The Project Gutenberg eBook of Memorie di Emma Lyonna, vol. 6/8 This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Memorie di Emma Lyonna, vol. 6/8 Author: Alexandre Dumas Release date: May 14, 2025 [eBook #76094] Language: Italian Original publication: Milano: Daelli e C, 1864 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 6/8 *** MEMORIE DI EMMA LYONNA DI ALESSANDRO DUMAS UNICA EDIZIONE AUTORIZZATA IN ITALIA. Vol. VI. Milano G. DAELLI e C. EDITORI MDCCCLXIV. Proprietà letteraria — G. DAELLI e C. Editori. STEREOTIPIA G. DASSI E C. TIP. GUGLIELMINI. MEMORIE DI EMMA LYONNA I. Sventuratamente gli avvenimenti politici esterni resero ben presto a quell’anima energica, che non poteva rimanere senza passioni, e che era divorata dal bisogno di amare o di odiare, quella specie di rabbia calmata, per un istante, dai dolori privati. La caduta e la morte di Robespierre, che aveva preso una parte così attiva alle esecuzioni di Luigi XVI e della regina Maria Antonietta, era stata per Maria Carolina un momentaneo sollievo alla doppia ferita che quella duplice morte aveva fatto sul suo cuore. Ma questa morte era stata come un segnale di aumento d’energia per l’esercito repubblicano. Le mie note portano ancor oggi la data delle vittorie del generali francesi, secondochè le notizie di queste vittorie ci pervenivano e ci colpivano di stupore, perchè, circondata com’era da nemici, consideravamo la Francia come conquistata. Gli Austriaci che erano penetrati nell’interno della Francia si lasciarono riprendere, il 16 agosto. Questnoy dal generale Scherer, il 27, Valenciennes dal generale Pichegru, al 30 Condé era rientrato in potere delle armi francesi e Landau era stato ripreso fin dal 30 aprile, cosicchè di quattro piazze forti conquistate dalle armi dell’imperatore, non ne rimaneva più una. In Ispagna le cose non andavano meglio. Fontarabia e S. Sebastiano erano in potere del generale Moncey, ed il forte di Bellegarde fu ripreso dal generale Dugommier. Il generale Jourdan, che comandava l’armata di Sambre et Meuse, faceva da parte sua de’ progressi, che ci davano grandi inquietudini; occupava Aquisgrana, al 2 ottobre aveva guadagnato la battaglia Aldenhoven, al 3 aveva preso Juliers, poi Audernach, Coblenza, Mastrick, Colonia, mentre Pichegru prendeva Nimega, occupava Amsterdam, da cui era fuggito lo Stadolder, e con una carica di usseri francesi s’impadroniva della flotta olandese presa fra i ghiacci del Texel. Infine un trattato di pace era intervenuto il 9 febbraio 1793 fra la Francia e la Toscana, ed aveva introdotto la repubblica francese nel sistema politico europeo. La regina si fece fare dal generale Acton un quadro delle forze militari della Francia al principio del 1795, e ne risultò da questo specchietto che al 1 marzo aveva otto eserciti: quello del Nord comandato da Moreau; quello di Sambre e Mause comandato da Jourban; quello del Reno e Mosella comandato dal generale Pichegru; quello delle Alpi e dell’Italia comandato dal generale Kellermann; quello dei Pirenei orientali da Scherer; quello dei Pirenei occidentali comandato da Moncey; quello delle coste occidentali comandato da Casselaux, quello delle coste di Brest e Cherbourg comandato da Hoche. Quest’aspetto formidabile di forze produsse un effetto ancora più grande sulla corte di Spagna che su quella di Napoli, poichè il re Carlo IV, fratello del re Ferdinando, si decise a trattare colla Francia, e la pace fu segnata a Baste il 22 luglio 1795. Sir William, prevenuto già anticipatamente da un mese dalla regina intorno a questa defezione del re suo cognato, fu in grado di prevenirne il suo governo, il quale potè prendere allora delle misure ostili in previsione di quella futura ostilità. Ad un tratto la notizia della giornata del 13 Vendemmiaio, — adotto questa denominazione repubblicana perchè la storia l’ha registrata sotto questo nome, — giunse anch’essa fino a Napoli portandovi per la seconda volta il nome di Bonaparte. Nel breve tempo che corse fra il 19 dicembre 1794 ed il 4 novembre 1795, il capo battaglione era diventato generale. Bonaparte salvò la Convenzione, fulminando le sezioni sui gradini della chiesa di S. Rocco. Questa vittoria sulla guerra civile e la protezione del generale Barras lo condussero in pochi mesi al comando dell’armata d’Italia. La corte di Vienna credette pazza la Francia che confidava i suoi destini ad un giovane di ventisei anni, conosciuto soltanto da due vittorie riportate contro i Francesi. La regina ricevette una lettera da suo nipote; tutti i vecchi generali austriaci ridevano di compassione alla vista di quel fanciullo che si opponeva a loro, agli strategici per eccellenza. Di fatti qual era mai allora la reputazione del generale Bonaparte a fronte di quella di Beaulieu, dei Wurmser, degli Alvinzi e del principe Carlo? Attendemmo con impazienza le notizie dell’apertura della campagna. L’Austria aveva riunito cinque armate! cento e ottantamila uomini all’incirca. Bonaparte si avvicinava con trentamila uomini da Savina incontro a Beaulieu che gli opponeva cinquantamila Austriaci. Quasi nello stesso tempo ricevemmo le notizie della battaglia di Montenotte e di quelle di Millesimo e di Diego. Il nostro stupore fu grande: Beaulieu era stato battuto nei tre scontri, avendo seimila morti, ottomila prigionieri, e perdendo da dieci a dodici pezzi di cannone. Ma fu ben peggio allora quando seppe che l’armata sarda, separata dall’austriaca, era stata anch’essa battuta a Mondovì, che gli Austriaci in numero di diecimila con diciotto pezzi d’artiglieria erano stati forzati e messi in fuga al ponte di Lodi da duemila Francesi comandati dallo stesso generale Bonaparte; che il generale Massena era entrato in Milano, e che un trattato di pace era stato conchiuso a Parigi fra la Repubblica francese ed il re di Sardegna, con cui cedeva alla Repubblica la Savoja, Nizza e Tenda, accordava alle sue armate un passaggio nei suoi Stati, cedeva le sue piazze forti, e cominciavasi a dar mano alla demolizione della Brunetta e di Susa. La mia intenzione, si comprenderà facilmente, non è di seguire questa campagna nei suoi particolari; ma soltanto di constatare i fatti, e di dare un’idea dell’impressione che produssero. Wurmser succeduto a Beaulieu fu battuto a Castiglione, a Roveredo, a Bassano e obbligato a chiudersi in Mantova; Alvinzi, inviato in suo soccorso, fu battuto ad Arcole ed a Rivoli, e finalmente il principe Carlo che succedette a loro fu battuto dovunque l’aveva incontrato. Tutto ciò in un anno. La Toscana e la Sardegna avevano fatto la pace colla Francia. Il duca di Modena ed il papa trattavano. Venezia che vedeva i Francesi alle sue porte, ordinò a Monsieur fratello del re, che dopo la morte del Delfino prese il titolo di Luigi XVIII, di lasciar Verona e gli Stati della Repubblica; da questo momento gli avvenimenti progredivano con una rapidità spaventevole. Il generale Bernadotte prese Trieste, Massena preso Klegenfurth capitale della Carinzia e Bernadotte Lubiana capitale della Carniola. Infine il generale Augereau entrò in Venezia, e rovesciò l’antico governo che rimpiazzò con un municipio democratico. La situazione era molto più grave per noi, — dico noi, tanto mi era identificata colla regina, — e mentre sir William Hamilton faceva tutto col re, la situazione era tanto più grave per noi, perchè la corte di Napoli non aveva cessato di provocare il vincitore, inviando de’ soccorsi all’Austria; il che sarebbe stato nulla, ma col lanciare manifesti terribili contro la Francia. In questi manifesti il re non ci era entrato per nulla, fuorchè per la firma, e spesso in luogo della firma vi metteva la cifra destinata a supplirla. Si compilavano insieme dal generale Acton, dal principe Castelcicala e dalla regina; e poichè la regina aveva una scrittura assai cattiva, era quasi sempre io che scriveva. Ho conservato uno o due di questi manifesti, e dalla loro virulenza si potrà giudicare della situazione pericolosa in cui la corte delle Due Sicilie si era posta rispetto al governo francese. «Quei Francesi che uccisero i loro re; che disertarono i tempii trucidando e disperdendo i sacerdoti; che spensero i migliori e i maggiori cittadini; che spogliarono dei suoi beni la Chiesa; che tutte le leggi, tutte le giustizie sovvertirono, quei Francesi, non sazii di misfatti, abbandonando a torme le loro sedi, apportano gli stessi flagelli alle nazioni vinte, e alle credule che li ricevono amici. Ma già popoli e principi armati stanno intesi a distruggerli. Noi imitando l’esempio de’ giusti e degli animosi, confideremo negli aiuti divini e nelle armi proprie. Si facciano preci in tutte le chiese; e voi, devoti popoli napolitani, andate alle orazioni per invocare da Dio la quiete del regno; udite le voci de’ sacerdoti; seguitene i consigli, predicati dal pergamo e suggeriti da’ confessionali. »Ed essendosi aperta in ogni comunità l’ascrizione dei soldati, voi adatti alle armi, correte a scrivere il nome su quelle tavole; pensate che difenderemo la patria, il trono, la libertà, la sacrosanta religione cristiana, e le donne, i figli, i beni, le dolcezze della vita, i patrii costumi, le leggi. Io vi sarò compagno alle preghiere ed ai cimenti; che vorrei morire quando per vivere bisognasse non esser libero e cessare di essere giusto.» Poi il re, o piuttosto quelli che scrivevano in suo nome, continuarono rivolgendosi al vescovi, ai parrochi, ai confessori ed ai missionari. «È nostra volontà che nelle chiese dei due regni si celebrino tridui di orazioni e di penitenza; e ne sia scopo invocare da Dio la quiete de’ nostri stati. Perciò dagli altari e da’ confessionali voi ricorderete ai popolani i debiti di cristiani e di sudditi, cioè cuor puro a Dio, e braccio armato a difesa della religione e del trono. «Mostrate gli errori della presente Francia, gl’inganni della tirannia che appellano libertà, le licenze o peggio delle truppe francesi, l’universale pericolo. Eccitate con processioni ed altre sacre cerimonie lo zelo del popolo. Avvertite che l’impeto rivoluzionario, comunque inteso a scuotere tutti gli ordini della società, segna a morte i due primi, la Chiesa e il trono.» Questo proclama fu pubblicato a suon di trombe su tutti gli angoli della città, ed in tutti i crocivii di Napoli, affisso su tutti i muri, commentato in tutte le chiese. Le preghiere delle quarant’ore furono annunziate in tutto il regno, e cominciarono immediatamente nella metropolitana di S. Gennaro. I preti, bisogna dirlo, fosse convinzione o fanatismo, secondarono quanto meglio poterono le intenzioni della regina, i sovrani ne diedero l’esempio, andarono in gran pompa alla cattedrale, ed alle altre chiese di Napoli ingombre di preti, di cortigiani, dalla magistratura e da tutti quelli insomma che in un modo e nell’altro dipendevano dal governo. Il popolo seguiva l’esempio che gli era stato dato, e le chiese rigurgitavano talmente di gente, che era impossibile di passare per le strade, non essendovene una a Napoli ove non sia una chiesa, ed ove queste erano affollate si stava a pregare fuori della porta. Fu in questi tempi che i Francesi figuravansi ai Napolitani come ladri, assassini, briganti, eretici scomunicati, coi quali non si era obbligati di conservare nè fede, nè parola, e che si potevano impunemente colpire come outlaw,[1] pugnalati alle reni, avvelenati nelle case, negli ospedali, assassinati nel sonno, uccisi infine come cani arrabbiati. Tale fu l’acciecamento delle passioni, che io stessa partecipava all’odio contro una nazione, alla quale sono andata più tardi a chiedere un asilo, e che mi fu accordato quando l’Inghilterra, per la quale aveva fatto tanto, mi cacciava dal suo suolo. Del resto si vedrà quali sentimenti professava in alcune mie lettere che citerò, ed alle quali non muterò nemmeno una sillaba. Ma vi era una classe della società che non ha mai parteggiato a Napoli contro i Francesi, e perciò non univa le sue alle preghiere, che si rivolgevano a Dio. Era questa tutta la classe libera, intelligente, istruita del mezzo ceto. Erano i giuristi, i medici, i filosofi, gli avvocati, i poeti, cosicchè la regina dimenticando quella specie di pentimento che aveva provato dopo la morte delle prime vittime, e specialmente di quella di Caramanico, fu dessa la prima a riorganizzare la giunta di stato, ed a spingere in una nuova curia i tre uomini che si chiamavano gli sbirri della regina, vale a dire, Vanni, Guidobaldi e Castelcicala. Le prigioni si riempirono, e questa volta i primi nomi di Napoli