ordine delle società segrete. Il Tenca pensò allora di pubblicare il Crepuscolo, gli altri nominarono, con una specie di votazione, un Comitato segreto di cospirazione di cui fecero parte De Luigi, Pezzotti, Mora, Gerli: Comitato disperso poi dal processo di Mantova. Da allora si erano andati formando in diverse città di Lombardia e del Veneto, e sotto gli auspicî di Mazzini, altri comitati secreti, il cui scopo da principio era stato quello di mantenere tra le diverse provincie delle relazioni che all’occorrenza potessero servire per un’azione pronta e unanime, quale appunto era mancata nella rivoluzione del 1848. Questi comitati però nel pensiero di Mazzini dovevano servire alla preparazione immediata della rivoluzione. Infatti un Comitato nazionale italiano, che Mazzini aveva costituito a Londra in quell’anno, pubblicava il 10 settembre un proclama[18], col quale bandiva un prestito di _dieci_ milioni per affrettare l’indipendenza italiana. Quel proclama e quel prestito parvero allora un atto audace, e di alta importanza; mentre effettivamente non dimostrava che l’imprudenza e l’ingenuità di chi l’aveva pensato. E infatti con ciò si mettevano tutte le Polizie, e specialmente quelle della Lombardia e del Veneto, sull’avviso di nuovi tentativi rivoluzionari; e come mai si sarebbero potuti raccogliere dieci milioni, con piccole sottoscrizioni, in secreto, o durante lo stato d’assedio? Anche allora però dissentivano parecchi, e il prestito dei dieci milioni trovò forti contradditori. Tra i principali, che già non seguivano Mazzini nell’azione, c’erano Garibaldi, Manin, Montanelli, Cattaneo, Cernuschi, Giuseppe Ferrari, e molti tra gli emigrati più noti; maggior seguito egli aveva nelle provincie italiane, soprattutto in quelle occupate dall’Austria: in queste la disperazione teneva luogo del ragionamento, ed ogni più folle speranza pareva migliore del disperare. Il prestito ebbe, com’era naturale, un esito tenuissimo e disastroso; a che cosa poi dovessero servire, non i milioni, ma le poche migliaia di lire che furono stentatamente raccolte, lo vedremo più innanzi; come pure vedremo quale doveva essere la tragica fine dei Comitati. I Comitati intanto avevano avuto l’incarico da Mazzini di ricevere e mettere in vendita le cartelle del prestito. Senza troppo pensare alla vanità del progetto e alle conseguenze terribili che ne potevano venire, uomini serii e patriotti provati, si misero all’opera per assecondare Mazzini. Giuseppe Finzi e Tullo Massarani erano andati appositamente a Londra, e n’eran tornati carichi di cartelle, che poi introdussero in Lombardia. Anche mio fratello Emilio, anch’io ne ricevemmo e ne mettemmo in giro. Da principio ciò si faceva in gran secreto; ma poi la diffusione si fece con minore riserva: si conosceva il gran rischio, ma non ci si pensava; nessuno ancora supponeva che dovessero condurre tanti al patibolo. Ma non si tardò ad avere una nuova prova della crudele severità del governo militare col processo politico di Venezia, e colle condanne, tra le quali quella del Dottesio che per avere introdotto dalla frontiera di Como soltanto dei libri e delle corrispondenze, veniva impiccato a Venezia l’11 ottobre del 1851 (Veggansi le memorie del Maisner). All’infuori dello spaccio delle cartelle di Mazzini, i Comitati non fecero, durante quell’anno, gran che. Parecchi, seguendo l’impazienza del Maestro, avrebbero voluto far di più: intanto si era pensato a un migliore ordinamento dei Comitati stessi; e il novembre del 1850, in una riunione in Mantova di diciotto, cittadini e delegati, si costituì sotto la presidenza del sacerdote professor Enrico Tazzoli un Comitato centrale, il quale doveva disciplinare e dirigere l’azione dei Comitati delle varie provincie. Per quanto questi primi atti della cospirazione mazziniana procedessero poco cautamente, le autorità austriache per un pezzo non si avvidero di nulla. Il distacco tra il paese e chi governava era così grande che anche il trovare delle spie non riusciva sempre facile. Del resto i governanti ben poco si curavano di ciò che si pensava nel paese e di ciò che potesse succedere nell’avvenire; poichè il gran da fare era quello di cancellare ogni traccia, ogni ricordo del quarantotto, e di coprire tutto con una cappa di piombo, sotto la quale il paese non potesse nè muoversi nè respirare. Uno dei ricordi del quarantotto che aveva maggiormente eccitato le fantasie dei governanti austriaci, era stata la condotta del clero durante il periodo della rivoluzione. La condotta del clero di Lombardia, durante quegli avvenimenti, era stata infatti patriottica; la maggior parte dei preti, e specialmente i più eminenti per ingegno e per carattere, avevano seguito le aspirazioni nazionali dei loro concittadini, e talora le avevano aiutate con la parola e con l’opera. Il regime severo dell’arcivescovo di Milano, durato oltre trent’anni, regime ispirato al principio d’una certa elevatezza, aveva contribuito non poco, come s’è detto, a formare un clero buono, colto e rispettabile. Il Governo austriaco, appena ristaurato nelle provincie italiane, dopo il 9 agosto s’era messo subito a perseguitare e a disperdere i preti di patriottismo. Prese di mira pei primi i migliori e i più dotti, cacciandoli dai seminarî, dagli ospedali e dalle opere pie, facendoli relegare in piccole parrocchie di campagna, od obbligandoli a ritirarsi in uffici minori. L’arcivescovo Romilli, succeduto al Gaisruck, debole e pauroso, malvisto anch’esso dal Governo austriaco pei buoni rapporti che aveva avuti col Governo Provvisorio non aveva saputo difendere il suo clero. E così fecero gli altri Vescovi; anche quando il Governo, potendo avvolgere qualche prete in processi politici, li aveva fatti fucilare o impiccare. Inutile dire che questi infelici furono abbandonati nel tempo stesso anche da Roma, che ne concesse senza proteste, la sconsacrazione: erano già ben lontani e dimenticati i giorni in cui il Papa aveva benedetto l’Italia, e gli austriaci insultavano il Papa. Molti chierici dei seminari lombardi avevano fatta la campagna del quarantotto nei battaglioni degli studenti e dei volontari. Pressochè tutti ripresero poi l’abito sacerdotale; alcuni, commossi nelle loro coscienze, nel vedere il nuovo indirizzo della Chiesa che volgeva a ritroso dei loro sentimenti patriottici, si fecero missionari. Ne ho conosciuti parecchi di questi preti, chiamati, con un senso di riverenza dagli uni, e da altri con ironia, i _preti del quarantotto_; i quali, traverso una vita non sempre scevra di amarezze, ma intemerata, seppero conservarsi fedeli al loro antico ideale della religione non disgiunta dalla patria; e riveriti e stimati da persone d’ogni partiti furono veri ministri di pace e d’ogni più eletta virtù cristiana. NOTE. [17] Il conte Bethlen ebbe una sola figlia che maritò a Milano prima al Principe Fabio Gonzaga, poi in seconde nozze al nobile Giovanni Frigerio. [18] Il _Proclama_ di Londra era in nome di sessanta Rappresentanti della Costituente Romana; ma pare invece che quei Rappresentanti, d’un’Assemblea disciolta, non si fossero riuniti nè in molti nè in pochi, e che non avessero dato a Mazzini quel mandato. Questo fu un espediente per giustificare, dinanzi al partito rivoluzionario italiano, la dittatura che Mazzini assumeva in quei giorni. Ecco il Proclama: PRESTITO NAZIONALE ITALIANO 1. Il Comitato Nazionale apre un prestito di _dieci_ milioni di lire italiane. 2. Il prestito è diviso in duecentocinquanta mila azioni, cinquanta mila di lire cento, e duecento mila di lire venticinque per ciascuna. Le cartelle sono distribuite in serie, e portano ognuna di esse un numero progressivo. 3. Le azioni verranno consegnate all’acquirente al momento in cui sborserà il valsente. Le azioni sono al presentatore, trasmissibile d’una in altra persona colla semplice tradizione della Cartella, il cui possesso prova la proprietà dell’azione, e il credito di tutti gli interessi decorsi. 4. Gl’interessi decoreranno alla ragione del sei per cento all’anno, dal momento della consegna verso pagamento del prezzo, momento che sarà indicato nelle cartelle dalle persone incaricate dal Comitato di distribuirle. 5. L’impiego delle somme incassate è fatto dal Comitato Nazionale, secondo le facoltà indicate nell’atto sopraccennato del 4 luglio 1849, esclusivamente in acquisto di materiali da guerra, o in altro che concerna direttamente il conseguimento dell’indipendenza e della libertà d’Italia. Nessuna parte del fondo potrà essere distratta in sussidi di qualunque genere. 6. Le somme incassate verranno depositate in Londra, presso i banchieri Martin, Stone e Martin, 68, _Lombard Street_. Il Comitato, a norma delle circostanze, potrà cangiare il luogo del deposito. 7. Una commissione di sei individui, metà italiani, metà stranieri, verificherà periodicamente lo stato generale d’entrata e d’uscita dell’imprestito. Questi verificatori non potranno inceppare in modo alcuno l’amministrazione. 8-9. Modalità ............. 10. Costituito in Italia un Governo Nazionale, il Comitato Nazionale Italiano deporrà nelle sue mani i libri, i registri delle cartelle rimaste invendute, il materiale da guerra acquistato, e ogni cosa concernente l’imprestito. La commissione dei verificatori farà in quel tempo la sua relazione allo stesso Governo. 11. Il Comitato Nazionale Italiano e i segnatari dell’atto citato assumono l’obbligo di fare quanto è in loro potere, perchè questo Governo Nazionale, riconosciuto il debito contratto, fissi l’epoca la più breve pel rimborso del capitale e de’ suoi interessi. 12. Il Comitato Nazionale promette assoluto segreto pel nome degli acquirenti che volessero, finchè durano le attuali condizioni politiche, rimanere ignoti. Terrà registro nondimeno dei nomi e delle somme versate, perchè a tempo debito possano avere, fra i loro concittadini, testimonianza del non avere disperato della salute del paese, e dell’aver cooperato ad affrettarla. . . . . . . . (_Dagli scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini_): =Cedola del Prestito.= _Dio e Popolo:_ PRESTITO NAZIONALE ITALIANO DIRETTO UNICAMENTE AD AFFRETTARE L’INDIPENDENZA E L’UNITA’ D’ITALIA FRANCHI 10 (o 25) Ricevuta di franchi _dieci_ (o venticinque) di Capitale col mercantile interesse di mezzo franco al mese a datare di questo giorno. _Pel Comitato Nazionale:_ GIUSEPPE MAZZINI AURELIO SAFFI — MATTIA MONTECCHI. CAPITOLO XIII. 1851. _Sommario:_ Chiusura delle Università, e l’insegnamento privato. — Il duello di Luigi Della Porta. — I Comitati minori di cospirazione. — G. B. Carta, alcuni suoi colleghi. — Il fatto del dottor Vandoni. — L’uccisione del Corbellini. — Il tappezziere Antonio Sciesa. — Condanne e fucilazioni, tra le quali quella del sacerdote Giovanni Grioli di Mantova. — Una riunione a Mantova dei rappresentanti dei Comitati. — Un viaggetto in Svizzera a piedi, finito in landau. — Il viaggio dell’Imperatore d’Austria a Milano per le manovre di Somma. — Esecuzione del Dottesio. — La morte del Berchet. Continuava la chiusura delle Università, e continuavano gli studenti a non studiare. L’insegnamento era dato da professori privati, che ne chiedevano l’autorizzazione, ma non potevano riunire che dieci studenti contemporaneamente. Di questi gruppi ce n’eran quindi parecchi, e quello a cui io appartenevo aveva per professori l’avvocato Barinetti, che fu poi professore a Pavia, per la storia e per le istituzioni del diritto romano; Antonio Allievi per la filosofia del diritto, per l’economia politica e pel diritto commerciale; e l’avvocato Antonio Mosca pei codici e la procedura civile e penale. Gli esami eran dati, alla fine dell’anno scolastico, da professori dell’Università. Ci radunavamo in casa dei nostri professori, e di solito le lezioni incominciavano, e finivano, con una discussione politica, o ricambiandoci le notizie sui fatti della giornata. Poveri studî! Ma ciò era naturale; i fatti e gli episodi dolorosi e talora terribili dello stato d’assedio, e l’eccitazione dei nostri animi, ci distraevano troppo dagli studi sereni e tranquilli. Le discussioni politiche seguivano di solito la falsariga delle idee e dei precetti di Mazzini; i suoi assiomi ci sembravano verità; il suo patriottismo mistico, intransigente ci esaltava; le sue formole _Dio e il popolo, pensiero ed azione_, ci dispensavano dal pensare e ci spronavano ad agire. E perchè? Non lo sapevamo, ma gli animi nostri c’erano vagamente disposti. Eran pochi quelli che richiamassero le discussioni alla realtà delle cose, con una parola pacata e assennata; ed io non ero tra questi. Le disposizioni battagliere della studentesca dovevano presto avere una vittima. Luigi Della Porta, di distinta famiglia milanese, e che aveva fatte le campagne del 48 e 49 in Lombardia e a Roma, recatosi a Pavia per ragioni de’ suoi studi, ebbe una sera nell’uscir di teatro un vivace alterco con un ufficiale austriaco di cavalleria, e lo sfidò. Il giorno dopo ci fu il duello. Il Della Porta era un giovane animoso, ma gracile, e che ben poco sapeva di scherma. Non so se per alterezza sua, volle battersi alla sciabola con un avversario ch’era un forte tiratore. Dopo pochi colpi egli ne ricevette uno mortale al petto, e spirò nella stessa caserma dove era avvenuto il duello. L’impressione pel fatto doloroso in Milano fu grande; moltissimi si recarono a Pavia pei funerali, e sulla tomba della vittima mio fratello Emilio si faceva interprete della commozione generale, con un coraggioso discorso pronunciato in mezzo a uno stuolo di studenti e di poliziotti. Durante l’inverno e la primavera di quell’anno si cominciò a vedere qualche primo effetto dei denari raccolti col prestito di Mazzini, che arenatosi presto era ben lontano dal raggiungere i dieci milioni. L’effetto fu la fondazione di alcuni piccoli Comitati d’azione, che sorgevano ed agivano qua e là all’infuori di quei Comitati principali che facevan capo a quello di Mantova. Ciò del resto era negli usi di Mazzini. Nelle sue cospirazioni faceva sorvegliare i capi dai gregari, e i Comitati principali dai Comitati secondari: tutti poi erano sorvegliati da quelli che seguivano lui più ciecamente. Di questi Comitati minori se n’era formato uno in Milano, sotto la direzione di G. B. Carta, un vecchietto, ch’era stato soldato credo di Napoleone, e che non fece altro durante la vita che cospirare. Egli fu parecchie volte in prigione; ci ritornò nel 1852 e ci stette fino al 1857. Era di carattere mite e gentile, eppure quando si trattava di cospirare non si fermava dinanzi a nessun eccesso. Tra gli addetti, o genti, di questo Comitato c’erano un tale Azzi di professione tintore, rivoluzionario convinto, esaltato, capace di tutto; un Corbellini, ch’era un birbante, e un capo-facchini Francesco Ferri, uomo audace, violento, ma onestissimo; c’era pure il tappezziere Antonio Sciesa. Con questo Comitato erano in relazioni, più o meno dirette, anche altri del partito d’azione di una condizione più alta, quali erano De Luigi, Carlo De Cristoforis, Guttierez e Maiocchi futuri deputati, e credo anche il Gerli, futuro Sotto-Prefetto. Il Comitato cominciò dal diffondere dei proclami e dei foglietti rivoluzionari; tentò di preparare, ma con poco esito, qualche dimostrazione, e finì col compiere un fatto di sangue. Era avvenuto in quei giorni un caso che aveva indignata l’opinione pubblica. Il dottor Vandoni, medico provinciale, aveva denunziato alla Polizia un medico, suo dipendente d’uffizio, il dottor Ciceri, dicendolo possessore di cartelle del prestito di Mazzini. Era un tiro che bastava per mandarlo sulla forca. Il dottor Ciceri fu arrestato e processato; ma per fortuna quelle cartelle, che realmente aveva avute, e che erano state vedute dal capo medico, sfuggirono alle ricerche della Polizia, e così egli potè schivare la condanna a morte. Ma il Comitato, imitando alla sua volta i Consigli di guerra, si riunì e condannò a morte il dottor Vandoni. L’Azzi diresse i preparativi dell’esecuzione, che fu freddamente compiuta da un tal Claudio Colombo, operaio scultore (puntatore). Il Colombo si fece incontro al dottor Vandoni, che rincasava in via Durini alle ore quattro e mezzo dopo il mezzogiorno, e gli diede una stilettata al cuore, senza che nessuno se ne accorgesse; poi prese tranquillo le vie San Stefano e Cerva, quindi il vicolo che conduce al Naviglio di San Damiano dove si trovavano alcuni suoi compagni, tra i quali il Corbellini, che fu poi assassinato alla sua volta, per proteggere eventualmente la fuga di lui. Pochi minuti dopo io passavo vicino al luogo ove era stato commesso l’assassinio; il morto era stato trasportato nella sua abitazione che distava pochi passi. Intanto i passanti si fermavano in capannelli, chiedendosi l’un l’altro le notizie del fatto; e da ogni parte era un accorrere di guardie di Polizia e di gendarmi. La grave notizia si diffuse in un baleno per tutta la città; e il terribile fatto, bisogna confessarlo, fu generalmente accolto con una incredibile esplosione di gioia. Tanto i sentimenti onesti si abbuiano quando i tempi sono tristi e violenti. Parecchi mesi dopo si seppe che l’assassino era riuscito, senza troppe difficoltà, a rifugiarsi a Londra. Questo assassinio n’ebbe per conseguenza un altro, che avvenne alcuni mesi dopo. Tra quelli che avevano protetta la fuga dell’assassino del Vandoni c’era il Corbellini, il quale andava continuamente domandando denari al Comitato, minacciando di denunciare tutti se non gliene davano. Gliene diedero più volte, ma alla fine, quando non ce ne furon più, i suoi amici trovarono più economico l’ammazzarlo. E così una notte il Corbellini fu trovato mortalmente ferito sul lastrico della via Chiaravallino. Egli spirò senza poter dire il nome dei suoi uccisori. Su questi sciagurati avvenimenti l’Azzi stesso lasciò scritto questi ed altri particolari (VITTORE OTTOLINI. _La Rivoluzione Lombarda_). Doloroso, e non privo d’una certa grandezza, fu il fatto del povero Sciesa tappezziere, patriotta caldissimo, e che fu vittima delle imprudenze del Comitato. Sorpreso mentre affiggeva, nella notte del 31 luglio, un manifesto rivoluzionario, rettorico e senza scopo, per incarico del Comitato, fu arrestato e fucilato due giorni dopo. Furon molte le promesse e le pressioni fatte a lui, ch’era padre di famiglia, affinchè rivelasse i nomi di coloro che componevano il Comitato. Tutto fu inutile; e rimase celebre quel suo tirem innanz che secondo alcuni avrebbe detto lungo la strada che conduceva al luogo della fucilazione, mentre un ufficiale gli andava promettendo la grazia se facesse delle rivelazioni. Mi ricordo d’avere allora interrogato su questo fatto il sacerdote Giuseppe Negri, addetto alle carceri, che accompagnò lo Sciesa alla fucilazione. Le parole _tirem innanz_, secondo il Negri, non le avrebbe dette lungo la strada all’ufficiale che comandava i soldati, ma bensì poco prima che il triste corteo si avviasse al luogo del supplizio; forse al profosso, che lo esortava a confessare. Ciò è anche più conforme alle formalità che si usavano allora in occasione di queste condanne militari. Gian Battista Carta, capo di quel Comitato che aveva dato allo Sciesa i proclami da diffondere e da affiggere, in una sua lettera a Vittore Ottolini, autore della storia della Rivoluzione Lombarda, scrisse: _Io vidi lo Sciesa camminare imperterrito a morte, e collo sguardo mi assicurava del suo silenzio_. Il povero Sciesa, nel suo eroismo semplice e sereno, è certamente degno d’essere ricordato con ammirazione: la sua mente, la sua educazione, non erano in grado di giudicare se l’opera di cui era richiesto fosse all’altezza del sacrifizio a cui si esponeva: diede alla patria tutto sè stesso, come un soldato che obbedisce e non discute. Degli arresti politici, per fatti veri e supposti, ne avvenivano, in Milano e nelle provincie, quasi giornalmente, di solito seguiti da condanne, e talora anche da condanne di morte. Tra queste ricorderò una delle più raccapriccianti. Il sacerdote Giovanni Griola, di Mantova, avendo dato due lire a un soldato che gliene aveva chieste, fu accusato d’averlo voluto indurre a disertare; e senz’altra prova, fuorchè l’accusa d’un altro soldato, veniva fucilato il 5 novembre di quell’anno[19]. I Comitati principali che, come vedemmo, erano sorti sotto la direzione del Comitato centrale di Mantova, non avevano che poca relazione con quegli altri Comitati minori che qua e là sorgevano e che agivano per loro conto. Questi avevano supposto di poter essere chiamati in breve a qualche azione importante; ed ora, vedendo ogni giorno più diminuire le loro speranze, cominciavano a chiedersi tra loro se si dovessero attendere, o promuovere, gli avvenimenti. Il Comitato centrale, che veniva su ciò continuamente interpellato, pensò di chiamare a Mantova i rappresentanti dei diversi Comitati provinciali por discutere, deliberare, e procurare un accordo circa la condotta da seguire. Il Comitato di Milano, di cui era capo il dottor De Luigi, e che non è da confondersi con quello presieduto da G. B. Carta, chiamò a raccolta alcuni tra i principali del partito d’azione milanese per averne consiglio. Mio fratello Emilio, ch’era intervenuto a quella riunione, mi disse ch’era prevalso l’avviso di stare sull’aspettativa, e d’astenersi intanto da tentativi vani i cui risultati non potevano essere che inutili sciagure. Mi confidò pure ch’era stato scelto Antonio Lazzati per recarsi a Mantova a riferire e a sostenere questa opinione del Comitato milanese. Eravamo nel mese di dicembre. Il Lazzati si recò a Mantova, e contribuì a far prevalere, nella riunione dei delegati, il consiglio di cui era interprete. Quella riunione, per quanto il risultato non fosse rivoluzionario, doveva costare, come vedremo poi, la libertà o la vita a parecchi degli intervenuti. L’attitudine nell’aspettativa non era nelle idee di Mazzini, e i suoi più devoti non ne facevano mistero. «Mazzini non approva,» dicevano essi all’orecchio; «egli vuole che si agisca,» e mostravano qualcuno di quei suoi foglietti in carta velina e a caratteri minutissimi, con cui Mazzini comunicava ai suoi più intimi i suoi ordini e i suoi pensieri. _Pippo_, come abbiam detto altrove, era il nomignolo di Giuseppe Mazzini. Lo chiamavan sempre così, e col fare un po’ misterioso, e di compiacimento, quelli che volevano mostrarsi in confidenza con lui e darsi dell’importanza. Quando dicevano _Pippo vuole, o non vuole_, non c’era modo di smuoverli. Gli avvenimenti dovevano più tardi smuoverne parecchi, anzi i più tra i migliori. Ma anche Mazzini ebbe i suoi _legittimisti_ che, pur traverso i grandi avvenimenti del 59, non dimenticarono e non impararono nulla. In Valtellina, ove mi recavo ogni anno con mia madre e coi miei fratelli l’autunno, non c’erano Comitati, ma c’eran molti patrioti che si trovavano insieme di frequente, che si tenevano in relazione con amici d’altre provincie, che facevan venire dalla vicina Svizzera giornali e lettere, e che ricevevano anch’essi di tanto in tanto i foglietti di Mazzini. Il contrabbando dei giornali, dei libri, e delle lettere, era il gran daffare, nell’alta Valtellina, dei patrioti, i quali poi facevan capo a mio fratello Emilio. Nei paesi piccoli ogni cosa dà nell’occhio, e si era quindi molto sorvegliati dal Commissario di Polizia e dai gendarmi. Mia madre era sempre in pena; ci predicava la prudenza, e ci lasciava volentieri far delle gite e delle passeggiate pei monti per interrompere la sorveglianza in paese e nel caffè. In quell’anno poi diede a Emilio e a me un gruzzoletto per una gitarella in Svizzera. Pensammo di recarci a Lucerna, attraversando il Bernina e l’Engadina. A quei tempo, e alla nostra età, due studenti non potevano fare un viaggietto in Svizzera se non a piedi, e collo zaino in spalla: era di prammatica. Collo zaino in spalla si fece dunque la prima tappa da Tirano a Poschiavo; e quei primi quindici chilometri ci persuasero che si poteva benissimo spedire gli zaini a Coira per la posta, salvo riprendere il programma nella sua interezza da Coira in avanti. Il giorno dopo, a piedi s’intende, giungemmo a Samaden. Nè a Samaden, nè a S. Maurizio, nè in nessun punto dell’Engadina, c’erano allora quei grandi alberghi che vi si vedono oggi: c’eran delle piccole locande, e anche solo delle osteriuccie, per dare alloggio o da mangiare ai pochi passeggieri o ai carrettieri che capitassero. Ci fermammo in un piccolo albergo chiamato la _Posta_, che fu l’antecessore del _gran hôtel_ detto ora il _Bernina_. A terreno c’erano due stanze, impregnate di odore e di fumo di pipa, una delle quali serviva di bettola, e l’altra era riservata ai forestieri di maggior riguardo; accanto c’era la cucina; al piano superiore alcune camere, due o tre delle quali servivano pei passeggieri che vi passavano la notte. In ognuna di queste camere, assai piccole, c’era un lettone grande, a tre posti, come il _coupé_ d’una diligenza, pel caso che i forestieri da alloggiare fossero stati parecchi. L’albergatore, nel condurci in una di queste camere, ch’era la sola disponibile, ci avvisò che uno dei posti del letto era stato accapparrato per quella notte da un tenente della landvher, che però, non essendo ancora arrivato, forse il letto poteva rimanere tutto per noi due. Poco rassicurati, ma molto stanchi, ci buttammo senza svestirci sul lettone dei tre posti. Quando a un tratto il batter d’una sciabola sugli scalini di legno ci avvisò che arrivava il tenente; il quale infatti entrò nella camera, non si curò di noi, sicuro del suo posto, accese la pipa e principiò a svestirsi. In silenzio noi pure, lasciammo i due posti del lettone al tenente, scendemmo nella sala dove avevamo cenato, e sdraiatoci sulla tavola cercammo quel sonno che la durezza del giaciglio contendeva alla nostra stanchezza. Ricordo questo episodio che mi rammenta la Engadina di cinquant’anni fa, quand’essa viveva ancora nella sua verginità primitiva, e non aveva subìta quella trasformazione che ne fa oggi uno dei più eleganti ritrovi cosmopoliti. La continuazione del nostro viaggetto poetico e pedestre era rimandata al giorno dopo. Peccato! guai se si abbandona un proposito; non si riprende più. Le strade ferrate nella Svizzera allora erano pochissime; ma c’eran tante diligenze! Si andò a Coira, ma non a piedi; poi a Lucerna, al Righi, a Zurigo, al Gottardo, a Lugano, e a Capolago per lo più in diligenza. A Capolago si diede una capatina nella libreria del De Boni, ma non ci incaricammo di introdurre libri da Chiasso, come aveva fatto il povero Dottesio, arrestato in quell’anno; quindi si ripartì per Como e per la Valtellina; Emilio si fermò sul lago. Giunto a Sondrio, mi accorsi che avevo fatto male i miei conti, e non mi rimanevano che pochi soldi in tasca. Avrei potuto rivolgermi a qualcuno, e trovar credenza; ma per un certo pudore giovanile non ne ebbi il coraggio: impiegai i miei soldi in altrettanti panini, e non avendo da pagare il posto della diligenza presi un legno a due cavalli che pagai poi a Tirano. Così finiva in _landau_ il mio viaggetto per la Svizzera che dovevo fare a piedi, e con lo zaino in spalla. Nell’autunno di quell’anno, e precisamente il 22 settembre, l’Imperatore Francesco Giuseppe faceva una corsa in Lombardia. Era la prima volta che ci veniva da quando era salito al trono, e ci veniva senza pompe e senza ricevimenti, che, del resto, sarebbero stati impossibili: non ci veniva come Imperatore, ma come Capo dell’esercito per assistere alle grandi manovre delle brughiere di Somma e di Gallarate. Il luogotenente, generale Strassoldo, aveva officiato il Municipio di Milano perchè si facessero dei festeggiamenti; ma nel Consiglio Comunale il conte Lorenzo Taverna aveva coraggiosamente protestato, dicendo che le condizioni economiche del Municipio e della città non permettevano spese _voluttarie_, mentre poi le _notificazioni_ del maresciallo Radetzki, che rendevano responsabile tutta la città per fatti individuali contro l’ordine pubblico, non consigliavano feste e riunioni popolari. E così non se ne fece nulla. Anche il Municipio di Como, invitato a solennizzare il soggiorno dell’Imperatore in città, nulla aveva deliberato per l’assenza dei consiglieri; e il Municipio per ciò era stato sciolto. Le autorità governative erano furiose. Le manovre erano andate malissimo; alcune cattive disposizioni militari, e alcuni contrattempi, produssero nelle truppe dei gravi disordini e degli atti d’insubordinazione, compreso quello di far man bassa sulle tende e sulle cucine predisposte per l’Imperatore, per lo Stato Maggiore, e pei rappresentanti esteri. Ne venne un tale disordine che le manovre furono interrotte, e l’Imperatore sdegnato, se ne ripartì. L’Imperatore Francesco Giuseppe, che dopo la assunzione al trono, e dopo i grandi avvenimenti del 1848-49, veniva a Milano, e nel regno Lombardo-Veneto per la prima volta, veniva in mezzo un grande apparato di truppe, e ripartiva senza pronunciare una parola benevola, una parola di pace. Ripartiva il 29 settembre, e l’11 ottobre veniva rizzata a Venezia una forca, su cui saliva Luigi Dottesio di Como. Erano stati condannati a morte pel sospetto che introducessero dei libri da Capolago il Dottesio e il Maisner. Si disse allora che Radetzki interrogato sulla grazia sovrana rispondesse che ne bastava una; e il Dottesio fu impiccato. Alla fine di quell’anno moriva Giovanni Berchet. Tra il continuo cadere d’ogni speranza, tra lo spegnersi d’ogni fiaccola che l’alimentava, era un triste presagio anche la scomparsa del poeta e del patriota che aveva tanto eccitate e tenute vive, le speranze di un’intera generazione. NOTA. [19] Nella perquisizione fatta al sacerdote Grioli, furono trovati alcuni manifesti rivoluzionari. Gli fu offerta la grazia se avesse fatte delle denuncie o delle rivelazioni, ma il bravo sacerdote non volle compromettere nessuno, e fin sul luogo del supplizio, mentre lo si esortava a fare delle rivelazioni, tacque, e disse ai soldati: «Fate il vostro dovere!». CAPITOLO XIV. 1852. _Sommario:_ Arresto del sacerdote Tazzoli. — Carnevale squallido — Il teatro della Scala e il teatro Carcano. — I giovani e il patriottismo allegro. — Antonio Lazzati e Carlo De Cristoforis. — Il ritratto del conte Nava all’esposizione di Brera. — Numerosi arresti tra i membri dei Comitati. — Gli arrestati sottoposti a processo nelle prigioni di Mantova. — Le delazioni di Luigi Castellazzo. — Arresto di Antonio Lazzati e di altri che vengono condotti a Mantova. — Episodio del Pasotti e di Cervieri. — Arresto di Giovanni Pezzotti e suo suicidio in una prigione del Castello di Milano. — Il colpo di Stato in Francia. — Timori e speranze. — Le prime condanne a morte nei processi di Mantova. Il 1852 principiava con gravi preoccupazioni, e con nuovi motivi d’allarme nel campo patriottico. Erano stati fatti alcuni arresti politici nelle provincie venete, e il 27 di gennaio veniva arrestato in Mantova il sacerdote Enrico Tazzoli professore nel Seminario, presidente, come s’è visto, del Comitato Centrale. Il Tazzoli era uomo di mente colta, elevata, di carattere generoso, fortissimo. La sua rispettabilità come cittadino e come sacerdote, lo rendeva molto autorevole in Mantova, e presso quanti lo conoscevano di persona, o per fama. La notizia ch’egli era stato arrestato ebbe un’eco diffusa di dolore e di inquietudine nelle provincie di Lombardia e del Veneto; i Comitati ne furono atterriti. Ciò veniva a render più sospettosa e più triste la vita in quei giorni; la vita su cui pesava lo stato d’assedio, e che si trascinava senza speranze e nella monotonia del dolore. La stessa vita economica del paese non riprendeva che stentatamente; ogni iniziativa, ogni atto che fosse indizio di attività o di volontà era guardato con sospetto da chi governava; e a buon conto veniva sorvegliato severamente, o represso. Gli affari non camminavano, e l’economia pubblica ne soffriva grandemente. Tutto languiva, tutto immiseriva. Due o tre teatri aperti rappresentavano tutta l’allegria del carnevale; e tra questi la _Scala_, sempre sfollata di pubblico e affollata di ufficiali della guarnigione. I generali e lo Stato maggiore occupavano i palchi delle principali famiglie milanesi ch’eran tutt’ora in esiglio; e agli ufficiali erano riservate le prime file della platea. Il teatro Carcano, fuor di mano, non era di solito frequentato dagli ufficiali; era quindi diventata una dimostrazione patriottica l’andarci. Vi avevamo preso io e parecchi miei amici studenti allegri, due palchi, e ci si andava facendo il maggior chiasso possibile. Si voleva che ogni spettacolo vi avesse un successo clamoroso, da contrapporsi alle serate ufficiali e fredde del teatro della Scala. Al Carcano si davano delle opere con un’orchestra scarsa e stonata e con cantanti senza fiato; ma chi ci badava? Anzi noi, nei nostri due palchi, peggio era lo spettacolo e più si applaudiva. Avevamo preso sotto la nostra speciale protezione i due cantanti peggiori, un tenorello sottile e senza voce, e una prima donna, Lucrezia Borgia, bassa e grassona che strideva come un ingranaggio cui manchi l’olio. Di ogni pezzo chiedevamo la replica, e appena i nostri protetti aprivano la bocca si chiedeva il _bis_. Il pubblico capiva e rideva. Il Commissario di Polizia ci capitava in palco di tanto in tanto per frenare i nostri eccessivi entusiasmi, e noi cercavamo di persuaderlo che lo spettacolo era una meraviglia. L’impresario volle fare la nostra conoscenza, e alla fine della stagione ci invitò coi cantanti a una bicchierata dietro le scene, ove sedemmo alla tavola, ancora apparecchiata, di Lucrezia Borgia; e brindammo con dei vini che parevano proprio quelli della medesima. «Divertiamoci», dicevamo sempre tra noi, «ma facciamo il nostro dovere, e avanti allegramente e senza paura!» Questo nostro contegno di patrioti allegri non incontrava sempre l’approvazione di certi cospiratori cupi e severi; ma era un’attitudine più consona alla nostra età e più attraente; serviva meglio ad acquistare tra i giovani nuove _reclute_ al patriotismo militante. E la nota gaia non era data solo da noi giovani, ma anche da molti maggiori d’età; e tra questi ricorderò Antonio Lazzati e Carlo De Cristoforis, che nelle stesse vicende tragiche, che dovevano presto attraversare, conservarono sempre la fronte serena, il riso sulle labbra e una inesauribile festività. Carlo De Cristoforis, amante di tutto ciò ch’era generoso e avventuroso, soleva dire che la volontà risoluta d’un uomo sa compiere di grandi cose; e dal canto suo ne ha compiute parecchie, giocando la testa più volte, ma sempre tenendo allegre le brigate, e facendo smascellar dalle risa. All’oppressione e ai rigori del Governo i cittadini opponevano non solo la resistenza, ma anche lo scherno e la burla, armi degli oppressi; e ciò riusciva tanto più facile e naturale al carattere faceto della popolazione milanese. Eran quindi continui gli scherzi, le canzonature, le satire, o qualche bel tiro, coi quali la popolazione associava spesso il riso alle lacrime. Tra i fatterelli che divertivano di tanto in tanto la città ne ricorderò uno che in quell’anno, oltre al far ridere, fece anche stupire per l’audacia colla quale venne compiuto. Il conte Ambrogio Nava, presidente dell’Accademia di belle arti, e devoto al Governo austriaco, aveva avuto l’infelice pensiero di mandare all’esposizione d’arte, che tenevasi annualmente nel palazzo di Brera, un suo ritratto fattogli dal pittore Hayez, in costume di ciambellano e con decorazioni austriache. Questo ritratto, che dava grandemente sui nervi e offendeva il sentimento patriottico, era continuamente guardato a vista da due guardie di Polizia. Eppure un bel giorno si vide tagliato da capo a fondo con una temperinata, e venne subito ritirato. Non è a dire l’importanza che diedero a questo fatto tutte le autorità governative, dal brigadiere delle guardie di Polizia fino al maresciallo Radetzki. Era, dicevano, un insulto a un’uniforme della casa dell’Imperatore; era, pigliando le cose in grande, un delitto di Stato; era una prova di più che esisteva un Comitato misterioso che tramava continuamente la rivoluzione e la rovina dell’Impero. La cittadinanza per parecchi giorni non parlò d’altro, se ne divertì, ne fece delle grandi risate; e il fatterello fu per tutti un non piccolo divertimento in mezzo alla comune tristezza. Ma come mai s’era potuto tagliare quella tela lunga più d’un metro, vigilata così assiduamente dalla Polizia? Tutti, autorità e cittadini, si facevano questa domanda, e il fatto rimase un mistero per tutti, per un pezzo. Molti anni dopo venni a sapere che quell’operazione al quadro era stata fatta da Carlo De Cristoforis, il quale una domenica, in un momento di molto concorso, sottraendosi tra la folla agli sguardi dei poliziotti che giravano per le sale, era riuscito a nascondersi dietro le tele che coprivano il lato d’una parete, e quatto quatto c’era rimasto finchè le sale furon chiuse. Durante la notte uscì dal suo nascondiglio, e tagliò comodamente il ritratto del conte Nava; poi, quando il giorno dopo ricominciò il concorso dei visitatori, cogliendo un momento opportuno si frammischiò ad essi inosservato, e se ne andò pei fatti suoi. Ma le nostre risate erano sempre di breve durata. I timori e le ansietà destati al principiar dell’anno coll’arresto del sacerdote Tazzoli, dopo alcuni mesi di un misterioso silenzio, dovevano scoppiar nuovamente ne’ primi giorni d’estate, e prendere un indirizzo funesto. I mandati d’arresto superarono il centinaio in poche settimane; molti dei colpiti riuscirono a fuggire, ma i più furono condotti nelle prigioni di Mantova: la maggior parte appartenevano ai Comitati. Era evidente che questi erano stati scoperti. Come mai? I sospetti e l’agitazione andavan crescendo ogni giorno; nei ritrovi, tra gli amici, era un chiedersi e uno scambiarsi continuo, e ansiosamente, di informazioni e di confidenze. Chi sentivasi poco sicuro viveva appartato o nascosto; mio fratello Emilio, più volte, nel rincasare la sera, vedendo delle facce sospette nella strada dove noi abitavamo, aveva tirato dritto ed era andato da qualche amico, come si faceva spesso in quei tempi, a chiedergli ospitalità per quella notte. Correvano voci gravi: si diceva che nelle carceri di Mantova venivano usate delle sevizie ai prigionieri politici per farli confessare; si parlava di qualche atto di debolezza da parte di alcuni, e si parlava anche di delazioni. Una voce dolorosa e sinistra, tra l’altre, venuta non sapevasi come, dalle prigioni stesse, ripeteva e assicurava che Luigi Castellazzo, segretario del Comitato centrale, aveva rivelato ogni cosa, aveva palesato tutti i nomi all’_Auditore_ militare, il capitano Carlo Krauss, che dirigeva il processo di Mantova. Il Castellazzo era stato arrestato a Pavia, e si diceva che nella perquisizione fattagli gli avessero trovato, nascosto in un cannello di penna, un foglietto su cui c’erano alcuni segni e alcune cifre ch’eran la chiave per decifrare i nomi di quanti appartenevano ai Comitati, e i loro carteggi. Questi carteggi, e questi scritti in cifra, erano stati trovati anche presso il presidente del Comitato, ma l’_Auditore_ inquirente non era riuscito nè a decifrarli, nè ad averne la spiegazione dal Tazzoli. Ora dicevasi che il Castellazzo avesse svelato al Krauss che i segni e le parole del foglietto eran la chiave dei carteggi e dei nomi, e che gli avesse indicato il modo di servirsene. Questa fu la base delle condanne. Queste voci pur troppo erano veritiere; ma nessuno sulle prime voleva crederle. Le voci però si fecero insistenti, e gli arresti immediati e numerosi vennero a convalidarle. Gli amici del Castellazzo inorridivano al pensiero che le mura della prigione avessero potuto sconvolgere la mente e spezzare il carattere di un uomo che essi credevano forte e sicuro; e si parlò di tormenti e di battiture con le quali erano state estorte le confessioni al loro amico. Pur troppo le confessioni erano vere, ma le voci autorevoli dei compagni di prigione negavano che fossero vere le battiture. La tortura del bastone, per ottenere delle confessioni, fu minacciata allora a parecchi prigionieri politici, ma non fu applicata in quei processi che a due soli, a quanto si seppe con certezza: così mi dissero Finzi, Lazzati, Pastro, e i molti che ho interrogati, e che furono nelle carceri di Mantova e nei processi del 1852 e 1853. La tortura, invece, applicata a parecchi fu quella delle pesanti catene, della fame fino allo sfinimento, fino per cento giorni di seguito, e della prigione freddissima, umida, fangosa, durante tutto l’inverno. L’infelice che venne sottoposto alle bastonature fu un certo Antonio Pasetti di Verona nel processo di Venezia 1851. Il suo inquisitore aveva cercato invano di strappargli una qualche confessione, e per spezzare quella fermezza lo condannò a quaranta bastonate. Dopo dieci colpi il medico che assisteva al supplizio dichiarò che, continuando, c’era pericolo che il paziente morisse sotto i colpi. Il Pasetti era etico. Portato in prigione disse ai compagni che durante i colpi aveva tenuto stretto in bocca un lembo della copertura su cui giaceva per assicurarsi che il dolore non gli strappasse, non solo una parola, ma neppure un grido. Il suo eroico silenzio gli salvò la vita: per la mancata confessione non potè essere impiccato, nè condannato; ma rilasciato dalla prigione fu arrolato forzatamente in una compagnia di disciplina e mandato in Ungheria. Dopo poco tempo morì di sfinimento a Temesvar. Povero eroe oscuro! Il suo nome, appena ricordato, mi fu ripetuto dal dottor Luigi Pastro, altro eroe del silenzio in quei processi, da cui ho saputo questo episodio. Le bastonature furono date più tardi anche a un tal Cervieri, che fu uno degli arrestati dopo il 6 febbraio, in un processo che si svolse pure a Mantova, diretto dal Krauss, dopo chiuso il processo del 1852. Il Cervieri fu bastonato, ma rimase silenzioso e non denunciò nessuno. Morì parecchi anni dopo in America. A proposito delle voci che correvano sul Castellazzo in quei giorni, un amico di lui, Giovanni Pezzotti, che apparteneva al Comitato di Milano, ebbe a dire che, se fosse stato arrestato, si sarebbe subito ucciso in carcere per timore di tradire qualche amico in un momento di debolezza. Pochi giorni dopo, il 25 di giugno, venivano fatti in Milano parecchi arresti politici, e ci furono tra gli arrestati il Pezzotti appunto e Antonio Lazzati. Rinchiusi da prima nelle prigioni del Castello, furono poi tutti condotti a Mantova, fuori che il povero Pezzotti che, il giorno dopo del suo arresto, fu trovato appeso alla inferriata della sua cella. Il fantasima del Castellazzo lo aveva tratto al suicidio. Antonio Lazzati era uno dei miei più cari amici. Lo vedevo quasi ogni sera in casa della contessa Maffei, ove egli metteva sempre nella conversazione una gaiezza, che pareva in contrasto col suo aspetto severo. Era un felice narratore di storielle piacevoli; si divertiva volontieri, e amava far cogli amici le più serene risate, mentre nelle manifestazioni patriottiche era sempre sulla breccia e nei posti più pericolosi. I cospiratori puritani, dal cappello a larghe tese sugli occhi, criticavano il suo umor gaio che a lor pareva leggerezza; ma presto egli doveva dimostrare anche ad essi, coi fatti, la serietà e la saldezza del suo carattere. Rammento ancora la sera in cui, nel salotto della contessa Maffei, a proposito delle voci che correvano sulle delazioni avvenute nelle carceri di Mantova, gli amici più intimi si facevano intorno a Lazzati e a mio fratello Emilio esortandoli a lasciar Milano. Emilio si riteneva sicuro che il suo nome non figurasse sulle liste del Tazzoli svelate, dicevasi, dal Castellazzo: Lazzati dubitava ancora sulla veracità delle voci che correvano, e temeva, fuggendo, di svegliare i sospetti della Polizia, e di comprometter maggiormente alcuni amici. Quell’esitazione gli fu fatale; due giorni dopo veniva arrestato. Quell’arresto ebbe un’eco di vivo dolore, e di non poca inquietudine, nel salotto di casa Maffei. Gli arresti politici, nelle province, di persone che vi erano conosciute, e che erano in rapporti col _Crepuscolo_, avevano portato un senso di tristezza nel salotto; e ora l’arresto del Lazzati vi aveva per di più fatto nascere il gran sospetto che l’inquisizione del processo di Mantova avesse principiato ad estendersi dalle provincie a Milano. Era giunta intanto la stagione del caldo e delle bagnature, che allontanano di solito dalla città i milanesi; che fanno chiudere i salotti, e facevano finire i ritrovi, fin dopo le vacanze e fino al principio dell’anno. Queste sospensioni della vita cittadina avevano allora anche il vantaggio di sottrarre parecchi, per parecchi mesi, agli occhi vigili della Polizia. Ma finite le vacanze, e principiato l’inverno, una grande notizia venne presto a mutar l’indirizzo dei discorsi, delle speranze e dei timori, nel campo nemico e nel campo nostro: la notizia del colpo di stato avvenuto in Francia. Le discussioni e i dispareri erano infiniti e irreconciliabili: chi fremeva, chi giubilava, chi ne era disperato. I repubblicani puri, che avevano poste tutte le loro speranze nel prestito di Mazzini, nella rivoluzione, nella Francia repubblicana, e nel Comitato internazionale di Londra, ossia in Mazzini, in Ledru-Rollin e in Kossuth, erano naturalmente tra i frementi, e credevano che il nuovo tiranno sarebbe stato cacciato quanto prima. Anche il suffragio universale, che poco dopo acclamò Luigi Napoleone alla quasi unanimità, non li smosse dal loro giudizio: era una passeggiera infedeltà commessa dal suffragio universale, ma questo infedele, dicevasi, si sarebbe presto ricreduto. Vivevano ancora a quel tempo molti avanzi delle armate e delle amministrazioni napoleoniche, nei quali era sempre vivo il gran fascino del primo impero; questi erano tutti in festa, poichè vedevano già il nuovo Napoleone valicare le Alpi e cacciare gli austriaci. Le persone più calme e temperate, pur convinte che per parecchi anni la politica del nuovo Governo della Francia sarebbe stata tutta rivolta alle questioni interne, erano persuase che un Governo napoleonico avrebbe pur dovuto nell’avvenire esercitare un’influenza sui destini dell’Europa, fors’anche colla guerra. Speravano poi nella simpatia personale per l’Italia, del nuovo padrone della Francia. La repubblica erasi dimostrata verso di noi impotente ed ostile; ora il nuovo mutamento di Governo apriva un orizzonte sul quale pur brillava una qualche speranza. Mentre non solo nei nostri paesi, ma in ogni punto d’Europa, s’andava almanaccando sulle conseguenze che avrebbero potuto avere gli avvenimenti che si svolgevano in Francia, l’Austria, impassibile, senza punto guardare all’avvenire, continuava ad applicare nel Lombardo-Veneto i suoi metodi pedanteschi, duri, ed ora anche feroci, di Governo. Il giorno 7 dicembre venivano pubblicate le prime sentenze del processo di Mantova. Tazzoli, Poma, De Canal, Zambelli, Scarsellini venivano condannati a morte ed impiccati; altri cinque, tra i quali Angelo Mangili notissimo a Milano, erano condannati a parecchi anni di fortezza con ferri. Queste vittime illustri dovevano essere presto seguite da altre, il cui nome e i cui processi resteranno documento imperituro dell’iniquità e della stoltezza con le quali il Governo militare austriaco dominò le provincie italiane dopo il 1848. CAPITOLO XV. 1853. I. _Sommario:_ Mazzini decide di ordire una rivolta in Milano. — Vive opposizioni de’ suoi principali amici. — Mazzini, fermo nel suo proposito, manda degli emissari a Milano. — _Organizzazione_ secreta di squadre di popolani, e piano della rivolta. — Il Piolti de Bianchi accetta d’esserne il capo. — Allarmi per l’inevitabile insuccesso, e vani tentativi per dissuadere Mazzini. — Il sei febbraio. — I capi delle squadre si trovano soli ai ritrovi, e scompaiono. — Il popolano Ferri con pochi assale il posto di guardia del palazzo di Corte. — Pochi insorgenti, isolati, feriscono nelle strade alcuni soldati. — Breve tafferuglio nelle vie al laghetto. Negli ultimi mesi del 1852 c’erano stati, a quanto s’andava sussurrando, dei ritrovi segreti e frequenti tra persone notoriamente appartenenti al partito mazziniano. Da confidenze e da indiscrezioni s’era anche saputo che Mazzini voleva preparare e promuovere una sommossa, o una rivoluzione in Milano. Le prime voci venivano dal Comitato presieduto da G. B. Carta. Comitato che si chiamava _dell’Olona_ e che rappresentava solo una parte, e non la principale, del partito mazziniano. Mazzini aveva effettivamente deciso che Milano dovesse quanto prima insorgere. S’era rivolto da principio ai suoi vecchi amici, alle persone più serie del suo partito, ad antichi ufficiali della difesa di Venezia e di Roma; ma tutti questi, per quanto audacissimi, avevano fortemente sconsigliato Mazzini dal tentare una simile impresa. Le ragioni erano evidenti, e il momento non poteva essere più inopportuno. L’Europa era tutta in piena reazione e in piena tranquillità; il colpo di stato aveva soffocati e dispersi anche in Francia gli elementi rivoluzionari; il Piemonte, tutto intento a riordinare le sue finanze e il suo esercito, era in un periodo di completo raccoglimento. Milano e le provincie non s’erano ancora riavute dai disastri del 1848; la fiducia nella rivoluzione non era rinata; lo stato d’assedio e i forti presidii austriaci la rendevano impossibile; in nessuno c’era la volontà di tentare in quei giorni una rivolta. Queste considerazioni furon fatte presenti con insistenza a Mazzini dai suoi amici più assennati, ma inutilmente. Parecchi lo avevano anche pregato di astenersi da ogni tentativo rivoluzionario sino a che tanti patriotti fossero nelle carceri di Mantova, per evitare delle rappresaglie su loro. Tutto fu inutile. Mazzini, non persuaso da queste osservazioni, e non fidandosi dei vecchi e provati amici che lo sconsigliavano, mandò qualche emissario per avere informazioni da altri. Gli emissari si abboccarono con quelli del Comitato dell’Olona, e con qualche altro; gente volonterosa, ma che scambiava le intenzioni proprie con quelle del paese. A Mazzini bastò d’aver trovato chi gli dava ragione per convincersi sempre più di averla, e così si mise subito all’opera, a preparare attivamente un’insurrezione. I primi discorsi sui progetti del Mazzini si tennero a Stradella col Depretis, col Cairoli e col Piolti De Bianchi, chiamatovi espressamente, volendo Mazzini affidare a questi la direzione del partito in Lombardia; poichè tutte le file ne erano rotte, in seguito agli ultimi arresti causati dal processo di Mantova. Il Piolti De Bianchi accettò. Il Mazzini poco dopo gli mandava da Londra, dove viveva rifugiato, Eugenio Brizio di Assisi, già ufficiale col Pianciani durante la difesa di Roma; giovane risoluto, attivo, coraggioso, e in cui Mazzini aveva la massima fiducia. È, credo, quel Brizio che molti anni dopo fu sindaco di Assisi; uomo popolare e benveduto. La cospirazione incominciò subito attivamente: il Piolti si diresse alla classe borghese, e il Brizio agli operai. Il Brizio intraprese una specie di arruolamento, nelle classi popolari, ma pigliando gli affigliati a fascio, senza conoscerli, pur di riunirne molti. I diverbi e i contrasti tra quelli che ordivano la cospirazione, e i patriotti che la deploravano e che avrebbero voluto impedirla, erano vivacissimi e continui. Carlo De Cristoforis, che all’occorrenza era pure un cospiratore audacissimo, ed altri pur del partito d’azione si mischiavano talora tra quei congiurati, e sconsigliavano i migliori da quell’impresa, di cui prevedevano male; ma inutilmente. Uno di quei popolani, che conobbi più tardi, mi diceva ingenuamente: «Ho preso parte all’insurrezione del 6 febbraio, perchè mi avevano assicurato che, se potevamo resistere alcuni giorni, varie Potenze d’Europa sarebbero venute ad aiutarci. In prova di ciò, da quelli che preparavano la rivoluzione ero stato assicurato che avevamo anche gli ungheresi con noi. Anzi un amico mi aveva condotto in una casa dove mi aveva mostrato in un baule l’uniforme d’un generale ungherese, diceva lui, che doveva arrivare tra poco: a quella vista, mi sentii rimescolare il sangue, ed esclamai: Se nel 1848 abbiamo fatto le Cinque Giornate, questa volta ne faremo dieci! Mi arrolai ed anzi divenni il capo d’una compagnia.» Questo popolano era quel Francesco Ferri di cui feci cenno, parlando del Comitato di G. B. Carta; ed era il capo dei facchini municipali, che allora erano addetti al corpo dei pompieri. Era un uomo magro, asciutto, noto per il suo buon cuore e per la sua audacia. C’era in lui una strana mescolanza di bontà e di fierezza; per rendere un servizio a un superiore o a un amico esponeva la propria vita a qualunque rischio, e avrebbe anche ammazzato un uomo come si uccide un insetto. La sua qualità di facchino del municipio lo metteva a contatto cogli assessori e col Podestà, ai quali era sempre devotissimo. Professava poi rispetto ed affezione pei _signori milanesi_, specialmente delle vecchie famiglie, rispecchiando in ciò un sentimento che fino allora s’era conservato nel popolo milanese. Nelle Cinque giornate fu tra i più valorosi, e fece anche la parte di Renzo quando accompagnò Ferrer, precedendo e scortando a capo dei suoi facchini il Podestà che si recava al Palazzo di Governo. Non è quindi a stupirsi se, presentandosi ora una nuova occasione per menar le mani contro gli austriaci, il Ferri ci si mettesse corpo ed anima. Mazzini non aveva trovato tra i suoi migliori amici di Milano e tra le persone di qualche importanza che uno solo, il quale fosse disposto ad assecondare il suo progetto. Questi era stato Giuseppe Piolti de Bianchi, giovane studioso, onesto, che metteva la sua devozione al Maestro al disopra d’ogni ragionamento. Mazzini che gli aveva affidata la direzione del proprio partito in Milano, gli affidò anche la direzione della rivolta che stava tramando. Ma anche a lui pose a fianco un luogotenente, il Brizio, venuto da Londra, il quale intanto andava formando le sue squadre e il piano di battaglia. Gli affigliati non lo conoscevano che sotto un nome: _il romano_. Il Piolti de Bianchi, prima di accingersi alla grave impresa e di assumersi tanta responsabilità, volle avere un abboccamento con Mazzini. Si recò in una villa presso Lugano nel gennaio; vide il Mazzini, e non mancò di esporgli le gravi difficoltà dell’impresa. Ma Mazzini gli oppose le informazioni di altri, compreso il Brizio, il quale lo andava assicurando che tutto il popolo fremeva, che bastava una scintilla per sviluppare un grande incendio; che il popolo si sarebbe sollevato in massa, e che dopo due ore di combattimento le _marsine_, come dicevano il Comitato dell’Olona e il Brizio, ossia i _dissidenti_, sarebbero scesi in strada prendendo parte anch’essi alla rivoluzione, di cui in tutta Italia non si aspettava che il segnale. Il Piolti aveva esposte tutte le ragioni che sconsigliavano in quel momento un’insurrezione; aveva fatto osservare che non si poteva iniziare un movimento, che avrebbe necessariamente avuto un carattere repubblicano, senza tener conto del Piemonte, il solo paese d’Italia che avesse un esercito su cui contare, per continuare poi la guerra da noi iniziata. Mazzini aveva risposto che bisognava seguire l’esempio del 48. «Ciò ch’egli voleva, disse, era l’Italia _libera ed una_ e credeva che solo la Repubblica potesse darcela, ma che rispettava le opinioni e le speranze dei molti che mettevan fiducia nel Piemonte costituzionale. All’annuncio che Milano è insorta, o il Re e i moderati decidono di accorrere, e di ritentare la prova del 48 e noi dobbiamo accoglierli a braccia aperte; o non intervengono, e il _popolo_ e l’_esercito_ verranno senza di essi, poichè è impossibile che il Piemonte rimanga freddo spettatore di tale avvenimento. Bisogna quindi astenerci dal proclamare la Repubblica, od altra forma di Governo, ma costituire un Governo Provvisorio, di tre o cinque persone che pensino alla guerra e a chiamare alle armi tutti gli italiani»[20]. Così aveva risposto il Mazzini al Piolti, rimanendo fermo nel suo divisamento, e fissando, per incominciare, il 6 febbraio, ultima domenica del carnevale, mentre i soldati sarebbero sparsi per la città. Promise ancora che ci sarebbero state delle intelligenze cogli ungheresi, e che sarebbe venuto da Londra il generale ungherese Klapka. Piolti chinò il capo e obbedì. Quali erano i mezzi e le risorse, quali le forze e quali i concetti con cui sollevare Milano, e con cui attaccare le truppe austriache, che occupavano così fortemente Milano e le provincie Lombardo-Venete? I mezzi finanziari consistevano in mille lire sterline mandate da Mazzini provenienti dal prestito, e le armi erano alcune centinaia di stiletti piantati in un rozzo manico di legno di cui Mazzini aveva mandato il modello, fatti eseguire da un tale Fronti, un ottonaio ch’era della congiura, nonchè alcuni tubi esplodenti dei quali pure Mazzini aveva mandato un campione e che il Fronti stava preparando. Quei tubi furono i primi tentativi che condussero poi alla fabbricazione delle bombe Orsini. Il Brizio diceva d’aver pronti cinque mila affiliati, e infatti tale era il numero degli inscritti. E fu strano come la Polizia non se ne avvedesse o non agisse. Veniamo agli ungheresi. Il Cairoli, tempo prima, aveva mandato da Pavia una lettera al Piolti per fargli conoscere un capitano ungherese, suo amico. Il capitano aveva accolto gentilmente il Piolti, ma quando sentì di che cosa si trattava, gli rispose francamente che insieme con truppe regolari gli ungheresi all’occorrenza potevano forse decidersi a far causa comune; ma in caso diverso, e cioè in una insurrezione, non era da far calcolo su di loro. E si lasciarono con promessa dell’assoluto silenzio, e di troncare ogni relazione come se non si fossero conosciuti. Invece del generale Klapka, che non venne, era giunto un tal Furagy, già uffiziale degli Honveds, e allora emigrato a Ginevra. Era l’uniforme di costui che il facchino Ferri, ed altri, avevano veduta. Secondo il piano del Brizio i cinquemila congiurati, divisi in compagnie di cinquecento o trecento uomini, dovevano dar l’assalto al castello, al palazzo di Corte, al fortino di Porta Tosa e ad alcune caserme, e impadronirsene contemporaneamente. Il Furagy intanto avrebbe fatto fare il _Pronunciamento_ dei soldati ungheresi in alcune caserme, per poi andare alla presa di altre. Su questo piano c’era disaccordo tra il Brizio e il Piolti, a cui pareva impresa troppo audace e difficile l’assalto immediato al castello; ma la vinse il Brizio, dicendo che di tale impresa si sarebbe incaricato egli stesso. I dissidenti, e le persone serie che conoscevano i particolari della cospirazione e la decisione di condurla ad effetto, erano grandemente impensieriti ed allarmati. Una insurrezione, promossa con mezzi così inadeguati e, diciamolo, in parte puerili, non poteva condurre che a risultati funesti. La sommossa, dicevano, verrebbe subito repressa nel sangue; essa sarebbe stata la giustificazione dello stato d’assedio rigoroso, delle condanne e di tutte le misure eccessive, crudeli, con le quali governava l’autorità militare; essa le avrebbe accresciute e rincrudite. Una sommossa impotente, e di pochi, avrebbe indebolita e sfatata quella resistenza che ritraeva la sua forza dalla sua misteriosa unanimità. Nulla di più esiziale, dicevasi giustamente, di quei moti convulsi, impotenti, che sono sintomi di debolezza, e che scuotono in un paese la fibra e la fede. Alcuni ch’erano informati di ciò che si tramava, pregarono mio fratello Emilio e Enrico Besana, ch’era un patriota a tutta prova, di recarsi dal Mazzini per tentare ancora una volta di dissuaderlo dalla folle impresa. Essi acconsentirono, e partirono per Lugano, non curando i pericoli di quella missione; non avevano passaporto, e il cordone militare era rigorosissimo. Il giorno della loro partenza nevicava fitto, e nevicò tutto il giorno seguente; i monti e le strade fuor di mano erano talmente coperti di neve da divenire impraticabili, sicchè non riuscirono a passare il confine. Non avendo potuto compiere l’incarico, e non volendo essere assenti in un giorno di pericolo, ritornarono a Milano, ove giunsero la vigilia del 6 febbraio. Molto probabilmente, però, la loro missione non avrebbe avuto nessun risultato. Venuto il 6 febbraio, il Piolti, il Brizio e il Fronti impiegarono le prime ore della giornata in ritrovi coi capi dei gruppi e delle squadre, per ripeter loro gli ordini, ed assicurarsi che ciascuno avrebbe fatto il compito proprio. Una prima difficoltà, che fece perdere qualche ora, fu quella delle pretese che alcuni capi squadra accamparono in nome dei loro uomini, i quali volevano una rimunerazione maggiore di quella che veniva loro offerta. Ciò prova come il Brizio avesse male scelto i suoi affiliati; se li avesse cercati tra i popolani delle Cinque Giornate, o tra i reduci di Roma e di Venezia, la sommossa del 6 febbraio avrebbe avuto certamente un’importanza ben maggiore e una ben maggiore serietà. L’errore era stato quello di affidare a un emigrato romano un arrolamento tra popolani milanesi, ch’egli non conosceva. Il Piolti li rimproverò con severe parole: «Noi non intendiamo di pagare l’opera che state per compiere, non c’è denaro che possa rimeritarla; vi siete dichiarati disposti ad assalire gli austriaci, e noi siamo disposti a tentare la sorte, ecco tutto. Siccome dovrete raccogliervi in osterie vi darò due lire per ciascuno, ma guai a chi si ubbriacasse. Questa sera dopo il colpo sarò da voi. Se non accettate, siete ancora in tempo a ritirarvi. Vedendomi risoluto, piegarono la testa, ed accettarono.» I capi avevano detto che gli affiliati erano cinquemila, e il Piolti diede loro diecimila lire. Il Fronti intanto distribuiva gli stili, e ritirava il rimanente del denaro, ossia dodicimila franchi, ch’eran rimasti al Piolti. La rivoluzione doveva incominciare alle quattro pomeridiane, e venuta quell’ora il Piolti scese in strada con un amico, il Maiocchi, per vedere se il movimento incominciava. Tutto era perfettamente tranquillo. Che cosa avveniva intanto? Il Brizio, che con quattrocento uomini doveva assalire il castello, non mancò al suo posto, ma non trovò che trenta persone. Aspettò un pezzo; propose a quei pochi di tentar l’impresa, ma gli altri non accettarono, e siccome calava la sera ognuno se ne andò pei fatti suoi. Furagy aveva aspettato per un pezzo certi suoi ungheresi che dovevano unirsi con lui per entrare nella caserma di S. Ambrogio; non li trovò, li cercò per un pezzo per le vie vicino, si smarrì mentre scendeva la notte, e si rifugiò in casa di persone amiche. Di quelli che dovevano assalire il fortino di Porta Tosa non si seppe nulla. Dovevano essere quattrocento anche quelli che si erano impegnati ad assalire la Gran Guardia del palazzo di Corte, e vi si trovarono soltanto in dieci o dodici, tra i quali il Ferri. Il Ferri senza perdersi d’animo, visto il fascio dei fucili, con in mezzo la bandiera, vi corre su; ne prende un certo numero, con la bandiera insieme, e via di corsa con questi trofei. La sentinella gli tirò una fucilata che lo ferì. In tutti gli altri punti della città, ove dovevano trovarsi le squadre della rivoluzione, o non comparve alcuno o ben pochi, che subito si sciolsero. Gli sbandati aggredirono qua e là qualche sentinella, o stilettarono qualche soldato che incontrarono per strada. Il Piolti de Bianchi intanto correva affannosamente in cerca della _sua_ rivoluzione, ma non la trovava; per tutto una quiete profonda. Andò in cerca del Fronti, ma non lo trovò; e non trovò nemmeno i dodicimila franchi che gli aveva lasciati, dopo distribuite le diecimila lire ai popolani. Saputosi che c’era stato qualche tafferuglio i cittadini rincasavano frettolosi, e venivano chiuse le porte e le botteghe: subito la città fu percorsa da numerose pattuglie. Così finiva la giornata del 6 febbraio. Aggiungo che sulla scomparsa del Fronti e dei dodicimila franchi, il Piolti informò Mazzini, dal quale seppe poi che il Fronti s’era ritirato a Parigi. Fatto interrogare sulla somma della quale doveva render conto, disse che l’aveva in deposito sua moglie, ritiratasi a Codogno. Andarono a cercarla i fratelli Foldi, ma la Fronti li denunziò, ed essi fecero in fretta a fuggire, e andarono in America. Io avevo passate le ore pomeridiane del 6 febbraio nella famosa nostra sala di scherma presso mio cugino, Lamberto Paravicini, in via S. Pietro all’Orto, ove s’erano dato ritrovo parecchi del gruppo dei _dissidenti_. Era stato un andirivieni continuo di amici che venivano da vari punti della città a portare notizie, e a sentirne. Alcuni ci rimanevano in permanenza per chiamare, se occorresse, gli altri: tra questi ricordo Vincenzo Strambio. S’era tutti in una grande ansietà, ma nessuno supponeva che l’attesa sommossa dovesse svanire così miseramente. In principio della sera qualcuno venne a riferire che nelle vicinanze dell’Ospedale Maggiore, nelle vie vicine che si chiamano _al laghetto_, erano state fatte alcune barricate, e si erano sentite delle fucilate. Pensammo d’andarci, per vedere noi stessi se la notizia fosse vera, io, mio cugino Lamberto Paravicini, Costantino Garavaglia e qualche altro. Trovammo per strada, che venivano dal caffè dell’Europa in via dei Servi, l’ingegnere Luciano Besozzi, il pittore Gerolamo Induno, Eleuterio Pagliano, e mio fratello Emilio; e ci avviammo tutti verso la piazza del Verziere: arrivati alla metà della via Durini, ci imbattemmo in una forte pattuglia che ci intimò di retrocedere e di dividerci. Ci salutammo, e ciascuno se ne andò a cercar notizie per conto proprio. Trovammo anche Carlo De Cristoforis, che poco prima aveva voluto recarsi anche lui nelle vie dette _al laghetto_, ma una pattuglia lo aveva arrestato; egli però aveva saputo così bene fingere, che lo lasciarono andare. Questa sua presenza di spirito lo salvò. Se fosse stato condotto quella sera in Castello, come gli altri arrestati, o in un ufficio della Polizia, due giorni dopo sarebbe stato impiccato; tanto più ch’era armato. Nelle vicinanze dell’Ospedale, _al laghetto_, c’era stato infatti un tentativo per parte di alcuni popolani, forse predisposti dal Ferri, per asserragliarvisi, e continuare la sommossa: c’eran stati anche dei colpi di fucile; ma i pochi insorti furono subito dispersi da una compagnia di soldati. Il Ferri, come mi raccontò egli stesso molti anni dopo, s’era tenuto nascosto per parecchi giorni, girando di tetto in tetto sulle case del Verziere, soffrendo atrocemente per la ferita e per la fame. In seguito venne arrestato, e condannato a dodici anni di carcere duro in una fortezza; fu poi amnistiato cogli altri condannati politici, nel 1857. Morì una ventina d’anni dopo; sempre capo dei facchini municipali, e ardente patriotta. Quando si parlava delle passate vicende soleva dire: «Le Cinque Giornate sono andate bene, perchè c’era quella bella concordia della gente del popolo coi signori; ma si andò male quando delle nostre cose se ne immischiarono altri, e non i milanesi veri di Milano». NOTA. [20] Queste parole del Mazzini, che esprimono il concetto ch’egli ebbe nel volere l’insurrezione di Milano, le riferisco quali le trovo nelle memorie sul 6 _febbraio_ 1853 di _G. Piolti de Bianchi_, pubblicate dal Senatore A. Bargoni nella _Rivista Storica del Risorgimento_ (anno 1897, fascicoli 7-8). Le Memorie del Piolti de Bianchi sul 6 febbraio sono uno scritto calmo, coscienzioso, esatto; esse dovrebbero essere consultate da chi vuol avere un’idea veritiera e completa su quegli avvenimenti. Io non ci trovai nulla di diverso di quanto ho veduto, o sentito, a quel tempo; perciò me ne servii per comprovare i miei ricordi e le mie impressioni d’allora. CAPITOLO XVI. 1853. II. _Sommario:_ Sorpresa e disgusto dei cittadini nell’apprendere il giorno dopo i fatti avvenuti. — Alcuni cittadini si recano dal generale Giulay per scagionare la città. — Le misure prese dal Governo locale, miti sulle prime, divengono severissime per ordini venuti da Verona e da Vienna. — Arresti e impiccagioni. — Carlo De Cristoforis, denunziato, cercato dalla Polizia, riesce a nascondersi e a fuggire. — Studi e lavori del De Cristoforis. — Sequestri sui beni degli emigrati. — Il Piemonte richiama da Vienna l’ambasciatore conte Revel. — Le porte della città di Milano chiuse per oltre un mese. — Il Piolti ricoverato in casa amica. — Fronti, Furagy, Brizio. — Condanne in contumacia. — Nuovi rigori dello Stato d’assedio. — Voci e notizie che giungono dalle carceri di Mantova sui prigionieri. — Le condanne. — Episodio circa la condanna di Antonio Lazzati. — Dopo la prigionia, Lazzati, Finzi, Bertani, Castellazzo. — Mazzini dopo il 6 febbraio cerca riordinare le fila di nuove cospirazioni in Lombardia. — Progetto di formare delle bande armate nelle valli lombarde. — Cerca un nuovo capo del partito repubblicano in Lombardia. — Ambrogio Ronchi. — Il partito si sfascia e decade, i principali addetti se ne staccano. — Simpatie rinascenti verso il Piemonte. Il giorno dopo la popolazione apprese tra lo stupore generale i fatti avvenuti. Quella tentata sommossa, così male ordita, inattesa, e senza speranze di riuscita; la natura stessa dei fatti avvenuti, quei soldati stilettati di sorpresa, i più in vie tranquille, non nel furore d’una sommossa, da gente di cui non si sapevano o non si vedevano i capi, suscitarono un sentimento di sorpresa e, bisogna pur dirlo, di indignazione che fu quasi generale. A questo sentimento parteciparono non solo i tranquilli cittadini, ma anche, e forse più, quegli uomini d’azione che non erano stati creduti da Mazzini, quando lo avevano sconsigliato, e che ora vedevano verificati i loro pronostici anche più infelicemente di quanto essi medesimi avevano supposto. Sotto l’impressione di questi fatti e della disapprovazione quasi generale, alcuni cittadini pur rispettabili, ma male consigliati, si recarono dal generale Giulay, comandante militare della città, per esprimergli la sorpresa e il dispiacere della cittadinanza pei fatti del 6 febbraio, e per pregarlo di non ritenerne per nulla solidale la città. Il generale, che per la prima volta vedevasi dinanzi a un gruppo di distinti cittadini milanesi, disse a tutti parole cortesi, lodando questo atto, quasi fosse di avvicinamento al Governo, e soggiungendo che le alte classi milanesi avrebbero dovuto per l’innanzi staccarsi dai rivoluzionari e, d’accordo col Governo, considerarli quali nemici comuni. L’atto di questi cittadini, alcuni dei quali avevan dato e diedero in seguito alte prove di patriottismo, fu severamente giudicato anche dai più fra coloro che avevano deplorato il 6 febbraio. L’astenersi da ogni contatto col Governo era una delle massime più rigorosamente seguite, ed era quindi biasimevole il farsi solidale con lui, tanto più dinanzi a un tentativo di sommossa, per quanto folle, contro lo straniero. Ma quei cittadini non tardarono ad avvedersi dell’errore commesso; e il generale Giulay non li rivide più. Essi avevano perduta, per un istante, la misura del loro dovere; e questo fatto ci prova fino a qual punto fosse arrivata l’indignazione pubblica pei fatti del 6 febbraio. Guai se il Governo austriaco avesse avuta in quei giorni condotta mite e ragionevole! Certo si sarebbe cattivate delle approvazioni nella parte più timida della popolazione. Ma, per fortuna, anche questa volta il Governo austriaco ci pensò lui a mantenere tutti sempre più strettamente uniti nell’odio e nella lotta contro di esso. Le prime disposizione del Governo locale erano state relativamente miti; un proclama del generale Strassoldo, in assenza di Giulay, pareva avesse lo scopo di rassicurare la cittadinanza e di non ritenerla responsabile degli atti commessi dai cospiratori; ma tale mitezza fu di breve durata. Due giorni dopo arrivarono da Verona degli ordini severi e violenti; altri ne giunsero in seguito da Vienna; il generale Giulay aveva ripreso il comando di Milano. Lo stato d’assedio fu reso ancor più rigoroso; le porte della città furon chiuse e nessuno poteva più uscire od entrare senza uno speciale permesso; le strade erano occupate militarmente e percorse giorno e notte da forti pattuglie di fanteria, con cavalleria e sezioni di artiglieria. Sulle facciate delle loro case i proprietari furono obbligati a tenere un lume acceso durante tutta la notte, per assicurare l’illuminazione delle vie, caso mai venissero tagliati i tubi del gaz in una insurrezione, a cui di certo nessuno pensava più. Tutti i posti militari e i casotti delle sentinelle furono circondati da alti e robusti cancelli di ferro; difesa che fu introdotta in tutte le città della Lombardia e del Veneto, e che ci rimase fino al 1859, quasi ad attestare lo stato perenne di guerra tra la truppa e il paese. Nelle classi popolari furono fatti arresti a centinaia, e vennero tradotte in carcere anche parecchie distinte persone su futili indizî; tra queste un mio amico, il marchese Luigi Crivelli, pel fatto di avere una lunga barba rossiccia che lo faceva rassomigliare un poco al _capo della cospirazione_, il Piolti, del quale la Polizia sapeva il colore della barba, ma non ancora il nome. Si cercò con ogni mezzo in quei giorni di atterrire la città. Tra gli arrestati ne furon subito scelti sei, indicati da accuse incertissime, e furono appesi alle forche fuori della porta del Castello, in faccia alla città. Poco dopo si ebbero le prove della completa innocenza di quattro almeno di quegli infelici; fra i quali c’era un tal Scannini maestro in casa del conte Greppi: malaticcio era uscito di casa soltanto per prender del latte. Tra i popolani, arrolati alla rinfusa dal Brizio, molti purtroppo appartenevano alla feccia della popolazione; e sottoposti a un consiglio di guerra si affrettarono a svelare quanto sapevano e a denunziare quei nomi che avevano sentito ripetere in qualche riunione. Tra questi nomi ci fu quello di Carlo De Cristoforis, che s’era appunto recato più volte a quei ritrovi per conoscerne l’importanza e per dissuadere i migliori dal buttarsi in una così pazza impresa. Il De Cristoforis, denunziato, fu subito attivamente cercato dalla Polizia; e andò a frugare in casa sua il famoso commissario di Polizia Bolza, a cui erano riservate le operazioni più importanti. Il De Cristoforis s’era fin dal primo giorno nascosto prima in casa dei fratelli Garavaglia, poi presso una sua pro zia, poi in una Casa di salute accoltovi da un medico suo amico. Intanto pensava al modo di mettersi in salvo: mandò uno dei suoi fratelli da una signora che conosceva un tal Fossati, appaltatore dell’esercito austriaco, il quale per ragione del suo ufficio aveva il permesso d’uscire con un barroccio dalla città; e si combinò che il Fossati lo facesse montare a cassetta come se fosse un cocchiere. Alla porta un agente fece sulle prime delle difficoltà, non credendo che il permesso d’uscita valesse anche pel cocchiere, ma poi si arrese alle insistenze del Fossati; e così Carletto uscì dalla città. Corsero molte voci su questa fuga, messe in giro per sviare la verità, ma la verità è questa; e io la seppi dalla famiglia stessa. Il De Cristoforis, attraverso le campagne, si recò a Travedona presso Varese in casa de’ suoi amici Garavaglia; poi si recò a Ispra in riva al lago Maggiore ove un pescatore lo nascose nella sua barca sotto un mucchio di reti, e lo sbarcò sulla spiaggia piemontese; mentre i soldati erano in chiesa per solennizzare con un _Te Deum_ il fallito attentato di un tal Libeny contro l’Imperatore avvenuto in quei giorni a Vienna. Quel lago e quei paesi Carlo De Cristoforis non li doveva rivedere che sei anni dopo, alla vigilia di morire nel combattimento di S. Fermo. Il De Cristoforis era sempre d’umore lieto, arguto, festivo e anche nei momenti più gravi e tragici aveva sempre pronta la barzelletta. Aveva un coraggio, anzi un’audacia, a tutta prova; ed ammirava soprattutto i tipi cavallereschi e da romanzo, per cui noi lo chiamavamo, con suo gran piacere, _d’Artagnan_. Attivissimo, era sempre sulla breccia nelle faccende patriottiche, si trattasse di cose gravi o di cose minime, attratto specialmente dal fare ciò che gli altri non avrebbero osato. Fu certamente uno dei giovani più geniali che ci fossero in quei tempi a Milano. Dal 1849 al 1853, essendo chiuse le Università, egli aveva insegnato legge quale privato docente; e nel concorso pubblicato dall’Istituto Lombardo per una memoria sulle _condizioni economiche dei contadini in Lombardia_ presentò un lavoro economico-statistico. Il concorso fu vinto da Stefano Jacini con la celebre opera che fu il principio della