si contavano nel numero dei prigionieri. Ma in mezzo a tutti questi preparativi, non soltanto di guerra difensiva, ma di guerra offensiva, ci venne a sorprendere l’armistizio di Brescia, che precedette al trattato di Tolentino con Pio VI; e, come abbiamo già detto, col trattato di Tolentino il Santo Padre cedeva alla Francia Bologna, Ferrara e le Romagne, e le province cedute avevano il diritto di costituirsi in repubblica, ciò che non mancarono di fare appena fu compita la cessione. In tal modo il pericolo che la regina aveva creduto di allontanare si avvicinava sempre più. I Francesi si ritiravano; ma il principio rivoluzionario faceva un passo innanzi; ma l’_idea_ più forte degli uomini s’abbarbicava nel suolo che essi avevano lasciato. Il general Acton e la regina compresero che non vi era tempo da perdere. Sapevano che il Direttorio eccitato dall’ambasciatore, a cagione dell’odio della regina pe’ Francesi, — odio che essa in verun modo aveva saputo celare, — aveva spinto Bonaparte a vendicarsi del governo delle Due Sicilie, e che costui avesse risposto: «Oggi non siamo ancora potenti abbastanza per dare a questa vendetta tutta la pubblicità di cui si ha d’uopo; ma verrà giorno in cui gli faremo pagare tutti i suoi tradimenti passati, presenti e futuri, ed in quel giorno il re Ferdinando e la regina Carolina non avranno perduto nulla coll’aspettare.» Questa risposta era stata riportata letteralmente alla corte di Napoli, e benchè protratta la vendetta per qualche tempo ancora, il re ebbe tanta paura di questa spada di Damocle sospesa sul suo capo, che inviò il principe di Belmonte a Buonaparte con missione di ottenere a qualunque prezzo un trattato di pace. All’undici ottobre 1797, il seguente trattato fu firmato dai mandatari delle due potenze. Lo cito per intiero perchè si possa giudicare dello stato di dipendenza, in cui la paura avea messo la corte di Napoli rispetto al governo francese. Del resto, nello stesso modo che più si abbassa il vaso più si riempie d’acqua, quanto più si abbassava il cuore della regina tanto più si riempiva d’odio. I termini poi di questo trattato non erano punto ambigui, — eccoli: «Napoli sciogliendosi dalle sue alleanze, resterà neutrale; impedirà l’entrata ne’ suoi porti a’ vascelli oltre il numero di quattro de’ potentati che sono in guerra; darà libertà a’ Francesi carcerati ne’ suoi dominii per sospetto di Stato; intenderà a scoprire e punire coloro che involarono le carte al ministero di Francia Makau; lascerà libero ai Francesi il culto delle religioni; concorderà patti di commercio che diano alla Francia ne’ porti delle Due Sicilie que’ medesimi benefizii che le bandiere più favorite vi godono; riconoscerà la repubblica Bàtava, e la riguarderà compresa nel presente trattato di pace». Inoltre vi era un articolo che doveva restare segreto, e che non doveva essere conosciuto che dai contraenti, ed era concepito in questi termini: «Il re pagherà alla repubblica francese otto milioni di franchi (due milioni di ducati): i Francesi prima che si accordino col pontefice, non procederanno oltre la fortezza di Ancona, nè seconderanno i moti rivoluzionarii delle regioni meridionali d’Italia.» II. Le cose erano ben mutate in un anno. Quel piccolo generale Bonaparte deriso da tutti, ma uscito vittorioso da una campagna che si poteva annoverare fra gli splendidi fatti d’armi di Alessandro, d’Annibale e di Cesare, era stato appellato dal Direttorio l’Uomo della provvidenza, e la Repubblica francese gli aveva dato una bandiera su cui stava scritto in lettere d’oro: «Il generale Bonaparte ha distrutto cinque eserciti, vinto diciotto battaglie campali, ed in sessantasette combattimenti ha fatto centosessantamila prigionieri; ha inviato in Francia censessanta bandiere per decorare i nostri edificj militari, mille e centottanta pezzi d’artiglieria per arricchire i nostri arsenali, duecento milioni al tesoro, cinquantun bastimenti da guerra nei nostri porti, i capi d’opera d’arte per abbellire le nostre gallerie ed i nostri musei, e preziosi manoscritti per le nostre biblioteche pubbliche; ed infine ha dato la libertà a diciotto popoli.» Si comprende in quale esasperazione mettevano quegli onori resi ad un nostro nemico, la corte di Napoli, sir William Hamilton ed io; io come amica della regina di cui parteggiava tutte le simpatie e gli odi; sir William Hamilton come ambasciatore d’Inghilterra. La regina fu presa da un accesso di rabbia, come ne vidi in quel giorno in cui il governo delle Due Sicilie fu obbligato a riconoscere la repubblica Cisalpina. Il trattato di campo Formio firmato dalla Francia e dall’Austria aveva una grande importanza. La Francia estendeva da un lato i suoi confini fino alle Alpi e dall’altro fino al Reno. L’Austria perdeva in estensione, ma aumentava di sudditi; in cambio della repubblica Cisalpina che sorgeva, cadde la Repubblica di Venezia che diventò proprietà dell’imperatore. La pace sembrava assicurata, ma sir William rideva col suo riso diplomatico, quando gli si parlava della durata di quella pace: finchè l’Inghilterra sarà in guerra, diceva, il mondo e specialmente la Francia non saranno in pace. La regina, che non fingeva meno di sir William di credere seriamente a quella pace, ne approfittò per celebrare le nozze del principe ereditario coll’arciduchessa Clementina. Poco ho da dire intorno a questo principe che non ebbe, in tutto il tempo in cui rimasi alla corte di Napoli, che una parte secondaria e nulla intorno la principessa, che non ne ebbe nessuna. Il principe era allora un bel giovanetto di ventun anno, assai grasso, roseo in viso, molto istruito, accortissimo ed acuto, e senza parole; cogli occhi fissi sull’Europa non perdeva nemmen uno dei particolari del gran dramma storico che si compiva, e fingeva di non veder nulla. Spaventato dalle violenze di sua madre, si studiava, benchè fosse già in età e capacissimo di dire il suo parere, di starsene lontano da qualunque questione che si presentava, fosse anche della più alta importanza pel trono delle Due Sicilie, e principalmente per lui che ne era l’erede. Nello stesso modo che il re Ferdinando si mostrava in mezzo a questo scompiglio molto più vago di una caccia ad Astroni o a Persano, che della caduta o della nascita di una repubblica, egli si mostrava più preoccupato delle scoperte di Mesmer, di Mongolfier e di Lavoisier che dell’armistizio di Brescia o del trattato di Tolentino. Sua madre poco lo amava, anzi lo sprezzava, e in famiglia lo dichiarava stupido come suo padre. Il prediletto del suo cuore era il principe Leopoldo, che allora aveva diciott’anni; è vero che era un adorabile giovanetto, bello come sua madre, gentile, garbato e spiritoso; l’altro principe era un garzoncello di sei a sette anni, di pochissima salute, e chiamavasi Alberto, che ebbi, come racconterò in seguito, il dolore non soltanto di vedere, ma di sentir morire nelle mie braccia. Una squadra napolitana andò a prendere la giovane archiduchessa a Trieste, e la condusse a Manfredonia, ove l’attendeva il principe Francesco, benchè i cerimoniali del matrimonio si dovessero celebrare a Foggia, cioè cinque o sei leghe nell’interno. Il re e la regina avevano accompagnato il loro figlio, e con essi s’intende, c’era anch’io; sir William Hamilton era rimasto a Napoli. Era curioso di vedere la fidanzata, che si diceva del resto assai insignificante, e ciò sarebbe stata la verità, se un pallore che mai vidi una volta prendere il menomo incarnato, ed una profonda malinconia, non avessero dato alla sua fisonomia un grande interesse. Donde provenivano quella tristezza e quel pallore nessuno lo seppe mai, forse da qualche amore lasciato, ma non dimenticato alla corte dei Cesari; fors’anche non era che quel segno fatale impresso sul viso di quelli che sono destinati a morir giovani. Il matrimonio fu celebrato nella seconda metà del mese di giugno; si accordarono molti favori ai sudditi; Acton, primo ministro, fu nominato capitano generale; quarantaquattro sedi episcopali vacanti furono occupate da quarantaquattro nuovi vescovi, e fu un grande sacrifizio per il re, perchè durante la vacanza di quelle sedi ne percepiva le rendite; si accordarono gradi e decorazioni agli uffiziali che nella guerra d’Italia si erano dichiarati contro la Francia, e finalmente molti abitanti di Foggia furono creati marchesi, in vista del loro titolo di abitanti delle Marche, ed in ricompensa delle enormi spese che avevano fatto in occasione del matrimonio del principe ereditario. Mi sono lasciata indurre a scrivere molto su questo matrimonio, malgrado la poca importanza che ebbe, non soltanto nella vita pubblica del principe Francesco, ma ancora nella sua vita privata; ciò mi svia dai gravi avvenimenti che si succedettero alla corte di Roma, e che un anno dopo dovevano avere una influenza tanto grave su quella di Napoli. Voglio dire dell’assassinio del generale francese Duphot. Nel rango in cui mi trovava, nulla mi doveva essere ignoto od oscuro, intorno ad un tal fatto. Lo racconterò con qualche particolarità, poichè da esso dipendette l’occupazione di Roma dai francesi, ed in seguito la proclamazione della Repubblica romana. Ora che vivo lungi dagli avvenimenti e specialmente dagli odii dell’epoca, spero di riescire imparziale nel mio racconto, non dirò come giudice, ma almeno come storico. Si comprenderà facilmente, riportandosi specialmente allo spirito di propaganda di quell’epoca, che dopo essersi autorizzate le Romagne a costituirsi in repubblica, si era formato un partito repubblicano in Roma. Questo partito si componeva particolarmente di artisti francesi dimoranti in Roma, ed avrebbero creduto di mancare in fatti a tutti i loro doveri di patriotti, se non avessero tentato coi loro mezzi di fare proseliti al governo da cui dipendevano. Il fratello di Bonaparte, Giuseppe Bonaparte, era ambasciatore di Roma. La famiglia erasi elevata presto, sostenuta dalla mano potente dell’_Uomo della provvidenza_, come lo chiamava il direttorio. Giuseppe Bonaparte, in cui eravamo lungi dallo scorgere il futuro usurpatore del trono di Napoli[2], faceva tutto quanto era possibile per contenerli, dicendo a loro che non era ancor giunto il momento. Malgrado tutti gli sforzi, il 26 dicembre 1797, i repubblicani avvertirono l’ambasciatore che si preparava un movimento; egli li congedò, supplicandoli come sempre di opporsi, se lo potevano, per qualche tempo ancora a questo movimento. Essi si ritirarono promettendo di adoperarsi secondo l’intenzione dell’ambasciatore. Il giorno seguente il cavaliere Azara, di cui mi ricordo di aver fatto l’elogio all’epoca del mio passaggio da Roma, diede lo stesso avviso a Giuseppe Bonaparte. Difatti il 28 dicembre la dimostrazione annunziata si manifestava; caricata dai dragoni, presa a fucilate da una compagnia di fanteria, i repubblicani si rifugiarono sotto i portici del palazzo Corsini, ove dimorava l’ambasciatore. Siccome l’avvenimento che segue fu raccontato in modi diversi, mi accontenterò di trascrivere il rapporto ufficiale del signor Giuseppe Bonaparte. Essendocene stata inviata una copia, è da questa che ritraggo quanto ora si leggerà, e come questo documento è ignoto o quasi, avrà, lo spero, un certo interesse. Riprendo il racconto dell’ambasciatore in cui lo lascio parlare liberamente. «Un artista francese, venendo all’ambasciata, ci prevenne che l’attruppamento diventava numeroso, e che aveva scorto nella folla alcune spie del governo, che gridavano più forte degli altri: — Viva il popolo Romano, Viva la Repubblica, — che si gettavano degli scudi a piene mani e che la strada era ingombra. Io lo incaricai di discendere subito e di far conoscere la mia volontà agli ammutinati; i militari francesi che mi circondarono mi chiesero l’ordine di dissipare colla forza, cosa che attestava il loro attaccamento; vestii le insegne della mia carica, e li pregai di seguirmi. Preferii di parlar io stesso nel loro linguaggio, ed uscendo dal mio gabinetto udimmo una scarica prolungata di armi; era un picchetto di cavalleria che entrava nella mia giurisdizione senza prevenirmene; l’aveva attraversato al galoppo ed aveva fatto fuoco dai tre vasti portici del Palazzo.[3] «La folla si era allora precipitata nei cortili e sulle scale; incontrai sul mio passaggio dei paurosi che fuggivano, dei frenetici audaci, persone pagate per eccitare e denunziare il movimento; una compagnia di fucilieri aveva seguito da vicino la cavalleria, e la trovai che in parte si avanzava sul vestibolo; a mio apparire si arrestò. «Dimandai chi ne fosse il comandante; egli si era nascosto in mezzo alle file, ed io non poteva distinguerlo. Dimandai a quella truppa con qual ordine fosse entrata nella giurisdizione della Francia. Le ingiunsi di ritirarsi, e allora si ritirò di pochi passi. Credetti di essere riuscito da questo lato, e mi rivolsi verso gli ammutinati che si erano ritirati nei cortili interni; alcuni si avanzavano già contro la truppa che partiva; allora dissi loro in modo decisivo che il primo che avrebbe osato di oltrepassare la metà del cortile l’avrebbe a fare con me. Nel medesimo tempo il generale Duphot, Scherloek, due altri ufficiali ed io snudammo le spade per trattenere quella truppa disarmata, di cui alcuni pochi avevano delle pistole e dei pugnali; ma intanto che noi eravamo occupati da questo lato, i fucilieri che non si erano ritirati che per mettersi fuori della portata delle pistole, fecero una scarica generale. Alcune palle morte andarono a colpire uccidendo alcuni di quelli che si trovavano indietro. Noi che eravamo in mezzo fummo rispettati; poscia la compagnia si ritirò ancora per caricare le armi; approfitto di questo istante, e raccomando al colonnello Beauharnais, aiutante di campo del generale Buonaparte, che per caso si trovava vicino a me, dopo il ritorno della sua missione in Levante, ed all’aggiunto degli aiutanti generali signor Arrighi, di contenere colla sciabola in mano quella truppa che era animata da sentimenti diversi, ed io mi avvicinai col generale Duphot, e coll’aiutante generale Scherlock per persuaderla di ritirarsi e di cessare il fuoco. Ordinai che si ritirasse dalla giurisdizione della Francia e che l’ambasciatore s’incaricava di far punire gli ammutinati. Che essi non avrebbero che a distaccare uno dei loro uffiziali o sottuffiziali al Vaticano presso il loro generale il governatore di Roma, il senatore o qualsiasi altra persona pubblica, e così si sarebbe terminato tutto. «Il troppo bravo Duphot, abituato a vincere, si slanciò, e in un salto si trova fra le bajonette del soldati, ed impedisce ad uno di loro di caricare, e ferma il colpo ad un altro che aveva già caricato. Noi lo seguivamo, il generale Scherloek ed io, per istinto nazionale. Egli era l’amico dei due partiti, era il pacificatore e fu considerato come nemico, ed ingannato dal suo coraggio fu loro prigioniero, e venne trascinato fino alla porta della città detta _Settimiana_. Io veggo un soldato che gli scarica il suo moschetto in mezzo al petto, egli cade e si rialza appoggiandosi alla sua sciabola. Io lo chiamo, ei vuole venire verso di me, un secondo colpo lo stende al suolo, e più di cinquanta colpi sono diretti sull’esanime suo corpo. «Scherloek resta illeso, vede cadere il suo bravo compagno d’armi, tutti i colpi sono diretti su noi, e m’indica una stradicciuola nascosta che ci conduce fino ai giardini del palazzo, e ci sottrae ai colpi degli assassini di Duphot, ed a quelli di un’altra compagnia che faceva fuoco dall’altra parte della strada; i due uffiziali spinti da quest’altra compagnia si riuniscono a noi, e ci fanno scorgere un altro pericolo. La nuova compagnia potrebbe entrare liberamente nel palazzo, ove la mia consorte e mia sorella, che il giorno seguente doveva essere sposa al bravo Duphot, erano state condotte via dai miei segretari e da due giovani artisti. Giungemmo nel palazzo dalla parte del giardino, i cortili erano ingombri da quei vili e scellerati bricconi che prelusero a questa orribile scena. «Una ventina di essi ed alcuni pacifici cittadini sono rimasti morti. Entro in palazzo, le scale sono grondanti sangue, i moribondi si trascinavano, i feriti gridavano; si giunge a chiudere i tre portoni della facciata. I lamenti della morte di Duphot, di quel giovane eroe che costantemente alla vanguardia delle armate dei Pirenei e d’Italia era sempre stato vittorioso, ed ora scannato senza difesa da vili briganti; l’assenza di sua madre e di suo fratello che la curiosità avea allontanato dal palazzo per vedere i monumenti di Roma, le fucilate che continuavano per la via e contro le porte del palazzo, le prime sale del palazzo Corsini, ove io abitava, ingombre di gente di cui s’ignoravano le intenzioni; queste circostanze e tante altre, resero questa scena più crudele di quanto mai abbia potuto immaginare. «Feci chiamare i miei domestici, tre erano assenti, uno era stato ferito. Feci collocare lo stemma, che avevamo in viaggio, nell’angolo del palazzo che abitava; un sentimento d’orgoglio nazionale che non potrei frenare, suggerì ai giovani uffiziali il progetto di andare a prendere il cadavere del loro infelice generale, e vi riuscirono coll’aiuto di alcuni domestici fedeli, passando per una via nascosta, malgrado il fuoco che la vile e sfrenata soldatesca di Roma continuava sul campo del massacro. Trovarono il corpo di questo bravo generale, che dianzi era animato da un eroismo cotanto sublime, spogliato, crivellato dalle palle, inzuppato di sangue, e coperto da un mucchio di pietre. Erano le sei di sera, due ore dopo il massacro di Duphot, e nessuno inviato del governo apparve. Decisi di lasciar Roma, lo sdegno mi aveva suggerito questo progetto. Nessuna considerazione, nessuna potenza terrena me l’avrebbe fatto mutare. Però presi la risoluzione di scrivere al cardinale Doria, segretario di Stato, una prima lettera; un domestico fedele attraversò la soldatesca attruppata, si seguì il suo cammino dai colpi di fucile che lo segnavano nell’oscurità ai suoi compagni, che non senza inquietudine l’osservavano dalle finestre del palazzo. «Finalmente si sente battere al portone, ove si era fermata una carrozza, sarà forse il generale, il governatore, il senatore o qualche ufficiale romano: erano le sette di sera; no, è un amico; l’inviato di un principe alleato della Repubblica, il cavaliere Angiolini ministro di Toscana; egli aveva attraversato le pattuglie, le truppe di linea, la guardia urbana; si arresta la sua carrozza; gli si dimanda, se ha udito i colpi di fucile, e non conosceva il pericolo in cui poteva trovarsi, egli risponde con coraggio che in Roma non poteva esservene nella giurisdizione dell’ambasciata francese. Questo rimprovero generoso, era, in questo momento, una critica amara e vera dei Direttori di Roma contro l’uffiziale di una nazione, a cui dovevano ancora il resto dalla loro esistenza politica. «Il cavaliere Azara ministro di Spagna non tardò a venire; quest’uomo giustamente onorato dalla sua corte aveva anch’egli sprezzato tutti i pericoli, e si trattenne molto tempo con me. Erano le dieci. — Ambedue non potevamo a meno di sorprenderci altamente vedendo che non veniva nessun uffiziale pubblico. Scrissi al cardinale una seconda lettera; n’ebbi dopo pochi istanti la risposta. Finalmente un uffiziale e quarant’uomini, che mi si assicuravano per bene intenzionati, furono inviati dal segretario di Stato per proteggere le mie comunicazioni con lui; ma nè lui nè alcun altro uomo capace di prendere con me delle misure decisive, per liberarmi dai revoltosi che occupavano ancora una parte della mia giurisdizione, e dalla truppa che ne occupava un’altra, non si presentò in nome del governo, malgrado la reitirata dimanda che aveva fatto. «Mi decisi dunque di partire. Il sentimento di sdegno aveva fatto luogo alla ragione, e fattomi più calmo, essa mi dettava la medesima condotta. Scrissi al segretario una nota chiedendogli un passaporto, che m’inviò alle due dopo mezzanotte, accompagnato da una risposta. «Alle sei di mattina, quattordici ore dopo l’assassinio del generale Duphot, l’investimento del mio palazzo, il massacro della gente che lo circondava, nessun Romano si presentò a me incaricato del governo per informarsi dello stato delle cose. Io partii dopo avere assicurato lo stato di alcuni pochi Francesi rimasti a Roma. Il cavaliere Angiolini si era incaricato di dar loro dei passaporti per la Toscana, dove mi troveranno, e dopo la mia partenza il cittadino Cacault, presso di cui mi trovo in questo momento, coi Francesi che non mi hanno lasciato dopo il momento che si manifestò qualche pericolo. «Dopo questo racconto crederei di fare ingiuria a dei repubblicani, eccitandoli alla vendetta, che il governo francese deve esigere da quest’empio governo, assassino di Basseville, uno dei primi ambasciatori Francesi che si è degnato d’inviargli, e di un generale distinto come un prodigio di valore in un’armata ove ogni soldato è stato un eroe. Cittadino ministro! Non tarderò di recarmi a Parigi, appena avrò regolato alcuni affari che ancor mi rimangono da trattare; vi darò nuovi particolari sul governo di Roma, e vi dirò quale sia la punizione che bisogna infliggergli. «Questo governo non si mentisce, astuto e temerario per commetter delitti, vile e strisciante quando li ha commessi; oggi è a ginocchi del ministro Azara, perchè si rechi a Firenze da me, per ricondurmi a Roma; ciò è quanto mi scrive questo generoso amico dei Francesi degno di abitare una terra, dove si sappia meglio apprezzare le sue virtù e la sua nobile lealtà. «Firenze, 30 dicembre 1797. «G. BONAPARTE» III. Confesso di essere sempre maravigliata, quando depongo la penna dopo avere scritto pagine come queste ultime. Io, la donna frivola per eccellenza, non direi nata, ma predestinata a vivere dei miei gusti, col mio carattere e col mio temperamento lungi da tutti gli intrighi politici, come una farfalla o come un uccello in un mondo di gioia, di piaceri, di canti e di armonie, trascrissi questo pesante rapporto lordo di sangue che grida guerra e vendetta ai popoli. Non vi sembro forse una Venere Afrodite colla maschera di Nemesi, col suo viso atteggiato ai dolci sorrisi, cogli occhi alle dolci promesse, e colla bocca che s’apre a teneri giuramenti? Ma ho incominciato il racconto degli avvenimenti ai quali presi parte, e non mi posso ritirare dal compito che mi sono imposto; la voce della coscienza e fors’anche quella del pentimento mi grida: — avanti, — e obbligata ad obbedire a questa voce che mi giunge dall’alto, continuo. Questo rapporto di Giuseppe Bonaparte produsse a Parigi una sensazione profonda. Bonaparte era il Dio del momento; offendere uno dei suoi fratelli era più che un delitto di lesa maestà, era un delitto di lesa divinità. Osservate pure la lettera con cui il cittadino Talleyrand, il termometro dello spirito pubblico rispondeva al suo rapporto: «11 Gennaio 1793 «Ho ricevuto, cittadino, la lettera straziante che mi avete scritto sugli orrendi avvenimenti che succedettero a Roma l’8 nevoso. Malgrado la cura che avete posto nel nascondermi tutto ciò che vi ha di personale per voi in questa terribile giornata, non avete potuto lasciarmi ignorare che avete manifestato al più alto grado l’intrepidezza, il sangue freddo, e quell’intelligenza a cui nulla sfugge, e che avete sostenuto con magnanimità l’onore del nome francese. Il Direttorio m’incarica di esprimervi nel modo più ampio e sensibile la sua viva soddisfazione intorno alla vostra condotta. Comprenderete facilmente, lo spero, quanto sia felice di essere l’organo di questo sentimento.» Il Direttorio cominciò col chiedere la punizione degli assassini; ma fosse negligenza o complicità, nessuno fu arrestato e nemmeno punito; si seppe che il capo degli assassini, nominato Amadeo, si era impossessato della spada e della cintura del morto, che il curato della parrocchia vicina si era ritenuto l’orologio, e che gli altri infine si erano divisi fra loro il denaro e gli abiti. Il Direttorio ordinò al generale Berthier, che nell’assenza di Bonaparte comandava in Italia, di marciare su Roma. Berthier ricevette l’ordine a Milano, e si mise in marcia il giorno seguente. Al 29 gennaio la sua avanguardia era a Macerata, al 10 febbraio tutte le truppe erano riunite sotto le mura di Roma, e con un distaccamento prendeva possesso di Castello S. Angelo, che i soldati pontificj non tentarono nemmeno di difendere. Ma il generale Berthier impedì che si andasse più lungi; prevenne soltanto i capi degli agitatori, che potevano contare sul di lui appoggio. Il 16 febbraio, il venti-treesimo anniversario della esaltazione di Pio VI al trono pontificio, un attruppamento di sediziosi si riunì nel Foro Romano, e di là s’incamminarono al Vaticano sotto le finestre del Sovrano Pontefice, e fecero intendere le grida di Viva la Repubblica. Per rispetto — dicevano essi — non pel papa ma pel vecchio, non invasero il Vaticano; ma occuparono tutta la città, e scrissero un manifesto che constatava la ristorazione