sua fama, ma anche il lavoro del De Cristoforis fu altamente lodato, e ritenuto una nuova prova della cultura e dell’ingegno dell’autore. Ma al suo ingegno, e alla sua attività l’esilio, come vedremo, doveva poi aprire nuove e fortunose vie. Prima di chiudere queste note sul 6 febbraio, voglio ricordare l’atto violento col quale il Governo centrale di Vienna, con un decreto del 13 febbraio, metteva sotto sequestro i beni di tutti i profughi politici, compresi quelli che avevano avuto il permesso di emigrare ed avevano ottenuta la cittadinanza piemontese. Nulla giustificava un atto simile, col quale l’Austria voleva quasi rendere responsabile il Piemonte della cospirazione mazziniana; onde il Governo piemontese protestò energicamente, e richiamò da Vienna, il proprio ambasciatore, il conte Revel. Sono pur da ricordare le condanne che, dopo le prime impiccagioni sommarie, furono pubblicate alcuni mesi dopo, di cui molte in contumacia: venti furono condannati a morte, e quarantaquattro al carcere duro tra i dieci e vent’anni; ma le condanne a morte, dopo le prime, non furono eseguite, e le condanne ai ferri furono diminuite. Tra i condannati in contumacia furono Carlo De Cristoforis, Guttierez, Attilio De Luigi, Alberico Gerli a 12 anni, Assi a 20, e il Ferri, che era arrestato, a 12 anni. Che cos’era intanto avvenuto del Piolti de Bianchi, del Brizio, e del Furagy? Il Piolti s’era ricoverato presso un’amica di sua madre, certa Antonietta Faido, che alle volte teneva qualcuno in pensione; c’era rimasto tranquillamente, senza che alcuno s’avvedesse di lui, per tre mesi. Dal suo nascondiglio, non ignoto a qualche amico fidato, riuscì a far partire il Furagy e il Brizio, della cui fuga si incaricò il dottor Arpesani, un buon patriotta: andarono tutt’e due nel Canton Ticino. Il Piolti, aiutato da alcuni amici di Pavia, uscì da Milano il 5 di maggio e andò a Stradella, dopo essersi tagliata la gran barba rossa. Dopo la giornata del 6 febbraio, Milano rimase chiusa per oltre un mese: si credette con ciò che nessuno dei cospiratori potesse sfuggire; ma, tra i moltissimi arrestati, de’ capi ce ne furon ben pochi. I rigori dello stato d’assedio furon accresciuti con disposizioni che ora possono parere incredibili; e furono promulgati vecchi e nuovi ordini della Polizia, che rendevano sempre più dura la vita cittadina. Bisognava rincasare alle dieci di sera e avere una carta detta di _legittimazione_ concessa dalla Polizia, e senza della quale si era esposti a venir arrestati dalle pattuglie. Non si poteva andare per le strade, o fermarvisi, che in due; e bisognava avere il mento raso, perchè il pizzo e le barbe erano cose sospette. Le sentinelle, e le numerose pattuglie obbligavano spesso chi passava a retrocedere, od anche arrestavano a lor capriccio. La sera poi, per rincasare, bisognava fare alle volte dei lunghi giri, se sui canti delle vie si trovavano delle sentinelle, poichè se erano di cattivo umore alle volte non lasciavano passare. E così si finiva spesso col cercare l’ospitalità presso qualche amico. Rammento ancora quei giorni con raccapriccio: il sospetto o la paura d’un soldato, la perfidia d’un poliziotto, potevano mandare in prigione per mesi ed anni anche il più pacifico cittadino; la burbanza dei militari non aveva limiti. Oh, chi non ha sentito batter le sciabole austriache sul selciato delle nostre città, colla boria sprezzante del padrone, non può comprendere i nostri odii, i nostri entusiasmi, il nostro amore geloso per la patria! A rendere più tristi quei giorni si aggiunsero le notizie sull’andamento del processo e sugli orrori delle prigioni di Mantova. Ciò che si era preveduto stava per succedere; il governo militare, dopo il 6 febbraio, gravò tanto più la mano sui prigionieri di Mantova, e volle subito esercitare rappresaglie e vendette. Da quelle carceri uscivano nuove voci di patimenti e di scoramento pei cattivi risultati del processo; con insistenza poi si diceva che Antonio Lazzati, essendo milanese, sarebbe stato presto impiccato per rappresaglia. Non è mio compito il narrare qui i processi di Mantova, e mi limiterò a dirne cose da me vedute e a notizie raccolte dalla viva voce di amici che vi si trovarono impigliati. Su quei processi si hanno libri e memorie che ne parlano diffusamente; leggano i giovani delle nuove generazioni quegli scritti; rammentino anche i nomi degli eroi meno noti, e ricordino sempre quante lacrime devano versare i vinti. Il Lazzati era solo tra i giovani milanesi, appartenenti alla cospirazione dei Comitati, su cui avesse messo la mano l’autorità militare inquirente di Mantova. L’auditore capitano Krauss, di triste memoria, supponeva giustamente che la gioventù milanese avrebbe dovuto dare al processo un più largo contingente; e per ciò aveva sottoposto il Lazzati ai maggiori patimenti per strappargli qualche confessione. Ma questi era sempre rimasto fermissimo, e il suo eroico silenzio aveva salvata la vita a moltissimi giovani milanesi, tra i quali devo pur nominare mio fratello Emilio: forse avrebbe salvato anche se stesso, se le sciagurate delazioni del Castellazzo, come si seppe poi, non avessero resi vani i suoi sforzi nel terribile confronto col suo accusatore dinanzi al Krauss. Verso la metà del febbraio si venne a conoscere ch’erano state mandate da Mantova a Verona, per la ratifica di Radetzky, le proposte per le condanne; e corse la voce, tra la commozione generale, che fra i condannati a morte ci fosse il Lazzati. Il 28 febbraio furono pubblicate a Mantova ventisette condanne, a cui poi ne seguirono altre. In quelle condanne il conte Carlo Montanari di Verona, l’arciprete G. Grazioli di Revere, e Tito Speri di Brescia erano condannati a morte; e le sentenze furono eseguite il 3 marzo. A Lazzati era stata commutata la pena di morte in quindici anni di fortezza con ferri. Il processo perla cospirazione dei Comitati, cospirazione progettata ma non condotta a fine, che non aveva approdato a nulla, a nessun fatto, a nessun tentativo, si chiudeva alla fine col mandar nove egregi cittadini sulle forche e trentadue nelle fortezze austriache per molt’anni. La notizia che il Lazzati dovesse essere impiccato era vera: si voleva la sua morte come una rappresaglia contro Milano pel 6 febbraio: come mai dunque all’ultim’ora gli fu commutata la pena? Su quel fatto corse allora tra gli amici intimi del Lazzati una versione, ch’io udii in casa Maffei e che riferirò. Il 18 marzo 1848, allo scoppiare della rivoluzione, il generale Wratislaw, prima di accorrere in Castello a prendere il comando delle sue truppe, aveva affidato una sua bambina a una famiglia di conoscenti, raccomandandola caldamente alle loro cure ospitali. Ritornati a Milano gli austriaci, il generale Wratislaw era andato a riprendere la sua figliuola, e a chi l’aveva ospitata, circondandola delle maggiori cure, aveva detto: «Sento il dovere di darvi qualche prova della mia riconoscenza; siamo in tempi gravissimi e, se a voi o ad amici vostri potrò rendere un qualche servizio, ricordatevi di me, pagherò il mio debito». Saputosi ciò dalla famiglia o da persona amica del Lazzati, allorchè giunse la notizia della condanna a morte, si pensò di fare appello alla promessa del generale Wratislaw, che in quei giorni era comandante della fortezza di Piacenza. Il generale si recò subito a Verona per chiedere la grazia del Lazzati: ebbe sulle prime una ripulsa da Radetzky, e soprattutto da Benedek, quel medesimo che tredici anni dopo perdette la battaglia di Sadowa, e che allora era il più fiero consigliere del maresciallo; ma il generale Wratislaw minacciò di dimettersi, considerando la promessa fatta come un suo debito d’onore; e fu dinanzi alla sua attitudine ferma che venne concessa la grazia al Lazzati. Siccome però si era stabilito di impiccarne tre, così si decise di sostituirgli l’arciprete Grazioli. Questo episodio della grazia, nel suo complesso, è vero; ma non cercai troppo, in quel tempo, di conoscerne i particolari: tutto era avvenuto poche persone, e tra queste sentii nominare, con grande riserbo, una signora che vi avrebbe avuta la parte principale. Anche più tardi, nel ritornare qualche volta insieme sui particolari della sua prigionia, durata sei anni, quando il discorso si avvicinava al punto della sua condanna e della commutazione di pena, il Lazzati si faceva pensieroso e malinconico. Forse ripensava al _confronto_ col Castellazzo, o gli balenava il sospetto che la grazia fattagli fosse costata la vita al povero Grazioli, poichè si volevano, come fu detto, tre vittime in quel giorno; forse il suo pensiero correva all’immagine d’una persona a cui doveva la maggiore riconoscenza e ch’era poi morta sul fiore degli anni. Allora si troncava il discorso. Antonio Lazzati, Giuseppe Finzi, il dottor Luigi Pastro ed altri che al pari di questi ebbero una parte nobilissima in quel processo, ne parlavano poco, e solo con gli amici più intimi. Nei processi politici ci sono sempre gli eroi, i deboli e i traditori: per un sentimento di delicatezza, e di dolore nel tempo stesso, essi non amavano ritornare su fatti dai quali risultava l’eroica fortezza dell’animo loro, accanto alla debolezza di alcuni e al tradimento di altri. A chi lo interrogava sul processo di Mantova e sulla sua prigionia, Lazzati preferiva ricordare qualche episodio comico di quelli che accompagnano talora anche i fatti più tragici; e con la sua faccia energica e severa, ma nel tempo stesso piena di bonarietà, sceglieva nelle vicende dolorose della sua vita gli episodi buffi, e li narrava con una comicità di osservazioni che rendeva oltremodo piacevole il conversare con lui. Dopo il 1859 egli non entrò nella vita politica attiva, e servì modestamente il paese negli uffici amministrativi a cui lo chiamava la fiducia pubblica. Era notaio, e tra i più reputati di Milano. Ho avuto caro di ricordare specialmente questo mio vecchio amico, a cui tanti giovani milanesi, tra i quali mio fratello Emilio, dovettero allora tanta riconoscenza. Col suo silenzio, colla sua fermezza tra i patimenti delle segrete di Mantova, egli li salvò dalle forche. Chiuso il processo il Castellazzo ebbe l’impunità, uscì dalle carceri, e mutò il nome. Nel 1859 si arrolò tra i garibaldini, cercò di giustificarsi, e chiese un giurì che presieduto da Bertani, lo assolse, o piuttosto gli perdonò[21]. Giuseppe Finzi mi raccontò che, trovandosi a Napoli durante la dittatura di Garibaldi, un giorno il Bertani gli disse che il Castellazzo, addetto alla sua segreteria, avrebbe desiderato presentarsi a lui ed essere da lui perdonato. Finzi gli rispose: «Non gli rifiuto il perdono, ma gli rifiuto di vederlo: non potrei rispondere di me: l’ultima volta che lo vidi fu dinanzi all’auditore Krauss; io ero incatenato, e difendevo disperatamente la mia vita in un confronto con lui che, colle sue rivelazioni e colle sue accuse insistenti, mi trascinava al patibolo. Come potrei io rivederlo?» Bertani non insistette. Il Castellazzo diventò segretario della Massoneria, e Grosseto lo elesse deputato. Il giorno in cui entrò in Parlamento, il Finzi ne uscì e diede la sua dimissione: uomini e giornali dei partiti estremi e massonici, assalirono allora violentemente il Finzi; e la lotta, non breve, asprissima, gli accorciò la vita. Non avrei raccolti questi episodi, se allora e dopo non avessero avuto un’eco dolorosa. Il fatto del Castellazzo sarebbe stato dimenticato e perdonato, come fu dimenticata la condotta d’altri che non furono pari al loro dovere; ma l’improntitudine e lo spirito settario de’ suoi amici vollero fare di lui un rappresentante della Nazione, decretandogli onori, e il sentimento pubblico si ribellò. Fosse pur stata vera la bastonatura, asserita da alcuni, ma contestata, non era questa una ragione per far eleggere deputato chi aveva mandato tanti sul patibolo colle sue confessioni, e per vilipendere quei tanti intemerati patrioti che s’erano lagnati di lui. Il silenzio e l’obblio dovevano bastare a lui e ai suoi amici, nè si doveva procurargli una così trista celebrità. L’esito disastroso del 6 febbraio e la fine tragica dei Comitati non avevano scoraggiato per nulla il Mazzini. Il Piolti mentre era ancora in Milano, lo aveva ragguagliato di quanto era avvenuto; e il Mazzini, da Londra dove era tornato, gli aveva risposto come a un generale disgraziato dopo una battaglia perduta: si congratulava che le forze fossero rimaste intatte e organizzate, dopo aver fatte buone prove; lodava l’operato di lui, e gli mostrava l’intenzione di ritentare con altro sistema, quello cioè di bande armate che occupassero i monti e le valli per poi piombar sulle città. L’importante, per Mazzini, era di non arrestarsi nelle cospirazioni e nelle sommosse, senza riguardo ai mezzi e alle opportunità: anche dopo il 6 febbraio Mazzini non s’accorgeva che l’eccesso stancava, e conduceva a ruina il suo sistema e i suoi intenti. Ora dunque bisognava cercare un nuovo capo del partito, per una nuova chiamata alle armi, dacchè il Piolti de Bianchi era stato messo fuori di combattimento. Mazzini pensò per questo infelice incarico a mio fratello Emilio, e gli fece avere una lettera col mezzo del Piolti: Emilio mandò la risposta con lo stesso mezzo. Ecco ciò che scrive nelle sue memorie il Piolti su questa lettera che ricevette aperta affinchè la leggesse: «In quella lettera del Visconti presentii il futuro ministro degli affari esteri. Agli entusiasmi di Mazzini egli opponeva il calcolo della ragione. Passando in esame la situazione politica dei vari Stati d’Europa e quella dei partiti in Italia, concludeva col dire che l’Europa si trovava stanca, all’indomani d’un periodo rivoluzionario, e desiderosa di riposo; che in Italia conveniva tener gli animi desti e decisi ad una opposizione che rendesse impossibile il governare a un Governo forestiero, ma che non bisognava cimentarsi in tentativi, aspettando invece quel risveglio degli animi, in tutta Europa, che, passato il periodo di accasciamento, non poteva mancare». «Queste lettere erano bellissime, soggiunge il Piolti, e duolmi di non aver potuto prenderne copia» (Piolti de Bianchi. _Memorie del 6 Febbraio_). Il Mazzini, naturalmente, continuò per la sua strada, e trovò un nuovo capo della nuova cospirazione, un certo Ambrogio Ronchi, che venne presto arrestato: il 13 novembre di quell’anno fu condotto nel Castello di Milano, poi a Mantova, ore morì in prigione dopo infiniti patimenti nel maggio del 1856. Mazzini continuò imperterrito ad occuparsi direttamente della formazione delle sue bande; e vedremo presto quale ne fu l’esito. Intanto dopo l’arresto del Ronchi, s’ebbe uno strascico di altri arresti e di processi minori, tutti affidati al Krauss di orribile memoria. Ci furono episodî dolorosi e crudeli, di cui parlano i ricordi del tempo: ma a questi non potrei aggiunger nulla, poichè il filo delle mie relazioni era rotto. Il processo di Mantova, le condanne, le fughe, il distacco da Mazzini dagli amici che vedevo più di frequente, tutti del campo dei dissidenti, avevano troncate allora le mie informazioni. Negli anni dello stato d’assedio, e nel decennio della resistenza, il 1853 fu certamente l’anno più duro; fu l’anno in cui maggiormente si accumularono sul paese patimenti e sventure; ma fu anche l’anno che ebbe la maggiore influenza politica in Milano e in Lombardia, e che mise i primi germi di quel nuovo indirizzo, intorno a cui si dovevano disciplinare le menti e le forze che tendevano al gran fine. In quell’anno s’era veduta una lunga preparazione di Mazzini, diretta a una data meta, condurre precisamente verso una meta opposta. Da quattro anni Mazzini, con un lavoro minuto, tenace, colla formazione dei Comitati, colla preparazione d’una sommossa, tendeva a fare scoppiare quel vasto incendio, quella rivoluzione da cui l’Italia, secondo lui, sarebbe uscita indipendente, una, repubblicana. Il concetto della proporzione tra i mezzi e il fine nella mente di Mazzini, che pure era alta, non si affacciava mai: gli bastavano le deduzioni speculative della teoria e del suo pensiero. La bandiera monarchica, dopo il 1848, pareva ripiegata, pareva inoperosa, impotente; i disillusi e gli impazienti s’erano buttati al _mazzinianismo_: dunque, argomentava il Mazzini, si poteva osare, si poteva rifare il movimento rivoluzionario del 1848; e la nuova rivoluzione sarebbe stata il trionfo della Repubblica. Ma gli uomini più serî del suo partito argomentavano diversamente. Lo avevano sconsigliato dal tentare una sommossa, egli aveva risposto loro col 6 febbraio; lo sconsigliavano dal tentarne altre, egli preparava le bande armate. Ciò aveva fatto nascere discussioni e dissensi sulle prime; e alla fine era avvenuto un completo distacco tra Mazzini e il suo Stato Maggiore. Ma il Mazzini, più che mai convinto che la ragione fosse tutta dalla parte sua, imperturbato lasciò che da lui si staccassero i suoi vecchi amici, gli uomini migliori del suo partito; e riprese il lavoro di cospirazione, scendendo questa volta giù, giù più basso, dove si ragionasse meno, dove certi scrupoli fossero minori, e dove gli si obbedisse più ciecamente. Ma anche qui ormai il suo seguito fu scarso, e mano mano si andò assottigliando sempre più. Il 6 febbraio, finito così miseramente, aveva sfatato il suo autore nelle classi popolari. Il sistema immutabile del Mazzini di ordire ogni giorno da lontano una piccola congiura, un piccolo fatto a cui egli non era mai presente, e che finiva sempre con una nuova sventura, doveva necessariamente finire col provocare negli animi un senso di reazione e di disgusto. Io non fui in relazione col Mazzini; ma ero tra gli intimi del salotto Maffei e del gruppo del _Crepuscolo_, ove il Mazzini aveva avuto gli amici più autorevoli in Milano. Le impressioni mie, che ho qui esposte, sono l’eco fedele dei discorsi che ho uditi, e di ciò che ho veduto svolgersi in quel tempo. L’anno 1853, che doveva segnare l’apogeo di Mazzini e il trionfo della sua idea, ne principiò invece in Lombardia la decadenza e un rapido tramonto. Tale era lo stato degli animi dopo il 6 febbraio, e dopo i processi di Mantova. E mentre l’astro di Mazzini impallidiva, cominciavano in Piemonte ad apparire quei primi albori d’una luce nuova, che presto doveva diffondersi su tutta l’Italia. Il contegno dignitoso e fermo del Governo sardo e del suo Re di fronte all’attitudine minacciosa dell’Austria dopo il 6 febbraio; l’attività, la serietà con cui si riordinava in Piemonte le finanze, l’esercito e ogni ramo della cosa pubblica; l’ordine con cui vi procedeva la libertà, attiravano di nuovo, con simpatia e con un vivo sentimento di speranza, verso il Ticino gli sguardi delle popolazioni lombardo-venete. NOTA. [21] Il Castellazzo, ch’era figlio d’un impiegato di Polizia, uscito di prigione, fu ammesso subito alla laurea con straordinaria convocazione della Facoltà di legge, per ordine del Luogotenente di Lombardia in data 16 luglio 1853. I ricordi, e le lettere di quel tempo, sono unanimi nei giudizi severi contro il Castellazzo, che patteggiando l’impunità non ebbe più ritegno nelle sue confessioni. Tito Speri in una sua lettera chiama il Castellazzo e un altro _delatori furibondi_. Il Castellazzo insinuò che altri avrebbe potuto svelare il _cifrario_; ma questo non era a cognizione che del presidente e del secretario: il presidente Tazzoli fu impiccato, e il secretario Castellazzo ebbe l’impunità; e l’ebbe sostenendo con parecchi dei detenuti il _confronto_. Sui _confronti_ col Castellazzo, Finzi e Lazzati a quel tempo ne raccontarono e ne scrissero i terribili particolari. «Non posso tornare col pensiero» scriveva la signora Teresa Valenti «senza sentire un fremito d’ira contro di lui (il Castellazzo), che con un’impudenza da non immaginare passeggia azzimato e tronfio per le nostre vie in compagnia del giudice che compilò il processo». (Lettera di Teresa Valenti Arrivabene a Carlo Arrivabene a Londra). Se il Krauss gli avesse fatto dare 90 bastonate, non pare probabile che poco dopo il Castellazzo passeggiasse per Mantova in compagnia del suo aguzzino. Da principio si parlò di 30 bastonate, ma poi durante le polemiche diventarono 90. Quando nel 1884 si dibatteva una fiera polemica nell’occasione in cui il Castellazzo era stato nominato deputato di Grosseto, il Finzi, che per tal fatto s’era dimesso da deputato, scrisse sul giornale il _Pungolo_ dei ricordi sul processo, e sui _confronti_. In quell’occasione fu sollecitato il Lazzati, pure condannato in causa del _confronto_ col Castellazzo, di lasciare qualche ricordo del fatto; e il Lazzati lo raccontò dinanzi alla Commissione direttiva del Museo del Risorgimento, ricordando tra l’altre cose che quando nelle prigioni fu tratto al _confronto_, il Castellazzo fissandolo disse: _Ah, ah! ecco il signor Lazzati col berretto cerato e il paletot chiaro come li aveva la sera in cui venne al ritrovo in casa Tazzoli_. Il racconto del Lazzati fu scritto in un Verbale, consegnato al Museo del Risorgimento, e che esiste nei volumi rilegati dei Verbali della Commissione. A quel Verbale erano presenti il presidente Carlo d’Adda, e parecchi membri della Commissione, tra i quali io pure. * * * L’illustre Direttore dell’Archivio di Stato di Mantova, Alessandro Luzio, potè ultimamente far interrogare, da persona di sua fiducia, su alcune circostanze relative ai processi di Mantova del 1852, lo stesso auditore Krauss, che vive ancora pensionato a Vienna. Questi disse che il _cifrario_ del Tazzoli era stato interpretato dall’Ufficio segreto criptografico della Polizia di Vienna prima delle confessioni del Castellazzo, il quale quando vide che il cifrario era svelato, si decise a confessare, rivelando nuove circostanze e nuovi fatti, fino allora ignorati dall’inquirente, che fecero continuare il processo, e furono causa delle condanne a morte. Il Castellazzo fu persuaso a confessare, patteggiando l’impunità e un impiego, forse dal padre impiegato di Polizia. Il Luzio espose queste circostanze che ormai chiariscono la verità sull’affare Castellazzo, in sei applaudite conferenze, dette a Milano nel Circolo Filologico, che verranno quanto prima ripetute in un libro sul processo di Mantova che pubblicherà la Ditta Cogliati. Le conferenze del Luzio sono avvenute mentre questa seconda edizione era in corso di stampa. Ma posso lasciare, per ora, intatto il mio racconto perchè nella parte sostanziale le rivelazioni del Krauss non contraddicono a quanto mi dissero i prigionieri di Mantova, miei amici, e che riferii in questi miei _Ricordi_. Il Krauss confermò che, in questo processo, nessuno era stato bastonato, poichè non occorreva tale misura dacchè il cifrario era ormai noto. CAPITOLO XVII. 1853. III. _Sommario:_ Partiamo, io e mio fratello Emilio, per un viaggio a Roma, a Napoli, in Sicilia. — Soggiorno in Roma. — Da Roma, attraversando gli Appennini, andiamo ad Arsoli, Avezzano, Montecassino, Capua e a Napoli. — L’albergo e l’albergatore. — Amici. — Casa Gargallo. — Una chiamata alla Legazione Austriaca. — Tragitto da Napoli a Messina. — Catania, Taormina. — L’Etna e il prof. Gemellaro. — Siracusa, viaggio a cavallo lungo la costa fino a Marsala. — Impressioni e disagi. — Locande e bettole. — La cortesia delle persone, i discorsi. — Un contratto coi mulattieri a Girgenti. — Un incontro misterioso. — Da Trapani a Palermo per Calatafimi. — Lettere per diverse persone dateci da Tenca. — Impressioni sulle condizioni civili di quel tempo nella bassa Italia. — Ritorno e lettere di nostra madre a Genova. In principio di luglio, fatti i nostri esami universitarii, io e mio fratello Emilio ci sentimmo presi da una grande smania di prendere una boccata d’aria fuor di paese, e di sollevarci un po’ l’animo dopo tanti giorni di sciagure, e dopo i pericoli corsi, specialmente da Emilio. Ci decidemmo per un viaggetto a Roma, a Napoli, e in Sicilia: l’avere un passaporto per quei paesi, incatenati al pari di noi, non era difficile; e poi ci sorrideva di vedere una parte d’Italia, di questa nostra Italia a cui si dedicavano tanti pensieri e tanti dolori. Partimmo per Genova, ove dopo un paio di giorni, passati in compagnia di parecchi amici emigrati, o fuggiti dai recenti processi, ci imbarcammo, e si andò a Civitavecchia. Sbarcati, fummo condotti nell’uffizio della Dogana, ove ci furono aperti i bauli, e un commissario di Polizia li perquisì minutamente. Ne tolse i libri, un Machiavelli, un Molière e un paio di romanzi, dicendoci che qualsiasi libro veniva sequestrato, e che avremmo potuto cercarli poi alla Polizia centrale in Roma. Ma, in fatto non li riavemmo più. Questa prima impressione non fu piacevole, e meno piacevole ancora fu il viaggio da Civitavecchia a Roma in una vecchia diligenza sgangherata, che Emilio diceva trovata tra le masserizie di Torquemada. In Roma rimanemmo quindici giorni, girando da mattina a sera, nella canicola del luglio, trafelati, ma non stanchi di vedere e di ammirare. Visitammo anche minutamente quei luoghi a cui le recenti memorie della difesa di Roma davano uno speciale interesse: le mura, il _Vascello_ e la breccia, ove erano caduti Manara, Enrico Dandolo, Morosini, e tant’altri amici e giovani valorosi in nome di una grande idea la quale pareva non si potesse effettuare che in tempi ben lontani. Quando incontravamo per le strade i soldati francesi esclamavamo in cuor nostro: Che cosa fate voi qui? Il vostro posto sarebbe stato sui campi di Lombardia da amici, e non qui da nemici! Chi m’avrebbe detto allora che questa logica del sentimento avrebbe avuto tra pochi anni il trionfo! E per di più, per opera di colui che, in quei giorni, per essere dei patriotti in tutta regola, bisognava chiamare con ira l’_uomo del 2 dicembre_! Francia e francesi nei nostri animi giovanili erano associati all’epopea della rivoluzione, e del regno italico; erano associati a ogni più alta idea di libertà e di progresso! E ora invece vedere i francesi in Roma, accanto agli svizzeri del Papa, venuti a sostenere colle armi il governo temporale papalino! Un’altra cosa che ci offendeva la vista e il sentimento era il trovare, in ogni ufficio ove s’andasse, dei preti; dei brutti preti che, col piglio di frequente rozzo e sgarbato, adempivano a incarichi che proprio non avevan nulla a che fare colla sacristia. E ci stupiva poi tanto il sentir bestemmiare contro i preti e dileggiarli, senza ritegno e generalmente; noi, che eravamo abituati a rispettare i nostri bravi preti di Lombardia. E che cosa poi non si diceva del governo dei preti! Era un subisso di imprecazioni, che vorremmo per un momento solo far udire a quelli che lo invocano... per passatempo. Un giorno, mentre in piazza di Monte Cavallo stavo osservando l’obelisco e i cavalli greci, vidi uscire dal palazzo del Quirinale una gran carrozza a vetri tutta dorata. In quella carrozza c’era un bel vecchio, tutto vestito di bianco, che benediceva dagli sportelli: il suo viso pareva circondato da un’aureola di santità e di pace: sulle sue labbra c’era un fine sorriso pieno di bontà; quel dolce sorriso col quale forse aveva pronunziate un giorno quelle parole che risuonarono dall’Etna alle Alpi: _Gran Dio, benedite l’Italia!_ Pensammo di recarci a Napoli, attraversando gli Appennini, passando poi per Capua e per Caserta. Il primo giorno s’andò a Tivoli e ad Arsoli, un ameno paesello presso il confine del regno di Napoli, con un viaggio di parecchie ore di polvere e di afa in una vetturaccia, in compagnia d’un frate che russava e d’una balia che allattava. Ad Arsoli ci dissero che non c’eran locande per _galantuomini_: in quei paesi si chiamano galantuomini quelli che noi chiameremmo persone civili. Ci fu però indicato un palazzotto il cui proprietario, un certo signor Marcello, offriva l’ospitalità ai forestieri, e ai _galantuomini_. Il signor Marcello era un uomo gentile e gioviale. Ci alloggiò assai bene, e la sera ci diede un’ottima cena. Ci disse ch’era di Roma, e che dopo i fatti del 1849 passava parte dell’anno in quella sua villa; poi mi raccontò molte storielle della sua gioventù, nelle quali c’entrava anche il principe Luigi Napoleone. Ci disse pure che nella villa c’eran sua moglie e le sue figlie, ma non ce le lasciò vedere. E avendogli noi lodata la cena, ci informò ch’era stata cucinata da una sua giovane cuoca; ma anche questa non fu visibile. E quando prima di partire la cercammo per darle la mancia, si presentò in vece sua un’altra persona di servizio, ch’era un maschio. Il signor Marcello ci procurò una guida e tre muli per attraversare l’Appennino. Si viaggiò tutta una giornata, valicando un monte arido e dirupato, per una strada mulattiera che conduceva a Tagliacozzo, per scendere poi ad Avezzano. La strada che noi facemmo era appunto quella che, circa dieci anni dopo, veniva percorsa dalle bande dei briganti che entravano dallo Stato romano negli Abruzzi; e su quelle balze era preso e fucilato il carlista spagnolo Borjes, venuto in Italia a capitanare il brigantaggio, a ricattare e a tagliar orecchie, da dilettante. Verso sera, prima di arrivare ad Avezzano, fummo raggiunti da un signore, pure a cavallo, il quale con molta cortesia ci diede delle indicazioni utilissime, e ci procurò un buon alloggio. Non contento di questo, la mattina seguente venne a prenderci e ci condusse a vedere il lago di Fucino e l’emissario di Nerone: poi ci volle accompagnare fino a Sora e a Capua. Sulle prime ci eravamo tenuti con lui in molto riserbo, ma a poco a poco smettemmo la diffidenza. Egli ci disse che in seguito agli avvenimenti del 48 era stato relegato in provincia; e ci diede una infinità di particolari su cose e persone che sapevamo d’altra parte veritieri. Questo cortese signore si chiamava Altobelli, e mio fratello Emilio lo rivide a Napoli nel 1861, quando v’andò con Farini. L’Altobelli gli raccontò che dopo la cavalcata e la gita con noi era stato arrestato dalla Polizia, la quale voleva sapere quali macchinazioni avesse fatte con quei due forestieri venuti dal confine romano; e, a buon conto, l’avevano tenuto in prigione alcuni mesi. Accomiatatici a Sora dal signor Altobelli, si andò in vettura a S. Germano, poi a cavallo all’Abbazia di Montecassino. Eravamo nell’agosto, e si pensi che caldo facesse. Il portinaio del convento, indovinando i nostri desideri, ci condusse subito in un salottino da toeletta ove potemmo lavarci, rinfrescarci, e toglierci di dosso tutta la polvere che ci ravvolgeva. Quel bravo portinaio ci portò anche delle buone limonate, e ci disse a nome del Priore, al quale avevamo mandato i nostri biglietti da visita, che eravamo pregati di accettare in refettorio una colazione. Accettammo con piacere, e la colazione fu ottima. Alle frutta vennero due monaci benedettini, uno dei quali credo fosse il Priore, a farci visita; poi il più giovane dei due ci condusse a visitare il convento, la chiesa, e la biblioteca; visita che durò parecchie ore, e che quel monaco ci rese anche più interessante colla sua molta erudizione. Era di Napoli, e si chiamava Carfora; aveva maniere distinte e gentili da signore. Lasciammo con dispiacere quello splendido asilo, ove avevamo trovato un’ospitalità tanto cortese; ove tutto era dedito alla fede, alla coltura, all’arte: e ove tutto faceva dimenticare _li pretacci_ di Roma, come dicevano allora i romani. Viaggiando tutta notte in una diligenza, si arrivò la mattina dopo a Capua. Di quel viaggio ricordo che un gendarme, incaricato di scortare la diligenza, non trovando altro posto, venne a sedere in mezzo tra me ed Emilio schiacciandoci sui fianchi del legno. Cercammo di protestare, ma fu inutile. Che cosa non era lecito a un gendarme? Anzi voleva essere ringraziato. Prima ci frugò indosso per assicurarsi che non avevamo qualche arma nascosta, poi voltosi a Emilio, che aveva un paio di giovanili baffetti biondi, gli disse: «Io vi dovrei far tagliare _li mostacci_, perchè nel _Regno_ sono proibiti, ma veggo che siete inglesi e per rispetto alla vostra nazione _non ci faccio caso_. Ma ringraziatemi, perchè _vi faccio una grazia_. Ma pure mi dovete ringraziare se sto _assettato_ in mezzo a voi, e vi proteggo contro _li malfattori, che ce ne stanno tanti_.... che se venissero nella notte avranno da fare con me... sangue di!... Ringraziatemi, ringraziatemi...» Poco dopo, col fucile tra le gambe, si addormentò, e russò fino alla mattina. Da Capua si andava a Napoli con la strada ferrata, una strada ferrata di carattere pacifico e conciliante, su cui il treno andava con la velocità d’una _vettura_; i passanti lo facevano fermare per salire o per scendere a loro volontà. A Napoli alloggiammo in un albergo, in vicinanza di via Toledo, che si chiamava, mi pare, del _Commercio_. Il proprietario e direttore era un vecchio francese, Monsieur Martin, venuto a Napoli ai tempi di Murat, e che quando non brontolava, come faceva quasi sempre, canticchiava sottovoce continuamente una canzone francese che aveva per ritornello: _Aux armes, aux armes, que vient le Duc de Parme_. Appena arrivati trovammo alcuni amici che furono poi i nostri compagni per tutto il tempo che si rimase a Napoli, ossia una quindicina di giorni. Questi erano Carlo Casalini veneto, compagno di studi di Emilio, e il conte Sassatelli di Bologna e Cristoforo Robecchi milanese, che diventò molti anni dopo Console generale del Regno d’Italia. Se volessi dire tutte le impressioni di maraviglia da cui passavo da mattina a sera, non la finirei più; quella bella Napoli m’avevano ubriacato. Ma pur troppo accanto alle meraviglie del cielo, della natura e dell’arte, c’eran le impressioni brutte che lasciava nell’anima la gente bassa, che è appunto quella parte di popolo che, chi non è del paese, vede di più. Per noi che ci sentivamo italiani, cittadini di una Italia da farsi, e che come tutti i liberali di quel tempo, circondavano il popolo di tanta poesia e di tante speranze, era penoso il veder quella plebaglia così priva di dignità e talora d’onestà. Allora c’erano ancora i tradizionali _lazzaroni_, scomparsi poi col Borbone loro protettore. I forestieri se ne divertivano, ma noi ne arrossivamo. Quello sciame di pitocchi, di oziosi, che a ogni passo s’aveva tra’ piedi, che piombavano addosso come locuste, che ingannavano, truffavano, e che bisognava minacciare, o peggio, per liberarsene, era uno spettacolo insoffribile, tristissimo. Ci confortavamo col dire tra noi che quel popolo era tenuto ad arte nell’ignoranza e nell’abbiezione; ma bisognava pur confessare che i risultati del sistema non potevano essere più completi. Tutta questa bordaglia faceva contrasto è vero con le classi alte, e soprattutto coi molti eletti per ingegno e per cultura di cui non era, e non fu mai, scarso quel paese. Ma allora molti di questi si tenevano in disparte, e quasi appiattati, per non dar quell’occhio alla Polizia, la quale non era meno feroce, ma era più vessatoria e più stupida della Polizia del Governo militare di Lombardia. Un giorno io e Emilio, tornati, dalla gita del Vesuvio stanchi, accaldati, ci buttammo sul letto mezzo vestiti, e ci addormentammo profondamente, senza aver chiusi gli usci delle nostre camere. Ci svegliammo verso l’ora del pranzo, e si pensi con quale spiacevole maraviglia ci accorgemmo ch’eran scomparsi tutti i nostri abiti, compresi quelli ch’erano negli armadi. Chiamammo il cameriere, chiamammo il signor Martin, furono interrogate le persone di servizio dell’albergo, ma dei nostri abiti non se ne seppe più nulla; e per quel giorno si dovette pranzare in camera in maniche di camicia, e poi andare a letto. Il signor Martin ci giurò in francese, in italiano, e sulla sua testa, che avrebbe scoperto il ladro. Per un paio di giorni lo sentimmo strepitare e bestemmiare; poi tutto tornò in quiete, ed egli riprese a canticchiare _aux armes, aux armes, que vient le Duc de Parme_. Ciò che di buono fece intanto il signor Martin fu di chiamar subito un bravissimo sarto, che con una rapidità ammirabile, cioè in un paio di giorni, ci rifornì di quanto c’era stato rubato, portandoci degli abiti assai ben fatti e di ottimo gusto. C’eran state rubate anche le _marsine_, e avevamo un invito a pranzo proprio in quei due o tre giorni. Il sarto con un sorriso benevolo ci rassicurò, e un’ora prima del pranzo ci portò le _marsine_, i calzoni, e le sottovesti che andavano a pennello. Quando partimmo da Napoli il signor Martin, nel metterci in carrozza, ci disse all’orecchio che il ladro dei nostri abiti era stato il servitore d’un generale, venuto per la festa di Piedigrotta, e che aveva le sue camere accanto alle nostre; ma che trattandosi di persona dipendente da un pezzo grosso, era prudenza tacere. Il pranzo, pel quale ci occorrevano le _marsine_, era in casa Gargallo. Ai discendenti del traduttore d’_Orazio_ eravamo stati presentati pochi giorni prima; ed essi, tutta una famiglia composta di fratelli, sorelle, nuore e nipoti, ci avevano invitati pel giorno della festa di Piedigrotta a veder la _parata_ la mattina, cioè la grande rivista militare e il passaggio del corteo dei Sovrani, e poi a pranzo la sera. Ci trovammo in casa Gargallo con altri invitati, che dovevano essere dei borbonici della più bell’acqua. Ce ne accorgemmo quando passò la carrozza del Re seguita dalle carrozze di Corte. Emilio mi diede subito un’occhiata, per domandarmi se dovevamo ritirarci dal balcone, come si faceva a Milano quando passava un generale austriaco. M’aspettavo in buona fede che su quei balconi si facesse altrettanto, ma nessuno si mosse. Io avevo già atteggiato il viso a una sdegnosa, severità patriottica, ma ecco che i miei vicini incominciano a batter le mani, a gridar viva il Re, e a salutare ammiccando con gli occhi le persone del seguito. Durante il pranzo poi i discorsi si aggirarono unicamente su notizie di Corte; e dal mio vicino ricevetti le congratulazioni perchè anche in Lombardia fossero stati ristabiliti l’ordine e la tranquillità! Due giorni dopo facemmo la nostra visita di congedo in casa Gargallo. Credevamo d’esser sulle mosse per andare in Sicilia; ma un improvviso incidente venne a trattenerci ancora per una settimana. L’amico Cristoforo Robecchi desiderava fare il giro della Sicilia con noi, e avevamo quindi mandato alla Polizia i nostri tre passaporti chiedendo il _visto_ per la partenza. Ma eccoci, dopo un’attesa di alcuni giorni, una lettera che ci chiama alla Legazione d’Austria. A quei tempi gli italiani, sudditi austriaci, viaggiando evitavano di presentarsi alle Legazioni o alle Ambasciate austriache per cansarne le cortesie. Questa volta eravamo chiamati, e bisognava andarci. Alla Legazione fummo ricevuti dal primo segretario, poichè il ministro era in congedo. Questo segretario, certo signor Rajmond, ci accolse molto gentilmente, e ci avvisò che alla Polizia di Napoli era arrivata una relazione, piena di sospetti sul nostro conto, in causa della strada insolita che avevamo percorsa venendo da Roma, e in causa delle _persone con le quali_ (il signor Altobelli) ci eravamo abboccati. Non ci fu difficile dimostrare al signor Rajmond l’innocenza delle nostre azioni, ed egli si assunse di persuaderne la Polizia napoletana, e di domandare per noi quei passaporti speciali che occorrevano per andare in Sicilia. Noi non sapevamo che il nostro passaporto per le Due Sicilie non bastasse, e che per una sola Sicilia ce ne volesse uno rilasciato anche dal Governo di Napoli. Dopo due giorni siamo chiamati di nuovo alla Legazione, e il signor Rajmond ci comunica la risposta del Governo il quale ci concedeva _due_ passaporti ma non _tre_; bisognava quindi scegliere tra noi chi poteva partire e chi dovesse rimanere. Il signor Rajmond però, sempre gentile, si offerse di interporsi ancora per ottenerci la _grazia_ di partire in tre. La grazia venne, ma un personaggio del Governo volle vederci e interrogarci alla presenza del secretario della Legazione. Questo personaggio, di cui non rammento il nome, era un ometto asciutto e sbarbato; ci fece un lungo interrogatorio, squadrandoci da capo a piedi a ogni domanda; poi alla fine con molta solennità ci disse: «Ebbene, si concede a tutti e tre il passaporto per la Sicilia, ma si concede soltanto per un riguardo alla loro _bandiera_!» E così dicendo accennava con la mano al segretario della Legazione d’Austria. _Per la nostra bandiera!_ cioè per la bandiera austriaca. Con potemmo andare quella volta in Sicilia grazie a un funzionario austriaco, il quale per di più ci raccomandò di tenerci molto in guardia per cansare le vessazioni della Polizia borbonica, ch’egli pure si permetteva, sorridendo, di riconoscere eccessive. Partii pieno d’entusiasmo per il bel paese che avevo veduto, ma ne venivo via con tre dispiaceri nel fondo dell’animo: quello cioè d’aver perdute anche qui, e più che mai, molte illusioni su quel _popolo_ che Mazzini mi aveva insegnato a mettere accanto a _Dio_; d’aver trovati, nelle classi educate, dei borbonici; e d’aver avuto un protettore nella Legazione austriaca. Ci imbarcammo per Messina, e la traversata fu poco felice: il mare era burrascoso, il battello procedeva male e quasi a stento; a Paola si dovette fare una lunga fermata. Quando si giunse a Messina era sera, e si dovette passar la notte a bordo; la conclusione fu che si rimase sul battello cinquant’ore. Nel frattempo ci furono tutti quegli episodi che si possono immaginare pensando a un battello durante una burrasca. Io e Emilio per fortuna non pagammo quel tributo, che il beccheggio e il rullio fecero pagare agli altri. Tra i passeggieri, ch’eran molti, c’era tutta una compagnia comica; la compagnia Domeniconi che andava a Messina. L’avevo veduta altre volte sulle scene, e allora la vidi tutta col mal di mare, che ruzzolava sul ponte o nel salotto, in pose ora tragiche ed ora comiche. Tra gli altri viaggiatori c’erano delle donne, e anche qualche uomo, che parevano impazziti per la paura; strillavano, pregavano, invocavano tutti i santi napoletani e siciliani; e ad ogni nuovo colpo di vento, o ad ogni ondata più violenta, facevano un nuovo voto. Ne fecero di così smisurati (fra gli altri quello d’un organo a tre tastiere con sessanta canne), da scommettere che non furon mantenuti tutti. A Messina ci fermammo tre o quattro giorni, poi si andò a Catania, dopo aver passata una giornata a Taormina; nella meravigliosa Taormina! Dopo aver gironzolato per alcuni giorni nella bella città di Catania, ci accingemmo alla salita dell’Etna. Ma l’Etna, ci si disse, non è sempre cortese coi viaggiatori, e difatti non lo fu neppure con noi; sicchè dovemmo contentarci di leggere sulla Guida la descrizione dello spettacolo che vi si contempla dalla vetta. La prima fermata fu a Nicolosi, ove, com’era di prammatica allora, si andò a far visita al professore Gemellaro, l’illustratore dell’Etna, di cui egli parlava come un buon babbo parla di un suo figliolo, che fa qualche scappata, è vero, ma che gli dà pure molte consolazioni. Dopo Nicolosi il tempo si fece così cattivo che dovemmo ripararci in una grotta e starci forse un paio d’ore, intanto che un vento impetuoso, accompagnato da una fitta gragnuola, schiantava gli alberi e faceva rotolar sassi giù dalla montagna. Usciti dalla grotta giungemmo, dopo altre sette ore di cammino, a un rifugio chiamato la casa degli inglesi. Ci si passò la notte, mezzo assiderati, poichè in quella casina anche il vento e la pioggia avevano libero l’ingresso. All’alba tentammo la salita del cono, ma dopo una mezz’ora di strada fummo ricacciati indietro da una _tormenta_ di lapilli e di neve, venuta a dirci bruscamente che anche il cono non voleva saperne di noi. E così si dovette rifar la strada giungendo a Catania stanchissimi per la fatica, pel freddo e pel caldo, poichè dalla neve e dai ghiacci dell’alta zona del monte eravamo passati, al piano, a 36 gradi centigradi. Ad onta di tutti questi demeriti che l’Etna ebbe verso di noi, io ne ho conservato un grande e indimenticabile ricordo. Per quanto la mia aspettativa fosse molta, essa fu superata; e ripensandoci, dopo tanti anni, lo spettacolo vario e grandioso dell’Etna mi riempie ancora la mente di maraviglia. Ma altri spettacoli grandiosi ci si presentarono subito dopo, principiando da Siracusa. Non parlerò della città moderna che se ne sta accanto al piccolo porto, come un signore decaduto sta in un quartierino modesto; ma ricorderò la landa che, arida e maestosa, si diparte dall’attuale città, e su cui si distendeva la Siracusa antica, la grande città greca, di cui non ci son più neppure le rovine. Percorremmo quella landa per parecchie ore a cavallo, non trovando che qualche raro frammento di pietre spezzate, là dove per più secoli si agitò la vita d’oltre un milione d’abitanti. Durante quella lunga cavalcata non trovammo, noi tre, una parola da dire. Certi spettacoli rendono silenziosi e meditabondi anche a vent’anni. Da Siracusa si andò a Girgenti, passando per Noto, Modica, Ragusa, Vittoria, Terranova, Licata, viaggiando ogni giorno per sei o sette ore a cavallo. Da Girgenti si andò a Sciacca, con una cavalcata di tredici ore filate; poi a Selinunte, a Castelvetrano, a Mazzara, a Marsala, sempre su cavalli, o su muli. Ripensandoci, dopo tanti anni, mi si ridesta ancora l’impressione di quelle ore calde, faticose, di quelle sabbie infocate sulle quali le nostre cavalcature camminavano a stento sprofondandovi. Le vedo ancora quelle terre arse e sabbiose, e quel cielo, che facevan pensare al deserto, e all’Oriente. La fatica e gli stenti erano grandi, ma era così grande tutto ciò che vedevamo che alla fatica non si badava più. Quel mare azzurro, quelle spiagge vaghissime, quegli avanzi greci, romani, saraceni, normanni che riuniti su una medesima terra ci parlavano di tanti popoli e di tante vicende, trasportavano i nostri pensieri in una sfera così alta e vasta che l’eco dei nostri disagi e dei nostri piccoli guai non ci poteva arrivare. De’ piccoli guai, e degli incomodi, oltre la fatica, il caldo e la stanchezza, a dir vero ce n’eran parecchi. I tre maggiori erano la fame, la sporcizia e i poliziotti. Di solito si faceva anche allora il giro della Sicilia con vaporetti che ne toccavano i punti più interessanti. Ma il giro della costa per terra, che bisognava fare a cavallo non essendoci strade per lunghissimi tratti, non veniva di solito intrapresa da chi viaggiava per divertimento, se non da qualche inglese. Perciò eravamo presi sempre per inglesi anche noi. E degli inglesi veri ne trovammo infatti alcuni che facevano la nostra medesima strada ma la facevano con maggior previdenza e con minori disagi di noi: portavano con sè provvisioni di acqua, di vino, di viveri; e avevano le tende per riposare di giorno, e occorrendo anche di notte, quando non trovavano locande decenti. Oggi in quasi tutti quei paesi della costa si trovano buone locande, e strade; ma non era così a quei tempi, e val la pena rammentare come si viaggiasse al tempo del Governo borbonico. Dicendo che parecchie volte abbiam sofferto la fame non rendo che un doveroso omaggio alla verità. In quelle bettole ignobili che si trovavano lungo la strada non c’era il più delle volte che del pane secco, del cacio ammuffito, o qualche altro commestibile che rovesciava lo stomaco. Se ci fermavamo a qualche cascinale ci si trovavano al più delle ova: se ci son le ova, argomentavamo tra noi, ci dovrebbero essere anche le galline; ma siccome la logica non regge sempre le cose di questo mondo, così le galline non c’eran mai, ed era impossibile di scovarle per quanto si offrissero dei prezzi principeschi. Nei piccoli paesi le così dette locande eran bettolaccie da mulattieri. Sul limitare s’era subito accolti da un puzzo che vi diceva di non entrare; e il più delle volte infatti non ci si entrava, e si dormiva sotto la vôlta del cielo, con la sella del mulo per guanciale. Se volessi parlare degnamente del sudiciume che ho ammirato in alcune di quelle locande, e in qualcuno di quei paesi, ci sarebbe da farne un poema. Il concetto d’un po’ di nettezza non c’era neppure nello stato embrionale. Bisogna dire che la nozione della pulizia sia tra quelle che penetrano per le ultime in certi cervelli umani, i quali comprendono più facilmente il soprannaturale che il sapone. Una volta (mi si perdoni ciò che sto per dire), mio fratello avendo detto alla padrona della locanda di pulirgli un coltello, su cui c’era stratificata una lunga storia di usi diversi, la locandiera sputò sul mattone del pavimento, ci fregò sopra la lama, la risciacquò in un catino d’acqua sporca, e l’asciugò ne’ suoi capelli; tutto ciò con una rapidità e con una premura che dimostravano la miglior volontà di servirci bene. Al primo arrivare in un paese si era subito pigliati da un gendarme, il quale prima di lasciarci andare alla locanda ci conduceva all’uffizio della Polizia; dove ci si frugava nei bagagli, e perfin nelle tasche, e ci si facevano i più strani interrogatori, ch’eran spesso un divertimento. Alla fine ci domandavano una buona mancia. Dappertutto eravamo poi sempre l’argomento d’una grande curiosità. Forestieri ne vedevan di raro, era dunque ben naturale che tutti avessero un gran desiderio di avvicinarci e di parlarci. Ma devo anche dire ch’eran tutti molto cortesi ed ospitali, e che spesso si durava fatica a cansare certe cortesie eccessive, come quelle d’offerte di doni che ci venivan da persone che vedevamo per la prima volta. A Vittoria, avendo noi lodati i vini di parecchi che ci avevano condotti a vedere le loro cantine, tutti volevano che ne accettassimo dei fiaschi e persino dei barili da portar con noi; un tale ci voleva donare un gran pacco di cremor di tartaro non sapendo che cosa darci di meglio. I discorsi, le domande che questa brava gente ci facevano, dimostravano sovente una ben scarsa nozione degli avvenimenti moderni, mentre poi dinotavano in loro quasi sempre una certa cultura classica e soprattutto archeologica. Nè c’era da stupirsene, poichè negli stessi _gabinetti di lettura e di conversazione_, come li chiamavano, non ci abbiamo mai visto di moderno che il Giornale ufficiale delle Due Sicilie. Il tenere isolate le popolazioni della Sicilia da ogni contatto intellettuale col rimanente del mondo era allora una delle principali preoccupazioni del governo borbonico. Non era piccolo lo stupore di chi ci interrogava, a sentirsi rispondere che non eravamo inglesi, ma italiani e lombardi. Allora ci venivano rivolte, con una grande curiosità patriottica, infinite domande che dimostravano quanto in quei paesi la gente fosse tenuta all’oscuro su tutto ciò che riguardava gli altri paesi d’Italia. A Girgenti, mentre stavamo contemplando gli avanzi d’un tempio greco, un ufficiale, che ci parve di quelli addetti alle piazze, dopo averci osservati per un pezzo, non reggendo più alla curiosità, ci si avvicinò e ci diresse parecchie domande. Si capiva ch’era un buon uomo; per farsi poi perdonare le sue interrogazioni egli le intercalava con una infinità di scuse e d’offerte di servizi. Le nostre risposte accrescevano sempre più la sua curiosità, ma ogni tanto rimaneva così impigliato nelle sue sorprese che non sapeva più raccapezzarsi. Il maggiore de’ suoi imbarazzi fu quando gli dicemmo che eravamo italiani e lombardi. Non era forte nella geografia, e si ostinava a voler mettere la Lombardia nella Svizzera. Ad onta di questo disinganno che gli dovemmo dare, volle incaricarsi egli stesso di procurarci le cavalcature per andare a Sciacca, e di farci il contratto coi mulattieri. Era un contratto che si poteva sbrigare con poche parole, ma quel buon uomo era verboso e voleva mostrarci tutto l’interessamento che prendeva per noi. Alla fine, parlando ai mulattieri, conchiuse con questa perorazione: «Sentite, questi signori sono cavalieri prestantissimi che sanno scrivere! da Sciacca mi manderanno due righe scritte di loro pugno, sulla carta, capite?.... e se mi scriveranno che siete stati dei bricconi, io vi farò dare tante bastonate che ve ne ricorderete per un pezzo!...» e qui fece una faccia minacciosa e terribile, ma poi rabbonendosi subito continuò: «Ma voi siete dei bravi figlioli, vi conosco... questi signori cavalieri saranno contenti di voi, vi daranno una buona mancia... e voi avrete la mia protezione!» E alzò il braccio in atto quasi di benedirli. Con quei mulattieri si fece una lunga cavalcata, arrivando la sera a Sciacca. Su quelle strade, in uno dei punti più deserti, ci imbattemmo in due individui a cavallo che potevano essere contadini, o guardiani, e che avevano i fucili ad armacollo. Questi, dopo averci squadrati ben bene, tirarono in disparte i nostri due mulattieri e rimasero per qualche tempo a confabulare con essi, poi scomparvero, mentre noi proseguivamo lentamente per la nostra strada. Poco dopo i nostri mulattieri vennero a dirci che quei due avevano fatto loro la proposta di pigliarci alle spalle, di ammazzarci e di dividersi il bottino. I nostri mulattieri soggiungevano d’essersi opposti, dicendo, per meglio dissuaderli, che noi eravamo terribilmente armati, e che per di più avevan veduti a poca distanza i gendarmi. Quella proposta sarà stata vera? O i nostri mulattieri ce l’avevano inventata per farsi raddoppiare la mancia, e per assicurarsi meglio quelle due righe di benservito da portare all’uffiziale? Le due ipotesi sono possibili del pari. Quest’episodio fu il solo che ci rammentasse la poca sicurezza di quelle strade. Noi le abbiamo percorse di giorno e di notte, senza nessuna precauzione, e senza darcene pensiero; fortunatamente nulla venne a turbare questa nostra serenità. A Marsala ci fermammo una giornata per riposarci. Sul taccuino, ove scrissi allora i miei appunti giornalieri, trovo scritto: _Oltre le fattorie del vino e qualche avanzo dell’antica grandezza c’è poco da ricordare_. Chi m’avrebbe detto allora che cosa ci sarebbe stato da _ricordare_, sette anni dopo! Da Marsala andammo a Trapani per mare, in una baia di pescatori, poi un po’ a cavallo e un po’ in vettura si arrivò in tre giorni a Palermo, passando per Calatafimi, Segeste, Alcamo e Monreale. A Palermo, ove eravamo arrivati il 6 ottobre, rimanemmo otto o dieci giorni, il tempo appena necessario per dare un’occhiata a quel paese di maravigliosa bellezza, e alle cose più notevoli della città. Una lettera di nostra madre ci aveva consigliato di affrettare il ritorno, e ci diceva che a Genova avremmo trovate altre sue lettere. Carlo Tenca ci aveva date delle lettere per alcune persone coll’incarico di chiedere delle corrispondenze pel _Crepuscolo_, o almeno delle informazioni di tanto in tanto; ciò per stabilire una relazione intellettuale e morale tra i lettori del _Crepuscolo_ e la Sicilia, come già avveniva con molte altre provincie d’Italia. Trovammo delle distinte persone che ci accolsero con molta cortesia, ma tutte ci diedero un’eguale risposta, e cioè che mandar delle lettere, anche non politiche, sulla Sicilia era un affar serio e quasi impossibile, poichè quelle lettere sarebbero state certamente aperte dalla Polizia e sequestrate; chi poi le mandasse avrebbe avute perquisizioni e vessazioni senza fine. Ci dissero per di più che sarebbe stato poco prudente anche il lasciarsi veder troppo insieme con noi per le strade, poichè chi bazzicava con forestieri diventava per la Polizia un cittadino sospetto. Valga ciò a dare un’idea delle condizioni in cui si trovava a quel tempo la Sicilia e del modo con cui era governata. Dopo aver percorsi gli Stati del Papa e del Re di Napoli, nel ritornare in Lombardia, bisogna confessare che, ad onta dello stato d’assedio e dei rigori del Governo militare, si provava un senso di sollievo; si sentiva d’essere in un paese le cui condizioni erano meno socialmente retrive, e che aveva un Governo meno stupidamente tirannico. Il Governo austriaco era sempre stato, quanto alla politica, pedantescamente assoluto; allora poi era in un periodo di violenta reazione; ma era un governo civile del secolo decimonono, mentre il papalino e il napoletano erano ancora in parte governi d’altri tempi, e giustamente ritenuti tra i peggiori del mondo civile. Da Palermo partimmo per Genova, con un battello a vapore, toccando solo per poche ore Napoli, Civitavecchia e Livorno. A Genova trovammo le lettere che nostra madre ci aveva annunziate; lettere importanti, che ci lasciarono pensierosi e perplessi. CAPITOLO XVIII. 1853. IV. _Sommario:_ Nostra madre ci avvisa a Genova degli arresti avvenuti in Valtellina, e d’una perquisizione fatta in casa nostra. — La spedizione del Calvi e il suo arresto. — Lettere di Mazzini al Calvi che, trovate, sono cagione degli arresti in Valtellina. — Il processo di Salis, Stoppani e Zanetti in Valtellina. — Ulisse Salis. — La strada dello Stelvio. — Episodio del cannone nascosto dai fratelli Ulisse e Giuseppe Salis. — Torelli e Guicciardi. Nostra madre, in una lettera del 22 settembre, ci avvisava che in quel giorno stesso erano stati arrestati a Tirano il nostro amico conte Ulisse Salis e il caffettiere Antonio Zanetti; e a Bormio Gervasio Stoppani ch’era un noto patriotta di quel borgo. In una seconda lettera, posteriore di alcuni giorni, ci informava che un Commissario, venuto da Sondrio, aveva fatta una lunga e minuta perquisizione in casa nostra, sotto gli occhi di lei e di mio fratello Enrico che in quei giorni villeggiava in Tirano. La mamma impressionata, e temendo per noi, ci raccomandava di tenerci al largo. Ci fermammo qualche giorno a Genova, cercando informazioni e notizie, in una certa perplessità: infine ci decidemmo a ripartire per Milano, e a raggiungere nostra madre. Parve a Emilio che il non ritornare a casa potesse svegliare maggiori sospetti; mentre poi egli era sicuro che in ogni caso Salis in prigione avrebbe taciuto, come aveva taciuto il Lazzati. Ma quali nuovi fatti avevano potuto provocare i nuovi arrestati, ora che il processo di Mantova era chiuso? A Milano e in Valtellina gli amici ci diedero alcune informazioni che ci misero sulla traccia in parte di quanto era avvenuto: ma soltanto più tardi si conobbe esattamente ciò che sto per dire. Per quanto nuovamente dissuaso, per quanto abbandonato ormai dalla miglior parte de’ suoi amici, Mazzini era rimasto fisso nel suo nuovo progetto delle bande armate e d’una sollevazione nelle zone alpine della Lombardia e del Veneto. Alla stessa illusione partecipò disgraziatamente un uomo di molto valore, Pietro Fortunato Calvi, che essendo emigrato ascoltò le informazioni fallaci e la propria generosa impazienza. Il Calvi nel 1848 aveva fatto prodigi di valore capitanando, spesso con fortuna, un corpo di insorti nel Cadore: ora egli aveva accettata la proposta di Mazzini di ritornarvi, e di ritentare la prova, essendo stato anche assicurato che la sua iniziativa sarebbe stata seguita da altri movimenti insurrezionali nelle vallate. Egli doveva recarsi nel Cadore attraversando il Canton Grigione, la Valtellina, Bormio, il Corno dei Tre Signori e il Trentino, in compagnia di quattro suoi antichi ufficiali del 48. Ma non era ancor partito da Torino, ove era stata combinata la spedizione, che la Polizia austriaca n’era già informata, e conosceva anche la strada che il Calvi e i suoi compagni avrebbero seguita. La spia era stata una donna, amante d’un tal Mircovich dalmata, nella cui casa il Calvi aveva discusso il piano dell’impresa. In quei giorni a Tirano Ulisse Salis, per una combinazione, era riuscito ad avere e a leggere un carteggio secreto del Commissario distrettuale, e in tal modo, era venuto a conoscere che la Polizia di Milano era informata di tutto. Il Salis ne scrisse subito a Maurizio Quadrio, l’amico intimo del Mazzini; ma il Calvi percorreva intanto la sua strada fatale. Seguito da un agente della Polizia fu arrestato in un’osteria della val di Sole nel Trentino, e mandato poco dopo alle prigioni di Mantova; dalle quali non doveva uscire che il 4 luglio dell’anno seguente per salire sul patibolo. Al Calvi erano state trovate, al momento del suo arresto, tre lettere che si era procurate pel caso che gli fosse occorso l’appoggio di qualcuno nell’attraversare la Valtellina: eran dirette a Salis Ulisse, a Antonio Zanetti e a Gervaso Stoppani di Bormio. Fu una fortuna che si sapesse che Emilio non era in quei giorni in Valtellina, poichè diversamente il Calvi avrebbe forse avuta una lettera anche per lui. Questi arresti, a cui ne seguirono molti altri, fecero riaprire un nuovo processo politico a Mantova, che durò oltre un anno e finì colla condanna a morte del Calvi e con diverse condanne per altri da scontarsi nelle fortezze. Il Salis e lo Stoppani, più gravemente compromessi anche pel loro passato, salvarono la vita rimanendo fermi nella negativa e resistendo alle arti e alle sevizie del Krauss, benchè le informazioni della Polizia a loro carico fossero assai gravi. La fermezza di Ulisse Salis fu ammirevole, ed a questa mio fratello Emilio dovette indubbiamente d’avere, per la seconda volta, sfuggito il pericolo di una prigionia e d’una condanna. Il Krauss aveva lasciato credere a Salis che Emilio fosse tra gli arrestati, e tra quelli che avevano fatto delle confessioni, per indurlo a seguirne l’esempio, pigliandone così due nella medesima rete; ma il Salis non ci cascò e chiese risolutamente all’inquisitore d’essere messo a confronto con Emilio. Questi allora non ne parlò più. Questa forma di interrogatorî suggestivi era uno dei metodi coi quali il Krauss procurava di aumentare il numero delle sue vittime: gli altri metodi erano, come è noto, le minacce, le catene, il freddo e la fame. Il Krauss minacciò il Salis anche del bastone; «lei non può farmi bastonare» gli rispose allora questo fieramente «perchè io sono un nobile». L’auditore tacque. Nella procedura feroce e pedante dei consigli militari c’era infatti che non si potesse applicare ai nobili la pena del bastone[22]. Il 1.º luglio del 1854 al Calvi fu letta la sentenza di morte, eseguita il giorno 4. Il Calvi morì eroicamente, accompagnato al patibolo da don Martini, il pio sacerdote che già aveva confortate le altre vittime di Belfiore. In quei giorni si trovava nelle prigioni di Mantova l’Orsini, che poi fuggì prodigiosamente. Col sacrificio del Calvi finì il progetto dell’insurrezione col mezzo delle bande armate che dovevano scendere dalle vallate e sulle quali Mazzini aveva di nuovo fatto tanti calcoli. Nel frattempo però la cospirazione mazziniana era continuata. C’era stato un tentativo fallito a Sarzana di cui era stato offerto il comando al Medici, che aveva rifiutato. S’erano pure continuati i preparativi per un movimento sulla frontiera svizzera da Como alla Valtellina col mezzo di Maurizio Quadrio e del Chiassi, nel mese d’agosto. Il Governo austriaco ne ebbe sentore, ed avvisò il Governo svizzero; ma non ci fu bisogno di misure straordinarie, poichè i cospiratori si trovarono alla frontiera in piccolissimo numero, e quei pochi si dispersero. In Valtellina parecchi n’erano informati; ma nessuno si mosse, e nessuno dei _cospiratori_ si lasciò vedere. Il Salis, dopo un processo che durò diciannove mesi, fu condannato a sette anni, e destinato a scontarli nella fortezza di Kufstein. Prima di partire potè salutare la sua bella e giovane sposa, e riuscì a dirle all’orecchio, in quei brevi momenti, che esortasse gli amici e soprattutto Emilio a fuggire, poichè il Krauss sapeva tutto ed era sulle peste di tutti. La contessa Salis si recò subito da Emilio a riferirgli le parole di suo marito; Emilio si tenne sempre più in guardia, ma non volle fuggire per non compromettere altri. Egli ebbe però in quei giorni una lunga perquisizione a Milano e una chiamata dal direttore della Polizia, ch’era un colonnello della gendarmeria e riceveva sempre in uniforme. Il colonnello gli disse, senza preamboli: «La perquisizione che le fu fatta diede un resultato negativo, ma noi sappiamo, con certezza, che lei è uno dei più dichiarati nemici del Governo. Finora lei fu fortunato, e non s’è potuto ancora aprirle una speciale inquisizione. Ma si farà appena che lei ce ne dia l’occasione, e allora ci ricorderemo di tutto.» Emilio non rispose; e se ne andò. La contessa Teresa Salis, della famiglia Calvi di Edolo, era sposa da un anno e mezzo, quando le fu arrestato il marito. Recatasi subito a Mantova vi rimase per tutto il tempo che durò il processo, per seguirne l’andamento in quanto fosse possibile, e per tentare qualche secreta comunicazione col prigioniero. Ulisse Salis, giovane vigoroso, d’aspetto bello e virile, conservava il tipo d’un signorotto feudale. Della sua vita di studente, di alpinista, di cacciatore e di patriotta, si narravano parecchi episodi che ne attestavano il carattere risoluto ed audace. Nel 48, dopo avere valorosamente combattuto alle barricate di Milano, s’era subito recato in Valtellina ove si unì a un gruppo di giovani arditi che corsero ad occupare il passo dello Stelvio, prima che vi arrivassero le truppe austriache. Quel drappello di giovani, a cui si unirono parecchi montanari del luogo, scese audacemente sul versante tirolese del monte, e diede fuoco alle gallerie di legno che allora coprivano la strada per difenderla dalle valanghe. La strada fu pure guastata in vari punti in modo che gli austriaci non poterono servirsene durante la campagna. E ora qui una breve disgressione. La strada dello Stelvio era stata fatta dall’Austria, dopo che la Valtellina fu annessa nel 1815 al Lombardo-Veneto. L’antica strada, che aveva servito a tante invasioni tedesche, non varcava la Vetta del monte Braulio chiamata _Stelvio_, ma piegando a minore altezza attraversava, per giungere in Tirolo, alcuni lembi del territorio dei Grigioni. Il passo dello Stelvio, specialmente sul versante tirolese, presentava delle gravi difficoltà per la costruzione d’una strada; ma il Governo austriaco le volle superare ad ogni costo, e compì un’opera che fu considerata a quel tempo come un prodigio dell’arte. L’Austria aveva voluto aprirsi una nuova via, tutta sul proprio territorio, che in poche tappe conducesse le sue truppe dal Tirolo a Milano. Ma la facilità con la quale l’audacia di poca gente risoluta aveva resa inservibile quella via pei bisogni della guerra, la disingannò affatto. Il maresciallo Radetzky, dopo le campagne del ’48 e del ’49, propose di abbandonare lo Stelvio, quale strada militare, e di sostituirvi il Tonale facendolo collegare alla Valtellina mediante una nuova strada, quella del passo d’Aprica. E così fu fatto. Gli Austriaci allora non s’occuparono più del passo dello Stelvio. Ma quando nel 1866 ci furono le trattative per la pace tra l’Italia e l’Austria, mio fratello Emilio, essendo ministro degli Affari Esteri, ottenne col mezzo del nostro ambasciatore Menabrea che la strada dello Stelvio fosse riattivata anche sul versante tirolese, e tenuta aperta almeno nella stagione estiva. Ritornando a Ulisse Salis, mi viene in mente un episodio che merita d’essere ricordato. Dopo la capitolazione di Milano, nell’agosto del 1848, le truppe del generale Griffini, venendo da Brescia, attraversarono la Valcamonica e la Valtellina per ritirarsi nella Svizzera. Nel valicare il passo di Aprica, dove allora non c’era che una strada mulattiera, furono perduti carriaggi e bagagli e precipitò giù per la china del monte un cannone. Ulisse Salis pensò di andarne alla ricerca prima che gli Austriaci se ne impadronissero; e infatti lo trovò, sprofondato in uno scoscendimento a valle del monte, nei dintorni del villaggio di Stazzona. Fece subito il proposito di portarselo a casa e di nasconderlo, ma non era certamente un’impresa facile portarsi in casa un cannone, da un luogo che dista da Tirano sei chilometri, in quei giorni in cui il paese era occupato e percorso continuamente da soldati austriaci, e mentre bastava lasciarsi trovare in casa una pistola, anche rotta, per venir fucilato. Ulisse Salis, aiutato da alcuni contadini, riuscì di notte a collocare il cannone su un carro, e, nascosto sotto un mucchio di fieno, lo condusse in un suo podere vicino a Tirano; poi lo seppellì, aiutato da un suo fratello prete. Quel cannone fu dissotterrato nel 1859, e Salis lo regalò a Vittorio Emanuele, che ammirando quel fatto, gli diede in ricambio una medaglia d’oro appositamente coniata[23]. Furon molti in Valtellina i patriotti che, negli anni che corsero dal 1848 al 1860, in ogni borgo, in ogni villaggio, tennero alto il sentimento pubblico, combattendo o cospirando per la Patria, fiduciosi sempre ne’ suoi destini. Nel ’48 e nel ’59 la provincia di Sondrio diede alla patria numerose schiere di volontari, e molti uomini di senno e di valore. I suoi generosi sentimenti patriottici, e le sue stesse sventure economiche di cui parleremo, avevano circondata allora quella piccola provincia d’un’aureola di simpatia che la rendevano stimata e cara tra le maggiori sorelle lombarde. Molti patriotti valtellinesi, dopo il 1848, rimasero tra gli emigrati; tra i più noti, ricorderò Luigi Torelli, Enrico Guicciardi e Maurizio Quadrio. Il Quadrio, amico devoto di Mazzini, viveva di solito in Svizzera, e fu talora anche a Londra, sempre occupato nelle cospirazioni grandi e piccole di Mazzini: in Valtellina conservava delle relazioni, e vi fece delle brevi comparse nel ’48 e dopo il ’59. Luigi Torelli, rimasto in Piemonte dopo il 1849, dedicò tutto sè stesso alla vita politica: fu successivamente deputato, senatore, prefetto, ministro; guidato sempre, in ogni atto della sua vita pubblica e privata, da un alto sentimento di patriottismo e di rettitudine. Generoso, di instancabile attività, amante del pubblico bene, fu giustamente popolare ed amato in Valtellina, specialmente nelle classi non politicanti, tra i contadini, e tra quelli che sentono più schiettamente l’ammirazione per gli uomini rigidamente onesti e amanti dei poveri. Nel 1853, quando l’Austria, dopo il 6 febbraio, tra le sue ingiuste rappresaglie colpì anche gli emigrati sequestrandone i beni, il Torelli ebbe sequestrati tutti i suoi averi di Valtellina. Enrico Guicciardi, dopo aver comandata una compagnia di volontari al Tonale, ritiratosi in Piemonte riunì i volontari valtellinesi dei diversi corpi in un battaglione di bersaglieri che si distinse alla battaglia di Novara. Sciolti i corpi militari lombardi, rimase emigrato in Piemonte; nel 1859, come vedremo più innanzi, fu mandato da Cavour a reggere la provincia di Sondrio; poi fu nominato prefetto in altre provincie, ove il brigantaggio, che allora le infestava, od altre gravi ragioni richiedevano la direzione d’un uomo di molta saviezza e di molta energia; ebbe spesso dal Governo altri incarichi e missioni importanti. Nel 1866 comandò, quale colonnello, due battaglioni di volontari, in gran parte valtellinesi, coi quali compì allo Stelvio un fatto d’armi contro gli austriaci, audace e vittorioso. Possa la memoria di questi patriotti rimanere duratura nella loro valle nativa, quale esempio di caratteri integri e saldi, devoti sempre al dovere e alla patria. NOTE. [22] Il Salis lasciò scritto sulla sua prigionia, e sul suo processo dei ricordi, letti da me, da mio fratello, da qualche amico, e dal prof. De Castro che ne pubblicò alcuni brani. Il Salis racconta come la sua posizione fosse aggravata dalle confessioni dello Zanetti; questi però chiamato al confronto, si rifiutò, e il Krauss non insistette per timore forse che lo Zanetti ritirasse le confessioni fatte, e fu condannato egli pure, ma credo meno del Salis. [23] La famiglia Salis Sitzer si era stabilita in Valtellina durante il dominio dei Grigioni, e vi potè rimanere anche dopo la rivoluzione politico-religiosa del 1618, durante la guerra dei trent’anni, essendo essa una famiglia cattolica ed avendo seguite in ogni tempo le parti valtellinesi. È un ramo di quella famiglia Salis che diede tanti ufficiali ai corpi svizzeri degli eserciti d’Europa, e specialmente dell’Austria. Anzi da ciò venne il titolo di conte dato a questo ramo da Leopoldo I d’Austria. L’avo del conte Ulisse Salis era, alla fine del secolo scorso, il generale comandante le truppe svizzere del Re di Napoli. Nella guerra del 1848, mentre i fratelli Salis di Tirano militavano nei corpi dei volontari italiani, tre Salis della stessa famiglia, ufficiali austriaci, morivano sui campi lombardi. Il ramo di Tirano, sebbene il conte Ulisse avesse cinque fratelli, è ora vicino a spegnersi. CAPITOLO XIX. 1854. _Sommario:_ Sfacelo del partito repubblicano in Lombardia. — Evoluzione nel salotto di casa Maffei. — Il conte Cesare Giulini e le sue relazioni in Piemonte. — Principio della guerra in Crimea. — Abolizione della legge sui cambi militari, servizio obbligatorio. — Molti fuggono per cansare la leva, altri ne sono esonerati corrompendo i medici militari. — Episodi. — La scuola dei pompieri. — In autunno a Tirano e a Grosio. — La guerra in Crimea. — La crittogama. — Il colera. — Il salotto di mia madre a Tirano. Al principiare del 1854 la disposizione degli animi e l’atteggiamento politico in Milano andavano compiendo un’evoluzione che s’allargava ogni giorno più. Il periodo delle cospirazioni mazziniane e della preparazione a voti vicini era ormai definitivamente chiuso. Mazzini, che era rimasto fermo nei suoi propositi e nei suoi metodi, cercava ancora, ogni tanto, di eccitare i vecchi amici, e chiamava _traviati_ quelli che, dopo aver messa tante volte la loro vita ne’ più terribili cimenti, chiedevano ora un cambiamento di metodi, per riordinare le file diradate e scompaginate, e cercar nuove vie. La parte più eletta del suo partito si staccava da lui, e le antiche relazioni andavano ogni giorno allentandosi per non riannodarsi mai più. Moltissimi del vecchio _partito d’azione_, repubblicani e mazziniani, in Milano e nelle provincie lombarde, dopo un periodo d’aspettativa, cominciarono a volger gli sguardi al di là del Ticino, ove già risplendeva fulgida la stella del conte di Cavour. Il così detto _connubio_ col centro sinistro capitanato da Rattazzi, segno visibile d’un indirizzo nuovo più attivo, che Cavour dava alla politica del Piemonte, era per molti repubblicani disingannati l’occasione, o il pretesto, per lasciar libero il corso all’evoluzione delle loro opinioni. Vedevo di giorno in giorno le prove di questa evoluzione, di questa nuova situazione politica, nel salotto stesso della contessa Maffei, che frequentavo assiduamente, e dove convenivano, come già dissi, tante persone influenti e ragguardevoli. Chiarina, come la chiamavano i suoi intimi, tutta animata da un patriottismo ardente e da un liberalismo sentimentale, aveva naturalmente accolto, un giorno, nel suo animo con entusiasmo l’ideale d’un’Italia _una_ con la bandiera di Mazzini su cui era scritto: _Dio e il popolo_. Essa mentre con la parola calorosa, convinta, con la gentilezza dell’animo, con la devozione agli amici, diffondeva intorno a sè la fede ardente delle sue convinzioni, subiva poi alla sua volta l’influenza dei migliori che la circondavano. Ora, il 6 febbraio, i fatti che l’avevano preceduto e seguito dietro le scene, avevano alquanto smorzati nella contessa Clara certi entusiasmi; e non senza un doloroso disinganno vedeva il Mazzini voltar le spalle ad uomini altamente stimati, per scendere nei ranghi inferiori a cercarvi degli istrumenti ciechi della sua volontà. Gli amici di lei, dopo il 6 febbraio, l’avevano rotta con Mazzini, dopo averlo seguito, soprattutto in nome dell’idea _unitaria_, contro le massime _federaliste_ del Cattaneo; l’avevan rotta con lui disgustati e dissidenti dai suoi metodi. Ed ora, vagando in un repubblicanismo ideale, aspettavano di scorgere la nuova spiaggia ove approdare; aspettavano la guida, l’idea, che li riunisse e li conducesse. Il conte Cesare Giulini, ch’era uno dei frequentatori più assidui del salotto della contessa Maffei, si era sempre conservato fedele al principio Monarchico e alle speranze della Casa di Savoja. Si bisticciava spesso, con spirito e con amabilità, colla contessa per gli entusiasmi poetici, e spesso ingenui di lei, nella politica; ed ora trionfava e godeva nel vedere che essa e i suoi amici principiavano a lasciar la strada delle illusioni per accostarsi a quella delle speranze solide e pratiche. Amico del conte di Cavour, da quei giorni egli cominciò ad essere il tramite di informazioni e di confidenze, che più tardi, come vedremo, aumentando dovevano condurre ad importanti risultati. Amico parimenti dell’Arese, dell’Azeglio e di parecchi altri tra i principali uomini politici del Piemonte, aveva di recente saputi molti particolari sulla condotta ferma e patriottica della politica piemontese di fronte all’Austria in diverse vertenze diplomatiche, soprattutto in quella dei sequestri messi sui beni degli emigrati lombardi dopo il 6 febbraio. E a proposito di questa vertenza, il Giulini aveva avuto delle informazioni