della sovranità del popolo, il quale ripudiava ogni complicità nelle uccisioni di Basseville e di Duphot, aboliva l’autorità pontificia, e riguardo alle cose politiche, economiche e civili, costituiva un governo repubblicano libero ed indipendente. I fondatori della nuova Repubblica si diedero premura d’inviare al generale Berthier, per consegnargli quell’atto, una deputazione di otto cittadini. Egli fece tosto la sua entrata dalla porta del Popolo, e nello stesso giorno salì al Campidoglio, ove, parodiando gli antichi trionfatori romani, salutò in nome del Direttorio la nuova Repubblica, riconosciuta libera ed indipendente dalla Francia, e che si componeva di tutto il territorio lasciato al papa col trattato di Tolentino. Il giorno dopo quattordici cardinali, che avevano avuto la viltà di firmare l’atto di affrancazione e la rinuncia di tutti i diritti politici, cantarono il _Te Deum_ nella basilica di S. Pietro. Il generale Cervoni, incaricato di significare a Pio VI la sua decadenza, penetrò negli appartamenti di quel santo vecchio, e lo trovò inginocchiato che pregava. Pio VI ricevette con una perfetta serenità l’annunzio della caduta dei suoi diritti temporali, ed eccitato a riconoscere il nuovo governo, rispose: — La mia sovranità viene da Dio, io non posso rinunziarvi; ho ottant’anni, e perciò la vita è poca cosa per me: in quanto agli oltraggi ed ai patimenti non li temo. Ma siccome la presenza del Santo Padre era incompatibile in Roma col nuovo governo, ricevette l’invito di lasciare la capitale del mondo cristiano, ed infatti il 20 febbraio partì per la Toscana. Tutte queste notizie ci arrivarono quasi nello stesso tempo, e cagionarono, si comprende bene, un grande scompiglio nella nostra corte. La Repubblica spinta passo passo dai francesi, faceva ogni giorno un nuovo progresso in Italia, e non distava che trenta leghe da noi. Il governo delle Due Sicilie pensò alle precauzioni che doveva prendere contro un avversario cotanto minaccioso. Senza occuparsi del trattato che aveva firmato colla Francia nel 1797, vale a dire quattordici mesi prima, Ferdinando firmò coll’imperatore suo nipote, al 19 maggio 1798, un trattato che infirmava completamente il primo. Con questo trattato l’imperatore doveva tenere sessanta mila uomini nel Tirolo; e Ferdinando inviarne trenta mila alle frontiere napolitane. Per un caso singolare il 15 maggio 1798 fu il giorno in cui la flotta francese salpò da Tolone per la spedizione di Egitto. Si conoscevano già i preparativi che faceva la Francia, ma s’ignorava qual paese minacciasse quella flotta formidabile. Il comandante della flotta inglese sir Jean Jervis, dopo lord conte di S. Vicent, si ostinò di vedere nei preparativi di Tolone un progetto di spedizione nell’Oceano, e si accontentò di chiudere lo stretto di Gibilterra e di bloccare la flotta spagnuola nel porto di Cadice. Sempre in questa convinzione, spedì Nelson, che serviva sotto i suoi ordini, con tre vascelli di linea, quattro fregate ed una corvetta per sorvegliare il porto di Tolone, promettendogli di mandar soccorsi alla sua prima richiesta. Al 9 maggio Nelson lasciò la baia di Cadice, ma era già troppo tardi; arrivato nel golfo di Lione, una tempesta disperse i suoi vascelli, e disalberò quello su cui si trovava. Entrò per riparare le sue avarie nel porto di S. Pietro, rimorchiato da un vascello che aveva sofferto meno del suo. Durante il suo soggiorno al porto di S. Pietro, apprese la partenza della flotta francese da Tolone e spedì un bastimento a Lord S. Vincent per chiedergli il soccorso promesso: ma all’8 giugno, vale a dire tre settimane dopo che la flotta francese aveva fatto vela, potè riunire le forze inviategli, nel momento in cui essa era già fra la Sicilia e Malta. Questi aiuti si componevano di dieci vascelli da 74 ed uno da 50 cannoni. Alla testa di questa potenza Nelson si mise alla ricerca della flotta francese; sulle coste meridionali della Corsica apprese che era stata veduta fra Capo Corso e l’Italia. Balenò a Nelson l’idea, e quell’idea aveva una certa probabilità, che la flotta francese fosse diretta a Napoli. Egli fece vela per Napoli. Al 15 giugno, egli era all’isola di Ponza, e c’inviò un suo uffiziale di confidenza, meglio ancora un suo amico, il capitano Troubridge, colla corvetta la _Mutine_ per abboccarsi col capitano generale e sir William Hamilton. Troubridge era latore di una lettera di Nelson per me. L’effetto che io aveva prodotto su questo grande uomo non mi era punto sfuggito, e trovai strano come potendo egli stesso venire a Napoli avendo così un occasione di vedermi, la lasciasse sfuggire. La sua lettera mi spiegò tutto. Eccola: «Milady, «Se venissi a Napoli, se discendessi a terra, e se vi rivedessi, arrischierei di mancare a tutti i miei doveri, che sono d’inseguire la flotta francese senza perdere un momento. «Troubridge vi porgerà questa lettera, che invece di essere una prova d’indifferenza, diventa, per la spiegazione che vi dà, una prova della violenza del sentimento che provo per voi. «Appena Troubridge sarà ritornato colle indicazioni che riceverò dal capitano generale e da sir William, continuerò il mio cammino. «Fossero all’altro capo del mondo, raggiungerò i francesi; e mi rivedrete vincitore e degno di voi, milady, o non mi rivedrete più. «Mille volte il vostro «ORAZIO NELSON.» Eccoci a quanto ci trovavamo al 16 giugno 1798 circa al nostro amore con Nelson; si vede che non eravamo inoltrati di molto. Questa lettera senza dir molto al mio cuore solleticava il mio orgoglio. Nelson nei cinque anni che erano passati si era battuto come un eroe, o piuttosto, come lo diceva egli stesso, come un uomo che si vuol fare ammazzare. Ho già raccontato come avesse perduto un occhio a Calvi; non era tutto, a Teneriffa gli venne portato via un braccio. Questa volta prometteva di ritornare degno di me, o di farsi ammazzare. Era sicura che egli manterrebbe la sua parola; Nelson non era di quegli uomini che promettevano invano. Dal terrazzo del palazzo vidi il maestoso spettacolo della flotta che difilava innanzi a Napoli; col mezzo d’un cannocchiale, sir William mi fece distinguere il vascello che portava la bandiera ammiraglia; a quella distanza non poteva distinguere quanto avveniva a bordo; ma son certa che Nelson aveva gli occhi fissi sul palazzo, come io aveva fissi i miei sul suo vascello. La flotta si aperse lentamente innanzi allo scoglio di Capri; una parte passò alla sua destra, l’altra alla sinistra; stette tre giorni in vista, poichè vi era bonaccia. Questa bonaccia fu causa che al 25 giugno soltanto si trovò al forte di Messina. Di là seppe che Bonaparte aveva preso Malta, e passando vi aveva lasciato una guarnigione di quattromila uomini, ed aveva continuato il suo cammino verso l’Oriente. Dal Faro in data del 25 egli scrisse a sir Hamilton per annunziargli quella notizia, ed a me per rinnovarmi l’assicurazione dei sentimenti che aveva per me. Sir William ed io ricevemmo le lettere al trenta dello stesso mese, e risposi subito: «Caro signore. «Approfitto dell’offerta del capitano Hope per scrivervi qualche riga, e per ringraziarvi della graziosa lettera che mi avete fatto pervenire col mezzo del capitano Bowen. «La regina ebbe grandissimo piacere quando le tradussi ciò che dicevate di gentile per lei, e m’incarica di ringraziarvi, e di assicurarvi che prega pel vostro onore e per la vostra salvezza: in quanto alla vittoria essa è già sicura che l’avrete. «Abbiamo ancora qui il regicida ministro Garat, il più insolente, il più impudente animale diplomatico, che mai si possa vedere, e veggo chiaramente che la corte di Napoli dovrà dichiarare la guerra, se vuole salvare il paese, perchè l’ambasciatore francese fa tutti i giorni le osservazioni più minacciose. «S. M. vede e sente tutto ciò che voi dite nella vostra lettera a sir William datata dal Faro di Messina, e sotto la vera luce che rischiara i fatti, così fa anche il generale Acton. «Ma per sventura il loro primo ministro Gallo, uomo leggero, superficiale ed ignorante, impetrito e stecchito come una cresta di gallo, non pensa ad altro che al modo con cui gli vanno i suoi abiti ricamati, ed all’effetto che produce il suo anello di brillanti; una metà di Napoli lo crede francese, io credo che l’altra metà s’inganna credendolo napoletano. «La regina ed Acton non possono soffrirlo; per me poco importa essendo sostenuto soltanto dal re egli non saprebbe avere un gran potere; ma un primo ministro, e un puro ministro di forma, è pur sempre qualche cosa per fare un brutto giuoco. «A proposito saprete che i tre o quattrocento giacobini, che si tenevano in carcere, sono stati tutti, dopo tre o quattro anni di detenzione, dichiarati innocenti. Se credo a tutto ciò che si dice da loro di me, la metà almeno meriterebbe di essere appiccata. È Garat che colla sua influenza e Gallo colla sua debolezza, e forse colla sua simpatia, hanno fatto il bel colpo di rendere questi cari signori alla società. «Insomma io ne sono molto spaventata, e considero come tutto perduto per Napoli. Sono afflitta fino alle lagrime per la nostra cara e graziosa regina, che merita veramente una miglior sorte. «Comprenderete, mio caro signore, che vi scrissi tutto ciò in confidenza e di fretta. «Spero che non lascerete il Mediterraneo senza prenderci; abbiamo il nostro congedo, e pronta ogni cosa per partire appena ne avremo l’avviso; ma intanto spero in Dio che distruggerete questi mostri di francesi; e prima di partire di qua, il regno di questi empii non sarà di lunga durata. «Se avrete qualche occasione, scriveteci; non potete credere qual balsamo sono le vostre lettere per noi. «Che Dio vi benedica, mio caro, carissimo signore: credetemi sempre la vostra sincerissima, obbligatissima ed affezionatissima amica, EMMA HAMILTON.» Questa lettera lo raggiunse in mare mentre cercava, senza poterla trovare, la flotta francese. IV. Nelson aveva completamente perduto la traccia di Buonaparte e dei trecento cinquanta legni che lo seguivano: trattenuto dallo scirocco per alcuni giorni nello stretto di Messina, approfittò di un colpo di vento per superare Reggio, e spingersi in alto mare. Convinto che Buonaparte moveva verso l’Egitto, volse direttamente il suo cammino ad Alessandria; ma vi arrivò prima della flotta francese; l’ammiraglio Brueys aveva appoggiato verso l’isola di Candia per ingannare senza dubbio quelli che lo inseguivano. Mal ricevuto dal governo d’Alessandria che minacciava di far fuoco su di lui se tentasse di forzare il passo, e non sapendo la via percorsa dalla flotta francese, suppose, dacchè non si trovava ad Alessandria, che avesse fatto vela per Costantinopoli. Nelson costeggiò all’avventura la Caramanis e la Morea, andando in cerca di notizie, e dopo aver percorso invano l’Arcipelago, difettando di acqua e di viveri, fu obbligato di ritornare in Sicilia. Più di una volta mi disse, che dal 20 giugno, epoca in cui uscì dallo stretto di Messina, fino al 21 luglio, in cui entrò nel porto di Siracusa, egli credeva di diventar pazzo. La situazione era grave, ed una tempesta si addensava contro di lui in Inghilterra. Quando si seppe che aveva lasciato uscire da Tolone, e che per un mese intiero aveva cercato nel Mediterraneo, vale a dire, in un gran lago, una flotta di circa quattro cento vele, si chiedeva da ogni parte, se egli non fosse un traditore, che si doveva sottoporre ad un consiglio; e l’ammiraglio S. Vincent, uomo leggero era incorso nel biasimo dell’ammiragliato per avergli proposto come contrammiraglio un uffiziale indegno di quel grado. La sua unica speranza era riposta in noi, o piuttosto in me. Io doveva ottenere dalla regina, che, malgrado il trattato colla Francia, egli potesse ricevere dai comandanti dei porti siciliani tutti i soccorsi di cui aveva bisogno; perchè, se la corte di Sicilia si mantenesse nei limiti del suo trattato colla Francia, Nelson sarebbe obbligato di andare a rifornirsi di viveri a Gibilterra, ed allora era perduto. Soltanto una splendida vittoria poteva salvarlo. Questa lettera che egli scriveva al 22 luglio a lord S. Vincent, darà un’idea della situazione del suo animo. «Siracusa 22 luglio 1798 «Mio caro Lord «Ho una quantità di lettere e di carte da mandarvi, ma non ho disponibile una fregata per portarvele, e non posso in questo momento separarmi dall’Orion: giudicate del mio imbarazzo, — io ignoro completamente il luogo dove possa essere la flotta francese, come in quel giorno che ho superato il Capo Passaro. Ciò che so di certo, si è che