confidenziali sull’attitudine di Napoleone e su parole da lui pronunciate, che dimostravano come l’Imperatore nell’intimità confermasse l’antica simpatia di Luigi Bonaparte per l’Italia e incoraggiasse il Piemonte. Queste notizie ripetute all’orecchio risvegliavano un vago sentimento di nuove speranze; e levigavano qualche ruga anche sulle fronti accigliate dei patrioti più arcigni, quando si parlava del nuovo imperatore. L’alleanza della Francia e dell’Inghilterra colla Turchia, e la guerra contro la Russia, davano un nuovo e più forte argomento a quelle prime e vaghe speranze; era un primo soffio improvviso che, dopo cinque anni, spirava sulla gora stagnante della reazione e che poteva essere promettente di fatti inattesi e di mutamenti nella politica europea. A richiamarci dalle speranze vaghe e lontane alla dura realtà del presente, veniva, nella primavera di quell’anno, una legge, affatto nuova nelle abitudini di quei tempi, e che doveva riuscire più insopportabile di quante altre leggi durissime erano state emanate durante lo stato d’assedio. Il Governo austriaco decretò obbligatorio per tutti il servizio militare, mentre fino allora erano sempre stati permessi e regolati dalla legge i _cambi_, sia col presentare un sostituto, sia col pagare una somma determinata. Il Governo, con la nuova legge, mirava a diminuire quella divisione assoluta che c’era tra noi e i suoi soldati, tra le classi superiori nostre e i suoi funzionari civili e militari. È difficile oggi immaginare quale sentimento di ripugnanza e di rivolta suscitasse nell’animo della gioventù patriottica il pensiero di dover vestire l’uniforme austriaca. Nell’esercito austriaco infatti, a quel tempo, gli ufficiali italiani erano pochissimi, e anche questi non c’erano che per circostanze eccezionali. Si pensi quale scombussolìo mettesse tra i giovani che n’erano colpiti, e nelle loro famiglie, quella nuova legge! Tra i giovani più animosi corse subito la parola d’ordine di sottrarsi al servizio militare austriaco fuggendo, espatriando. Fu questo un nobile proposito, grave e difficile per molti, ma che da parecchi fu mantenuto. Anche tra i miei amici e compagni di studî ce ne furono alcuni colpiti da questa legge. Io per fortuna ero stato della leva militare dell’anno prima; dichiarato abile ed assegnato ai cacciatori tirolesi, avevo pagato la tassa, ossia tre mila lire austriache (La lira austriaca, detta _svanzica_, da _swanzig kreuzer_, ossia venti soldi, equivaleva circa a 80 centesimi di lira italiana e la lira milanese equivaleva a circa 60 centesimi) e così non ero diventato nè _cacciatore_ nè _tirolese_. De’ miei compagni colpiti qualcuno fuggì ed espatriò; qualche altro trovò il modo di far scivolare alcuni rotoli di _svanziche_ nelle saccoccie di qualche medico militare; qualcuno si rassegnò, ed accettò il duro partito di servire. Rammenterò tra questi il mio compagno Antonio Frigerio, a cui la famiglia impedì la fuga, che pur aveva promessa ai compagni. Arruolato in un reggimento di ulani, diventò ufficiale e servì fino al 1859; ritornato, non rivide più i vecchi amici; ma nel 1866, entrò nei Garibaldini, fu capitano e morì combattendo valorosamente a Vezza in Valcamonica. Tra quelli, de’ miei compagni s’intende, che espatriarono ed andarono ad arruolarsi in Piemonte, rammento Emilio Guicciardi e Augusto Verga che furono tra i primi; e tra quelli cui furono _ospitali_ le tasche d’un medico militare pronte ad accogliere i _rotoli_, rammento Lodovico Mancini e Costantino Garavaglia. Questi erano venuti a sapere che c’era una _tale_, per cui mezzo si poteva far arrivare a un medico militare della Commissione di leva una data somma e con questa venir dichiarati inabili. Bisognava però, com’era giusto, che ci fosse un qualche difettuccio che potesse essere di pretesto. Il difettuccio veniva accertato in una visita preliminare. Se la Commissione liberava definitivamente il coscritto, questo pagava a quella _tale_ quaranta marenghi; ma se lo rimandava soltanto d’anno in anno, allora se ne pagavano venti ogni volta. Quella _tale_, fatta l’intesa, consegnava al _cliente_ una camicia di colore, ch’era il contrassegno per farsi riconoscere dal medico il giorno della visita dinanzi alla Commissione di leva. Al Garavaglia, nella visita preliminare, fu consigliato di procurarsi una forte irritazione alla gola, per far comparire il collo più largo. Egli allora, comperata una tromba, ci soffiava dentro finchè aveva fiato, da mattina a sera, in campagna, a qualche miglio dalla città. Per quella volta fu rimandato, e dovette pagare i venti marenghi più volte. Il caso del Mancini era più grave, poichè, a Roma, egli era stato ferito in una gamba da una palla francese, e ne aveva ancora la cicatrice. I feriti del ’48 e del ’49 di solito venivano, senz’altro, dichiarati abili dagli austriaci pel servizio militare. Ma nella visita preliminare era stato consigliato a favorire una certa dilatazione che aveva alle vene delle gambe; ed egli da quel giorno non fece che percorrere i bastioni della città, finchè gli reggevan le forze. Le passeggiate raggiunsero lo scopo; e mediante i quaranta marenghi fu libero. Se qualcuno ci domandasse, poichè eravamo degli studenti, che cosa succedesse intanto dei nostri studi, risponderei subito che si studiava ben poco. Le Università eran sempre chiuse, e coi nostri professori privati si discorreva più dei fatti del giorno che dei codici e delle pandette. Ci radunavamo in gruppi a ripassare le lezioni, ma gli studi si convertivano presto in passeggiate, in bicchierate, in esercizi ginnastici, e in un tantino di cospirazione politica che non mancava mai. L’esercizio prediletto era la scherma, nella nostra famosa sala, colle sciabole di legno. Quelle sciabole di legno non erano un’illusione maggiore di tant’altre; ma fu traverso le illusioni che la generazione d’allora andò preparando la realtà. Tra i miei esercizi ginnastici di quel tempo ce ne fu uno abbastanza bizzarro, e fu quello d’imparar le manovre dei pompieri. Nell’autunno antecedente mi ero inteso col mio amico Giovanni Salis, fratello di Ulisse, per istituire delle compagnie di pompieri a Tirano e in qualche altra borgata dell’alta Valtellina, assumendomi l’incarico d’esserne io l’istruttore per risparmiare la spesa ai Comuni. Detto fatto ne chiesi il permesso al Municipio di Milano, e ottenutolo, il comandante dei pompieri mi mise senz’altro tra le reclute dell’annata facendomi seguire tutto il corso della loro istruzione. Per un paio di mesi, ogni mattina all’alba dovevo trovarmi alla caserma dei pompieri a S. Maria delle Grazie a imparar gli esercizi e le manovre delle macchine in abito di fatica. Così imparai come si cammina sui tetti e lungo le gronde; come si può salire in alto anche senza le scale solite della casa, e saltare dall’alto senza rompersi il collo; imparai come si smorzan le fiamme, e come nei casi difficili si possa salvare il prossimo e sè stessi. I miei pompieri tiranesi eran tutti antichi volontari del ’48 e del ’49, e anche nel manovrare le pompe ci si metteva sempre qualcosa di militare e di patriottico. Tra un esercizio e l’altro si parlava del passato, e poi ci mandavamo qualche occhiata d’intelligenza con allusioni all’avvenire. Nella nostra casa di Tirano era cessata l’occupazione militare e avevamo principiato a riparare i guasti che non eran pochi, tanto più che parecchi mobili avevan servito a far bollire le pentole dei croati. Ritornati in possesso delle nostre stanze eravamo anche tornati alle nostre abitudini e alle nostre occupazioni ordinarie: Emilio passava molte ore della giornata nel suo studio leggendo, studiando, scrivendo; io mi occupavo molto delle faccende campagnole, aiutato da mio fratello Enrico, e malinconicamente andavo osservando i bei vigneti tiranesi desolati sempre più dall’_oidium_. Nel mio viaggetto in Sicilia dell’anno prima avevo saputo che i vigneti vicini alle solfatare andavano in parte immuni dall’_oidium_, che a quel tempo colpiva la maggior parte dei vigneti in quasi tutta Europa. Dappertutto i viticoltori andavano esperimentando i vari rimedi che empiricamente venivano suggeriti, e sempre inutilmente, contro la _crittogama_. Alcuni cominciavano ad esperimentare anche lo zolfo, e anch’io mi ci provai in qualche mio vigneto. Ma i contadini erano riluttanti: a molti di loro lo _zolfo_ sembrava un rimedio diabolico contro un castigo di Dio. Intanto andavano aumentando la miseria, la fame e le malattie. In Valtellina, specialmente nella parte centrale, l’uva è il prodotto principale; in alcuni paesi è il prodotto quasi unico. Nel 1854 la totale mancanza di quel prodotto, che doveva durare dieci anni, era al quinto anno, e già se ne vedevano i terribili effetti; ad accrescere la miseria pubblica c’era anche il _colèra_ che manifestatosi a Milano serpeggiava in tutta la Lombardia ed era penetrato anche in Valtellina. Le vacanze di quell’autunno furono, dunque, poco liete. _Oidium_ e _colèra_ furono gli argomenti principali dei discorsi nel salotto che mia madre aveva riaperto alle amiche e agli amici tiranesi, dopo che gli alloggi militari erano cessati in casa nostra. Emilio, di tanto in tanto, andava a Grosio, e spesso lo seguivo anch’io, passando alcuni giorni nella nostra vecchia casa, in mezzo ai nostri contadini e a tanta buona gente che ci voleva bene, e a cui ci legava un tradizionale affetto. Emilio amava assai la caccia, quella specialmente dell’alta montagna, ed era un buon tiratore. Ma in quegli anni i cacciatori dovevano contentarsi di rammentare tra loro i fasti d’un tempo, poichè i fucili da caccia erano vietati dallo stato d’assedio. Io che non fui e non divenni mai un cacciatore, neanche colla civetta, pure mi divertivo a sentire i discorsi degli altri, tanto più se si trattava di avventure strepitose, raccontate sotto la cappa del camino, da qualche vecchio cacciatore d’orsi. «È furbo l’orso! ed ha talento!» mi diceva una volta con serietà uno di essi. «Se l’orso avesse fatto gli studi nessuno mai lo piglierebbe!» Nel vicino paese di Grossotto avevamo un gruppo d’amici, persone ottime, intelligenti come non sempre se ne trovano nei paesi piccoli; con essi ci comunicavamo le nostre speranze e si facevano chiacchiere infinite. Teneva il primo posto in mezzo a loro il medico del Comune, il dottor Benedetto Rizzi, uomo di studi e di molta intelligenza, che avrebbe emerso in qualsiasi campo più vasto, ma che s’accontentò di vivere nella sua piccola patria, esercitando una influenza benefica, soprattutto patriottica. Rammento sempre con piacere le lunghe serate che si passavano con questi amici nel salottino o nella cucina dell’osterietta di Grossotto o di Grosio, discorrendo di politica e lasciando libera la fantasia a speranze, che allora si sarebbero dette follie; noi sognavamo la nostra Italia come gl’innamorati sognano il loro focolare domestico dell’avvenire. L’oste di Grosio, certo Ettore, era persona fidatissima, e nella sua cucina la politica era al sicuro. Il buon Ettore era quasi un amico di noi tutti; pescatore, cacciatore, suonava l’organo e il violino, ammaestrava i gatti e gli uccelli, e raccoglieva qualche oggetto di antichità. In mezzo a tante occupazioni qualche volta si aspettava invano all’ora del desinare; ciò però non diminuiva la sua riputazione di buon cuoco. Nel settembre del 1854, come è noto, c’era stata in Crimea la battaglia dell’Alma, poi nell’ottobre quella di Balaklava e ai primi di novembre quella d’Inkerman; tre fatti che nelle nostre fantasie venivano a portar legna al fuoco e a farci vedere traverso le vittorie degli alleati la possibilità di avvenimenti che per reggere avevano bisogno appunto di fantasie molto fertili; ma chi vuol sperare si contenta di così poco! I discorsi politici si facevano ogni sera anche ai tavolini di giuoco di mia madre, ma i giudizi e i criteri erano più calmi e meno unanimi. Mia madre, che seguiva di solito le nostre opinioni, dava spesso l’aire con qualche esclamazione speranzosa; ma si metteva a brontolare subito mio zio Merizzi, gran pessimista, che trovava modo di brontolare contro quelli che credevano onnipotenti gli austriaci e contro quelli che credevano possibile di liberarsene. Il prevosto di Tirano, don Carlo Zaffrani, un buon prete patriotta, e ottimista anche più di noi e di mia madre, vedeva gli Austriaci andarsene ad ogni più piccolo avvenimento; e intanto pigliava il largo, a buon conto, ogni volta che capitava in paese qualche commissario straordinario di Polizia, dacchè aveva visto che si imprigionavano e si impiccavano anche i preti. Quarto al tavolino da giuoco sedeva di solito il signor Valentino Negri, consigliere di Tribunale in pensione, uomo grave, corpulento, sulla settantina, danaroso, complimentoso e che professava i principii più austeri, pur concedendo loro, di tanto in tanto, e in secreto, una qualche tregua galante. Egli soleva frammezzare il giuoco e i discorsi con qualche aneddoto o con qualche motto, che nella sua intenzione dovevano essere piacevolissimi. Quando si parlava di politica non si sbilanciava: l’Imperatore d’Austria era sempre _Sua Maestà_; e tutt’al più si permetteva qualche critica dubitativa a proposito di Metternich, o di qualche altro ministro morto, o fuori di carica da un pezzo. Soltanto dopo il 1859 la sua lingua diventò più sciolta: allora _Sua Maestà_ diventò il _Nerone_ austriaco e l’aborrito tiranno. Nel salotto c’era alle volte un secondo tavolino da giuoco; c’erano poi sempre delle signore o delle signorine che lavoravano intorno a una tavola, ed altri amici di casa che discorrevano in crocchio. Tra questi uno dei più assidui era don Antonio Homodei, giuocatore appassionato, quando non era sotto gli occhi di sua moglie. Ma questa gli si metteva di solito al fianco per sorvegliarlo e per frenarlo all’occorrenza; soprattutto quando lo vedeva ostinarsi in qualche partita, sfortunata e sfrenata, nella quale si potevan perdere fin due lire. Don Antonio allora, con suo dolore, doveva smettere; ma si confortava col dire una qualche facezia sugli sfortunati al giuoco; facezia che ripeteva da chi sa quanti anni, e di cui ogni volta rideva chiassosamente, sebbene sua moglie lo tirasse per l’abito, dicendogli: Homodei, non dir sciocchezze! E le famose _bande d’insorgenti_ che avrebbero dovuto comparire nelle vallate quell’autunno? Qualche amico aveva domandato a Emilio notizie delle famose _bande_, poichè se ne parlava ancora secretamente in Milano. Ma le notizie erano presto date: le _bande_ non avevano mai esistito che nella fantasia degli emigrati di Londra e di Ginevra. Sui confini dei Grigioni e dell’Engadina, ove eravamo noi in quei giorni, non s’erano veduti che dei pastori, poichè a quel tempo non esistevano i _touristes_. Ritornati a Milano avvenne un caso che poco mancò non mandasse Emilio in prigione, mentre l’aveva tante volte cansata. Un mio conoscente venne a dirgli che si trovava a Milano, presso un suo amico, che si chiamava Giuseppe Pozzi, un tal Bedeschini veneto, il quale aveva fatto un giro per le provincie, dicendosi incaricato da Mazzini, allo scopo di riordinare le fila del partito repubblicano. Emilio era pregato di intervenire all’adunanza, soprattutto per spiegare come l’antico partito _d’azione_ fosse uscito dal partito _mazziniano_, e avesse preso una nuova direzione. Emilio, non conoscendo questo Bedeschini, non voleva sulle prime recarsi al ritrovo; ma dopo molte insistenze, e non volendo che si credesse ch’egli si asteneva per timore, ci andò! Il Bedeschini volle conoscere gl’intervenuti, ma Emilio sostenne vigorosamente che non si dovevano pronunziar nomi, e i nomi non furono pronunziati; poi disse le ragioni per le quali non era più possibile ritornare agli antichi metodi; e il ritrovo fu sciolto. La mattina seguente il Pozzi, presso il quale il Bedeschini era ospite, e molti altri anche fuori di Milano, di cui questi conosceva il nome, venivano tutti arrestati. Il Bedeschini era un agente provocatore pagato dalla polizia, come si seppe più tardi: anzi si disse che per questa _retata_ ricevesse trentamila _svanziche_. Nuovi processi furono iniziati e le prigioni si aprirono ad altri infelici. CAPITOLO XX. 1855. _Sommario:_ Il Piemonte accede al trattato d’alleanza della Francia e dell’Inghilterra nella guerra contro la Russia. — Cavour, Vittorio Emanuele, Lamarmora. — L’attentato di Pianori contro Napoleone. — L’Esposizione Universale in Parigi. — Cessa in Lombardia lo stato d’assedio, e Radetzki è nominato Governatore civile del Lombardo-Veneto e comandante dell’esercito. — Io e mio fratello Emilio andiamo a Parigi. — Pietro Maestri e gli emigranti italiani. — Le diverse opinioni. — Daniele Manin. — La vittoria di Balaclava. — Una serata al teatro dell’_Opera_ coll’intervento della Corte e della Regina d’Inghilterra. — Il nostro alloggio a Parigi. — Parole di Napoleone al conte Arese. — Nuove speranze. — L’autunno in Valtellina, il teatro di Tirano e il sarto declamatore. — Ritorno a Milano. — Le nuove speranze nel salotto della contessa Maffei. — Emilio Dandolo in Crimea. Il 10 gennaio 1855 veniva firmata la Convenzione colla quale il Piemonte accedeva al trattato d’alleanza della Francia e dell’Inghilterra nella guerra contro la Russia. Così il nuovo anno principiava con quel grande avvenimento che doveva avviare l’Italia alla riscossa, e deciderne i destini. Il trattato non fu discusso, soltanto nel Parlamento piemontese, ma da tutto il pubblico italiano; e per un pezzo da un capo all’altro d’Italia fu l’argomento di discorsi appassionati, di dubbî e di speranze. La _sinistra_ parlamentare piemontese si era mostrata avversa al trattato; ma gl’italiani, in gran maggioranza, e soprattutto quelli soggetti all’Austria, ne erano entusiasti e avevano avuto l’intuizione pronta e unanime che quel fatto poteva essere il punto di partenza di altri e maggiori avvenimenti. Questa giusta intuizione l’ebbe anche Cesare Correnti, che con un felicissimo discorso nella Camera piemontese si staccò dalla _sinistra_ alla quale apparteneva, e sollevandosi al di sopra delle convenienze di partito presentì in Cavour il condottiere della nuova Italia. Sul Cavour, che al principio del 1855 aveva assunto il Ministero degli affari esteri, erano ormai rivolti e fissi gli occhi di tutti: la legge sulle corporazioni religiose, il riordinamento delle finanze e dell’esercito, e diverse altre leggi politiche ed economiche, avevano continuamente aumentata la rinomanza e l’autorità del nuovo capo del gabinetto piemontese. Nel tempo stesso Vittorio Emanuele, anche per episodi e motti che si raccontavano di lui, principiava ad acquistarsi quella popolarità nella quale doveva essere la sua maggior forza. Per compiere grandi fatti i popoli vogliono l’_eroe_; e quando i fatti sono maturi anche l’eroe non tarda a sorgere, purchè egli abbia quelle qualità e quei difetti che sieno all’unisono con quanto si agita nelle menti popolari. Di Garibaldi allora si parlava poco. Lo rammentavano, è vero, con entusiasmo i suoi volontari di Roma, e chi conosceva i primi suoi fasti, ma la sua popolarità non era ancora molto diffusa. Vittorio Emanuele in quel momento era più popolare di lui. La politica del Piemonte, attirando gli sguardi di tutta Italia, ne rendeva popolare anche il Re; il Re _Galantuomo_, come ormai lo chiamavano i più, il Re _democratico_, come incominciavano a dire con soddisfazione molti vecchi repubblicani, ormai sfiduciati della repubblica. Vittorio Emanuele aveva infatti abitudini e modi semplici e familiari; aveva l’arte di piacere al popolo, ma la sua democrazia non aveva radici molto profonde nel suo animo; le forme in lui erano democratiche, ma l’uomo era un Re. A Casa di Savoja aveva procacciata molta simpatia anche il fratello di Vittorio Emanuele, il Duca di Genova, soldato bello e valoroso, giovane intelligente e colto. Nelle guerre del ’48 e del ’49 aveva date alte prove di sè ed ora era destinato a comandare la spedizione di Crimea; ma alcune settimane prima che le truppe partissero lo spegneva una rapida tisi. L’ansietà con la quale si seguiva ogni notizia che riguardasse il corpo piemontese mandato in Crimea, era una prova, sebbene quasi inconscia, che in quelle truppe si presentiva il futuro esercito della riscossa. Ogni più piccolo fatto d’armi era l’argomento dei discorsi di tutti; e il nome del generale Lamarmora, che comandava la spedizione, era diventato subito popolarissimo; egli era già considerato come una speranza d’Italia. Erano da poco partite le truppe piemontesi per la Crimea, quando venne una notizia a impensierire quanti osservavano con fiducia gli avvenimenti che andavano svolgendosi. Il 28 di aprile un italiano, Giovanni Pianori romagnolo, aveva attentato alla vita di Napoleone, con due colpi di pistola, al _bois de Boulogne_. Questo fatto aveva avuto da per tutto un’eco di sorpresa e di indignazione, e aveva dato un argomento di più a chi non vedeva negl’italiani che un volgo di rivoluzionarî e di settarî. Nel maggio del 1855 veniva inaugurata a Parigi l’Esposizione internazionale, ch’era la prima che si teneva in Europa, dopo quella di Londra del 1851. L’Impero e Parigi erano in un periodo ascendente di forza e di splendore; da ogni punto d’Europa si accorreva a visitare la gran città che aveva ripreso il suo primato; e i Sovrani l’un dopo l’altro andavano a salutare il nuovo e fortunato Imperatore. Come rimanere a casa in una così bella occasione? Si combinò dunque anche Emilio ed io un viaggetto, la cui meta doveva essere Parigi attraversando la Svizzera e alcuni paesi del Reno e del Belgio. Ci furono compagni alcuni amici, tra i quali Saule Mantegazza e Carlo Mancini; il Mancini studiava pittura e voleva conoscere le opere moderne e i principali artisti di quei paesi. Tutti poi, giovani e di buon umore, ci si voleva spassare un poco, e questa fu la parte del programma che riuscì pienamente. Di tanto in tanto, noi sudditi _felici_ dell’Impero d’Austria, come ci chiamava la _Gazzetta Ufficiale_, sentivamo il bisogno di prendere una boccata d’aria in paesi un po’ meno felici, ma un po’ più lontani dagli occhi della Polizia. Lo stato d’assedio era cessato, ma le cose andavano su per giù come prima. Il maresciallo Radetzky era stato nominato Governatore Generale del Lombardo-Veneto, oltre all’essere il Capo supremo dell’esercito in Italia, con residenza a Verona, poichè Milano e Venezia avevano cessato di essere le capitali nominali delle due regioni. Nelle provincie era successo al governo militare il governo civile dei Delegati, ch’erano i Prefetti d’allora; nell’Amministrazione pubblica le forme erano tornate ad esser quelle di prima del ’48, ma eran rimasti lo spirito e gli andamenti della reazione militare. I militari e la Polizia eran tutto; e l’essere patriotti era un mestiere che aveva sempre dinanzi a sè, più o meno vicina, una forca in prospettiva. C’era poi in noi molto viva la curiosità di sapere quale fosse l’atteggiamento, in mezzo ai nuovi fatti politici, di quella parte dell’emigrazione italiana che viveva a Parigi e che contava degli uomini illustri quali erano il Manin, il Sirtori, il Montanelli, il Maestri. Essi vivevano nel centro, allora, più importante della politica europea; potevano forse apprezzare più chiaramente i sentimenti di Napoleone, che di tanto in tanto accennava alle sue simpatie per l’Italia; e in fine si sapeva ch’essi si erano staccati da Mazzini, ma non si conosceva ancora quale indirizzo volessero dare alle loro aspirazioni e alla loro azione. Arrivando a Parigi c’eravamo rivolti a Pietro Maestri; ed egli fu poi la nostra guida per tutto il tempo che rimanemmo a Parigi e ci fece fare parecchie e importanti conoscenze. La maggior parte degli emigrati italiani viveva a Parigi assai modestamente, sicchè di solito era nelle più modeste camere, o nei più modesti caffè, o nelle con dette _maison bourgeoises_ dove si pranzava a trenta soldi, che si andavano a cercare parecchi dei nostri personaggi politici del ’48, i quali erano alle volte degli antichi ministri o degli antichi generali. Ciò sia ricordato a loro onore. Tra questi emigrati trovai qualche vecchio amico e feci parecchie nuove conoscenze. Avrei desiderato di conoscere il Sirtori, ma non lo conobbi che parecchi anni dopo a Torino: allora egli viveva assai ritirato, tutto immerso nelle sue meditazioni filosofiche e religiose e in preda ad una misantropia che impensieriva i suoi amici. Nella mia poca esperienza giovanile avevo sperato di trovare tra quegli emigrati una corrente uniforme di idee e di aspirazioni che avrebbero servito di guida anche alle mie opinioni politiche, che in quel momento vagavano nella mia mente come tante nebulose. Ma quegli amici mi parvero tante nebulose anch’essi; i più, divisi e discordi nella _querula sventura_, non avevano trovata ancora una bandiera che li riunisse. Quasi tutti però s’erano staccati da Mazzini. Quello che si elevava su tutti e aveva la percezione più chiara, era Daniele Manin; la sua formula: _Italia Una_ e _Vittorio Emanuele_, doveva essere infatti la fortunata bandiera della redenzione. Altri invece erano rimasti repubblicani, unitari o federalisti; altri si contentavano d’un regno dell’Alta Italia; e in mezzo a taluni meridionali infine era sorta l’idea di mettere al posto del re di Napoli un Murat, per accaparrarsi Napoleone. Questi facevan capo al generale Ulloa, che aveva fatte buone prove a Venezia. In complesso il maggior numero di quegli emigrati erano, più o meno apertamente, conquistati dalla potenza dell’Impero Francese; disposti a credere che da questo, più che dal Piemonte, in cui erano ancora restii a confidare, dipendesse l’avvenire nostro; erano proclivi alle teorie di Giuseppe Ferrari, che considerava la rivoluzione italiana come dipendente dalla rivoluzione francese. Le diverse correnti di idee si urtavano anche nel mio animo, il quale in mezzo a tanta confusione cominciava a raccogliere i suoi primi disinganni. La fede in certi ideali, e nella infallibilità di certi metodi e di certe persone, era già scossa grandemente in me. Che la resurrezione dell’Italia, e il trionfo d’ogni virtù nel mondo, dovessero venire dalle iniziative delle classi inferiori e meno educate della società, come predicavano certuni, era una dottrina che ogni giorno perdeva un puntello nella mia ragione. La quale principiava a sentire il bisogno di allargare il proprio orizzonte; ma la mente era tanto imbevuta in tutta quella letteratura politica sentimentale e dogmatica, a cui si ispiravano i giovani allora, che il ribellarsi e l’uscirne non era facile. Una sera, il 16 agosto, passeggiavo con alcuni amici italiani sui _boulevards_, quando a un tratto un numero insolito di strilloni si sparse per le vie correndo, gridando e offrendo a chi passava le copie dei giornali usciti allora, e certi foglietti che recavano un dispaccio. Era la notizia della vittoria della Cernaia. In un momento i _boulevards_ si affollarono da non potervisi più muovere; le finestre venivano illuminate, e dappertutto si sventolavano bandiere francesi, inglesi e la nostra dei tre colori collo scudo di Savoja. Quel dispaccio era del generale Pélissier, generale capo dell’esercito francese in Crimea, che annunziando la vittoria, chiudeva colle parole: _Les Sardes se sont vaillamment battus_. La folla, ai gridi di _vive la France_, univa quello di _vive l’Angleterre, vive le Piémont_. Che cosa avvenisse in quel momento nell’animo mio e in quello degli amici ch’erano con me, non lo saprei esprimere. Ricordo che ci siamo messi a gridare, come matti, per la gioia, _viva il Piemonte, viva l’Italia!_ L’evoluzione era avvenuta; la strada era trovata; quel _boulevard_ era stata la mia via di Damasco. L’orgoglio d’una vittoria italiana risollevava improvvisamente l’animo avvilito dalle sconfitte e additava un nuovo faro alle nostre speranze. La vittoria delle armi piemontesi ebbe una grande influenza su molti, che i patiti disinganni avevano lasciati nel dubbio e nell’incertezza. Da quel giorno principiò un mutamento nell’opinione pubblica, che fu rapido e visibile anche tra gli italiani residenti a Parigi. I loro discorsi diventarono ogni giorni più benevoli verso il Piemonte e verso lo stesso Napoleone, in cui s’intravedeva meglio l’amico futuro: si cominciava a guardarlo non più come l’_uomo del 2 dicembre_, ma come il nostro alleato. Parlo dei più, s’intende, poichè c’erano anche quelli che non smisero di odiare il _tiranno_ anche dopo Magenta e Solferino; essi continuavano a tirare il cappello sugli occhi quando lo incontravano per istrada; non volevano veder lui, come non vedevano altre cose. Io invece cominciai allora a fargli di cappello; avvenimento questo di cui probabilmente Napoleone non si sarà accorto. Una sera in cui l’Imperatore, l’Imperatrice e la Regina d’Inghilterra andarono al teatro dell’Opéra, fui ben felice di accettare l’invito di donna Teresa Kramer Berra ad assistere da un suo palchetto a quello spettacolo di gala. La signora Kramer, cognata dell’illustre chimico di tal nome, riceveva a Parigi nel suo salotto molte persone notabili italiane e francesi, appartenenti in gran parte al partito repubblicano. Ci andavo spesso, con mio fratello, la sera; e anche là mi accorsi che il linguaggio politico andava sempre più modificandosi. Quella sera dello spettacolo all’_Opéra_ i canocchiali di quanti c’erano nel palchetto erano costantemente rivolti al palco imperiale, non solo per ammirare la soave bellezza dell’Imperatrice, lo splendore delle uniformi, delle toelette e delle gioie di cui eran coperte le due Sovrane; ma ancor più per osservare l’Imperatore, per scrutare la sfinge da cui noi italiani d’ogni colore aspettavamo già il responso. Quel po’ di buon sangue fatto nella politica ci aiutava anch’esso a goder meglio l’Esposizione universale, che allora era una gran novità, e tutto ciò che Parigi offre sempre di interessante e di divertente: ce la passavamo proprio allegramente. Alle volte improvvisavamo persino delle piccole festicciuole in casa nostra, dove avevamo un salottino nel quale, levandone tutti i mobili, e con della buona volontà, potevano ballare contemporaneamente due coppie. Non si facevano inviti, ma si lasciavano gli usci aperti e bastava che Carlo Mancini si mettesse al pianoforte a sonare un valtzer, o una polka, perchè capitassero dal vicinato le ballerine. Non si guardava troppo pel sottile: erano cameriere, o sartine, o stiratore, che scendevano dal quinto piano e ci pareva d’essere degli studenti sul tipo di quelli descritti da Paul de Kock. E come i personaggi di Paul de Kock, ci divertivamo alle volte ad andare in cerca di quelle canzonature che a Parigi, e anche altrove, non mancano mai nelle occasioni d’un gran concorso di gente, e che son fatte per tirare in trappola i provinciali ingenui e i forestieri novizi. E così un giorno si andò a uno spettacolo che veniva annunziato con _entrata libera_ ma poi si pagava _l’uscita_; andammo in un elegante stabilimento di bagni a cinquanta centesimi, e vi si pagava a parte tutto, l’acqua fredda, l’acqua calda, la biancheria, il servizio, in totale quattro franchi; e andammo ai pranzi d’una lira che ne costavano sei. Da Parigi tornammo direttamente a Milano con un ricco bagaglio di impressioni e di notizie, che l’immaginazione e la speranza ci facevano parer anche più belle e più importanti. Quelle impressioni erano accolte con gioia dalla nostra buona mamma e da mio fratello Enrico, che avevano come noi l’animo facile alla speranza, e dagli amici, che ci ascoltavano avidamente. Tra le notizie che noi portavamo da Parigi, c’eran quelle che correvano nei gruppi meglio informati dell’emigrazione a proposito dell’attitudine di Napoleone sempre piena di simpatia per l’Italia: spesso venivano ripetuti discorsi e parole da lui pronunziati con qualche italiano, e specialmente col conte Francesco Arese, suo vecchio amico. Il conte Arese aveva infatti veduto l’Imperatore nel 1851, poi era stato da lui invitato ed alloggiato alle Tuileries nel marzo e nel maggio del 1852. Si diceva che Napoleone gli avesse allora parlato delle faccende nostre, e che gli avesse detto un giorno: — Che cosa potrei fare io per l’Italia? — E che poi gli avesse soggiunto: — Dite a Vittorio Emanuele che venga a Parigi e che conti sulla mia amicizia. Queste parole erano state realmente dette, e me le confermò parecchi anni dopo lo stesso Arese, di cui divenni amico. La fantasia pubblica ve ne aggiungeva delle altre; tutte insieme giravano di bocca in bocca, e il tono stesso di mistero col quale venivano ripetute le accreditava anche più, e le rendeva argomento di nuove e maggiori speranze. Mantener sempre accesa la speranza! era una suprema necessità nella lunga e difficile lotta che il paese era chiamato a sostenere contro i propri dominatori. Le speranze e le illusioni furono in quel tempo la nostra vita e la nostra forza. L’eco dei discorsi che si facevano a Parigi, e la diminuzione dei rigori e degli arbitrii polizieschi, venuta dopo la cessazione dello stato d’assedio, avevano risollevati gli animi e messo in tutti nuova lena e buon umore. Si passò quell’autunno con l’animo meno oppresso, sebbene ci fosse il colera, e con le facce meno imbronciate del solito. Se nel secreto del nostro animo dovevamo pur confessare a noi stessi d’abbandonarci troppo ai voli della fantasia, nessun dubbio d’altra parte che c’era qualcosa di mutato nelle condizioni generali della politica, e che una breccia era aperta in quella fitta reazione che aveva asserragliata tutta l’Europa dopo il 1848. In Valtellina, Emilio, io e il Bonfadini, che avevamo trovato a Parigi, raccontando le nostre informazioni e le nostre impressioni, commentandole in discorsi che le ingrandivano sempre più, avevamo messo nei nostri amici un grande entusiasmo. E devo concludere che ci fosse in noi proprio del buon umore, quando ripenso a una burla che si fece a Tirano, di cui rimase memoria per un pezzo. A Tirano c’è un piccolo teatro, ove di tanto in tanto recitavano allora de’ dilettanti del paese, e ove capitava alle volte qualche compagnia di comici in bolletta a recitarvi de’ drammi, compreso quello, poverini, del loro appetito. Un sarto, che era un dilettante appassionato, se non fortunato, amava recitare insieme coi comici; ma in quell’autunno il direttore della compagnia ch’era venuta a Tirano non volle saperne di lui, sotto il pretesto ch’era un figura ridicola e che aveva una gamba storta. Ciò era vero; ma il sarto non sapeva capacitarsi di quel rifiuto, e se ne doleva altamente al caffè. Trovandomi presente una sera, mentre qualche maligno lo andava aizzando, gli diedi in tono serio ed amichevole il consiglio di vendicarsi recitando un monologo od una poesia. Il sarto accolse il consiglio, con gratitudine, e la mattina seguente lo vidi comparire nel mio studio per chiedermi il _monologo_, non sapendo precisamente che cosa fosse; e io gli risposi che tornasse tra qualche giorno per lasciarmi il tempo di farne venire da Milano uno nuovo, fatto fare appositamente per lui. La sua riconoscenza fu grande, e lo servii subito. Erano sopraggiunti intanto mio fratello Emilio e un nostro amico, Antonio Della Croce, che furono complici dello scherzo; e ci venne l’idea di mettere insieme delle strofe senza senso, meno quel po’ che ci sarebbe voluto perchè il sarto non se ne accorgesse. La poesia fu presto fatta; la diedi al sarto, gliela spiegai e gli insegnai anche il modo di declamarla. Il sarto non s’accorse dello scherzo; e ripenso ancora a quelle mattine in cui il poveretto veniva nel mio studio a farsi spiegare qualche punto che gli pareva un poco oscuro, e a farsi insegnare i gesti e le inflessioni della voce per dar risalto alla sua declamazione[24]. Finalmente andò in scena. Era giorno di fiera, e c’erano in teatro non solo persone del paese, ma anche parecchi d’altri paesi della provincia. Il sarto al primo presentarsi sulla scena ebbe un gran successo, e l’ilarità fu generale. Vi contribuirono la figura del pover’uomo, i gesti coi quali salutò il pubblico, e un gilè bianco che aveva delle proporzioni inverosimili. Poi, con una grande serietà, declamò la poesia da capo a fondo, accompagnandola coi gesti e colle pose tragiche che gli avevo insegnate. Da prima il pubblico rideva, ma non capiva, com’era ben naturale; poi parecchi s’accorsero della canzonatura, e ridevano ancora più, applaudendo. Ma ci furono anche quelli che, pur ridendo per le boccacce del sarto, non badarono al senso della poesia abituati forse a non badarci mai. Il successo fu straordinario; il sarto dovette ripetere la declamazione più volte, e per altre sere; per molti giorni non si parlò in paese che della poesia e di lui. Il buon uomo mi fu riconoscentissimo; finchè visse ricordò sempre con compiacenza il gran successo di quella sera, e non si faceva pregare a ripetere quei versi ad ogni occasione che ne fosse richiesto. Non sospettò mai la canzonatura, e nessuno gliela svelò. Ho trovato in pochi, durante la mia vita, una riconoscenza più duratura. Sul finire dell’autunno e al principiare dell’inverno nel salotto della contessa Maffei la conversazione s’era fatta più animata e più gaia per le nuove speranze, che allargavano il cuore a tutti. Non si parlava che del viaggio di Vittorio Emanuele a Parigi e a Londra, ch’era avvenuto nella seconda metà di novembre, e i commenti non eran pochi. Anche all’infuori dei crocchi politici le notizie e gli episodi che riguardavano quel viaggio, venivano avidamente raccolti, ripetuti e ingranditi. Ciò a mano a mano accresceva la popolarità di Vittorio Emanuele, e a formare la quale avevano non piccola parte certi suoi tratti, certi suoi motti, popolari, militareschi, e anche spavaldi, che gli venivano attribuiti. Insomma il nuovo anno, che stava per principiare, si affacciava sotto buoni auspici; e le speranze, risollevando gli animi, tenevano viva la volontà di muoversi, di agitarsi, di fare. Rividi in quei mesi Emilio Dandolo, e si rinnovò l’amicizia, che, fin da quando eravamo giovinetti e studenti, avevo stretta con lui e con suo fratello Enrico, morto poi sotto le mura di Roma. Dopo l’assedio di Roma, Emilio Dandolo era ritornato ferito, colle spoglie di Manara, di Morosini e del fratello: dopo un anno era partito con Lodovico Trotti, come già dissi, per un lungo viaggio nell’Egitto e nel Sudan, che descrisse in un libro da lui pubblicato nel 1853. Scoppiata la guerra d’Oriente volle ritornare alle armi, e riprendere la sua antica uniforme d’ufficiale dei bersaglieri piemontesi. Chiese a Cavour, e ottenne d’essere aggregato allo Stato Maggiore del corpo piemontese di spedizione[25] e il 12 febbraio 1855 partì per la Crimea. Ma il Governo austriaco, avvisatone dal suo ambasciatore a Costantinopoli, lo fece richiamare dopo alcuni mesi sotto minaccia di processo e di sequestro per emigrazione illecita. Aveva assistito per alcune settimane all’assedio di Sebastopoli. NOTE. [24] Le strofe erano parecchie, ma mi contenterò di darne un saggio; la poesia incominciava così: Ei fu! Siccome l’agili Piume del firmamento Nel valicar le trepide Ali d’un suo lamento Non è possibil campo Non è possibil lampo D’inadeguata fè. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . poi continuava: Ei ripensò le mobili Tende e i percossi calli E il lampo dei manipoli E i ferri dei cavalli, E col suo piede adusto Il secolo d’Augusto Si pose a contemplar . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Allor pensò alla vergine De’ patrii suoi covili Cinta di quattro pargoli Maschili e femminili Che con preghiere vane Andran cercando un pane Fra l’arabe tribù. Così dicendo un gelido Miasma vespertino Strinse le fauci plastiche Al misero tapino Perchè prima l’udito Poi mosse ancora un dito Quindi non era più. . . . . . . . . . . Stava la bella estatica Sul tremulo verone . . . . . . . . . . Alla novella terribile Della notizia amara Rimase muta estatica Qual marmo di Carrara Poi disse con trasporto Ahi, se non fosse morto Forse vivrebbe ancor! E tracannò un bicipite Velen che seco avea. Poi con un brando ostetrico Donatole da Enea Si trapassava il petto; Poi si gittò dal tetto, Poi si affogò nel mar! [25] AL CONTE DI CAVOUR «_Signor Conte_,» «Mi sono recato ieri, com’Ella m’indicò, al Ministero della Guerra, dove mi venne annunziato dal Colonnello Petitti essere io nominato al grado di sottotenente nel corpo dei bersaglieri, aggregato allo Stato Maggiore della spedizione. Mi occupai quindi subito dei necessari preparativi per la partenza, la quale potrò effettuare, ove Ella lo creda conveniente, prima della fine del mese. Il giorno 27 corrente parte da Genova un vapore in corrispondenza coi postali del Levante. Io per quell’epoca sarò pronto ad imbarcarmi, come sono pronto fin d’ora ad anticipare, sia a differire la mia partenza, a seconda degli ordini che V. S. Ill.ma vorrà comunicarmi e che io starò aspettando. Quando V. S. Ill.ma lo crederà opportuno, Ella non avrà che a farmi avvertire dell’ora in cui debbo recarmi al Ministero, sia per mezzo del conte Oldofredi, sia direttamente all’Albergo Trombetta dove alloggio, stantechè non oserei venire io stesso ad importunare inutilmente V. S. Ill.ma nelle sue molteplici e gravi occupazioni. «Ella mi permetta, signor conte, che ora che io mi trovo d’aver conseguito lo scopo dei miei più vivi desideri, le rinnovi i miei caldissimi ringraziamenti per la bontà di cui m’ha dato tante prove, e per la valida sua protezione alla quale solamente attribuisco il buon esito ottenuto dalle mie domande. Cercherò col mettere il massimo zelo nel servizio, e la più grande premura nel disimpegnare quelle incombenze di cui Ella vorrà onorarmi, di mostrarle meglio che con parole la sincerità della mia riconoscenza e della mia devozione. «V. S. Ill.ma mi perdonerà spero, se, prima di chiudere questa mia, io le rinnovo la raccomandazione che le porsi già a voce e che concerne un distinto giovane, mio amico, il quale desidererebbe di entrare nel corpo sanitario della spedizione in qualità di medico, sia di chirurgo. È desso Scipione Signoroni, figlio di un valente professore dell’Università di Padova, assai favorevolmente conosciuto a Milano e per la onorevole parte da lui presa come ufficiale dei bersaglieri nella passata guerra, e pel sapere e l’attività con cui da qualche anno attende all’arte sua. V. S. metterà il colmo ai suoi favori a mio riguardo se vorrà prendersi cura di questa mia rispettosa preghiera. «Agradisca intanto la S. V. Ill.ma i miei omaggi.» «EMILIO DANDOLO». CAPITOLO XXI. 1856. I. _Sommario:_ Casa Dandolo, casa Manara, casa Carcano. — La pace dopo la guerra di Crimea. — L’attitudine di Cavour nel Congresso di Parigi. — Il nuovo indirizzo del patriottismo italiano. — Il _Crepuscolo_, e Carlo Tenca. — La vita cittadina si rianima. — Feste. — Teatri. — Gli ufficiali austriaci. — La contessa Samoyloff. — I duelli, e il duello di Gustavo Viola. — Il nomignolo di oca dato dagli austriaci alle signore milanesi patriotte. — Una tragedia per marionette. — Il duello di Manfredo Camperio. Oltre al salotto della contessa Maffei, ove si radunava lo _Stato Maggiore_, direi, dei patriotti milanesi, v’erano altri salotti, altri convegni, nei quali si teneva acceso l’odio al dominio straniero e il proposito d’una lotta incessante. Tra i ritrovi, di cui ero un assiduo frequentatore, ritrovi di persone legate dalla intimità contratta nella comunanza delle aspirazioni, c’erano quelli delle case Carcano, Dandolo e Manara. La casa di donna Giulia Carcano, vedova di don Camillo, cugino del letterato Giulio Carcano, era frequentata da un’accolta di giovani studenti, compagni in gran parte dei figli di lei. Erano sei i figli di donna Giulia, tre maschi e tre fanciulle, che essendo belle e simpatiche contribuivano a rendere più attraente e più gaia quella società di giovani. Dei tre fratelli, due, Alfonso e Lodovico, arruolatisi nel 1859 e nel ’66, volontari in cavalleria, morirono; Lodovico morì nella battaglia di Custoza, e Alfonso per gli strapazzi della campagna garibaldina del ’60. Ciò che distingueva quel gruppo di giovani era la serietà dei propositi patriottici accompagnata dall’allegria e dall’audacia. Come una squadra di bersaglieri, essi erano sempre pronti a correre all’avanguardia ogni volta che si trattasse di qualche azione patriottica. Io andavo di solito in casa Carcano nelle prime ore della sera; più tardi passavo in casa Maffei, dove diventavo anch’io un po’ più serio, e ricevevo l’ispirazione e la parola d’ordine d’un’azione più pensata, che trasmettevo poi ai miei giovani amici. In casa Dandolo si riuniva anche una parte della società di casa Carcano, soprattutto quelli ch’erano stati compagni di scuola o commilitoni di Emilio Dandolo e del fratello Enrico morto, come s’è detto, sotto le mura di Roma. Il conte Tullio Dandolo, loro padre, uomo di varia cultura, scrittore cattolico, autore assai pesante di moltissimi libri di storia, di letteratura e di filosofia religiosa, era un personaggio serio, ma tollerante; e quando vedeva la sua casa invasa da tanti giovani, capi scarichi, di solito se ne andava e ci lasciava in libertà. Faceva gli onori di casa la contessa Ermellina, sua seconda moglie, molto più giovane di lui; signora piacevole, di spirito vivace, di sentimenti generosi, patriottici che esercitava una simpatica attrattiva su quanti frequentavano la sua casa. Del suo coraggio e della sua devozione agli amici diede prove, come vedremo, indimenticabili. Era stato istitutore dei fratelli Enrico ed Emilio Dandolo il professore Angelo Fava, che allora trovavasi emigrato in Piemonte. Il Fava, uomo di vasta e seria cultura, aveva fatto dei Dandolo i suoi due scolari prediletti, trovando nell’ingegno precoce e forte dell’uno e dell’altro, un facile terreno agli studî e alle più alte idealità. Egli aveva formate, e direi quasi esaltate, le anime generose di quei giovani, al sentimento della patria e della religione, e ne fece due credenti e due eroi. Educato insieme, e quasi un loro fratello, Emilio Morosini, anima gentile e mistica, moriva accanto all’amico Enrico Dandolo, a 22 anni, sotto le mura di Roma, facendosi ammirare dal nemico per lo straordinario valore. Carmelita Manara Fè, vedova di Luciano, dall’anno 1849, dopo la morte del marito, viveva ritirata occupandosi de’ suoi tre giovani figli, il minore dei quali era nato qualche mese dopo la morte del padre, circondata da pochi amici. Tra questi i più assidui erano Emilio Dandolo, nelle cui braccia, come è noto, era spirato il marito di lei, e qualche altro superstite degli ufficiali del battaglione Manara. Il suo salottino principiò ad essere più frequentato quando le speranze patriottiche cominciarono a riaccendersi. Carmelita Manara, quando io la conobbi nel 1855, aveva poco più di trent’anni; era stata bellissima, ed era ancor bella; d’una beltà pallida e delicata, illuminata quasi dalla luce diafana d’un lento tramonto a cui la condannava quel mal sottile che doveva precocemente spegnere lei e i suoi figli. Eppure sulle sue bianche gote ricompariva una fiamma improvvisa, e i suoi begli occhi celesti s’illuminavano, quando gli amici le portavano qualche notizia in cui vi fosse una speranza, o le richiamassero alla memoria qualche sacro ricordo d’un passato recente. Tra gli ufficiali superstiti del battaglione Manara, tra i quali c’erano Lodovico Mancini, il dottor Signoroni ed altri, che la visitavano frequentemente, devo ricordare, oltre Gennaro Viscontini già ufficiale dei granatieri, un tale Alessandro Mangiagalli, il cui caso era di quelli che non sono infrequenti nelle rivoluzioni. Il Mangiagalli era cocchiere e cavallerizzo in casa Manara: allo scoppiare della rivoluzione, e durante le Cinque Giornate, egli si mise accanto al suo padrone e non si staccò più da lui, seguendolo nelle file dei volontari sui campi di Lombardia e sulle mura di Roma. Gli atti di straordinario valore, e le sue attitudini militari lo additarono all’ammirazione dell’intero battaglione, nel quale percorsi i gradi minori diventò uffiziale. Da quel giorno, leggendo e studiando nelle ore di riposo, e convivendo cogli altri uffiziali, si procurò rapidamente quel tanto d’istruzione e d’educazione che gli occorreva per frequentare una società educata. Ritornato a Milano, dopo la resa di Roma, i suoi nuovi amici gli acquistarono una _cavallerizza_ e lo introdussero nelle loro case. Così ricomparve in casa Manara quale amico quel medesimo Mangiagalli che ne era stato il cavallerizzo. Fu questo uno degli episodi di quell’affratellamento e di quella solidarietà tra le diverse classi sociali che allora esisteva, in nome del comune amore per la patria. L’annunzio della pace conclusa tra le Potenze, dopo la campagna di Crimea, pace che veniva a troncare improvvisamente quelle speranze che riposavano sull’eventualità d’una guerra che durasse e si allargasse, aveva messo sulle prime in tutti un sentimento di scoraggiamento e di sfiducia. Ma fu un’impressione che non durò molto, poichè alla pace successe, verso la fine del febbraio, il Congresso di Parigi nel quale il conte di Cavour, come è noto, a viso aperto portò dinanzi alla diplomazia la questione italiana. Le conversazioni, le discussioni, la vita cittadina, si facevan dappertutto più animate. La contessa Maffei aveva aperto a un maggior numero di amici e di conoscenti il suo salotto, a cui aveva aggiunto una nuova sala, che aveva cessato d’essere quel ritrovo di pochi intimi che vi si raccoglievano come superstiti d’un naufragio. Col crescere di numero cresceva anche l’influenza che da esso si irradiava; la conversazione vi si faceva sempre più animata, varia e spiccatamente patriottica. Essa che in passato, come vedemmo, aveva circondato d’ogni suo ideale Giuseppe Mazzini, ora, disillusa, principiava a _idealizzare_ il Re, il _Re Galantuomo_, come ormai si chiamava in tutta Italia Vittorio Emanuele; e diffondeva intorno a sè la nuova fede che l’animava, coll’entusiasmo e coll’attrattiva della sua anima eletta e gentile. Anche l’influenza del _Crepuscolo_ andava crescendo e allargandosi sempre più. Denso di studi svariati e severi, il _Crepuscolo_ seguiva rigidamente il programma col quale era sorto; seguiva in ogni ramo il movimento intellettuale del suo tempo; e discorreva di quanto avveniva in ogni parte del mondo, fuorchè in Austria. Questo silenzio, ostinato e altiero, era osservato e compreso da tutti, ed esercitava una propaganda più efficace di qualsiasi clamorosa protesta, se la viva protesta fosse stata possibile a quel tempo. A mantenere questa condotta inflessibile nessuno poteva essere più adatto di Carlo Tenca, carattere integro e tutto d’un pezzo. Fin degli scritti dei collaboratori, ch’erano i suoi più autorevoli amici, egli faceva un severo esame per mantenere al _Crepuscolo_ l’uniformità dell’indirizzo. Le opinioni e la volontà erano in lui tenacissime, sebbene sempre rivestite di forme cortesi poichè, quantunque d’origine popolana, nei gusti, nelle maniere, nei sentimenti, in tutto aveva una certa distinzione aristocratica. Era anche stato un bel giovane. Studioso e lavoratore indefesso, d’abitudini modeste e vivendo del suo lavoro, non venne mai meno alla dignità e alla più severa onestà della vita anche in momenti difficili, come presto vedremo. Calmo, freddo, senza mai agitarsi esercitava intorno a sè coll’esempio una larga influenza. Era l’ispiratore, era l’anima secreta del salotto della contessa Maffei, pur avendo il fine buon gusto di non parerlo mai. Anch’egli era stato amico di Mazzini, ma dopo il 6 febbraio se n’era staccato; ed ora, pur tenendosi in un certo riserbo, seguiva con simpatia e con l’animo fiducioso, gli avvenimenti che si andavano svolgendo in Piemonte. Il patriottismo aveva cessato d’essere triste e accasciato come negli anni antecedenti, s’era fatto anzi gaio e più audace: la vita cittadina s’era di molto rianimata, e fin dal principio dell’inverno s’annunziava un carnevale lieto; parecchie case ricche e patrizie riaprivano le loro sale, da molti anni chiuse. Ricordo tra queste le case della duchessa Visconti di Modrone e di sua sorella la marchesa Rescalli. Il teatro della Scala ridiventava, quale era stato prima del quarantotto, il principale ritrovo della società milanese. Ma l’opposizione a tutto ciò ch’era austriaco si faceva sempre più acuta; e più insofferente diventava l’attitudine dei giovani verso gli ufficiali, ch’erano la personificazione vivente del governo forestiero. Ci sono delle impressioni che bisogna aver provate per poterne discorrere: non s’immagina come ci ribollisse il sangue a vedere le uniformi austriache, e il fare da padrone sicuro e spavaldo con cui l’ufficiale straniero passeggiava in casa nostra. Gli ufficiali dal canto loro irritati pel tacito e continuo insulto della popolazione, che li teneva così severamente segregati, reagivano appena se ne presentasse loro l’occasione, e uscivano in parole di sprezzo e in propositi di vendetta. Dei discorsi che gli ufficiali tenevano, e delle ingiurie che parecchi di loro lanciavano contro i milanesi, ne veniva l’eco dalle sale della contessa Samoyloff, che eran le sole le quali in quei giorni accogliessero generali e ufficiali austriaci. La contessa Giulia Samoyloff, nata contessa Palhen, era una russa, che per le sue ricchezze, per le sue stravaganze e per le avventure della sua vita ebbe una grande notorietà a Parigi e a Milano, dove aveva soggiornato più volte e per diversi anni, fin da prima del 1848. La sua ava materna aveva sposato in seconde nozze quel conte Giulio Litta milanese, che recatosi in Russia, nella seconda metà del secolo decimottavo, vi era diventato ammiraglio e aveva riunite grandi ricchezze. Il Litta era ritornato a Milano nel 1830 e ripartito poi per Pietroburgo vi era morto l’anno 1839, lasciando alla contessa Samoyloff un assegno vitalizio di centomila lire annue a carico dei Litta suoi eredi. La contessa Samoyloff era stata in relazione con la migliore società milanese; ma venuto il quarantotto rivolse le sue simpatie verso l’Austria e ruppe le relazioni che aveva a Milano. Nel frattempo era rimasta vedova tre volte; e aveva fatto un paio di matrimoni bizzarri. All’avvicinarsi del 1859 ripartì da Milano e non vi ricomparve che molti anni dopo, per breve tempo. Una sera, in principio di gennaio del 1856, nell’atrio del teatro della Scala un ufficiale austriaco urtò con fare sprezzante un giovane amico mio e di Emilio, Gustavo Viola. Questi era figlio della signora Saulina Viola Barbavara, una delle più intime amiche della contessa Maffei, della quale frequentava ogni sera la conversazione: da pochi mesi era tornato a Milano, dopo aver fatto gli studi in Germania. Il Viola si risentì vivacemente dell’atto scortese, diede all’ufficiale il proprio biglietto da visita, e il giorno dopo ci fu un ritrovo di padrini. Padrini del Viola furono mio fratello Emilio ed Enrico Besana; si fissò ed ebbe presto luogo il duello, e il Viola ricevette un grave colpo di sciabola ad un braccio. I duelli che avvenivano cogli ufficiali austriaci procedevano sempre colle più squisite forme cavalleresche, ma non si accettavano mai proposte di accomodamento per quanto potesse esser futile la causa della sfida. Dopo il duello, scambiate le maggiori cortesie, i nostri solevano congedarsi dicendo: «Qui finiscono i nostri rapporti; da questo momento non ci conosciamo più, non ci saluteremo più.» — Gli uffiziali rimanevano sorpresi e comprendevano l’abisso che c’era tra noi e loro. Allorchè avvenivano queste vertenze era nostro impegno il mostrarci molto esperti nella scienza cavalleresca, anche per non subire de’ soprusi, trovandoci di fronte a degli ufficiali che avevano le loro usanze e le facevan valere. Perciò tra noi giovani che ci preparavamo a fare gli spadaccini girava un codice francese del duello, che dicevasi molto autorevole, nel quale eran risolti tutti i casi con una precisione e con una sicurezza che parevano indiscutibili. Il pensiero dei duelli teneva accese non poco le fantasie di noi giovani. Il duello cogli ufficiali austriaci ci pareva un dovere patriottico; era il combattimento individuale sostituito alla guerra che non era in poter nostro di fare; ed era certamente un mezzo per tener viva quella continua tensione degli animi, e quella lotta morale ch’erano la nostra forza. Il duello di Gustavo Viola ebbe un’eco di commozione per parecchi giorni in casa Maffei, e di ingiuriose spavalderie in casa della contessa Samoyloff, la quale prima del 48 era stata amica di Clara Maffei e di Saulina Viola. In casa Samoyloff, a quanto si disse, fu dato e messo in giro dagli ufficiali austriaci un nomignolo alle signore milanesi della società elegante, che nei loro salotti tenevano alta l’_intonazione_ del patriottismo. Le chiamavano le _oche_, parodiando quelle del Campidoglio, perchè tenevano sveglio nella gioventù l’odio alla dominazione austriaca. Quel nomignolo veniva accolto anche da noi, e lo ripetemmo a titolo d’onore per quelle signore che maggiormente si distinguevano. Essere una delle _oche_ voleva dire essere una signora alla moda, una signora della società distinta e patriottica. I propositi battaglieri delle sfide e dei duelli non impedivano a me ed ai miei amici di passarcela allegramente e di approfittare di quel po’ di carnevale, meglio che si potesse. I nostri ritrovi allegri erano specialmente in casa Carcano e in casa Dandolo, ove si improvvisavano festicciuole e cene due o tre volte la settimana. Una volta dopo una cena in casa Carcano, tra i giuochi e gli scherzi, avendo io provato a dire alcune terzine di Dante, come se fossero declamate da una marionetta, i miei amici scopersero che avevo il dono di natura d’imitare questo genere di attore. Detto fatto si decretò che si avesse tutti insieme a recitare una tragedia parodiando un teatrino di marionette. Da quel giorno fummo tutti in faccende; chi si incaricò dei vestiari, chi degli addobbi delle scene, ed io fui incaricato di scegliere la tragedia e di destinare le parti a quelli che, provandocisi, riuscivano più abili. Pensando all’incarico avuto mi parve che la tragedia dovesse essere fatta appositamente e che fosse adatta anch’essa a un teatro di marionette, ma senza dimenticare il patriottismo. Mi misi all’opera, e dopo un paio di settimane ebbi in pronto una tragedia in cinque atti, in cui tutto era parodia; l’argomento, i personaggi, i versi. La pace era venuta poco prima a chiudere improvvisamente la guerra di Crimea e le speranze che se n’erano concepite. Eravamo dunque in un momento, che per fortuna fu breve, di disinganno e di sfiducia: Cavour non era ancora tornato dal Congresso di Parigi. Scelsi per argomento della parodia la guerra turca e intitolai la tragedia _Nicolò_. Nell’imperatore Nicolò I, a quel tempo si personificava il più puro dispotismo e cercai di far capire che nella parodia della Russia alludevo all’Austria. Il complesso della rappresentazione riuscì qualcosa di così comico che ogni tanto gli attori dovevano fare delle pause per lasciar sfogare l’ilarità irrefrenabile, clamorosa degli spettatori e la propria. Gli spettatori eran tutti nostri amici, e c’era fra loro anche della gente seria, come il Tenca, il Massarani, Giulio Carcano, Paolo Ferrari e parecchi altri. Il successo fu bellissimo e la recita fu replicata con un pubblico più numeroso; ma dopo la terza rappresentazione fui chiamato alla Polizia; ricevetti l’ordine di smettere e mi fu tolto il passaporto che tenevo. Ho voluto ricordare questa rappresentazione delle marionette, perchè allora ebbe a Milano i suoi giorni di notorietà. Si rise molto; e anche il ridere era per noi un’arma. Ma eccoci poco dopo a un altro duello che levò rumore più degli altri per le circostanze che lo accompagnarono; il duello di Manfredo Camperio col capitano di stato maggiore Schönhals. Per timore d’averne dimenticato qualche particolare, dopo tanti anni, mi rivolsi, mentre buttavo giù queste memorie allo stesso mio amico Camperio, il quale mi rispose colla seguente lettera: «_Santa di Monza, 6 gennaio 1899._ «Eccoti, caro amico, la storia da te desiderata, del mio duello col barone Schönhals, morto l’anno scorso a Vienna, capo dello Stato Maggiore. «Era l’inverno del 1856. Da pochi mesi ero di ritorno da un avventuroso viaggio in Australia, ove trovandomi senza mezzi, fui costretto per ritornare in Italia, ad imbarcarmi quale marinaio a bordo di un legno olandese che doveva far rotta per Rotterdam. «Il barone Ciani, mio zio, volle quell’inverno festeggiare il mio ritorno con un ballo in casa (corso Venezia, 59). Pregò me e i suoi numerosi nipoti di fare gli inviti e il ballo riuscì la più brillante festa di quell’inverno. Recatomi al ballo verso le 11, chiesi ed ottenni un valtzer da una bella e intelligente signora di mia conoscenza, nota pel suo patriottismo (signora Gerosa). «Si fece un giro, quando a un tratto la mia dama si arresta, e serrandomi il braccio mi indica colla testa un punto della sala. «Sorpreso dà quell’atto guardai e vidi un uffiziale austriaco in grande uniforme, coperto di medaglie, appoggiato allo stipite d’una porta. «— Dio mio! dissi, come mai mio zio può aver invitato un uffiziale austriaco? È certo un malinteso (Il capitano era inquilino nella casa di mio zio. Seppi poi che il capitano aveva fatto quel giorno stesso una visita colla moglie, una bella inglese, allo zio il quale credette di doverli invitare al suo ballo; e credette anche che il capitano sarebbe venuto in borghese). — Sarà bene, rispose la signora, ma intanto lei avrà la bontà di far venire una vettura perchè io non resto più a lungo in questa sala, e la mia carrozza è comandata per le quattro del mattino. «Mentre aveva luogo questo breve colloquio, molti gruppi di signore si andavano formando, e le danze erano cessate. Tutte le signore, senza eccezione, volevano andarsene. «Allora dissi alla mia gentile ballerina: — Tranquillizzi le sue amiche, penserò io a mandar via l’austriaco — e me ne andai diritto dall’uffiziale, pregandolo a voler uscire con me. «Egli mi seguì tutto sorpreso, e giunto nell’anticamera, gli dissi di accompagnarmi fino al pianerottolo. Allora gli feci capire, nel modo più gentile, come la sua presenza in uniforme avesse messo lo scompiglio nella festa e che le signore tutte avevano deciso di partire se egli restava; lo invitavo quindi come gentiluomo a lasciare egli stesso la sala per evitare che il ballo fosse sospeso in causa sua. «— Come? mi rispose in francese. (Si noti che io gli avevo parlato in tedesco). È l’uniforme del _vostro_ Imperatore quella che io porto! Voi volete disonorarla? «— Non è punto questione d’onore, ma noi tutti qui non ammettiamo che questa sia l’uniforme del _nostro_ Imperatore, ma l’uniforme dell’armata austriaca di occupazione, che speriamo non resterà a lungo nel nostro paese. — «Allora il capitano, con molta prudenza, vedendo che nell’anticamera si affollavano signori e signore ascoltando quel colloquio, non insistette, e mentre ci scambiavamo i biglietti di visita, pregò uno dei presenti di andare a prendere sua moglie, poi si accomiatò, dicendomi: «— Mi darete, spero, una soddisfazione per questo vostro strano modo di procedere! «— Certamente, risposi non dubiti, capitano. «Le danze ripresero, ma poco dopo temendo io, come infatti avvenne, che la Polizia, sempre vigile, informata di quanto era avvenuto, avrebbe circondata la casa per pigliarmi, me la svignai dalla parte dei _Boschetti_. Presi una vettura e mi feci condurre a una bottega da guantaio dove si vendevano degli abiti da maschere. «Poi, vestitomi da _puff_ (maschera allora molto comune), corsi al veglione del teatro Carcano, pensando ch’era quello il miglior modo per sviare dalle piste i poliziotti. «Dopo un paio d’ore seppi dagli amici Tarlarini e Giulio Venino, ai quali mi fece conoscere, che la Polizia era sulle mie traccie, non avendomi trovato a casa mia. «Colle dovute precauzioni corsi a casa, sempre vestito da _puff_, per prendere un po’ di denaro e per salutare i miei. Concertai la fuga per mezzo di mio cugino Augusto Besana e dell’amico Tarlarini, che mi cambiò a casa sua il vestito da _puff_ con quello d’un suo contadino, e messomi in un biroccino, mi fece condurre ad una sua campagna. «All’uscire da una delle porte della città, provai non poca emozione pel timore di essere arrestato; ma il contadino ch’era con me era conosciuto dalle guardie e queste non badarono al suo compagno. «Potei così recarmi ad Ozzero, in casa del marchese Luigi d’Adda, ove mi aveva preceduto un espresso perchè vi fossi ospitato. A tarda notte accompagnato dai fedeli barcaiuoli del marchese attraversai il Ticino e mi recai a Vigevano, in casa d’un mio antico commilitone del 48, Gusberti, capitano dei bersaglieri. «Prima che partissi dal ballo Ciani, Carlo Prinetti (ora senatore) ed Emilio Dandolo, mi si erano offerti per farmi da padrini nel duello che avrebbe avuto luogo. «A Vigevano dovetti mettermi a letto con una forte febbre e con una tosse indiavolata, prodotta dagli strapazzi della notte precedente e dal freddo intenso della trottata ad Ozzero in giacchetta da contadino. «Il giorno dopo da Milano mi venne la notizia che il capitano Schönhals si era recato, dopo casa Ciani, a un ricevimento del generale Giulay, e avendo raccontato il fatto avvenutogli, il generale aveva mandato l’ordine ad uno squadrone di ussari, che aveva sempre i cavalli sellati, di circondare la casa Ciani. «La Polizia che non aveva potuto seguire la mia pista, mercè i due travestimenti, aveva però saputo che io mi trovavo in salvo in Piemonte. «Due giorni dopo, trovandomi sempre a letto, ebbi avviso dai miei padrini che gli uffiziali austriaci, presentatisi a loro, mi pregavano di ritornare per battermi su territorio lombardo, non potendo gli ufficiali passare il confine. Mi davano però la parola d’onore che non avrei avuto nulla da temere da parte del Governo. «Accettai, ritenendo sacra la parola d’un uffiziale. Ancora febbricitante ripassai il Ticino col mio amico bersagliere. Dopo aver girato per quasi un’ora sulle sabbie del Ticino, incontrai i miei due testimoni, che mi condussero al posto fissato pel combattimento. «Eravamo tre soli italiani; l’amico che mi aveva accompagnato si teneva lontano tra i cespugli. Gli uffiziali austriaci arrivarono in buon numero: due soldati portavano delle ceste in cui c’erano sciabole, spade e pistole. «Dopo i saluti di prammatica, i padrini del mio avversario ed i miei si ritirarono per la scelta delle armi e per le condizioni, avendo io lasciate libere ad essi le une e le altre. «Il dibattito fu lungo, perchè tra gli uffiziali austriaci, un capitano Wagner, che fu in collegio con me a Dresda, aveva detto che io era un forte tiratore di punta e di sciabola, e aveva insistito perchè i padrini escludessero appunto i colpi di punta. I miei padrini non concedettero ciò. Padrini del barone Schönhals erano due colonnelli. Credo che uno fosse un Lichtenstein, noto pei molti e bei cavalli che sfoggiava al Corso. «Ci mettemmo in guardia. La febbre e la tosse in quel momento mi cessarono e attaccai vigorosamente. Ma le sciabole portate dagli uffiziali erano talmente leggiere che si piegavano ad ogni colpo. Colpii l’avversario con due fendenti al petto, ma di piatto, avendo la lama girato nel manico. «Mostrata la sciabola ai padrini, me ne feci consegnare una seconda, la quale andò in due pezzi al terzo colpo. Me ne consegnarono una terza. Ero furente. «Attaccai il capitano sotto misura, tirandogli un colpo alla testa che non ricordo quale effetto abbia avuto: mi pare d’averlo colpito all’orecchio. La sciabola mi si spezzò di nuovo e nello stesso tempo lo Schönhals mi dava una leggera ferita sopra l’occhio destro. «Intervennero i padrini. Dopo che ebbi data la mano al capitano Schönhals, perchè non avevo nulla di personale contro lui, bensì contro l’uniforme che egli portava, raggiunsi, senza guardarmi indietro, l’ospitale barca piemontese col mio amico bersagliere, e ritornai nel libero Piemonte. «Eccoti, caro Visconti, la storia genuina di quel mio duello, che fece a quel tempo molto chiasso, anche a Parigi, ove trovavasi Cavour al Congresso per la pace dopo la guerra di Crimea. «In un duello prima del mio, era stato ucciso il mio buon amico Della Porta, giovane innamorato della Patria e di un coraggio a tutta prova. Poco pratico nel maneggio delle armi, il povero Della Porta, esile di persona, aveva avuto per avversario un uffiziale ch’era un colosso. Mi rincrebbe di non averlo vendicato. «Altri duelli con uffiziali precedettero e seguirono il mio, tra i quali quelli del Viola, del Ropolo, del Mancini, di Giacomo Battaglia, di Gerolamo Fadini e di altri. «Ma chi si ricorda oramai di quei giovani, quali furono i Dandolo, i Besana, i Prinetti, i Mancini, i Simonetta, i Morosini, il Battaglia e mille altri che tu hai conosciuto!... . . . . . . . «_Il tuo_ MANFREDO CAMPERIO». CAPITOLO XXII. 1856. II. _Sommario_: La sottoscrizione dei _cento cannoni_ per la fortezza d’Alessandria. — Sottoscrizione mazziniana per _diecimila fucili_. — Un mio nuovo viaggio in Francia e a Parigi. — L’emigrazione italiana a Parigi e i partiti _piemontese_, _murattiano_, _e repubblicano_. — Montanelli, Maestri, Sirtori. — L’annunzio di un viaggio dell’Imperatore d’Austria in Lombardia. — Propositi d’astensione, e di dimostrazioni, nell’occasione della venuta dell’Imperatore. — Sottoscrizione per offrire alla città di Torino un monumento dedicato all’esercito piemontese. — Casa d’Adda. Il Congresso di Parigi, la parte avutaci dal conte di Cavour, la politica interna del Piemonte che andava svolgendosi con tanto onore e con tanta fortuna, creavano ogni giorno più in tutta Italia un’autorità morale intorno a cui le opinioni e gli animi si disciplinavano in una grande concordia, e questa era tutta intenta a una grande meta. «Fra tre anni avremo la guerra!» soleva dire Cavour agli amici. Ciò veniva ripetuto, e con ciò egli irritava l’Austria sempre più, e la disponeva ad attaccare il Piemonte; ma questo era appunto ne’ suoi scopi, e intanto faceva convergere verso di lui tutte le speranze italiane. L’Austria principiava già a prendere un’attitudine minacciosa, mentre si andavano stringendo sempre più i rapporti tra Cavour e i patriotti italiani. A Milano ormai non si viveva che della vita del Piemonte, e di Torino: le discussioni del Parlamento Subalpino, gli uomini politici piemontesi, e ogni fatto che avvenisse al di là del Ticino, erano l’argomento dei discorsi quotidiani in ogni punto della Lombardia: col mezzo di contrabbandieri si ricevevano i giornali torinesi, e si può dire che era principiata col Piemonte l’annessione morale. Alle feste che nel giugno Torino faceva ai soldati reduci dalla Crimea e al generale Lamarmora, partecipavasi a Milano con tutto l’entusiasmo dei nostri cuori pieni di speranze. In quei giorni la _Gazzetta del Popolo_ di Torino aveva iniziata una sottoscrizione per un dono nazionale di _cento cannoni_ al Governo, da destinarsi alla fortezza di Alessandria. Era una evidente dimostrazione contro l’Austria, e si pensi con quale entusiasmo fu accolta. A Milano sorse il pensiero che ogni città lombarda dovesse mandare un cannone, e subito in ogni città si formarono dei Comitati per raccogliere le sottoscrizioni: in ogni ritrovo d’amici in ogni salotto di signore, si raccoglievano le offerte. Non si davano nomi, perchè la Polizia ogni tanto piombava qua e là con visite e perquisizioni. D’accordo con Luigi Torelli ed Enrico Guicciardi, allora emigrati a Torino, si combinò di far partecipare la Valtellina alla sottoscrizione, affinchè sugli spalti d’Alessandria ci fosse anche un cannone col nome della della provincia di Sondrio. Ne parlai con Romualdo Bonfadini, cogli amici Salis, con altri di Tirano, di Sondrio e di Morbegno, ne scrissi agli amici di Grosotto per l’alta Valtellina; e così la sottoscrizione ebbe prontamente anche in quei paesi il risultato che si desiderava. Le classi dirigenti nelle provincie, a quei tempi, più che numerose erano energiche, influenti, altamente patriottiche. In parecchie provincie c’erano ancora dei vecchi patriotti che avevano cospirato nel 1821 e nel 1830, e tutte poi avevano dati dei contingenti di volontari e di persone operose negli avvenimenti del quarantotto. Così ogni parola d’ordine che partisse da Milano, trovava un’eco unanime nel patriottismo delle provincie. Mazzini, anche dinanzi a queste manifestazioni della pubblica opinione, non apprezzava l’importanza della concordia, non comprendeva ciò che si andava svolgendo sotto la guida potente di Cavour. Alla sottoscrizione pei _cento cannoni_ egli ne oppose una propria che chiamò dei _diecimila fucili_, i quali dovevano servire a qualcuna delle sue solite imprese impotenti e disgraziate. Anche questa volta la sottoscrizione di Mazzini non diede che un risultato meschino. Giacomo Medici scriveva in quei giorni a Garibaldi: «Siamo alla vigilia di vedere altre pazzie mazziniane... quell’uomo rovina ogni cosa, non sa far nulla di bene, ed impedisce che altri faccia. Mazzini vuole imporre più che lo Czar di Russia» (BERSEZIO: _Storia del regno di Vittorio Emanuele_, vol. II, pag. 415). Tra Garibaldi e Mazzini da qualche tempo non c’era più buon sangue; e da Mazzini s’erano già staccati mano mano Manin, Montanelli, Sirtori, il generale Guglielmo Pepe, Orsini, Giorgio Pallavicino, La Farina. I vecchi cospiratori mazziniani milanesi, di un grado inferiore di cui ne conoscevamo parecchi Emilio ed io, erano in un grande imbarazzo: non volevano sconfessare il Maestro, come lo chiamavan sempre; ma nel tempo stesso capivano che il mazzinianismo tramontava ogni giorno più. Cominciavano anche a riconoscere che Cavour aveva pur già fatto qualche cosa; sicchè non negavano il loro obolo ai _cento cannoni_ monarchici d’Alessandria, ma s’affrettavano poi a dare qualcosa anche ai diecimila fucili repubblicani. Il loro dispiacere era che Cavour non avesse ancora preparata la più piccola sommossa; e ciò li metteva in una certa diffidenza. Venuto il mese di luglio, desiderando di prendere una boccata d’aria dopo aver fatti alcuni esami all’Università di Pavia, pensai d’accompagnare il mio amico Costantino Garavaglia che doveva recarsi per affari a Marsiglia, a Lione e a Parigi. Anche la curiosità di raccoglier notizie sicure di fronte alle infinite voci contradditorie che correvano su Napoleone, sul Governo francese, sul murattismo, sulle opinioni della parte più eletta dell’emigrazione italiana a Parigi, mi seduceva a far quel viaggio. Si viaggiò a piccole giornate, a seconda di quanto esigevano gli affari del mio amico, e io intanto ne approfittavo per discorrere di politica con le persone che mano mano conoscevo, e per sentire che cosa pensassero sugli affari d’Italia. Non ne pensavano niente; e la mia sorpresa era pari alla mia ingenuità, sentendo quanto poco si curassero delle faccende nostre, e quanto si ignorasse tutto ciò che avveniva al di là delle loro frontiere. Solo le persone più colte parlavano con un po’ di simpatia dell’Italia, seguendo taluni l’isparazione ufficiale che l’Impero cominciava a dare col mezzo de’ suoi giornali; ma era una simpatia molto vaga e debole, poichè se per caso accennavo all’eventualità d’una guerra, le faccie benevole diventavano subito arcigne e scandolezzate. Nella ricerca di notizie mi aiutò non poco, quando fui a Parigi, il mio amico Tullo Massarani, il quale ci aveva molte ed importanti conoscenze. Nell’emigrazione italiana c’eran tre correnti di opinioni; la _piemontese_, come dicevasi allora, la _murattiana_ e la _repubblicana_. Il partito che aderiva alla monarchia piemontese era il più numeroso, e se n’era fatto capo Daniele Manin colla formula: _Unità e Monarchia; Italia e Vittorio Emanuele_. Egli aveva data questa bandiera al nuovo partito nazionale che doveva riunire la maggioranza degli italiani. Seppi che Cavour, mentre era a Parigi pel Congresso, s’era abboccato con Manin e s’era messo completamente d’accordo con lui. Seppi pure che, auspice il marchese Giorgio Pallavicino, Garibaldi il 13 luglio s’era recato da Caprera a Torino, e che vi aveva avuto un abboccamento con Cavour. Dopo quell’abboccamento Garibaldi scrivendo a La Farina chiamava Cavour il _nostro grande amico_. Manin, in quei giorni combatteva vivamente a Parigi contro un gruppo di emigrati, che si agitavano in favore del principe Murat, e avevano per programma di promuovere un movimento nelle provincie napoletane allo scopo di sostituire Murat alla dinastia borbonica, credendo che Napoleone avrebbe assecondato tale progetto. Con questi, che in realtà non erano molti, s’erano Saliceti, Lizabe, Ruffoni e il generale Ulloa. L’Ulloa nel 1859 venne in Italia, ed ebbe dal Governo Provvisorio Toscano il comando del suo piccolo esercito, che fu unito al corpo francese comandato dal Principe Napoleone, e con esso andò fino a Mantova. Avvenuta la pace di Villafranca, il Ricasoli richiamò l’Ulloa a Modena; poi, malcontento di lui, gli tolse il comando per darlo a Garibaldi. Ulloa, trascinato forse da un dispetto e forse dalle sue idee federaliste, o fors’anche dalla sua gelosia verso Garibaldi, finì col recarsi a Napoli, e coll’offrire la sua spada al Borbone, contro Garibaldi. Era stato a Venezia un valoroso soldato, ma la passione lo traviò. Conobbi il Montanelli, ch’era stato fino allora uno dei capi nello Stato Maggiore del partito repubblicano. Mite, buono, andava in quei giorni avvicinandosi a Cavour, e staccandosi dalla repubblica. Ci soffriva nel distacco, come se subisse un’operazione chirurgica, senza cloroformio; ci soffriva, ma nella sua onestà trovava gli argomenti della rassegnazione. Più deciso, più sicuro, il dottor Pietro Maestri, antico repubblicano, che esercitava molta influenza tra gli emigrati, seguiva ora risolutamente la bandiera di Manin, e lo proclamava senza esitazioni: era stato, come abbiamo veduto, uno dei tre del Comitato di difesa prima del ritorno degli austriaci nell’agosto del 1848. Il Maestri ci diede delle notizie dolorose sulle condizioni di salute del Sirtori, e così anche quella volta non riuscii a conoscerlo. Giuseppe Sirtori, nativo della Brianza, era stato, come è noto, prete prima del 1848. Intento lungamente a studi e ad indagini teologiche, preso da dubbi e da scrupoli, turbato nella coscienza, s’era recato a Parigi per conferire con Lamennais. Aveva smesso l’abito sacerdotale, pur conservandosi credente; s’era immischiato in circoli politici repubblicani e aveva preso una parte attiva alla rivoluzione del febbraio contro Luigi Filippo. Ritornato poco dopo in Italia, s’era fatto soldato a Venezia, ove fece prodigi di valore ed ebbe una parte politica notevole in senso repubblicano. Il Maestri mi disse che da qualche tempo nel Sirtori all’antico turbamento della coscienza per la fede religiosa s’era aggiunto anche il turbamento della fede politica: non aveva più fede in Mazzini, e nelle teorie repubblicane; voleva credere, e non credere a Napoleone, a Cavour, e al re di Piemonte; aveva in poco concetto Garibaldi. Il suo animo era agitato, la sua mente era turbata; i suoi discorsi, i suoi modi, parevano strani, e veniva sorvegliato. Egli si credette perseguitato dal Governo francese, e dagli amici; intanto la Polizia s’era occupata di lui, e lo aveva fatto ritirare in una casa di salute. Più tardi quando i fatti chiarirono la politica, e la guerra d’Italia suggellò gli accordi tra Napoleone e Cavour, Sirtori ritornò calmo, sereno, e si recò a Torino. La sua mente alta, rifattasi lucida, e la sua onesta coscienza di patriotta non ebbero più dubbi: vide la salute della patria nella monarchia unitaria, e ad essa diede la sua fede e il suo braccio. Egli era un nobile carattere. Sebbene supponesse d’essere stato offeso dalla Polizia imperiale, quando Milano volle fare un atto di doverosa riconoscenza a Napoleone coll’erigergli un monumento, Sirtori fu uno dei primi che la patrocinò e la sottoscrissero con una offerta generosa. Passai a Parigi un mese, e ritornato ne impiegai almeno due, a Milano e in Valtellina, a vuotare il sacco delle notizie e delle impressioni raccolte. Non garantisco che le mie notizie allora fossero senza frange patriottiche, ma quando si parla con gente che non vive che di speranze, l’esserne avari diventa una crudeltà[26]. Un’improvvisa notizia venne nell’autunno a eccitare gli animi, e a mettere le fantasie in moto per trovare nuovi modi di dimostrazioni e di proteste. Si diceva che l’Imperatore d’Austria Francesco Giuseppe sarebbe venuto a Milano nel prossimo gennaio, con grande apparato, togliendo lo stato d’assedio e inaugurando, con concessioni e riforme, un nuovo regime di Governo. Si diceva che il Governo austriaco impensierito dall’attitudine del Piemonte, sospettando accordi tra Napoleone e Cavour, e sollecitato dall’Inghilterra, volesse assopire la questione italiana col dare prontamente al Lombardo-Veneto l’assetto, o almeno l’aspetto, d’un paese pacificato. Un primo avviso di queste nuove intenzioni del Governo fu una Circolare, che nell’autunno ricevettero tutte le famiglie nobili del Lombardo-Veneto, e colla quale venivano invitati _i Signori e le Dame a dichiarare se volessero prender parte alle festività che avrebbero avuto luogo nell’occasione della prossima dimora delle LL. MM. Imperiali e Reali in Milano, per ricevere a suo tempo i relativi inviti_. Questa Circolare fece l’effetto d’un sasso lanciato in un vespaio. Non si parlò d’altro per parecchie settimane. Fra le famiglie dell’aristocrazia milanese e lombarda che avevano un’attitudine più risoluta e più battagliera contro il Governo austriaco, corse subito la parola d’ordine ferma e sdegnosa di respingere qualsiasi invito che venisse dal Governo o dalla Corte austriaca, e di astenersi rigorosamente dalle feste governative, pubbliche o private. Il proposito era buono ed energico, ma ciò che importava era che fosse seguito dal maggior numero possibile di persone, affinchè il vuoto che si voleva fare intorno al Governo e alla Corte fosse esteso, e riuscisse una grande dimostrazione. Pochissimi risposero a quella prima Circolare governativa, ne fu quindi mandata una seconda, seguita da uffici e da pressioni che gli stessi Delegati provinciali (Prefetti) facevano personalmente, recandosi nelle famiglie a sollecitare una risposta, che quasi sempre era, evasiva o negativa. A queste premure e pressioni dell’autorità ne venivano contrapposte anche di più energiche da parte dei cittadini, specialmente nella società e nelle famiglie più distinte e più in vista. La protesta dell’astensione e della resistenza alle nuove lusinghe, andò prendendo proporzioni sempre maggiori, e diventò all’occorrenza battagliera, di fronte alle difficoltà, sempre maggiori, che si dovevano superare. Per un paio d’anni, come vedremo man mano, fu questo il campo principale d’azione su cui combattè il patriottismo intransigente e militante. Ma l’astensione non bastava, bisognava far subito qualcosa di più, qualcosa che facesse rumore anche fuori di Milano, e che fosse specialmente un attestato di simpatia verso il Piemonte. Si pensò quindi di raccogliere secretamente dei contributi per un monumento dedicato all’esercito piemontese, da offrirsi alla città di Torino in nome dei milanesi nell’occasione della venuta dell’Imperatore d’Austria in Lombardia. Chi primo suggerì questo pensiero, fu Cesare Correnti: la sottoscrizione fu accolta con entusiasmo. Le signore, _le oche_ specialmente, come si continuava a chiamarle, raccoglievano i denari, e in breve si ebbe la somma occorrente: si diede la commissione del monumento allo scultore Vela, e se ne diffuse la notizia per tutta Italia e all’estero. Queste dimostrazioni, colle quali si chiudeva il 1856, erano lo squillo di tromba che ordinava al paese di stare in guardia. Col nuovo anno stava per incominciare un periodo pericoloso, un periodo di blandizie e di promesse, che l’Austria iniziava col viaggio solenne in Italia dell’Imperatore. Bisognava dunque star desti, bisognava tenere eccitati gli animi, per respingere clamorosamente tutto ciò che l’Austria ci offriva. In casa di Carlo d’Adda, col quale incominciai quell’anno a stringere una più intima amicizia, la vicina venuta dell’Imperatore d’Austria a Milano fu presto uno degli argomenti sui quali si accesero le più calorose conversazioni; conversazioni in cui tutti erano d’accordo, e alle quali davano una speciale importanza la qualità e il numero delle persone che vi prendevan parte. Carlo d’Adda era uno dei figli di quel marchese Febo, mecenate d’artisti, a cui il Parini aveva dedicata l’ode alla Musa nel 1795, poco prima che la moglie, contessa Kevenhüller viennese, desse alla luce il suo primogenito. Il terzo figlio maschio, Carlo, in unione a Cesare e Rinaldo Giulini, con Carlo e Alessandro Porro, con Anselmo, Guerrieri Gonzaga, coi Prinetti, coi Mainoni, e con parecchi altri, apparteneva a quel nucleo della giovane aristocrazia milanese, che assieme ad altri gruppi di studenti e di giovani della borghesia più intelligente, formava prima del 48, una delle avanguardie in Milano del partito nazionale. Quando scoppiò la rivoluzione delle Cinque Giornate Carlo d’Adda era a Torino: c’era andato poco prima, d’accordo col Correnti e cogli amici, e unitamente col conte Enrico Martini, ebbe allora degli abboccamenti con Carlo Alberto per sollecitare la venuta delle truppe piemontesi in Lombardia[27]. Dopo il 1848 aveva fatto delle lunghe assenze da Milano, e aveva sposata una sua nipote, donna Mariquita figlia del principe Antonio Falcò, spagnuolo, stabilito a Milano, che aveva sposato successivamente due figlie del marchese Febo. Donna Mariquita era assai bella e un bel giovane era anche Carlo d’Adda, il quale pur si distingueva per la schiettezza e la lealtà del carattere, per la vivacità e la franchezza della parola. La forma risoluta con cui esprimeva i suoi principii patriottici e le sue opinioni politiche, lasciarono alle volte supporre, a quelli che male lo conoscevano, che fosse intransigente e intollerante; ma non era vero; aveva l’animo aperto e buono, intollerante solo di ciò ch’era volgare. Amico del Bertani, e di parecchi altri che non militavano nel suo campo, soleva dire: «Rispetto tutti i patriotti, ma preferisco» soggiungeva scherzando «quelli che si lavano, e che si battono.»[28]. Donna Mariquita, di carattere franco ed aperto essa pure, esercitava un gran fascino nella società che la circondava, colla vivacità e collo spirito della sua conversazione. Per molti anni non ricevette che nella sua camera da letto, trattenutavi da una lunga infermità; ma quella camera non cessò mai d’essere il ritrovo della società più eletta di Milano; ritrovo patriottico, elegante, ove regnava un’ospitalità semplice e signorile. Una gran parte, di quelli che frequentavano casa d’Adda, avevano ricevuto nell’autunno di quell’anno gli inviti e le sollecitazioni governative per far omaggio all’Imperatore nell’occasione della sua venuta a Milano. Quegl’inviti e quelle sollecitazioni erano bersaglio ora dei fieri assalti di Carlo d’Adda e delle ironie di donna Mariquita. Quella lotta incominciata in quei giorni doveva poi prolungarsi, acutissima, durante l’anno seguente contro l’arciduca Massimiliano. Il d’Adda esercitava molta influenza nell’aristocrazia patriottica milanese, e fu uno degli uomini più stimati nel partito liberale monarchico. Dopo il 1859 Cavour lo nominò Governatore di Torino, e in Milano tenne successivamente diverse cariche cittadine, con lo zelo e col cuore che lo distinguevano: fu Consigliere Comunale, Presidente degli Istituti ospitalieri, Presidente della Congregazione di carità e di molte altre pubbliche istituzioni, lasciando da per tutto traccia per le sue iniziative e per le sue sagge riforme. NOTE. [26] Sulla fine di quell’autunno scrissi uno scherzo poetico, al quale non è mancata una certa notorietà e che rammenterò qui seguendo l’ordine cronologico della mia narrazione. Eravamo vicini alla riapertura delle scuole, e un giorno una buona donna, che abitava presso la nostra casa di Tirano, venne da me conducendo un suo figliuolo che era scolare di ginnasio, credo a Como. La madre mi disse che quel suo figliuolo era tutto mortificato, perchè non gli era riuscito di fare uno dei compiti autunnali datigli dal professore: veramente lo aveva principiato, ma non aveva saputo andare innanzi. Il ragazzo piangeva, e io, lasciandomi intenerire, mi offersi di finirgli quel disgraziato compito. Trattavasi d’una poesia, il cui argomento, scelto tra i molti che correvano per le scuole a quei tempi, era: _La partenza del Crociato per la Palestina_. Lo scolaretto aveva cominciata la sua poesia così: «Passa un giorno, passa l’altro Mai non torna il nostro Anselmo, perchè egli era molto scaltro Andò in guerra e mise l’elmo...» Qui s’era fermato. Nel leggere quei versi mi balenò una tentazione cattiva, ma irresistibile; dissi alla madre e al figlio che ritornassero il giorno dopo, e che la poesia l’avrei finita io. Corsi nel mio studio, ripetei quei quattro versi declamandoli, e il seguito venne da sè. LA PARTENZA DEL CROCIATO «Passa un giorno, passa l’altro Mai non torna il nostro Anselmo, Perchè egli era molto scaltro Andò in guerra, e mise l’elmo...» Mise l’elmo sulla testa Per non farsi troppo mal E partì la lancia in resta A cavallo d’un caval. La sua bella che abbracciollo Gli diè un bacio e disse: Va! E poneagli ad armacollo La fiaschetta del mistrà. Poi, donatogli un anello Sacro pegno di sua fè, Gli metteva nel fardello Fin le pezze per i piè. Fu alle nove di mattina Che l’Anselmo uscia bel, bel, Per andare in Palestina A conquidere l’Avel. Nè per vie ferrate andava Come in oggi col vapor. A quei tempi si ferrava Non la via ma il viaggiator. La cravatta in fer battuto E in ottone avea il gilè, Ei viaggiava, è ver, seduto Ma il cavallo andava a piè. Da quel dì non fe’ che andare, Andar sempre, andare, andar... Quando a piè d’un casolare Vide un lago, ed era il mar! Sospettollo... e impensierito Saviamente si fermò. Poi chinossi, e con un dito A buon conto l’assaggiò. Come fu sul bastimento, Ben gli venne il mal di mar Ma l’Anselmo in un momento Mise fuori il desinar. Il Sultano in tal frangente Mandò il palo ad aguzzar, Ma l’Anselmo previdente Fin le brache avea d’acciar. Pipe, sciabole, tappeti, Mezze lune, jatagan, Odalische, minareti, Già imballati avea il Sultan. Quando presso ai Salamini Sete ria incominciò, E l’Anselmo coi più fini Prese l’elmo, e a bere andò. Ma nell’elmo, il crederete? C’era in fondo un forellin E in tre dì morì di sete Senza accorgersi il tapin. Passa un giorno, passa l’altro, Mai non torna il guerrier, Perch’egli era molto scaltro Andò in guerra col cimier. Col cimiero sulla testa, Ma sul fondo non guardò E così gli avvenne questa Che mai più non ritornò. Il giorno dopo, quando la madre e il figlio ritornarono, il delitto era consumato. Ascoltai senza rimorso le parole della loro riconoscenza, e consegnai il foglio. Passati alcuni mesi, mentre facevo un esame di laurea all’Università di Pavia, osservai che i professori mi guardavano con una certa curiosità, parlando piano tra loro, e ridendo. Finito l’esame, uno d’essi mi accompagnò dicendomi: Dunque... _passa un giorno passa l’altro_... è lei l’autore della _Ballata_? Allora, in bel modo, lo interrogai anch’io alla mia volta, e seppi che aveva avuto il mio _Crociato_ da un suo amico professore a Como; forse il professore di quel famoso studente. Da quel giorno il Crociato peregrinò lungamente a mia insaputa, e me lo trovai dinanzi ogni momento, ora diminuito, ora accresciuto, e spesso spropositato. Per questa ragione, per gli spropositi cioè ond’è stato infiorato quello scherzo nelle varie copie e ristampe che ne sono state fatte, lo riproduco in questa nota nel suo testo originale, perchè in fatto di spropositi preferisco i miei. E lo studente? L’anno dopo ebbe un posto in Seminario, divenne prete, e... _passa un giorno, passa l’altro_, oggi vive ancora; ma nella sua carriera non andò al di là della prima strofa, come gli era accaduto nel suo componimento poetico. [27] Il d’Adda veniva introdotto nel gabinetto del Re dal ministro Casaretto, talora secretamente, e di sera; Carlo Alberto voleva essere informato di tutto quanto accadeva in Milano e in Lombardia; la parola schietta e franca del d’Adda era sempre d’eccitamento a Carlo Alberto, sopratutto negli ultimi giorni quando si trattava di prendere la gran decisione, sorpassando le gravi difficoltà che circondavano il Re e le urgenti pressioni che gli venivano dall’estero. Nel tempo stesso Carlo d’Adda legato con parecchi dell’alta Società torinese, quali erano Azeglio, Balbo, Collegno, Alfieri, Cavour, in unione coi lombardi che si trovavano a Torino, e a parecchi del partito liberale, esercitava un’azione attiva sull’opinione pubblica che si agitava in quei giorni a Torino e in tutto il Piemonte per spingere il paese e il Governo alla guerra contro l’Austria. [28] Fin dal 1848, quando si discuteva sull’annessione della Lombardia al Piemonte, il d’Adda scriveva in una lettera del 18 aprile da Torino al Governo Provvisorio: «Repubblica, o monarchia costituzionale, io servirò sempre fedelmente il mio paese; ma adesso è desiderio mio, come di tutti gli uomini ragionevoli, che la forma del Governo sia votata liberamente dal popolo, che nessun fatto si provochi che influisca sulla libera volontà del paese». _Lettera al Governo Provvisorio_ nel Museo del Risorgimento. CAPITOLO XXIII. 1857. _Sommario:_ Provvedimenti del Governo austriaco per rendere solenne la venuta dell’Imperatore in Lombardia. — Accordi nella società milanese per la resistenza e per l’opposizione. — Emilio Dandolo, Soncino, Mancini, Carcano, ed altri mandati a domicilio coatto. — Ammonizioni al _Crepuscolo_. — Il solenne ingresso dell’Imperatore in Milano. — Il contegno della popolazione. — In casa Dandolo. — Le fotografie del monumento all’esercito piemontese. — Il ricevimento a Corte. — Ministri al seguito dell’Imperatore. — Il conte Archinto. — Il ministro austriaco Buol risponde alle dimostrazioni italiane del Governo piemontese richiamando il ministro d’Austria da Torino, e il Piemonte fa altrettanto. — Amnistia ai prigionieri politici, e dimostrazioni provocate dalla Polizia. — Amici che ritornano dalle prigioni di Josephstad e Theresienstad. — Il maresciallo Radetzki esonerato dalle funzioni di comandante civile e militare del Lombardo-Veneto. — Parziale soppressione del _Crepuscolo_. — Lamarmora presenta la legge sulle fortificazioni di Alessandria, sul porto della Spezia e Cavour sul traforo del Cenisio. — La Farina fonda la Società Nazionale. — Lo sbarco di Pisacane a Sapri. — Nomina dell’Arciduca Massimiliano a governatore generale del Lombardo-Veneto. — Sua venuta a Milano. — La medaglia di Sant’Elena. La causa italiana riceveva dal Cavour un impulso gagliardo e un nuovo avviamento. Egli voleva toglierla dall’ambito puramente rivoluzionario in cui era rimasta negli ultimi tempi; voleva staccarla dall’azione del Comitato di Londra, terreno su cui era facile alle Potenze il combatterla. Cavour aveva accusato l’Austria di mantenere l’Italia in uno stato rivoluzionario, mentre dimostrava che l’ordine era rappresentato dal Piemonte; e per di più accusava l’Austria d’aver sconfinato nell’interpretare i poteri datigli in Italia dagli stessi trattati di Vienna. Era dunque in nome dei principii conservatori che Cavour difendeva l’Italia dinanzi ai gabinetti; ma era recente il 6 febbraio, bisognava dunque dare alla politica italiana un indirizzo diverso, togliendolo dalle mani del partito rivoluzionario. L’Austria vide questo pericolo; quindi la venuta dell’Imperatore Francesco Giuseppe a Milano non fu soltanto un fatto di politica interna, ma soprattutto era un atto di politica estera; era evidentemente una concessione alle preoccupazioni di alcune potenze europee, specialmente dell’Inghilterra; la quale voleva bensì che le condizioni dei paesi italiani fossero migliorate, ma non voleva che ciò fosse argomento di complicazioni europee, ed era quindi in sospetto per l’attitudine sempre più energica del Piemonte e quella sempre meno tranquillante di Napoleone. Le persone influenti, e che avevano una direzione dell’opinione patriottica, non tardarono a richiamare l’attenzione pubblica sull’importanza che avrebbe avuto il viaggio dell’Imperatore, sollecitati anche da informazioni e da consigli autorevoli che venivano da Torino. La parola d’ordine fu subito che si dovesse cospirare di nuovo, e lavorare attivamente, per mandare all’aria i progetti imperiali, in modo che in faccia a tutto il mondo il viaggio dell’Imperatore mancasse allo scopo, ed apparisse un fiasco. Bisognava dunque, quando l’Imperatore fosse in Italia, fare il vuoto intorno a lui, ai suoi ministri e a tutto il suo seguito; bisognava che tutte le persone più notevoli delle classi dirigenti, delle classi più in vista, si tenessero in disparte; che nessuno cedesse nè a lusinghe, nè a pressioni; bisognava insomma rendere più evidenti e più clamorose l’astensione e la resistenza. A tali scopi erano dirette in quei giorni la propaganda e l’agitazione in tutte le società, in tutti i ritrovi. Le signore più alla moda, più eleganti, più belle, insomma tutte le _oche_, come si diceva, erano nella cospirazione: il non essere nella _Fronda_, era non essere alla moda. Quanto bene non fecero allora quelle signore! In ogni ritrovo cittadino non si parlava d’altro, e di salotto in salotto correva la parola d’ordine sul contegno da tenersi, e sulle dimostrazioni di resistenza che la città avrebbe dovuto fare durante tutto il tempo del soggiorno dell’Imperatore in Milano. Guai a chi avesse mancato alla disciplina; e coi timidi e cogli incerti non si lasciavano mancare anche certe minacce; si minacciava, cioè, di non riceverli nelle case, ove solevano andare, e di non salutar più, quelli che avessero accettati gli inviti a Corte, o avessero fatto qualsiasi atto di deferenza all’Imperatore e a chi era con lui. In casa Maffei, in casa d’Adda, in casa Dandolo e Carcano, in casa del marchese Luigi Crivelli, e in molte altre frequentate da giovani, l’eccitazione era grandissima: pareva che tutti si preparassero a una battaglia. Si pensi quanto fossero frequentate e vivaci le serate di casa Maffei. Mio fratello Enrico che, sebbene da poco avesse fatto il suo ingresso in società, già la frequentava più di Emilio e di me, e vi era desiderato per la schiettezza del suo carattere e pel suo spirito buono e finalmente gioviale, capitava ogni sera in casa Maffei col bollettino delle notizie e delle prime avvisaglie. Ci va? o non ci va? (a Corte, s’intende), era una delle domande che s’udivano più spesso, e su cui si facevano discussioni accanite e perfino delle scommesse a proposito di qualche signora in pericolo; in pericolo s’intende di cedere alla pressione di qualche suocero timido, che volesse mandarla a un ricevimento di Corte. Mio fratello portava le notizie intime, le più accreditate, le più sicure. Non meno eccitate erano le autorità austriache; continuamente in faccende a spiarci, a far pressioni con ordini e con circolari ora lusinghiere e dolci, ed ora minacciose. Alcune settimane prima della venuta dell’Imperatore, la Polizia, per dare un avviso alla gioventù milanese, ne mandò parecchi dei più in vista a domicilio coatto. Tra questi rilegò Emilio Dandolo ad Adro, Massimiliano Stampa Soncino a Bormio, Lodovico Mancini a Edolo, Costanzo Carcano a Mariano, e in altri luoghi altri di cui non ramento i nomi; e ci dovettero stare finchè l’Imperatore rimase a Milano. Un gran da fare della Luogotenenza e della Polizia era pur quello di indurre almeno qualche signora dell’aristocrazia a presentarsi a Corte. Citerò, tra i molti, un episodio che ancora ricordo, e che può dare un esempio dei piccoli maneggi che si usavano per trovare una qualche recluta per la Corte. Il marchese Carlo Ermes Visconti, marito da poco d’una bella e colta sposa, la contessa Teresa Sanseverino Vimercati, si trovava un giorno in casa d’uno zio di sua moglie, il principe Porcia. Questo signore aveva dei beni feudali in Austria, e vi diventò poi membro della Camera dei Signori; viveva a Milano, ove in età avanzata sposò la contessa Vimercati, vedova Bolognini, sorella del conte Ottaviano e madre della futura duchessa Eugenia Litta. Il giovane marchese Visconti durante la sua visita, si trovò di fronte al barone Burger, ch’era il luogotenente austriaco della Lombardia, venutoci casualmente dopo. Il Burger condusse a poco a poco il discorso sulla prossima venuta dell’Imperatore a Milano, e disse a Visconti a bruciapelo: «Spero bene che lei condurrà a Corte sua moglie, che sarà una delle gemme dei ricevimenti imperiali». Il Visconti, senza esitare, rispose francamente: «Barone, non ci calcoli». Il Barone insistette, prima con modi cortesi e insinuanti, poi con l’aria altera e brusca. Alla fine il Visconti gli rispose: «Se andassi a Corte, farei un atto contrario alle mie convinzioni, e contro il mio paese; dopo un atto simile non mi resterebbe che di espatriare». Il Burger non disse altro, e così cessò la conversazione. Tra i provvedimenti della Polizia, di cui molto si parlò in Milano, ci fu la chiamata di Carlo Tenca per una speciale ammonizione. Il direttore di Polizia gli disse che la luogotenenza sperava di vedere nel _Crepuscolo_ annunziata degnamente la venuta dello Imperatore. Il Tenca rispose che il suo giornale per massima non si occupava dei fatti interni dell’Austria, e quindi non trovava ragione per occuparsi del viaggio dell’Imperatore. Il direttore, un po’ colle buone, un po’ colle brusche, cercò dimostrargli come questo viaggio fosse un avvenimento di cui s’occupava l’opinione pubblica di tutta Europa, e come il tacerne avrebbe avuto un carattere di opposizione che il Governo non poteva tollerare. Il Tenca, ch’era uomo dall’aspetto freddo e di poche parole, non aggiunse altro, e se ne andò. Una simile intimazione gli fu ripetuta alla vigilia della venuta dell’Imperatore, con la minaccia, questa volta, della soppressione del giornale, visto che il _Crepuscolo_ era assai noto all’estero, e che era salito in fama tra le persone colte; circostanza che avrebbe reso più grave il suo silenzio. Tenca ripetè la sua prima risposta, rimase fermo, non si piegò. Il giorno 15 gennaio l’Imperatore Francesco Giuseppe fece il suo ingresso solenne in Milano. Prima si fermò sul piazzale di Loreto ove era atteso, sotto un padiglione, dal Podestà, conte Sebregondi, e dalle altre autorità. Poi, proseguendo entrò in città dalla Porta Orientale, detta comunemente Porta Renza, ed ora Porta Venezia, e per il Corso Francesco, ora Vittorio Emanuele, si recò al palazzo di Corte (il _Corso Francesco_, denominazione ufficiale, era comunemente chiamato _corsia de’ Servi_, poichè sulla attuale piazza di S. Carlo esisteva una chiesa detta di _Santa Maria dei Servi_, essendo congiunta a un _Convento di Serviti_. La Chiesa di S. Carlo fu inaugurata nel 1847). L’intesa tra i cittadini era che lungo le vie, che dovevano essere percorse dal corteo imperiale, non solo non ci fossero addobbi, ma rimanessero chiuse anche le persiane. Poco prima che incominciasse l’entrata m’ero recato dalla piazza del Duomo alla Porta Orientale per vedere se l’intesa era mantenuta. Vidi che in gran parte lo era, ma vidi anche dei commissari di Polizia che entravano mano mano nelle case a far aprire le finestre, e a farle addobbare con tappeti o con drappi. Per le strade non c’era molta gente; un po’ di popolani, ma le persone più civili evitavano il Corso. Mi recai subito dalla contessa Dandolo, che abitava in casa del marchese Luigi Crivelli, appunto sul Corso di Porta Orientale al secondo piano verso strada, sicuro di trovarci degli amici, e anche per vedere di nascosto l’entrata dell’Imperatore spiando traverso le persiane, ch’eran chiuse. Trovai infatti dalla contessa parecchi amici, tutti lieti per le buone notizie che ci scambiammo sull’astensione della miglior parte dei cittadini. A un tratto il servitore della contessa entra in sala ad annunziare un commissario di Polizia. Costui veniva a intimare che si aprissero subito le persiane, e che si addobbassero le finestre con stoffe, tappeti, od altro. La contessa Ermellina lasciò partire il commissario, poi prese una pelle di tigre, che stava dinanzi a un divano, e la mise alla finestra per addobbo, come drappo. Chi passava guardava in su, rideva, e principiava a far crocchio. Ma ecco di nuovo il commissario con tanto d’occhi fuori, scalmanato, investendoci tutti e ordinando che fosse subito levata quella pelle, mentre la contessa dichiarava di non aver altri addobbi. Tolta la pelle, il commissario ridiscese in strada, e intanto arrivava il corteo che precedeva e seguiva la carrozza dell’Imperatore. Non un applauso, non un evviva, neppure tra quella plebe che applaude a tutti. Solamente, e proprio presso casa Dandolo, alcuni ragazzacci vociarono qualcosa che poteva esser preso per degli evviva; allora Giulio Venino, ch’era con noi, mandò un sonorissimo fischio che fece rivolgere il viso in su a tutti i componenti il corteo. Il corteo intanto procedeva attraversando una folla fredda e silenziosa. Nella giornata corse la voce che all’Imperatore, appena arrivato al padiglione di Loreto, fosse giunta la notizia che il Municipio di Torino aveva, quella mattina stessa, accolta l’offerta del monumento all’esercito sardo, presentata da una deputazione milanese. Ciò forse spiegava il malumore dell’Imperatore, e l’accoglienza fatta al Podestà, che i presenti avevano osservato[29]. Alcuni giorni prima, mio fratello Emilio aveva ricevuto, secretamente, un pacco di fotografie di quel monumento, ch’era ancora nello studio del Vela. Ci mettemmo in parecchi a distribuire quelle fotografie, in modo che fossero recapitate principalmente alle persone del seguito dell’Imperatore, e che i ministri le trovassero, arrivando, nei loro alloggi, e sulle loro scrivanie. Si seppe poi che quella distribuzione aveva avuto un esito felicissimo. Pochi giorni dopo ci fu il ricevimento e la presentazione a Corte della autorità e degli invitati. Era una giornata interessante, poichè si sarebbero conosciuti e contati quelli che ci andavano. Il ricevimento a Corte avvenne di giorno. Molti giovani della migliore società, molte signore, quasi tutti invitati, si diedero ritrovo in piazza del Duomo, e dinanzi al palazzo di Corte, facendo ala per vedere chi ci entrava, e per assistere allo sfilare delle carrozze. Passavano tra l’indifferenza quelle delle autorità austriache ed italiane, e della società ufficiale; ma la curiosità e i sorrisi ironici degli spettatori eran rivolti verso le carrozze, che in verità furon poche, degli invitati. Alcuni cercavano nascondersi nel fondo della carrozza, o calavano le tendine, per non essere veduti. La sera in tutte le riunioni, in tutti i salotti, non si parlò che del ricevimento dell’Imperatore e della famosa sfilata, ed era un continuo scambiarsi di notizie. Le notizie erano buone; le diserzioni erano state pochissime e parecchie di queste venivano scusate con qualche circostanza attenuante. Cose piccole possono sembrar queste a chi le guarda a tanta distanza di tempo; ma pure furono cose grandi, se si pensa alla meta che si voleva raggiungere, e che fu raggiunta. Quel primo ricevimento era fallito; era riuscito una cosa misera. Le autorità austriache non se lo dissimulavano, e ne erano furenti: in città si gongolava di contentezza, perchè quella prima battaglia era stata vinta. Per molte famiglie dell’aristocrazia l’astensione fu un atto coraggioso, e veramente meritorio. In alcune di esse c’erano tradizioni di antiche relazioni personali, in altre legami di parentela con famiglie, e con personaggi militari o politici austriaci; in altre giovani e vecchi rappresentavano due correnti diverse, e ora si erano fuse in una sola. Nel secolo antecedente, l’Imperatrice d’Austria Maria Teresa, che si occupava anche delle faccende private delle famiglie dei suoi sudditi, aveva combinati, e talora imposti, dei vincoli matrimoniali tra famiglie austriache e lombarde dell’aristocrazia: da ciò eran venute delle relazioni di parentela e d’amicizia. Nel 1848 queste relazioni furono rotte; certe fiere ripulse, anche negli anni successivi, meritano quindi d’essere menzionate nella storia del patriottismo lombardo. Accompagnavano l’Imperatore ministri e personaggi politici, per accrescere l’importanza del viaggio, e anche per studiare, come dicevano, le condizioni del paese. A tale scopo ebbero dei colloqui con qualche vecchio funzionario, o con qualche persona da loro conosciuta in passato; ma dai discorsi, e dalla qualità delle persone chiamate, si capì subito che il Governo austriaco non aveva l’intenzione di far nulla sul serio a beneficio delle provincie Lombardo-Venete, e credeva bastassero pochi provvedimenti illusori per tener a bada la popolazione, e sviare l’attenzione della diplomazia. Tra le persone che i ministri interrogarono, sapendo forse anch’essi di non far cosa seria, ci fu il conte Giuseppe Archinto. Costui era uno strano personaggio; apparteneva all’antico patriziato milanese, e andava dilapidando un gran patrimonio per la mania di fare il grande. L’Imperatore lo aveva mandato, quale ambasciatore straordinario, a chiedere al Re del Belgio la mano di sua figlia, la principessa Carlotta, pel fratello arciduca Massimiliano. Il conte Archinto v’era andato, e vi aveva sfoggiato, a sue spese, un lusso di cui si parlò da per tutto e per un pezzo. Il Governo austriaco gli mostrava quindi molta deferenza; e il conte accettava gli omaggi con fare altiero, e trattava da pari coi più alti personaggi dell’Impero. Anzi, mentre l’Imperatore era a Milano, egli ebbe a lamentarsi una volta perchè questi lo avesse trattato con troppa confidenza; ed invitato a pranzo a Corte, ricambiò subito l’invito ai ministri e alle cariche di Corte dicendo: «mostrerò loro che se a Corte si _mangia_, in casa Archinto si _pranza_.» In casa sua egli aveva da tempo introdotte le usanze e le etichette d’un regnante. Per assecondare la vanità di questo personaggio _decorativo_, i ministri lo invitarono a proporre un ordinamento nel regno Lombardo-Veneto che potesse soddisfare le popolazioni. Il conte accettò l’incarico, e propose un ordinamento somigliante a quello che c’era nel seicento, al tempo degli spagnoli in Lombardia, con un Senato composto dei più alti personaggi dell’aristocrazia, e con un presidente la cui autorità fosse superiore a tutte le autorità governative. Non era difficile indovinare chi dovesse essere poi quel presidente. I ministri, oltre il conte Archinto, interrogarono qualche personaggio più serio sulle condizioni del paese, ma tenendosi sempre in una cerchia molto ristretta di persone e di idee. Per controbilanciare in faccia all’Europa l’effetto che l’Imperatore voleva raggiungere col lasciar credere pacificati i suoi Stati italiani, e quindi spenta la questione italiana, Cavour, il giorno in cui l’Imperatore entrava in Milano, riconfermava dinanzi al Parlamento Subalpino i propositi liberali e nazionali della politica piemontese, e faceva annunziare dai giornali l’offerta dei milanesi alla città di Torino di un monumento all’esercito sardo, e quella dei cento cannoni delle città lombarde ad Alessandria. Pochi giorni dopo il ministro austriaco Buol mandava un dispaccio aspro e sdegnoso al gabinetto di Torino, e richiamava il suo incaricato d’affari. Cavour fece altrettanto. Queste mosse abilissime di Cavour riscaldavano le fantasie, sostenevano i propositi di resistenza e rianimavano tutti in quei momenti difficili a continuare quella lotta passiva, che pure era piena di difficoltà e di pericoli. In quei giorni vedevo ricomparire nella studio di mio fratello Emilio alcuni antichi mazziniani che, dopo il 6 febbraio, non avevo più riveduti. Emilio era sempre considerato come una delle persone più importanti, come il capo della gioventù che aveva preso parte alle cospirazioni; e quei vecchi conoscenti erano spinti verso di lui dal presentimento di fatti nuovi e vicini. C’era anche in essi il segreto pensiero, non ancora confessato, che il capo della nuova riscossa sarebbe stato Cavour; e tacitamente accettavano il nuovo capitano, e la nuova bandiera, ma a patto che si facesse subito qualcosa. Rimasti rivoluzionari venivano a ogni tratto con qualche progetto di stile mazziniano, e non volevano lasciar passare l’occasione della presenza dell’Imperatore e di tanti personaggi a Milano, senza tentare qualcosa, fosse pure un altro 6 febbraio, _cavouriano_, purchè fosse una sommossa. Emilio li ascoltava, e li dissuadeva. Ricordo ancora la sua calma, la sua pazienza, e i ragionamenti coi quali diplomaticamente li persuadeva a non fare degli spropositi. La Polizia invece aveva fatta una propria dimostrazione tre giorni dopo la venuta dell’Imperatore. Il 18 di gennaio era stata pubblicata la amnistia pei prigionieri politici che ancora si trovavano nelle fortezze austriache; i sequestri agli emigrati erano stati tolti alcune settimane prima. La Polizia pensò di promuovere in città una illuminazione, che doveva simulare una spontanea espressione di gratitudine per l’atto sovrano, e mandò di casa in casa dei Commissari ad ingiungere che quella sera venissero illuminate le finestre. Alcuni illuminarono, ma moltissimi si rifiutarono anche dopo ripetute ingiunzioni. Tra i palazzi le cui persiane rimasero chiuse ci furono quelli dei d’Adda, sul corso chiamato allora di _Porta Nuova_, ora via A. Manzoni. La Polizia li prese specialmente di mira, e diresse verso quella via un’accozzaglia di popolaccio che aveva mandato in giro a gridar _fuori i lumi_ e che, fermatasi dinanzi ai tre palazzi dei d’Adda, dopo un coro spaventevole di urli e di fischi, ne fracassò a sassate le persiane e i vetri. Altri palazzi ebbero un simile trattamento in qualche altro punto della città. Carlo d’Adda molti anni dopo ricordò quei fischi in una tornata del Consiglio comunale di Milano. Mentre parlava, non rammento su quale argomento, con quella franchezza ch’era abituale in lui nemico della popolarità volgare, dalla tribuna pubblica gli furono indirizzati dei fischi; ed egli allora, volgendosi verso quelli che avevano fischiato e fissandoli fieramente: «È la seconda volta, disse, che vengo fischiato; la prima lo fui dalla plebaglia, per non aver illuminata la mia casa in onore dell’Imperatore d’Austria!». Pochi giorni dopo la proclamazione dell’amnistia rivedemmo gli amici che ritornavano dalle prigioni delle fortezze di Theresienstad e di Josephstad. Trattati crudelmente durante i processi di Mantova, la loro sorte dopo era stata meno dura, perchè condannati da tribunali di guerra furono considerati quasi come militari ed infatti ebbero a compagni nella prigionia parecchi ufficiali ungheresi degli Honveds. A loro non toccò il duro trattamento degli antichi prigionieri dello Spielberg. Si pensi con quanta gioia si rivedessero quei nostri amici, scampati miracolosamente dalle forche, e che avevano portate le catene per cinque anni; non si sarebbe più finito di interrogarli e di sentirli parlare delle loro vicende. Essi però erano molto riservati, e non parlavano dei casi passati che nella più ristretta e fidata intimità; ripugnava loro soprattutto di parlare del processo, durante il quale c’erano stati degli episodî per loro specialmente dolorosi. C’erano state, contro alcuni, le terribili confessioni, com’è noto, del Castellazzo; parecchi erano stati deboli confessando, e peggiorando le condizioni proprie e degli altri. A questi, nel loro animo, i migliori avevano perdonato, ricordando le sofferenze e le torture morali che avevano attraversate; ma non amavano parlar di loro. Giustamente diceva il dottor Luigi Pastro, che in questi processi fu uno degli eroi: «Nelle cospirazioni non si entra se non s’è fatto preventivamente sacrificio della vita.» L’inverno del 1857 in Milano tutto continuò come s’era incominciato; da una parte le autorità austriache, dal ministro fino all’ultimo poliziotto, tutte intente ad allettare, o a minacciare, affinchè il viaggio dell’Imperatore apparisse un gran successo politico del Governo; dall’altra un’agitazione nella popolazione sotto la guida delle classi dirigenti per sventare i propositi austriaci, e per mantenere il paese continuamente in un’attitudine ostile, intransigente verso il Governo straniero. Da questa lotta, ora palese ora celata, veniva una grande eccitazione nella vita cittadina, ch’era costantemente in fermento. Quali sarebbero state (tutti pensavano), le conseguenze di quell’attitudine, e di quell’agitazione? Nessuno poteva ancora prevederlo, ma in tutti c’era la convinzione che il dovere imponeva di far così. Su ciò non si discuteva, nè era permesso il discutere, quindi le condanne e le proscrizioni che la società proferiva contro gli avversari o i deboli, erano continue e inesorabili. E se c’era qualche caso eccezionale, o si teneva nascosto, o non se ne parlava. L’opinione pubblica era così vigile e sospettosa da diventare alle volte ingiusta, per cui mi trattengo dal pronunciare dei giudizî che allora correvano sulla bocca di tutti, e che il tempo poi, più volte, ha dovuto rettificare. A tanta distanza di tempo certe intransigenze possono parere esagerate, ma bisogna ricordarsi che noi allora ci consideravamo come dei combattenti in guerra[30]. Il 28 marzo 1857 il maresciallo Radetzki, comandante supremo dell’esercito e Governatore generale del Lombardo-Veneto dal 1850 al 1857, veniva messo in riposo, e gli veniva data quale sua abitazione in Milano la Villa reale presso gli attuali giardini pubblici. Insieme con questa notizia veniva diffusa la voce che a Vienna si maturassero grandi progetti a favore delle provincie italiane: progetti che non venivano precisati, ma che le voci officiose ingrandivano. Intanto per distrarre la pubblica attenzione, venivano promossi in Milano alcuni lavori pubblici, tra i quali la Stazione Centrale della ferrovia e i Giardini pubblici. Ma i freni rimanevano sempre stretti. In quei giorni Carlo Tenca veniva nuovamente chiamato dal Direttore di Polizia e dal luogotenente a proposito del _Crepuscolo_. Gli fu di nuovo severamente osservato che il suo giornale continuava a non occuparsi dell’Imperatore e del suo soggiorno in Milano, e gli fu intimato di mutar contegno. Egli si rifiutò, e la Luogotenenza gli tolse la concessione che nel _Crepuscolo_ ci fosse una Rivista politica; ciò fu un colpo mortale pel giornale, la cui Rivista gli procurava una grande diffusione, non essendoci altri giornali politici all’infuori della _Gazzetta Ufficiale_. La fermezza patriottica del Tenca che viveva del proprio lavoro e soprattutto del proprio giornale fu un vero atto eroico: poichè egli sapeva che sarebbe andato incontro alle più grandi strettezze; e così fu. Il _Crepuscolo_ da quel giorno andò gradatamente declinando. Durante l’inverno, e nella primavera ci furono altri duelli cogli ufficiali, tra i quali ricordo quello di Giacomo Battaglia, con un tal _Ceti_. Il Battaglia, giovane colto, assai promettente, collaborava nel _Crepuscolo_, ed era tra gli amici intimi di casa Maffei. Il duello fu alla pistola, senza conseguenze sgraziate. Gli amici furono in pena pel Battaglia ch’era affetto da una forte miopia, la quale poi doveva forse essergli fatale nel combattimento di S. Fermo. Prima che l’Imperatore lasciasse Milano, si fecero più insistenti le voci che le provincie Lombardo-Venete avrebbero avuto un nuovo ordinamento; si disse che un arciduca, anzi lo stesso fratello dell’Imperatore, l’arciduca Massimiliano, sarebbe venuto quale Governatore generale; si disse che le provincie avrebbero avuto una larga autonomia, e perfino, secondo alcuni, una semi-indipendenza. Gli sguardi si rivolgevano ancora più al Piemonte, che seguiva nel frattempo una politica accorta, intenta ai più alti interessi politici ed economici, non solo piemontesi, ma italiani. Lamarmora presentava al Parlamento la legge sulle fortificazioni d’Alessandria, e Cavour proponeva la creazione del porto militare della Spezia, e il traforo del Cenisio. La Farina, d’intesa con Cavour, istituiva la Società nazionale, che presto veniva diffusa in tutta Italia, il cui scopo era di associare e di disciplinare tutte le forze vive del paese sotto la bandiera dell’Italia _Una_ con Vittorio Emanuele, secondo il programma di Manin. Ma il Manin non doveva vedere lo svolgimento del suo programma, che principiò solo un anno dopo, a Plombières; egli morì a Parigi nel settembre dell’anno 1857. A rendere sempre più forte l’autorità morale di Cavour ci furono anche in quell’anno le solite imprese vane di Mazzini; e cioè lo sbarco pur generoso di Pisacane a Sapri, ma che finì miseramente, e un tentativo di sommossa a Genova che indignò l’opinione pubblica. Le grandi riforme che dovevano tener dietro alla venuta dell’Imperatore a Milano, si limitarono alla nomina del fratello di lui, l’arciduca Massimiliano, a Governatore generale del Lombardo-Veneto: vero è che, secondo le _voci ufficiali_, le grandi riforme sarebbero venute dopo. L’Arciduca era un bel giovane, ed era pure una bella giovane l’Arciduchessa. Chi avrebbe presagito allora a quella coppia felice il tragico destino che l’attendeva al Messico dopo pochi anni? La loro venuta a Milano era però la prima tappa sul cammino delle loro speranze e delle loro illusioni. Alla venuta dell’arciduca Massimiliano sulle prime si badò poco: soltanto alcuni mesi dopo i milanesi dovevano occuparsi molto di lui. In quel primo momento la parte che dirigeva l’opinione pubblica non era in città: i più, come di solito dopo le bagnature dell’estate, erano andati in campagna nelle loro ville, ove poi continuavano i discorsi sugli avvenimenti che avevano tanto preoccupati gli animi durante l’annata, e sulle speranze intorno alle quali si andava fantasticando. Io pure, con mia madre e coi miei fratelli, ero partito per la Valtellina: perciò non vidi l’Arciduca per le strade che al nostro ritorno, sul finire di novembre. Quanta animazione, quale risveglio degli animi sì lungamente depressi, non vedevasi allora dappertutto! C’era in tutti una gran voglia di fare, c’era un bisogno di concordia, un bisogno di sperare; non si sapeva ancor bene che cosa si potesse sperare, ma si sperava. Questo risveglio, questo vago bisogno di agitarsi, non c’era solo in Milano; c’era nelle provincie, c’era in ogni borgata. Trovai tutti animatissimi anche i miei amici di Valtellina, coi quali mio fratello Emilio ed io si facevano delle lunghe chiacchierate, architettando i più arditi castelli in aria. Nell’autunno antecedente, come già dissi, eravamo stati tutti in faccende per la sottoscrizione dei cento cannoni d’Alessandria. Questa volta, tra gli argomenti del nostro affaccendarsi, c’era la medaglia di Sant’Elena. L’Imperatore dei francesi, che ogni giorno andava evocando qualche memoria napoleonica, aveva in quell’anno istituita una medaglia commemorativa, che chiamò la medaglia di Sant’Elena, destinata ai veterani superstiti, francesi o d’altri paesi, che avessero militato sotto Napoleone I. Agli ufficiali superstiti fu data la Legione d’Onore. Col mezzo, credo, della legazione francese a Torino, si pensò di far avere tale medaglia ai soldati superstiti che si fossero potuti rintracciare nei paesi Lombardo-Veneti. Col diffondere queste medaglie si rievocavano nel popolo i ricordi di glorie, e di battaglie combattute contro gli austriaci nelle file delle truppe italiche. Io mi incaricai, coll’aiuto dei miei amici valtellinesi, di procurare la medaglia di Sant’Elena ai vecchi soldati di Napoleone che si trovavano ancora nella provincia di Sondrio. Coi vecchi congedi, e con attestati di notorietà, si riuscì ad averne un elenco di quasi un centinaio. Fu questa la mia maggior occupazione di quell’anno. Le fatiche mie e dei miei amici furono coronate da un buon esito, poichè tutte le medaglie domandate vennero accordate, e se ne potè far presto la distribuzione; colle dovute precauzioni, si intende, per non richiamare l’attenzione della Polizia. Quelle medaglie venivano accolte col maggior entusiasmo: il ricordo delle antiche sofferenze, pure in quelli che avevano fatta la campagna di Russia, era scomparso dinanzi al fascino delle antiche glorie, e soprattutto dinanzi al nome di Napoleone che li entusiasmava ancora. Napoleone III nell’istituire la medaglia di Sant’Elena non aveva sbagliato; la popolarità dello zio rifulgeva anche su lui, e qui in Lombardia, nella fantasia popolare già lo vedevamo scendere dalle Alpi, e cacciare gli austriaci. Sulle moltitudini il nome di Napoleone esercitava ancora un vero fascino: non c’era che un Napoleone, si diceva, che potesse e dovesse cacciare via l’Austria dall’Italia. Ne conobbi parecchi di questi vecchi soldati di Napoleone I. Dopo più di quarant’anni lo adoravano ancora come un Dio, e ne parlavano commossi. NOTE. [29] La prima idea del monumento all’Esercito Sardo era stata comunicata dal Correnti, forse d’intesa con Cavour, che in quei giorni cercava d’inasprire i rapporti coll’Austria, mentre questa seguendo i consigli dell’Inghilterra, era disposta a riprendere i rapporti col Piemonte. [30] Tra quelli che ebbero, in quei giorni, i più severi rimproveri, vi fu Giuseppe Rovani che nella _I. R. Gazzetta ufficiale di Milano_, s’era fatto l’istoriografo apologetico del viaggio dell’Imperatore. Una sera comparve nel caffè _Martini_ sfoggiando una pelliccia nuova, e dicendo: «Questa la devo all’Imperatore». Per quanto grande fosse la disinvoltura di lui, lo scherzo non piacque e molti non lo salutarono più. Il Rovani aveva grande ingegno e molta coltura; ma spesso nei disordini della vita sciupava l’esistenza e la propria dignità. Molti anni dopo essendoci incontrati, io e lui in una via remota della città, Rovani mi si piantò dinanzi, e mezzo brillo qual’era, come assai spesso, mi disse: «So perchè lei non mi saluta, ma devo dirle ch’io era una buona ed eletta fanciulla, ma che ho finito male!» Pur troppo, risposi, è vero. CAPITOLO XXIV. 1858. I. _Sommario:_ L’Arciduca Massimiliano Governatore generale del Lombardo-Veneto dopo la morte di Radetzki. — Massimiliano cerca di attirare a sè diversi cospicui cittadini. — La Convenzione per le ferrovie italo-austriache. — Cesare Cantù. — Resistenze e lotte della società e dei patriotti milanesi contro Massimiliano. — Il salotto della contessa Maffei, il conte Giulini, e la resistenza all’Arciduca. — Parole di Cavour al Giulini e al Dandolo. — Casa Crivelli e casa Dandolo. — Timori che destava l’azione di Massimiliano. — Propositi di dimostrazioni e di duelli che si fanno in casa Dandolo. L’anno 1858, al pari dell’anno antecedente, principiava a Milano con una viva preoccupazione nelle classi che chiamerò _dirigenti_; nella parte voglio dire più eletta e patriottica delle classi aristocratiche e borghesi che allora veramente dirigevano l’opinione pubblica cittadina. L’anno prima trattavasi della venuta dell’Imperatore, ora trattavasi dell’arciduca Massimiliano giunto da poco e già insediato tra noi. L’arciduca era un bel giovane alto, biondo, e che vestiva di solito l’uniforme di ufficiale di marina. Lo aveva preceduto la fama di uomo intelligente, attivo, pieno di buona volontà, di maniere affabili, e di intenzioni larghe e liberali a favore dei paesi di cui doveva prendere il governo. Voci ufficiose cercavano di accreditare l’opinione ch’egli avesse dei poteri più larghi di quanto apparisse. A queste voci, o, dirò meglio, a queste speranze, aveva partecipato l’arciduca stesso. In cuor suo egli andava esagerando la sua missione, e credeva di cavarne quei risultati che gli prometteva la sua fantasia. Non privo di coltura, ma utopista, di mente fantastica e un po’ leggiera (come l’ha provato la tragica avventura del Messico), egli non si era accorto che a Vienna le cose erano intese ben diversamente: la sua missione era una lustra. Egli aveva creduto di diventare il Principe d’uno Stato quasi autonomo, mentre da Vienna era stato mandato a riprendere la tradizione dell’antico Vicerè, ossia di quel fantoccio che c’era prima del quarantotto: perchè l’Austria mutasse, ci volevano, prima Solferino, poi Sadowa. La morte di Radetzki, avvenuta il 5 gennaio 1858, aveva contribuito a rinforzare le illusioni dell’arciduca. Il vecchio maresciallo dal 1848 aveva avuto il governo civile e militare delle provincie lombarde e venete, da lui riconquistate all’Austria, rappresentandovi colla durezza delle armi e del governo la politica della reazione e dell’assolutismo; ossia il governo di Metternich peggiorato. Radetzki era uomo di mente mediocre e di poca coltura; ciecamente devoto al suo Imperatore, buon militare, bonario tra i suoi soldati, dai quali era amatissimo, duro, severo cogli avversari e nell’esercizio del governo. «Tre giorni di sangue assicurano trent’anni di pace», aveva detto alla vigilia delle Cinque Giornate, e nella sua mente angusta e tenace n’era convinto. Investito di poteri illimitati, governò il paese per quasi dieci anni senza pensare al domani; lo governò come un paese occupato in tempo di guerra, dimenticando che questo paese era una delle parti più importanti della monarchia ch’egli difendeva; e dimenticando che con un governo imprevidente, coll’odio che lo circondava, e ch’egli accresceva, poteva preparare, per l’avvenire, alla monarchia austriaca le più gravi e minacciose questioni politiche. E così avvenne. Le sue lettere all’amata figlia Federica, pubblicate dopo la morte di lui, sono piene di affetto paterno e di tenerezza; ma di ferro, di fuoco e di forche pei sudditi italiani malcontenti. La sua morte capitava in buon punto: pareva segnasse la fine d’un fosco passato, e che col suo successore, il giovane arciduca, ora, sorgesse un’alba promettente. Massimiliano si mise subito all’opera, e per alcuni mesi da Vienna lo lasciarono fare, e si lasciò che si impigliasse nell’equivoco. Egli si trovò da principio come in un deserto, e cercò d’attirarvi gente che piantasse delle tende intorno a lui. Pensò di conoscere un po’ di quei sudditi che doveva governare; cercò di attirarli a sè, e di crearsi delle simpatie e de’ partigiani, nulla risparmiando fin da principio per raggiunger tale scopo. Ma era tardi. Un primo addentellato, per incominciare, gli era offerto da una Convenzione stipulata a Vienna per una grande Società Ferroviaria, che aveva tra gli altri scopi l’esercizio delle ferrovie, fatte e da farsi, nel Lombardo-Veneto[31]. Fra i firmatari della Convenzione c’era stato il duca Lodovico Melzi, e l’arciduca lo fece chiamare offrendogli un’alta influenza nella amministrazione. Il Melzi accettò, a condizione che fossero nominate nei vari uffici le persone ch’egli avrebbe indicate: ma più tardi il direttore di Polizia osservò che i proposti dal duca erano tutte persone compromesse o sospette. Infatti molti dei giovani ammessi allora negli uffici delle ferrovie militavano nel campo patriottico, alcuni erano reduci da poco dall’esilio e dalle prigioni; anzi, poco dopo, v’ebbe un impiego anche il Lazzati. Massimiliano tuttavia li nominò tutti dicendo: «ora spero che questi almeno verranno da me.» Ma anch’essi trovarono dei pretesti per non andarci, e non ci andò nessuno. L’arciduca dovette accorgersi, fin da principio, che non otteneva neanche la riconoscenza _comandata_. Fra i suoi progetti c’era stato anche quello di fondare un gran giornale, che doveva chiamarsi la _Gazzetta Italiana_: si concedeva a quella gazzetta il nome di _italiana_ purchè fosse sottinteso quello di _austriaca_. Alcuni dicevano che la direzione del nuovo giornale dovesse venir affidata a Cesare Cantù, che l’arciduca aveva voluto conoscere; ma altri asserivano che il Cantù fosse destinato a incarichi ben più alti. Il Cantù smentiva queste dicerie, soprattutto la prima. Il fatto provò ch’erano dicerie tutte. Il giornale doveva essere il portavoce dell’arciduca Massimiliano e della sua politica, ma il solo annunzio datone destò nel pubblico una forte opposizione, e già si preparavano delle dimostrazioni. La _Gazzetta Italiana_ doveva in realtà essere diretta da un giornalista di professione, il Menini, circondato da altri redattori, tra i quali Emilio Treves, un giovane triestino assai promettente, che doveva farvi la parte letteraria. Ne fu preparato il primo numero, quale saggio, e si mandò a Vienna: ma ne venne subito la proibizione. Così il gran giornale morì prima di nascere, e l’arciduca veniva già sconfessato; come implicitamente si faceva per ogni atto di qualche importanza della sua politica, tutta fondata, come dicemmo, su degli equivoci. Ma l’arciduca intanto procedeva impavido, e tra le prime persone a cui si rivolse ve ne furono alcune, tra le più notevoli, di parte clericale. Vi trovò alcuni seguaci, e gli argomenti coi quali cercavano di giustificarsi potevano essere speciosi: dicevano che bisognava una buona volta chiudere il passato; ch’era tempo di sollevare il paese da quello stato di inerzia e di prostrazione in cui giaceva da tanti anni, per metterlo sulla via del progresso economico; che ormai si dovevano mutare gli scopi e le speranze per l’avvenire; essere ormai un’utopia l’ostinarsi a sperare nel Piemonte, impotente qual’era: dicevano, che le potenze a ogni modo non volevano la guerra; che bisognava quindi preparare una soluzione nuova, giovandosi dell’arciduca Massimiliano, venuto appositamente per assecondarla ed effettuarla; che bisognava infine cercare l’autonomia e la libertà per altre vie. Tale miraggio messo innanzi a un paese che da tanti anni, o languiva nell’attitudine rigida d’una astensione passiva, o combatteva senza speranze vicine contro il suo governo, era un pericolo grave. Da quasi dieci anni il paese aspettava invano la riscossa, e ormai principiava a dar qualche segno di stanchezza. Il contegno e il linguaggio di Massimiliano divennero in breve seducenti per molti, che già principiavano a discutere apertamente se si dovesse appoggiarlo e seguirlo. Dico subito, però, che tra questi non ce n’era neppure uno che avesse appartenuto al patriottismo militante; erano persone che in passato avevano seguita l’onda dei più, ma che non avevano partecipato all’azione attiva, e che, pur nutrendo sentimenti di italianità, non s’erano compromesse di fronte al governo austriaco. Gente mediocre, all’infuori di pochi, che non fece più parlare di sè, e che scomparve sommersa dall’alta marea degli anni che seguirono. Si lasciava credere come dissi, che tra i fautori di Massimiliano ci fosse anche Cesare Cantù. Il Cantù, lavoratore indefesso, non viveva che nella cerchia ristretta dei suoi intimi, e di alcuni ammiratori. Da giovane era stato egli pure imprigionato dagli austriaci, ma poi non era più entrato nel secreto consorzio dei patrioti, non s’era unito a nessuno di loro, e viveva solitario tra i suoi libri e i suoi lavori. Il Cantù era egli pure un avversario del Governo austriaco, ma sdegnoso delle opinioni altrui, non seguì nel 58 il movimento d’opposizione a Massimiliano, e il pubblico a cui doleva di non avere con sè, in quei giorni di lotta, un cittadino illustre, gli si mostrava severo e credette anche ciò che non era[32]. La società milanese di solito si occupava ben poco dei personaggi governativi e politici austriaci; anzi c’era quasi l’affettuazione di non parlarne mai: ma di Massimiliano, dopo solo due mesi ch’era a Milano, si parlava già molto. Era questo un risultato a cui nessun Principe, nessun Governatore austriaco, prima di lui, era arrivato mai. Egli amava far parlare di sè, e occupare di sè l’opinione pubblica: non essendo quindi possibile lasciar cadere lui e la sua missione nel silenzio, bisognava combatterlo tanto più vivamente, bisognava rendergli impossibile l’esecuzione di qualsiasi suo disegno, di qualsiasi sua buona intenzione. Massimiliano, per la causa dell’indipendenza, era un pericolo. I suoi sforzi, l’opera sua assai probabilmente non avrebbero condotto a nulla, sarebbero riusciti alla fine a un disinganno per lui e pei suoi aderenti; ma nel frattempo potevano illudere, potevano attraversare la politica nazionale del Piemonte. Le lusinghe di Massimiliano potevano indurre molti a sperare in lui e ad abbandonare quella resistenza che durava da dieci anni e che, rendendo vani tutti i tentativi dell’Austria, aveva data tanta forza alla politica nazionale del Piemonte. Bisognava dunque combattere Massimiliano più che i marescialli che ci avevano governati cogli stati d’assedio, colle prigioni e colle forche. _Combattere Massimiliano in ogni modo, e ad ogni costo_, fu la parola d’ordine che allora corse imperiosa tra i patriotti milanesi. Quindici anni dopo, quando Vittorio Emanuele andò a Vienna a far visita all’imperatore Francesco Giuseppe, un ministro austriaco, discorrendo di Milano con mio fratello Emilio, che accompagnava il Re, ricordò gli anni corsi tra il 49 e il 59, e rammentò le nostre resistenze e le nostre lotte. Pareva al ministro austriaco che le classi dirigenti italiane avessero avuto sotto mano una cospirazione formidabile per mantenere il paese, con tanta disciplina, in quello stato di lotta continua. Mio fratello gli rispose: «Non c’era nessuna cospirazione permanente; ci fu qualche speciale cospirazione, ma breve e di pochi; ma c’era la grande cospirazione di tutti, naturale, spontanea: la fermezza e la disciplina erano mantenute nelle nostre file dai metodi di governo di quel tempo; erano mantenuti dai vostri governanti, dai vostri generali, dalle vostre Polizie. Una volta sola la nostra _cospirazione_ diventò difficile, e ci mise in pensiero... fu quando ci mandaste l’arciduca Massimiliano.» Uno dei ritrovi, ove più gagliardamente ed efficacemente si preparava e dirigeva la lotta contro l’arciduca, era il _salotto_ della contessa Maffei: nella storia di quel salotto l’inverno del 1858 segna forse la data più memorabile. L’antica tinta repubblicana di alcuni anni prima era scomparsa: il patriottismo andava sempre più disciplinandosi intorno a una nuova fede, la fede in Vittorio Emanuele e in Cavour. _Casa Maffei_ voleva dire in Milano una società politica e battagliera; alcuni la credevano un ritrovo arcigno di letterati e di pedanti; ma era tutt’altro. Nel piccolo appartamento di via Bigli, dove la contessa Maffei riceveva ogni sera, si incontravano persone serie, vecchi patriotti, uomini di studio e di bella fama, ma vi intervenivano anche signore del mondo elegante, artisti, giovani che vedremo poi nel 1859 varcare il Ticino e arruolarsi tra i volontari. Nelle serate in casa della contessa si discorreva piacevolmente di cose serie, e di cose liete; si discorreva di politica, di letteratura, d’arte, e dei fatterelli cittadini; si scherzava e si rideva, ma l’intonazione generale era sempre altamente patriottica. La contessa Maffei, di natura indulgente e mite, diventava fiera e intransigente ogni volta che fosse in questione il Governo straniero. Si pensi con quanto entusiasmo essa e i suoi amici prendessero parte, in quell’inverno del 1858, alla lotta contro l’arciduca Massimiliano che ferveva nella società milanese. Chiarina Maffei esercitava sempre molto fascino intorno a sè, il fascino della gentilezza e della bontà. Intelligente e colta, senza essere nè una letterata, nè una dotta, aveva l’entusiasmo d’ogni cosa buona e bella, l’entusiasmo della patria soprattutto. Era sempre in faccende per far del bene; e quando i suoi mezzi, ch’eran modesti, non le permettevano di fare quanto il suo cuore avrebbe voluto, allora ricorreva agli uomini ricchi, o influenti, ricorreva specialmente al conte Cesare Giulini, la cui carità e generosità erano inesauribili. Il Giulini era sempre in Milano una delle persone più note e distinte; ricco, generoso, di mente alta, di sentimenti nobilissimi, aveva l’animo buono e caritatevole. La sua cultura era vastissima e la sua memoria era straordinaria, mentre poi era altrettanto straordinaria la sua distrazione, a proposito della quale si raccontavano tra gli amici i più divertenti episodî. Il dovere e la patria erano per lui una religione, e la parte ch’egli ebbe negli avvenimenti patrii, dal 48 al 59 in Milano, fu grande, pure svolgendosi con quella semplicità e con quella modestia ch’erano nella sua natura. Quando il paese fu libero, il conte di Cavour voleva fare di lui un Governatore, un Ministro; ma egli non accettò, e nel 1862 moriva non avendo che 47 anni. Il Giulini, che aveva conservato dei legami d’amicizia col Cavour e coi principali uomini politici del Piemonte, trovava modo di fare di tanto in tanto delle gite, ora palesi ora secrete, a Torino; e di là portava alla contessa e agli amici più intimi quelle notizie ch’erano l’alimento delle nostre speranze. Non aveva mancato d’andarci in quei giorni, e col Cavour aveva discorso di Massimiliano e della nuova situazione che l’arciduca cercava di preparare in Milano: e ci aveva riferito che Cavour, come conclusione del discorso, gli aveva detto all’orecchio: «È urgente che facciate mettere di nuovo Milano in _istato d’assedio_!» Questo motto, che diventava una parola d’ordine, corse rapidamente di bocca in bocca, con patriottiche indiscrezioni, e servì ad infondere in una cerchia di persone, che si facea ogni giorno più larga, un nuovo ardore e una maggiore audacia. Emilio Dandolo era stato chiamato a Torino da Cavour, che gli disse: «Caro Dandolo, ci siamo: Napoleone mi promise, che se gli austriaci mettono piede sul territorio Piemontese, egli verrà in nostro aiuto. A farci invadere penseremo noi. A Milano fate cogli amici, e cogli amici del paese, del vostro meglio per tener viva la fiaccola del patriottismo e per tener viva l’agitazione.» Il marchese Luigi Crivelli, quel medesimo che fu in prigione dopo il 6 febbraio in grazia della barba, e sua moglie, la marchesa Carolina, nata Medici di Marignano, riunivano in casa loro una società numerosa di persone, tra le quali predominava la gioventù. Si rideva, si ballava, e si faceva del patriottismo risoluto e chiassoso: il punto verso cui convergevano anche in casa Crivelli tutti i discorsi era l’arciduca Massimiliano; si può immaginare quale effetto vi facessero le parole di Cavour, ripetute all’orecchio in gran secreto... ma da tutti. L’arciduca Massimiliano, a cui non era ancora riuscito di dare a Corte, nè una festa, nè un ricevimento, adoperava tutte le arti della sua seduzione personale per fare delle conoscenze, e per chiamar gente intorno a sè: si rivolgeva a persone notevoli per ingegno, per studî o per pratica amministrativa, ogni volta che gli si presentava qualche affare di pubblico interesse; e faceva chiamare, sotto i più futili pretesti, anche dei semplici gentiluomini per aver gente a Corte. In tal modo, ogni tanto, si veniva a sapere che qualche nuovo pesciolino era stato preso all’amo, e che qualche nuova recluta era entrata in palazzo reale a far visita all’arciduca. Era appunto ciò che non si voleva. «Bisogna finirla,» s’era detto; bisogna arrestare queste diserzioni dal campo _intransigente_ che a un po’ per volta possono creare una situazione nuova, pericolosa, contraria ai nostri disegni, contraria alla politica che con tanta abilità e con tanta fortuna seguiva il Piemonte. Finirla, è presto detto, ma in qual modo? La sera, dopo il teatro, andavo frequentemente coi miei amici dalla contessa Dandolo, e chiacchierando e fumando fino ad ora tarda, si facevano le nostre discussioni e le nostre piccole cospirazioni politiche. La contessa, intelligente, animosa, ardente di sentimenti giovanili come noi, era l’anima della conversazione. Alle volte, essa ci faceva imbandire qualche cenetta, improvvisandola, e si passavano in casa sua delle ore deliziose. Una sera, mentre si parlava dell’arciduca e di quelli che abboccavano al suo amo, qualcuno di noi, forse Emilio Dandolo stesso, saltò su a dire che, per impedire le visite a Corte, bisognava pur pensarne qualcuna, se non bastava la pubblica riprovazione, se non bastavano il negare il saluto e il troncare i rapporti d’amicizia con chi ci andava. Nei nostri discorsi, ch’erano l’eco dei discorsi e dei pensieri di persone più serie di noi, c’era una preoccupazione, c’era il sentimento secreto d’un pericolo che cominciava a manifestarsi. Quale potrà essere il risultato, pensavano già parecchi, dell’azione continua, instancabile dell’arciduca? Riescirà egli ad aprire una breccia nel patriottismo disciplinato, rigido, ch’era durato fino allora? quanti mano mano non andranno cedendo alle lusinghe governative? quali nuovi interessi non verranno per avvicinare il paese al Governo? Il pubblico, il gran pubblico, dicevano i patriotti, fino a quando ci seguirà nella resistenza inflessibile anche dinanzi a un regime che si annunzia mite e largo di promesse? E una tregua dei lombardo-veneti nella resistenza non avrà delle conseguenze fatali per la politica di Cavour? E dunque? Dunque che cosa si fa?... Dunque si potrebbe far qualcosa di chiassoso... sfidare a duello, per dirne una, quelli che d’ora innanzi senza esserne obbligati andranno volontariamente a Corte, o si avvicineranno in qualsiasi modo alla politica dell’arciduca! L’idea fu accolta con entusiasmo: questa bravata ci parve bellissima, ed era infatti al livello della temperatura delle nostre teste, e di quella in mezzo a cui si viveva. Dopo ciò, quella sera ci separammo, colle teste calde di progetti e di duelli. NOTE. [31] Convenzione 14 marzo 1856, stipulata in Vienna, approvata colla Sovrana Risoluzione 17 aprile successivo, tra gli II. RR. Ministri Austriaci di Finanza e del Commercio, e i signori: Principe Adolfo di Schwarzenberg, Presidente e rappresentante dell’I. R. Istituto privilegiato di Credito per il commercio e per l’industria a Vienna; Conte Francesco Zichy juniore; Barone A. S. de Rothschild, Vice-presidente e rappresentanti dell’Istituto suddetto; La casa bancaria S. M. Rothschild, in Vienna; Marchese Raffaele de Ferrari, duca di Galliera, in Bologna; Duca Lodovico Melzi, in Milano; S. E. Conte Giuseppe Archinto, in Milano, rappresentato dai sigg. Sebastiano Mondolfo e C. F. Brot; Pietro Bastogi, in Livorno; Fratelli de Rothschild, in Parigi; E. Blonnt e C., in Parigi; Paolino Talabot, in Parigi; N. M. de Rothschild e figli, in Londra; Samuele Laing, in Londra; M. Uzielli, in Londra; mediante la quale viene concesso ai suddetti signori 1) l’esercizio ed il godimento di tutte le II. RR. strade ferrate situate nel Regno Lombardo-Veneto, con eccezione del tronco che da Verona s’inoltra verso il Tirolo meridionale, con tutti i diritti ed obblighi alle medesime inerenti; 2) la costruzione e l’attuazione di nuovi tronchi. [32] Il Cantù più tardi, nella sua Cronistoria dell’Indipendenza Italiana, disconobbe gli uomini più alti e più cari del risorgimento nazionale, e ciò gli fu poi d’ostacolo a entrare in Senato, onore a cui l’avrebbero chiamato i suoi titoli di scrittore e di storico. Crispi, essendo ministro dell’interno, propose al Re Umberto la nomina di Cesare Cantù a Senatore. Domenico Farini, presidente del Senato e figlio dell’ex Dittatore dell’Emilia, saputo ciò, si recò dal Re e vivamente lo sconsigliò di nominare senatore l’autore della Cronistoria. Il Re non firmò il decreto. CAPITOLO XXV. 1858. II. _Sommario:_ Una visita a Corte del marchese Luigi d’Adda. — Una provocazione di Alfonso Carcano alla Scala e una sfida. — Sono uno dei padrini. — Una chiamata del Direttore di Polizia. — La notte seguente si va in Piemonte. — Il duello. — L’Arciduca chiama Stefano Jacini per incaricarlo d’uno studio sulle condizioni economiche della Valtellina. — Jacini scrive un bel libro, e la Valtellina rimane nelle condizioni di prima. — Le illusioni dell’Arciduca. — Voci d’una missione data da Massimiliano al duca Melzi presso Napoleone. — Il principe Porcia, e il suo sfratto da Milano. — Cavour a Plombières. — Cavour chiama il Giulini e il Dandolo. — Progetti di Cavour per l’anno seguente. — Ultimi mesi di vita di Emilio Dandolo. — La famiglia Lutti di Riva di Trento. — Accordi e sottoscrizione, per mandare i volontari in Piemonte nella seguente primavera. — La Società Nazionale italiana. L’arciduca Massimiliano continuava imperterrito, e talora anche con qualche buon risultato, a usare le sue arti seduttrici; quando eccoci ad un nuovo episodio, capitato proprio qualche giorno dopo l’intesa _dei duelli_, in casa Dandolo. Era assai noto a quel tempo, in Milano, come amatore di cavalli ed esperto cavallerizzo, un marchese Luigi d’Adda Salvaterra, fratello del marchese Gerolamo, letterato, scrittore d’arte, e noto bibliofilo. Il d’Adda compariva quasi ogni giorno sui bastioni della città, ch’erano a quel tempo il luogo della passeggiata pubblica e il ritrovo del _mondo elegante_, cavalcando l’uno o l’altro dei suoi bei cavalli arabi. Correva, caracollava, e lo avevano soprannominato il _Mazeppa_. Un giorno Massimiliano, che di tanto in tanto cavalcava egli pure sul bastione, mandò il suo aiutante a dire al d’Adda che desiderava ammirare il bell’arabo. Il d’Adda gli si avvicinò, l’arciduca gliene fece gli elogi e lo pregò di mandare i suoi cavalli alla cavallerizza di Corte, desiderando cavalcarli. Dopo di ciò, sotto varî pretesti, lo fece andare a Corte più volte, e lo invitò a colazione. Il d’Adda accettò gli inviti. Questo fatto, che in altre circostanze sarebbe passato inosservato, allora fece parlar molto; e a qualcuno, tra quei dell’_intesa_, parve venuta l’occasione di dar principio al _programma_ dei duelli. «Si incominci dunque dal d’Adda!» Trattandosi d’una persona tanto nota in Milano, come il d’Adda, il caso era opportuno, sebbene violento, per una dimostrazione chiassosa. Ragazzate! potrà esclamare qualcuno nel leggere questi fatti; ma i giovani d’allora erano così: e si può essere indulgenti con questi ragazzi, quando si pensi che pochi mesi dopo, tra mille pericoli, lasciavano la casa loro per prender le armi; e che molti alle loro case non ritornarono più. Alcune sere dopo ci fu un veglione alla Scala e Alfonso Carcano, ch’era il più giovane della compagnia di Casa Dandolo, ci andò in maschera, e detto fatto si diresse verso il d’Adda, e dopo un breve colloquio, alludendo alla visita fatta all’Arciduca, lo insultò; poi levatasi la maschera gli diede il suo biglietto da visita. Il d’Adda era in un palchetto con due forestieri, dei quali è facile immaginarsi lo stupore. Corse subito la voce del fatto per tutto il teatro, e per alcuni giorni in Milano non si parlò d’altro. La mattina seguente vennero da me donna Giulia e Costanzo ch’erano la madre e il fratello dell’Alfonso Carcano, dicendomi che questo si teneva nascosto, e pregava me e il marchese Massimiliano Stampa Soncino a fargli da padrini. La buona donna Giulia piangeva, ma mi pregava d’assistere suo figlio. Due giorni dopo ci fu un ritrovo tra i padrini; pel d’Adda furono quei due che s’eran trovati nel palco, venuti alla Scala per _divertirsi_ al veglione; ed erano un Della Rocca, ex ufficiale spagnolo, e un Cervis di Novara. Nel frattempo ebbi una chiamata alla Polizia. Il Direttore mi ricevette tenendosi ritto in piedi e parlandomi in tono brusco e severo. — «So tutto,» prese a dirmi: «il marchese Luigi d’Adda è stato l’altra notte insultato in teatro da un giovinastro mascherato... sappiamo chi è... e sappiamo anche la causa dell’insulto!... Si parla di un duello, e si dice che lei sarà uno dei padrini... ma io le dico che questo duello non si farà! Ha capito?... Questo duello sarebbe uno scandalo! Questo duello mi obbligherebbe a far arrestare lei e i suoi due amici, e a far aprire contro di loro una duplice inquisizione, cioè pel delitto di duello, e pel delitto politico! Ha capito?... Ora le domando formalmente di darmi la sua parola d’onore che il duello non si farà... o almeno che lei non vi prenderà parte. Mi risponda!» — «Del duello di cui lei mi parla,» risposi «finora non so nulla. Ma devo però dirle che io non le potrei dare la parola d’onore che mi domanda. Lei è un gentiluomo, e comprenderà che, se un amico mi chiedesse di assisterlo in un caso simile, io non potrei rifiutare.» Si discusse per alcuni minuti, fermi l’uno e l’altro nei nostri argomenti; egli alzando la voce e in tono sempre più minaccioso; io con l’aria rassegnata, come una vittima, caso mai, dell’amicizia. In quella stessa mattina il marchese Soncino aveva avuta un’eguale chiamata dal Direttore di Polizia, e aveva sentite le stesse minacce, e aveva data la stessa risposta, poichè le avevamo combinate. Nel nostro abbocamento era parso, ai padrini del d’Adda, sulle prime che un diverbio di veglione dovesse venire accomodato con qualche bottiglia di _champagne_, ma presto capirono che sotto il diverbio apparente c’era una questione politica, e che il duello era quindi inevitabile. Si convenne un duello alla pistola, da farsi al di là del Ticino, presso la frontiera. Ma il difficile era l’andarci, sorvegliati come erano dalla Polizia. Si combinò di partire quella stessa sera, e per non svegliar sospetti s’andò tutti al teatro della Scala, mostrandoci nei palchi fino all’ora convenuta. Dal teatro, poi scomparimmo improvvisamente, e andammo difilato in piazza Fontana, dove ci attendevano due carrozze. Per attraversare il Ticino, a quel tempo, non c’erano ferrovie; eravamo in febbraio, nevicava e faceva