al 18 giugno la flotta cominciava ad uscire dal porto di Malta; nella notte del martedì tutte le navi erano fuori, ed al mercoledì mattina fu veduta che continuava il suo cammino a piene vele sotto un gran vento di ovest nord ovest. Ciò mi è stato assicurato da quattordici persone, il resto non è che congettura; se la flotta è diretta verso l’occidente, sono sicuro che tutti i porti, ed anche tutti i punti della Sicilia, ove sarebbe stata veduta, si sarebbero affrettati di avvisarmene. Non ardisco dirvi di più, ma sono persuaso che noi siamo traditi, ed è più che probabile che questa lettera che sono obbligato di mandare a Napoli non giungerà nemmeno colà, od almeno sono sicuro che il ministro francese ne avrà una copia, se non la copia egli stesso. In quanto a me vi dico, che se non vi ha difficoltà intorno ad un punto od un altro, raggiungerò la flotta francese. La nostra non ha un solo uomo ammalato. Vi ho dato tutti quei particolari che ho potuto, e vi ho detto fino il mio più intimo pensiero, — Dio vi benedica. «Per sempre il vostro fedeliss. «ORAZIO NELSON.» «PS. Il modo con cui siamo accolti in Sicilia è vergognoso; il comandante ci dichiara che se avesse avuto i mezzi, sarebbe stato obbligato, giusto gli ordini ricevuti, d’impedire la nostra entrata. Acton aveva promesso di dare degli ordini, _ma non ne è stato mandato alcuno_; che ne pensate voi?» Nello stesso giorno Nelson, disperato e quasi furioso, scriveva a sir William Hamilton: «A bordo del _Vanguard_ «Siracusa, 22 luglio 1798. «Mio caro signore, «Sono oltre modo maravigliato che il re di Napoli abbia dato l’ordine di non lasciar entrare nei suoi porti che tre o quattro bastimenti inglesi. Io però sapeva che si erano date delle istruzioni segrete per la nostra libera ammissione; se si continua dunque a rifiutarmi ancora tutti gli oggetti di cui ho bisogno, fatemelo sapere al più presto possibile, col primo bastimento, onde possa aver il tempo di rifornirmi di viveri a Gibilterra. Il modo con cui siamo trattati è scandaloso per una grande nazione; la bandiera di Sua Maestà Britannica è stata in realtà insultata in tutti i porti amici. «Sono col maggior rispetto ecc. «ORAZIO NELSON.» Ma, grazie a me, queste istruzioni segrete erano state date; solamente arrivavano un poco tardi. Nello stesso giorno, in cui Nelson scrisse quella lettera, il comandante del porto di Siracusa, e quelli degli altri porti avevano ricevuto l’avviso di dargli viveri, acqua, legna, tutto ciò che gli occorreva, e specialmente di non contar più il numero dei vascelli che entravano nel porto. Cosicchè Nelson fece ammenda onorevole nello stesso giorno con questa lettera. «Siracusa, 22 luglio 1798. «Miei buoni amici, «Grazie di tutte le vostre premure. Abbiamo viveri ed acqua; l’attingere l’acqua dalla fontana Aretusa è certamente un presagio di vittoria. Metteremo vela alla prima brezza, e siate certi che ritornerò coronato d’alloro o coperto di cipresso. «O. N.» Il giorno dopo, Nelson scrisse di nuovo a sir William: «Siracusa, 23 luglio 1798. «Mio caro signore, «La flotta è pronta, ed appena spirerà il vento di terra uscirò da questa deliziosa rada, ove fummo copiosamente soddisfatti di quanto abbisognavamo, e dove ci furono prodigate tante cure. Ma sono stato assai in pena finchè non fu data alcuna istruzione secreta al comandante per la nostra ammissione. Ho la sola speranza d’incontrare la flotta francese, e di metterci sopra la mano. L’evento sarò allora nelle mani della provvidenza, nella cui bontà io non dubito punto. «I miei omaggi a lady Hamilton, e credetemi sempre il vostro fedelissimo. «O. NELSON.» Il vento che Nelson aspettava venne nella notte dal 23 al 24 di luglio, e la flotta, essendo già pronta a far vela, si diede l’ordine di salpare. Nelson si diresse verso la Grecia. Al 28 luglio il _Culloden_, che passava innanzi alla Morea, entrò nel golfo di Coron, interrogò il governo Turco, e seppe che i Francesi erano ad Alessandria. Il Culloden raggiunse subito l’ammiraglio, e si diede l’ordine, mediante i segnali, di dirigersi difilato ad Alessandria. Si giunse innanzi a questo porto il primo agosto verso mezzogiorno, ma i Francesi l’avevano già lasciato, e si erano diretti verso oriente; si continuò ad inseguirli, ed alle due e tre quarti, lo _Zélé_ che stava alla testa fece il segnale di vedere sedici vascelli di linea all’áncora. A tre ore Nelson diede il segnale di prepararsi al combattimento. Non spetta a noi di raccontare questa terribile battaglia del Nilo che durò due giorni. Mai vittoria fu più completa di questa, nè simile disastro non spaventò il mare. Un vascello francese l’_Orient_ scoppiò, un altro vascello ed una fregata andarono a picco, e nove bastimenti furono presi; ma tre di questi ultimi erano talmente mutilati che il vincitore fu costretto ad incendiarli; il giorno seguente e l’altro ancora fu obbligato a bruciarne altri due. Ma Nelson aveva ricevuto una grave ferita; un pennone spezzato da una palla francese gli cadde sulla fronte nel momento che alzava la testa al rumore che la palla faceva nel romperlo. Quel frammento di pennone gli aveva tagliata e rovesciata la pelle della fronte fino sulla bocca. Nelson si credette ferito mortalmente, tanta era la violenza del colpo. Fece subito chiamare il cappellano per confidargli la sua ultima volontà; ma col cappellano venne anche il chirurgo, il quale esaminò il cranio, e non scorgendovi nessuna frattura, ciò che era facile a vedersi, perchè l’osso era scoperto, rialzò la pelle della fronte, la rimise al suo posto e ve la fissò con una benda. Nelson rivedendo la luce alla quale credeva di aver dato un eterno addio, riprese con uno sforzo sovrumano il comando del Vanguard, e ritrovando tutta la sua forza e la sua presenza di spirito, tutto il suo sangue freddo, restò sul suo banco di quarto, e continuò a comandare il fuoco fino all’intiera distruzione della flotta francese. Poi tutto ferito e quasi cieco prese la penna e scrisse a sir William ed a me: «2 agosto di sera. «Miei buoni amici, «Vittoria completa, la flotta francese è distrutta. Il capitano Capel che parte colla Mutine, vi porterà questa lettera, e vi darà tutti i particolari che non posso darvi io stesso. «Sono stato leggermente ferito; ma non datevi pena per ciò. «Sempre vostro fedele «ORAZIO NELSON.» «Trasmettete, ve ne prego, coi miei rispettosi omaggi, queste notizie alla nostra amabile regina.» Il capitano Capel partì difatti colla _Mutine_, e giunse il 4 settembre a Napoli, annunziandoci a voce che Nelson arriverebbe qualche giorno dopo di lui, ed aveva indicato il porto di Napoli come punto di riunione di tutta la flotta, le cui navi più o meno mutilate non potevano camminare che colle forze che lor rimanevano. Dopo aver terminato la sua commissione, il capitano Capel scriveva a Nelson: «Signor ammiraglio. «È impossibile che vi esprima la gioia che brillava su tutti i volti, il fragore degli applausi e delle acclamazioni che ci accolsero al nostro arrivo. La regina e Lady Hamilton svennero tutt’e due per la consolazione; insomma, signore, tutti vi acclamano il liberatore d’Europa. Un corriere partirà domani mattina per Vienna: io l’accompagnerò per non perdere un solo istante; ho avuto tutte le istruzioni ed i suggerimenti possibili da sir William Hamilton e dagli altri ministri stranieri, che si sono tutti affrettati di mandare alle loro corti la gloriosa notizia. «Ho l’onore di essere con rispetto «CAPEL.» In quanto a me nel primo momento scrissi una lettera a Nelson, una lettera piena di espansione che non potrei citare qui, non avendone tenuta la copia, ma che Nelson riprodusse in parte nella lettera seguente che scriveva a sua moglie. «In mare il 16 settembre 1798. «Il regno delle Due Sicilie è pazzo per la gioia. — Dal trono ai contadini tutti sono così; da quanto mi dice Lady Hamilton con la sua lettera, la situazione della regina faceva veramente pietà. — Spero solamente, di non esser più mai testimonio della rinnovazione d’una simile cosa. Vi ripeto le parole di Lady Hamilton: «Come posso trascrivervi i trasporti della regina? Ciò mi è impossibile: essa pianse, abbracciò suo marito, i suoi figli, corse come una forsennata per la camera, sempre piangendo, dando baci alle persone ch’eranle intorno e stringendole nelle sue braccia, esclamando: Oh! bravo Nelson, Dio possa benedire e proteggere il nostro bravo liberatore, oh! Nelson, Nelson quanto vi devo! oh! conquistatore, salvatore dell’Italia, perchè il mio cuore commosso non può dirvi da vicino quanto io vi devo? «Voi potete, cara Fanny, giudicare del resto, ma la mia testa non vuol permettermi di dirvene la metà. Tutte le mie fatiche andavano quasi frustrate, ma Dio mi ha protetto. «Vostro, — ORAZIO NELSON.» La lettera seguente, che la regina scriveva al suo ambasciatore a Londra, il marchese di Circello, darà un’idea della sua soddisfazione. Sua Maestà mi ha fatto l’onore di darmene una copia scritta di suo pugno: «Vi scrivo nella gioia. Il bravo e coraggioso ammiraglio Nelson ha riportato una vittoria completa sulla flotta francese. Vorrei dare delle ali al messaggiero che vi porterà questa grande notizia, e nello stesso tempo l’espressione della nostra sincera gratitudine all’eroe del Nilo. L’Italia è salva dalla parte di mare, e ciò è dovuto ai valorosi Inglesi. Questo fatto che può intitolarsi a buon dritto la totale disfatta della flotta regicida, è dovuto al genio ed al valore di questo bravo ammiraglio, secondato da una marina che è il terrore dei suoi nemici: la vittoria è così completa, che appena posso prestarvi fede, e se non fosse che la nazione inglese è abituata a fare prodigi sul mare, io non saprei persuadermene. Questa notizia ha prodotto un entusiasmo generale, e voi sareste commosso nel vedere i miei figli a me dintorno che mi abbracciavano e piangevano di gioia a queste consolanti notizie doppiamente consolanti pel momento critico in cui sono giunte. — La paura, l’avarizia, gl’intrighi dei repubblicani hanno fatto sparire tutto il denaro, e non vi è nessuno che abbia il coraggio di proporre un piano che l’obblighi a rientrare in circolazione; questo bisogno di denaro ci ha messi in condizioni spiacevoli, oppressi dai repubblicani che sono la causa di tutti i mali che opprimono questo bel paese. Molti che hanno creduto che il momento fosse venuto, hanno levato la maschera; ma queste buone notizie, ma la perdita della flotta di Bonaparte che perirà, lo spero, con tutto il suo esercito in Egitto, li rendono più timidi, e ci fa il maggior bene. Se l’imperatore mette un poco di attività nei suoi movimenti, l’Italia può essere salva. Noi, da parte nostra, siamo pronti ed impazienti di renderci degni di essere gli amici e gli alleati dei bravi difensori del mare. Presentate i miei rispetti al re ed alla regina d’Inghilterra, fate i miei complimenti a Lord Greenville, a Pitt, e a Lord Spencer, il quale ha l’onore d’esser il capo di tutta questa eroica marina; offrite i miei ringraziamenti a tutti questi signori, per aver inviato la flotta, e dite loro quanto io sia festosa per l’avvenimento, tanto per nostro vantaggio, che è grande, quanto pel loro onore e per la loro gloria; assicurateli della mia gratitudine eterna. Spero che dagli ordini che avete ricevuto coll’ultimo corriere la nostra tranquillità sarà assicurata; e che con un buon accordo arriveremo a salvare l’Italia, ed a dare al nostri difensori dei vantaggi che ci collegheranno per sempre. Il coraggioso Nelson è ferito, ed è così modesto che parla appena della sua ferita, e raccomanda gli eroi al suo signore e re. E gli Italiani tutti entusiasti della nazione inglese; grandi speranze sono fondate sulla sua bravura, ma nessuno poteva gloriarsi di una simile distruzione. «Noi siamo tutti pazzi di gioia. «CAROLINA.» Tutte le lettere che cito sono forse conosciute in Inghilterra, ma, ne son certa, sono completamente ignote in Francia e per conseguenza devono avere un interesse di curiosità pel lettore francese. V. Bisogna vedere gli onori che furono resi a Nelson, e le ricompense, sotto le quali egli fu letteralmente schiacciato, conferitegli da tutti i sovrani d’Europa, per farsi un’idea del grado di terrore che la Francia ispirava in quell’epoca all’Europa intera. Ne abbiamo fatto una volta la lista con Nelson, e questa lista eccola; essa comincia dall’ottobre 1798 e va sino all’ottobre 1799. Prima di tutto dal re e dalla regina d’Inghilterra. La dignità di Pari della Gran Brettagna, ed una medaglia d’oro. Della Camera dei Comuni, dietro