un gran freddo; io ero in giubba, con la cravatta bianca, le scarpette lucide e le calze di seta: gelavo! Non avevo il passaporto, indispensabile a quei tempi; per questo, quando si arrivò alla frontiera, montai a cassetta d’uno dei due legni, e il Della Rocca mi fece passare pel suo cameriere. In un villaggio, al di là del confine, trovammo un ufficiale di cavalleria piemontese, che, prevenuto dal mio collega, il marchese Soncino, aveva portato le pistole. L’ufficiale ci condusse in una boscaglia distante circa un chilometro, che facemmo in mezzo al fango e alla neve. Oh le mie scarpette! e che freddo! Con noi era venuto Scipione Signoroni, un giovane nostro amico medico, e già ufficiale di Manara. I due avversari furono messi di fronte, a venti passi di distanza. La sorte indicò il Della Rocca pel comando del duello, che doveva essere al segnale. Puntarono; _uno, due, tre_; i due colpi partirono insieme, ma le due palle andarono a conficcarsi negli alberi vicini; avevano avuto più giudizio di noi. Ma a nostra discolpa ripeterò ancora una volta che a quel tempo noi ci consideravamo come già in guerra, e che se allora la gente si fosse condotta sempre con certe buone regole di prudenza e di giudizio, gli austriaci forse passeggerebbero ancora per le vie di Milano. Si ricaricarono le pistole, ma allora i padrini avversari si avvicinarono a noi dicendo che, avuto riguardo alla causa che ci aveva condotti sul terreno, si poteva far cessare lo scontro e riconciliare i due avversari. Fummo tutti del medesimo parere: la dimostrazione politica era fatta, e sarebbe stato assurdo il continuare il duello. Il d’Adda ci teneva a giustificarsi; ci scambiammo delle strette di mano e delle parole cortesi, poi partimmo subito per Milano. Qualche ora dopo, vien da me il Soncino, che aveva avuto una nuova chiamata dal Direttore di Polizia: questi era stato con lui ancora più brusco del giorno prima; ma con sua gran sorpresa il mio amico s’era accorto che il Direttore non sapeva ancora che il duello fosse avvenuto! «Sento ripetere che lei dovrebbe essere uno dei padrini, ma questo duello non si farà! Se tentassero di farlo, li farò sorprendere in _flagrante_; li farò arrestare tutti, e manterrò la mia parola... duplice processo! Glielo dico di nuovo... ha capito?» Il Soncino aveva taciuto stringendosi nelle spalle, come chi è rassegnato alla fatalità, solo ripetendo ancora che, pregato, non avrebbe potuto rifiutarsi a un amico: non aggiunse altro, poi corse da me. «Oh che commedia!» si disse fra noi. «Ma come la finirà?» In Milano per alcuni giorni non si parlò che del duello, e se ne fece un gran chiasso. Io e i miei due amici, non sapevamo che fare: parecchi ci consigliavano prender il largo; ma noi, d’accordo anche coi nostri avversari, si decise di non muoverci, e di negare che ci fosse stato il duello, non essendocene le prove, caso mai ci arrestassero. Non fummo arrestati. Più tardi venni a sapere che al nostro arresto s’era opposto il luogotenente Bürger, il quale aveva giustamente osservato al Direttore di Polizia che, non essendo egli riuscito ad impedire il duello, era meglio che fingesse di non saperne nulla; tanto più che il processo avrebbe sollevato un chiasso enorme su un fatto ch’era meglio mettere in tacere. Così la passammo liscia. Intanto l’arciduca continuava tenacemente nel suo sistema, e venne la volta in cui chiamò anche delle persone ch’egli sapeva appartenenti al campo nemico. Tra queste, un giorno, fece chiamare Stefano Jacini; proprio uno di casa Maffei! Lo scopo della chiamata era nobilissimo, e tale da rendere ben difficile un rifiuto. Una grave questione economica affliggeva allora una delle provincie lombarde, e impensieriva la pubblica opinione con pietosa sollecitudine. La Valtellina ufficialmente chiamata, come s’è detto, la provincia di Sondrio, da nove anni era colpita nel suo principale prodotto: i suoi celebri vigneti erano ormai completamente distrutti dalla crittogama, l’_oidium_, contro cui non s’era ancora trovato il rimedio. Le altre colture, in Valtellina, erano secondarie, e non c’erano che pochissime industrie. Per di più, e come questo non bastasse, il Governo austriaco, che meditava di applicare un nuovo censimento delle terre alle provincie lombarde, per accrescerne i redditi fiscali, aveva cominciato a farne l’applicazione, per esperimento, alla provincia di Sondrio, ch’era la più piccola: così era avvenuto che, mancandovi il prodotto principale, la terra non bastasse quasi più al pagamento dell’imposta. I piccoli proprietari andavano a mano a mano coprendosi di debiti per vivere; le piccole e le medie fortune, in molte parti della provincia, scomparivano rapidamente, e si vedevano cadere nella miseria moltissimi che avevano sempre vissuto nell’agiatezza. Ciò avveniva specialmente per quelli che possedevano soltanto terre coltivate a viti nella provincia. In quegli anni intere famiglie scomparvero; parecchie, che avevo conosciute benestanti, le rividi, più tardi, povere o molto decadute. Quelli che, nelle famiglie di contadini, non potevano emigrare, languivano di patimenti e di fame. Nelle Preture giacevano moltissime eredità che non potevano venir assegnate per l’impotenza degli eredi a pagar le imposte e i trapassi. In parecchi paesi la popolazione diminuiva come se fosse stata colpita da un grave contagio. Questi fatti avevano vivamente commossa l’opinione pubblica in Lombardia, e da ogni parte si invocavano provvedimenti. Il Governo militare non ci aveva badato più che tanto, contentandosi di applicare il nuovo catasto, e di riscuoterne rigidamente le imposte. Ora l’arciduca Massimiliano volle occuparsi della questione, e cominciò col bandire una grande lotteria in tutto il regno Lombardo-Veneto per soccorrere i più bisognosi: poi pensò di fare studiare le condizioni della Valtellina da Stefano Jacini, noto pei suoi studi economici e pel suo libro sulle _condizioni dei contadini in Lombardia_, premiato dall’Istituto Lombardo. L’Jacini, chiamato, si presentò all’arciduca, e dopo un lungo colloquio accettò l’incarico. Non posso nascondere che questa accondiscendenza dell’Jacini spiacque, e che gli amici gli tennero il broncio. Il puritanismo intransigente di quei giorni non permetteva che l’arciduca trovasse adesioni o appoggi in nessuno e in nulla, sopratutto per cose che fossero o che potessero parer buone. La contessa Maffei, me ne ricordo ancora, ne rimproverò l’Jacini, che principiò col giustificarsi, dicendo che di molte cose non era ancora al fatto. Egli era tornato da poco da un lungo viaggio, e non conosceva bene l’attitudine presa dalla società milanese di fronte all’arciduca Massimiliano. Rammento che, un giorno, durante quel broncio degli amici, l’Jacini mi prese a braccetto e si fece insieme una lunga passeggiata: mi raccontò che avendo da poco percorsa la Francia, l’Inghilterra e la Germania, e avendo discorso con personaggi importanti di politica e delle cose d’Italia, tutti con voce unanime gli avevano espresse l’opinione che l’Italia dovesse ormai smettere qualsiasi velleità di riscossa col mezzo della politica piemontese o dei moti insurrezionali, poichè tutta l’Europa si sarebbe opposta alla guerra. E concludevano che ai lombardo-veneti si presentava un’insperata fortuna, e cioè, l’energico e intelligente desiderio d’un arciduca di ottenere la loro autonomia amministrativa, sotto il suo governo; e che gli italiani quindi lo dovevano assecondare, se non volevano ribadire la loro servitù per seguire una chimera. Questa appunto era la tesi dei fautori ufficiosi dell’arciduca; la tesi dei timidi, e della gente stanca; la tesi pericolosa, che Cavour ci eccitava a combattere con tutte le nostre forze. All’Jacini chiesi se avesse parlato col Giulini che veniva da Torino: «non ancora» mi rispose, e io lo eccitai a vederlo al più presto. L’Jacini non ritornò dall’arciduca, ma eseguì l’incarico avuto, e fece il suo bel libro sulle condizioni economiche della Valtellina. La quale, all’infuori della lotteria, non ottenne dal Governo nessun provvedimento, e rimase abbandonata alla sua sorte. Fu un primo esempio di ciò che valevano i propositi di Massimiliano, destinato a illudersi e ad illudere. Alla Valtellina provvide più tardi il Governo nazionale, che cominciò col diffondere gli insegnamenti e gli esperimenti, allora ancor nuovi, per combattere la crittogama della vite; poi ordinò con una legge, durante i _pieni poteri_, la riduzione del censo. Promotori di tale legge furono Enrico Guicciardi, il conte Luigi Torelli, Antonio Allievi, Cesare Correnti, Romualdo Bonfadini, mio fratello Emilio, Stefano Jacini e Antonio Scialoja, a cui Cavour diede l’incarico di prepararne lo studio e di formularla. La Valtellina ne ebbe allora un immenso beneficio, e potè avviarsi alla sua risurrezione economica. L’affaccendarsi di Massimiliano era continuo, ma il terreno gli era conteso a palmo a palmo con una opposizione incessante. L’opera sua però non era affatto pratica, ed era pur sempre vigilata da Vienna, dove si era pronti in caso a disapprovarla e a frenarla. Quella sua eccitabile fantasia, e quella facilità d’illudersi, che dovevano più tardi condurlo fatalmente al Messico, l’avrebbero indotto, come fu detto allora, a confidarsi con l’imperatore Napoleone, e a fargli chiedere secretamente se avrebbe avuto il suo appoggio nei progetti relativi al Lombardo-Veneto. Allora si disse anche di questa missione confidenziale incaricasse un gentiluomo di Milano, il duca Lodovico Melzi d’Eril, e che il Melzi, il quale per ragioni di famiglia viveva molto a Genova e all’infuori della società politica milanese, accettasse in buona fede l’incarico. Il Melzi andava frequentemente a Parigi, e Napoleone lo accoglieva con molti onori quale discendente del Vice-Presidente della Repubblica Italica e alle Tuileries veniva annunciato col nome di _Duca di Lodi_, titolo dato da Napoleone I al conte Francesco Melzi. Della missione nulla però si seppe di positivo: non lasciò traccia, e non ebbe seguito. Di ciò che avveniva, e che si pensava, nel circolo dell’arciduca Massimiliano e del luogotenente Bürger, s’aveva alle volte qualche sentore col mezzo del principe Alfonso Porcia, di cui abbiamo già parlato. Fu il principe Porcia che mi disse che il luogotenente Bürger s’era opposto agli arresti pel duello del Carcano col d’Adda. Poco dopo però toccò anche a lui, non ostante le sue relazioni, un provvedimento di rigore. Un giorno s’imbattè in Massimiliano, passeggiando con alcuni amici, i quali naturalmente non salutarono l’arciduca; il Porcia, o non s’accorse dell’incontro, o non volle fare diversamente degli altri; ma bisogna dire che quella volta l’arciduca fosse di cattivo umore, perchè il giorno dopo il principe Porcia riceveva l’ordine dalla Polizia di lasciar subito Milano e di recarsi nelle sue terre in Austria. Per quanto l’arciduca si affaccendasse, ogni giorno più si faceva palese la sua impotenza a far qualcosa di serio, e ogni suo tentativo cadeva nel vuoto. Egli era arrivato in uno di quei momenti fatali in cui un Governo, prima di far libro nuovo, è condannato a far la somma degli errori e delle colpe del Governo che l’ha preceduto. La resistenza aveva ormai il sopravvento; ormai si diffondeva la certezza che anche questa difficile, questa pericolosa battaglia, i milanesi l’avevano vinta; e si faceva più forte il desiderio di prepararsi uniti, ai nuovi avvenimenti che erano nel presentimento di tutti. In un giorno del mese di maggio ebbi la visita di un tal Pagani, che sapevo essere una persona seria e rispettabile. Questo signore venne a parlarmi della _Società Nazionale_ che il La Farina aveva fondata l’anno prima, e che andava estendendosi in tutta Italia. Era questa un’Associazione ordinata come una società segreta, ed aveva, tra gli scopi, anche quello di riunire in sè le società segrete mazziniane. Era programma della Società Nazionale l’indipendenza e l’unità d’Italia con Casa Savoia, sotto la guida di Cavour. Questa società operava già attivamente; e più tardi seppi che Cavour aveva detto al La Farina «ho fede che l’Italia diventerà uno Stato con Roma capitale; venga da me in secreto, e se la diplomazia lo saprà e reclamerà, io la rinnegherò come fece San Pietro.» (Vedi anche la storia del Bersezio). Dopo il colloquio ch’ebbi col Pagani, mi adoperai anch’io a far entrare nella Società Nazionale parecchi miei amici e conoscenti, sopratutto di quelli che avevano avuto dei legami colle associazioni repubblicane, e a cui piacevano le società segrete. C’è della gente che ha bisogno di pensare colla testa altrui e di agire coll’altrui volontà. A me invece è sempre piaciuto di regolarmi da me, e quindi ho sempre aborrito le società segrete e i vincoli misteriosi di soggezioni anonime. Nella stessa Società Nazionale, che pure m’ispirava fiducia, pei suoi intenti onesti e patriottici, io non volli entrare. In quel tempo, a Milano, e credo anche in tutta l’alta Italia, nessuno parlava di Massoneria. Questa c’era stata, prima del 1848, collegata coi movimenti dei Carbonari e della _Giovane Italia_, ma non col movimento del quarantotto: poi era quasi scomparsa, e non doveva rifiorire che più tardi, nel modo che tutti sanno. L’arciduca Massimiliano anche a Venezia, ove si era recato colla sposa nell’estate del 1857, prima di venire a Milano, aveva fatto parlar molto di sè cercando di attirar alcuni dei più cospicui cittadini, come il conte Bembo, e il conte Cittadella Vigodarzere, e lasciando intravvedere speranze e novità. Ma mentre Massimiliano s’agitava nel vuoto, Cavour teneva in mano ben altre fila, e andava dritto al suo scopo. Il 20 luglio del cinquantotto era a Plombières, e ne’ suoi famosi colloqui con Napoleone, poneva le basi dell’alleanza e iniziava gli accordi per la guerra: poi ritornava trionfalmente in Italia, schermendosi a stento dalle dimostrazioni traverso la Svizzera e in Piemonte. Poco dopo il suo ritorno a Torino, Cavour fece chiamare Cesare Giulini, poi Emilio Dandolo. Disse loro le trattative e gli accordi fatti con Napoleone, con un certo riserbo naturalmente, allo scopo ch’essi preparassero gli amici in Milano e in Lombardia a quell’azione che poteva assecondarlo ne’ suoi scopi. Tra le confidenze fatte a Giulini, Cavour gli aveva anche detto come Napoleone, per giustificare la guerra dinanzi alla Francia che n’era riluttante, stimava necessario che il Piemonte fosse attaccato, e invaso dall’Austria. Ciò avrebbe giustificato l’intervento francese. _Faites vous attaquer_, aveva detto ripetutamente Napoleone a Cavour. Cavour aveva chiesto al Giulini se gli paresse possibile che nella primavera del prossimo anno, quando l’Austria farebbe la leva, i proprietari di Lombardia mandassero i loro contadini coscritti in Piemonte. Se venissero, aveva concluso Cavour, io li accolgo nei reggimenti piemontesi... l’Austria mi chiederà l’estradizione ed il loro disarmo... io rifiuterò; l’esercito austriaco allora invaderà il Piemonte!... Giulini gli rispose che avrebbe seriamente studiata questa proposta coi suoi amici, e che si sarebbe fatto il possibile per attuarla, almeno in parte. Cavour con questa proposta ebbe una felice percezione degli avvenimenti. Non furono i colpiti della leva quelli che nell’inverno seguente passarono il Ticino e furono arruolati dal Governo piemontese; ma furono i volontari, come vedremo, che passarono in Piemonte, quelli di cui l’Austria chiese il disarmo, e che determinarono il caso di guerra e l’invasione. Cavour, nel confidare a Emilio Dandolo gli accordi di Plombières, gli aveva dato specialmente l’incarico di intendersi coi giovani di maggior autorità di Milano, con quelli sopratutto che avevano avuto dei rapporti colle società mazziniane. Cavour voleva attirare a sè tutte le forze vive del paese, voleva con sè i più operosi, i più audaci; voleva distrugger le sette, e riunire tutti sotto la gran bandiera dell’unità d’Italia colla monarchia dì Savoia. Mio fratello Emilio ebbe allora un lungo colloquio con Emilio Dandolo, che gli riferì i discorsi fatti con Cavour, e gli intendimenti di lui. Cavour fin d’allora lasciava intendere le sue mire unitarie, voleva però essere egli solo la guida, e il giudice dei modi e delle opportunità per raggiungere lo scopo. Mio fratello riferì questi discorsi a suoi amici; con queste promesse e con questa parola d’ordine anche i più circospetti lasciarono ogni esitazione. Quelli che un giorno avevano seguito Mazzini pel concetto unitario, quelli che da lui s’erano staccati perchè disillusi, ora accettavano risolutamente di seguire la nuova bandiera e il nuovo capo. Dandolo presentava poi mio fratello Emilio a Cavour. Così in quei giorni, Cavour, non solo metteva le basi dell’indipendenza, dell’unità e della libertà d’Italia, ma creava un partito politico nazionale, che fino allora, in Italia, non aveva esistito, il partito unitario, monarchico, liberale. Intorno a questo partito si riunirono, in maggioranza, le persone più eminenti. Con l’aiuto di questo partito Cavour potè compiere grandi cose, e i suoi successori più illustri poterono condur l’opera a compimento. Bisogna essere vissuti a quei tempi, bisogna aver seguiti quei fatti ansiosamente giorno per giorno, per avere la profonda convinzione che Cavour tutto mosse e diresse, e che il grande artefice del nuovo regno d’Italia fu lui. La guerra nella prossima primavera fu in un baleno il pensiero, la speranza, la fede di quanti furono partecipi delle confidenze fatte agli amici da Cavour. Nel crocchio de’ miei amici ormai non si parlava d’altro: un giorno mi fu comunicato il progetto di avviare una seconda sottoscrizione per prepararsi agli avvenimenti della primavera, sia che si trattasse di mandare i coscritti in Piemonte, sia che si dovesse promuovere qualche fatto, di cui si parlava misteriosamente, per far scoppiare la guerra. La guerra! Ogni sera ne parlavamo con entusiasmo in casa Dandolo, e allora si colorivano le gote pallide del povero Emilio Dandolo, la cui salute andava rapidamente declinando, minata dall’etisia. Egli conosceva il suo stato, ma tuttavia era deciso di recarsi al più presto in Piemonte, per assicurarsi il suo antico posto di ufficiale. «Non voglio morire in letto,» soleva dire, «voglio morire da soldato su un campo di battaglia.» Pur troppo il suo desiderio non doveva essere esaudito: ormai non gli mancavano che pochi mesi di vita, e non potè intravedere che l’alba delle comuni speranze. Andai quell’anno a passare il mese di agosto in casa Lutti a Campo nelle Giudicane, presso Riva di Trento. Il mio amico Vincenzo Lutti di Sant’Alessandro era fin d’allora una delle persone più importanti del partito nazionale liberale del Trentino; e la famiglia Lutti, ricca, ospitale, era in quelle valli, tra le più illustri, e ospitava nell’estate e nell’autunno, ora a Riva di Trento, ora nella villa di Campo, o in quella di Sant’Alessandro sul lago di Garda, un’accolta di amici che si avvicendavano, e tra i quali si incontravano spesso delle persone notevoli d’ogni parte d’Italia. Andrea Maffei teneva presso quella famiglia la sua consueta dimora; e vi si vedevano di frequente Andrea Verga, l’illustre alienista, e i poeti Prati e Gazzoletti. La vecchia madre del mio amico Vincenzo, donna Clara, era una signora che amava mostrarsi amica e protettrice dei letterati: aveva due figlie, Francesca e Maria, delle quali Francesca era una scrittrice e poetessa valente: Vincenzo era un uomo molto colto, musicista appassionato, pieno di spirito, d’ingegno e di cuore. Al Lutti, e agli amici che trovai quella volta nella villa di Campo, comunicai le notizie avute dal Giulini, e così anche nei paesi trentini si fece subito l’intesa per la sottoscrizione e per l’invio dei volontari in Piemonte in primavera. Qualche mese dopo, un ufficiale piemontese, Alberto dei marchesi Incisa della Rocchetta, veniva a Campo per fare col Lutti delle escursioni e delle ricognizioni militari ordinategli dal Ministero della guerra piemontese. Ritornato a Milano dalla Valtellina, alla metà di novembre, seppi nel circolo intimo degli amici di casa Maffei che il progetto di mandare in Piemonte i coscritti a primavera era stato abbandonato. Invece nei gruppi dirigenti, nella Società Nazionale, e tra i giovani, correva la parola d’ordine che a primavera gli antichi volontari del 48 e del 49, e quanti altri potessero, dovevano passare in Piemonte per arruolarsi nelle truppe regolari, o in corpi di volontari. Il progetto veniva accolto con entusiasmo, e la Società Nazionale sopratutto si adoperava con una attività instancabile a diffonderlo fra i giovani, e a compiere ogni preparativo per attuarlo. La sottoscrizione, iniziata qualche mese prima, pigliava vaste proporzioni; e venivano sottoscritte ingenti somme, note solo a quelli che le raccoglievano; e con una larga cospirazione si preparavano i mezzi per rendere possibile e facile avviarsi alle frontiere piemontesi e il varcarle ai giovani che si apparecchiavano a compiere questa grande dimostrazione; la più seria e la più efficace che mai si fosse veduta in Italia. A questa intesa parteciparono persone d’ogni classe e d’ogni paese, nelle provincie lombarde e nelle venete. Tale occulto lavorìo durò quasi tre mesi; noto a molti, vi partecipavano pure, com’era naturale, vetturali, contrabbandieri, barcaioli; la Polizia n’era sulle tracce, ma non riuscì ad impedirlo: nessuno tradì. CAPITOLO XXVI. 1859. I. _Sommario:_ Il capo d’anno. — I discorsi di Napoleone e di Vittorio Emanuele pel capo d’anno e per l’apertura del Parlamento. — Dimostrazione al teatro della Scala e il coro della «Norma»: _guerra guerra_. — L’organizzazione per mandare i volontari in Piemonte. — Nel gennaio e nel febbraio incomincia la partenza dei volontari. — La morte di Emilio Dandolo. — Il trasporto funebre della salma di Dandolo e la corona tricolore. — Il discorso al cimitero circondato dalla truppa. — Perquisizione del giorno dopo in casa Bargnani ove la Polizia sequestra una lettera di mio fratello Emilio. — All’alba del giorno seguente, il 25 febbraio, la Polizia viene in casa nostra per arrestare mio fratello e me. — Mio fratello aveva dormito in casa d’un amico. — Io riesco a fuggire. — Dopo aver saputo che in quella notte la Polizia aveva arrestati Garavaglia, Carcano, Signoroni e il moretto di casa Dandolo, vado dalla contessa Maffei. — La contessa Maffei, col mezzo di Tenca, mi procura il mezzo d’uscire dalla città. — Un primo contrattempo. — Un legnetto, e poi altri, mi conducono a Lonate Pozzuolo. — Il mio ospite. — Il signor Ernesto Tirinanzi, il giorno dopo, presentandomi come un Ispettore ferroviario, mi ottiene dal Commissario di Polizia di passare il Ticino in barca. — Giungo a Oleggio, e colla strada ferrata, riparto per Torino. Il 1859 s’apriva con una bella giornata, serena come le nostre speranze; e principiava anche lietamente. Alcune bande musicali andate sulle prime ore del mattino a far omaggio pel capo d’anno, come d’uso, alle autorità, nel far ritorno, percorrendo parecchie vie della città, salutavano l’anno nuovo con allegre sonate. Tra queste, ogni tanto ripetevano, tra gli applausi della folla che le seguiva, una canzone popolare, venuta fuori da poco, chiamata la _Bella Gigogin_. La musica della canzone era facile e vivace, le parole erano scipite e quasi senza senso, ma tra esse c’era un ritornello che diceva: _dagliela avanti un passo, delizia del mio cor_; parole a cui il pubblico dava un significato patriottico sottinteso, accogliendole con entusiasmo. La _Bella Gigogin_ percorse quella mattina Milano trionfalmente, tra infiniti applausi, accolta come un augurio, e rinnovando a tutti, col buon umore, le speranze. Quella canzone fu per qualche tempo popolarissima; talchè, quando Napoleone entrò in Milano dopo la battaglia di Magenta, le musiche militari francesi sonavano la _Bella Gigogin_, che chiamavano la _milanaise_. Ma il miglior augurio pel nuovo anno ci doveva venire prima da Parigi, poi da Torino. Napoleone nel ricevimento di capo d’anno del corpo diplomatico, rivolgendosi all’ambasciatore d’Austria, Hübner, gli aveva detto: _Mi duole che le nostre relazioni non siano così buone come per l’addietro_. Quelle parole del silenzioso Imperatore avevano avuto un eco formidabile in tutta Europa, come se fossero già un annunzio di guerra. L’Austria rispose mandando subito in Lombardia un nuovo corpo d’Armata, e sei battaglioni di _confinari_ croati. Pochi giorni dopo, il 10 gennaio, Vittorio Emanuele nel discorso d’apertura della sessione del Parlamento, pronunziava le parole: _Non sono insensibile al grido di dolore che verso noi si leva da ogni parte d’Italia_; parole che si seppe erano state dette d’accordo con Napoleone. Ne giunse la notizia a Milano la sera del giorno stesso in cui erano state pronunziate. Ero al teatro della Scala; a un tratto si vide un parlarsi l’un l’altro, con ansietà, con commozione, come di persone che si comunicano una grande notizia, parve scorresse in tutti un fremito; e una sorpresa insolita si osservò anche nei palchi delle autorità e dei generali austriaci. Quell’elettricità, per così dire, ch’era nell’aria, che era in tutti, doveva, poche sere dopo, scoppiare rumorosamente in quella sala stessa del teatro. Si rappresentava la «Norma», e appena i sacerdoti druidici intonarono il coro possente del _guerra, guerra_, tutto il pubblico scattò in piedi: dai palchetti le signore sventolavano i fazzoletti, e tutti a una voce, anzi con un urlo formidabile, si gridò _guerra! guerra!_ Il coro fu fatto ripetere più volte tra un entusiasmo frenetico. Gli ufficiali della guarnigione, che, come di solito, occupavano le due prime file della platea a loro riservate, non capirono sulle prime la ragione di quel chiasso. Esterrefatti, guardavano, quasi interrogando, nei due palchetti riuniti di prima fila, ove stava il generale Giulay, con parecchi ufficiali superiori. Questi capirono ben presto di che cosa si trattasse e si misero ad applaudire essi pure il _guerra guerra_. Anzi Giulay stesso ne diede il segnale, battendo replicatamente la sciabola sul pavimento. Chi gli avrebbe detto quella sera che la guerra sarebbe proprio scoppiata, e che cinque mesi dopo egli vi avrebbe perduta a Magenta una grande battaglia! Il segnale dato da Giulay fu subito seguito da tutti gli ufficiali che si rizzarono in piedi, e fissando il pubblico, applaudirono fragorosamente. Si pensi che baccano! Da una parte si gridava entusiasticamente _viva la guerra!_ si sventolavano i fazzoletti, e si chiedevano nuove ripetizioni del coro; dall’altra si battevano, con grande strepito e in modo parimente provocante, le sciabole in terra. Il teatro fu attorniato dalla truppa chiamata in fretta, e Giulay uscì circondato dallo stato maggiore e da ufficiali, quasi accorsi in sua difesa. Il baccano quella sera durò lungamente; era la esplosione d’una aspirazione repressa, di veder spuntare il giorno desiderato, il giorno della guerra. Le parole di Vittorio Emanuele avevano messo il fuoco alle polveri. Intanto si andavano disponendo i mezzi, seriamente e in grande, per mandare quanti più giovani si poteva ad arruolarsi in Piemonte. Le città e le borgate di Lombardia dovevano avviare questi giovani a Milano, e da Milano, per varie strade prestabilite, sarebbero stati poi diretti ai confini del Ticino, della Svizzera e del Po. Lungo tali strade ci sarebbero stati dei punti indicati, ove chi arrivava avrebbe trovato carrozze, alloggio all’occorrenza, e guide per proseguire il cammino in modo rapido e sicuro. Tutto ciò era pagato da una Cassa centrale in Milano. Chi partiva riceveva degli scontrini ch’erano carte da giuoco tagliate, o bastoncini che combaciavano, noti a chi li doveva raccogliere ai punti di ritrovo. Con questi contrassegni, se occorrevano, o accompagnati da soccorsi in denaro quand’era opportuno, i giovani che partirono giunsero presso che tutti in Piemonte rapidamente e senza contrattempi. In tre mesi ve ne giunsero circa dieci mila. Alle spese provvedeva una cassa secreta fatta con contribuzioni fiduciarie. La cassa e gli scontrini erano affidati ad un gruppo di cittadini che se li passavano l’un l’altro, tenendoli pochi giorni, poichè era un deposito pericoloso. E infatti presso chi l’aveva c’era subito un andirivieni di giovani che doveva destare i sospetti della Polizia, e che procurò spesse visite, chiamate e perquisizioni. Non tutti i diecimila certamente andarono in Piemonte coi mezzi e coi soccorsi della cassa secreta, poichè chi lo poteva andava a proprie spese, ma ce n’andarono moltissimi. In tutto ciò ebbe una gran parte quella cospirazione generale, spontanea, di tutti, che s’era veduta nel quarantotto; e, come allora, le classi elevate contribuirono con una grande generosità, tanto più notevole questa volta perchè secreta. Il pensiero d’andare in Piemonte ad arruolarsi cominciò presto a farsi strada tra i giovani e tra gli antichi volontari del ’48. Già nei primi giorni del gennaio, nei ritrovi, nei caffè, tra gli studenti, si sussurrava: quando si va? Una sera mi trovavo in casa del marchese Luigi Crivelli, e si parlava appunto delle speranze ch’erano sulle bocche di tutti, e del progetto di passare in Piemonte per arruolarsi. «Quando si incomincierà?» domandavano alcuni. «E se si andasse subito?» saltò su Giulio Venino, che allora era studente di matematica, e che poi diventò capitano d’artiglieria. «Se io, per esempio, partissi tra un paio di giorni, farei bene?» Tutti lo applaudirono, e poco giorni dopo seppi ch’era partito, e che s’era arruolato a Torino come soldato semplice nell’artiglieria. Ho voluto ricordare il suo nome, perchè in quei giorni il nobile esempio del Venino trovò un’eco simpatica e vivissima tra i giovani milanesi. Un giorno, il padre di Gaetano Negri, ch’era un vecchio amico di casa nostra, venne a confidare a mia madre che il suo unico figlio maschio Gaetano, giovane di vent’anni, partiva per arruolarsi. Aveva le lacrime agli occhi, ma nel tempo stesso era superbo della decisione di suo figlio. Gaetano Negri, dopo un anno era sottotenente di fanteria, e aveva già guadagnato una prima medaglia al valor militare. Questi esempi furono presto seguiti da molti, e ormai ogni giorno s’udivano ripetere i nomi di giovani appartenenti alle più alte famiglie milanesi, che si erano furtivamente recati in Piemonte per arruolarsi. L’esempio, cominciato dall’alto, si diffuse in ogni classe; prima che finisse il febbraio si contavano già a migliaia gli arruolati. I pochi, che, potendolo, non partivano, non si lasciavano vedere. Tra gli arruolati si annoveravano anche i più bei nomi delle provincie lombarde e delle venete. Nessuno resisteva a quell’entusiasmo generale che chiamava la gioventù ad espatriare per arruolarsi e ad esporsi alle più gravi sventure, se gli avvenimenti fossero finiti male. Questa grande dimostrazione patriottica merita veramente di essere ricordata come uno dei fatti più seri, più generosi che conti la storia del nostro risorgimento. Le autorità austriache, civili e militari, solite a burlarsi delle nostre dimostrazioni, questa volta rimasero stupite; e pur fremendo ammiravano un tal fatto così nuovo, e che non giungevano a frenare. Ciascuno di noi, di quel gruppo di giovani, voglio dire, che viveva in continua dimestichezza, aveva fatto i propri preparativi per passare in Piemonte, ma se ne voleva differire l’esecuzione per poter intanto accrescere la cassa, e sorvegliare i contrassegni di fronte a qualche improvviso contrattempo, o a qualche scoperta della Polizia. Eran questi di solito gli argomenti dei nostri discorsi in quei giorni in casa Dandolo, seduti presso la poltrona su cui giaceva il povero Emilio, affranto dalla tisi che faceva rapidamente i suoi ultimi progressi. Egli era affettuosamente assistito dalla madre Ermellina, dal padre, dal Barnabita padre Piantoni, dagli amici, e tra questi, sopratutto, dal medico Scipione Signoroni, suo antico compagno d’armi nel battaglione Manara, e già attaccato lui pure dalla tisi che doveva spegnerlo, sul fiore dell’età, pochi anni dopo[33]. Emilio Dandolo non s’illudeva da parecchio tempo sulla gravità del suo male, e nei discorsi di quei giorni le nostre liete speranze facevano un penoso contrasto colla inesorabile fatalità che spegneva l’amico. Dandolo nondimeno si lusingava di poter vivere ancora alcuni mesi: non sperava di poter rivestire la sua antica divisa di ufficiale dei bersaglieri, ma Cavour gli aveva assicurato un posto nello Stato Maggiore. I suoi pensieri erano tutti rivolti alla guerra e si aggiravano sempre intorno alla speranza di morire su un campo di battaglia. Ma il male inesorabile doveva ben presto dissipargli crudelmente anche questo ultimo sogno. In uno di quegli ultimi discorsi intimi egli mi confidava alle volte alcune informazioni che gli giungevano, e ch’egli trasmetteva a Cavour, sulle forze e sui movimenti delle truppe austriache. Fin dall’autunno erano secretamente venuti in Lombardia due capitani piemontesi di Stato Maggiore, Incisa e Govone. Il capitano Alberto Incisa della Rocchetta, nominato innanzi, e che divenne poi generale come il suo collega Govone, aveva a Milano parenti ed amici, oltre il Dandolo, che l’aiutarono nella sua pericolosa missione: tra questi Lodovico Trotti, Carlo d’Adda, Cesare Giulini, Carlo Ermes Visconti. Più tardi Cesare Giulini, con quei due ufficiali, compiva una missione ancora più ardita. Conoscendo strade e paesi tra Milano, il Ticino e il Novarese, per averci dei possessi, quando, dopo la dichiarazione della guerra, le truppe austriache entrarono in Piemonte, essi ne seguirono a poca distanza le mosse, e via via ne facevano giungere le informazioni al Lamarmora. La mattina del 20 febbraio Emilio Dandolo tranquillamente spirava nelle braccia del padre e della madre, circondato da alcuni amici. La notizia corse rapida per la città, e corse anche la parola d’ordine che tutti dovessero accorrere a rendere gli estremi onori al giovane e valoroso patriotta. Intanto la famiglia e gli amici vegliavano il cadavere, e prendevano gli accordi per la giornata dei funerali. Si voleva che sulla tomba parlasse mio fratello Emilio, ma in quella mattina egli doveva essere padrino d’un duello di Gerolamo Fadini con un ufficiale austriaco; così egli cedette il mesto incarico al conte Gaetano Bargnani, parente dei Dandolo, il quale in poche ore preparò un caloroso e coraggioso discorso. Carmelita Manara ed Ermellina Dandolo deposero il cadavere nella bara: Carmelita gli mise sul petto la coccarda tricolore, che suo marito Luciano aveva portata durante le campagne; Ermellina vi collocò una ghirlanda di fiori dai tre colori. Ma non contenta di ciò, la contessa Ermellina incaricava uno degli amici, Ignazio Crivelli, di procurargli delle camelie bianche e rosse per intrecciarle con foglie verdi e farne una corona, ch’essa pensava di far collocare sul feretro nel momento del trasporto. E, fissa in questo pensiero, faceva conficcare nel coperchio del cofano dei chiodi sporgenti per assicurare la sua corona. Ma qui stava il difficile, perchè la Polizia l’avrebbe sequestrata al suo primo apparire. Pensò dunque, d’accordo cogli amici, di far collocare la corona sul feretro solo quando il corteo sarebbe uscito dalla chiesa, dopo le esequie. Così tutti l’avrebbero veduta, e alla Polizia sarebbe riuscito più difficile sequestrarla. Il trasporto funebre fu fatto la mattina del 22, e il feretro fu portato alla chiesa di San Babila dalla casa Crivelli, posta sul corso di _Porta Orientale_, ove, come già dissi, abitavano i Dandolo. Durante le esequie, la folla, che presto non potè più trovar posto nella chiesa, andò rapidamente agglomerandosi sulla piazza, occupando a mano a mano fin le strade vicine e una parte del corso. Era una folla serrata, silenziosa, imponente. La Polizia se ne allarmò, e non potendo disperderla, mandò l’ordine alla chiesa di sospendere il trasporto del feretro al cimitero. Appena si seppe quest’ordine, si sollevò nella chiesa un vivo rumore di impazienza e di protesta che decise alcuni amici di casa Dandolo, tra i quali Costantino Garavaglia e Lodovico Mancini, a recarsi subito nella sacrestia, dove c’era un Commissario di Polizia, per persuaderlo a lasciar compiere il trasporto. Dopo un lungo e inutile battibecco, il conte Tullio Dandolo e la duchessa Giovanna Visconti di Modrone andarono dal luogotenente Bürger per persuaderlo come, nell’interesse stesso dell’ordine pubblico, fosse miglior partito lasciar compiere il trasporto. Il Bürger, fatte molte raccomandazioni, acconsentì. Il feretro, portato a spalla, si mosse, e la folla che era in chiesa si precipitò fuori dalle porte laterali. Alla porta centrale stava il gruppo degli amici di Emilio Dandolo, in mezzo ai quali c’era il portinaio di casa Crivelli, un ometto, patriotta anche lui, che teneva nascosta sotto un ampio mantello la corona. Mentre il convoglio stava per uscire dalla chiesa, Lodovico Mancini, giovane alto dalla persona, prese la corona e rapidamente la collocò, non veduto, sul feretro assicurandola ai chiodetti. Appena comparve dinanzi all’immensa folla quel feretro, su cui stava la bella corona tricolore, ci fu un fremito in tutti e si levò un urlo infinito, frenetico, spaventoso, che si ripercosse a lungo e lontano tra quelle migliaia di persone accorse a dar l’ultimo saluto, al valoroso patriotta precocemente morto. In mezzo a quella folla stipata non fu facile formare il corteo; allora i feretri non venivano collocati sulle carrozze, ma erano portati a spalla. Dodici tra noi, amici intimi del povero Emilio, ci eravamo prefissi di adempiere a questo ufficio, dandoci il cambio tratto tratto, e tenendoci intorno al feretro. Accanto a noi c’era il padre Piantoni, un dotto barnabita, amico dei Dandolo. Dietro, al posto d’onore, veniva un drappello di antichi soldati ed ufficiali, avanzi del battaglione Manara, alcuni dei quali erano mutilati. Il commovente drappello accresceva la commozione e il fermento della moltitudine di persone che si stipavano intorno. Il feretro procedeva lentamente, fendendo a stento quella folla agitata, sospinta. Tutti volevano veder la corona tricolore che ad ogni passo sollevava grida di entusiasmo; grida che facevano uno strano contrasto col sentimento di dolore, che pur vedevasi in tutti. Quel trasporto funebre pareva un trionfo. Era infatti il trionfo d’un patriotta, il trionfo di quella concordia cittadina ch’era l’omaggio più caro allo spirito di lui. La ressa era tale che più volte, essendo io pure tra gli amici che s’avvicendavano nel portare il feretro, temetti che fossimo rovesciati e calpestati. I gendarmi, le guardie, gli agenti della Polizia, erano scomparsi. Non sarebbe stato possibile affrontare quella folla esaltata e risoluta; così essa rimase padrona del campo dalla chiesa fino al cimitero, detto di San Gregorio, ora soppresso, e ch’era fuori la Porta Orientale. Il feretro e la folla, giunti alla dolorosa dieta, trovarono il cimitero occupato e circondato dalla truppa. Il feretro e parte di quelli che lo seguivano poterono entrarci, ma i più furono respinti. La cassa fu sepolta provvisoriamente in una fossa comune, e su di essa pronunciarono parole patriottiche e coraggiose il conte Bargnani, come era stato stabilito, e Antonio Allievi. Il giorno dopo il conte Tullio ottenne di far trasportare la salma del figlio nella sua villa di Adro, in provincia di Brescia e fu dissepolta secretamente, alla presenza di agenti di Polizia. Vi accorse la contessa Ermellina, che potè, non veduta, ritrovare la corona, nasconderla sotto il mantello, e riportarla a casa. Nei giorni seguenti il conte Tullio era chiamato a Torino per assistere a un ufficio funebre che, per iniziativa di Cavour, veniva celebrato in suffragio del figlio. Tra i promotori di quelle onoranze si leggevano, accanto al nome di Cavour, quello di Lamarmora, Azeglio, Durando, Lanza, Sella ed altri. Era da aspettarsi che il Governo non avrebbe tardato a far pagare a qualcuno quella grande dimostrazione, contro la quale era stato impotente, e ch’era parsa quasi una sollevazione. Infatti, nella giornata seguente a quella del funerale, alcune faccie poliziesche si presentarono in casa Bargnani a chiedere del conte. Avvisatone, egli si recò subito da mio fratello Emilio, che gli diede una lettera per un signore di Pavia, l’avv. Caravaggio, divenuto poi prefetto e senatore, e che allora si adoperava a far passare il confine ai compromessi e ai volontari. Il Bargnani, prima di partire, ritornò a casa sua per pochi momenti, e n’era appena uscito di nuovo che capitarono gli agenti della Polizia. Dopo averlo cercato invano, fecero nella casa una minuta perquisizione; e frugando fin nelle tasche dei vestiti di lui, nel vestito che aveva mutato poco prima trovarono la lettera di mio fratello, che nella fretta egli vi aveva dimenticato. La contessa Bargnani, ch’era stata presente alla perquisizione, appena usciti i poliziotti, corse a casa nostra per avvisare Emilio che la sua lettera era stata trovata e sequestrata. Emilio ne avvisò l’Allievi, pensando che la Polizia avesse voluto arrestare il Bargnani in causa dei discorsi pronunciati al cimitero; e lo esortò a partire. L’Allievi infatti partì. Alla mia volta esortai molto mio fratello perchè partisse egli pure, parendomi che dopo il sequestro della sua lettera l’aria di Milano non facesse più per lui; ma Emilio, che fu sempre ritroso a prendere delle precauzioni per sè, preferì differire. La sera del giorno seguente, ch’era il 24 febbraio, dopo la rappresentazione del teatro della Scala, ci trovammo io e Emilio in un crocchio di amici al caffè Cova. Emilio raccontò l’avventura della lettera, poi disse che poco prima s’era incontrato, in un corridoio del teatro, col Direttore di Polizia, il quale lo aveva fissato in un certo modo che pareva volesse dire: Ah, sei ancora a Milano? Ci rivedremo tra poco! Gli amici esortarono Emilio, e anche me, a pigliare il largo, almeno a non rincasare quella sera, offrendoci l’ospitalità in casa loro. Pregato vivamente anche da me, Emilio si persuase a seguire un amico che volle condurlo in casa sua. Emilio voleva che ci andassi anch’io, ma un impegno me lo impediva. Sapevo che la mattina seguente, di buon’ora, dovevano venire alcuni giovani bresciani indirizzatici da Giuseppe Zanardelli, per avere gli scontrini necessari per passare il confine. Di più dovevo consegnare la Cassa secreta, che tenevo in quei giorni, all’amico Carlo Gagnola che mi succedeva nell’incarico. Rincasai, ma non andai a letto subito. Avevo il presentimento, naturale del resto, che potesse capitare anche in casa nostra una visita della Polizia da un momento all’altro, forse quella stessa notte. Diedi un’occhiata alla scrivania di Emilio e alla mia, e bruciai alcune carte. Nel frattempo, sempre seguendo i presentimenti, mi venne un pensiero che doveva tornarmi molto utile, e cioè di chiudere la camera di Emilio, e di nasconderne la chiave. Poi andai a letto. Un po’ prima dell’alba fui svegliato di soprassalto da un rumore di passi nella stanza vicina, ed ecco spalancarsi la porta ed entrare il servitore, che teneva un lume con mano tremante, ed era seguito da alcune persone. Queste circondarono subito il mio letto; spalancai gli occhi e vidi due Commissari e quattro guardie di Polizia. Uno dei Commissari mi disse che mi dovevano fare una perquisizione, e che mi alzassi. Mentre frugavano tra le mie carte e tra i miei libri, in ogni angolo della camera, e persino nelle tasche degli abiti, mi vestii, apersi le finestre e diedi un’occhiata in istrada. Giù, presso il portone, c’eran due guardie e una carrozza. La carrozza voleva dire, a quei tempi, che si trattava dell’arresto. Uno dei Commissari mi domandò se eravamo due fratelli. Gli risposi ch’eravamo tre. Mi parve che questa risposta lo imbarazzasse, perchè si mise a confabular piano coll’altro; poi mi disse di condurlo nella camera del fratello maggiore. Quando si trovarono dinanzi a un uscio chiuso e senza chiave, i miei personaggi montarono in furie. Mi fecero un monte di domande alle quali risposi che non sapevo nulla, e alla fine ingiunsero al mio servitore di chiamare un fabbro. Il servitore andò, si fece aspettare un pezzo, poi ritornò dicendo che le botteghe eran chiuse, e che di fabbri non ce n’era. Nuovi furori dei Commissari, che finirono coll’ordinare alle guardie di abbattere l’uscio. «Come mai?» esclamarono vedendo un letto ancor fatto. «Ma... suo fratello ieri sera era in teatro!» «E ne siamo usciti insieme» risposi. «Poi io venni difilato a casa, ed egli andò al caffè.» Il non aver trovato Emilio, e l’aver sentito che eravamo tre fratelli, due fatti non preveduti, fecero confabulare di nuovo i miei Commissari. Poi, uno se ne andò per chiedere, evidentemente, nuove istruzioni, e dicendo infatti che sarebbe tornato tra poco; l’altro principiò a fare la sua perquisizione nella camera di Emilio. Intanto io m’ero messo a chiacchierare colle guardie, dando loro dei sigari, passeggiando per le stanze attigue e meditando il mio piano. A un tratto sento il campanello dell’uscio che metteva sul pianerottolo. Mi viene un sospetto, e accompagnato da una guardia corro ad aprire. Vedo tre giovani, capisco ch’erano i tre bresciani mandati da Zanardelli. Ricordo ancora quelle tre facce che, sbalordite per aver vedute le guardie in strada, ora si trovavano dinanzi a un altro poliziotto: devono aver creduto in quel momento d’esser caduti in trappola. Dissi piano, ammiccando loro: «_a più tardi_» e loro giù in fretta per le scale. Seppi poi, molto tempo dopo, che li accolse mio fratello Enrico, il quale sapeva dove tenevo nascosti gli scontrini e la _Cassa_, e che pensò lui a tutto. All’appartamento che occupavamo allora si accedeva anche da una scaletta di servizio, e nella casa c’eran due corti, una che metteva nella via Cerva e l’altra nella via Monforte. La Polizia era venuta da via Cerva. Ora, mentre passeggiavo per le stanze, e scambiavo colla massima indifferenza alcune chiacchiere colle guardie, mi decisi pel mio piano, ch’era di svignarmela prima che arrivasse il secondo Commissario. E, detto fatto, approfittando d’un istante di distrazione delle guardie, passai di soppiatto da un uscio a muro in una stanza attigua, presi la scaletta, scesi in fretta nella seconda corte, apersi lo sportello del portone di cui poco prima avevo preso la chiave, e in un attimo fui in via Monforte. Albeggiava; le strade erano ancora deserte, e io potei principiare la mia ritirata con una certa velocità, senza destar sospetti, perchè non incontrai anima viva. E ora dove vado? Fu questo il mio primo pensiero, dopo aver fatto un paio di strade, mentre rallentavo il passo per riavere il fiato. Dove vado? Andrò, pensai, in casa di qualche amico dove potrò provvedere ai casi miei. Mi diressi, di buon passo s’intende, verso la casa dell’amico Costantino Garavaglia; e giuntovi, trovai sul portone il portinaio smorto, allibito. Mi conosceva, e fattosi vicino mi disse piano: «Il signor Garavaglia è stato arrestato, l’hanno condotto via mezz’ora fa.» Mi diressi allora verso casa Carcano, e fu la stessa scena. «Quelli della Polizia son venuti a prendere don Costanzo questa notte,» mi disse tremando il portinaio; «ha ben cercato lui di svignarsela, ma l’hanno ripreso.» E ora dove vado? dissi ancora tra me. Faccio pochi passi, ed ecco il servitore di casa Dandolo che mi disse d’essere in giro per ordine della contessa, per avvisare i Carcano, me ed altri, che nella notte la Polizia era andata in casa Dandolo a fare un perquisizione, arrestando poi il moro Latif. Latif era un giovane negro, che Emilio Dandolo aveva condotto con sè dal suo viaggio in Egitto. La Polizia lo aveva arrestato sperando di sapere da lui come fosse avvenuta, in casa Dandolo, la _cospirazione_ del funerale, e quali fossero i _cospiratori_. Ma il povero moretto, come vedremo più innanzi, rimase in prigione qualche tempo quasi senza aprir bocca, rispondendo a monosillabi: sapeva qualche parola di milanese, e ad ogni domanda rispondeva: _mi soo nient_. Il poveretto morì poco tempo dopo, etico anche lui come il suo padrone, a cui era grandemente affezionato. Al servitore di casa Dandolo diedi quelle poche notizie che ho qui riferite; lo incaricai di salutare la contessa, e di dirle che speravo di non lasciarmi acchiappare. Mi venne intanto il pensiero di andare, per strade un po’ fuor di mano, dalla contessa Maffei, sicuro che vi avrei trovato tutti quegli aiuti che mi potevano occorrere. Più tardi seppi che in quella notte la Polizia aveva fatti altri arresti, ed altri ne ordinò poi tra le persone che credeva complici della dimostrazione pel Dandolo. Tra questi c’erano il marchese Luigi e la marchesa Carolina Crivelli, e il marchese Lodovico Trotti, che fuggirono in Piemonte. La contessa Maffei, che feci svegliare dalla cameriera, mi ricevette subito, immaginandosi che ci fosse qualche cosa d’importante se venivo a quell’ora. In poche parole le raccontai l’accaduto, ed essa pensò di far chiamare subito il Tenca. Mentre la contessa si vestiva, e il servitore andava a chiamare il Tenca, mi ricordai ch’ero uscito di casa senza un soldo in tasca, circostanza sfavorevole per chi si prepara a una fuga. La contessa, lì per lì, non ne aveva molti. A pochi passi, cioè alla Croce Rossa, abitava donna Laura Scaccabarozzi d’Adda, che avrebbe potuto supplire, e in due salti fui da lei. Mi ricevette, e mi diede quanto mi poteva largamente abbisognare, poi si assunse di far avvisare Emilio, e di andare da mia madre per dirle quanto era avvenuto, appena mi sapesse fuori dalla città. Ritornato dalla contessa vi trovai il Tenca, il quale andò a chiamare un comune amico, l’ingegnere Achille Villa, che aveva cavalli e carrozze. In meno di mezz’ora il Villa fu alla porta di casa Maffei con un legnetto e un buon cavallo. Partii con lui, di gran trotto, e uscimmo da Porta Nuova senza che le guardie si occupassero di noi, in mezzo all’andirivieni dei carri e delle carrette che a quell’ora entrano in città. Strada facendo il Villa mi disse che m’avrebbe condotto in una cascina, a due miglia dalla città, ove abitava un tale, di cui non rammento più il nome; mi diede il suo biglietto da visita, con cui dovevo presentarmi, e quel tale si sarebbe incarico di mandarmi al di là del Ticino. Si giunge alla cascina, ci salutiamo, e in un attimo il legnetto e l’ingegnere scomparvero. Eccomi dunque solo, nella vasta corte d’un cascinale, dinanzi a un cane che abbaiava, e a un branco di oche che scappavano. Ma poco dopo mi venne incontro anche un uomo, un cavallaro. — «C’è il signor...» gli domandai subito. — «Il signor...? mio padrone non c’è. È andato ieri a Milano, e per alcuni giorni non tornerà.» Ciò detto il mio cavallaro mi voltò le spalle e se ne andò in una stalla. Si incomincia male, pensai tra me. E ora che cosa si fa?... Darò una buona mancia al cavallaro e lo manderò a Milano con un biglietto per l’ingegnere Villa raccontandogli il mio contrattempo. — «Ehi, buon uomo» dissi al cavallaro entrando nella stalla, «vorrei domandarvi un favore.» Il cavallaro mi fissò con una cert’aria scrutatrice, poi mi disse sottovoce: «Lei sarebbe per caso uno di quei giovanotti che vanno via... che vanno per di là?» e fece un gesto nella direzione dell’occidente, ossia verso il Ticino. — «Precisamente» risposi. — «Allora, quand’è così, aspetti un momento; attacco un legnetto, e si parte subito. Eh, ne ho condotti in questi giorni, de’ giovanotti che vanno ad arruolarsi!» — «Vedo che siete un brav’uomo.» Poco dopo ero nel legnetto, che s’avviò per strade comunali, e fuor di mano, evitando le strade principali ch’erano percorse da pattuglie. Il cavallaro-cocchiere mi disse che m’avrebbe condotto a un paesello, di cui non ricordo il nome, ove avrei trovato un altro legnetto per proseguire. Così viaggiai fin quasi a sera, mutando tre volte il vetturale, il legno e il cavallo, somministratimi da persone che non conoscevo, senza spiegazioni, come cosa intesa, e andando sempre per stradette tortuose e fuor di mano. Che brava gente! Sull’imbrunire, l’ultimo dei miei vetturali prese a dirmi: «Vede quel paese? È Lonato Pozzuolo. È là che la conduco, e ci siamo.» Poi interrompendosi di botto, m’indicò poco distanti certe punte di elmi che luccicavano — allora i gendarmi avevano gli elmi alla prussiana — e mi disse sotto voce: «I gendarmi! scenda subito, passi la siepe, attraversi in fretta quel campicello... vedrà in principio del paese una vecchia casa... ci entri.» Così dicendo, voltò il legnetto; io scesi, attraversai la siepe, e via tutt’e due, uno da una parte, uno dall’altra. In pochi minuti giunsi alla vecchia casa, e entrai in un portone. — «Chi è là? Chi cerca?» mi chiese una vecchia fantesca facendosi innanzi. — «C’è il padrone di casa?» risposi franco come se lo conoscessi. — «Entri per quell’uscio in cucina, e ve lo troverà.» Seduto sotto la cappa d’un gran camino, attizzando colle molle le legna, e fumando la pipa, se ne stava un ometto sulla cinquantina, che vedendomi mi squadrò, si alzò, e mi venne incontro. — «Con chi ho il piacere di parlare?» mi disse con un fare bonario che ispirava confidenza. — «Con uno» gli risposi «che viene a domandare ospitalità.» Il mio ospite mi squadrò ancora, e diede una occhiata interrogativa al mio cappello. Bisogna sapere che nel fuggire di casa, quella mattina, nella fretta m’ero messo in testa un cappello a tuba. Quel cappello aveva più volte attirato lo sguardo curioso e un poco sospettoso dei miei vetturali e di quanti incontravo per le stradette di campagna. — «Io sono» presi a dire, «un giovane che vorrebbe andare di là...» e feci quel tal gesto colla mano e col braccio. «Ma c’è di più; la Polizia questa mattina è venuta per arrestarmi, e son fuggito da Milano. Ora poi, poco fa, una pattuglia di gendarmi potrebbe avermi veduto, mentre attraversavo una siepe e me la davo a gambe...» — «Ha fatto bene a dirmelo; vado a chiudere il portone, e allora non ci pensi più, lei è al sicuro.» — «Eccomi da lei» continuò poco dopo, ritornando in cucina, e fregandosi le mani. «Dunque lei avrà le notizie di Milano....» — «Innanzi tutto le dirò chi sono...» e andavo cercando nel portafogli un biglietto da visita. — «Non importa, non importa. Volevano arrestarla? Basta così. Siamo tutti patriotti, e viva l’Italia!» È così che si parlava allora. Io non sapevo chi fosse lui, egli non sapeva chi fossi io; ma un sentimento reciproco di fiducia, una speranza, una fede comune ci legava tutti; bastava che si parlasse lo stesso linguaggio, per sentirci amici, fratelli. — «Dunque a Milano grandi novità!? Si parla che ci fu un grande funerale, che ci fu una grande dimostrazione!... Mi dica, mi racconti.» — «Eh, sicuro; ci ho preso qualche parte anch’io, e forse per questo mi volevano pigliare. Se desidera delle novità, gliene porto un sacco.» — «Benone, benone. Sa che cosa faremo? Vado a chiamare due miei amici, ghiotti anche essi di notizie... un ingegnere e un prete, due bravi giovanotti a cui piace la compagnia. Lei ci racconterà le notizie, e passeremo la sera insieme. Ma, a proposito, mi dica un po’ come stiamo a appetito?» — «Benissimo,» risposi, «ho pranzato appunto ventiquattr’ore fa; poi ho sbocconcellato oggi per strada qualche pezzo di pane... e basta.» — «Peccato che lei sia capitato proprio quando avevo finito di cenare. Ma guardiamo nella credenza, forse qualcosa ci sarà.» Poco dopo, sulla tavola d’un salottino, accanto alla cucina, il mio ospite mi imbandì un mezzo piccione, del salame e del cacio; poi uscì a chiamare i suoi due amici. Prima che il padrone tornasse, la serva aveva collocato sulla tavola quattro bicchieri e sei bottiglie! Ciò, evidentemente, doveva far parte, oltre i discorsi, del programma della serata. L’ingegnere e il prete, che vennero poco dopo, erano due buoni e allegri compagni, che amavano la patria, il vino buono e la compagnia. Se ne fecero delle chiacchiere! Si continuò fino a notte inoltrata, finchè il vino, la stanchezza, i discorsi, m’ebbero rifinito. Non ne potevo più; finalmente il mio ospite, che per suo conto avrebbe continuato a chiacchierare e a bere, mi condusse in una camera ove c’era un gran letto, e datami la buona notte mi raccomandò di non uscire prima che venisse lui a prendermi. Quando venne, il sole era già alto e io dormivo placidamente ancora. Egli mi disse d’aver fatto intanto un giretto d’esplorazione nei dintorni, e d’aver osservato che il passaggio del Ticino era divenuto ormai quasi impossibile. Le rive del fiume erano continuamente percorse da pattuglie di ussari; i barcaiuoli, minacciati continuamente dai gendarmi, non osavano più muovere le barche; a voler passare c’era da prendersi una schioppettata. — «Però lei passerà» conchiuse il mio ospite. «Ne ho fatti passare dei giovanotti!... e lei, sangue freddo, e faccia franca!» Poco distante c’era un ufficio di Dogana, con un Commissario di Polizia. Il mio ospite conosceva il Commissario, gli aveva fatto visita poco prima, e gli aveva detto ch’era arrivato l’ingegnere capo d’una ferrovia progettata, di cui si parlava in quei giorni. Io, dunque, dovevo essere l’ingegnere, venuto a visitare le vicinanze della Dogana. Eccoci dunque sulla strada che conduce all’ufficio della Dogana, ed ecco poco dopo il Commissario, che avendoci veduti mi veniva incontro a complimentarmi. In quel momento il mio cappello a tuba tornava opportunissimo, come se lo avessi preso apposta per la circostanza. — «Dunque è vero che si sta studiando il prolungamento della ferrovia a cavalli di Tornavento?» mi chiese il Commissario. — «Si studia, si studia,» risposi col fare circospetto di chi non vuol entrare in particolari. Il Commissario amava discorrere, ed era molto ossequioso; io serbavo un contegno pieno di dignità. — «Dicevo questa mattina al signor Ernesto, venuto gentilmente a salutarmi,» prese a dire il Commissario, «che sarebbe questa una bella occasione per me, se potessi impiegare mio figlio nella Società, di cui sento ch’ella è l’Ispettore... Non avrei osato raccomandarglielo, ma... il signor Ernesto Tirinanzi mi ha fatto coraggio...» Sentivo in quel momento, per la prima volta, che il mio ospite si chiamava il signor Ernesto Tirinanzi. Accolsi con _benevolenza_ la raccomandazione del Commissario; gli feci alcune interrogazioni sul figlio; e levato di tasca il portafogli presi degli appunti, incoraggiando il mio ossequioso interlocutore a mandarmi, col mezzo del signor Tirinanzi, un’istanza regolare e documentata. Mentre il Commissario si profondeva in ringraziamenti, il signor Tirinanzi gli domandò se il signor Ispettore, cioè io, avrebbe potuto portarsi per una mezz’oretta sulla riva destra del Ticino per certi studi che stavo facendo. — «Veramente,» rispose il Commissario, «in questi momenti non si potrebbe... però...» — «Oh, ma io» soggiunsi «non ho alcuna fretta... al caso, più tardi, un’altra volta...» — «No, signor ingegnere, cioè signor Ispettore, se vuol portarsi sull’altra riva, per darci un’occhiata, è meglio che ci vada subito, intanto che non ci sono i soldati. Lasci fare a me, signor ispettore...» e chiamò quattro guardie di finanza. Poco dopo, colle guardie e col signor Tirinanzi, entrai in una barca della finanza; il Commissario si scusò di non poterci accompagnare, per non abbandonare il posto; e in pochi minuti toccammo la sponda piemontese. Così io potei compiere la mia fuga, attraversando il Ticino sotto la scorta delle guardie di finanza. Fattici i reciproci complimenti per aver bene rappresentata la nostra commedia, dissi al signor Tirinanzi: «Io sono al sicuro, ma lei deve tornare a casa... come l’accomoderà col Commissario?» — «Il Commissario capirà che l’ho canzonato, ma gli converrà di tacere. Ora, lei dovrà andare a Oleggio, poi a Novara, ove prenderà la strada ferrata per Torino. Bisognerà però che fino a Oleggio l’accompagni io, diversamente traverso le boscaglie c’è da perdere la strada.» Si andò insieme a piedi a Oleggio, poi da Novara mandai subito un telegramma a Milano per tranquillare mia madre e mio fratello Enrico. A Oleggio salutai, abbracciandolo, il signor Tirinanzi, e cercai alla meglio di esprimergli tutta la mia riconoscenza. Ci scrivemmo di tanto in tanto per parecchi anni, e ci vedemmo pure qualche volta. Di lui rammenterò sempre la cordialità con cui mi ospitò, e il sentimento patriottico con cui protesse me, che gli ero sconosciuto, come se fossi un suo figlio. NOTA. [33] Tra gli amici intimi che avevano in passato fatte liete le serate di casa Dandolo, e che ora circondavano il povero amico che si spegneva, rammento, oltre al dottor Signoroni, i fratelli Mancini, i Carcano e i Caccianino; l’ingegnere Pirovano, Alfredo Ulrich, Costantino Garavaglia, il conte Ignazio Lana, Ignazio Crivelli, il marchese e la marchesa Crivelli, il pittore Chialiva, le famiglie Piola e Fontana. CAPITOLO XXVII. 1859. II. _Sommario:_ Arrivato a Torino vi trovo mio fratello Emilio giunto quel giorno stesso. — Le circostanze che accompagnarono la sua fuga da Milano. — Una lettera di G. B. Guy. — I volontari. — La Commissione d’arrolamento e le scuole militari preparatorie. — Giuseppe Massari. — Casa Arese e casa Correnti. — Sirtori. — Il processo, a Milano, per la dimostrazione del funerale Dandolo. — L’interrogatorio della contessa Ermellina Dandolo. — Un’udienza del Conte di Cavour. — Formazione dei Cacciatori delle Alpi. — Le vie di Torino affollate da cittadini che venivano da ogni parte d’Italia. — Voci dubbiose o sconfortanti che vengono tratto tratto da Parigi. — Ansietà pubblica, e fede in Cavour. — L’arrivo dei plenipotenziari austriaci che intimano il disarmo: rifiuto del Governo Piemontese. — La seduta della Camera dei deputati in cui Cavour chiede i pieni poteri. — La dichiarazione di guerra, il proclama del Re all’esercito. — Napoleone interrompe le relazioni coll’Austria. — Il Mezzacapo destinato a prendere il comando delle forze insurrezionali in Romagna arruola alcuni giovani da condur seco, nel cui novero sono accolto io pure. — Cavour nomina una Commissione consultiva di lombardi per predisporre i primi decreti amministrativi con cui iniziare il nuovo Governo in Lombardia, e sono chiamato anch’io a prendervi parte. — L’arrivo dei primi soldati francesi e il duca di Chartres. — Accoglienza entusiastica alle truppe francesi nelle vie di Torino. — L’addio di Carlo De Cristoforis. Da Novara a Torino mi trovai in vagone con parecchi giovani, che avevano da poco passata la frontiera, e che tutti narravano le loro peripezie di quella mattina, o del giorno innanzi. Cantavano come coscritti, e il _dagliela avanti un passo_ era il ritornello comune. Tra quei giovani c’era un bergamasco, il Caroli, allegro e chiassoso più di tutti. Povero giovane! chi gli avrebbe allora predette le terribili vicende a cui era destinato! Dopo la campagna, implicato in una questione delicata con Garibaldi e perciò mal veduto dai garibaldini, andò in Polonia col Nullo; prese parte all’insurrezione, fu fatto prigioniero, e condannato alla fucilazione. Il nostro ambasciatore, Pepoli, gli salvò la vita; ma il Caroli fu deportato in Siberia, ove poco dopo morì. Tra i canti e l’allegria si giunse sul far della sera a Torino. Scesi all’albergo _Europa_, ove la fortuna volle che trovassi anche mio fratello Emilio, arrivatoci quella stessa mattina. Ci raccontammo le nostre avventure, lieti d’essere giunti felicemente alla _Mecca_, come si diceva allora, e senza il menomo timore che quello potesse essere il primo giorno d’un esilio; tanta era in noi, come in tutti, la fede che presto casa nostra sarebbe stata libera per sempre. Quali erano state le peripezie di mio fratello Emilio, dopo che ci eravamo salutati al caffè Cova? Come mai era riuscito a lasciar Milano e a giungere a Torino? Emilio era stato aiutato da un amico, G. B. Guy, al quale, mentre scrivevo questi ricordi, mi rivolsi per farmi ripetere i particolari della fuga di Emilio, temendo dopo tanti anni di averne scordati parecchi. Ecco ciò che l’amico Guy mi rispose: «_Mio buon amico_, «Poichè me ne mostri il desiderio, eccoti quanto raccolgo da alcune note, e da quanto ritrovo nella mia memoria. «Nel 1859 io abitavo nella via Rovello, in casa Cagnola. Il 26 febbraio, fui interpellato dal mio padrone di casa, Battista Cagnola, il quale sapeva ch’io avevo una villa e un podere presso Belgiojoso, se mi sentivo in grado di condurre in salvo un _pesce grosso_. «Presi consiglio da mio padre e da mio zio, vecchi ed esperti cacciatori delle boscaglie del Po; risposi che me ne assumevo l’incarico, e diedi parola di far tutto il possibile di riuscire. «Allora mi si disse il nome del _pesce grosso_, ed ebbi la compiacenza di udire il nome di Emilio, mio amico, come sai, e già mio compagno di scuola, quando si andava allo stabilimento Boselli. Misi per condizione che mi si fornissero i cavalli e la carrozza, per non dare nell’occhio coll’usato _equipaggio_ del mio fittabile noto _urbi et pago_. «Il 27 si partì alle 4 pom. Si giunse a notte, dopo trenta chilometri di strada, a Filighera, a casa mia, chiamata, in luogo, il _Palazzo_, con sorpresa, e bocche aperte, della famiglia del custode. «Condussi Emilio nella camera terrena, la più lontana dall’entrata; e, snocciolata al custode la frottola predisposta per uso del paese, feci preparare quel po’ di _pappatoria_ che a quell’ora si poteva racimolare in un povero paesello. Per conto mio posso dire che più che il timore patii il digiuno. Poi andai subito a Belgiojoso, che dista un chilometro. Mi recai dai fratelli Strambio, già capitani garibaldini, e miei commilitoni a Roma nel 1849 al _Vascello_, e chiesi loro il modo più sicuro per contrabbandare l’amico. Essi mi dissero che la faccenda era seria assai, perchè i Croati del così detto _Cordone militare_ avevano la consegna di tirar fucilate su tutti i battelli che tentassero la traversata del Po. Il solo ripiego che poteva offrirsi era quello di tentare il tragitto, nascosto sotto un carico di fascine che dai boschi del Po venivano giornalmente recate alla sponda piemontese. «La proposta non m’andava. Emilio non era gran che robusto, ed era miope per giunta. «Dopo altre proposte, le più disparate, si concluse che era meglio tentare la via diretta. «In onta ai rigori austriaci, gli scambi di vino, di legna, e del così detto _parmigiano_, erano continui tra le due sponde. «La mattina del 28 febbraio, saliti io ed Emilio su una vecchia carrettella da caccia, ci avviammo, per Belgiojoso e Sostegno verso il Po. Giunti alla piarda, ch’è la discesa dall’argine al fiume, un caporale croato ci si fece vicino e ci domandò dove andavamo. — _Noi star mercanti, risposi, vendere formaggio mercato Stradella, tornare stassera._ — Il caporale ci volse le spalle. Fu un terno al lotto! L’ufficiale di picchetto non si volle scomodare. Le chiatte per tragittare erano alla sponda opposta; lasciato il legnetto stemmo ad aspettare. A un tratto si sente da lontano un rombo del cannone. Che cos’è? Che mai sarà?... Emilio salta in piedi, ed esclama: «Tuona il cannone a Milano, e io devo fuggire? Ah, io ritorno! «Non è possibile che qui s’oda il cannone di Milano» rispondo io. Ma lui insisteva; alla fine dissi risolutamente. «Ho data la mia parola, io devo condurti, ad ogni costo a Stradella. Di là potrai ritornare se ti garberà.» «Ma Emilio fremeva. Per buona sorte capitò un boscaiolo che, interrogato, ci disse ch’era il cannone di Piacenza ove ogni giorno c’eran degli esercizi di tiro. «Giunta la chiatta, vi salimmo, e toccata la sponda opposta, mezz’ora dopo eravamo a Stradella. «Giubilante per la buona riuscita, baciai l’amico. Non dovevo rivederlo che alla fine di maggio, a Como, dopo la giornata di San Fermo, quand’ero nei Cacciatori delle Alpi. «Rifeci la strada senza fastidii; rividi lo stesso caporale, che forse pensava alla sua Croazia, e intanto non mi chiese conto dell’altro mercante. «A sera tarda, appena giunto a Milano, mi presentai a tua madre, quell’ottima Signora che io avevo conosciuto da giovanetto, e le dissi soltanto: «Emilio alle tre partiva per Torino!» «Essa, poveretta, mi strinse tra le braccia, e mi baciò! «Amichevolmente ti saluta il tuo «B. GUY.» Torino in quei giorni presentava un’insolita animazione. Sotto i portici si udivano già tutti i dialetti d’Italia. I dialetti lombardi spiccavano chiassosamente, ed era un continuo rallegrarsi tra comitive di giovani, che incontrandosi si raccontavano le vicende delle loro fughe e del loro arrivo in Piemonte. Già si vedevano molti di questi giovani girare impettiti e gloriosi nella loro uniforme di soldato semplice. In poco più d’una decina di giorni rividi quasi tutti i miei amici di Milano, e le persone più note della società milanese. Nelle vie di Torino si incontravano in quei giorni i rappresentanti delle più illustri famiglie di Lombardia e del Veneto, venuti a chiedere il loro posto d’onore nelle file dell’esercito piemontese. Quelli che vi avevano servito nel 1848 e nel 1849 riebbero facilmente i loro gradi; i nuovi entravano come semplici soldati nella cavalleria o nei corpi da essi indicati; altri, erano arrolati nelle compagnie di volontarii che venivano a mano a mano formate; le prime furono quelle chiamate i _Cacciatori delle Alpi_, di cui ebbe il comando Garibaldi. Della loro prima formazione fu incaricato il generale Cialdini, e Cosenz ebbe il comando, quale colonnello, del primo deposito che se ne fece a Cuneo. L’affluenza dei volontari aumentava ogni giorno: era un torrente; e nello spazio di poco più d’un mese ne accorsero in Piemonte come dicemmo, circa dieci mila. Il Governo aveva istituita una Commissione di arrolamento, incaricata d’accogliere tutti questi giovani, vagliandoli e mandandoli, a seconda dei casi, nei corpi dell’esercito regolare, o nelle compagnie dei volontari. La Commissione era composta di militari, di qualche cittadino torinese e di qualche lombardo. Tra questi ci fui anch’io[34]. Pei giovani laureati, o che avevano diplomi e titoli equivalenti, fu istituita a Ivrea una scuola preparatoria per farne in breve degli ufficiali. Feci anch’io subito la mia domanda per esservi ammesso; fui dichiarato abile, e in attesa d’eeser chiamato, mi misi a studiare i regolamenti militari. Rammento che quando, tutto giulivo, informai mio fratello Emilio della mia determinazione, egli se ne congratulò con me, e mi abbracciò cogli occhi pieni di lacrime. Ma, presto, altri fatti dovevano decidere diversamente di me. In quei giorni conobbi presto un nugolo di gente, d’ogni parte della Penisola, che affluivano a Torino, ove si può dire che battesse il cuore d’Italia. Emilio mi presentò a Giuseppe Massari, che alla sua volta conosceva tutti, ed era una fonte copiosa e sicura di notizie, di cui saziava in confidenza gli amici. Il Massari vedeva di frequente Cavour, il quale in alcune occasioni si serviva di lui; era pure amico di alcuni ministri, e di parecchi ch’erano nella loro intimità: dunque, per le notizie, era un uomo prezioso, e nei momenti di ansietà, di dubbî e di notizie contradditorie, si correva da lui. Passavo le sere di solito nei caffè, ove mi trovavo con gli amici emigrati, e passavo anche frequentemente qualche ora in casa Arese, o in casa del Correnti. Avevo conosciuto allora il conte Francesco Arese, emigrato del 1848, e diventammo amici. Presso di lui si radunava lo Stato Maggiore, direi, dell’emigrazione e i principali uomini politici, senatori e deputati, del Piemonte: la conversazione in casa Arese aveva un tono altamente patriottico sempre, ma circospetta nell’accogliere le notizie, e nel fare troppo a fidanza colle nostre fantasie. L’Arese a cui tanto deve la causa d’Italia, conosceva meglio di noi tutti le difficoltà in mezzo alle quali doveva procedere Napoleone, che nella questione italiana era sospettato in Europa e isolato in Francia. Più in accordo coll’intonazione entusiastica e speranzosa di noi emigrati, era la conversazione in casa Correnti. Là si riunivano dei giovani, e dei vecchi _quarantottisti_, emigrati nuovi ed emigrati d’un tempo, _albertisti_ del quarantotto, e mazziniani convertiti. A mano a mano vi capitavano parecchi dell’emigrazione di Parigi, che venivano essi pure a Torino, convinti ch’era il Cavour ormai che conduceva la politica europea. In quei giorni conobbi molti tra i più valorosi nelle campagne del 1848 e 49, che venivano dall’estero e da ogni parte d’Italia a riprendere i loro posti militari nei corpi dei volontari. Conobbi il Sirtori. Le speranze d’Italia, che ogni giorno si facevano più incalzanti, più sicure, avevano ridata alla mente di lui la calma, l’equilibrio, la lucidità. Il patriottismo e l’onestà della coscienza avevano mutata in lui l’antica fede politica; l’ardente repubblicano altamente proclamava che l’Italia doveva ormai riporre la sua fede nella monarchia, in Vittorio Emanuele e Napoleone. A differenza d’altri capi militari del _quarantotto_, egli non volle subito entrare nei corpi volontari; poichè a quel tempo, non so per quali motivi, egli non era in buon accordo con Garibaldi, e lo diceva apertamente: più tardi si rappattumò con lui, e partì coi _Mille_. Il suo aspetto, i suoi modi, la sua voce, mi colpirono subito grandemente: alto, magro, coi capelli lunghi alla nazzarena, modesto, gentile, con l’aria inspirata, quando parlava pareva un missionario. Di lui si narravano con ammirazione le prove di valore date durante l’assedio di Venezia; si parlava dell’altezza del suo carattere e della purità de’ suoi costumi. Sebbene avesse abbandonato il sacerdozio, conservava illibati i suoi voti sacerdotali; e tale fu, anche in seguito, la regola della sua vita. In quell’atmosfera d’entusiasmo, di tanto in tanto soffiava qualche brezza fredda di dubbî o di scoraggiamenti, che diffondevano ad intervalli il malumore e l’ansietà: erano note di governi, articoli di giornali forestieri, o notizie private che circolavano, e ch’eran l’eco dell’ostilità delle Potenze, o dell’avversione della Francia stessa per una guerra in favore dell’Italia. Cavour conosceva meglio di tutti in quali acque perigliose navigasse, ma procedeva impavido nel suo lavoro di preparazione, come se già tenesse in mano la vittoria. Si andava a vederlo quando usciva dal Parlamento; la folla si apriva dinanzi a lui, e tutti lo salutavano. Egli rispondeva ilare, e con una fregatina di mano. La gente cercava di scrutare le notizie su quel suo faccione sereno e fine, e negli occhi che scintillavano e scrutavano alla loro volta traverso gli occhiali. Eppure in quei giorni quanta ansietà angosciosa, quanti dubbi, erano in tempesta dietro quella fronte serena! Che cosa era accaduto intanto degli amici, che erano stati arrestati quella notte in cui ero riuscito a sgattaiolare di casa? Ne erano stati arrestati quattro: Costantino Garavaglia, Costanza Carcano, il dott. Scipione Signoroni, e il moro Latif. Rimasero in prigione tre mesi, accusati di _complotto_ per la dimostrazione avvenuta in occasione del funerale del Dandolo. Il giudice istruttore del processo fu un tedesco, che chiamavasi Flük. Gli arrestati corsero per un momento un grave pencolo, poichè il Comando militare voleva che fossero condotti in Castello per essere sottoposti a un Consiglio di guerra; ma il Presidente del tribunale Lanfranchi si oppose energicamente, e ricorse a Vienna al Ministero, che gli diede ragione. Il processo fu chiuso in fretta, pochi giorni prima della battaglia di Magenta, e gli accusati vennero prosciolti per mancanza di prove. Tra i molti che furono chiamati e interrogati, durante il processo, dal giudice istruttore, ci fu pure la contessa Ermellina Dandolo. Avendole chiesto i particolari che la riguardarono nel processo, essa mi diede i seguenti appunti: «Dopo la mezzanotte del 24 febbraio venne in casa mia un tale, che non conoscevo, che poi seppi chiamarsi Meyer, e che mi disse: Avvisi il conte Ignazio Lana, i Visconti, i Carcano, i Caccianino, Garavaglia, Ulrich, Signoroni, la marchesa Carolina Crivelli, i suoi amici insomma; dica loro che questa notte saranno arrestati. Cercai alla meglio, a quell’ora tarda, di farli avvisare, ma non ci riuscii con tutti. Poi, verso l’alba, capitò il Commissario di Polizia Galimberti, a quei tempi famoso, con alcuni poliziotti; chiese di mio marito, che per fortuna era a Torino, frugò per tutta la casa, e arrestò il moretto Latiff. «Durante la perquisizione potei distruggere un plico di carte, affidatemi dal povero Emilio, e che tenevo nascoste. Quella mattina stessa mi recai al Tribunale criminale, accompagnatavi da Carlo d’Adda, per chieder conto del mio buon moretto Latif. Fui ricevuta da un consigliere, che chiamavasi Flük, e che mi condusse a vedere il Latif