un messaggio del re del 22 novembre 1798 per lui e pe’ suoi due più prossimi eredi, il titolo di barone del Nilo, e di Bernham Thorpes, con una rendita di 2,000 lire sterline, cominciando a decorrere dal 1 agosto 1798, giorno della battaglia del Nilo. Dal Parlamento inglese per lui ed i suoi due più prossimi eredi una rendita di 2,000 lire sterline. Dal Parlamento d’Irlanda una pensione di 1,000 lire sterline. Dalla Compagnia delle Indie Orientali 10,000 lire sterline per una volta. Dalla compagnia turca un servizio di vassellame liscio. Dalla città di Londra una spada coll’impugnatura ornata di diamanti. Dal Gran Signore una fibbia di diamanti col celmyk, ossia una penna di trionfo valutata 2,000 lire sterline, ed una ricca pelliccia valutata 1,000 lire sterline. Dalla madre del Sultano, la Sultana Validè, una scatola ornata di diamanti valutata 1,000 lire sterline. Dall’Imperatore di Russia una scatola ornata di diamanti del valore di 2,000 lire sterline e la seguente lettera di felicitazione. «Signor vice-ammiraglio Nelson. «Considerando la causa dei miei alleati come la mia propria, non posso esprimervi il piacere che mi hanno fatto i vostri successi; la vittoria completa che avete riportato sul nemico comune, la distruzione della flotta francese sono sicuramente titoli troppo possenti, per non assicurarvi i suffragi della parte sana di Europa. Per darvi un attestato palese della giustizia ch’io rendo a’ vostri talenti militari, unisco alla presente una scatola col mio ritratto ornata di diamanti, e desidero che vi sia garante della mia grande benevolenza. Con che prego Dio, signor vice-ammiraglio Nelson, che vi abbia nella sua santa e degna custodia. «Pietroburgo, 8 ottobre 1798. «PAOLO.» Dal re delle Due Sicilie una spada riccamente ornata di diamanti del valore di 5,000 lire sterline. Dal re di Sardegna una scatola in diamanti valutata 1,100 lire sterline e la seguente lettera di felicitazione. «Mio caro ammiraglio, «Voi non sapreste credere, mio caro ammiraglio, con quale soddisfazione ho io letto la vostra lettera del 4 corrente, che ho ricevuto ieri alle cinque ore dopo mezzodì, e che resi immediatamente ostensiva a tutta la famiglia reale ed ai miei primi ufficiali, i quali ne sono stati compiaciutissimi. Senza entrare in particolari, io profitto dell’occasione che il cavalier Balli, mio primo scudiere, si propone di fare un giro in Germania ed in Russia per incaricarlo di passar da Palermo ed istruirvi delle mie intenzioni e delle mie viste nelle circostanze attuali, le quali mi lasciano sperare, che il buon Dio vuol finalmente che il brigantaggio finisca e che la buona causa trionfi. Ecco i voti che noi facciamo incessantemente pel bene dell’umanità e pel sostegno della religione. Voi potreste dunque credere a quanto il cavalier Balli vi dirà da parte mia. Egli è un gentiluomo che coi suoi talenti ed i suoi servigi, sia nell’armata sia nella corte, ha acquistato dritto alla mia confidenza, onde io mi auguro che voi vorrete accordargli la vostra. Io l’ho incaricato di assicurar quanto vi sia riconoscente della vostra attenzione e quanto conti sopra una persona tanto degna e tanto virtuosa quanto voi siete, mio caro ammiraglio. Vi ringrazio delle lettere della corte di Napoli che mi avete dirette, e vi prego di farle giungere le risposte qui unite. Intanto prego Dio di avervi nella sua degna e santa guardia. «Cagliari, 8 maggio 1799 «Vostro amico «CARLO EMMANUELE». L’isola di Zante gli diede una spada con l’elsa d’oro, ed un bastone col pomo d’oro, con una dichiarazione che senza la battaglia del Nilo, quell’isola non sarebbe stata mai liberata dalla crudeltà dei Francesi. La città di Palermo gli regalò una scatola ed una catena d’oro presentata sopra un piatto d’argento. Ma il dono più originale, e se mi è permesso di dire, il più inglese, e che fece tanto piacere a Nelson fu quello che gli fece il suo amico, il capitano Beniamino Hallowell, comandante dello _Sweffsure_. Il vascello francese l’_Orient_ scoppiò, come già disse, e le sue spoglie cadendo in frantumi coprirono il mare: fra questi frantumi, il capitano Hallowell scorse che l’albero maestro era rimasto intatto. Fece mettere tutte le scialuppe in mare, e poco curandosi dei nuotatori che si agitavano in mezzo a quelle ruine, ordinò di salvare soltanto l’albero maestro dell’_Orient_: tutte le scialuppe dello _Sweffsure_ si misero all’opera e lo trassero a bordo; subito dopo Ben Hallowell fece chiamare un fabbro ed un falegname, e nella parte più grossa dell’albero fece scolpir fuori un feretro, incastonato colle barre di ferro a saldato coi chiodi tolti dallo stesso albero. Terminato il sarcofago vi pose questo certificato d’origine: «Certifico qui che questo feretro è intieramente costruito col legno e col ferro del vascello l’Orient, di cui il vascello di S. M. sotto i miei ordini salvò gran parte nella baia di Aboukir. «Il 23 maggio 1799. «BEN HALLOWELL.» Poscia inviò il sarcofago a Nelson colla lettera seguente: «_Al leale ed onorevole lord Nelson Cavaliere Baronetto._ «Mio signore, «Vi mando insieme a questa una bara costruita col legno dell’albero maestro del vascello l’_Orient_, affinchè quando lascerete questa vita, possiate ancora riposare nei vostri propri trofei. La speranza che questo giorno è ancor lontano è il desiderio sincero del vostro obbediente ed affezionatissimo servo. «Sweffsure, 23 Maggio 1799. «BEN HALLOWELL.» Nelson, come dissi, accolse il dono con una soddisfazione visibile, e lo conservò per qualche tempo appoggiato, col suo coperchio, precisamente dietro la sedia dove si sedeva per pranzare; un vecchio domestico, rattristato da questo mobile postumo, ottenne da Nelson di trasportarlo sul falso ponte. Quando Nelson lasciò il _Vanguard_ orribilmente mutilato, il feretro passò con lui a bordo del _Fulminante_, ove rimase per molto tempo sul cassero del bastimento. Un giorno alcuni giovani ufficiali del _Fulminante_, ammiravano il dono del capitano Ben Hallowell; Nelson gridò loro dalla sua camera: — Ammiratelo finchè volete, signori, ma nessuno di voi l’avrà. Ahimè è inutile il dire che il povero Nelson riposa nel feretro che Ben Hallowell gli aveva preparato. Confesso che mi trema la mano, e che mi sono venute le lagrime agli occhi ricordando questi funebri particolari. Ma essi fanno parte della gloria e della grandezza del mio eroe; e non mi sono creduta in dovere di tacerli. Oltre al titolo di lord, di barone del Nilo, e di Burnham-Thorpes, oltre alla medaglia navale che Nelson ricevette come tutti i capitani comandanti un vascello di linea alla battaglia del Nilo, Nelson ricevette una _honourable augmentation_ al suo stemma: al dire di sir William, grande interprete di geroglifici araldici, questa _honourable augmentation_ non era il dono più prezioso che Nelson ricevette. La semplicità è il pregio principale del Blasone, ma qui la quantità delle imprese, di cui era sovraccaricata quella di Nelson, lo rendevano quasi ridicolo, e sarebbe stato ancora accresciuto se si avesse dato ascolto all’ammiraglio Goodal che voleva dare al suo stemma due coccodrilli per sostegno. Ecco il decreto del re intorno a questo stemma. «Avendo Sua Maestà il re la graziosa intenzione di dare all’onorevole Orazio barone Nelson del Nilo e di Burnham-Thorpes, nella contea di Norfolk, contr’ammiraglio della squadra azzurra della flotta di S. M., cavaliere e baronetto, una ricompensa pei suoi servigi, pel grande coraggio e perseveranza da lui manifestata in molte occasioni, e particolarmente per l’abile e valorosa condotta da esso spiegata nel glorioso combattimento e decisiva vittoria da esso ottenuta sulla flotta francese alle bocche del Nilo, il giorno primo del mese di Agosto prossimo passato gli conferisce, per esso e i suoi discendenti, mediante questo reale decreto, l’autorizzazione di aggiungere quest’onorevole aumento di imprese al suo stemma. Un capo — ondulato d’argento, che sostiene le onde del mare, con una palma che sorge fra un vascello disalberato ed una batteria smontata, il vascello a destra e la batteria a sinistra — il tutto di color naturale — inoltre sul cimiero dell’elmo una corona navale da cui esce il Cermyk o piuma di trionfo conferitagli dal Sultano, col motto — _Palmam quam meruit ferat_, — e per sostegno un marinaio a destra ed un leone a sinistra, coi seguenti aumenti onorevoli: il marinaio porterà nella sua mano, e il leone fra le sue zampe una palma, coll’aggiunto di una bandiera tricolore nella bocca del leone». Fu Sua Maestà che si diede egli stesso la pena di comporre questo stemma così complicato. Lady Nelson che comprendeva nulla di quel brevetto, chiese che volesse significare; ma le venne poi data una spiegazione, coll’aggiunta del Blasone interpretata dall’araldo d’Inghilterra sir Isac Heard. Il 19 ricevemmo l’avviso che Nelson era al 16 all’altezza di Stromboli: si stimò che non poteva tardare ad arrivare a Napoli, ed a rischio di ciò che avrebbe potuto pensare, dire o fare l’ambasciatore della Repubblica francese Garat, si prepararono a Nelson splendide feste; — tre giorni prima erano arrivati l’_Alessandro_ ed il _Culloden_ che erano meno maltrattati del _Vanguard_, lo avevano preceduto da cinque giorni. Si misero delle sentinelle al Capo della Campanella e sui punti più elevati dello scoglio di Capri; queste sentinelle dovevano annunziare col mezzo di segnali la flotta di Nelson, e far giungere immediatamente a Napoli la notizia del suo arrivo. Poi si ornò con magnificenza una gran barca, con una tenda di porpora portante gli stemmi d’Inghilterra e delle Due Sicilie, e coperta da trofei colle bandiere delle due nazioni riunite; si prepararono dodici o quindici barche per far corteggio alla barca capitana, e si aspettava in seguito ad un ordine dato a tutta la corte che ognuno si tenesse pronto per andare incontro a Nelson al primo segnale. Durante questo tempo la regina aveva raddoppiato di tenerezza per me e mi aveva confidato fino i suoi pensieri più segreti. La regina non si dissimulava che le feste che preparava pel vincitore del Nilo erano la guerra colla Francia, e quantunque indebolito per la perdita di Bonaparte e di trenta mila uomini chiusi con lui in Egitto, la Francia non era però meno un nemico da temersi quanto da accarezzare. Essa dunque avea d’uopo a qualunque prezzo di Nelson e dietro di Nelson, dell’Inghilterra; e perciò essa contava su di me per avere Nelson. La fiera Maria Carolina pregava l’ambasciatrice d’Inghilterra, come la povera Amy Strug aveva pregato l’umile Emma, e non farei io meno per una regina, di quanto ho fatto per una semplice contadina. La mia vita aveva incominciato colla seduzione dell’ammiraglio John Payne; e doveva terminare colla seduzione dell’ammiraglio Orazio Nelson. Io ammirava Nelson, ma non l’amava ancora; il mio amore per lui mi è venuto pel suo grande amore per me. I sentimenti portati all’estremo hanno anch’essi il loro contagio. Promisi alla regina di fare quanto avrei potuto, ma le obiettava sir William. La regina si mise a ridere. — Bene, disse, sir William è troppo buon inglese per non dare anch’egli la sua ricompensa al vincitore del Nilo; inoltre non ha bisogno di essere consultato. Se foss’io che amassi Nelson, non mi darei certamente la pena di consultare il re intorno a ciò che mi piacerebbe di fare. — Maestà, le risposi, il re Ferdinando era principe reale e voi arciduchessa d’Austria; voi gli avete portato tanto quanto, e forse di più di quanto egli vi ha portato. Ma non è così fra sir William Hamilton e me; che era io quando mi ha sposato? l’amante di suo nipote; e che era io prima di essere l’amante di suo nipote?.... egli l’ha dimenticato, signora. Temo di fargli ricordare.... La regina mi mise la mano sulla bocca. — Aggiusteremo noi tutte queste cose, e per bene, quegli che vorrà altra cosa, all’infuori della tua felicità, sarà il mio più grande nemico; — pensa adunque se vorrei renderti infelice. Restai pensosa, perchè sentiva che si avvicinava uno di quei momenti che prendono un’influenza su tutta la vita. VI. Alla mattina del 22 settembre, verso le sei ore, fummo avvertiti che due o tre vascelli di alto bordo erano segnalati dalle sentinelle, e che uno di essi portava la bandiera di vice ammiraglio. In questi cinque o sei giorni in attesa dell’avvenimento, il re si era privato del piacere della caccia, cosa che gli faceva mandare dei grandi sospiri, a cui la regina non prestava la minima attenzione. Subito dopo furono dati gli ordini perchè tutti si trovassero pronti; i parrochi furono avvertiti di tener pronte le loro campane; i comandanti dei forti di caricare i loro cannoni: il ricevimento che si voleva fare a Nelson era quello che si sarebbe fatto per un re. L’ammiraglio Caracciolo era incaricato della direzione della piccola flottiglia che andava incontro a Nelson, e comandava naturalmente la galera capitana, su cui doveano salire il re e la regina, e per essere pronto ad ogni ora del giorno e della notte dopo l’arrivo del _Culloden_ e dell’_Alessandro_ stette costantemente a bordo. La regina aveva lasciato a sir William Hamilton, nella sua qualità di ambasciatore d’Inghilterra, e forse anche per qualche altra ragione che taceva, l’onore di essere l’ospite di Nelson, e particolarmente il giorno del suo arrivo egli dovea appartenerci interamente. Sir William aveva fatto dei grandi preparativi, e con mio grande piacere, e direi quasi con grande orgoglio, aveva posto le mie cure a tutte le parti di questi preparativi, che avevano bisogno di essere diretti dall’occhio, e regolati dal gusto di una donna. Del resto per questa parte del mio racconto ricorrerò alle lettere stesse di Nelson. Trattenuta sempre tutte le notti a palazzo, la regina mi lasciava ritornare assai di rado all’ambasciata d’Inghilterra. Sir William che avrebbe avuto il diritto di querelarsi, non se ne lamentava mai. Egli aveva allora circa sessantesette anni. La regina che voleva che fossi bella più che mai faceva i più grandi progetti sulla mia toletta, ma la mia risoluzione era presa; io non voleva altra foggia di vestire diversa da quella che Romney aveva dipinto quando sir William ed io eravamo ritornati a Londra per far riconoscere il mio matrimonio, e si componeva di una lunga veste di casimiro bianco fatta a guisa di tunica greca, stretta in vita da una cintura di marocchino rosso ricamato in oro, e allacciato da un fermaglio, che rappresentava in un magnifico cammeo il ritratto di sir William; i miei capelli, pei quali ho sempre detestato ogni ornamento straniero, cadevano senza polvere ed in anella sulle mie spalle, e mi avvolgeva in uno sciallo rosso dell’India a grandi fiori d’oro, che mi era spesso servito per ballare dalla regina e nelle nostre serate intime la danza dello sciallo, inventata da me, e che poi fu adottata da tutti i ballerini. La regina invece fece una toletta reale, e si coperse di diamanti. Il re anch’esso era in grande uniforme coperto dei suoi ordini di famiglia di Spagna, Francia ed Austria. Alle otto tutti erano pronti. Scendemmo al porto militare per la china dell’Arsenale; la galera capitana ci attendeva. — Francesco Caracciolo in grande uniforme d’ammiraglio napolitano stava sul suo banco di quarto. Appena il re e la regina salirono a bordo, che tutte le coste rimbombavano di salve dei cannoni dei forti, e le campane delle trecento chiese di Napoli suonavano alla distesa. Era veramente qualche cosa di maestoso il vedere tutte quelle torri coronate di fumo e illuminate da lampi. La capitana si mise in cammino; essa era fatta sul modello delle antiche galere romane; sir William Hamilton ne aveva dato il disegno, e pretendeva che era precisamente quello della galera, in cui Cleopatra era andata a trovare Antonio. La regina pretendeva che era un’allusione che faceva l’ambasciatore d’Inghilterra, e che non si sarebbe opposto che la nuova Cleopatra amasse un altro Antonio, e spingeva di molto la rassomiglianza colla regina d’Egitto. Tutta la flottiglia si mise in cammino; la galera capitana era alla testa coi suoi quaranta rematori. Era veramente ammirevole il vedere in questo golfo, ove l’azzurro del mare disputa in intensità e limpidezza l’azzurro del cielo, e in un mattino di settembre tutto splendido di luce, queste dodici o quindici barche più ricche e più eleganti le une delle altre, colle loro tende di porpora, colle loro bandiere sventolanti, coi loro fiori, che lasciavano dietro come un solco di profumi, e che si avanzavano tutte insieme, al suono delle campane ed al fragore del cannone, in mezzo alle acclamazioni di quell’innumerabile popolazione di Napoli affollata sul molo e sulle banchine, che agitava i suoi fazzoletti, e gettava in aria i berretti, gridando freneticamente: — Viva il Re, viva Nelson, abbasso i Francesi! La regina si mordeva le labbra con un sorriso di odio, perchè in mezzo a tutti questi gridi non s’intese un sol grido di — Viva la regina. Fummo ben presto assai lontani dalla città, e tosto cessarono tutti i rumori umani; il solo che ancora arrivava fino a noi era quello delle campane e delle artiglierie. Dopo la nostra uscita dal porto avevamo distinto all’orizzonte il vascello, incontro al quale noi andavamo, e veniva col vento in poppa, cosa che impediva a noi di andare avanti, se privi di remi fossimo obbligati di andar colle vele. Da questo doppio movimento ne accadeva che la nostra piccola flottiglia si avvicinava rapidamente al bastimento, che portava, come avevano detto le sentinelle, la bandiera di contro ammiraglio; e inoltre l’ammiraglio Caracciolo col suo occhio infallibile da marinaio riconobbe il _Vanguard_. Senza dubbio Nelson da parte sua aveva scoperto e riconosciuto, malgrado la distanza, la piccola flottiglia; ed indovinando che veniva incontro a lui e per lui, tirò un colpo di cannone di cui vedemmo il fumo molto tempo prima di udirne il colpo, e come una fiamma inalberò la bandiera rossa d’Inghilterra. Noi non potevamo rispondere colpo per colpo, mancando a bordo di pezzi di artiglieria; ma all’istante tutta la nostra musica diretta da Domenico Cimarosa, proruppe in giulive fanfare, e confesso ciò che mi piaceva di più, quantunque meno rumoroso, questo modo di contraccambiare gentilezze a Nelson, che di salutarlo colla voce brutale del cannone. Confesso che non era senza una grande emozione, mi sentiva trascinata mio malgrado innanzi all’eroe, che io sapeva innamorato pazzamente di me: nessun sentimento m’aveva lasciato in cuore un’impressione tanto decisa per poter dire a me stessa quale sensazione avrei provato soltanto in vederlo, e già ai fremiti che mi scorreano per tutto il corpo, al pallore, ed al rossore che successivamente mi salivano al viso, comprendeva che questa sensazione sarebbe stata violenta. Il _Vanguard_ aveva superato il capo della Campanella, e noi avevamo oltrapassato Torre del Greco, eravamo lontano appena tre miglia l’uno dall’altro; un quarto d’ora o venti minuti ancora, e la galera capitana sarebbesi trovata accanto al _Vanguard_. La regina vide il mio turbamento, e siccome io era come al solito seduta ai suoi piedi, essa si chinò all’orecchio: — Su via, pazzerella, coraggio, ricordati di Fanny Strung, dell’ammiraglio John Payne, e del marinaio Riccardo; ma quello che ora ti prega non è più Fanny Strung, è colui a cui andiamo incontro, non è l’ammiraglio John Payne, ma l’ammiraglio Nelson e in fine chi si tratta ora di salvare, non è un povero marinaio, ma un regno. — Ah! signora, le dissi, è precisamente ciò che mi spaventa; se lo scopo non fosse così elevato, il mio spavento sarebbe minore, ma è stato così lontano dal mio pensiero che un giorno, mi si dicesse: La salvezza d’un regno dipende da te, e che al momento in cui mi è stata data questa splendida missione, io esitassi e non mi sentissi la forza di compirla. La regina mi prese la mano, e me la strinse in modo, che mi comunicò la sua forza, per una specie di trasmissione magnetica; e infatti finchè essa mi teneva la mano, mi sentiva forte e quasi esaltata. Continuammo ad avanzare finchè ci trovammo accosto al _Vanguard_. Io non ci vedeva nè ci sentiva più, mi trovava in uno stato simile a quello in cui mi metteva il dottor Graham nelle mie prime sedute di esposizione sul letto d’Apollo. Compresi che la regina mi diceva di alzarmi, sentii che mi spingeva verso la scala; macchinalmente e senza accorgermene salii per la prima, cosa che era contraria a tutte le regole dell’etichetta; presi il cordone e salii; in cima alla scala Nelson attendeva col capo scoperto, e là appena ricominciai a vedere, là mi trovai in faccia a lui che non aveva veduto dopo il suo viaggio da Tolone a Napoli. Dopo questo tempo, aveva perduto un occhio ed un braccio, e nascondeva sotto di una fascia nera la ferita che gli copriva la fronte: vidi tutto questo complesso di mutilazioni, mi prese tale un immenso sentimento di compassione, che io non dava ascolto che ad una ricompensa degna dell’eroe che aveva innanzi agli occhi, apersi le braccia e mi lasciai cadere sul suo cuore, gridando: — Oh! mio Dio, è possibile? caro e grande Nelson. Era sul punto di svenire, quando le lagrime uscirono a torrenti dai miei occhi, i singhiozzi sollevarono il mio cuore, senza di che sarei stata soffocata. Da quel momento appartenni completamente a Nelson, come se mi avesse già posseduta. Era più ancora di una rassegnazione, più ancora di un affetto, più ancora di un amore. Era una fatalità! VII. Il re e la regina salirono dopo di me, e mi trovarono nello stato che ho detto, quasi svenuta sul petto di Nelson, appoggiata sul suo cuore dal suo unico braccio; il suo cappello era caduto sul ponte, e nell’estasi della felicità, teneva la sua testa rovesciata in dietro guardando il cielo. Rimase un istante senza veder nulla di ciò che avveniva intorno a lui. Finalmente gli urrà dei marinai saliti sui pennoni lo richiamarono in sè, abbassò lo sguardo sulla terra e vide ciò che avveniva. Aveva intorno il re, la regina, i ministri, i cortigiani; tutti rendevano omaggio all’eroe d’Aboukir come se fossero venuti a rendere omaggio al Dio stesso della Vittoria. Il re aveva in mano una magnifica spada ornata di diamanti, il cui valore materiale era di cinquemila lire sterline, ma aveva inoltre un valore storico incalcolabile. Era la spada che Luigi XIV diede a Filippo V quando partì per la Spagna, e fu data poi da Filippo V a suo figlio Don Carlos quando partì per Napoli. Il re Filippo V aveva detto mentre gliela porgeva: — «Questa spada appartiene al conquistatore di Napoli» — e Don Carlos lasciandola a suo figlio aveva detto: — «Questa spada appartiene al difensore ed al salvatore del Regno che ho conquistato.» Ferdinando considerava Nelson come il salvatore del regno, e gli dava quel magnifico retaggio di Luigi XIV, pervenutogli da suo avo e da suo padre. Da parte sua la regina gli presentò il brevetto di duca di Bronte — magnifica allusione, poichè Bronte era uno dei tre ciclopi che fabbricavano il fulmine, e lo chiamava veramente duca del folgore; — a questo Ducato era unita una rendita di tre mila lire sterline. Inoltre il re gli annunziò che egli aveva l’intenzione di creare un ordine militare del merito di San Ferdinando, e gli promise il primo gran cordone di quell’ordine che si sarebbe distribuito dopo i brevetti di famiglia. Per facilitare a’ suoi nobili visitatori la salita a bordo del _Vanguard_, lo aveva messo in panna. Credetti che l’adulazione più aggradevole a Nelson fosse quella di pregarlo di farci vedere le cicatrici del suo bastimento, non meno mutilato del suo capitano. Questa ispezione lo forzava a raccontarci la battaglia, e per conseguenza a parlare di lui. Cominciammo dalla cabina di Nelson: appena entrati dalla porta, un piccolo uccello, del genere del beccafichi, entrò per la finestra, e venne a posarsi sulla sua spalla; maravigliata dalla famigliarità di questo nuovo ospite, stava per interrogare Nelson, quando egli mise un grido di gioia. — Oh! diss’egli, che tu sii il benvenuto e oggi più che mai, mio caro compagno. E prese il piccolo uccello dalla sua spalla, lo baciò e lo fece baciare pure a me. Poi se lo ripose sulla spalla, ove se ne stava tranquillo senza parere nemmeno preoccupato della nostra presenza. Ciò che Nelson faceva e mi diceva, mi dava una curiosità sempre crescente, e per conseguenza un desiderio ancor più grande di avere una spiegazione intorno a quel gentile animaletto, il quale sembrava che anche egli volesse fare i suoi complimenti a Nelson; io vedeva la stessa curiosità negli occhi della regina, in quelli del re e degli altri spettatori. — Ascoltate quanto vi dirò, disse Nelson, e non credetelo poi un racconto delle mille ed una notte; — questo piccolo uccello è il mio buon genio. — Come, milord? dimandai. — Gli antichi non combattevano mai senza consultare gli auguri, ed io pure non dovrei mai combattere senza consultare il mio piccolo uccello; egli è il mio augurio. — Oh! raccontatecelo, milord, disse la regina. — Davvero non so se una tale puerilità valga la pena di essere raccontata