traverso una grossa inferiata d’una gran prigione. Gli feci coraggio, e lo raccomandai caldamente al consigliere perchè, almeno, non lo lasciassero mancar di nulla. «Il giorno dopo fui chiamata al Criminale, e sottoposta dal Flük a un lungo interrogatorio, sul funerale, e sulla corona. Negai tutto ciò che potevo negare. — E ora dove è questa corona — mi chiese il consigliere. — La raccolsi io nella fossa, la nascosi sotto il mantello, e la tengo in casa come una sacra memoria. «— Signora, lei mi consegnerà quella corona. «— E io non ve la voglio dare! — «— Ebbene, gliela renderemo dopo il processo. Ma siccome lei intanto deve rimaner qui, scriva un biglietto a casa, e mando a prenderla. — «Poco dopo la corona era sulla scrivania del consigliere. Allora cominciò una discussione comica sul colore delle camelie. «— _Bianche, rosse e verdi_, diceva il consigliere. «— Scusi son gialle! — Infatti le bianche erano ingiallite, essendo state sottoterra. «— Delle camelie gialle non ne conosco, insisteva il consigliere. «— Ci son queste — replicavo io. «— Ebbene, scriva _camelie gialle_! — disse alla fine il consigliere, rivolgendosi allo scrivano, impazientito. «Il giorno dopo ci fu una nuova chiamata per me e per mio marito. «— E suo marito? — «Mio marito è a Torino, andatoci per assistere a un funerale pel mio povero Emilio, promosso da Cavour. «— Lo sappiamo... Ma non sa lei, signora contessa, ch’io potrei farla mettere in prigione! — «— So che loro possono fare quello che vogliono, ma non temo i fuochi di paglia! — «— Basta così. Sia prudente, signora — conchiuse sorridendo il consigliere, il quale doveva essere un buon uomo. Poi mi ingiunse di non lasciar Milano; pochi giorni dopo mi permise di andare in Svizzera a vedere mia madre ch’era ammalata, e mi rimandò a casa il moretto. Il quale era stato lui pure sottoposto parecchi interrogatori, ma non gliene avevano cavato nulla. O non apriva bocca, o tutt’al più rispondeva al giudice tedesco: _Mi so nient_. Molte altre persone, amici nostri, erano state chiamate e interrogate, inutilmente. La corona era rimasta appesa in un armadio del consigliere, il quale presto lasciava Milano. Dopo la battaglia di Magenta ricevetti a casa la corona con un biglietto, senza firma, che diceva: _Mi son permesso di levarne due foglie che conserverò per memoria di quell’avvenimento_. Ora la corona si trova al Museo del Risorgimento, insieme ai ritratti alle uniformi dei miei cari, Emilio ed Enrico. «ERMELLINA DANDOLO.» Ora riprendo il filo della mia narrazione, e ritorno a Torino. Un giorno, nella seconda metà di marzo, chiesi un’udienza al conte di Cavour per non so quale incarico della Commissione d’arrolamento. In quei momenti, di tutto ciò che riguardava i volontari egli si occupava direttamente. L’udienza mi fu fissata pel giorno seguente alle cinque del mattino. Cavour, vegliando, o riposando, passava allora tutte le notti al Ministero. Un usciere mi condusse in una sala d’aspetto, semibuia, e osservai che in un angolo se ne stava uno con un gran cappellaccio tirato sugli occhi, e ravvolto in un mantello. Poco dopo venne un cameriere, e direttosi subito all’uomo del cappellaccio, lo condusse nel gabinetto del ministro. Ci stette quasi una mezz’ora, e quando ne uscì il cameriere mi disse piano e in tono misterioso: «È Garibaldi!» Di solito Cavour riceveva Garibaldi in casa sua. Alcuni giorni dopo, cioè il 17 marzo, un decreto istituiva il corpo dei volontari, chiamato i _Cacciatori delle Alpi_. Dieci giorni dopo veniva formato a Savigliano un secondo _deposito_ di volontari sotto il comando di Giacomo Medici col grado di tenente colonnello; e il 7 aprile se ne formava un terzo comandato dal tenente colonnello N. Arduino. Il 27 aprile, Garibaldi fu nominato maggior generale, e prese il comando dei Cacciatori delle Alpi. Il movimento, la vita di Torino, andavano crescendo sempre più; ed era veramente uno spettacolo che sorprendeva ed entusiasmava vedere quella folla mossa da un medesimo pensiero, animata da una medesima speranza. I discorsi di tutti erano su per giù eguali: nessuno dubitava; tutti erano animati da un sentimento di serietà, di concordia e di disciplina che meravigliava, tanto più quelli che ricordavano il _quarantotto_. I piemontesi accoglievano con fraterna ospitalità quanti venivano dalle altre provincie italiane, ed attendevano calmi, e con l’animo saldo, gli avvenimenti che si preparavano, e di cui essi avrebbero dovuto sostenere il primo urto e il peso più forte. Nelle vie di Torino si faceva in quei giorni l’unità morale d’Italia, e gli italiani parevano fatti maturi dalle passate sventure. I pochi ch’erano addentro alle cose secrete, e qualche volta lo fui di riverbero un pochino anch’io, si trovavano in certi momenti un po’ turbati nella loro sicurezza, e nella loro felicità. A momenti, mentre il Cavour spingeva, Napoleone rallentava. In cuor suo Napoleone voleva risolutamente la guerra, ma da ogni parte era sconsigliato e trattenuto. Le pubblicazioni diplomatiche avvenute più tardi hanno dimostrato quali ostacoli e quante opposizioni gli venivano dai Ministri, dai Corpi ufficiali, dalla pubblica opinione di quasi tutta la Francia, e come l’isolamento ostile in cui era lasciato da tutta l’Europa lo trattenesse in quei giorni. Il Massari mi disse un giorno: «Napoleone ha voluto col mezzo della Gendarmeria conoscere quale sia in tutta la Francia l’opinione del pubblico, sulla eventualità d’una guerra contro l’Austria: ebbene... non ci fu neppure un solo rapporto favorevole; si accennava a simpatie per l’Italia, ma tutti erano contrari alla guerra.» Il Massari aveva saputo ciò da Cavour, il quale passava intanto dei giorni di febbre e di angoscia; ma nulla mai traspariva dal suo linguaggio e dal suo volto, fuorchè nell’intimità di pochissimi. Con questi alle volte manifestava i suoi timori, e aveva degli sfoghi impetuosi: «Camminerò colla Francia e colla diplomazia fin che potrò! — esclamava un giorno — ma poi metterò il fuoco in ogni angolo d’Italia, in Ungheria, dappertutto! e allora la guerra ci sarà! Intanto, anche nei momenti più dubbiosi e sconfortati, Cavour non si arrestava nel suo lavoro palese e secreto, e infondeva in tutti quell’attività, quell’audacia, quella fiducia ch’erano in lui. Talchè, quando correva qualche voce, che non tutto fosse color di rosa dietro le scene, o quando dall’estero, e sopratutto da Parigi, arrivavano informazioni autorevoli poco buone, nessuno si scoraggiava, tanta era la fiducia in colui che allora capitanava ogni cosa. Rammento che in quel giorni il Massari mi condusse al Ministero degli Esteri, dovendo dare non so quale risposta a Cavour. Trovammo in un’antisala l’Artom, ch’era il segretario particolare di Cavour, con lui si diede una capatina nel gabinetto del ministro. Si entrò un momento, perchè erano attese altre persone, e si fece qualche osservazione sulla piccolezza del gabinetto. «Eppure è di qui,» saltò su Cavour, ch’era nel gabinetto, sorridendo e fregandosi le mani, «è di qui che si fa muovere l’Europa!» Ed era vero. Non è mio compito ricordare in questi cenni ciò che intanto si andava svolgendo nei gabinetti dei Governi europei, e ciò che avveniva dietro le scene. Lo saprete, nipoti miei, dalla storia e dai copiosi documenti che vengono via via già in luce, e che narrano ampiamente i fatti di allora. Io non ero, e non sono, che un modesto cittadino, che ho vedute alcune cose dalla platea, e le racconto. La notizia del Congresso proposto dall’Inghilterra era vera, ed era vero che Napoleone l’aveva accettato e che un suo telegramma a Cavour aveva detto: _accettate_. Più tardi fu noto che Napoleone aveva saputo, che nei Consigli dell’Impero d’Austria, all’ultima ora, era stata decisa la guerra. Era stato in quel punto che Napoleone aveva risoluto d’accettare la proposta dell’Inghilterra e aveva telegrafato a Cavour di fare altrettanto perchè sull’Austria pesasse in faccia all’Europa la responsabilità della guerra; era nei calcoli, e nelle necessità, di Napoleone, che l’iniziativa della guerra venisse dall’Austria. Ricordo che una mattina si parlò con grande sgomento di Congresso e di disarmo; ma nessuno ci credeva. Finalmente a rompere gli indugi ci pensò l’Austria. Quanto non ha contribuito l’Austria a ridarci l’indipendenza dopo avercela tolta! A un tratto corse la voce che il Ministero imperiale mandava al Governo del Re un _ultimatum_ chiedente il disarmo. A conferma di quella voce, Cavour il giorno 23 aprile convocava il Parlamento per esporre gli avvenimenti e per chiedere i _pieni poteri_, prima che arrivassero i due invitati austriaci; i quali erano il barone Kellesperg, vice presidente della Luogotenenza austriaca, e il conte Ceschi di Santa Croce. In principio della seduta giunse a Cavour un dispaccio che gli annunziava la partenza da Milano dei due inviati austriaci. Io ebbi la fortuna di poter assistere a quella memorabile seduta, che ancora dopo tanti anni, se ci ripenso, mi risuscita nell’animo tutta la commozione di quell’ora. Cavour, raggiante e colla calma del trionfatore, disse delle ultime trattative colle grandi potenze per un Congresso e pel disarmo; espose l’attitudine dell’Austria, e chiese i _pieni poteri_. I deputati si riunirono subito negli uffici; elessero la Commissione e il relatore della legge, che fu l’avv. Chiaves, e rientrarono nell’aula due ore dopo, con la Commissione che proponeva unanime l’approvazione della proposta. Fu un’acclamazione generale; tutti i deputati sorsero in piedi, nell’attitudine solenne di gente forte e risoluta; il pubblico dalle tribune acclamava, sventolava i fazzoletti, si gridava, si piangeva; era un delirio, una febbre. Cavour, avvisato che gli inviati austriaci erano giunti, uscì subito dall’aula. A un amico che incontrò, disse: «Esco dall’ultima riunione della Camera piemontese; la prossima riunione sarà quella della Camera italiana.» E si recò al Ministero, ove poco dopo giungevano gli inviati condotti dal conte Brassier de Saint-Simon, ministro di Prussia. Essi recavano una lettera del ministro Buol. Era l’_ultimatum_ dell’Austria; era quell’ingiunzione del disarmo che Cavour, colla fatidica intuizione del genio, aveva presagita dieci mesi prima, parlando col conte Cesare Giulini. Tre giorni dopo Cavour consegnava agli inviati austriaci la risposta pel ministro Buol, colla quale veniva respinta l’intimazione; il giorno 29 Vittorio Emanuele dirigeva al suo popolo e al suo esercito un nobile e vigoroso proclama col quale annunziava la guerra; e subito dopo Napoleone rompeva le relazioni coll’Austria. In mezzo a tanta commozione, in mezzo a tante notizie che si succedevano d’ora in ora, in cui le speranze si alternavano coi timori, e i sogni di fortuna e di gloria erano spesso turbati dallo spettro d’un disastro, il contegno della popolazione di Torino era veramente ammirevole. Tutti erano seri e calmi, tutti si mostravano compresi del sentimento del dovere, disciplinati e fiduciosi nel Governo e nel Re. È così che i popoli si rendono padroni della fortuna, e raggiungono alti destini: le popolazioni nervose e turbolente sono destinate alla decadenza. Una mossa d’un corpo nemico, verso Biella, lasciò supporre un giorno che gli austriaci volessero muovere rapidamente su Torino, prima che giungessero i francesi. L’esercito sardo era concentrato tra Alessandria e Casale; Torino era affidato alla sola Guardia Nazionale. Questa, volonterosa e risoluta, si preparò subito a difendere la città, e avrebbe fatto nobilmente il suo dovere, se gli austriaci, che durante quella campagna furono sempre lenti e incerti, non si fossero ricreduti presto di quella breve audacia, con cui avevano dichiarata la guerra. Il Correnti, nella cui casa avevo conosciuto tra gli altri Luigi Mezzacapo, mi accennò una sera, un po’ misteriosamente, ai progetti che aveva Cavour per far insorgere i paesi dell’Emilia, appena l’esercito nostro avesse passato il Ticino. Mi disse che il Mezzacapo era destinato a recarsi nascostamente a Bologna, ove avrebbe preso il comando di corpi volontari che dovevano prontamente formarsi. Mi soggiunse che il Mezzacapo avrebbe condotto alcuni giovani con sè, e mi chiese se volessi essere tra questi. Accettai con entusiasmo. Il giorno seguente andai da Mezzacapo, e si rimase intesi: egli partiva per Genova, ove avrei dovuto raggiungerlo più tardi dopo suo avviso: intanto dovevo ritirare la domanda che avevo fatta per essere ammesso alla scuola d’Ivrea, e dovevo darmi con maggior lena allo studio dei regolamenti militari. Quei giovani, di cui dovevo essere un commilitone, e che poi raggiunsero Mezzacapo quindici giorni dopo, seguirono quasi tutti la carriera militare; e così sarebbe avvenuto di me, per qualche tempo almeno, poichè ne avevo allora molto desiderio. Marte però non fu di questo parere: non mi volle, e così rimasi in borghese, come vedremo. Cavour aveva intanto nominata, verso la metà di maggio, una Commissione consultiva di lombardi per predisporre i primi decreti amministrativi che il Governo, entrando in Lombardia, avrebbe emanati in forza dei pieni poteri. Dovevano essere decreti provvisorî che, pur lasciando in parte l’amministrazione vigente, la mettessero in armonia cogli ordinamenti liberi del Piemonte. Fummo chiamati a far parte di questa Commissione il conte Cesare Giulini, che ne fu il presidente, Correnti, mio fratello Emilio, Allievi, il conte Oldofredi, Luigi Torelli, Enrico Guicciardi, qualche altro delle diverse provincie lombarde, ed io, che essendo il più giovane ne divenni il secretario. La Commissione si radunava ogni giorno per parecchie ore, e dopo una settimana fu in grado di presentare i suoi studi al conte di Cavour; il quale ne trasse poi quei decreti che furono pubblicati a Milano, quando Vigliani assunse il Governo della Lombardia quale Commissario generale straordinario. In quelle lunghe sedute imparavo molte cose, da chi ne sapeva più di me, ma con la febbre addosso che s’aveva in quei giorni, mi annoiavo e m’impazientivo. Per cui, appena potevo, ritornavo ai portici, ai caffè, in cerca di amici e di notizie; correvo dietro a ogni drappello di soldati o di volontari che andavano al campo per raggiungere i loro corpi, o facevo delle lunghe soste a porta Susa, aspettando che arrivasse qualche drappello francese. Non ero solo in queste mie soste a porta Susa, e tra i molti che ci vedevo ogni giorno avevo notato un giovane ufficiale di cavalleria, che pareva specialmente preoccupato e impaziente. Ma ecco finalmente un mattino, non un drappello, ma un intero reggimento. Fu un delirio; evviva ed abbracci che non finivan più. Tra la folla ancora rividi il mio giovane uffiziale, il quale, pur tenendosi un poco in disparte, guardava fissamente il reggimento francese che sfilava, e i suoi occhi erano inondati di lacrime. La sera rividi quell’uffiziale in un caffè, e seppi ch’era il duca di Chartres. Egli aveva riveduti i soldati di Francia, quel mattino, per la prima volta dopo il 24 febbraio del 1848, quando, bambino, tenuto per mano dalla madre, atterrito e ignaro, veniva con essa e il fratello condotto alla Camera dei deputati per poi andare in esilio. Dopo quel reggimento ne vennero altri ed ogni giorno c’era l’ingresso di altre truppe francesi, che la popolazione accoglieva entusiasticamente. Aveva ragione quel fantaccino che udii una volta dire a un compagno: _Veux tu des sigares, un absinthe, un grog? Crie vive l’Italie et tu auras tout ce que tu voudras_. Tra i varii amici venuti da Milano e dall’esilio, in cui m’imbattevo per le vie di Torino, m’ebbi la grata sorpresa, in quegli ultimi giorni, d’incontrare Carlo De Cristoforis. Erano sei anni che non ci vedevamo: ci eravamo stretta la mano l’ultima volta la sera del 6 febbraio 1853. Quante peripezie, quanto s’era tremato per lui! Era in uniforme di capitano dei Cacciatori delle Alpi, e mi disse ch’era venuto a Torino da poche ore per sbrigare alcune faccende del suo reggimento al Ministero della guerra, per incarico del colonnello Medici, e che sarebbe ripartito quella sera stessa; aveva veduti alcuni amici comuni, e voleva che si pranzasse insieme. Carletto, durante il pranzo, ritrovò tutta la sua antica allegria, il suo spirito, la sua festività. Ci raccontò molti episodi della sua vita d’emigrato: era stato allievo della scuola di Stato Maggiore a Parigi; professore di fortificazioni in un collegio militare di Londra; istruttore di reggimento e capitano nella Legione Anglo-Italiana formata a Malta durante la guerra di Crimea. S’era costantemente occupato di studî militari, che riunì in quel suo libro: _Che cosa sia la guerra_, che è tuttora altamente apprezzato tra gli studiosi di scienze militari. Alla fine ci parlò del reggimento e della compagnia a cui era stato assegnato, e ch’erano in marcia verso il confine; e al pensiero che tra pochi giorni si sarebbe venuti alle mani cogli austriaci gongolava di gioia. Quando l’allegra brigata si sciolse, Carletto volle che l’accompagnassi alla stazione. In attesa del momento della partenza, passeggiavamo per la stazione, e Carletto continuava a tenermi allegro con mille coserelle buffe. Ma quando le guardie annunziarono la partenza, Carletto a un tratto si fece serio, mi abbracciò, e mi disse: «Ti saluto per l’ultima volta!... Sì, caro Gino, noi non ci vedremo più! La mia vita fu una sequela di avventure, e ne uscii sempre salvo; essa ebbe una grande aspirazione, combattere per l’Italia, e poi servirla nell’esercizio nazionale. Ora che il mio sogno si avvera... io morirò! Sì, caro Gino, lo sento, ne ho il presentimento... questa volta _ci lascio la pelle_...» Sorrise, poi esclamò «Addio, addio, ricordati di me!» Entrò nel vagone, il treno partì, e io rimasi mesto, quasi atterrito. Pochi giorni dopo, ossia il 27 maggio, egli moriva all’assalto di San Fermo, alla testa della sua compagnia. Povero e generoso Carletto! NOTA. [34] Rammento ancora qualche nome dei giovani che s’arruolavano, e che rivedevo, con una grande commozione, presentarsi alla Commissione di arruolamento. C’erano tra questi moltissimi miei amici. Chissà quanti ne dimentico, ma mi si perdonino, dopo tanti anni, gli errori della memoria. Prego quelli che avessi dimenticati a ricordarmi i loro nomi. Tra i molti ricordo Rinaldo Taverna e Luchino Dal Verme, ora generali, Lodovico Trotti, che s’arruolava di nuovo dopo aver fatta la campagna del ’48 come ufficiale d’artiglieria, e sebbene padre di tre bambine; tre fratelli Visconti di Modrone figli del Duca, Gerolamo e Giacomo Sala, Luigi Esengrini, il conte Pietro Cicogna, il Conte Alfonso di Saliceto, il principe Gian Giacomo Trivulzio, il conte Arconati, i conti Alfonso e Annibale Sanseverino, Giacomo Battaglia, Malachia De Cristoforis, i fratelli Mancini, Emilio Guicciardi, Alfonso Carcano, i fratelli Caccianino, Augusto Verga, Gerolamo Fadini, Cartellieri, Galbiati, Eleuterio Pagliano, Giulio Vigoni, Michele Redaelli, De Albertis, i fratelli conti Belgioioso, tra i quali Carlo ora generale, i fratelli Emilio e Giuseppe Rapazzini, i fratelli nob. Steno e Luigi Majnoni, che divennero generali, Cesare Cavallotti, ora colonnello, nob. Carlo Porta, avv. Ercole Torri, nob. Carlo Dall’Acqua, nobile Andrea Della Porta, fratello dell’ucciso in duello, Gustavo Viola, da me citato pel duello, Silvio Della Torre, ispettore alla Banca Popolare, i fratelli Achille ed Edoardo Frigerio, l’uno ora colonnello e l’altro generale, Paolo Frigerio, che nel 1866 ebbe l’onore di combattere nello storico quadrato di Villafranca quale capitano, il conte Camillo Dal Verme ed Armando Vitali, ambedue valorosamente morti nel 1866 a Custoza, nob. Lavelli De Capitani, Alberto Corbetta, ferito a Custoza, nob. Cristoforo Manzi, nipote di Luciano Manara, i fratelli Luigi e Carlo Biffi, nob. Carlo Manzoli, ferito in quella guerra, nob. Lorenzo Greppi, Riccardo Gavazzi, Giulio Adamoli, nob. Diego Melzi, Senatore Giuseppe Robecchi, superstite dei valorosi combattenti di Roma 1849, D’Adda march. Luigi, Francesco Ponti, Gerolamo e Gian Luca Padulli, Del Mayno Luchino, Cesare Finzi, Antonio Greppi, Medici di Marignano Lorenzo, Gaetano e Carlo, Melzi Diego, Pullè Leopoldo, Robaglia Gaetano, Cesare Stucchi, Arconati march. Gian Martino, Carlo Baldironi, Franco Fadini, Alfredo Ulrich, Carlo Calvi Patroni, Enrico Borromeo, Filippo Castelbarco, Luigi Mainoni, Norberto e Francesco Del Mayno, Ernesto Turati, Adalberto Barbò, Luigi Biffi, Cesare Cavi, Alessandro Piola, Brambilla Giulio, fratelli Averoldi e fratelli Martinengo di Brescia, Cesare Menghini di Mantova, Carlo Marocco, Prinetti, morto in guerra. Arici di Brescia, Gigi Caroli, Max Fadini, Mazzoni, Pavia, Bolchesi, Bianchi d’Adda.... e mi perdonino i molti altri che non rammento. Li prego di nuovo di ricordarmi i loro nomi. CAPITOLO XXVIII. 1859. III. _Sommario:_ Mio fratello Emilio è nominato Commissario Regio al campo di Garibaldi. — Le istruzioni dategli da Cavour. — Due giorni dopo Emilio mi telegrafa di seguirlo. — Parto per Vercelli e per Arona. — Attraverso di notte il lago Maggiore con Nievo e Griziotti, scortando quattro obici. — Giungiamo a Varese. — Vedo Garibaldi che ritorna da Como. — Ordini nei paesi comaschi e nella Valtellina per insorgere. — Contrordini dal quartier generale. — Giungono tardi. — Una Commissione di cittadini Sondriesi si presenta a Garibaldi per chiedere soccorsi. — Sono _incaricato_ del Commissariato Regio per la Valtellina. — Accoglienze festose, patriottiche. — Condizioni della Valtellina in quei giorni. La sera del 22 maggio 1859 mi trovavo, con alcuni amici, seduto a un tavolino del caffè Fiorio, quando a un tratto entrò un usciere del Ministero e andò al banco a confabulare col padrone. Il padrone, poco dopo, accostandosi al nostro tavolino e mostrandoci una lettera, ci domandò se qualcuno di noi conoscesse la persona alla quale era indirizzata. La lettera era indirizzata a mio fratello Emilio; e poco mancò che quell’usciere non mi buttasse le braccia al collo per la consolazione. Aveva girato inutilmente parecchi alberghi e parecchi caffè, e aveva l’ordine di girar tutta Torino, con una carrozza finchè avesse trovato quel signore a cui la lettera era diretta. Erano le 10, e sapevo che a quell’ora avrei trovato Emilio o in casa Correnti o in un caffè che frequentava con alcuni suoi amici; e qui infatti lo trovai. Mezz’ora dopo Emilio, ed io, con l’usciere ch’era raggiante, salivamo le scale del Ministero degli Esteri. La lettera non conteneva che poche parole con le quali Luigi Farini, in nome di Cavour, pregava Emilio di recarsi subito al Ministero. Un invito simile, in quei momenti, a quell’ora, non era cosa da poco, sicchè non solo con curiosità, ma con ansietà accompagnai Emilio, fermandomi in una antisala del Ministero ad aspettarlo. Dopo poco più di mezz’ora, lo vidi uscire da un salotto, accompagnato e salutato con molta espansione da Cavour e dal Farini. «Dunque?» domandai a Emilio appena fummo sulla scala. «Dunque, si parte,» mi rispose con la solita calma. «Accompagnami subito all’albergo, perchè ho appena il tempo per fare la valigia.» «E dove vai?» «Vado a raggiungere Garibaldi che domattina passerà il Ticino, e io devo essere con lui per assumere l’uffizio di Commissario Regio nei paesi ove si entrerà.» Sul dialogo avuto col Cavour, sulla missione che gli era affidata, sulle istruzioni ricevute, potè dirmi in quel momento ben poco. Si andò subito all’albergo, poi alla stazione, ove si stava intanto apparecchiando una macchina, e una carrozza che dovevano condurre Emilio a Vercelli, punto estremo occupato dalle nostre truppe. Alla Stazione trovammo un impiegato del Ministero con varie lettere per Emilio, una delle quali era diretta al Cialdini che doveva far scortare Emilio oltre gli avamposti. La locomotiva fischiò; un po’ commossi ci abbracciammo, e Emilio mi disse: «Starai a vedere quello che succederà, per un paio di giorni, poi sarà forse bene che tu mi raggiunga.» Solo parecchi mesi dopo seppi dal Farini stesso come era avvenuta la chiamata di Emilio e quale era stato il dialogo di quella sera nel salotto del conte di Cavour. Garibaldi in Lombardia doveva assalire ai fianchi l’esercito austriaco e far sollevare i paesi alle spalle di questo. Cavour voleva, e lo disse anche ad Emilio quella sera, che i Francesi entrassero in un paese già tutto insorto, e non apparissero essi i liberatori d’un paese sottomesso e tranquillo. Ma nel tempo stesso che voleva accendere la rivoluzione, Cavour voleva all’occorrenza dominarla e dirigerla: bisognava quindi mettere accanto a Garibaldi un uomo politico per dirigerne l’azione rivoluzionaria, e tenerla in quei confini politici, che erano negli intendimenti del ministro; compito certamente non facile. Cavour da due giorni andava cercando la persona a cui affidare quella missione; s’era rivolto a parecchi uomini politici ma a nessuno era sembrato accettabile un simile incarico, che doveva svolgersi fra tante difficoltà e tanti pericoli. Così era venuta la sera del 22; Garibaldi avrebbe tra poche ore passata la frontiera, e il Commissario Regio ancora non c’era. Cavour era furioso, e usciva in parole vivacissime contro quanti aveva interrogati, come soleva quando imbattevasi in gente che gli sollevassero delle difficoltà. A un tratto il Farini ebbe un’idea. «E se si cercasse qualcuno, disse, tra gli emigrati più notevoli...» «Ben più a ragione mi diranno di no!» «Eh, chi sa. Per esempio... se chiamaste Emilio Visconti? È un giovane assai popolare in Lombardia, e per molte ragioni potrebbe essere adattatissimo.» «È vero, ma come potrei io fargli una simile offerta? Ma pensate che, se per disgrazia fosse fatto prigioniero, gli austriaci lo tratterebbero come un suddito ribelle e me lo fucilerebbero!» «Il tempo incalza, conchiuse Farini, provate, chiamatelo, e sentite che cosa vi dirà lui.» Cavour, quando Emilio entrò nel suo gabinetto, gli espose in poche parole di che cosa si trattasse, soggiungendo che non avrebbe osato insistere di fronte a considerazioni, che nel caso di lui avevano una speciale gravità. Emilio rispose: «L’incarico è assai delicato e difficile, però se lei crede che io possa adempierlo, non mi rifiuto. Quanto ai pericoli, maggiori o minori, sono riflessioni che noi giovani d’oltre Ticino abbiamo messo da parte da un pezzo: da un pezzo in Lombardia la forca non è che una malattia di più, soggiunse ridendo: dunque non ci si pensi. E quando dovrei partire?» «Subito. Garibaldi a quest’ora è in marcia verso il confine, dove arriverà all’alba di domattina. Cercherà di penetrare in Lombardia, e mi premerebbe assai che i primi proclami e i primi atti fossero fatti dal Commissario in nome del Re.» «Eh, allora non c’è tempo da perdere; corro all’albergo a pigliarmi una valigetta.» «E io intanto manderò alla stazione a farle preparare una vettura speciale, e scriverò a Cialdini che le procuri di attraversare questa notte gli avamposti e le indichi il modo per raggiungere Garibaldi al più presto.» Poi Cavour gli tracciò rapidamente, a voce, le sue istruzioni. Voleva che il Commissario procurasse di far insorgere i paesi di Lombardia ovunque gli fosse possibile; che si intendesse con tutta la parte più viva e audace del paese, giovandosi degli antichi elementi rivoluzionari e mazziniani, riordinandoli con la nuova formola _Italia e Vittorio Emanuele_, e dando loro le più esplicite assicurazioni sui larghi intenti nazionali del Governo del Re. Gli disse infine di riordinare i Municipi, chiamando a farne parte dei cittadini autorevoli per patriottismo e integrità. Parte importante e delicata del suo compito era poi quella di mantenere la sua azione nel maggior accordo con Garibaldi. Più tardi il Farini, narrandomi il dialogo avvenuto, mi disse che Cavour sin da quel momento aveva avuto grande simpatia per Emilio, che gli aveva fatta ottima impressione. Cavour, come tutti gli uomini di azione, prediligeva quelli che lo sapevano comprendere subito, e che agivano senza mettere difficoltà; aveva in uggia i dubbiosi, i lunghi ragionatori, la gente dei _se_ e dei _ma_. Passai la giornata del 23 in molta ansietà e in molte incertezze. La sera si sparse la voce che Garibaldi avesse passato il Ticino; voce che fu ripetuta con maggiore insistenza la mattina seguente, ma anche accompagnata da qualche notizia allarmante. Gli amici venivano a cercarmi, poichè si sapeva l’incarico dato a Emilio, incarico che a tutti pareva pericolosissimo. Ma io mi tenevo in qualche riserbo, e ne avevo confidati i particolari solo a qualche intimo amico, come il Giulini e l’Arese, che sapevo nelle confidenze di Cavour, e che vedevo di solito in casa del marchese Francesco d’Adda Salvaterra. Questi amici, assecondando la mia impazienza, credevano opportuno che io seguissi Emilio; e a togliermene poi ogni dubbio mi giunse un suo dispaccio che mi diceva di recarmi a Vercelli e di seguirlo. Andai al Ministero a domandare una lettera per l’Intendente (prefetto) di Vercelli, e un passaporto per l’Interno, indispensabile in quei giorni per chi voleva attraversare gli ultimi paesi occupati dai nostri, senza correre il rischio di farsi pigliare per spia: scrissi al Mezzacapo, per informarlo della mia determinazione e il 24 partii. L’Intendente di Vercelli, cav. Boschi, mi trattenne a lungo durante la sera, mi diede molte informazioni interessanti, e mi procurò un legno per continuare il viaggio. Partii nella notte, per dar meno nell’occhio, e ebbi per compagnia due altri che andavano al campo di Garibaldi. Attraversammo una parte dell’accampamento di Cialdini, e salutammo con una certa emozione le ultime nostre sentinelle di cavalleria, avviandoci un poco alla ventura per strade e paesi ch’erano percorsi dagli austriaci. Si viaggiò quella notte, e buona parte del giorno seguente, per stradette un po’ fuor di mano, e con molte cautele, fino ad Arona. Là sentimmo le prime notizie sul passaggio del Ticino, sulle mosse di Garibaldi, e su uno scontro fortunato sostenuto dal capitano Carlo De Cristoforis, che proteggeva il fianco della colonna garibaldina. Garibaldi aveva passato il Ticino con sei battaglioni di cacciatori, trecento carabinieri genovesi, e cinquanta guide a cavallo: erano 3200 uomini; giovani presso che tutti intelligenti e valorosi. Nelle giornate del 25 e del 26 ci furono ad Arona alcuni piccoli avvenimenti, che mi dimostrarono come non fosse una facile impresa l’attraversare il lago o il Ticino. Allo sbocco del lago, e lungo i primi tratti del Ticino, il territorio era percorso da drappelli di cavalleria austriaca; il lago era poi sorvegliato da un battello, il _Radetzky_, che aveva a bordo una compagnia di soldati e un cannone, il quale tirava sulle barche che si arrischiassero di staccarsi dalla riva. Arona aveva voluto mettersi in stato di difesa, collocando lungo il porto una gran barricata fatta con sassi e con balle di cotone; e dietro ad essa c’erano alcune guardie nazionali. Ma a un tratto, ecco il _Radetzky_, il quale vedendo questi preparativi tirò una cannonata contro la barricata e poi una seconda contro il paese. La Guardia Nazionale fece in tempo a ritirarsi, e la barricata non soffrì che qualche leggera avaria. La mattina seguente arrivò in Municipio un messo con un dispaccio di Emilio da mandarsi a Cavour. Il Sindaco, il quale sapeva già che io ero il fratello del Commissario Regio, mi fece chiamare, e così seppi dal messo molti particolari sul combattimento avvenuto il giorno prima, a Varese, e da lui ebbi pure le notizie di Emilio, ch’egli diceva di aver veduto durante il combattimento. Il messo ci diede anche il proclama che Emilio aveva pubblicato, entrando in Lombardia, e un suo bollettino sulla battaglia di Varese. Proclama e bollettino furono subito letti in pubblico dal Sindaco, in mezzo a grande entusiasmo[35]. In Municipio conobbi due ufficiali garibaldini, i quali stavano combinando il modo d’attraversare il lago di notte, per portare a Garibaldi quattro obici di montagna. Erano Griziotti e Ippolito Nievo, del quale avevo tante volte ammirato gli scritti, e di cui divenni subito amico. Si combinò che sarei partito con loro. La traversata del lago non era cosa facile, perchè il _Radetzkj_ continuava a percorrerlo giorno e notte, e non c’era una barca sola che osasse staccarsi dalla riva. Si dovette dunque combinare tutto un sistema di segnali con lumi, e trovare dei barcaioli abili e audaci che ci volessero condurre. Con questi poi facemmo i nostri preparativi, caricando di notte e fuori di paese, in modo che nessuno ci vedesse, i nostri obici in una barca. Finalmente nella notte tra il 28 e il 29 ci arrischiammo a partire; e silenziosi e accovacciati nella barca toccammo felicemente la sponda lombarda. Caricati gli obici su un carro, ci avviammo verso Varese sperando che la notte, ch’era oscurissima, e la buona fortuna ci salvassero dalle pattuglie austriache che scorrazzavano a poca distanza. La fortuna, che assecondava tutto in quei giorni, assecondò anche noi quella notte, e arrivammo felicemente a Varese la mattina del 29. Lo spettacolo che presentava Varese era indescrivibile. Tutto era in festa, tutti erano in faccende; le vie eran piene di gente, a ogni finestra sventolavano bandiere, o cenci dai tre colori. Sentii raccontare per istrada come due giorni prima fosse avvenuta la presa di Como; seppi che a Como c’era rimasto Emilio, ma che Garibaldi ne era ripartito e che si aspettava tra poche ore in Varese con la maggior parte delle sue truppe. Perchè mai il Generale ritornava indietro? I motivi li seppi dopo a Como da Emilio; ma intanto quelli che credevano d’essere bene informati andavano dicendosi all’orecchio che Garibaldi, prima di procedere innanzi, voleva dare l’assalto al forte di Laveno, dove c’erano ancora alcune compagnie di austriaci. Ciò era vero, ma non era tutto. Mentre andavo raccogliendo notizie e discorrevo con quanti incontravo, un accorrer di gente, un levarsi di grida e di battimani e una banda che suonava tra gli applausi il _dagliela avanti un passo_, ch’era diventato l’inno della rivoluzione, annunziavano che Garibaldi era arrivato e che entrava in Varese. Garibaldi, preceduto da una piccola avanguardia e seguito da alcuni battaglioni, si avanzava lentamente traverso una folla entusiasta: era vestito da generale piemontese, con l’uniforme sbottonata, con un fazzoletto di seta intorno al collo, e teneva il suo solito frustino in mano: salutava e sorrideva. I volontari che lo seguivano, frammisti alla folla, agitavano i berretti rispondendo ai mille evviva che rintronavano per l’aria. In mezzo all’allegria chiassosa dei compagni, facevano un pietoso contrasto alcuni, tra quei volontari, che avendo perduto a S. Fermo il fratello o l’amico, avevan le lacrime agli occhi. N’ebbi anch’io una stretta al cuore, e unitomi a qualcuno di quei volontari che conoscevo, e camminando tra le loro file, sentii i nomi di quei morti. C’eran tra essi Pedotti, Cartellieri, Giacomo Battaglia, uno dei Cairoli, e Carlo De Cristoforis. La gioia di poco prima scomparve anche in me, e mi sentii io pure gli occhi pieni di lagrime. Battaglia e De Cristoforis! due tra i miei più cari amici. Erano caduti l’uno e l’altro a S. Fermo; l’uno e l’altro ne avevano avuto il presentimento, e me lo avevano detto. Chiesi ai loro compagni i particolari del triste fatto, e parlai con qualcuno che li aveva veduti cadere. Il colonnello Medici, dinanzi a S. Fermo, aveva ordinato alla compagnia comandata da De Cristoforis di attaccare la posizione, e Carletto s’era slanciato all’assalto, alla testa della compagnia, precedendola anzi di alcuni passi; e mentre con la spada alzata, nel mezzo della strada, correva gridando ed eccitando i soldati a seguirlo, era caduto col petto squarciato da una scarica di fucilate degli austriaci che occupavano S. Fermo; fu portato morente nell’ambulanza del fratello, il dottor Malachia. Poco dopo, durante il combattimento che seguì l’assalto, eran caduti Battaglia e Cartellieri. Così nell’ora stessa, e in quei primi fatti cadevano tre giovani, ch’eran tra i migliori che la Lombardia avesse dati ai volontari; tre giovani ai quali arrideva lieto, promettente l’avvenire. Carlo De Cristoforis sarebbe diventato uno dei nostri migliori generali; Giacomo Battaglia avrebbe emerso nelle lettere e nella politica; il Cartellieri s’era già distinto assai negli studi giuridici. Tra la folla accorsa attorno a Garibaldi vidi tre cittadini sondriesi, i quali si affrettarono a darmi, con una certa ansietà, le notizie della Valtellina. Ecco ciò che vi era accaduto. Fin dal giorno 24 il capitano garibaldino Montanari si era recato da Varese a Magadino, per incarico di Garibaldi, a conferire con diversi emigrati e patriotti lombardi, per eccitarli a insorgere ovunque fosse possibile. In seguito a ciò, nei giorni 25, 26 e 27, parecchi paeselli del lago di Como insorsero, facendo prigionieri gendarmi e poliziotti, aiutati dai capitani dei battelli a vapore (l’_Unione_, la _Forza_, il _Lario_, l’_Adda_), che ad onta degli ordini severi del generale Urban percorrevano il lago servendo gli insorti. Alcuni cittadini sondriesi, cioè Agostino Carbonera, Ercole Quadrio, Giacomo Orsatti, Pietro Joli e Luigi Dioli, d’accordo anche col Municipio, si recarono a Como, ed arrivatavi la sera della battaglia di S. Fermo, si presentarono al Regio Commissario, il quale li consigliò a ritornar subito in Valtellina e a far insorgere il paese. Il consiglio fu immediatamente seguito, e due giorni dopo nella maggior parte dei paesi della Valle s’eran fatti prigionieri i gendarmi, s’erano abbattuti gli stemmi austriaci, e sventolavano le bandiere tricolori. Intanto Garibaldi e il Commissario avevano ricevuto l’avviso dal Quartiere Generale, che le operazioni della guerra avrebbero avuto un ritardo di alcuni giorni. L’Urban si preparava a riprendere l’offensiva, minacciando Garibaldi alle spalle con una mossa su Varese; e ciò aveva obbligato Garibaldi a ripiegare, e perciò si era diretto su Laveno, lasciando poche forze a Como. Contemporaneamente si davano avvisi e contrordini ai paesi ch’erano insorti o che stavano per insorgere. In Valtellina il contrordine era arrivato il giorno dopo di quello in cui era cominciata la rivolta, mentre appunto alla notizia di quei fatti alcune compagnie di cacciatori tirolesi scendevano dallo Stelvio e occupavano Bormio. Non è quindi a meravigliarsi se all’entusiasmo succedesse rapidamente un gran panico in tutta la valle. Ecco allora una nuova Commissione di tre cittadini sondriesi, scendere in fretta e correre dietro a Garibaldi. Erano ansiosi di avere delle informazioni esatte, di chiedere nel tempo stesso soccorsi ed esporre in quali gravi pericoli si trovava la Valtellina, senza difesa e minacciata da una vicina invasione di truppe austriache, e da rappresaglie. La Commissione raggiunse Garibaldi il giorno 25, durante la ritirata su Varese. Garibaldi le rispose: «È probabile ch’io venga in Valtellina, ma più tardi. Per ora non fate calcoli su me; io non posso darvi neppure un soldato. Difendetevi da soli, alla meglio; date un’arma a quanti la possono portare, e scegliete qualcuno che vi diriga. Se sarete battuti, disperdetevi, e datevi ritrovo in qualche punto delle vostre montagne; poi ritornate all’attacco. Tenete viva l’insurrezione finchè potrò venir io; intanto nominatevi subito un Capo.» La Commissione, vedendo che non poteva ottenere di più, si rassegnò al partito d’avere un Commissario con pieni poteri, tanto per non tornarsene a casa a mani vuote. Fu allora che a quelli della Commissione venne in mente di proporre me, che avevano incontrato per strada poco prima, e che avevo il vantaggio d’essere del paese. Garibaldi approvò la proposta, e congedò la Commissione dicendo: «Andate a Como, intendetevi col Commissario Emilio Visconti, ditegli che siete d’accordo con me, e prendete con lui tutti quegli accordi che crederete necessari.». Dopo ciò i tre cittadini sondriesi vennero a cercarmi, e mi riferirono il dialogo avuto con Garibaldi, insistendo vivamente affinchè accettassi l’incarico e li seguissi in Valtellina. Sulle prime me ne schermii, sgomentato dalle difficoltà e dalle responsabilità d’un incarico di tal fatta: alla fine acconsentii di seguirli a Como, riservandomi di consultarmi con mio fratello. Non c’era tempo da perdere, si partì subito, e la sera stessa eravamo a Como. Emilio mi disse che i movimenti dell’esercito francese avevano avuto un ritardo, e perciò le operazioni offensive per passare il Ticino non sarebbero avvenute che tra alcuni giorni; che intanto l’Urban si preparava, con forze superiori, a una rivincita su Garibaldi; ed, anzi, aveva già dato avviso al comandante delle truppe svizzere, che difendevano la frontiera, di tenersi pronto a disarmare i garibaldini, ch’egli avrebbe quanto prima battuti e cacciati oltre il confine. Garibaldi non aveva lasciato a Como che due compagnie, comandate dai capitani Fanti e Ferrari. Como si preparava a difendersi, ma poteva venir rioccupata senza troppe difficoltà; e perciò Emilio stava disponendo di mandare i feriti a Menaggio, e di passare a Lecco con le due compagnie per promuovervi l’insurrezione, caso mai dovesse abbandonar Como e non potesse riunirsi subito con Garibaldi. Emilio mi incoraggiò ad accettare la nomina di Commissario per la Valtellina. Quale Commissario Generale egli era autorizzato a nominare dei Commissari locali, sicchè sentendo che c’era anche l’approvazione di Garibaldi, fece subito stendere il decreto della mia nomina. L’impresa era certamente difficile ed arrischiata ma molte buone ragioni consigliavano a tentarla. Passai parte della giornata del 31 maggio a Como, coi miei tre compagni, per stabilire accordi e mettermi d’intesa con altri; poi si partì alla volta di Colico, con uno dei battelli che, interrotte le corse solite del lago, si tenevano a disposizione degli insorti. Arrivato in Valtellina m’accorsi che i miei compagni di viaggio avevano già fatto precedere la nostra venuta da chi sa quante e belle notizie. Venivamo a mani vuote, ed essi in compenso avevano, evidentemente, esagerate le speranze. Da per tutto si trovava gente in festa, che ci veniva incontro con bandiere, musiche, coi municipi e coi curati alla testa, i quali erano pressochè tutti patriotti: da per tutto strette di mano, abbracci, discorsi. La venuta d’un Commissario Regio voleva dire, per quella brava gente, la venuta vicina di Garibaldi o dei soldati del Re; voleva dire la liberazione assicurata del paese, la cessazione d’ogni dubbio, d’ogni pericolo. Sì, ciò sarebbe avvenuto più tardi. Ma intanto il Commissario Reale veniva solo, senza soccorsi e senza speranza di averne presto. Tutta quella festa mi dava una stretta al cuore, pensando che potevano seguire dei giorni ben tristi; pensando al mutamento di scena, se si fosse conosciuta intera la verità. Ma intanto le speranze bisognava riporle nel tenere alti gli animi, nel tener viva in tutta la provincia l’insurrezione, e nell’apparecchiare alla meglio una difesa contro i primi attacchi che ci potessero venire. Apersi dunque a due battenti l’arsenale della rettorica, cercando di riscaldare sempre più i miei uditori. A Morbegno, dove contavo parecchi amici, mi fermai un paio d’ore per prendere degli accordi per mantenermi in comunicazione continua con Como e con Lecco; poi ripartimmo per Sondrio, ove si giunse a sera, e avemmo un’accoglienza clamorosa e cordiale. Il bravo e antico patriotta Battista Caimi aveva già principiato a ordinare la Guardia Nazionale, e la trovammo schierata all’ingresso di Sondrio. Anche qui infiniti evviva, banda, inni patriottici, e persino un po’ di illuminazione. Sebbene stanco e trafelato, dovetti fare il mio bravo discorso in mezzo alla piazza; e spero che nessuno avrà tenuto nota di ciò che dissi nell’enfasi sfiatata della mia concione. Dopo aver ricevuto parecchi amici venuti a salutarmi in una sala dell’Albergo, ove piantai le prime tende del mio Commissariato, passai parte della notte insieme con G. B. Caimi e con qualche altro amico, per esaminare insieme attentamente la situazione. A loro dissi in segreto come stavano le cose, e da loro seppi quanto era avvenuto in quei giorni in Valtellina. A quel tempo in Valtellina non c’erano giornali; e non ho visto che altri abbiano scritto la cronaca dei fatti grandi o piccoli che allora vi si svolsero. Il colonnello Francesco Carrano, nel suo libro: _I cacciatori delle Alpi, e la campagna di Garibaldi in Lombardia nel 1859_, poco o nulla dice degli avvenimenti di Valtellina, e si contenta di riprodurre la relazione del tenente-colonnello Medici, che vi giunse il 24 di giugno, comandando una colonna d’avanguardia del corpo di Garibaldi; relazione certamente importante, ma che riguarda solo i fatti militari. Io cercherò di riempire la lacuna in questi miei ricordi, raccogliendo le mie note e i miei documenti di quel tempo, che vanno dal 1.º giugno 1859 fino alla pace di Villafranca. NOTA. [35] Questo decreto fu pubblicato e affisso in tutta la Provincia. _Il Regio Commissario di S. M. Sarda_ ALLE POPOLAZIONI DELLA LOMBARDIA _Cittadini!_ Appena il Re Vittorio Emanuele, _primo soldato dell’Indipendenza Nazionale_, annunciò all’Italia d’aver ripresa la spada, le popolazioni Lombarde volgendo gli occhi al Ticino domandarono il segnale dell’insurrezione. Le ragioni dell’umanità e della prudenza e le generali necessità della guerra, ci mossero a consigliarvi un indugio che voi accettaste perchè tutto è oggi disciplinato in Italia, la quiete al pari dell’azione. Ma ora gli indugi sono rotti, il prode Generale Garibaldi venne a darci quest’annuncio e dappertutto dinanzi a lui le popolazioni insorgono e si pronunciano per la causa nazionale e pel governo del Re Vittorio Emanuele. Commissario di S. M. Sarda vengo a prendere il governo civile di questo spontaneo movimento. _Cittadini!_ L’insurrezione Lombarda sarà animata da quel nuovo e mirabile spirito italiano che col segreto della concordia ci fa ritrovare il segreto della fortuna. Nessun disordine verrà a turbare il sublime spettacolo della libertà: nessun impeto cieco verrà a disordinare l’organismo civile del Paese: nessun spirito di improvvida reazione presumerà di considerare come il trionfo di un partito, quello che invece è il trionfo d’una Società tutta intera. Le guerre dell’indipendenza non si vincono che con gravi sforzi: vi sta dinanzi l’esempio del generoso Piemonte, che da undici anni profonde i più gravi sacrifici quell’alta speranza, che ora è divenuta una realtà. La nostra impresa è sicura: il prode esercito Piemontese, guidato dal Re, viene in nostro soccorso; l’Italia si ordina per combattere la guerra dell’indipendenza. Napoleone III ha gettato sulla bilancia dei destini la spada della Francia, nostra sorella e naturale alleata delle cause generose. Tutta Italia ci dimanda la formazione di un forte Stato, baluardo della nazione, e avviamento a’ suoi nuovi destini: i voti decenni del Paese stanno per essere compiuti, e voi potete insorgere nella certezza di questa invocata unione, e gridando: Viva Vittorio Emanuele Re Costituzionale. _Como, 28 Maggio 1859._ _Emilio Visconti-Venosta._ REGIO COMMISSARIO STRAORDINARIO DI S. M. SARDA _Cittadini!_ Il nemico è in ritirata. I Cacciatori delle Alpi si sono battuti con un coraggio degno del Prode che li comanda e della causa che difendono. E voi, o Cittadini, avete tenuto un ammirabile contegno. Tutta la gioventù è accorsa a prendere un fucile, a domandare la battaglia, a difendere le barricate. Ogni famiglia gareggiò nel porgere soccorsi ai combattenti e mezzi alla difesa. La Lombardia seguiterà il vostro esempio. Il Commissario di S. M. Sarda ve ne ringrazia in nome del Re Capitano della guerra d’indipendenza. _Varese, 26 maggio 1859._ _Il Commissario di S. M. Re Vittorio Emanuele_ _Emilio Visconti-Venosta._ _Como, ore 2 dopo mezzanotte._ Como è sgombra dagli austriaci: i nostri valorosi soldati fecero prodigi. Le popolazioni del lago accorrono in massa, trasportate dai quattro vapori, per la difesa del paese. Per estratto conforme. _Varese, 28 maggio 1859, ore 6,30 ant._ CAPITOLO XXIX. 1859. IV. _Sommario:_ Proclami pubblicati a Sondrio. — Prime mosse degli austriaci dallo Stelvio verso la Valtellina. — Prime difese dei Valtellinesi. — Dispareri sulla difesa. — Primi provvedimenti di difesa. — Ricognizioni fatte da pattuglie austriache. — Notizie esagerate e panico nella Provincia. — Nomino una Commissione di pubblica sicurezza. — Costantino Iuvalta di Teglio commette alcuni atti di reazione in quel Comune. — Un professore di lingua tedesca sorpreso mentre inviava lettere a un posto nemico. — Viene arrestato. — Continua l’arrolamento in Provincia. — Comunicazioni difficili. — Mancanza di notizie. Subito dopo il mio arrivo, cioè il 5 giugno, il Municipio di Sondrio proclamava l’insurrezione per la indipendenza, e rinnovava il voto del 1848 per l’annessione al Piemonte. Il Podestà, nobile Gaudenzio Guicciardi, ne dava comunicazione alla popolazione con un coraggioso proclama. Io annunziavo la mia nomina a rappresentante in Valtellina del R. Commissario generale, istituivo la Guardia Nazionale per la sicurezza interna e la Guardia Mobile, e pubblicavo alcune disposizioni d’ordine pubblico. Le prime notizie di Varese e di Como, i proclami di Garibaldi e di mio fratello eran noti, ed appunto in seguito a questi, come già ho accennato, i patriotti valtellinesi avevano principiato il loro movimento d’insurrezione. Dagli amici, venuti ad informarmi di quanto era accaduto in quei giorni in Valtellina, sentii con dispiacere che Romualdo Bonfadini era, nella sua casa d’Albosaggia, ammalato di tifo: perciò non potei avere la sua collaborazione in quei primi momenti, quando più mi sarebbe stata preziosa. «E gli austriaci?» fu la mia prima domanda. Ecco le informazioni che ebbi: gli austriaci, subito dopo quei primi moti della Provincia, avevano mandato dalla valle Venosta, dove c’erano circa settemila uomini comandati dal generale Huyn, alcune compagnie di cacciatori tirolesi ad occupare Bormio; poi avevano spinto innanzi alcune forti pattuglie, che erano scese fino al ponte di Grosio, e, fiancheggiando la montagna, fino al passo del Mortirolo. Queste pattuglie, venute ad esplorare e credute avanguardie di forze maggiori, avevano messa in allarme tutta la provincia. A Sondrio s’era formato subito un drappello di volontari che, vestiti alla meglio con uniformi e cappotti abbandonati nel castello dagli austriaci e accomodati alla meglio per la circostanza, sotto il comando di un valoroso giovane sondriese, Ercole Quadrio, erano corsi ad occupare la Tresenda, villaggio ove si riunisce la strada che conduce al passo di Aprica con quella che scende dall’alta Valtellina e dallo Stelvio. Questo drappello aveva incontrati e fatti prigionieri, sullo stradale dell’Aprica, tredici gendarmi, che probabilmente venivano da Edolo per ricongiungersi a quelli di Valtellina. Anche nei paesi della parte superiore della valle alcune persone di buona volontà erano accorse alla difesa, e alla meglio si erano armate. S’era improvvisata una compagnia di militi, dei quali nessuno aveva neanche un berretto d’uniforme; ed essa aveva occupato un punto ove la valle si restringe a mano a mano fino a non esserci più che la strada provinciale e il fiume Adda. Là c’è un ponte, detto il ponte del Diavolo; e dietro quel ponte fu costruita in fretta una barricata. Una grossa pattuglia austriaca, forte d’un centinaio d’uomini circa, scese ad attaccarla. La compagnia, che la difendeva, era comandata da un certo Antonio Lucini di Tirano, il quale era stato ufficiale dei volontari allo Stelvio nel 48; la maggior parte però di quei difensori si trovava dinanzi alle fucilate per la prima volta. Eppure seppero tutti starci con calma e con fermezza: l’attacco fu vigoroso e non breve, ma venne respinto. Al bravo Lucini e ai suoi compagni mandai subito un _ordine del giorno_, con elogi per quel fatto, come era giusto ed opportuno nel tempo stesso. Di questo primo combattimento s’era diffusa subito la notizia per tutta la valle, con quelle esagerazioni che in simili casi non mancano mai. Tutti ne parlavano con grande compiacimento, ma tutti nel loro animo erano allarmati più di prima. Quell’attacco poteva essere un indizio che gli austriaci mirassero a rioccupare la valle; così la vittoria era accompagnata dalla sfiducia, e sulla faccia di tutti si vedevano, insieme coi sorrisi, il dubbio e l’apprensione. Seppi parimenti che anche Edolo era occupata dagli austriaci, i quali mandavano pattuglie fino all’Aprica. Non era quindi impossibile che si spingessero fino a Sondrio. I giovani più animosi della provincia erano già in gran parte partiti, e s’erano arrolati volontari con Garibaldi o nell’esercito; mancavano le armi: nelle casse della Tesoreria provinciale c’erano in tutto ventiquattro mila lire austriache, e bisognava pagare la mesata agli impiegati. Le comunicazioni col lago di Como e col campo garibaldino erano difficili e incerte. Eravamo insomma senza forze, ed isolati. Io poi avevo la certezza di non poter ricevere aiuti da nessuna parte per parecchi giorni; di più conoscevo le condizioni difficili, mostratemi da Emilio, nelle quali si trovava Garibaldi nei giorni 30 e 31 di maggio. Pensai, che se si poteva guadagnare alcuni giorni, forse si evitava alla provincia una occupazione di truppe austriache. Sui modi di preparare la difesa erano nati subito dispareri, non in Sondrio, ma soprattutto nell’alta Valtellina e nei paesi più esposti; si temeva da alcuni che si volesse concentrare ogni difesa alla Tresenda e all’Aprica, e veramente tale partito sarebbe stato il più prudente, poichè, con gli austriaci a Edolo, il nostro avamposto poteva essere preso alle spalle; ma ciò non garbava a quelli dell’alta Valtellina. Intanto si formarono, da sè, alcuni nuclei di volontari che si diressero verso Grosio, e anche più in su per tener testa agli austriaci; i quali però se volevano venire innanzi ci sarebbero riusciti facilmente, qualunque fosse la posizione presa da noi: intanto ricordavo il suggerimento datomi da Garibaldi: _se non potete resistere, disperdetevi e datevi ritrovo altrove_. A Tirano dove mi recai, per intendermi con quel Municipio, potei finalmente vedere la mia buona mamma, che non avevo più veduta da tre mesi, dalla sera cioè che aveva preceduta la visita della Polizia in casa nostra. Essa era rimasta a Milano fino alla dichiarazione della guerra, poi si era ritirata a Tirano, anche per cercare in un’aria migliore un po’ di sollievo alla salute che le angustie e i timori avevano alquanto scossa. Mio fratello Enrico era rimasto a Milano, trattenuto da varie faccende domestiche, ed anche dal desiderio di trovarsi presente agli avvenimenti che vi si potevano svolgere da un momento all’altro. Quante buone chiacchiere avevo fatte con la mamma in quelle ore in cui ero rimasto a Tirano! Quante cose non avevamo da dirci dopo quei mesi pieni di tanti avvenimenti, di tante angoscie e di tante gioie! La mamma era in continui timori per noi, ma nel tempo stesso era felice, ci godeva un mondo, perchè aveva l’anima calda di patriottismo e di entusiasmo. Tra i miei primi atti a Sondrio c’era stata la pubblicazione di alcuni decreti per avere delle armi, per aprire un arruolamento di volontari, per richiamare i soldati che non si erano presentati alla chiamata ultima del Governo austriaco, per creare in ogni Comune la Guardia Nazionale e predisporre la mobilitazione d’una parte di essa. Avevo sospeso i commissari distrettuali, in generale invisi per le loro attribuzioni di polizia, e riordinato prontamente le Giunte Municipali, lasciando quasi da per tutto le antiche, che erano buone, solo aggiungendovi un qualche patriotta del paese che non vi appartenesse. Lasciai tutti gli altri uffici com’erano, e gli impiegati provvisoriamente al loro posto. Era in quel momento vacante il posto di delegato della Provincia, come chiamavano allora il Prefetto, e c’era un vice delegato, il signor Borroni, che lasciai pure al suo posto; egli continuò poi la sua carriera nell’amministrazione italiana. Questi decreti e queste disposizioni amministrative formavan parte delle istruzioni che Emilio aveva avute, e che mi aveva trasmesse. Tutti i funzionari governativi che risiedevano in Sondrio, e primi fra tutti il Presidente e i Consiglieri del Tribunale, erano venuti a farmi visita. In tutti cercai di trasfondere quella sicurezza, che non c’era in me, e nessuno mostrò il menomo dubbio o timore; ma poi osservai che, per parecchi giorni, e cioè fin dopo la battaglia di Magenta, tutti si tenevano un pochino alla larga, con l’aria di star a vedere come sarebbe finita l’avventura del Commissario regio. Mano mano che mi giungeva qualche drappello di volontari li spedivo a Tirano, poi al ponte di Grosio, dove si fece una forte barricata. Alcuni giorni dopo, quando il numero dei difensori fu accresciuto, potemmo avanzarci fino al ponte detto del Diavolo dove la valle si restringe talmente da non esserci più che la strada provinciale e l’Adda, chiuse tra le falde delle due montagne che scendono ripide e scoscese: là si fece un forte terrapieno dietro il ponte, e il ponte fu minato. S’era pure fatta una barricata al ponte della Tresenda, e si era messo un posto d’avviso all’Aprica. Questi provvedimenti servirono in quei primi giorni a occupare e a tranquillare gli animi; forse a metter sull’avviso gli austriaci e a renderli circospetti. È però certo che in quei giorni che precedettero la battaglia di Magenta e l’entrata delle truppe alleate in Lombardia, se i cacciatori tirolesi avessero voluto fare una passeggiata da Bormio a Colico, mettendo delle contribuzioni di guerra in ogni paese, l’avrebbe potuto fare assai facilmente ad onta del Commissario regio e dei suoi decreti. Coll’audacia e colla rapidità potevano portarsi forse fin verso Lecco, disturbando assai le mosse di Garibaldi; ma l’audacia e la rapidità mancarono, per fortuna, in quei giorni a chi teneva lo Stelvio. E gli austriaci, anche quando poco dopo vennero ad attaccare le nostre difese al ponte del Diavolo, si dimostrarono incerti; retrocedettero, rinnovarono l’assalto, ma non ci persistettero. Facevano ogni tanto qualche ricognizione, ma non attacchi risoluti e vigorosi. Quei dubbi che mi impensierivano, ma che avevo tenuti nascosti a tutti, fuorchè a qualche amico, cominciarono a farsi strada anche nel pubblico, appena arrivarono le notizie, in ritardo di quattro o cinque giorni, sulle mosse retrograde di Garibaldi, e sullo sgombero di Como. Queste notizie, ingrandite per di più, come succede, cominciarono a risvegliare il panico dei giorni prima, per quanto il Commissario, che era affatto senza notizie, dicesse dì averne di ottime. Il Commissario, fino al 3 giugno, non sapeva neppure che fosse avvenuta la battaglia di Palestro, tanto erano difficili le comunicazioni. In Valtellina non c’era ancora il telegrafo. Una delle prime manifestazioni della paura furono le domande di energici provvedimenti, che parecchi cominciarono a indirizzarmi, e la smania che si svegliò nel pubblico di scoprire spie e di domandare l’arresto della gente sospetta. Fin dal primo giorno ch’ero venuto in Sondrio, avevo saputo ch’era stato fatto, nei primi momenti, qualche arresto arbitrario, e che se ne minacciavano altri: perciò avevo subito nominata una Commissione di pubblica sicurezza, non essendoci un ufficio di Polizia, per esaminare le denuncie e le persone sospettate, per poi deferirle, se fosse necessario, al magistrato. Era un modo per evitare qualche scoppio d’ira, cieca e furiosa, d’una parte del popolo, come avviene nei momenti di commozioni popolari, mettendo in salvo nel tempo stesso qualche innocente. Avevo chiamato a comporre questo _Comitato di salute pubblica!_ alcuni cittadini serii e temperati, che seppero adempiere il loro incarico con prudenza e con abilità: erano il consigliere di tribunale Vertua, il dottor Giacomo Lambertenghi, il signor Giovanni Lambertenghi e don Pietro Sertoli. Tra gli arrestati, gente in generale mal veduta, c’era un impiegato di Polizia, un certo Olivari, ch’era il marito di quella guantaia Olivari, sgualdrina di ufficiali austriaci, che aveva provocata a Milano nel 1849 la dimostrazione seguita dalla bastonatura di uomini e di donne in piazza Castello. Il marito era stato rimeritato con un impiego nella Polizia, e lo trovai a Sondrio. Di due fatterelli di qualche importanza ebbe subito da occuparsi la mia Commissione straordinaria di pubblica sicurezza. Nel paese di Teglio dominava un certo Costantino Iuvalta, di buona famiglia, uomo d’ingegno, ma di indole prepotente; il quale aveva passata la sua gioventù a Vienna, e in relazione, a quanto dicevasi, con pezzi grossi del Governo. I giovani del paese s’erano associati subito al movimento politico di quei giorni, abbattendo stemmi austriaci e inalzando bandiere tricolori; ma l’Iuvalta, ch’era anche a capo del Municipio, aveva subito fatto rimettere gli stemmi al posto e toglier via le bandiere; poi mi aveva rimandato, respingendoli, i miei proclami e i miei decreti. Di più, contornandosi di un gruppo di contadini che gli erano devoti, si atteggiava ad opporsi colla forza al movimento italiano nel suo paese. Parecchi liberali, gravemente minacciati, avevan dovuto fuggire da Teglio, ed erano venuti ad avvisarmi di quanto succedeva. Allora, sentita la Commissione, chiamai subito il mio amico G. B. Caimi che comandava la Guardia Nazionale di Sondrio, e lo incaricai di recarsi a Teglio, con una compagnia di militi per sorprendere durante la notte l’Iuvalta e i suoi partigiani, procurando di arrestarne quanti poteva, e di disperdere gli altri, se occorreva, con la forza. La sera, un cameriere dell’albergo della Posta dove alloggiavo, venne a chiamarmi nell’ufficio, in una sala della Delegazione, dicendomi che una signora, la quale non aveva voluto dire il suo nome, mi pregava di recarmi subito all’albergo occorrendole di parlarmi di affari urgentissimi. Vado difilato all’albergo, e mi trovo dinanzi, nella mia camera, una signora velata, proprio come in un romanzo, e chi era? Era la moglie dell’Iuvalta, la signora Giuseppina Iuvalta Cattaneo, una mia cugina. Con questa cugina ch’era una bravissima donna, la mia famiglia era stata sempre in ottimi rapporti, mentre col marito di lei, sia perchè spesso assente, sia perchè quand’era in Valtellina non usciva mai dal suo covo, io non ero mai stato in nessuna relazione; non lo conoscevo neanche di vista. Mia cugina, con quell’ansia e con quella agitazione che si può immaginare, mi raccontò i fatti di Teglio, mi disse che i due partiti stavano di fronte, pronti a venire alle mani in nome dei nuovi e di vecchi rancori, e che era imminente uno spargimento di sangue. Avendole detto francamente quali erano le mie intenzioni, essa mi replicò che le guardie nazionali non sarebbero bastate a salvare la vita di suo marito; il quale appena arrestato sarebbe stato massacrato dalla folla trionfante, o da qualcuno che volesse compiere una vendetta. Fossero o non fossero esagerate le previsioni di mia cugina, mi parve doveroso l’evitare la possibilità d’un simile caso. Le dissi di correre subito a Teglio, e persuadere suo marito a pigliare immediatamente su per la montagna la via del confine per mettersi in salvo, se giungeva in tempo, prima che succedesse un tafferuglio e prima che arrivassero le guardie nazionali incaricate di arrestarlo. Mia cugina partì subito; ed io arrivai in tempo a prevenire il Caimi e la Commissione di quanto avevo saputo e di quanto avevo detto. Il Caimi adempì il suo incarico con la fermezza e con la prudenza che gli erano abituali. Saputasi la partenza dell’Iuvalta, tornò la calma in Teglio, non ci fu nessun atto di violenza; gli stemmi austriaci furono tolti e le bandiere italiane furono rizzate di nuovo. Alcuni giorni dopo ricevetti dalla Svizzera una lunghissima lettera in francese dall’Iuvalta, il quale mi domandava un salvacondotto, per potersi recare in quella città che io gli avessi indicata ed ivi scolparsi dinanzi al giudizio regolare di un tribunale. Io gli risposi ch’egli per ora stava assai bene dove era; che non potevo garantirgli di salvargli la vita una seconda volta, e che poi a guerra finita, e in tempi tranquilli, avrebbe fatto ciò che gli sarebbe parso meglio. Più tardi infatti il signor Carlo Iuvalta ritornò; non pensò più a fare la sua clamorosa difesa; e da austriacante diventò, sotto altri nomi, speciosi, un accanito avversario del Governo e mio; cose del resto inconcludenti. Mia cugina, finchè visse, appena mi sapeva giunto in Valtellina, veniva in casa nostra e sempre ricordando quel fatto, e deplorando la condotta di suo marito, mi rinnovava le espressioni della sua riconoscenza. Subito dopo capitò un secondo fatto pure di una certa gravità. Il cameriere dell’albergo venne la notte a svegliarmi, dicendomi che un tale voleva parlarmi subito. Era lo stalliere di un altro albergo di Sondrio detto la _Maddalena_, il quale tutto ansante mi disse che un tirolese, professore di tedesco nel ginnasio di Sondrio, era andato poco prima nella stalla dell’albergo a confabulare in secreto con un carrettiere che partiva per Edolo. Il professore aveva dato un pacchetto e una mancia al carrettiere facendogli, con aria misteriosa, molte raccomandazioni, e parlandogli all’orecchio. Lo stalliere, che se ne stava in un angolo della stalla, all’oscuro, sdraiato sulla paglia, era stato testimonio di tutto senza essere veduto; e veniva patriotticamente ad informarmene, aggiungendo del suo che il professore e il carrettiere erano certamente due spie austriache. Mi alzai subito, e mandai alcune guardie nazionali, giovani intelligenti e risoluti, a raggiungere il carrettiere, ad arrestarlo e a perquisirlo. Poche ore dopo il carrettiere era nel quartiere delle guardie nazionali di Sondrio, e il pacchetto era sul mio tavolino. Nel pacchetto trovai, nascosta tra alcune carte insignificanti, una lettera scritta in tedesco dal professore a un suo compatriotta che dimorava in Edolo. In questa lettera il professore narrava i fatti avvenuti in quei giorni in Valtellina e a Sondrio, dicendogli di farli conoscere a una certa persona che dimorava al di là del Tonale. Il professore diceva poi che da alcuni giorni era venuto un Commissario del Re di Piemonte, il quale parlava alto, annunziava l’arrivo imminente di garibaldini o di truppe regolari, ma che, a parer suo, queste notizie erano non vere, o premature. Fin qui il professore aveva ragione. Poi soggiungeva che «in realtà non compariva nessuno e che, all’infuori di pochi volontari mandati all’avamposto, gli insorti di Valtellina non avevan forze da opporre a qualsiasi attacco. Diceva infine al suo compatriota che avrebbe continuato a informarlo, ma che, siccome ciò diventava ogni giorno più difficile e pericoloso, così gli avrebbe scritto con cifre di cui gli univa la _chiave_ per interpretarle». Ciò poteva essere abbastanza pericoloso; perciò feci arrestare subito il professore, e lo affidai alla mia Commissione straordinaria. Naturalmente il fatto fu subito, in parte almeno, saputo in pubblico, e non mancaron quelli che vennero a domandarmi quando avrei fatto fucilare il professore. Ma la Commissione fu del parere di far tradurre anche il professore insieme a tutti gli altri arrestati e da arrestare, prigionieri politici o militari, nella fortezza d’Alessandria, appena fosse possibile, come era detto nelle istruzioni che avevo ricevute. E anch’io fui di questo parere, dicendo tra me come i monatti di Renzo: «povero untorello, non sarai tu quello che spianterai l’Italia». Intanto avevo continuato a scrivere a mio fratello Emilio, quasi giornalmente, narrandogli quanto avveniva in Valtellina, e mostrandogli la condizione precaria nella quale eravamo, e la urgenza che Garibaldi ci mandasse al più presto qualche ufficiale, e anche alcuni buoni soldati, possibilmente valtellinesi, per farne dei sotto ufficiali. La chiamata alle armi aveva cominciato a dare dei risultati e ogni giorno mi arrivava qualche gruppo di volontari e di guardie nazionali, colle quali volevo formare in fretta, alla meglio, delle compagnie per mandare all’avamposto e rinforzare i nostri punti di osservazione e di difesa; ma appunto per ciò urgeva di avere degli ufficiali e dei sotto ufficiali. Le comunicazioni erano, come già dissi, difficilissime e interrotte da per tutto, ed io ero senza risposte e senza notizie. Il telegrafo in Valtellina non fu messo che alla fine del 1859 dalla Amministrazione Italiana. CAPITOLO XXX. 1859. V. _Sommario:_ Prime notizie sulla battaglia di Magenta. — Il battaglione valtellinese. — Il capitano Francesco Montanari. — Il parroco di Grosio. — I soldati svizzeri al confine. — Le spie austriache. — Un progetto di assalto a Bormio. — Parto per Bergamo per conferire con Garibaldi. — A Bergamo in casa Camozzi. — Il quartiere generale di Garibaldi. — Il capitano di stato maggiore Clemente Corte. — Ufficiali austriaci prigionieri. — Il colonnello Thürr. — Come Garibaldi riceve quei prigionieri. — Disposizioni di Garibaldi. Ecco, a un tratto, improvvisamente un succedersi di notizie che mutano in gioia i dubbi e le ansietà dei giorni antecedenti. Il giorno 6 mi arrivarono le prime notizie della battaglia di Magenta, ed ebbi da Emilio una lettera che mi annunziava il passaggio di Garibaldi in quel giorno da Como a Lecco, e che il generale s’era finalmente deciso a mandarmi un capitano di Stato Maggiore, tre o quattro ufficiali e una dozzina di soldati istruttori per il battaglione valtellinese. In quella mattina poi m’erano arrivate parecchie guardie nazionali mobilitate, tra le quali una cinquantina di giovani scelti e vigorosi che venivano da Chiavenna. Gli ufficiali e i soldati garibaldini arrivarono la sera del 5 giugno: la popolazione di Sondrio fece loro una calorosa accoglienza, e tutti erano in festa come se fosse giunto un esercito. Il capitano, che chiamavasi Francesco Montanari, mi presentò gli ufficiali, e mi diede una lettera di mio fratello ed una di Garibaldi. In questa lettera, che poi dovette riuscirmi preziosa in diverse circostanze, c’erano le istruzioni che Garibaldi dava al Montanari: Il capitano «era incaricato di organizzare rapidamente un battaglione di volontari valtellinesi, e di prenderne il comando; il battaglione essendo pratico dei luoghi era destinato all’avanguardia, quando sarebbero venuti i Cacciatori delle Alpi; intanto il comandante nulla poteva fare _senza mettersi d’accordo col Commissario, dal quale doveva dipendere fino alla venuta in Valtellina dei Cacciatori delle Alpi_». Invitai a pranzo, la sera del loro arrivo, il capitano e gli ufficiali, e mi feci narrare minutamente tutti i fatti dei giorni antecedenti; dei quali io ero stato fino allora completamente all’oscuro. Il capitano però parlava poco, ma beveva molto; ogni tanto veniva fuori con una qualche esclamazione entusiastica in onore del vino di _Sassella_ e dell’_Inferno_, e dava fondo a una nuova bottiglia. Alla fine del pranzo cominciai ad essere in apprensione, e proposi una passeggiata per la città: ma fu inutile. Gli ufficiali a poco a poco si accomiatarono, e il capitano preferì sdraiarsi su un canapè, dove non tardò ad addormentarsi profondamente. Si principiava male. In quel mentre ecco la banda, suonando la canzone popolare _dagliela avanti un passo_, alla testa della folla che veniva a fare una dimostrazione al capitano, e a sentire, naturalmente, uno di quei discorsi di cui tutti erano ghiotti in quei giorni. Chiusi a chiave in fretta la sala, dove il capitano russava: andai al balcone, e dissi, parlando quasi sottovoce, che il capitano, stanchissimo, riposava e però pregavo di differire la dimostrazione. Allora tutti, con un silenzio patriottico, se ne andarono piano piano per non disturbare quel riposo. Ma il capitano non riposò abbastanza, e bisogna dire che fosse ancora alticcio nelle prime ore della mattina, perchè trovatosi con B. Caimi, che era altrettanto gentile quanto valoroso, finì ad avere con lui un alterco così grave, per affari di servizio, che poco mancò non si pigliassero a sciabolate. Ristabilita la pace alla meglio, combinai col capitano Montanari di recarci a visitare l’avamposto, di riunirvi subito i volontari e le guardie mobili accorse in quei giorni, e di percorrere diversi paesi per far nuove reclute, procurando nel tempo stesso che i Municipi ci aiutassero a far vestire e armare al più presto quella nostra gente. Prima di lasciare Sondrio, il capitano Montanari volle passare in rivista le guardie nobili accasermate nel castello, e assegnar loro qualche ufficiale che le conducesse al punto di riunione del Bolladore, villaggio presso l’avamposto. Messe le guardie in fila, il capitano, colla voce grossa e col piglio minaccioso, disse loro queste parole: «Sotto gli ordini dell’ufficiale che vi destino partirete questa sera; si intende che voi tutti da questo momento siete arrolati, come lo sono i Cacciatori delle Alpi; siete soldati e non guardie nazionali mobili; se qualche _vigliacco_ non accettasse questa condizione, esca dai ranghi e vada a casa». Nessuno osò muoversi, nè fiatare. Poi parecchi vennero da me a reclamare, ed io li persuasi a partire, assicurandoli che sarebbero rimasti, quali erano per diritto, guardie nazionali mobilitate. Il giorno dopo eccoci in viaggio io e il capitano, come s’era stabilito. Il capitano, strada facendo, prese a svilupparmi le sue idee, e i propositi sui quali voleva che ci mettessimo d’accordo. Egli era un uomo d’aspetto robusto, dimostrava all’incirca trentacinque anni, aveva la barba folta e nera, e la faccia di solito accigliata. Le sue idee, il suo modo di parlare, a voce cupa, la guardatura sospettosa e torva, rispecchiavano in lui il vecchio tipo convenzionale del cospiratore. E infatti egli mi narrò d’aver passata tutta la vita nelle cospirazioni, d’aver preso parte a tutti i tentativi d’insurrezioni mazziniane, e d’essere stato nelle prigioni di parecchi tra gli stati d’Italia. Era quel Francesco Montanari modenese che fu coinvolto nei processi di Mantova del 1853, e che il Governo austriaco, non avendo prove sufficienti per condannarlo, aveva consegnato al Duca di Modena, il quale lo mise in prigione anche per proprio conto. Era un uomo audacissimo, e certamente un patriotta a tutta prova; ma l’abitudine del cospirare, le avventure, e le dure prove attraversate, gli avevano fatto perdere il sentimento delle realtà della vita, che tutte subordinava agli assiomi rivoluzionari. Oltre di ciò gli piaceva parecchio il vino, specialmente, a quanto dava a vedere, quello di Valtellina. Mi piaceva fargli narrare le sue avventure, e udire i suoi ragionamenti: lo studiavo; talvolta lo ammiravo nelle sue avversità; ma capivo che non era un carattere facile, e che m’avrebbe dato da pensare più che i tirolesi del generale Huyn. «Caro Commissario» mi aveva detto quella mattina strada facendo, «il Generale (Garibaldi) non verrà di certo così subito, sicchè la Valtellina dovrà provvedere da sè. E non c’è che un modo. «Quale? «Bisogna _rivoluzionare_ i paesi. «Ma sono già _rivoluzionati_! «Eh ci vuol altro! «Sentiamo. «Bisogna innanzi tutto proclamare la leva in massa, mettere tutti, giovani e vecchi, con le buone o con le cattive, sotto le armi, e _marsch!_ Poi si requisisce tutto ciò che occorre; e alla prima resistenza si fanno fucilare il parroco e la Giunta Municipale. «Caro Capitano, lei deve sapere che le Giunte Municipali e i parroci sono stati i miei aiuti principali. «Sarà benissimo, ma non si fidi dei preti e dei vecchi municipi. «Stasera saremo a Grosio, e andremo dal parroco. Quando, prima della guerra, l’Austria richiamò i contingenti, ottanta soldati di Grosio stavano per raggiungere i loro reggimenti, ma il parroco disse loro: questa volta non presentatevi, tenetevi nascosti nella montagna, e a primavera le cose muteranno. Scoppiata la insurrezione, il parroco richiamò gli ottanta uomini e me li consegnò. Li vedrà all’avamposto; saranno i più bei soldati del suo battaglione... granatieri quasi tutti». Intanto il capitano continuava a crollare il capo e a dire: «Sarà, ma non si fidi dei preti!». La sera il capitano Montanari era ospitato nella casa parrocchiale di don G. B. Cornelio, parroco di Grosio. Ci si trovò bene, e ci si fermò ancora parecchie volte nell’andare o nel ritornare dall’avamposto. Per vendicarsi dei preti beveva le migliori bottiglie che don Cornelio teneva in serbo, per quando venivano i predicatori quaresimali, e lo intratteneva sulla necessità di fucilare preti, monache e frati. Un giorno giunsi appena in tempo a evitare una brutta scena, perchè il capitano voleva far volare dalla finestra un ritratto di Pio IX, che aveva trovato in una stanza di don Cornelio, e don Cornelio difendeva il ritratto e aveva brandita una sedia. Giunsi a ristabilire la pace, che il capitano volle celebrare con un paio di bottiglie del migliore che il prete avesse in cantina. Il Montanari non poteva capacitarsi che ci fossero in Lombardia tanti preti buoni patriotti e nello stesso tempo devoti al Papa. «Ma che novità è questa!» esclamava il Montanari. Il fare risoluto e coraggioso di don Cornelio, peraltro non dispiaceva al Montanari il quale ogni tanto veniva a fargli visita, e a passar con lui qualche ora fra le baruffe e le bottiglie. All’avamposto del ponte del Diavolo c’erano circa quattrocento uomini, in parte guardie nazionali, e in parte volontari, e finanzieri; ai quali s’erano aggiunti quei soldati che non si erano presentati alla chiamata del Governo austriaco. La maggior parte non aveva uniforme, ed era provveduta solo d’una coperta di lana: di armi ce n’eran poche; appena la metà degli uomini era provvista di fucili d’ogni genere. Fattili schierare, presentai loro il nuovo comandante, il quale li passò in rivista e poi disse loro poche parole brusche, come alle guardie nazionali mobilitate di Sondrio, dichiarandoli tutti arrolati senz’altro, come i Cacciatori delle Alpi. Anche questa volta nessuno osò fiatare; ma anche questa volta parecchi vennero da me a protestare, minacciando di tornarsene a casa. Li tranquillai dicendo che il capitano aveva parlato in termini generali, e non conosceva ancora come stavan le cose, ma che avrei provveduto io a suo tempo, e che si fidassero di me. L’effetto però è stato pessimo: il malcontento e l’antipatia verso il comandante non cessarono più. Alcuni, anche tra i migliori, profondamente offesi, vollero tornarsene subito alle loro case. Intanto io cercavo di racimolar gente per completare il battaglione andando, anche di casa in casa, dai contadini. Tutti si mostravano abbastanza volonterosi, ma volevano essere assicurati che non sarebbe successo come nel 48. E ricordavano l’entusiasmo, le promesse d’allora, e le sventure e i dolori che n’erano seguiti. Era già avvenuta la battaglia di Magenta, sicchè io li potevo rassicurare coscienziosamente e allora mi seguivano. Il Montanari aveva portati con sè alcuni fucili; un po’ se ne erano trovati nei quartieri austriaci, e il rimanente che occorreva per armare il battaglione me lo andavo procurando, facendo venire dei fucili, quasi a uno a uno, dalla Svizzera. Me li procuravano alcuni negozianti di vino e di granaglie di Poschiavo o dell’Engadina, che venivano di solito a fare degli acquisti in Tirano, o in casa mia. Parecchi di questi fucili erano ancora di quelli dei nostri volontari del ’48, che, sequestrati, abbandonati o venduti allora per poche lire nei paesi svizzeri di confine, rientravano, ora ricomprati per quaranta o cinquanta lire l’uno. Ma li mandavano di contrabbando, perchè i confini erano guardati da soldati della Confederazione, i quali eseguivano la loro consegna, non solo con rigore, ma con sentimenti che non c’erano benevoli. Alcuni fucili li fece venire Ulisse Salis, di quelli che aveva nascosti presso le monache di Poschiavo. Parecchi di questi soldati svizzeri, ed anche alcuni ufficiali, venivano passeggiando, quasi giornalmente, fino al piazzale del Santuario e anche fino al borgo di Tirano. Un giorno anzi il Municipio di Tirano invitò il loro comandante e gli ufficiali a una festicciuola patriottica che si faceva in paese: l’invito fu accettato; da una parte e dall’altra ci furono clamorose dimostrazioni di amicizia, e si bevette in proporzione della grande fratellanza, che doveva legare in avvenire le due nazioni. Ma tutta questa allegria si intorbidò presto. Gli austriaci mandavano spie lungo i nostri confini, cercando di riconoscere quello che si faceva da noi. Si seppe che parecchi soldati svizzeri, ritornando sul loro territorio, raccontavano sulle piazze e nelle osterie tutto ciò che avevano veduto, canzonando per soprappiù i valtellinesi per le modeste difese militari che opponevano agli austriaci. Questi discorsi imprudenti, e queste indiscrezioni, si riseppero a Tirano, e vi suscitarono una certa irritazione: alle espansioni di giorni prima, succedettero dei propositi meno fraterni; e quindi dovetti scrivere al comandante del cordone militare svizzero che si sospendessero, dall’una parte e dall’altra, i permessi ai militari di varcare il confine. Vedendo che le notizie e le informazioni, alquanto scettiche, sull’importanza delle nostre difese e delle nostre forze militari si andavano ormai diffondendo, pensai di diffondere alla mia volta dei bollettini stampati che servissero di contrappeso, e ne compilai parecchi per uso dei nostri vicini, facendoli mettere in giro nei paesi Grigioni. Questi bollettini davano sempre l’annunzio dell’arrivo imminente di Garibaldi e di un movimento di truppe piemontesi in direzione della Valcamonica e dei paesi dell’Aprica e del Mortirolo. Gli austriaci, intanto, mandavano quasi giornalmente delle forti pattuglie verso il nostro avamposto, senza attaccarci, ma spiandoci, e forse per verificare le loro notizie, ben diverse da quelle dei miei bollettini. Io passavo intanto le giornate, e parte delle notti, or lavorando nel mio ufficio a Sondrio, ora recandomi nei paesi per qualche guaio ch’era capitato, e ora correndo all’avamposto a far sermoni al mio capitano, che ogni tanto mi metteva in qualche impiccio per la sua smania di _rivoluzionare_. Egli spiccava ordini ai Municipi, a suo talento, requisiva di viva forza tutto ciò che gli occorreva, senza rilasciar ricevute, e faceva arrestare chi gli si opponeva. I Municipi mi mandavano delle deputazioni a reclamare, e ogni giorno andava allargandosi un vivo malcontento nell’alta Valtellina. Col Montanari avevo cominciato anch’io a bisticciarmi. Eravamo due uomini diversi, e con due programmi più diversi ancora; tuttavia ero il solo che riuscisse a frenarlo, in virtù di quella tal lettera con la quale Garibaldi, gli ingiungeva di tenersi sempre in accordo con me. L’essere da alcun giorni in Valtellina senza aver fatto nulla di strepitoso, senza aver neanche fucilato un chierico, parevano al mio capitano cose intollerabili: avrebbe voluto almeno che gli consegnassi quel tal professore di Sondrio: ma io a buon conto l’avevo già fatto partire per Alessandria, insieme cogli altri detenuti. Tre giorni dopo aver preso il comando di quei quattrocento che erano riuniti all’avamposto, male armati, male vestiti, e non ancora disciplinati, mi mandò a Sondrio una staffetta con un dispaccio che mi diceva: _Domani notte sorprenderò gli austriaci e piomberò su Bormio_. Corsi all’avamposto, che distava circa cinquanta chilometri da Sondrio, e giunsi in tempo a impedirgli l’impresa. Bormio era fortemente difesa dagli austriaci, e la sorpresa che voleva fare il Capitano Montanari mi pareva di più che dubbio successo. Nel posto fortissimo che noi occupavamo, quei quattrocento potevano fare una seria difesa; gli austriaci poi sospettavano che dietro l’avamposto ci fossero altri corpi, o che ne potessero venire rapidamente, e però non avanzavano. Ma se, con un nostro attacco, mostravamo loro qualche soldato male armato e dei contadini male in arnese, era evidente che dopo averci respinti, e forse dispersi, sarebbero discesi un buon tratto giù per la valle, lasciandoci di quei ricordi che appunto volevamo evitare. Il capitano era deciso a fare il suo colpo, e io a non lasciarglielo fare: la discussione non fu breve, nè piacevole: in fine conclusi che questa mossa non poteva essere fatta senza il consenso del Generale; ch’io sarei partito immediatamente per conferire con lui; e forte di quelle tali istruzioni di Garibaldi ingiunsi al capitano di non muoversi durante la mia assenza. Il capitano, dopo avere protestato e strepitato, dinnanzi al nome di Garibaldi non osò più fiatare. Partii subito quel giorno stesso, ch’era il 10 giugno, e andai difilato a Bergamo nella speranza di trovarci Garibaldi. A Bergamo arrivai il giorno 11 e scesi alla casa dei Camozzi, miei ottimi amici; ci trovai Emilio, ed ebbi la fortuna di poter veder subito Garibaldi che, tornato il giorno innanzi a Milano dove era andato a conferire col Re, si disponeva a proseguire la sua marcia su Brescia. In casa Camozzi c’era il quartier generale garibaldino. Si pensi cosa poteva essere un quartier generale di volontari vittoriosi, in una città in rivoluzione e in festa, tra una folla affaccendata di militari e di borghesi armati, tra un viavai di gente che veniva a chiedere e a portar notizie, a dar ordini e contrordini, in mezzo alla più lieta confusione e al più allegro disordine. Clemente Corte, allora capitano dello Stato Maggiore dei Cacciatori delle Alpi, si incaricò gentilmente di farmi ricevere subito da Garibaldi; cosa in quei momenti non troppo facile. Garibaldi mi accolse con quel piglio franco e cortese, con quel sorriso che sapeva essere così sereno, e con quella sua voce meravigliosa, la più bella voce d’uomo ch’io abbia mai udito; doti che spiegavano il fascino irresistibile ch’egli esercitava su tutti, anche sui più scontrosi. Raccontai a Garibaldi ciò ch’era avvenuto in Valtellina in quei quindici giorni di insurrezione; e Garibaldi sorrideva e se ne compiaceva: poi gli dissi il motivo che m’aveva condotto da lui, e i miei dubbi sull’opportunità di un colpo di mano su Bormio. Mi chiese molte informazioni e spiegazioni, su questo proposito, e mi pareva bene avviato a darmi ragione, quando a un tratto entrarono il Corte e il colonnello Thürr, a interrompere il colloquio. Il Thürr, dopo aver scambiate con Garibaldi alcune parole in disparte, venne a scambiarne altre con me con quel suo fare franco e bonario che lo rendevano tanto simpatico. Intanto il Corte informava Garibaldi ch’erano stati condotti in quel punto alcuni ufficiali austriaci prigionieri, e gli domandava degli ordini in proposito. «Conducetemeli qui, disse Garibaldi, e voi Thürr fermatevi che servirete da interprete». Mi pare ancora di vederli quei sei ufficiali; quattro erano di fanteria, e due dei cacciatori. Intorno al nome di Garibaldi correva nelle file austriache, fin dal 1848, una leggenda che faceva del famoso condottiere qualcosa di terribile e di diabolico. Gli ufficiali non avranno di certo creduto alla leggenda, ma parecchi lo consideravano probabilmente come un feroce capo di filibustieri, capace di qualsiasi eccesso; e tale doveva essere l’opinione che avevano di lui quei sei. All’annunzio che Garibaldi li faceva venire a sè, bisogna dire che avessero in quel momento pensato che li volesse passare a fil di spada di sua mano: infatti si avanzarono come persone che andassero alla morte, e due di loro erano stati presi da un tremito nervoso che non riuscivano a dominare. Garibaldi mosse loro incontro, e strinse a ciascuno la mano con aspetto affabile e cortese. Poi volgendosi a Thürr: «Domandate a questi bravi ufficiali se hanno qualche desiderio da esprimere; li affiderete a qualche nostro ufficiale perchè li accompagni a Milano, da dove poi saranno condotti ad Alessandria; viaggeranno in carrozza chiusa per sottrarli alla curiosità pubblica, e sarà lasciata a ciascuno la spada, chiedendo loro la parola d’onore che non tenteranno di fuggire». Mentre il Thürr traduceva in tedesco queste parole, quelle sei facce avevano l’espressione di chi va trasecolando, e parevano improvvisamente illuminate da un raggio di sole. Garibaldi strinse di nuovo la mano a ciascuno, e li congedò dicendo: «Bravi e valorosi ufficiali, vi saluto». Quei sei si piantarono prima nella posizione del saluto, poi strinsero anch’essi con effusione la mano al Generale, e se erano entrati indecisi parevano più indecisi ancora nell’uscire. Fu una scenetta breve e caratteristica, che non mi è mai più uscita dalla mente. Dopo si riprese il nostro colloquio, in piedi e brevemente, perchè i minuti erano preziosi. «Capisco, disse Garibaldi, l’impazienza di Montanari; quell’uomo è un valoroso, è una _perla_. Ma per ora è meglio che aspetti, e gli manderò i miei ordini scritti su ciò che deve fare». Meno male, pensai tra me. «A Bormio ci anderemo insieme, riprese Garibaldi, e lo ricompenserò destinandolo per l’attacco all’avanguardia col suo battaglione valtellinese. Col mandarle quel capitano, caro Commissario, le ho mandato una _vera perla_!». Io che stavo spiando il momento per dire a Garibaldi che a comandare il battaglione mi mandasse un maggiore, perchè il Montanari pur essendo un eroe, mi creava troppi impicci, non trovai lì per lì il modo di metter d’accordo la _perla_ col discorso che volevo fare e mi accomiatai. Garibaldi mi salutò molto cordialmente, e mi strinse la mano dicendomi: _Arrivederci in Valtellina_. CAPITOLO XXXI. 1859. VI. _Sommario:_ Vado a Milano con mio fratello Emilio a conferire col Vigliani Governatore generale della Lombardia. — Mio fratello mi racconta le varie e gravi difficoltà della sua missione. — Conferisco col Correnti e col Vigliani. — Riconferma della mia nomina a R. Commissario per la Provincia di Sondrio. — Ritorno a Sondrio. — Arrivo del colonnello Sanfront e del capitano Lodovico Trotti. — Il servizio d’informazioni militari nel Tirolo. — Due comunicazioni secrete. — Emilio m’annunzia la prossima venuta di Garibaldi. — Enrico Guicciardi Intendente di Sondrio. — Fine del mio Commissariato. — Occupazione del Mortirolo da parte delle truppe piemontesi. — Preparativi per minare le strade tra Lecco e Colico. — Movimento delle truppe austriache in Tirolo prima della battaglia di Solferino. — Si teme una invasione dal Tonale. — Il maggiore Manassero. — Manassero. — Arrivo dell’avanguardia di Medici. — La battaglia di Solferino. — Manassero si ripiega su Edolo. — Il battaglione valtellinese all’avamposto. — Attacco degli austriaci respinto. — Garibaldi entra in Valtellina. Il mio intento era riuscito in parte, e avevo impedito il _colpo di mano_, o, dirò meglio, di testa, del Montanari. Ma il mio capitano rimaneva più che mai al suo posto, e al mio fianco. Nello scendere le scale mi lamentavo con me stesso d’essermi fermato a metà; ma il fascino del Generale, la scenetta degli ufficiali, e lo stesso disordine caratteristico della stanza in cui eravamo, avevano tanta distratta la mia mente, che non raccapezzavo più nulla di quanto avevo pensato prima. _Arrivederci in Valtellina_, mi aveva detto Garibaldi. Ma quando? Pensai di recarmi dal colonnello Carrano, ch’era il capo dello Stato Maggiore, per esporre anche a lui le condizioni della difesa in Valtellina, e per sapere se l’aiuto delle forze garibaldine fosse da aspettarsi in un tempo vicino o lontano. Il Carrano mi rispose francamente che non ne sapeva nulla, e non poteva neanche presumere nulla. Gli pareva che la missione di Garibaldi, di fiancheggiare a sinistra le due armate alleate, non sarebbe così presto finita. «Ma poi, mi soggiunse infine, sulle intenzioni e sulle mosse di Garibaldi nessuno ne sa mai nulla. Come capo di Stato Maggiore io dovrei pure saperne qualche cosa, nevvero? Ma anch’io non ne so mai niente. Ciò non sarebbe regolare, ma siccome a _lui_ tutto va bene, dunque sta bene che si faccia così». Dopo tutto ciò, dopo quanto avevo veduto e sentito, rimasi con l’impressione che Garibaldi non sarebbe venuto in Valtellina così presto, e ch’io dovevo pensare quindi da me ai fatti miei. Garibaldi si disponeva a dirigersi su Brescia, dove contava entrare il giorno 13. Emilio voleva approfittare di quelle ventiquattr’ore che aveva dinanzi a sè per andane a Milano a conferire col Vigliani, che era stato nominato in quei giorni Governatore generale della Lombardia. Mi parve opportuno di fare anch’io, altrettanto per conto mio, dovendo regolare molti affari, e accompagnai Emilio a Milano. La ferrovia era occupata quasi continuamente pei trasporti militari, sicchè si dovette viaggiare alla meglio, assai lentamente, e per lunghi tratti in vettura. Eppure quel viaggio non mi parve lungo, tante furono le chiacchiere che si fecero e tante erano le cose che avevamo a dirci. Quante pagine di storia non si erano svolte in quei pochi giorni! Emilio era affaticato e stanco; mi diceva di non aver avuto che ben poche ore di riposo in quei quindici giorni in cui aveva seguito Garibaldi. La sua missione poi era stata piena di difficoltà, e alle volte dura e spiacevole, poichè «il mio incarico, diceva, è quello di servire _da guanciale_ tra l’ordine e la rivoluzione, tra il Governo regio e Garibaldi, tra i volontari e i paesi da cui passiamo». Cavour, come è noto, voleva che i francesi, entrando in Lombardia, vedessero un paese che al primo annunzio di guerra era insorto. Voleva mostrare coi fatti ai francesi che trattavasi d’una grande idea nazionale, e non d’una semplice annessione o d’una ambizione dinastica di Casa Savoia. La missione di Garibaldi, e le istruzioni ai commissari erano tutte informate a questo pensiero. Ma la rivoluzione poi doveva avere carattere nazionale e non partigiano: qui stava la difficoltà. Per fare insorgere i paesi non si poteva ricorrere solo alle persone più intelligenti e misurate, bisognava muovere molta gente; ed ecco venir a galla tutti i vecchi e i nuovi elementi rivoluzionari rimasti fuori fino ad allora da quel movimento. Questi si presentavano con tutte le loro vecchie idee, con le vecchie ubbie, colle vecchie formule e con nuove pretese. Anch’essi, come, fu detto dei vecchi governi, non avevano dimenticato nulla, non avevano imparato nulla; e abbastanza ingenuamente avrebbero voluto non curarsi, nè di Vittorio Emanuele, nè di Napoleone. Emilio si trovava ogni tanto alle prese con parecchi di costoro, insistenti e pretensiosi, che nulla comprendevano, buoni solo a creare impicci e a seminare zizzania. Garibaldi allora li ascoltava poco; tra lui e la formula _Italia e Vittorio Emanuele_ s’era ancora in piena _luna di miele_, e non voleva staccarsene. Le necessità politiche dei governi, certi usi e certi temperamenti, erano cose ch’egli sdegnava e che non sempre capiva. _Un popolo libero, tutto armato e con un dittatore_; tale era allora l’ideale di Garibaldi. Emilio ci metteva tutta la sua buona volontà per navigare in mezzo a quegli scogli, ma la cosa non era punto facile. Garibaldi passando il Ticino aveva compreso che egli si sarebbe trovato dinanzi a forze di gran lunga superiori alle sue, e che avrebbe dovuto quindi cercare la vittoria nell’agilità e nella rapidità de’ suoi movimenti: non aveva quindi voluto con sè nè impedimenti nè provviggioni; ai soldati aveva fatto lasciare gli zaini sulla sponda piemontese. I suoi soldati non potevano infatti riuscire più agili e più veloci, ma nelle loro mosse avevano naturalmente bisogni maggiori di qualsiasi truppa regolare: le richieste e le requisizioni, si andavano quindi facendo sempre maggiori, sempre più disordinate. Il Ministero della guerra aveva assegnato al corpo dei volontari un intendente; il quale seguì il corpo fin che potè, poi un bel giorno se ne ritornò a Torino, e rassegnò le dimissioni al Ministero. Il corpo dei volontari ingrossava rapidamente mano mano che attraversava i paesi di Lombardia, e con l’ingrossare crescevano i bisogni e i disordini dell’amministrazione. Chiunque, anche un semplice caporale, si credeva in diritto di requisire viveri, vestiti, cavalli, senza rilasciare ricevute, o rilasciandone di non valide. I Municipi allora si rivolgevano, gridando e strepitando, al Commissario generale, o ai Commissari locali, e questi spesso non riuscivano a metter ordine e a render giustizia. Anche qui per attutire e per placare era sempre tirato in ballo chi doveva far da _guanciale_. Emilio prevedeva che le difficoltà sarebbero andate sempre più crescendo, e desiderava prendere accordi col nuovo Governatore generale di Lombardia. Gli premeva, nel tempo stesso, di entrar in Brescia insieme con Garibaldi, per ciò non si trattenne a Milano che poche ore, e ritornò difilato a raggiungere i garibaldini in marcia. A Milano, nelle sale del Governatore generale, trovai Cesare Correnti, che mi parve avesse l’incarico ufficioso di consulente in ciò che il Governo di Lombardia era chiamato a fare in quei giorni. Il Correnti mi condusse subito nel gabinetto del Governatore Vigliani, e così ebbi la fortuna di sbrigarmi in breve senza fare anticamera per qualche ora, come succedeva pressochè a tutti. Al Vigliani, dopo avergli reso conto di quanto avevo fatto, dissi che appena paresse finita la mia missione momentanea e rivoluzionaria, si pensasse a sostituirmi, poichè non era mia intenzione di mettermi in una regolare carriera amministrativa. Il Vigliani fu con me gentilissimo, approvò quanto avevo fatto, e mi incoraggiò a continuare. Sull’invio di Garibaldi, o d’altre forze in soccorso della Valtellina, non mi seppe dir nulla; ma in compenso volle rinnovarmi i miei poteri, dandomene anzi di più ampî. Così venni nominato R. Commissario effettivo. Mi disse poi che si stava provvedendo all’amministrazione regolare delle provincie liberate, e che tra otto o dieci giorni sarebbero stati nominati gli Intendenti (prefetti). Allora io gli esposi quanto sarebbe stato opportuno per la Provincia di Sondrio la nomina di Enrico Guicciardi. Il Guicciardi, valtellinese, uomo politico, amministratore, militare, era proprio fatto apposta per amministrare una provincia di cui conosceva a fondo i bisogni, e dove c’erano dei punti militarmente importanti nella guerra che in quei giorni si guerreggiava. Il Correnti caldeggiò vivamente tale proposta, e aggiunse che del Guicciardi s’era già parlato al Ministero per affidargli questa o qualche altra importante missione. Ma la conversazione fu breve: l’usciere, che l’aveva interrotta più d’una volta, venne con una nuova ambasciata più importante delle altre, e ci alzammo in piedi tutti e tre. Il Vigliani incaricò il Correnti di stendere il decreto della mia nomina con le istruzioni e coi poteri pel commissario della Valtellina: il Correnti s’intese subito con me, e poco dopo mi consegnò il mio decreto di nomina firmato. La mattina seguente, cioè il 14, ripartii per Sondrio. Anche questa volta io tornavo a mani vuote. La mia andata a Milano aveva fatto nascere molte speranze, sicchè tornando dovetti chiudermi in un dignitoso silenzio, non osando dire che il solo rinforzo che portavo con me era un rinforzo, sulla carta, dei miei poteri. Nullameno avevo ottenuto di frenare il Montanari, ossia di incastonare la mia _perla_. Il giorno dopo il mio ritorno a Sondrio m’ebbi una grata sorpresa. Mentre ero sulle mosse per recarmi all’avamposto, arrivarono il colonnello Sanfront e il mio amico marchese Lodovico Trotti, capitano di cavalleria, ambedue addetti alla casa militare di Vittorio Emanuele, che venivano dal quartier generale mandati a visitare le posizioni della Valtellina. Quella visita era stata, forse, in parte promossa anche dai rapporti che mandavo ora a Emilio, ora al quartier generale: e non è a dire quanto ne fossi lieto: mi pareva d’aver trovato finalmente un valido appoggio, mi pareva d’aver messa al sicuro la mia responsabilità. Il colonnello Sanfront voleva ispezionare minutamente e militarmente il nostro punto di difesa e le nostre piccole forze; io quindi, per lasciargli la maggior libertà, dopo averlo informato di tutto non lo accompagnai che fino al Bolladore, villaggio che distava alcuni chilometri dall’avamposto. Sanfront e Trotti vennero a prendermi verso sera per ritornare a Sondrio. Il colonnello aveva fatto molte osservazioni, e il capitano Montanari le aveva pigliate maluccio. C’era stato, a quanto mi disse il Trotti, un battibecco al quale il colonnello aveva presto messo fine bruscamente con la sua autorità militare. Il Montanari aveva già avuto l’ordine di Garibaldi di sospendere qualsiasi mossa offensiva, ma egli voleva reclamare ed insistere; ora il Sanfront gli aveva ripetuto l’ordine di Garibaldi col piglio più severo. Capii che il mio Montanari era piaciuto poco al Sanfront, ch’era un vecchio e rigido militare; e infatti prima di partire egli mi disse ch’era urgente l’invio di forze regolari, o meglio disciplinate, per difendere le posizioni importanti della Valtellina, e che soprattutto poi era urgentissimo il mandare qualche altro a prendere il comando del nostro battaglione in formazione. Il Sanfront mi diede altresì l’incarico secreto di procurarmi regolarmente, e di mandare al comando dell’esercito, delle informazioni sui movimenti delle truppe austriache nei paesi al di là dello Stelvio, e nella valle dell’Adige; servizio difficile e pericoloso. Ne incaricai il mio amico Giovanni Salis, fratello del conte Ulisse del quale ho già parlato: il Salis seppe disporlo benissimo per mezzo di vecchi militari che avevano servito nei reggimenti austriaci, che conoscevano la lingua tedesca e i paesi del Tirolo, ed erano in grado di dare informazioni sicure e precise. Di tali informazioni potei mandarne al campo parecchie, prima della battaglia di Solferino. Ricordo, come curiosità anedottica, che quello spionaggio costò al mio amico Salis tremila lire, e che non so quale autorità competente burocratica, voleva poi addossarle a lui o al Commissario Regio, ossia a me; ma per fortuna un ministro, non della guerra ma dell’interno, credette alla mia parola, e il Salis fu rimborsato. Tra le carte e le lettere che si erano accumulate sulla mia scrivania, durante quei quattro giorni in cui ero andato a Bergamo e a Milano, rammento ancora, due dispacci _personali e confidenziali_, uno dei quali veniva dal quartier generale francese, e l’altro dal gabinetto particolare del Ministro degli affari esteri. Il dispaccio francese era scritto dal capo della Polizia addetta al comando dell’esercito. Questo Commissario-capo, di cui non rammento il nome, mi scriveva d’essere stato avvisato dalla Polizia centrale di Parigi che due francesi, dei quali mi si davano i nomi e i connotati, erano partiti per l’alta Italia col mandato di attentare durante la campagna alla vita dell’Imperatore, e che per meglio riuscire nel loro intento si sarebbero eventualmente arruolati in qualche corpo italiano di regolari o di volontari si pregava quindi me pure di far esercitare molta sorveglianza, specialmente ai confini svizzeri, dai quali quei due sarebbero penetrati in Lombardia. Il Vigliani mi aveva appunto mandato in quei giorni alcuni carabinieri. Diedi il dispaccio al maresciallo, il quale poi di tanto in tanto veniva a dirmi che nessuno individuo _qualificato francese_ erasi _infiltrato_ nella valle. Il dispaccio del Ministero degli esteri, con la firma di Cavour, mi comunicava che informazioni provenienti dalla Svizzera avvisavano il Governo piemontese esserci in qualche località della Confederazione, e specialmente nel Canton Grigione, dei complotti e delle mene per promuovere in Valtellina un movimento nella pubblica opinione, e occorrendo dell’agitazione, nel senso di una aggregazione della valle ai Grigioni, o almeno alla Svizzera. Il dispaccio riteneva queste voci esagerate e prive d’importanza; nonostante me le comunicava per mia norma, e mi chiedeva quale poteva essere, a parer mio, l’opinione pubblica in Valtellina su tale argomento. La mia risposta fu pronta e precisa. Allora viveva ancora tutta quella generazione, che aveva udito dai propri padri narrare con quanti sforzi la Valtellina era riuscita a staccarsi dai Grigioni; da quei padri, ai quali era giunta l’eco ancor viva e forte dei dolori patiti sotto il Governo delle Leghe Grigie, e dell’odio che si era accumulato da tre secoli verso gli antichi dominatori. Nei contadini, e nel popolo minuto, era rimasta un’avversione mista di antipatie personali e di odii religiosi, che si manifestavano in mille modi, fin in pratiche religiose che ricordavano le antiche lotte. Di più le relazioni maggiori per interessi, per studî, per conoscenze, per affinità di stirpe avevano sempre attirati i valtellinesi verso la Lombardia; con la quale avevano mantenuta, anche dopo esserne stati divisi, una solidarietà che fu indistruttibile. I valtellinesi poi, come erano stati ad essa ricongiunti dopo il 1797, avevano partecipato alle stesse aspirazioni nazionali, e in ogni occasione avevano dato prove dei sentimenti del loro patriottismo e della loro italianità. I miei poteri _dittatoriali_ si avvicinavano alla loro fine. Il Governo del Re cominciava a costituirsi regolarmente in tutti i paesi ch’erano dietro le linee occupate dagli eserciti francese e piemontese. Emilio mi aveva scritto che presto sarebbe cessata la sua missione, e che Garibaldi avrebbe ripiegato verso la Valtellina. Alcuni giorni dopo questa comunicazione ne ebbi un’altra dal Vigliani, il quale mi annunziava la nomina di Enrico Guicciardi a Intendente della Provincia di Sondrio. L’avevo vivamente desiderata, e ne fui lietissimo. Il Guicciardi arrivò a Sondrio il giorno 20 di giugno, e il giorno seguente gli feci la consegna dell’ufficio. I miei poteri erano durati appunto tre settimane, e li deponevo con un grande sollievo, e non senza una certa intima soddisfazione. Li avevo assunti con quella pronta riflessione del dovere, con cui allora tutti assumevano tutto: mi poteva succedere di dare il mio nome a un disastro per la mia provincia nativa, e invece la sorte mi era stata favorevole. Non ci avevo compiuto certamente nulla di eroico, ma forse avevo contribuito ad evitare qualche danno, e così finivo contento. Il Guicciardi mi fece subito, anche in nome del Governo e con molta insistenza, parecchie offerte cortesi ed onorifiche; ma, avendo io detto esplicitamente che desideravo soltanto di rimanere col battaglione valtellinese, egli propose ch’io avessi intanto l’ufficio di ispettore per tutto ciò che riguardava questo battaglione, col grado di capitano di Stato Maggiore nei volontari e che risiedessi in Bormio fino a che il battaglione fosse chiamato a un azione offensiva oltre il confine; nel qual caso avrei potuto riprendere eventualmente l’ufficio di R. Commissario in qualche paese occupato. Accettai queste proposte, e il Guicciardi qualche giorno dopo mi comunicò che anche il Governo le aveva approvate. Alcuni giorni prima, una Commissione della Valcamonica era venuta da me, per la seconda, volta, con la proposta di riunire al Commissariato di Valtellina anche la zona di Edolo, allo scopo di avere una difesa meglio concentrata e più pronta dinanzi agli austriaci dello Stelvio e del Tonale. Questa Commissione fin dal giorno 10 si era recata a Bergamo e aveva persuaso mio fratello a fare un decreto col quale io ero nominato Commissario anche per la zona di Edolo. Ma io che avevo già sulle spalle un peso non lieve, avevo pregato mio fratello e la Commissione a metter da parte pel momento quel decreto, ed a prendere intanto qualche altro provvedimento. Ora la Commissione era tornata con quel tal decreto in mano, e gentilmente insisteva per avere la mia accettazione. Ma ormai i commissariati volgevano al loro tramonto, e io diressi la Commissione al Governatore Vigliani, pregandolo di sollecitare per la Valcamonica quei provvedimenti che si andavano applicando agli altri paesi dal Governo di Lombardia. La Valcamonica non tardò a vedersi fortemente difesa: vi fu mandato un reggimento della brigata Regina, la quale, sotto gli ordini di Cialdini, era stata distesa lungo gli sbocchi alpini fronteggianti il Tirolo. Il colonnello Brignone, che comandava il reggimento, ne staccò poi tre compagnie, e le diresse in Valtellina col maggiore Manassero e col colonnello di Stato Maggiore Ricci. Le tre compagnie arrivarono il 22 giugno. Avvisatone, andai loro incontro, e col maggiore e col colonnello si fece una rapida corsa in carrozza tra la Tresenda e Grosio. Data un’occhiata ai vari punti, il colonnello e il maggiore fecero occupare con le loro compagnie Mazzo e il passo del Mortirolo, che sta a cavaliere tra la Valtellina e la Valcamonica. Non credettero prudente di occupare un posto più avanzato, lasciando che all’avamposto del ponte del Diavolo, che poteva essere preso alle spalle appunto da Mazzo, rimanessero delle forze irregolari. Il colonnello Ricci mi disse che l’invio delle tre compagnie in Valtellina era un primo risultato del rapporto fatto dal colonnello Sanfront al quartiere generale. Ritornando a Sondrio seppi dal Guicciardi che Garibaldi aveva lasciato Salò, e si dirigeva verso la Valtellina, ove sarebbe arrivato alla fine del mese, e cioè dopo otto giorni circa di marcia, preceduto dal Medici che veniva innanzi con una avanguardia. Mi disse anche che il comando francese aveva mandato una compagnia del genio a preparare mine lungo la strada tra Lecco e Colico, caso mai gli austriaci pigliassero quella direzione, dopo aver spazzato le poche forze che c’erano in Valtellina. Così, dopo averci dimenticati per un pezzo, s’eran tutti svegliati, e cominciavano a venire i provvedimenti in abbondanza. Venivano in un buon punto, poichè a un tratto s’era levato un nuovo allarme. Qualche giorno prima della battaglia di Solferino erano stati osservati dei movimenti e dei concentramenti di truppe austriache al di là del Tonale, che avevano lasciato credere a un’invasione in Valcamonica. Varie circostanze avevano talmente avvalorata questa voce, e il fatto parve tanto imminente, che il maggiore Manassero si ripiegò rapidamente da Mazzo a Tresenda per sorvegliare l’Aprica, mentre il Medici, accelerando la sua marcia, arrivava il giorno 24 a Tresenda unendosi col Manassero. Parte del battaglione valtellinese fu richiamato a Mazzo, e all’avamposto non rimase che una compagnia e mezza sotto il comando del tenente Zambelli, giovane bresciano intelligente e risoluto. Questo movimento veniva compiuto in poche ore. Il giorno dopo ci arrivò la notizia della battaglia di Solferino, e si seppe che gli austriaci, dopo essere scesi dal Tonale a fare una ricognizione verso Edolo, si erano allontanati. Allora il maggior Manassero si portò all’Aprica e ad Edolo, e le compagnie del battaglione valtellinese ritornarono all’avamposto, ove s’era pure recato il Medici per visitare le posizioni. Insieme con le compagnie valtellinesi si era recata all’avamposto un’avanguardia di circa mezza compagnia dei garibaldini del Medici accampati a Tresenda. Questa mezza compagnia era comandata dal capitano Strambio pavese; soldato non bello, ma ottimo. Era alto e magro; nel suo portamento non c’era nulla di militare; pareva un archivista o un _protocollista_ a cui avessero in quel momento buttato sulle spalle il cappotto d’un soldato; ma i soldati lo amavano e lo ammiravano; viveva sempre con loro, occupandosi di tutto e di tutti con premura e con tatto; al fuoco lo dicevano valoroso e calmo, come se quella fosse la sua occupazione ordinaria. Il nostro avamposto, al ponte del Diavolo, era appena rioccupato, e Medici se ne era appena allontanato per poco, quando di improvviso scesero ad attaccarlo vigorosamente alcune compagnie di austriaci, credendo forse di sorprendere i pochi che c’erano il giorno prima. Si impegnò un vivo combattimento, che durò un paio d’ore, e che fu il fatto d’arme principale ch’ebbe a sostenere il battaglione valtellinese in quella breve campagna. Gli austriaci rinnovarono più volte l’attacco, portandosi fin sotto al terrapieno che chiudeva la valle, e dietro al quale stavano i nostri. Questi, meno gli ufficiali, si trovavano al fuoco per la prima volta, e ci stettero con quella calma che distingue i montanari, abituati ai pericoli. Parte di essi, circa un centinaio, non erano ancora armati; ma accorsero essi pure, e arrampicatisi sulle falde scoscese del monte che sta di fianco alla strada postale, presero a far rotolar sassi e a staccar pezzi di macigni mandandoli giù per la china, obbligando gli austriaci ora a ritirarsi, ora a cercar riparo contro quella valanga di pietre. Questi montanari senza armi decisero forse il buon risultato del combattimento. Il sole tramontava, l’attacco non era riuscito e gli austriaci ritornarono a Bormio: noi non avevamo avuto morti, ma parecchi feriti[36]. Il giorno seguente, ossia il 27 giugno, il Medici faceva marciare in avanti i suoi ottocento soldati che accampavano a Tresenda, e portava l’avamposto dal ponte del Diavolo qualche chilometro più in su, a S. Antonio di Morignone, da ove scendevano ancora tratto, tratto, delle grosse pattuglie austriache ad attaccare, intimando al Municipio di Bormio delle forti requisizioni. Il giorno stesso entrava in Valtellina, coll’intera sua brigata, Garibaldi, al quale era stata affidata la difesa di tutti gli sbocchi alpini, lo Stelvio, il Tonale, il Caffaro e la Rocca d’Anfo, mentre Cialdini che vi aveva prima il comando ripiegava su Brescia. NOTA. [36] In quel combattimento si distinsero il capitano Strambio, il tenente Zambelli e il Quadrio di Sondrio, il sergente Putti, i soldati De Maestri, Del Castello, Solari, Mirri, Trinca di Tirano, e Sassella di Grosio. (_Relazione del colonnello Medici su quanto ha operato in Valtellina_ nel libro i _Cacciatori delle Alpi nel 1859_, di Francesco Carrano). CAPITOLO XXXII. 1859. VII. _Sommario:_ D’accordo con Guicciardi parto per Torino per affari amministrativi. — Un’udienza da Cavour, a Torino. — Emilio a Modena. — Io ritorno a Sondrio. — Marcia del Medici su Bormio. — Presa di Bormio. — Attacco dei Bagni di Bormio. — Ritirata degli austriaci ed occupazione da parte loro di _Sponda lunga_. — Rimango alcuni giorni a Bormio. — Stanchezza dei volontari. — Ritorno del battaglione valtellinese a Sondrio. — Mio ritorno a Sondrio, con Guicciardi. — Richiamo del capitano Montanari. — Arrivo dei Cacciatori degli Appennini. Di concerto col Guicciardi avevo fissato di fare una corsa a Torino per definire parecchie questioni amministrative e militari, che si trascinavano da alcune settimane. Ora poi che venivano tutti i corpi garibaldini, i vecchi e quelli di nuova formazione, ci occorreva di avere dal Governo nuove istruzioni. Io poi, personalmente, avevo bisogno di regolare diversi affari. Per tre settimane avevo governato colle casse vuote, avevo fatto venir armi e munizioni, materiali e provviste da guerra, procurando di evitare le requisizioni e di disturbare il meno possibile i comuni e i cittadini. La maggior parte delle spese le avevo dovute fare rilasciando cambiali alle volte anche solo in mio nome, nella speranza di un esito finale felice. Le cambiali oramai erano prossime a scadere e parevami giunto il momento di pensare a pagarle. L’avere un’udienza da Cavour, in quei giorni, non era facile, nondimeno ci riuscii. Non aspettai che due giorni, intanto preparai mentalmente il discorsetto che avrei fatto. Quando si parla coi ministri, bisogna non divagare e non perdere di vista lo scopo che si vuol raggiungere. Il barone Ricasoli, quand’era ministro, nel dare le udienze prendeva la parola pel primo, con una formula che gli era abituale: «Signore, s’accomodi», diceva tutto serio, «parli e procuri di esser breve e chiaro». L’altro, allora, se non aveva pronto il suo bravo discorsetto breve e chiaro, dinanzi a quell’uomo severo e stecchito perdeva il filo delle idee, e l’udienza andava a rotoli. Cavour mi lasciò dire, solo interrompendomi di tanto in tanto con qualche interrogazione, e prendendo degli appunti circa gli ordini che doveva dare per provvedere agli affari della Provincia di Sondrio. Non mancai di dirgli che anche l’Intendente Guicciardi era molto impensierito per l’affluire di tanti corpi di volontari tutti insieme, in un paese piccolo e di poche risorse, mentre, per tener fronte agli austriaci, od anche per prendere l’offensiva, potevano bastare forze minori, purchè scelte e adatte. Avendomi Cavour incoraggiato a precisare meglio il mio pensiero, gli dissi che per lo Stelvio potevano bastare pochi battaglioni, formati in maggioranza da montanari e da gente pratica dei luoghi, dei quali avrebbe potuto prendere il comando molto utilmente lo stesso Intendente Guicciardi; mentre a Garibaldi sarebbe rimasto un altro campo più vasto e importante d’azione, la difesa cioè e l’attacco di tutti gli altri sbocchi alpini. Pensiero questo che era comune a quanti conoscevano il Guicciardi e le cose di Valtellina. Cavour mi rispose che altri gli avevano comunicata questa idea; ch’egli l’aveva avuta presente nel nominare Guicciardi Intendente di Sondrio, e che l’avrebbe forse effettuata a seconda dello svolgersi degli avvenimenti. L’idea allora non si effettuò, ma la vedemmo in pratica nel 1866, e il risultato dimostrò ch’era buona. L’udienza fu breve. Delle cose pensate il giorno prima ne avevo detto solo una parte; il rimanente lo avevo soppresso un po’ per discrezione, e un po’ vedendo che molte cose le sapeva già. Sbrigate poi le mie varie faccende, che dipendevano dai ministeri, me ne andai a Milano, ove rimasi due giorni, prima di ritornare al mio posto; lieto che certe forniture militari, di cui mi aveva incaricato il Guicciardi, mi permettessero, senza mancare al mio dovere, di passare un paio di giornate in famiglia con mia madre ch’era tornata dalla Valtellina, coi miei fratelli e coi miei più intimi amici. A Milano trovai Emilio, che, finita la sua missione, era stato improvvisamente chiamato da Farini in quei giorni a Modena. Emilio non sapeva capacitarsi di quella chiamata; si trattava di assumere delle funzioni presso il Governatore, mentre egli aveva già presa una risoluzione diversa; era quindi oscillante tra l’andare o il rifiutare. La risoluzione diversa era quella di arrolarsi nelle guide di Garibaldi, appena finito il suo commissariato regio. — «E come mai, domandava Emilio, poteva essergli venuta quella improvvisa chiamata da Farini?» Egli non lo sapeva, e non lo seppe che un pezzo dopo. Ma a me lo confidò subito in secreto mia madre appunto in quei giorni in cui ero a Milano. Mia madre, appena saputa l’intenzione di Emilio di arrolarsi nelle guide di Garibaldi, aveva chiamato il Correnti, e gliela aveva comunicata, dicendogli: «Non le pare che in questi momenti Emilio possa fare qualche cosa di meglio che la guida a cavallo?» Il Correnti ringraziò mia madre d’averlo avvisato, prese la cosa a cuore, e pensò di scrivere al Farini, ricordando che questi aveva molta simpatia per Emilio e lo aveva grandemente lodato con tutti per la prontezza con cui aveva accettato il non facile incarico di Commissario del Re al campo di Garibaldi. Emilio, spinto da tutti, finì con l’accettare la chiamata di Farini; e questo fu il primo passo della sua carriera politica. Il Farini aveva chiamati intorno a sè alcuni valenti giovani, e aveva formata con essi la propria segreteria. Poi, quando dopo la pace di Villafranca, assunse la dittatura nei Ducati, assegnò ad alcuni di questi giovani degli uffici di maggiore importanza, e ad Emilio affidò le trattative delle annessioni e delle questioni di politica estera. La mattina del 2 luglio ripartii per Sondrio, e trovai per strada Lodovico Trotti, il quale era stato di nuovo mandato in Valtellina dal quartier generale del Re, dove era giunta la notizia di forti concentramenti di truppe nel Tirolo verso i confini italiani: si desideravano delle informazioni da noi. Il Guicciardi potè presto rispondere che quelle truppe erano corpi reduci da Solferino, riuniti in quei posti per esservi riordinati. La sera stessa in cui giunsi a Sondrio, il Guicciardi mi annunziò che il Medici marciava su Bormio, e che dovevamo quindi indirizzarci a quella volta subito anche noi. E così si fece, e così aggiunsi alla mia giornata di viaggio altri sessanta chilometri, nella notte in carrozza, senza prender fiato. Arrivammo a Bormio, che era già caduta in potere dei nostri la mattina del 3. Garibaldi ci arrivò poco dopo noi. Il giorno prima il Medici, mandando innanzi il battaglione valtellinese, sostenuto dal proprio reggimento, aveva occupato Ceppina, e poi aveva marciato rapidamente su Bormio, impadronendosene quasi di sorpresa, dopo brevi scaramucce. Gli austriaci si erano prontamente ritirati ai Bagni nuovi e ai Bagni vecchi, due forti posizioni, e vi si erano concentrati, tagliando le strade e facendo saltare il ponte della prima galleria della strada dello Stelvio. Nella giornata i garibaldini erano andati ad occupare diverse posizioni di fianco a quelle austriache, e Garibaldi aveva visitati e studiati i punti di attacco, insieme anche con diverse persone del paese pratiche delle località. Dopo di ciò Garibaldi ordinò che nelle ore pomeridiane si desse l’assalto alle posizioni dei Bagni nuovi. Pranzammo io e Guicciardi, poco dopo mezzogiorno, in compagnia di alcuni ufficiali dello Stato Maggiore garibaldino e di Agostino Bertani, Capo delle ambulanze: eravamo tutti alloggiati, anche Garibaldi, nell’albergo Clementi. Poi, tutti assieme, ci spingemmo avanti sulla strada postale che da Bormio conduce ai Bagni per vedere l’attacco alle posizioni austriache incominciato da poco. Da quella strada, lunga circa quattro chilometri in salita, ne percorremmo più della metà. Mano mano che si procedeva si vedevano più distintamente le mosse dei nostri e i fuochi degli austriaci: i soldati di Bixio eran quelli che vedevamo più da vicino, a ducento metri all’incirca, mentre si arrampicavano e si distendevano sulla falda scoscesa della Reit, che appunto noi costeggiavamo. Essi tentavano la difficile impresa di portarsi più in su, per dominare i posti da dove facevan fuoco gli austriaci; ma la falda era tutta franosa, e procedevano a stento, mentre gli austriaci dall’alto e in posti difesi facevan fuoco continuamente su loro. Più lontano si sentivano le fucilate che gli austriaci scambiavano furiosamente dai Bagni nuovi coi garibaldini, i quali ne tentavano l’assalto, salendo dal piano sottoposto verso il poggio dei Bagni. Su quel punto il combattimento fu deciso dal comparire dei tiratori garibaldini sulla falda del monte che sta a occidente dei Bagni: allora gli austriaci si ritirarono più in su, verso i Bagni vecchi, e in posizioni naturalmente più riparate. Nella svolta d’una delle molte insenature della strada postale ci trovammo a un tratto in un punto da dove vedevamo a circa trecento metri i cacciatori tirolesi, che distesi in catena, e dietro i naturali ripari del terreno, tiravano sui cacciatori di Bixio. Ma anche loro videro noi: videro questo gruppo d’ufficiali, che salivano piano piano lungo lo stradale, osservandoli coi canocchiali puntati, e ci presero subito di mira: per fortuna tenevano la mira un po’ alta, e le palle fischiavano a un metro circa sopra le nostre teste. Ma venivano diritte, e distintamente in direzione di ciascuno di noi. Queste fucilate durarono qualche tempo, che a me, non abituato a far da bersaglio, non mi parve breve. I miei compagni ufficiali dovevano naturalmente, per l’onore della professione, mostrare la più completa indifferenza: perciò senza allontanare i canocchiali dagli occhi, e rimanendo fermi in mezzo alla strada, continuavano la conversazione come se fossero al caffè, facendo anche della maldicenza, e cioè criticando il tiro di quei tirolesi. Io invece, in cuor mio, mi sentivo più indulgente. Era la prima volta che mi sentivo fischiar le palle sulla testa per parecchi minuti di seguito, in attesa di quella rettifica del tiro di cui si intrattenevano i miei compagni della passeggiata. Se qualcuno mi domandasse quale fosse la mia impressione in quel momento, direi sinceramente che, secondando il primo movimento dell’animo, mi sarei volentieri tirato dietro un muro che pareva messo lì apposta; ma poi altri sentimenti presero ben presto il sopravvento, e rimasi anch’io piantato in mezzo alla strada, disinvolto come gli altri, anzi, per non parere da meno, non mi mossi che quando loro si decisero a continuare la passeggiata, entrando in una insenatura dove si sentiva meno frequente il fischiar delle palle. Calata la notte i cacciatori di Bixio ripiegarono su Bormio: il nostro attacco di fianco non era riuscito, e durante la notte gli austriaci si ritirarono alla posizione detta la _Sponda lunga_, dopo aver incendiata la prima cantoniera sullo stradale dello Stelvio. La presa di Bormio era stata fatta con impeto, con rapidità, ma non bene. Se si fossero meglio studiate le posizioni, si sarebbero potuti ottenere dei vantaggi ben maggiori: invece, contentandosi di respingere senz’altro quelle prime compagnie che si trovarono di fronte, si lasciò che il rimanente delle truppe si concentrasse facilmente nella forte posizione di _Sponda lunga_, dalla quale, se fosse continuata la guerra, sarebbe stato difficile scacciarle. Il Guicciardi nel 1866, in quelle medesime posizioni, con forze assai minori, ma con mosse abili e ben combinate, seppe ottenere risultati ben più importanti. Il giorno seguente ci fu tregua. Gli austriaci si trincerarono a _Sponda lunga_ posizione che domina gran parte dello stradale dello Stelvio, e che non può esser presa se non girandola traverso ghiacciai e vie quasi inaccessibili; operazione che, come ho detto, doveva in parte riuscire sette anni dopo al Guicciardi. Ci fermammo noi pure, il Guicciardi ed io, a Bormio una giornata, che il Guicciardi impiegò nel dare informazioni, sui luoghi e sul da farsi, allo Stato Maggiore, al Medici, al Cosenz e a Bixio: io rividi con gran festa molti amici, che mi narrarono le vicende toccate a ciascuno in quella campagna rapida e avventurosa; ma di tutti mi colpì la grande stanchezza non dell’animo, ch’era sempre in tutti alto e lieto, ma del corpo. Avevano percorso, in quei due mesi, più di seicento chilometri, a piedi, non riposando quasi mai che nell’aperta campagna, senza tende, senza zaino, senza preparazione di sorta alla vita militare; e moltissimi cominciavano ad essere sfiniti e malaticci. Un ufficiale mio amico, il valoroso Migliavacca, che morì poi a Milazzo, mi disse queste precise parole: «Fin qui ci ha condotti l’orgasmo; ma, se si dovesse marciare innanzi subito, non troveremmo venti uomini per compagnia capaci di seguirci.» Ed era proprio così. Pochi giorni dopo, gli ospedali, le caserme, le case, nell’alta Valtellina, rigurgitavano di garibaldini malati per spossatezza, per febbri, per tifo. Prima di lasciar Bormio, Guicciardi ebbe un colloquio anche con Garibaldi, ed ottenne che gli mandasse a Sondrio il battaglione valtellinese; il quale aveva bisogno d’esser equipaggiato e rifatto di pianta, sebbene il Montanari non la pensasse così; per la qual cosa, forse, il battaglione non ci fu mandato che dopo nuove insistenze, e dopo parecchi giorni. Ritornati a Sondrio trovammo l’annunzio che il giorno 7 sarebbero arrivati in Valtellina i Cacciatori degli Appennini, reggimento di volontari ch’era stato formato pel primo dopo i Cacciatori delle Alpi. Ci era annunziata anche la venuta di drappelli e di altre compagnie in formazione. I volontari, tutti insieme, avrebbero formato cinque reggimenti di quattro battaglioni ciascuno, che dalla Valtellina sarebbero poi in parte passati ad occupare le alte valli lombarde, col comando generale in Lovere di Valcamonica, con Medici in Valtellina e Cosenz in Val Sabbia. Quest’annunzio veniva ad accrescere di molto il lavoro dell’Intendenza di Sondrio, la quale doveva provvedere rapidamente alle sussistenze, ai quartieri, alle ambulanze per tutte queste nuove truppe, che, come sapevamo già per esperienza, sarebbero giunte con esigenze e bisogni. Il Guicciardi pregò me e il Bonfadini, che in quei giorni era venuto a Sondrio guarito, di aiutarlo nel prendere tutti i provvedimenti necessari. Mi ricordo che lavoravamo tutti e tre insieme nella medesima stanza per scambiarci i nostri pensieri, e consigliarci a vicenda quando occorreva. Con ciò avevamo anche l’occasione più facile di alleggerire i sopraccapi con qualche risata; e le occasioni c’eran date di solito dai carteggi di gente spaventata, di rivoluzionari progettisti, di fabbricatori di piani di guerra, e di cercatori di impieghi. E siccome in questi carteggi eravamo chiamati spesso con dei titoli altisonanti, così, anche noi, imitandone lo stile, se erano affari di mia spettanza, il Bonfadini mi passava le carte scrivendoci in fronte al _R. Intendente Generale delle armate di S. M. in Valtellina_, e quando io le passavo a lui, ci mettevo a _S. E. il Ministro dell’Interno di tutte le Valtelline_. Si rideva, ma alle volte si tiravano anche _dei moccoli_, come si diceva in gergo militare; ed era quando fioccavano dispacci dai ministeri, dal governatore generale della Lombardia, dal quartier generale di Garibaldi, da colonnelli, da capitani, e se occorreva da caporali, che volevan cose impossibili, o davan ordini che erano in contraddizione l’un con l’altro. Le competenze, le gerarchie, le legalità, era tutta roba in istato di caos, e alle volte c’era una confusione da perderci la testa. Mi pare ancora di vederlo quell’impiegato del Municipio di Sondrio, ch’era stato incaricato di farmi da segretario, tutto il giorno colle mani nei capelli! In quel tempo ebbi occasione di ammirare sempre più la testa ordinata e calma di Enrico Guicciardi. Qualche giorno prima che arrivasse a Sondrio il battaglione valtellinese, mi vidi capitare il capitano Montanari che, di mal umore e accigliato più del solito, m’annunziò d’essere stato richiamato e destinato, non rammento se a Lecco o a Bergamo, dove c’erano dei depositi di volontari: e ciò mentre appunto sperava d’esser nominato maggiore del battaglione valtellinese. Il mio pensiero corse in quel momento al colonnello Sanfront, e ai miei rapporti dei primi giorni. «Questo è un tiro dei preti!» esclamò il Montanari. «Se ne facevo fucilare un paio quando venni in Valtellina, a quest’ora ero maggiore del battaglione! Caro Commissario, non glielo dicevo io?» Non lo rividi più. Molti mesi dopo seppi che, partito coi _Mille_ e gravemente ferito a Calatafimi, era morto pochi giorni dopo: era morto da prode, quale era sempre stato. Il giorno 7 luglio incominciarono ad arrivare a Sondrio i _Cacciatori degli Appennini_, distribuiti in vari luoghi della provincia, ma non più in su di Tirano. Questo reggimento era stato formato in Piemonte, dopo la partenza dei Cacciatori delle Alpi, coi nuovi volontari che accorrevano da ogni parte d’Italia, e di cui n’era stato dato il comando da principio al generale Ulloa. Arrivavano freschi, bene in assetto, come soldati che mutassero di guarnigione; e infatti non avevano sostenute marce faticose, e non erano ancora stati condotti al fuoco. Eran meglio in assetto dei Cacciatori delle Alpi, ma non ne avevano del pari l’entusiasmo, il piglio militare, e lo spirito garibaldino. Nei Cacciatori delle Alpi, in cui predominavano i lombardi e i volontari dell’alta Italia, c’era anche una maggior fusione di amicizie, di caratteri, di sentimenti; nei Cacciatori degli Appennini c’era una maggior varietà e diversità: erano d’ogni parte d’Italia, giovanissimi e maturi, studenti e professori, artigiani e uomini politici. Nei Cacciatori delle Alpi c’erano i primi accorsi, quelli che, traverso gravi pericoli, avevano lasciato le loro cose, quando tutto era ancora incerto, forse per non rivederle mai più: nei Cacciatori degli Appennini c’erano in maggior numero quelli venuti più tardi, per adempiere a un dovere, e quelli venuti dopo la dichiarazione della guerra. Anche nei Cacciatori degli Appennini trovai parecchi amici d’ogni parte d’Italia, e rammento tra questi il Montanelli, che col modesto cappotto del soldato seguiva umilmente il duca di S. Donato, il quale pomposamente precedeva a cavallo un battaglione di cui era maggiore. Subito dopo l’armistizio i Cacciatori degli Appennini furono mandati nella Valcamonica, raggiunti poi dai Cacciatori delle Alpi, di cui non rimase in Valtellina che il reggimento del Medici. CAPITOLO XXXIII. 1859. VIII. _Sommario:_ Il Guicciardi chiama Garibaldi a Sondrio. — L’armistizio. — Il battaglione valtellinese. — Il soldato Antonio Pievani, e le sue convinzioni religiose. — Diventa uno dei Mille, poi si fa frate. — La notizia della pace di Villafranca. — Dolore e turbamento degli animi. — Scioglimento dei corpi volontari. — Mi ritiro da ogni incarico, e parto per Milano. In coda ai Cacciatori degli Appennini, capitava in Valtellina, quasi giornalmente, qualche drappello di volontari mandati da vari punti delle provincie lombarde per essere aggregati ai corpi garibaldini. Eran di solito gente d’ogni condizione e d’ogni età, spesso laceri e con l’aria stanca e patita. C’eran dei vecchi e perfino dei fanciulli che, spinti dall’entusiasmo, seguivano per qualche tappa qualche corpo garibaldino, e venivano poi raccolti lungo la strada e spediti ai depositi principali, i quali ne facevano una scelta e ne rimandavano buona parte alle loro case. Uno degli spettacoli caratteristici e commoventi di quei giorni era l’entusiasmo, la foga irresistibile, con cui la gente accorreva sulle orme garibaldine, o si levava come mossa da un turbine se compariva Garibaldi. Il fascino che Garibaldi fin d’allora esercitava sulle moltitudini era meraviglioso, alle volte pareva quasi inconcepibile, e meritava di essere osservato e studiato. Garibaldi, quando attraversava un paese, sebbene allora non portasse la camicia rossa, non si sarebbe detto che fosse un generale, ma il capo d’una religione nuova, seguito da turbe fanatiche. Nè, meno degli uomini, erano entusiaste le donne, che portavano perfino i loro bambini a Garibaldi perchè li benedicesse, o perfino li battezzasse! A queste turbe che gli si affollavano intorno Garibaldi soleva rivolgere la parola con quella sua dolcissima voce, ch’aveva pure la sua parte nel fascino ch’egli esercitava. «Fate arma d’ogni falce, e d’ogni scure» soleva dire ai suoi ascoltatori sulle piazze e per le strade. «Venite! Chi rimane a casa è un vile! Io non vi prometto che fatiche, stenti, e fucilate. Ma vinceremo o moriremo!» E dopo simili parole, che non erano allegre, l’entusiasmo saliva al massimo grado: e non mancava mai anche quando le parole di lui erano insignificanti; ma, tra lui che parlava e la folla che lo ascoltava, c’era come una corrente magnetica. Detta da lui, ogni cosa, fosse pure la più semplice, aveva un effetto smisurato. «Grazie, figliuoli» gli sentii dire una sera da una finestra alla folla che gli faceva una dimostrazione: «Grazie, sono stanco, piove, andate a letto anche voi, buona notte a tutti!» Fu un delirio; e la folla si sciolse commossa, commentando le parole del Generale: molti avevano le lacrime agli occhi. Tra quei nuovi volontari che ci arrivavano, insieme con molti inabili, c’eran, per di più, taluni pessimi soggetti, forniti dalla feccia dei sobborghi di Milano: approfittando di quei momenti favorevoli in cui la vecchia polizia era scomparsa e la nuova non era ancor costituita, avevan pensato che le file dei volontari potevano essere un campo propizio per le loro imprese. Di questi bricconi ce ne capitaron parecchi che, creatisi da sè per strada caporali e sergenti, facevano requisizioni, e commettevano violenze, furti, ferimenti; procurando al Guicciardi e a qualche autorità comunale non pochi sopraccapi. Questa affluenza disordinata di volontari, alla quale si aggiunse la venuta del nostro battaglione valtellinese, era per la piccola città di Sondrio un imbarazzo non piccolo, e si rendeva sempre più urgente che il comando dei volontari prendesse un qualche provvedimento. Fu perciò, e credo per le sollecitazioni del Guicciardi, che il giorno 8 di luglio capitò Garibaldi a Sondrio. Il Guicciardi condusse subito Garibaldi a vedere i volontari arrivati in quei giorni, ch’erano, non dirò accasermati, ma ricoverati alla meglio in qualche chiesuccia, in qualche magazzino, in botteghe sfittate, e nei pochi locali disponibili: parecchi non potevano uscirne, tanto erano laceri. Garibaldi impiegò parecchie ore a passarli in rivista: messi in fila presentavano davvero un curioso spettacolo: ragazzotti sui quindici anni col berretto da operaio o da scolare; operai in manica di camicia e con la giacchetta sulle spalle; uomini maturi con la barba lunga e grigia; zerbinotti coi vestiti strappati, ma che tradivano una certa eleganza; alcuni portavano ancora la tuba e il soprabito, come se fossero in quel punto scappati dall’ufficio; chi era magro, chi aveva la pancia; alti e bassi come le canne d’un organo, tutti insieme parevan fatti venire per una rivista in caricatura. Garibaldi li guardava con una certa compiacenza, poichè in fondo al cuore egli aveva una grande predilezione pei soldati in borghese che gli rappresentavano la rivoluzione. Prese nota di tutto, volendo assegnare i più validi ai corpi che ne abbisognavano, e disse al Guicciardi (forse non senza un po’ di rincrescimento), di chiamar subito alcuni fornitori per incaricarli di vestire militarmente quelli che di essere vestiti avevano maggior bisogno. Il giorno seguente il Guicciardi mi raccontò che i fornitori, dopo aver ricevuti gli ordini da Garibaldi, eran venuti da lui coi contratti per aver la firma del Generale, o di chi faceva per lui. Il Guicciardi si era recato subito da Garibaldi, il quale mostrandosi grandemente sorpreso aveva esclamato: «Come? quei mascalzoni di fornitori a cui procuriamo l’onore di vestire quei bravi giovani venuti a dar la vita per la patria, mentre essi poltriscono a casa, osano domandare contratti, patti e firme? Non basta l’ordine mio o suo? Li mandi al diavolo! Se non sono nemici, non sono certo patriotti! Non se ne fidi!» Più tardi si ebbero i contratti e le firme; ma quel primo scatto di sorpresa e di sdegno così spontaneo, dipingeva pienamente la natura di Garibaldi. La sera del giorno seguente, ossia del 9 luglio, giunse la notizia che un capitano austriaco si era presentato ai nostri avamposti dinanzi a _Sponda lunga_ sullo stradale dello Stelvio, annunziando l’armistizio, e interrogando su gli accordi da prendersi. I nostri non ne sapevano ancor nulla; infatti la comunicazione ufficiale a noi non giunse dal quartier generale che il giorno 10. Si pensi che improvvisata fu quella! Ma nessuno credeva finita la guerra prima che ne fossero raggiunti gli scopi. Si almanaccavano le supposizioni più inverosimili, pur di arrivare alla conclusione preferita che l’armistizio sarebbe stato di breve durata; e così non scemava in nessuno l’attività fiduciosa di prima. In quei giorni cominciò l’invio di parecchi corpi nella Valcamonica e alle loro diverse destinazioni nelle alte valli lombarde, a seconda del piano di cui abbiamo parlato. Allora anch’io potei finalmente occuparmi del battaglione valtellinese, che era tornato a Sondrio, e provvedere a riordinarlo. Il mio primo pensiero fu quello di mantenere la parola data alle guardie nazionali mobili; di rimandarle a casa appena cessato l’urgente pericolo, mentre il Montanari le aveva dichiarate arrolate per tutta la guerra, senza tanti complimenti; lasciai libero quindi chi voleva di tornarsene a casa. Se ne andarono quasi tutti, e non fu un gran male. Il numero dei volontari del nostro battaglione era abbastanza abbondante da permettere una scelta e di questa mi occupai subito, dopo aver congedato le guardie mobili. La certezza che si aveva in allora che la guerra sarebbe continuata, e la speranza che i nostri volontari sarebbero stati chiamati a oltrepassare i confini e a combattere nelle valli tirolesi, persuadevano sempre più i comandanti dei corpi ad approfittar di quei giorni di tregua per togliere dalle file i meno atti, non mantenendovi che i più vigorosi e i più sicuri: con questo concetto si incominciò a riordinare anche il battaglione valtellinese. Non era ancora stato nominato il maggiore, e, dopo la partenza del Montanari, lo comandava lo Strambio ch’era il capitano anziano. Anche nel battaglione valtellinese accanto agli ottimi c’erano i mediocri, gli inetti e i guastamestieri: insieme coi giovani intelligenti e volonterosi, coi montanari coraggiosi e forti, c’erano i fianchi inabili alle fatiche, i ciarloni, i politicanti, i paurosi, i pentiti. Di questi ultimi ce n’erano parecchi: s’erano arrolati nei primi giorni per millanteria, ma poi le fatiche e i pericoli li avevano presto disillusi, e avrebbero voluto tornarsene a casa. Spavaldi nei loro paesi, paurosi nei ranghi, forti soltanto nella maldicenza, sfogavano il loro malumore col dir male di tutto e di tutti e con l’essere strumenti di indisciplina. Qualcuno di questi, dopo che il battaglione fu a Sondrio e fu incominciata l’_epurazione_, mi fece arrivare sollecitazioni e preghiere dalle famiglie o da amici, per essere mandato a casa. Per scartare questa gente fisicamente e moralmente inetta, me la intesi con Agostino Bertani che, quale medico-capo dei volontari, percorreva in quei giorni i paesi della vallata per preparare ospedali e ambulanze in cui ricoverare i molti garibaldini malati. Il Bertani mi disse che, per sciogliere dal vincolo dell’arrolamento quelli che avevano fatta cattiva prova, aveva appunto, d’accordo con qualche comandante di compagnia, ricorso al mezzo di licenziarli come fisicamente inabili. Fece quindi una visita medica di revisione anche al battaglione valtellinese, e, insieme con gli inabili davvero, scartò quei soggettacci di cui gli avevo dato una noticina. E poichè ho parlato di quelli che non erano eroi, non voglio dimenticare uno che lo era davvero. Ogni sera, dopo la ritirata, andavo a visitare col capitano Strambio i posti dov’erano accasermati i volontari del nostro battaglione. In una chiesetta, dove stava una compagnia, avevo più d’una volta osservato che, mentre quasi tutti placidamente dormivano sulla paglia, un soldato vegliava in un confessionale, con un lumicino, e con un libro in mano. «Che cosa fa quel soldato?» domandai una sera al sergente. «È un originale» mi rispose: «mentre gli altri dormono passa tutta la notte a studiare: è il soldato Antonio Pievani di Tirano.» Conoscevo la famiglia di lui; egli era studente, e per diverse combinazioni non l’avevo veduto da parecchi anni, e quasi non lo riconoscevo più; ma da quella sera incominciò tra noi un’amicizia che andò sempre più crescendo, e che fu pur troppo breve. La sua vita fu tutta un esempio di nobiltà di carattere e saldezza di convinzioni. Dopo la pace di Villafranca lasciò il battaglione, poi fu uno dei _mille_. In Sicilia si fece tanto onore che fu promosso capitano, ma rimase sempre come un compagno per i suoi soldati, coi quali divideva la sua paga. Dopo la campagna del 1860, ritornò agli studi della matematica, nella quale era fortissimo; il Brioschi lo diceva uno dei migliori scolari, e fu tra i prescelti del Governo per compire all’estero un corso di perfezionamento. Aveva profonde convinzioni religiose, e le proclamava altamente con la parole e con le pratiche. Durante l’invasione del colera, che si diffuse anche in Valtellina dopo la guerra del 1866, egli, non contento di far l’infermiere ai colerosi, andava pei casolari di montagna a ricercare quelli che erano colpiti dal male, e li portava all’ospedale sulle sue spalle se li trovava abbandonati. Nell’ardore della sua fede credeva che il governo temporale dei Papi sviasse la Chiesa dai suoi ideali più alti e più puri, e per ciò era un avversario risoluto del potere temporale. Quando Garibaldi nel 1867 al grido di _Roma o morte_ chiamò gl’italiani a quell’impresa che finì a Mentana, il Pievani, per dare una prova palese dei suoi sentimenti, partì per raggiungere gli antichi commilitoni garibaldini; ma a Genova lo fermò il proclama di Vittorio Emanuele che vietava l’impresa; e per non essere ribelle, come ebbe a dire, retrocesse. Continuò per qualche anno ne’ suoi studi matematici, e intraprese i teologici. Sempre più addolorato pel contrasto tra le sue convinzioni e i voleri papali nella questione del dominio temporale, decise di andarsene lontano e di entrare nelle missioni, che gli rappresentavano i tempi più puri della Chiesa. Per raggiungere più presto il suo scopo si fece frate, e pochi mesi dopo morì in un convento della Valcamonica. Nei mesi che passavo a Tirano facevo quasi giornalmente una lunga passeggiata con lui: i suoi discorsi erano sempre lo specchio della sua anima, ispirati a una bontà angelica e alle sue forti convinzioni patriottiche e religiose: c’era in lui qualcosa di primitivo e di puro che seduceva. Ma torniamo al battaglione valtellinese. Mentre io e gli ufficiali c’eravamo messi con grande ardore per farne un bel battaglione, il Guicciardi mi annunziava d’aver proposto la mia nomina a capitano nello Stato Maggiore dei volontari. Ma, intanto, alcune lettere da Milano venivano a gelarmi il cuore con delle dolorose nuove sulla conclusione della pace; e, pur troppo, poco dopo ce ne arrivava la notizia ufficiale. Che mutamento di scena! L’attività affaccendata di tutti, dei giorni prima, si fermò di colpo. Cittadini e soldati si affollavano per le strade, interrogandosi come colpiti da un’improvvisa sciagura, discutendo, imprecando. Nei volontari c’eran molti delle provincie venete e d’altri paesi, che la pace destinava a rimaner sotto l’Austria, e questi gettavano le armi, e piangevano. Quel sentimento di disciplina e quel mirabile accordo che guidava gli animi da alcuni mesi, erano a un tratto rotti e sconvolti: la luna di miele della concordia era finita. Ciascuno si sentiva libero di sragionare a proprio modo, e quell’improvviso avvenimento della pace di Villafranca, di cui ancora non si poteva comprendere, nè i motivi, nè le conseguenze, offuscava e turbava le menti anche dei migliori. Ad accrescere la confusione degli animi, il timore che in quell’urto improvviso la nave intera sommergesse, si aggiungeva la nuova che anche il suo gran nocchiero, Cavour, ne aveva abbandonato il timone. Nelle sventure non c’è tormento maggiore di quei lamenti volgari, di quei commenti spropositati, che vengono a infastidire l’anima già inasprita. E siccome di quei lamenti e di quei commenti ce n’era in quei giorni un subisso, così fui preso da una impazienza irresistibile d’andarmene, di lasciare ogni mio ufficio in Valtellina, tanto più che questi uffici ormai non avevano più uno scopo; e di correre a Milano, ove certamente si sarebbero svolti nuovi avvenimenti. L’annunzio della conclusione definitiva della pace aveva di subito scossa così rapidamente la compagine morale dei corpi dei volontari, ch’era facile prevederne vicino lo sfacelo completo. Da quel momento anch’io non ebbi più che un pensiero: ultimare le mie faccende, e liberarmi dei miei incarichi e del grado che aspettavo, pregando il Guicciardi che ne ritirasse la proposta. Feci bene, o feci male? È una domanda che poi rivolsi più volte a me stesso; ma in quel momento non istetti a pensar tanto; prova che anch’io ero stato trascinato da quella irriflessione, da quel bisogno di risoluzioni improvvise, che spingeva tutti in quell’ora di disinganni e di sfiducia. In pochi giorni fui libero; le dimissioni da ogni mio incarico furono accettate, e partii per Milano con Romualdo Bonfadini. CAPITOLO XXXIV. 1859. IX. _Sommario:_ Milano dopo la pace di Villafranca. — Gli emigrati veneti. — Il Comitato di soccorso per l’emigrazione veneta. — Ricevimenti e feste a Milano. — Il conte Francesco Annoni comandante della Guardia Nazionale. — Viene fondato il giornale _La Perseveranza_. — Mio fratello Emilio a Modena presso il Dittatore Farini. — Emilio mandato da Cavour a Parigi e a Londra. — Nuove presentazioni nel salone della contessa Maffei. — Ufficiali e soldati francesi. — Ospitali e alloggi privati pei feriti. — Il Ministero Rattazzi e le sue leggi amministrative. In quali condizioni differenti rivedevo Milano, dopo quattro mesi da quando ero andato in Piemonte! Allora in Milano si sarebbe detto che non ci fosse che un’anima sola, un pensiero solo. La concordia, ispirata a una grande speranza, teneva tutti in una severa disciplina, e quel ch’è più, faceva che tutti ragionassero bene: pareva proprio che il buon senso fosse diventato il senso comune. E ora i pochi giorni ch’eran seguiti all’annunzio della pace di Villafranca eran bastati per scombussolar tutto; e quelli, che cercavano di spiegare gli avvenimenti e di ragionare, quasi si vergognavano di farsi sentire. La gente faceva capannelli per le strade, e ogni buon bottegaio spiegava ai vicini, sulla porta della sua bottega, la politica delle Potenze e quella di Napoleone III: in ogni discorso faceva capolino, s’intende, qualche trama tenebrosa, e all’occorrenza qualche _tradimento_; i cittadini più pacifici e innocui non mancavano di pronunziare fiere parole, e di fare propositi audaci. Il rapido passaggio da tante illusioni a una dura realtà, inattesa e piena di pericoli, giustificava questa volta lo sconforto e i sospetti: ma a quel tempo la fortuna era ancora con noi, e nuovi avvenimenti vennero presto a rialzare gli animi, e a riaprirli a più alte speranze. Si formavano per le strade crocchi e capannelli che andavano di giorno in giorno ingrossando, aumentati anche dagli emigrati che dalle provincie venete riparavano in Lombardia, e soprattutto a Milano. Questa emigrazione, che si fece presto numerosissima, si componeva sulle prime di veri emigrati politici e di patriotti distinti; ma poi ci si mescolò una folla di oziosi, e di gente che veniva a chieder sussidi in Milano, vivendo poi a carico del Governo italiano e della generosità patriottica dei cittadini. Quei primi emigrati che giravano per le strade di Milano, fuggiti dai loro paesi rimasti nelle mani dell’Austria, destavano in tutti una vera commozione e così sorse il pensiero, lì per lì, di istituire un Comitato di soccorso per l’emigrazione veneta[37]. Il Comitato mandò subito una parte degli emigrati ad arrolarsi nell’Emilia, e un po’ pei sussidi e un po’ per gli arrolamenti, in quel primo anno, spese oltre ducento mila lire, raccolte in Milano dalla pubblica beneficenza patriottica. Più tardi il Comitato, per una legge votata dal Parlamento, ebbe dal Governo un assegno annuo, oltre quanto gli veniva continuamente dalla beneficenza privata. Dal 1859 al 1866 il Comitato erogò complessivamente per la emigrazione politica oltre un milione. La simpatia pei veneti, questi nostri antichi fratelli di sventura, toccava la fibra patriottica di tutti: e non solo in Milano, ma anche nelle città minori di Lombardia, la beneficenza, in quei giorni, si esplicava in mille modi a favore dell’emigrazione. In quell’autunno le mie corse a Milano furono frequentissime: ero attirato, innanzi tutto, dalle feste e dai ricevimenti per le Deputazioni dell’Italia centrale, che passavano per portare a Torino a Vittorio Emanuele i voti per le annessioni. Venne prima la Deputazione Toscana, poi quelle di Modena, di Parma e della Romagna. Le feste furono veramente pari all’entusiasmo ch’era nel cuore di tutti: quelle Deputazioni venivano a dirci che l’unità d’Italia, la grande aspirazione del patriottismo nazionale, era ormai moralmente compiuta. Il gran sogno era vicino a diventare una realtà, la meta era in vista, e se i cuori deliravano di gioia avevano ben ragione. Con minore entusiasmo, io e mio fratello Enrico, dovevamo fare delle corse frequenti a Milano anche per la Guardia Nazionale, di cui eravamo militi rassegnati. La Guardia Nazionale, allora in formazione, non lasciava in pace nessuno. S’eran fatte delle rivoluzioni in Europa per avere la Guardia Nazionale, poi quando si ebbe, non si sarebbe certamente versato del sangue per conservarla. Ma intanto l’avevamo, e pareva una gran conquista, perchè era uno dei dogmi liberali del tempo. A Milano, veramente, l’entusiasmo per la Guardia Nazionale non durò molto; ci furono presto i malcontenti, ai quali pareva di perder troppo tempo nel non far nulla. Questi, s’intende, non erano i militi graduati, che avevano le spalline da sfoggiare; e neppure gli zappatori, che vedevano finalmente apprezzate dalle libere istituzioni le loro belle barbe. Era generale della Guardia Nazionale di Milano il conte Francesco Annoni, nominato dal Governo il 16 dicembre 1859. Il conte Annoni, d’antica famiglia patrizia milanese, era uomo ricchissimo, benefico, di molto cuore, se non di molta testa. Da giovane, tra le molte sue leggerezze, ci fu anche quella di entrare volontario come ufficiale in un reggimento d’Ussari austriaci, per amore, pare, della bella uniforme; ma quando venne il quarantotto, piantò il servizio, e l’Austria gli mise sotto sequestro il ricco patrimonio. Riparò a Torino, ove rimase esule fino al 1859: gli rimanevano ancora altre ricchezze in Piemonte, delle quali fu larghissimo verso tutta l’emigrazione, e per opere patriottiche e di beneficenza. Diventò deputato, senatore, e in fine comandante della Guardia Nazionale di Milano, ma per breve tempo, in causa, credo, di dissensi col Ministero. A Milano nell’autunno ero pure stato chiamato a diversi ritrovi, tra un gruppo di amici che, per iniziativa di Cesare Giulini e del Correnti, si proponevano di pubblicare un grande giornale politico, il primo che doveva sorgere in Milano. Questi ritrovi erano tenuti di solito in casa di Carlo d’Adda, e ci venivano Alessandro Porro, Luigi Sala, Antonio Allievi, Giulio Carcano, l’ingegnere Guido Susani, Pacifico Valussi, il Bonfadini ed altri che ora non rammento. Il giornale doveva essere monarchico liberale, unitario; doveva disporre di larghi mezzi, assicurandosi scrittori e corrispondenti conosciuti per l’ingegno e per la rispettabilità; doveva chiamarsi la _Perseveranza_, ch’era l’antico motto del patriottismo nazionale. Il giornale fu fondato e uscì il 20 novembre del 1859. Gli amici, e specialmente il Correnti, insistettero perchè anch’io mi assumessi una parte fissa e costante nella redazione; ma per diverse ragioni, e specialmente per una, non acconsentii: questa era il riguardo che volevo usare personalmente a Carlo Tenca. Al Tenca naturalmente era spiaciuto che una parte de’ suoi amici si raggruppasse intorno a un nuovo giornale il quale avrebbe ucciso il _Crepuscolo_, ch’egli continuava a pubblicare. Ma la cessazione del _Crepuscolo_ era inevitabile all’affacciarsi dei tempi nuovi, e di fronte alle nuove esigenze d’un giornale. Il _Crepuscolo_, di piccolo formato, fatto per lettori colti, eletti, aveva ormai compiuta la sua missione; missione di combattimento durante i silenzi dello stato d’assedio, e nella resistenza tenace dei dieci anni. Aveva resi grandi servigi patriottici, ma era fatale che nel giorno del trionfo dovesse cadere, come altri eroi vittoriosi. Gli intimi amici del Tenca, però, non potevano subito schierarsi nelle nuove file di chi veniva a far le parti dell’erede fortunato: per ciò, durante il breve tempo in cui il _Crepuscolo_ sopravvisse, mi tenni con quelli che non vollero prender parte ad affrettarne la morte. Non fu che più tardi, quando il _Crepuscolo_ cessò le sue pubblicazioni, che acconsentii a scrivere per la _Perseveranza_ un _Corriere_ settimanale letterario e di cronaca cittadina; _Corriere_ che durò appena un anno, poichè mi capitò presto sulle spalle un assessorato municipale a Milano a darmi ben altre occupazioni. In quell’autunno ricevevo di tanto in tanto delle lettere interessanti da mio fratello Emilio, ch’era a Modena; mi scriveva dal palazzo ducale ove risiedeva il Governo, cioè Farini col suo gabinetto, a cui appunto apparteneva Emilio, facendovi le sue prime armi nel trattare gli _affari esteri_. Le sue lettere eran piene di osservazioni acute e piacevoli su quel Governo dittatoriale improvvisato, sostenuto da un’opinione pubblica ammiratrice, ma diffidente, circondato da entusiasmi, ma anche da timori; intanto gli sguardi erano fissi al confine, al di là del quale stava accampato il piccolo esercito del duca, pronto a marciare su Modena, per far valere i diritti riservati dal trattato di Zurigo. Quando, dopo la pace di Villafranca, furono richiamati dalle provincie insorte i Commissari regi piemontesi, a Modena una grande dimostrazione di popolo, un popolo di _prima categoria_, aveva acclamato dittatore il Farini, già Commissario Regio, improvvisandolo anche cittadino modenese. Il Farini rimase e accettò la dittatura per opporsi alla restaurazione: Cavour allora dimissionario, a cui aveva chiesto consiglio, gli aveva telegrafato: _il ministro è morto, l’amico vi applaude_. Quello stesso popolo poi, se veniva improvvisamente qualche cattiva notizia, si affollava sotto i balconi del dittatore per rafforzare colla volontà pubblica il Governo: e il Governo, che non cercava di meglio, si piegava al voler del paese. Uno dei capi di queste dimostrazioni buon patriotta e amico del Farini, era Paolo Ferrari, a cui i suoi primi successi letterari e teatrali avevano già procurato fama e popolarità. Le condizioni politiche tra le quali si trovava il Farini erano oltremodo difficili: le sole forze militari che aveva consistevano in un battaglione di volontari in formazione, non tutto armato, chiamato i _Cacciatori della Magra_, poi le squadre degli emigrati. Il duca di Modena avrebbe potuto cogliere l’occasione favorevole, e col suo esercito piccolo, ma bene ordinato, che aveva condotto seco nel campo austriaco, passare il confine e piombare su Modena. Ma probabilmente l’attitudine risoluta di Farini lo trattenne. Solo qualche tempo dopo, quando le truppe toscane lasciarono i loro accampamenti sotto Mantova per rientrare in Toscana, il Ricasoli le fece rimanere a Modena, ch’era il punto più minacciato. Ma intanto l’occasione pel duca era passata. Il Farini con l’abilità del suo Governo, con la forza del carattere, superò ostacoli, pericoli, e trionfò: egli teneva in freno gli esaltati, i paurosi e i malfidi; rincorava i patriotti, e spingeva tutti sulla via d’una audacia saggia e disciplinata. Si può ben dire che il Ricasoli e il Farini allora decisero, nell’Italia centrale, le sorti dell’unità d’Italia. Emilio nel settembre fece una scappata a Tirano, e così ci trovammo riuniti, per qualche giorno almeno, intorno alla nostra buona mamma, ch’era sempre agitata e perplessa tra l’entusiasmo pei grandi avvenimenti che si succedevano, e le ansie per la vita randagia de’ suoi figli. Emilio approfittava intanto del suo breve riposo anche per andare a caccia sui nostri alti monti, poichè fu sempre un cacciatore appassionato. Io non lo seguivo, perchè con Nembrod ebbi sempre dei rapporti freddi. Contro i nostri calcoli e le nostre speranze, la dimora di quei giorni a Tirano fu breve: Emilio dovette ritornare presto a Modena, e poco dopo ritornammo noi pure a Milano. Sul finire di quell’autunno la società milanese si affrettava a ritornare in città, e a riaprire i propri salotti. C’era in tutti il desiderio d’avviare un’invernata lieta, festosa, che rispondesse al giubilo patriottico, e al bisogno di sollevare gli animi depressi per tanti anni; tanto più che la brusca fermata della pace di Villafranca principiava a lasciar adito a nuove speranze e a una nuova fiducia. Un pessimista forse avrebbe potuto fare delle considerazioni meno liete. E infatti al Mincio stava accampato l’esercito austriaco, mentre gli italiani si preparavano a rompere il trattato di Zurigo; i principi spodestati tramavano il ritorno nei loro Stati; Garibaldi aveva lasciato il comando delle truppe dell’Italia centrale, additando nuove imprese; tutta l’Europa seccata di noi ci dava sulla voce, e Napoleone taceva. Eppure, chi dubitava? Chi non teneva già in mano la vittoria definitiva? C’era bisogno di credere, si voleva vivere nella certezza, si voleva il giubilo sereno della vittoria. Si pensi quale nuova onda di entusiasmi fosse entrata nel salotto della contessa Maffei: ogni giorno vi comparivano nuovi presentati, e le conversazioni vi si facevano sempre più animate, e quasi affolate. Vi si vedevano molti vecchi emigrati allora rientrati in Italia, e molti emigrati nuovi che venivano dalle provincie venete; parecchi forestieri, molti ufficiali francesi; e i soliti adoratori del sole nascente. Fu sullo scorcio di quell’anno che vi conobbi la principessa Cristina Belgiojoso Trivulzio, di cui avevo tanto sentito parlare in passato, in casa mia, e tra gli amici. Essa ci venne qualche sera; le fui presentato, fu con me gentilissima, e mi invitò a casa sua, di cui divenni presto un frequentatore assiduo. Quando la principessa Belgiojoso entrava in un salotto tutti gli occhi si rivolgevano su lei. Era alta della persona, ma portava il capo un po’ inclinato sul petto a cagione di una ferita che aveva ricevuta alla nuca, mentre era in Oriente, da un assassino il quale aveva tentato di ucciderla con un colpo di coltello. Aveva allora cinquant’anni; i tratti dell’antica bellezza erano scomparsi dinanzi a una vecchiaia precoce; ma gli occhi, grandissimi, conservavano tutta la loro antica espressione. A rendere più numerose e più gaie le feste, le festicciole e le conversazioni nelle famiglie, contribuivano non poco i nostri nuovi ospiti, gli ufficiali piemontesi e francesi. Questi ultimi erano in maggior numero, anche perchè le nostre truppe erano scaglionate verso il Mincio, e nell’Italia centrale; mentre a Milano c’era ancora una forte guarnigione francese, col maresciallo Vaillant, che ne aveva il comando in capo. I francesi avevano avuto a Milano e in tutta la Lombardia, quella calorosa accoglienza ch’era loro ben dovuta. Nelle fantasie popolari era rimasta, fin dai tempi napoleonici, l’idea fatidica che i francesi erano i predestinati a scacciare gli austriaci: si aveva quindi una gran fede in essi e in Napoleone III. In ogni famiglia, d’ogni classe sociale, era ancor viva la memoria del padre o del nonno che aveva fatte le ultime campagne napoleoniche, nella _grande armata_, o nell’esercito italico di Beauharnais. Erano stati sessantamila gli italiani che Napoleone aveva condotti in Russia, e n’erano ritornati ventimila, ma per questi Napoleone non aveva cessato d’essere un Dio, adorato e invocato ancora dopo oltre quarant’anni. I fantaccini francesi, e soprattutto gli zuavi, avevano presto fatta amicizia con i popolani milanesi, anch’essi allegri, millantatori, e poco amanti della disciplina. I soldati del mezzogiorno della Francia avevano nei loro dialetti molti vocaboli, che somigliavano ai vocaboli dei dialetti piemontesi e lombardi, sicchè l’intendersi non era difficile e l’amicizia era più presto fatta. Le autorità militari e le comunali avevano provveduto, subito dopo la battaglia di Magenta, a impiantar ospedali pei numerosi feriti che le ambulanze trasportavano a Milano. C’erano ospedali, antichi o nuovi, pei feriti italiani, pei francesi, per gli austriaci, tutti diretti e amministrati con larghezza e con amore. Moltissimi feriti erano stati nei primi giorni raccolti nelle case private, presso le famiglie dei cittadini; anzi ve ne furono raccolti troppi, sicchè le direzioni mediche militari provvidero poi a far trasportare negli ospedali quei feriti, pei quali erano meno opportuni gli alloggi privati. Nelle famiglie signorili i feriti francesi ci rimasero più a lungo, circondati da cure premurose, e talora da simpatie più che ospitali. Da principio per un sentimento pietoso e generoso, poi anche per una specie di _moda_, tutti avevano la smania di ospitare un ferito francese. Non mancavano quindi gli episodi ameni, le storielle piccanti. A rannuvolare la luna di miele della libertà erano venute le nuove leggi amministrative del ministro Rattazzi. Cavour, com’è noto, s’era dimesso dopo la pace di Villafranca, il 19 luglio 1859, e gli era successo il Ministero Lamarmora, nel quale era ministro dell’interno il Rattazzi. Prevalendosi dei _pieni poteri_, votati dal Parlamento alla vigilia della guerra, il Rattazzi pensò di dare una nuova legislazione amministrativa alle provincie sardo-lombarde da poco riunite; la quale sarebbe poi stata applicata a mano a mano alle nuove regioni che andavano annettendosi. La legislazione del Rattazzi, mirava soprattutto all’uniformità; al Rattazzi pareva con ciò di riuscire più rapidamente nel concetto _unitario_, dimenticando che non si trattava di fondere dei metalli, ma di tener d’accordo degli uomini; degli uomini che avevano tradizioni secolari diverse nei bisogni, negli usi, e nelle forme della vita civile e dell’amministrazione pubblica. Il principio unificatore di Rattazzi divenne poi un dogma, un metodo, che mano mano fu applicato a tutte le provincie d’Italia, procurando guai e malumori che si trascinano da tanti anni, e che non cesseranno così presto. Il Minghetti, spirito alto e coltissimo, propose poco dopo un sistema di amministrazione regionale destinato a preparare il paese gradatamente all’amministrazione unitaria; ma il _dottrinarismo livellatore_ ebbe il disopra, e il Minghetti ebbe scarso seguito. Nelle sue leggi affrettate il Rattazzi, impressionato forse dall’amministrazione degli ultimi tempi del Governo austriaco, non aveva pensato che le provincie lombarde avevano pur avuto, nella seconda metà del secolo antecedente, delle amministrazioni saggie e illuminate, quella austriaca di Maria Teresa e la napoleonica, che vi avevano lasciato gli ordinamenti e le tradizioni amministrative di due grandi Stati. Queste provincie, rapidamente assimilate, si trovarono a disagio; e ciò fu causa d’una grande impopolarità che in quei giorni piombò sul capo del Rattazzi in Lombardia, suscitando discussioni e opposizioni, ch’ebbero pure cattiva influenza politica. In mezzo a questi malumori, imprudentemente suscitati, l’anno volgeva alla fine: l’anno dei grandi avvenimenti, che mettevano la pietra fondamentale dell’indipendenza e della libertà d’Italia. E ora spuntava il 1860, che doveva, con altri mirabili fatti, darci l’unità della Patria. La storia d’Italia cercherà lungamente notizie, episodi, carteggi, che possano illustrare le fortunose vicende di quei anni memorabili. Questo pensiero mi spinge a scrivere ancora alcune pagine, per giungere all’ultima meta, la proclamazione del Regno d’Italia, il faro di così lunghe aspirazioni. NOTA. [37] Iniziatore del Comitato di soccorso per l’emigrazione veneta fu l’ingegnere Achille Villa; ne furono membri il conte Gaetano Manci, già podestà di Trento, il conte Stefano Medin di Venezia; il dottor Giovanni Soresina e Vito Bassano, mantovani; i signori Enrico Fano, conte Ignazio Crivelli, Antonio Grassi, Antonio Comerio, nob. Carlo Cagnola, marchese Carlo Ermes Visconti, Achille Villa di Milano: io ne fui eletto presidente, e fu segretario il conte Tiepolo veneto. Sorse anche un Comitato politico dell’emigrazione di cui furono membri i conti Giustiniani e Correr; comitato ch’ebbe pure molta parte nell’inviare un gran numero d’emigrati ad arrolarsi nell’Emilia; alle spese provvedeva il Comitato di soccorso per l’emigrazione. CAPITOLO XXXV. 1860. I. _Sommario:_ Finisce il giornale il _Crepuscolo_. — Vado a Modena dal Farini, poi a Bologna. — La famiglia e i segretari di Farini. — Cavour ritorna al Governo. — Massimo d’Azeglio Governatore di Milano. — I Municipii del Lombardo-Veneto al tempo del Governo austriaco. — Le nuove elezioni amministrative. — Antonio Beretta Sindaco di Milano. — L’ospitalità e i ricevimenti di casa Beretta. — Feste e ricevimenti in molte famiglie. — Casa Crivelli. — I coriandoli. — Le signore d’allora. — Gli ufficiali francesi. — Il maresciallo Vaillant. — Entrata di Vittorio Emanuele in Milano il 18 febbraio. — Ricevimenti del Re a Corte. — Alessandro Manzoni. — Sottoscrizione, proclamata da Garibaldi, per un milione di fucili. — Elezioni politiche pel 25 marzo. — Riunioni elettorali. — Il Circolo politico detto delle _Galline_. — I giornali. — Il _Pungolo_, la _Perseveranza_ e l’_Unità Italiana_. — Le elezioni politiche eclettiche di Milano. — Crispi negli uffici della _Perseveranza_. — Notizie e preparativi per la spedizione di Sicilia. Col principiare del 1860 il giornale il _Crepuscolo_ cessò la sua pubblicazione. Quella prima domenica, in cui non comparve il vecchio e glorioso _Crepuscolo_, fu mesta come il giorno in cui scompare per sempre un amico fidato, col quale si sono divisi i dolori e le ansie di giorni memorabili nella vita. Ma la missione del _Crepuscolo_ era finita; il giornale la _Perseveranza_ aveva fin dal novembre principiato le sue pubblicazioni. Carlo Tenca diventò poi in quell’anno deputato al Parlamento, Assessore Municipale e membro della Commissione per gli studi. Fu il fondatore della scuola superiore femminile municipale, che pel sapiente ordinamento venne poi in Italia presa a modello per altri istituti simili. In Parlamento e in Municipio, circondato da un’alta stima, il Tenca fu indefessamente e modestamente operoso. Morì il 4 settembre del 1883. I suoi ultimi anni furono conturbati dal fallimento d’una banca, in cui aveva depositato i risparmi del suo lavoro e della sua parsimonia: si ritirò allora dalla vita politica, e senza querimonie chiuse la vita povero, in un dignitoso silenzio. Nell’Emilia il Farini mirava a radunare il maggior numero di volontari per opporli alle truppe estensi, che il duca di Modena teneva presso il Po, pronte a oltrepassare il confine e a rioccupare il ducato. Intanto tra il dittatore e il Comitato milanese per l’emigrazione veneta correvano trattative e intelligenze per dirigere su Modena tutti gli emigrati validi alle armi, e per aggregarli ai corpi che si andavano formando e aumentando. Durante quelle intese, desiderai vedere il Farini, e mi recai a Modena ove fui ospite di lui nel palazzo ducale. Qualche giorno dopo seguii a Bologna Emilio, che vi si recava per affari d’ufficio, e ci si stette alcuni giorni. Bologna era animatissima, tutta movimento ed entusiasmo patriottico. Le contesse Tattini e Zucchini, sorelle, nate Pepoli, la cui madre era una figlia dell’ex Re di Napoli Murat, riunivano alternativamente nei loro salotti il _mondo elegante_, militare e politico, bolognese; e a quelle conversazioni dava non poca attrattiva la bellezza e lo spirito delle padrone di casa. Il conte Gioacchino Pepoli, loro fratello, che fu poi deputato, ministro e ambasciatore a Pietroburgo, era in quei giorni uno dei capi, nelle Romagne, del partito liberale e annessionista. Il dittatore Farini aveva riuniti in sè, direttamente, tutti i poteri, con un gabinetto composto di giovani segretari, tra i quali c’erano il Riccardi, piemontese, per gli affari interni, e mio fratello per gli affari esteri; questi giovani, di cui nessuno passava la trentina, vivevano quasi come figli nella famiglia del Farini. Il maggiore dei figliuoli del Farini, Domenico, era ufficiale del Genio: fu poi maggiore di Stato Maggiore, deputato e presidente della Camera, e alla fine presidente del Senato. L’altro figlio, Armando, era ufficiale dei bersaglieri: ferito in guerra, morì poco dopo. Finita la dittatura la figlia Ada sposò il Riccardi, che poco dopo il matrimonio morì a Napoli. Questa sventura domestica diede una scossa fatale alla salute del Farini. Il Farini, nella conversazione e nel tratto, era piacevole e franco, con una certa solennità romagnola. Amico e ammiratore di Cavour, ne interpretava e ne seguiva la politica, con audacia e con senno: guidò e compì con mano ferma e sicura l’annessione dell’Emilia al Piemonte, traverso le più gravi difficoltà diplomatiche, ed esercitò la Dittatura con idee larghe e liberali, e colla fermezza dell’uomo di Stato. Nei giorni in cui fui a Modena, voleva trattenermi e mi fece le più gentili offerte: aveva nominato in quei giorni Governatore di Ravenna il marchese Di Rorà torinese, e voleva che lo accompagnassi come consigliere delegato. Pensai alla mia buona mamma, che già s’affliggeva per le assenze di Emilio, e non accettai l’offerta. Il ritorno al potere del conte di Cavour, il 21 gennaio 1860, richiamato si può dire da tutta Italia, veniva a rinfrancare in tutti la fiducia e ad imprimere alla politica italiana l’audacia e insieme la sicurezza. La notizia del suo richiamo veniva accolta e festeggiata da tutti come una gioia domestica. Al ritorno di Cavour seguì la nomina del d’Azeglio a Governatore di Milano: così quelle sale del palazzo di Governo, che per quasi mezzo secolo erano state la sede di governatori forestieri, ora accoglievano il fiore della società milanese che andava ai ricevimenti di Massimo d’Azeglio. Parevano sogni! L’Azeglio appariva allora di molto invecchiato, ed era di salute cagionevole: ma era sempre lui; giovane d’animo e ricco di spirito. La sua conversazione era piacevolissima, ricca di aneddoti, di osservazioni argute e di fine ironia. Non sempre però egli partecipava ai nostri entusiasmi pel Cavour, di cui apprezzava l’ingegno, ma non approvava sempre l’audacia. Tra i due uomini illustri c’era un dissenso latente, che gli avvenimenti andarono sempre più aggravando. Uno dei primi atti del governo in Milano del d’Azeglio, governo durato pochi mesi, fu l’inaugurazione del nuovo Consiglio Comunale. L’amministrazione del Comune, libera e affidata a un corpo elettivo, era un fatto nuovo pei nostri paesi, indipendenti da poco. I Municipii, colla legge austriaca, erano divisi in municipii cittadini e rurali. I consiglieri nelle città erano scelti a vicenda tra i primi cento più altamente censiti. Il Consiglio aveva a capo una Giunta, e un Podestà nominato dal Governo: nei piccoli comuni era formato da tutti i censiti, e si chiamava _Convocato_. La parte esecutiva era affidata a tre _deputati_; e il _primo deputato_ poteva anche essere una donna, che però si faceva rappresentare. I Podestà, le Giunte, i Deputati, facevano eseguire i regolamenti di sanità e di sorveglianza municipale. Ma erano corpi soltanto consultivi e ogni loro deliberazione doveva ottenere l’approvazione del Governo. Pur nei limiti ristretti delle loro attribuzioni, questi municipi avevano amministrato con saviezza e con onestà. Prima del ’43 ne avevano fatto parte le più notabili persone tra i possidenti lombardi; ma poi, durante lo stato d’assedio, e nel decennio della resistenza, i rapporti colle autorità militari e civili austriache allontanarono anche dalle cariche municipali i migliori; così gli avvenimenti del 1859 trovarono i Municipi lombardi deboli e impopolari. Nei primi giorni della nostra liberazione, il Governo, non potendo provvedere subito alla rinnovazione delle autorità municipali e delle Giunte, le rinforzò coll’aggiungervi dei cittadini noti pel loro patriottismo e per la loro rispettabilità. Le elezioni comunali di Milano furono indette pel 15 gennaio 1860, e vennero, naturalmente, precedute dal costituirsi di vari circoli e da riunioni. La lotta elettorale, in questa luna di miele dell’indipendenza, non fu però difficile, e si riuscì a una lista unica, solo alquanto ingiusta verso taluni degli antichi amministratori, che pure avevano reso dei servigi, come il Podestà conte Luigi Belgiojoso. Il sindaco era di nomina governativa; e il ministero, ossia Cavour, scelse tra i consiglieri comunali a sindaco di Milano Antonio Beretta. La scelta non poteva essere migliore, come il fatto provò durante i sette anni in cui egli fu a capo dell’amministrazione cittadina. Antonio Beretta era stato membro del Municipio, poi del Governo Provvisorio di Lombardia nel 1848. Aveva amministrato le finanze durante il Governo Provvisorio, e l’Austria non riconoscendo tra gli atti di lui che quelli dell’amministrazione ordinaria, gli aveva addebitato tutte le altre spese mettendogli sotto sequestro l’intero patrimonio, che a quel tempo era abbastanza cospicuo. Il Beretta aveva intentato una lite al Governo austriaco per questo fatto, mettendosi sotto l’egida del trattato di pace stipulato tra l’Austria e il Piemonte. La lite, abilmente condotta dai suoi avvocati, si protrasse fino al 1859, e così si evitò che l’intero patrimonio fosse confiscato. Il Beretta non era un uomo di alto ingegno, o di molta coltura, ma era grande in lui l’equilibrio della mente e del carattere: era buono, generoso, conciliante. Abile amministratore, amante della sua città, ne intravvide i destini prosperi a cui era chiamata, e ne preparò l’avvenire iniziando grandi lavori pubblici, e riforme in ogni civile istituzione. La galleria Vittorio Emanuele fu pensata e voluta da lui[38]. Il Sindaco e la Giunta si misero al lavoro con assiduità e con entusiasmo, dovendo riformare, a seconda delle nuove leggi, l’amministrazione lasciata dall’Austria. Nei primi mesi io tenni la pubblica istruzione e la sopraintendenza scolastica: poi il Beretta volle affidarmi la sorveglianza urbana, nella quale s’era avviata una larga riforma di regolamenti e di istituzioni. Rimasi però nella Commissione scolastica, una delle nuove istituzioni deliberate dalla Giunta: era una Commissione consultiva permanente, rinnovabile, che sorvegliava e faceva proposte su quanto, nella pubblica istruzione, spettava al Comune; destinata a conservare le tradizioni negli ordinamenti, di fronte alla mutabilità degli assessori; e ad essa dovevano appartenere dei cittadini notoriamente autorevoli nella istruzione pubblica. Per ogni ramo dell’amministrazione ferveva in quei giorni, negli ufficî municipali, una assidua attività di studi e di lavori, sotto l’instancabile impulso del sindaco Beretta, il quale aveva occhio a tutto e prendeva iniziative in tutto. Oltre di ciò egli esercitava in casa sua una larga ospitalità: i ricevimenti, i pranzi, i balli di casa Beretta andavano famosi per la festività e la cordialità che vi regnavano. Il Beretta diventò in breve popolarissimo, e Cavour soleva dire che la nomina di lui era stata veramente indovinata. Durò in carica sette anni, ma alla fine anche la sua stella si offuscò; ed egli dovè lasciare la carica di fronte ad un’accanita opposizione di carattere politico. Nominato senatore, lasciò Milano, e prese dimora a Roma. La sua fine non fu quella che avrebbe meritata un uomo tanto benemerito, e fu rattristata da mali fisici e da sventure domestiche. Diventò cieco, e cadde in condizioni di fortuna così misere, che a lui dovette provvedere l’affetto degli amici. Oltre alle feste di casa Beretta, in quell’invernata ci furono non pochi ricevimenti e feste nelle principali case del patriziato e della borghesia ricca. C’era in tutti una smania, si sarebbe detto, di rifarsi del passato, e di dimenticare i lutti degli anni scorsi. Il giorno 16 febbraio Vittorio Emanuele faceva l’entrata ufficiale in Milano, a cavallo, tra l’entusiasmo della popolazione, che gli affollava intorno e non ristava dall’acclamarlo, quasi con delirio: lo seguivano Cavour e il corpo diplomatico. Poche sere dopo diede un gran ballo con inviti estesissimi. Per la prima volta, la nuova generazione entrava nel palazzo di Corte. Gli invitati non ristavano dall’ammirare le ampie e sfarzose sale, e guardandosi d’attorno, con nuovo e grande compiacimento tutti si dicevano l’un l’altro: Non ci sono più (gli austriaci s’intende), sono proprio andati! Seguirono i ricevimenti ufficiali, e poi per parecchi giorni quelli di infinite deputazioni milanesi e della provincia, e le udienze, e le visite private. Vittorio Emanuele, con quel suo fare franco e risoluto, che pareva sprezzasse ogni etichetta, più di quanto ciò fosse vero, e trovando sempre il modo di piacere, esercitava un fascino grandissimo, e tutti uscivano dalle sue udienze entusiasti. In quei giorni ebbi l’occasione d’esser ricevuto con delle deputazioni, tre volte; e per tre volte sentii dal Re parole e discorsi differenti, intonati a quanto presumibilmente poteva piacere a quelle deputazioni stesse. Colle une parlava il linguaggio della prudenza politica e della gravità del momento; con altre aveva l’aria di sfogare tutto l’ardore del suo animo, e usciva nei più audaci propositi. Così ce n’era per tutti, e discorreva con quella finezza o furberia politica, che gli fu sempre di guida nelle fortunose vicende del suo Regno. Tra quelli che gli chiesero udienza ci fu Alessandro Manzoni, che, per la prima volta in vita sua, rendeva omaggio a un principe, e andava modestamente a ringraziarlo di quegli atti di favore e di quegli onori, che aveva sempre rifiutati da tutti i Sovrani per poter rifiutare gli onori del Governo austriaco. Vittorio Emanuele accolse il Manzoni colla gentile familiarità e coll’espansione con cui avrebbe potuto accogliere un suo pari; e quando si congedarono, il Re, datogli il braccio, lo accompagnò traverso le sale e, per lo scalone, fino nella corte del palazzo. Il Manzoni, nella sua modestia, non parlò mai di questo episodio, e lo seppi poi da suo figlio Pietro ch’era con lui. Tra i balli di quei giorni, ce ne fu uno sfarzosissimo nel palazzo della duchessa Visconti di Modrone, al quale intervennero Cavour e il corpo diplomatico; e un ballo pure elegantissimo in costume ci fu in casa del marchese Trotti, e venne poi ripetuto alla Società degli Artisti. In questo rifiorir di feste e di divertimenti pubblici dovevano necessariamente rifiorire anche i _coriandoli_. I corsi mascherati, e il getto dei coriandoli, nei giorni del carnevalone milanese, erano stati proibiti, nè sarebbero stati possibili durante gli anni dello _stato d’assedio_. Il divertimento dei coriandoli aveva in sè qualcosa di sfrenato, eppure non trascendeva quasi mai a quegli eccessi che si potrebbero ora supporre. Era un freno l’antica consuetudine; la gente d’ogni classe, ciascuno a suo modo, ci si divertiva; tutti ci mettevano della benevolenza e del buon umore, poichè tra le classi alte e le classi basse, nell’antico popolo milanese, non c’erano odii, non c’erano antipatie. La servitù straniera aveva reso tutti eguali nel dolore, solidali nelle speranze; e nelle classi alte era tradizionale l’inesauribile carità, che era riconosciuta e ricambiata con un sentimento di rispetto e di benevolenza. Un divertimento sfrenato come quello dei coriandoli non sarebbe più possibile nella nuova Milano, affaccendata e composta di tanti elementi così diversi, in mezzo ai quali i vecchi milanesi si trovano in minoranza. Anche la lotta dei coriandoli diventerebbe una _lotta di classe_; il coriandolo ilare e benevolo non sarebbe ora neppure _programma minimo_; ma ci sarebbe il coriandolo violento e iroso. La lotta a coriandoli tra i carri mascherati e i terrazzini delle signore non sarebbe ora possibile che colla scorta dei carabinieri; se pure... Gli ufficiali francesi prendevano una larga parte al getto dei coriandoli, tanto nuovo per loro, e ci godevano un mondo. Frequentavano pure in gran numero le feste e i ricevimenti cittadini, ove si incontravano anche molti forestieri, venuti a veder Milano in quei giorni di commozioni politiche e di pubblici festeggiamenti. Inutile dire che tra i venuti c’era uno sciame di _reporters_ e di uomini politici a spasso. Tra i _reporters_ ricorderò anche una nota scrittrice francese, _madame Colet_, che avevo conosciuta in casa Maffei, e a cui dovetti far da cavaliere più volte, poichè amava cacciarsi dappertutto. Era venuta a raccogliere notizie e episodî italiani per un suo libro futuro; e certamente non a divertire quelli da cui li voleva attingere. Quando sfoglio qualche mio vecchio _album_ di quel tempo, quante ricordanze e quante meditazioni! Li chiamavo, a quel tempo, gli _albums_ delle belle signore, e ora son gli _albums_ delle nonne, e anche pur troppo dei cimiteri! In quegli anni del risorgimento politico si sarebbe detto che ci fosse anche un risorgimento della _Bellezza_: nelle feste di ballo, nei teatri, ai passeggi, le signore bellissime erano in una grande maggioranza; i forestieri ne erano ammirati. I vecchi _albums_, chi li osserva e li medita, hanno sempre un fascino irresistibile; quello del passato, che ci par di tanto più bello, perchè è il fascino della gioventù e del tempo che fu nostro. Quei ritratti che ci passano dinanzi ci risvegliano nella memoria nomi cari d’amici, dolorosi rimpianti, e storie ed episodi, ora ameni, ora tristi, ora scabrosi, ma che il tempo, che è giusto, ha già ravvolti nel suo velo indulgente. Tra i ritratti delle persone d’allora, rivedo quelli degli ufficiali francesi, che prendevano una parte sincera e gaia alle nostre feste: conservo un _album_ tutto dedicato a loro. Ecco, sfogliandolo, i capitani Magnan, figlio del maresciallo, e Teodoro Yung, che appartenevano allo Stato Maggiore del maresciallo Vaillant. L’Yung sposò poi una contessa Kaula, che nel 1870 fu accusata di spionaggio, e levò un rumore infinito: divenne segretario generale del ministro della guerra Boulanger, ma seppe togliersi in tempo da quelle acque torbide. Si conservò amico attivo dell’Italia, e fondò la lega Franco-Italiana. Ecco due brillanti capitani degli usseri, ammiratori ed ammirati nelle nostre feste, il marchese di Louvencour, e il conte di Vogüé, che fu tra i primi a morire a Wörth nel 1870. Poi viene un gruppo d’ufficiali d’artiglieria, Laprade, la Ville Huchet, Flye de Saint Marie e il conte di Novion che s’era distinto assai a Solferino; questi aveva molta coltura, specialmente artistica, e conservo di lui parecchi dipinti all’acquarello. Rimanemmo amici, e un giorno nel 1871 ricevetti una sua lettera da una fortezza tedesca, ove era stato condotto prigioniero da Sedan. Egli voleva ottenere, per mezzo di mio fratello, ch’era ministro, e dell’ambasciata italiana a Berlino, di far parte del corpo francese di spedizione contro la Comune, chiesto da Thiers a Bismark. E l’ottenne. Quali terribili vicende! Più tardi passò in Algeria, e morì generale di divisione. Poi ne seguono altri, d’ogni arma e d’ogni grado, e l’_album_ continua a rievocarmi storielle amene, e vicende tragiche. Chi avrebbe detto a quei giovani francesi, giustamente alteri per le recenti vittorie, e a cui tutto arrideva nell’avvenire, che dopo dieci anni li aspettava una così grande sventura! Ne rividi ben pochi; parecchi morirono nella guerra del 1870 e del ’71. Ma non c’erano solo gli ufficiali giovani e socievoli, tra i francesi; c’erano anche i vecchi, i brontoloni, poco amici dell’Italia, che non si divertivano, e che andavano poco o punto in società. Di questi ne rammento alcuni, ma non li ritrovo negli _albums_. «C’est beau votre carnaval» brontolava in un crocchio, una sera di veglione alla Scala, un colonnello di fanteria, «c’est beau, mais c’est cher; ça nous coûte quatorze mille fantassins français couchés sur vos plaines. On aurait pu bien s’amuser à meilleur marché!» Chi brontolava più di tutti, apertamente e senza troppi riguardi, era il maresciallo Vaillant, rimasto in Lombardia, quale comandante in capo dell’esercito francese d’occupazione, dopo i preliminari della pace di Villafranca, e dopo il ritorno in Francia di Napoleone. Il maresciallo alloggiava, e ci aveva il suo quartier generale, nella Villa Reale, situata nei vecchi giardini pubblici, nella quale pochi anni prima era morto il maresciallo Radetzki. Il sindaco Beretta procurava in tutti i modi di essergli ospitale e cortese, ma il maresciallo, riservato e freddo aveva sempre il fare annoiato d’uno che adempie a un ufficio di malincuore. Era il vero tipo del militare _grognard_. Il Municipio e i cittadini lo invitavano sempre alle feste pubbliche, o private, ed egli si scusava sempre, e non ci interveniva mai. Di solito riceveva le visite nel bel giardino della villa. Riceveva vestito d’una giacca di tela, e con un gran cappello di paglia, come un coltivatore, non scomodandosi troppo nelle sue occupazioni preferite, ch’eran quelle di giardiniere. Eravamo nei giorni in cui gli avvenimenti dell’Italia centrale tenevan gli animi nostri sospesi in una continua ansia patriottica, e il maresciallo evitava ogni discorso politico non parlandoci che di _greffages_ e di _boutures_. Fu in uno di quei giorni di tanta ansietà per noi, che scrisse al sindaco domandandogli che gli procurasse... cinquanta rospi per risanare il giardino invaso da non so quali insetti; e scusandosi, come di solito, per un invito, finì col dire al sindaco, senza far complimenti, _vos annexions me désanexionnent_. Intanto Napoleone lasciava dire, e ci lasciava fare. Mentre gli animi erano rivolti ansiosamente alle difficoltà in mezzo alle quali Cavour conduceva con fermezza la politica italiana, già apparivano sull’orizzonte nuove aspirazioni, e l’inizio di nuovi fatti. Garibaldi, con un proclama, s’era rivolto agli italiani aprendo una sottoscrizione per _un milione di fucili_. Il milione di fucili era una parola d’ordine, che pur ispirandosi al linguaggio figurato di Garibaldi, alludeva a nuove imprese, e a nuove iniziative. Ma Garibaldi stesso, forse per non sollevare delle inquietudini e per far atto di concordia, mise a capo della sottoscrizione Giuseppe Finzi ed Enrico Besana, due patriotti amici suoi e di Cavour. La sottoscrizione servì poi a provvedere, non un milione, ma un buon numero di fucili, e preparò in parte le spedizioni per la Sicilia, soprattutto, credo, quella del Medici. Cavour, intanto, si preparava a far le elezioni, per avere anche l’appoggio parlamentare delle vecchie e nuove provincie del Regno, nella sua politica nazionale. Il 25 di marzo anche Milano fu chiamato per la prima volta ad eleggere i suoi deputati al Parlamento. Le elezioni milanesi furono, naturalmente, precedute da riunioni e da qualche circolo elettorale. Quella concordia che aveva presieduto alle elezioni comunali, per quanto recente, si andava già dissipando. Il principale dei circoli politici, che si formò allora, fu soprannominato il circolo delle _Galline_, perchè si radunava nei locali d’una scuola posta su una piccola piazza detta appunto delle _Galline_, dietro la via Bassano Porrone, scomparsa ora e sepolta in parte sotto il palazzo del _Credito Italiano_. Questo circolo, che per molti anni ebbe in Milano una grande influenza elettorale, fu un circolo _di terzo partito_, ed ebbe a suo portavoce e a ispiratore un giornale chiamato il _Pungolo_, diretto da Leone Fortis. Vi appartenevano in gran numero avvocati, che colla parola abbondante e facile, in quei primi tempi preceduti da così lungo silenzio, vi esercitavano un assoluto predominio. In quegli avvocati il senso politico era spesso velato o travolto dalle sottigliezze giuridiche. Il circolo delle _Galline_ non era coi radicali, ma era di opposizione al Governo quasi sempre, perchè non gli pareva mai d’essere _indipendente_ abbastanza. I suoi primi attacchi furono contro quel gruppo di persone che negli anni antecedenti in secreto o palesemente, avevano avuto negli avvenimenti del paese una parte dirigente. L’intendersi, tra le due parti, non avrebbe dovuto essere difficile; ma tra loro si conoscevan poco, e si guardavano con sospetto; e gli uomini, come dice Manzoni, tra le loro prerogative, hanno anche quella di amarsi o di odiarsi senza conoscersi. Gli uni erano rappresentati dalla _Perseveranza_, per gli altri stava con la lancia in resta il _Pungolo_. Questo introdusse più tardi un nomignolo che fece fortuna, e chiamò _consorti_ gli amici dei ministeri moderati. Così la _consorteria_, nome astratto e misterioso, e perciò tanto più adatto a commovere le fantasie, allignò subito anche in altri paesi; anzi parecchi se ne contesero l’invenzione, e diventò per un pezzo un bersaglio comodo per tutti, come se avesse corpo e forma. I repubblicani, naufraghi del passato, avevano un’associazione, e un giornale, diretto da Maurizio Quadrio, chiamato l’_Unità Italiana_, giornale che aveva poca influenza, astioso soprattutto contro gli amici d’un tempo; attaccò più volte anche mio fratello Emilio, che, più tardi poi, ebbe un duello con Maurizio Quadrio. In quelle prime elezioni due collegi proclamarono a Milano la candidatura di Cavour e di Farini, due nomi superiori ad ogni discussione, che furono acclamati e eletti da tutti. Le _Galline_ accettarono, per quella prima volta, Carlo Tenca, cavouriano; vollero l’avvocato Antonio Mosca, nuovo nella politica e indipendente; e fecero votare pel dottor Agostino Bertani mazziniano, e per Carlo Cattaneo repubblicano, federalista, e anche astensionista. Che pasticcio! Queste prime elezioni sorpresero Cavour, il quale avrebbe voluto avere dalle principali città una dimostrazione che in faccia all’Europa lo appoggiasse nella sua politica delle annessioni dirette alla formazione del Regno d’Italia. «Non so con quale criterio» esclamò «a Milano mi abbiano messo insieme con un mazziniano e con un federalista!» Cavour in quelle elezioni era stato eletto nel Regno in otto collegi. In quei giorni il Farini aveva mandato mio fratello Emilio a Parigi con una missione che riguardava la questione delle annessioni, e fu questa la sua prima missione diplomatica. A Parigi ricevette la notizia della sua nomina a deputato di Tirano: aveva appena qualche mese prima compiuto i trent’anni. Una seconda missione l’ebbe l’anno dopo da Cavour, che lo mandò a Londra per dare ai ministri inglesi quelle informazioni, sui plebisciti e sugli affari di Napoli, che meglio potevano giovare per mantenerli in disposizioni favorevoli, e porli in grado di difendere la nostra causa contro le accuse che, nel Parlamento, ci erano mosse dagli irlandesi e dai conservatori clericali. Nell’aprile di quell’anno vidi per la prima volta e conobbi il Crispi. Lo conobbi negli uffici della _Perseveranza_, ov’egli andava a scrivere delle corrispondenze e dei telegrammi, che venivano dalla Sicilia e nei quali erano amplificati fatti e notizie sui successi e sull’estendersi di alcuni moti rivoluzionari dell’isola. Egli faceva capo alla _Perseveranza_, appunto perchè le sue notizie fossero meglio credute, e anche perchè vi erano premurosamente accolte. Quei moti, in realtà, languivano, e si temeva che i borbonici in breve disperdessero gli ultimi insorti. Ma il Crispi, che meditava la spedizione di Sicilia, e voleva indurre i suoi amici a parteciparvi, e prima di tutti Garibaldi, era intento a convincere che la rivoluzione siciliana trionfava, e che s’aspettavano solo soccorsi e volontari. Sulla fine dell’aprile, Crispi ci confidò che ogni esitazione era vinta in tutti, e che si organizzava rapidamente una spedizione capitanata da Garibaldi. Il Sirtori, che fino allora s’era tenuto in riserbo, decise di unirsi alla spedizione. Giuseppe Finzi, che raccoglieva il milione di fucili, fu chiamato a Torino da Cavour. In quei giorni il mio amico Costantino Garavaglia, allora banchiere, noto pei suoi sentimenti patriottici, mi confidò d’aver avuta una sera la domanda urgente d’una somma dal Governatore Massimo d’Azeglio, di circa trecento mila lire in cambiali, che sarebbero state pagate presso il gabinetto di Cavour, e che d’intesa con Azeglio lì per lì aveva consegnate al capitano garibaldino F. Chiassi[39]. Evidentemente quella somma, richiesta in quel giorno e in quell’ora, doveva servire, come pensammo dopo, alla spedizione di Garibaldi; come la chiamata del Finzi a Torino si connetteva all’affare del _Piemonte_ e del _Lombardo_, i due vapori della spedizione dei Mille. Tutte cose che forse si sapranno esattamente un giorno. Si pensi con quale entusiasmo, e con quale ansietà, ogni patriotta seguisse col pensiero e col cuore la meravigliosa spedizione, che pure in quel tempo di avvenimenti straordinari superò quanto di più fantastico si potesse mai immaginare. NOTE. [38] Primo atto del Beretta, quale sindaco, fu di scegliere la Giunta circondandosi di amici coi quali era maggiormente in comunione di opinioni e di intenti. La simpatia che lo circondava gli rese facile l’avere il consenso di tutti quelli a cui s’era rivolto, e il Consiglio pressochè unanime elesse ad assessori l’arch. Brocca, l’ing. Alessandro Cagnoni, Carlo Cagnola, Giuseppe Finzi, Tullo Massarani, Marzorati, Giuseppe Robecchi, Luigi Sala, Lodovico Trotti, Francesco Vitali, Giovanni Visconti-Venosta. A riempire poi qualche vuoto furono poco dopo nominati Carlo Tenca, Paolo Belgiojoso e il dottor Giuseppe Terzaghi. Furono membri della prima Commissione degli studi, eletta nel 1860, Cesare Correnti, i prof. Luigi Rossari e Giovanni Cantoni, gli assessori conte Paolo Belgiojoso e Giovanni Visconti-Venosta, con Carlo Tenca relatore. Paolo Belgiojoso fu poi per parecchi anni sopraintendente scolastico. [39] «_Carissimo amico_, «Rispondo con piacere alla tua domanda. «Un sabato sera, recandomi come di consueto al Club dell’Unione verso la mezzanotte, vi trovai un biglietto del marchese Massimo d’Azeglio, che mi invitava a recarmi da lui per un affare urgentissimo. «Vi corro immediatamente e, tosto introdotto, d’Azeglio mi viene incontro sorridente e mi dice: Mi occorrono per domattina 250 o 300 mila lire e le voglio in oro tanti pezzi da 20 franchi. «Risposi che li avrebbe avuti alla prima ora di lunedì, ma che in domenica, colle banche chiuse, mi era impossibile procurarmi in oro la somma che mi chiedeva. «Egli allora si avvicinò ad altra persona seduta in fondo alla sala, e che nella semioscurità non avevo ancora avvertita, e, scambiate con essa alcune parole, tornò da me e mi disse: «— Mantenetemi il segreto — ma sappiate che è il Conte di Cavour che mi ordina di consegnare domattina al capitano Chiassi la somma indicata. Tutto quello che posso concedervi, per lasciarvi un’ora di più, è di mandare il Chiassi medesimo al vostro studio a prendere la somma. «Capii facilmente che si grattava di cosa grave e risposi senz’altro che avrei atteso alle ore 11 il capitano. «L’Azeglio prendendomi sotto braccio mi accompagnò fino all’anticamera, raccomandandomi ancora il più assoluto segreto. «Confesso che non ero tranquillo, temevo di non potermi procurare una somma relativamente forte in oro, in un giorno festivo ed in poche ore, tanto più che non potendo dare spiegazioni di tanta urgenza, non potevo rivolgermi che a quei pochi amici che supponeva non me ne avrebbero domandate. «Il banchiere Carlo Brot ed i fratelli Ronchetti mi diedero tutto l’oro che avevano in cassa (circa 7000 marenghi), altri di cui non ricordo il nome altrettanto; e un 2000 circa avevo nella cassa della mia Ditta: alle ore 10 tutta la somma era pronta. «Alle ore undici il Chiassi, che conoscevo, coll’aiuto del facchino Scotti portò i sacchetti nella vettura e se ne andò. Mi domandò prima se occorreva rilasciare ricevuta, dissi di no, e mi accorsi, mentre mi stringeva fortemente la mano, che era molto commosso. «Il giorno dopo d’Azeglio mi mandò in rimborso tante sue accettazioni di L. 50.000 cadauna pagabili presso il gabinetto del ministro Cavour. «Due o tre giorni dopo si seppe della partenza di Garibaldi da Quarto. Mi parve di capire. «Ti stringe cordialmente la mano «Tuo aff.mo _Costantino Garavaglia_. «Sig. Comm. _Giovanni Visconti-Venosta_». CAPITOLO XXXVI. 1860. II. _Sommario:_ Forestieri a Milano. — Faccio la conoscenza di Alessandro Manzoni. — La sua famiglia e i frequentatori soliti della sua conversazione serale. — Le sue abitudini, i suoi discorsi. — L’abate Ceroli e il prof. Luigi Rossari. — Don Pedro imperatore del Brasile. — Omaggi pubblici a Manzoni. Dopo la spedizione dei _mille_, ci fu, com’è noto, quel succedersi d’avvenimenti nelle provincie meridionali, dai quali uscì l’unità d’Italia. Alle generazioni future la storia parlerà di quei fatti memorabili, snebbiando leggende già formate, e coi documenti ne darà una visione più completa di quella che ne ebbero gli stessi contemporanei. I prodigiosi avvenimenti che succedevano in Italia, vi facevano accorrere in quei giorni uomini politici e giornalisti d’ogni paese, che venivano a vedervi lo spettacolo d’una nazione che risorge. Parecchi ammiravano, molti rimanevano scettici, e alcuni parevano quasi seccati di ritrovare dei vivi, dove erano abituati a passeggiare tra le ruine e tra i sepolcri. Di questi forestieri ne incontravo sovente in casa della principessa Belgiojoso, dove però non era ben accolto chi ne’ suoi discorsi metteva innanzi de’ dubbi sul trionfo finale della nostra causa, o moveva critiche agli atti o agli uomini nostri. Nella principessa sopravviveva intero l’antico entusiasmo patriottico; ed ora che le antiche aspirazioni stavano per diventare realtà, essa si ribellava contro chi non festeggiasse il loro trionfo. Ammirava i nostri migliori uomini politici, e soprattutto Cavour; era intollerante d’ogni critica, che riteneva in quei momenti dannosa, e non permetteva a nessuno di turbarle il suo ottimismo. Ottimista anch’io, e di più senza i disinganni dell’età matura, s’andava molto d’accordo nei nostri discorsi; sicchè in pochissimo tempo fui tra quelli con cui la principessa amava discorrere di politica, e che accoglieva nel modo più cortese e cordiale. Quando riceveva, nel suo salotto le portavano un _narghilé_, e fumava non so che cosa, che non era tabacco. Si metteva di solito a un tavolino, e ricamava facendo conversazione. Qualche volta scriveva tenendo una cartella sulle ginocchia; scriveva, in mezzo alle chiacchiere e alle discussioni, opuscoli od articoli per giornali e riviste, specialmente per la _Revue des deux mondes_; il più delle volte scriveva in francese, dicendo che le riusciva più facile. Quand’era ammalata raramente si metteva a letto, ma si adagiava vestita, e tra scialli, su una gran poltrona, curandosi talora da sè, poichè aveva il ticchio della medicina; il suo medico, però da molti anni, era il dottor Maspero, il traduttore dell’_Odissea_. Pochi giorni prima che morisse, la vidi ancora adagiata nella poltrona. Ero andato una mattina a domandare le sue notizie, ed essa, sentendo che mi trovavo nel salotto, volle vedermi: mi fece cenno d’accostarmi, e di vedermi parlare; poi con un filo di voce mi chiese se quella mattina ci fossero dei dispacci su non so quale questione politica importante. La politica e la patria la interessarono fin nelle ultime ore della vita. Morì pochi giorni dopo, ossia il 5 luglio del 1875. Gli ultimi suoi amici videro con malinconia e con dolore scomparire questa donna, che col carattere e coll’ingegno aveva illustrato il patriottismo italiano, e coi larghi mezzi lo aveva promosso e sorretto nelle circostanze più difficili. Nel 1860 feci un’altra preziosa conoscenza, la più preziosa di tutte: la contessa Maffei mi condusse da Alessandro Manzoni. Il Manzoni riceveva la sera pochi amici, ma presto m’invitò ad essere tra questi. Di giorno stava in uno studio a terreno, che metteva sul giardinetto della sua casa; la sera riceveva nel salotto al primo piano, seduto a un tavolino nell’estate, e presso il caminetto nell’inverno, attizzando colle molle il foco continuamente, mentre ascoltava o discorreva. Gli amici, e il maggiore de’ suoi figli, Pietro, facevano circolo intorno a lui, mentre la nuora e le nipoti leggiucchiavano o lavoravano d’ago o di ricamo, sedute a una tavola ch’era nel mezzo del salotto. Le nipoti erano tre belle signorine, di cui la maggiore, Vittoria, sposò il senatore Pietro Brambilla, e la secondogenita, Giulia, diventò moglie del generale Costantini: la terza si chiamava Sandra. Gli amici che Manzoni a quel tempo vedeva più di frequente erano l’abate Natale Ceròli, il professore Luigi Rossari, il bibliotecario di Brera Rossi, il marchese Lorenzo Litta Modignani, Giulio Carcano, il senatore Piola, il professor Giovanni Rizzi, il professor Fabris; G. B. Giorgini suo genero e Ruggero Bonghi, quand’erano a Milano; il figliastro conte Stefano Stampa, e pochissimi altri. Di giorno riceveva nello studio, cercando di limitare il numero delle visite, talora persino con dei sotterfugi, schivo qual’era degli omaggi, e delle conoscenze superficiali. Manzoni passeggiava ogni giorno per un paio d’ore, e non poteva andar solo, a cagione d’una malattia nervosa che soffriva da moltissimi anni, e che, se non era accompagnato, gli dava la sensazione che gli mancasse il terreno sotto i piedi, o che gli cadessero addosso le case; sensazione che non si verificava se gli era accanto qualcuno. Ci raccontò egli stesso che questa malattia nervosa era stata causata dalla impressione provata quando, trovandosi a Parigi nella piazza della Concordia, durante le feste pel matrimonio di Napoleone con Maria Luigia, sospinto e schiacciato in mezzo alla folla, gli svenne sua moglie tra le braccia, ed ebbe per alcuni momenti l’angoscia di vedersela strappata e calpestata tra le terribili ondate del popolo. Da quel giorno le vie e le piazze cominciarono a dargli le vertigini; e più tardi una nuova commozione venne a rendergli più grave e inguaribile quella malattia nervosa di cui aveva avuto i primi sintomi a Parigi. Era nella bottega d’un libraio a Milano, nella via di S. Margherita, quando gli giunse improvvisamente la notizia della battaglia di Waterloo. Nella sua mente chiara egli intuì la perdita della indipendenza, e l’Italia data all’Austria, forse per sempre. Quasi svenne; si dovette ricondurlo a casa, e da quel giorno non potè più uscirne se non accompagnato. Per lunghi anni i fidi compagni delle sue passeggiate furono l’abate Natale Ceròli e il professore Luigi Rossari. Il Ceròli era un degno sacerdote, coltissimo, piacevole, e di sentimenti patriottici; il Rossari era stato per molti anni un modesto professore di lingua italiana in una scuola tecnica, e la modestia in lui, che aveva tanti meriti e tanta coltura, era così grande da essere quasi un difetto, poichè lo teneva appartato da tutti, e quasi nascosto. Ma col suo Manzoni era legato da una amicizia ch’era un culto. Letterato di valore, il Rossari istruì egregiamente un’intera generazione, ma non pubblicò mai nulla. A qualcuno che gli chiese una volta perchè non avesse mai pensato a qualche lavoro letterario, rispose: «Ebbi tra i miei amici più cari Manzoni, Grossi, Porta, Azeglio, Giusti, Giorgini, e vivendo in mezzo a questi _colossi_ come volete che mi passasse per la mente di pigliar la penna?» Eppure parecchi di questi non licenziavano mai nulla per le stampe senza aver avuto prima il parere di Luigi Rossari. Appena ebbi la fortuna di conoscerlo personalmente, lo pregai di entrare nella Commissione degli studi del Municipio di Milano: accettò, e per parecchi anni ebbe una gran parte nelle riforme e nella direzione delle scuole municipali milanesi. Morì povero; viveva e manteneva una sorella, colla modesta pensione di professore di scuole tecniche. Del Manzoni, ossia di don Alessandro, come lo chiamavano tutti a Milano, la conversazione era semplice, piacevole, piena di bontà e di arguzia; a sentirlo parlare pareva di leggere i _Promessi Sposi_. In famiglia, e cogli amici intimi, parlava quasi sempre milanese, come pressochè tutti a quel tempo. La sua modestia era sincera e grande; se discorreva con persone che non gli fossero familiari, alle volte, leggermente balbettava. Aveva una memoria straordinaria, che conservò fino agli ultimi anni di sua vita. A 85 anni, discorrendosi una sera dell’Alfieri, recitò a memoria dugento versi di Virgilio e i versi corrispondenti d’una traduzione, non molto nota, dell’Alfieri. I suoi discorsi si aggiravano frequentemente sulla Rivoluzione francese, di cui ricordava ogni menomo particolare, ogni attore anche secondario, ogni scritto, con una memoria che stupiva. Più tardi ripensai a quei discorsi, quando il Taine pubblicò la sua opera, che tanto mi rammenta nell’erudizione e nei giudizi critici ciò che avevo udito dal Manzoni. Egli, come si sa, meditava una storia della Rivoluzione francese; l’aveva già forse tutta in mente, ma l’età avanzatissima non gli permise di scriverne che il principio. Era ben difficile che il Manzoni pronunziasse giudizî su autori viventi, e trovava sempre una qualche scappatoia gentile per sottrarvisi quando n’era richiesto. Peggio ancora se si trattava di esaminare dei manoscritti, o di dare dei consigli: per massima vi si rifiutava sempre e soleva rispondere con una formola generale, che cioè bisognava essere _indulgenti cogli stampati e feroci coi manoscritti_. Era molto schivo di far conoscenze nuove, e non gli piaceva ricevere curiosi o forestieri che venissero per visitarlo, se non in casi speciali. Un illustre forestiero che veniva a visitarlo quasi sempre in ogni suo viaggio in Europa, era don Pedro, Imperatore del Brasile, che una volta gli mandò anche una sua traduzione in lingua spagnola del _Cinque Maggio_, insieme col gran cordone della Rosa ch’era la massima onorificenza brasiliana. Il Manzoni gli scrisse lodando la traduzione, lo ringraziò per l’onorificenza, ma non l’accettò. Subito dopo il 1859 don Pedro gli mandò di nuovo l’ordine della _Rosa_, scrivendogli: «Se ho indovinata la ragione per la quale non avete prima accettata la mia decorazione, spero che l’accetterete questa volta.» Il Manzoni infatti accettò, e ringraziò con le espressioni della solita sua gentilezza. Egli durante la dominazione austriaca aveva rifiutato, per massima, tutte le decorazioni che gli erano venute da varî governi, per avere più facilmente il diritto di rifiutare le decorazioni del Governo austriaco. E queste infatti le rifiutò sempre. Pur essendo schivo di nuove conoscenze ne aveva sempre avute molte, e conosceva quasi tutti gli uomini più illustri del suo tempo, specialmente d’Italia. Alle moltissime lettere che riceveva, se non eran lettere di amici, faceva di solito rispondere con qualche parola gentile da suo figlio Pietro. Nello scrivere, incontentabile sempre, non era infrequente che rifacesse anche le sue lettere familiari. Dopo la morte di lui, l’abate Ceròli, incaricato di riordinarne i manoscritti e i carteggi, mi diceva di aver trovato delle centinaia di lettere di ignoti, uomini e donne, che ricorrevano al Manzoni, senza conoscerlo, per domandargli consigli e conforti, come a un santo, dicendo che i suoi scritti avevano messo nelle anime loro la fede, la pace, la speranza. A queste lettere commoventi facevano riscontro altre ben diverse, come si seppe da suo figlio Pietro, che ricevette ne’ suoi ultimi anni da parecchi intransigenti arrabbiati, che lo insultavano villanamente, perchè era andato a Torino a votare in Senato l’ordine del giorno che proclamava Roma capitale d’Italia. Quando capitava qualcuna di queste lettere, i suoi intimi, se eran presenti, se ne accorgevano subito. La scorreva con l’occhio, poi la pigliava colle molle, e con un’espressione di disgusto la metteva sul foco. Contrario al potere temporale dei Papi, non solo dal punto di vista dell’italianità, ma pur da quello della più rigorosa ortodossia cattolica, e in nome degli interessi religiosi, discorreva frequentemente di questa grave questione, citando brani di storia ecclesiastica, in cui pure era dottissimo. Le amarezze che gli procuravano questi scrittori di lettere villane, o qualche libellista anonimo, gli erano ben largamente compensate in quell’altissima stima, ch’era una venerazione, da cui era circondato da tutti. Nelle sue lunghe passeggiate per la città, e fuori, tutti lo riconoscevano, o lo additavano, tutti gli facevan largo, e lo salutavano con rispetto affettuoso. Ne’ suoi ultimi anni, credo nel 71, una sera, contro le sue abitudini, andò a teatro a sentire non so quale commedia, che in quei giorni era in voga. Appena fu veduto tutti si levarono in piedi, sventolando i fazzoletti e acclamandolo; poi lo aspettarono all’uscita e gli fecero una calorosa dimostrazione. Una nuova pubblica dimostrazione l’ebbe nell’estate di quell’anno. Una sera rincasò, dopo la solita passeggiata, più tardi del solito. Lo aspettavano nel salotto i soliti amici, ed egli cercò giustificare il ritardo con qualche scusa trovata lì per lì. «Non credetegli affatto — saltò su l’abate Ceròli che lo aveva accompagnato — ve la dirò io la causa del ritardo: Eravamo nel giardino pubblico, e don Alessandro, stava osservando certe nuove piantagioni. Intanto alcuni lo avevano riconosciuto, e sussurravano: _Manzoni, Manzoni_. La gente cominciò a fermarsi, poi da ogni parte fu un accorrere di quanti erano nei giardini, e in un momento don Alessandro si trovò in mezzo a una folla di uomini, di donne, di fanciulli. Tutti gli volevano stringere la mano, o almeno toccargli il vestito. Alcune donne gli chiedevano una benedizione pei loro bambini. Don Alessandro non potè scappare; s’era ben fatto tutto rosso in viso, ma colla solita sua buona grazia restituiva fin che poteva le strette di mano, e accarezzava i bambini. Dopo una buona mezz’ora gli fecero largo, e si potè finalmente avviarsi verso casa, tra due file di persone che lo salutavano calorosamente, e gridavano _viva Manzoni_. Insomma, concluse don Ceròli, fu un’ovazione, una vera ovazione!» «No, no» rispose il Manzoni «lei non ha capito. Quella buona gente, vedendo questo vecchio, che non ha più il diritto d’essere al mondo, lo vollero festeggiare come un _invitato_.» Si sarebbe detto che quella buona gente avessero il presentimento che festeggiavano il loro Manzoni per l’ultima volta. Alcuni mesi dopo, il 6 gennaio 1873, il Manzoni cadde sulla gradinata della Chiesa di S. Fedele, e battè la fronte sugli scalini: da quel giorno la sua mente cominciò a intorbidirsi, e dopo continue alternative di lucidità e delirî, ai quali alcune volte ho malinconicamente assistito, il 22 maggio di quell’anno moriva. CAPITOLO XXXVII. 1860. III. _Sommario:_ Continuazione dei fatti del 1860. — Tentativo di Cavour per promuovere un pronunziamento militare a Napoli. — Garibaldi entra in Napoli. — Le truppe regie entrano nell’Umbria e nelle Marche. — Il conte Pasolini Governatore di Milano. — I ricevimenti e le feste alla Prefettura. — L’ufficio di _Questura_ affidato provvisoriamente dal Governo ai principali Municipi. — L’ufficio di Questura nel Municipio di Milano. — Suo ordinamento provvisorio. — Un agente della Polizia imperiale francese. — Ordinamento regolare delle Questure. — Il cav. Setti, primo questore. — Il Farini nominato luogotenente a Napoli. — Mio fratello Emilio lo accompagna. — La salute di Farini va declinando. — I grandi avvenimenti che si succedono sul finire del 1860. — Un detto di Alessandro Manzoni. — Proclamazione del Regno d’Italia, con Roma capitale. — Il riconoscimento della Francia, dopo la morte di Cavour. Torniamo agli avvenimenti del 1860: ce n’erano dei nuovi ogni giorno, con nuove trepidazioni, e nuove gioie. Mentre s’era tutti in un indicibile orgasmo per le notizie di Garibaldi e della Sicilia, i battaglioni della Guardia Nazionale si scambiavano di città in città visite, per festeggiare la luna di miele della fraternità. Ne partirono anche da Milano, tutti s’intende in assetto di guerra, più o meno. Tra questi ne partì uno anche da Milano per Bologna, per ragioni militari, e di pubblica sicurezza che in quei giorni vi reclamavano misure speciali. In tutto questo affratellarsi, quanti ricevimenti, quanti banchetti, quanti discorsi! Ma intanto, succedevano altrove rapidamente fatti serî e decisivi. Con un incarico confidenziale di Cavour, Giuseppe Finzi e mio fratello Emilio erano partiti per Napoli, ove da alcuni giorni era arrivato Persano con un legno da guerra. Cavour aveva avuto da prima la speranza che Napoli, dopo gli avvenimenti di Sicilia, si sollevasse; poi aveva desiderato che almeno l’esercito napoletano facesse un _pronunziamento_; con ciò l’effetto in Europa sarebbe stato più grande, e l’esercito napoletano avrebbe potuto rimanere compatto; Cavour pensava associarlo alle altre forze italiane, per mandarle tutte assieme ai confini, dove l’Austria era accampata in attitudine minacciosa. Così anche l’esercito napoletano sarebbe diventato subito una forza nazionale. I tentativi di Cavour, aiutati da illustri napoletani, e da molti suoi amici od emissarî, andarono falliti. Il regno si sfasciò rapidamente, e Garibaldi l’11 settembre, pressochè da solo, entrò in Napoli tra un indicibile entusiasmo popolare che lo acclamava liberatore. Dopo l’entrata di Garibaldi in Napoli, Cavour, con una coraggiosa ispirazione politica, ruppe le tergiversazioni diplomatiche, e deliberò l’entrata delle truppe regie nelle Marche e nell’Umbria, riprendendo l’iniziativa e la direzione della rivoluzione italiana. La deliberazione fu presa sulla fine del mese di agosto, e Cavour considerando le difficoltà che avrebbe potuto incontrare poi nei Gabinetti d’Europa, pensò di prevenire l’amico segreto, Napoleone. Approfittandosi d’una visita alla Savoia, che in quei giorni faceva l’Imperatore, mandò a complimentarlo da Torino il Farini e il generale Cialdini, coll’incarico di comunicargli la presa risoluzione. Napoleone mostrò loro tutte le difficoltà, i suoi impegni colla diplomazia, e gli sdegni che tal fatto avrebbe provocati. Alle dimostrazioni insistenti degli inviati di Cavour Napoleone rispose alla fine colla celebre parola: _faites vite_. Le truppe, come è noto, condotte dal Fanti entrarono a Perugia; il Cialdini batteva Lamoricière a Castelfidardo, e fu espugnata Ancona. Nell’ottobre fu mandato a Milano un nuovo Governatore. Per certi screzî politici con Cavour, il d’Azeglio si dimise, e fu nominato al suo posto il conte Giuseppe Pasolini di Ravenna, patriotta colto e liberale, uno dei principali personaggi delle Romagne. Nel 1848 aveva fatto parte del primo ministero liberale di Pio IX col Minghetti e col Mamiani. A Milano rimase poco più d’un anno e mezzo, fino all’aprile del 1862. Il Pasolini e il Beretta ressero Milano, in momenti non facili, con mano sicura, imprimendo nelle classi dirigenti, che hanno bisogno talora d’essere dirette anch’esse, energia ed unità di pensiero. Nel pubblico c’era quella inesperienza di chi è appena uscito da un governo assoluto e straniero, e si trova lanciato d’improvviso in un governo nazionale, e nella libertà. I successi meravigliosi di Garibaldi, dovuti alla natura eccezionale del capitano, e ad eventi affatto straordinarî, di quelli che non si ripetono una seconda volta, avevano in moltissimi offuscato il senso della possibilità delle cose, e tolto ogni freno alla fantasia. Intanto gli austriaci erano ancora padroni del Veneto, e accampati sul Mincio. L’azione dei Governatori doveva interpretare il pensiero di Cavour, l’_audacia_ e la _prudenza_; doveva far apprezzare i nuovi ordinamenti, e abituare alle cose nuove, che suscitano malcontenti anche quando si muta il peggio col meglio. Comandante in Milano del corpo d’armata era il generale Lamarmora circondato da tutto l’antico prestigio, e da una grande popolarità. Pasolini soleva dire: «Quella bella faccia di soldato, sulla quale tutti possono leggere la lealtà, la fermezza, il valore, inspira la tranquillità come se qui ci fosse un esercito; abbiamo gli austriaci minacciosi a pochi passi, ma tutti si sentono sicuri, e sono tranquilli.» Il Pasolini e il Beretta diedero alle pubbliche amministrazioni una nuova vita, e vi portarono riforme sollecite e sagge, governando con larghezza e genialità di pensiero. Nelle loro case ospitali accorreva quanto c’era di meglio nella cittadinanza milanese; e così Governo e Municipio, vivevano giornalmente la vita del paese. Il conte Pasolini era non solo un uomo politico e un amministratore di vaglia, ma rappresentava il governo signorilmente, e colla cordialità e collo spirito dava una indimenticabile attrattiva ai suoi ricevimenti e alle sue feste. Tra le quali devo ricordare, in queste note di cronaca, un ballo in costume, che rammentò alle nonne il ballo famoso del conte Batyani, di trent’anni prima. Ne’ suoi ricevimenti il conte Pasolini aveva pure la fortuna d’essere coadiuvato da sua moglie, la contessa Antonietta Bassi, milanese, che per la bontà dell’animo e la squisita gentilezza delle maniere era amatissima da per tutto e da tutti; talchè, quando Ricasoli nel 1862 mutò i governatori in prefetti, la contessa Pasolini in Milano fu soprannominata la _Perfetta_. Quale assessore del Municipio avevo occasioni frequenti di trovarmi col Pasolini, e potei apprezzarne le belle e non comuni qualità. Durante alcuni mesi specialmente, nella seconda metà del 1860, un incarico poco grato, ma che per desiderio del Sindaco mi dovetti assumere, mi misi col Pasolini in rapporti quasi giornalieri. Le vecchie _Polizie_ austriache, coll’entrata delle truppe alleate nel 59, erano scomparse; non ci rimanevano che qualche impiegato secondario e i carabinieri, da poco venuti. Le nuove _Questure_ non erano state ancora ordinate, e il Governo aveva dato l’incarico ad alcuni tra i principali Municipi di esercitare provvisoriamente gli uffizî di Polizia, come nel Belgio. Cavour, nella sua mente larga, liberale, aveva poca fede nell’efficacia delle Polizie, e come tutti i liberali del suo tempo ricordandone gli abusi politici, le aveva in sospetto, e non le vedeva di buon occhio. In quei giorni, a un Governatore che gli domandava un maggior numero di funzionarî per la sua questura, rispose: «Ci crede lei nella Polizia? Quando l’ordine è turbato si ricordi che nelle sue caserme ci sono dei buoni soldati.» Il Sindaco di Milano, d’accordo col Governatore, per disimpegnare gli uffizî della Polizia aveva destinato un capo divisione municipale, certo Francesco Crippa, che già sovraintendeva alla sorveglianza urbana dei servizi pubblici. Il Crippa era un antico burocratico, di molto ingegno e di molta astuzia, sagace conoscitore anche degli infimi ceti della città. Il Sindaco mise l’uffizio del Crippa alla dipendenza d’un assessore, delegando a me questo incarico. L’ufficio era di solito ingrato e disgustoso; ma qualche volta, lo confesso, riusciva anche divertente. S’erano improvvisati degli agenti, e richiamati alcuni abili funzionari della vecchia Polizia, tra i non compromessi. Tutta questa gente mandava ogni giorno un mucchio di relazioni e di denunzie, su quanto aveva veduto e sentito in città. A voler essere curiosi c’era da passar bene il tempo. Ma c’erano anche i fatti misteriosi e raccapriccianti che mi facevan correre dal Governatore, a confabulare con lui e col colonnello dei carabinieri. C’eran poi, tra le cose abbiette, le delazioni anonime, le vendette, le spie. Gli affari di carattere politico venivano mandati direttamente al Governatore, che talora li trasmetteva al Ministero dell’interno. Ciò che disgustava maggiormente era lo spionaggio, e la ressa dei delatori. Nè ci voleva meno di tutta l’astuzia del segretario Crippa per distinguere gli spioni veri dagli spioni falsi. In ogni complotto di molti, o di pochi, la spia vera o falsa c’è sempre, ed è in ciò che _brillano_ gli studî e i fasti delle Polizie. I Municipii, dopo pochi mesi, furono sgravati di quel penoso incarico, ed entrarono in vigore le nuove Questure. Il primo questore mandatoci a Milano fu il cav. Setti, un antico repubblicano genovese, funzionario abilissimo. Nel prendere la consegna del suo ufficio mi disse un motto, che era evidentemente il suo assioma: _Questura vuol dir denari; molti denari, buona Questura; pochi denari, Questura inutile_. Prima che arrivasse il cav. Setti mi capitò un triste personaggio, con una lettera di calda raccomandazione d’una persona stimabilissima, deputato subalpino, che salì poi ad alti onori. La lettera mi esortava a fidarmi completamente della persona che me l’avrebbe presentata, nota a molti patriotti per importanti servizi resi in passato alla nostra causa. Accolsi meglio che potei, naturalmente, il mio personaggio, e dopo parecchi giorni, e parecchie visite, si entrò in una certa confidenza. Mi fece vedere parecchie lettere di patriotti italiani, ed alcune dell’antico Comitato di Londra; lettere autentiche, cioè, di Kossuth, di Ledru-Rollin e di Mazzini. Mi parlò de’ suoi viaggi secreti fatti in Francia, in Ungheria, in Italia, per portare le istruzioni del Comitato, e per riordinare le file rivoluzionarie soprattutto in Italia. E concludeva che da qualche tempo aveva rinunziato alla vita randagia e piena di pericoli, lieto che l’Italia nuova gli offrisse finalmente un porto sicuro. Ma il porto desiderato era un impiego nel Municipio di Milano; e siccome l’impiego lì per lì non c’era, così io lo esortava ad aspettare qualche concorso. Il personaggio intanto diventava impaziente; e un giorno, nel passare in rassegna gli impieghi, dissi quasi sbadatamente, che il Governo stava in quei giorni ordinando gli uffici delle nuove Questure. Credetti che la pigliasse male, ma con mia gran sorpresa, la pigliò abbastanza bene, e dopo una qualche esitazione, mi disse che aveva della pratica in simili uffici; poi dopo parecchi giorni, a poco a poco mi confessò ch’era stato allo stipendio per diversi anni della Prefettura di Polizia di Parigi... e, alle corte, capii ch’era stato uno degli agenti secreti di Pietri, il capo della Polizia Imperiale... Povero Comitato di Londra! Le prove datemi erano pur troppo convincenti, e rimasi esterrefatto e senza parole. A quanti episodî, a quanti ricordi degli anni passati, non corse il mio pensiero in quel momento! Gli risposi che il Municipio non si occupava dell’ordinamento della Questura, e che si rivolgesse al Governatore. Più tardi seppi ch’era partito per Napoli, e non ne ebbi più notizie. Quanti non accorrevano in quei giorni a Napoli, a cercarvi fortuna, e ad accrescere un disordine che consumò Luogotenenti e Governatori! Tra questi ci fu il Farini. Alla metà di novembre del 1860 era stato nominato luogotenente delle Provincie, e aveva chiamato con sè mio fratello Emilio. La Luogotenenza del Farini non fu lunga; nell’eccesso del lavoro la forte vigoria della mente affievoliva, e cominciò in lui quella lunga e progressiva paralisi che lo spense. Gli avvenimenti di Napoli erano, in quello scorcio del 60, l’argomento di tutti i discorsi, di tutte le preoccupazioni e talora delle ansietà di tutti. L’entrata dell’esercito regio nelle Provincie meridionali, i garibaldini e gli attriti che si temevano, la questione dei plebisciti, la lotta dei partiti, l’urto tra Cavour e Garibaldi, l’assedio di Gaeta, le complicazioni diplomatiche erano avvenimenti che eccitavano gli animi, animavano le conservazioni ed esaltavano i partiti politici. Dietro le questioni grandi veniva poi la miriade delle piccole, che affannavano anch’esse tutto quel pubblico, che nelle cose grandi vede appunto di preferenza le piccole, e che si lascia accecare dai pulviscoli, quando si leva la bufera. Una sera in casa di Alessandro Manzoni si parlava appunto di cose piccole, di cui in quei giorni menavano scalpore giornalisti, uomini politici e politicanti malcontenti. Alla critica, specialmente nelle cose pubbliche, la materia non manca mai: leggi inopportune, regolamenti mal fatti, pedanterie burocratiche, e quelle mille molestie della vita pubblica che rendono noioso, e talora difficile, anche l’essere un semplice cittadino: guaio che fu subito grande nell’amministrazione italiana. Di questi guai, e di queste noie, se ne passavano in rassegna, quella sera, parecchie. Il Manzoni ascoltava e taceva: poi, a guisa di conclusione, prese a dire: «Tra qualche anno, e forse tra pochi mesi, di tutti questi piccoli guai, che ora ci preoccupano tanto, chi si ricorderà? D’una cosa sola ci ricorderemo tutti, e per sempre: ci ricorderemo che in questi due anni s’è fatta l’Italia!» Pochi mesi dopo avvenivano la resa di Gaeta, e la partenza dell’ex re di Napoli. Il Parlamento faceva la proclamazione del Regno d’Italia con Roma capitale: sebbene le provincie venete non fossero ancora unite all’Italia, l’Italia ormai nella coscienza del mondo era fatta; e le potenze, che per secoli l’avevano reietta, ora stavano per accoglierla nel loro grembo, e per un Fato arcano ve la conduceva la morte stessa di chi n’era stato il grande artefice, Cavour. Primo a riconoscere il nuovo Regno fu il vecchio amico di Magenta, Napoleone, che con delicato pensiero si ricordò di noi, riconoscendo il nuovo Regno nel giorno in cui esso piangeva la sua sventura nazionale. E ora giunti qui, alla proclamazione del Regno d’Italia, alla mèta faticosa e fortunata della grande idea che fu la fede appassionata d’una generazione, metterò fine a questi ricordi. Ho voluto riudire ancora nell’anima l’eco di giorni, di speranze, di entusiasmi febbrili, che l’età non ha ancora spenti in noi vecchi di quel tempo. Queste pagine sono per voi, nipoti miei. Nelle carte di vostro padre troverete un giorno documenti di maggior valore, ma forse non vi saranno discare anche le pagine modeste dello zio, che vorrebbero rispecchiarvi alcuni ricordi dei suoi tempi. Questa non è una storia, ve lo ripeto, è una _Cronaca_ di cose vedute o sapute da me; è una cronaca, oltre che dei fatti, delle impressioni e delle opinioni che correvano nei tempi in cui quei fatti si svolgevano. Molte delle opinioni e dei giudizi d’allora saranno forse corretti dal tempo, ma riferendoli quali erano nella comune opinione, la quale reggeva alla sua volta e determinava i fatti, sono anch’essi documenti di cui la storia un giorno dovrà pure tener conto. Possano questi sentimenti, e questi fatti, testimoniarvi parimenti la fede che animava i giovani d’allora; e se i tempi nuovi saranno fiacchi, o immemori del passato, conservate negli animi vostri tanto più salda l’antica divisa: _Tutto per la Patria, e la Patria al di sopra di tutto_. FINE INDICE Capitolo I _pag._ 1 » II anno 1847 » 23 » III » 1848 » 39 » IV » 1848 » 53 » V » 1848 » 65 » VI » 1848 » 75 » VII » 1848 » 87 » VIII » 1848 » 95 » IX » 1848 » 107 » X » 1849 » 115 » XI » 1850 » 125 » XII » 1850 » 133 » XIII » 1851 » 145 » XIV » 1852 » 155 » XV » 1853 » 163 » XVI » 1853 » 173 » XVII » 1853 » 187 » XVIII » 1854 » 203 » XIX » 1854 » 211 » XX » 1855 » 221 » XXI » 1856 » 235 » XXII » 1856 » 247 » XXIII » 1857 » 261 » XXIV » 1858 » 277 » XXV » 1858 » 287 » XXVI » 1859 » 299 » XXVII » 1859 » 319 » XXVIII » 1859 » 335 » XXIX » 1859 » 349 » XXX » 1859 » 359 » XXXI » 1859 » 369 » XXXII » 1859 » 381 » XXXIII » 1859 » 389 » XXXIV » 1859 » 387 » XXXV » 1860 » 407 » XXXVI » 1860 » 421 » XXXVII » 1860 » 429 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RICORDI DI GIOVENTÙ *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. 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