innanzi a Vostra Maestà, disse Nelson. — Oh! sì, sì, — dicemmo simultaneamente noi pure, io e la regina. — Ebbene Maestà, ebbene Milady, in qualunque paese del mondo mi trovi, quando mi deve toccare qualche fortuna o che debbo riportare qualche vittoria, un uccello di questa specie, non oserei dire che sia quello stesso, viene a riposarsi sulle mie spalle, e all’opposto quando mi tocca qualche sventura dispare. Così la prima volta che lo vidi fu nell’America del Nord: al Canadà inseguito da quattro fregate francesi, non aveva altra uscita che un passo che era giudicato impraticabile; egli venne a posarsi sulle mie spalle, io spinsi il mio brick a traverso gli scogli ed uscii dal passo; — superato che fu il passo, egli volò via. La vigilia del giorno in cui vi vidi per la prima volta, quando venni da Tolone a Napoli, attraversava il canale di Ischia, io era sul ponte, ed egli volò sulle mie spalle. Il giorno seguente S. M. il re di Napoli degnavasi di ricevermi come un amico, sir William come un figlio, la regina mi dava la sua mano da baciare, e voi mi dicevate, «questa casa è vostra,» offrendomi un appartamento nel palazzo dell’ambasciata. Allo assedio di Calvi, ove ho perduto un occhio, all’assedio di Taneriffa ove ho perduto un braccio io non l’ho veduto. Alla mattina di Aboukir è venuto a riposarsi sulla mia spalla; ed ecco che ora entra nello stesso tempo in cui entrate nella mia cabina; — ho dunque ragione di dire che questo uccello è il mio buon genio. Il giorno o alla vigilia di una battaglia, in cui non lo vedrò, farò il mio testamento, perchè con tutta probabilità sarà il mio ultimo giorno. Vi chieggo perdono di avervi intrattenuti in simili follie; — voi lo sapete, signora, i marinai hanno lo loro superstizioni; il mio caro uccellino ne è una, ed ora vi credo più che mai. — E, chiesi a Nelson, non si è mai appoggiato su altra spalla all’infuori della vostra? — Mai. — Mai si lascia prendere da altra mano se non dalla vostra? — Mai — se però volete provare.... Stesi la mano, l’uccello si lasciò prendere; non so perchè io era tutta giuliva di aver qualche cosa di comune con questo eroe. Lo lasciai andare e si fermò sulla spalla di Nelson. — Ah, signora, dissi alla regina, provate anche voi. La regina stese la mano, ma il beccafico mise un piccolo grido di spavento, volò verso la finestra e disparve. Nelson tenevami la mano nella sua, me la strinse: io non potei trattenermi dal rispondergli stringendogli la sua. Questo incidente, al quale ci pensai dopo, tanto sovente, ci distolse per qualche istante dalla visita che avevamo incominciato. La riprendemmo in tutti i particolari contando i buchi delle palle che avevano crivellato la carena del _Vanguard_; tutti chiedevano come il bastimento non si fosse sommerso, come tutto l’equipaggio dal primo uomo fino all’ultimo non fosse morto. Era un’ora, ci volevano almeno due ore e mezzo per ritornare a Napoli. Poi dovevamo assistere al _Te Deum_, e sir William che aveva comandato un pranzo degno di un principe, temeva pel suo pranzo; ed avvertì il re che restando ancora a bordo del _Vanguard_, si arrischiava di mangiar tutto freddo o tutto abbrucciato. Il re Ferdinando era sensibile a questa specie di osservazioni, disse due parole alla regina, che invitò Nelson a discendere a bordo della galera capitana. Spettava ora all’ammiraglio Caracciolo di fare gli onori della galera: ritto in piedi al basso della scala del _Vanguard_, ricevette prima il re, la regina ed io; poi il principe e la principessa reale, sulla quale, sia con intenzione o senza, mi si concedeva sempre il passo, poi i ministri, gli ambasciatori, i grandi uffiziali, e quelli che erano stati inviati sulla capitana oltre a Nelson. Lo scambio di cortesie fra i due ammiragli fu breve e freddo. Caracciolo non parlava inglese, e Nelson non comprendeva una parola d’italiano; Caracciolo gli fece un complimento sul combattimento delle bocche del Nilo, Nelson non potendo rispondere sorrise e salutò. Si volse la prora verso Napoli. Caracciolo salì sul suo banco di quarto. La regina fece sedere Nelson fra lei e me. Appena si scorse dai forti che la flottiglia si separava dal _Vanguard_ e cominciava a vogare verso Napoli, i cannoni cominciarono a tuonare, e le campane facevano udire i loro suoni a festa. Dal momento in cui Nelson aveva messo il piede a bordo della galera, la musica ad un segno di Domenico Cimarosa aveva cominciato il _God save the king_, magnifico canto, comandato, come è noto, da Luigi XIV a Lulli per far onore a Giacomo II esiliato a Saint Germain. Nelson semplice figlio di un pastore di Burnham Thorpes, che non aveva mai messo piede a corte, che, dietro ogni probabilità, non aveva mai parlato ad un re, ad una regina, e nemmeno ad un principe reale, era ebbro quasi alla pazzia: i miei occhi, che non cercavano certamente di nascondergli tutto l’interesse che m’ispirava, terminavano di fargli perdere la testa. Questo ritorno a Napoli sembrava una risurrezione di quei giorni storici quando rientrava vincitore ad Atene Milziade o Temistocle. Ma fu ancor più quando ci avvicinavamo a terra, quando Nelson potè vedere il molo, le banchine, le piatteforme delle torri, i terrazzi delle case coperte di spettatori che davano in iscoppi di acclamazioni, di evviva, di urrà, quando l’artiglieria raddoppiò le sue salve, quando le campane raddoppiarono i loro squilli, quando infine tutta Napoli, quella città così rumorosa in ogni tempo, triplicò, quadruplicò, quintuplicò ogni specie di rumori, che nelle occasioni straordinarie sono l’espressione della gioia o della collera dei suoi cinquecento mila abitanti. Debole ancora per la sua recente ferita, lo vidi impallidire due o tre volte, e quasi sul punto di sentirsi male. Prima di lasciare la galera capitana, dietro preghiera della regina, invitai l’ammiraglio Caracciolo a prendere la sua parte alla festa che noi davamo al suo collega inglese; ma fosse che il principe napolitano ci considerasse di una compagnia troppo meschina per lui, o che la scusa fosse veramente reale, mi rispose con molta cortesia che la notte minacciava di essere cattiva, ed il porto di Napoli essendo di mediocre sicurezza, doveva vegliare personalmente all’ancoraggio dei legni di sua Maestà Britannica che, già assai malconci dal combattimento, non sarebbero forse stati in caso di lottare contro la tempesta. Buona o cattiva accettai la scusa; ma siccome sua sorella e sua nipote Cecilia erano invitate al ballo che seguiva il pranzo, gli dissi che sperava almeno di avere il piacere della loro compagnia; ed egli, sempre colla stessa cortesia, ma anche colla stessa freddezza, mi rispose, che da tre giorni sua sorella era talmente indisposta che le era impossibile di uscir dalla camera, cosa, che con suo grande rincrescimento, gl’impediva di accettare il mio invito. Io aveva accolto la prima scusa con sangue freddo e col sorriso sulle labbra; ma al secondo rifiuto non potei trattenermi dal fare un movimento d’impazienza. La regina lo osservò e si avvicinò a noi. — Il principe Caracciolo — disse — è troppo gentiluomo per avervi dato una risposta scortese, cara Emma, e pure sembrerebbe, guardandovi in viso, che avreste qualche rimprovero da fargli. Invece di affrettarsi a rispondere ed a scusarsi, l’ammiraglio mi lasciò il tempo di prendere la parola. — No, signora, ripresi, non mi lagno dell’ammiraglio, ma della fatalità. — Voi sapete, cara Emma, che non mi piacciono gli enigmi, così spiegatevi, vi prego — con quel tuono di voce che indicava in lei il principio di una tempesta. — Certamente, signora, la sola fatalità può fare, mi sembra, che siamo privi così del piacere di ricevere Sua Eccellenza, perchè il tempo che è magnifico in quest’ora, minaccia dl essere cattivo questa sera, e non è meno una fatalità, che fa sì che la sorella del signor ammiraglio trovasi colpita da una indisposizione tanto grave per obbligarla a stare nella sua camera, e che costringe la gentile Cecilia, da quella buona fanciulla che è, a curare sua zia, per cui le nostre feste ad un ammiraglio vincitore de’ Francesi, si daranno senza che vi sia una sola persona della famiglia dell’illustre ammiraglio Caracciolo, per fare in nome della marina napolitana un brindisi alla marina inglese. La regina divenne molto pallida, e il suo sopracciglio si corrugò. — Guardatevene bene, signor ammiraglio, disse, le persone che avranno trovato delle scuse buone o cattive per non andare alle feste dell’ambasciatrice d’Inghilterra, non saranno invitate a quella che darà la regina di Napoli. — Signora, rispose l’ammiraglio senza commuoversi, l’indisposizione della mia povera sorella si è mostrata con tale intensità, che se queste feste durassero anche un mese, non credo che nemmeno per tutto questo tempo non potrebbe rimettersi in modo da parteciparvi. La regina s’impazientava. Ignorando qual fosse l’oggetto di questa lunga conversazione col suo ammiraglio, Nelson vedendomi rossa per la vergogna, e scorgendo la regina livida per la collera, si avvicinò a noi con inquietudine. La regina, volendo evitare a Nelson ogni cosa che potesse offenderlo, ed a me tutta la umiliazione che avesse potuto farmi perdere di considerazione ai suoi occhi, mi distolse vivamente, dicendomi: — Vieni, Emma, vieni la salute della sorella del principe c’interessa tanto che tutti i giorni manderemo a prendere sue notizie, finchè sapremo che stia meglio. — È un’attenzione che le sarà tanto più preziosa, signora, rispose il principe, perchè non sapendo come essa abbia potuto meritarla, vi scorgerà un favore tutto particolare di Vostra Maestà. L’ammiraglio pronunziava queste ultime parole con una garbatezza tanto rispettosa, che la regina che non accettava tanto facilmente l’ultima replica da parte d’un avversario qualunque egli fosse, non trovò di che rispondergli, e si allontanò conducendomi seco. Confesso che la seguii colle lagrime agli occhi e col cuore infranto, come quei trionfatori romani, che udivano in mezzo al trionfo la voce dello schiavo che loro ricordava che erano mortali; in mezzo al mio trionfo una voce mi gridava: favorita della regina, ambasciatrice d’Inghilterra, Milady Hamilton, ricordati del letto d’Apollo e delle strade di Haymarket. Non si aspettava che la regina per sbarcare. Quantunque avessi il mio braccio appoggiato sul suo, e non il suo sul mio, ciò che era il segno del più alto favore, attraversai colla testa bassa le file di quei cortigiani che m’invidiavano. Aveva il sorriso sulle labbra e la morte in cuore. Non aveva mai odiato, non aveva mai desiderato di vendicarmi di nessuno; ma da quel momento, sentii il doppio morso del serpe, l’odio ed il desiderio della vendetta filtrarono nel mio cuore. Finalmente sbarcammo. Le carrozze di corte e quella dell’ambasciata aspettavano nell’arsenale. L’ammiraglio Nelson salì nella prima col re, colla regina e me; il principe e la principessa reale fecero gli onori della seconda a sir William. Ognuno si sedette poi a volontà, nelle altre, non senza però qualche discussione d’etichetta. Si diede ordine ai cocchieri di portarsi alla chiesa di S. Chiara, ove si doveva cantare il _Te Deum_ dal cardinale arcivescovo di Napoli, monsignor Capece Zurlo, assistito dal cardinale Fabrizio Ruffo, di cui ho già avuto occasione di parlare, e che senza che egli ci pensasse, e senza che nessuno pur vi pensasse, si avvicinava l’epoca in cui doveva rappresentare una gran parte. Ma quest’ordine di andare alla Chiesa di Santa Chiara era un ordine più facile a darsi dai padroni, che ad eseguirsi dai domestici; le vie erano talmente ingombre di gente, le carrozze circondate da una moltitudine così numerosa, che sembravano scialuppe investite dalle onde del mare e scosse dai cavalloni. Quanto poco la regina era popolare, lo era invece al contrario di molto il re. Mai quando usciva, nè truppe, nè gendarmi nè guardie si frapponevano fra lui e la popolazione; l’ultimo lazzarone poteva giungere fino a lui e toccarlo, per parlargli, chiedergli sue notizie, informarsi quando venderebbe il suo pesce a Mergellina, o mangerebbe i suoi maccheroni a S. Carlo, e come si comprende bene, questa razza così famigliare approfittava del permesso in tutta la sua estensione, ed era raro che nelle solennità del genere di quella che andava a compirsi, il re non avesse tre o quattro lazzaroni sul sedile davanti della carrozza col cocchiere, altrettanti sul sedile di dietro insieme ai domestici, e altrettanti ancora sugli scalini a guisa di paggi. Nelson abituato alla maestosa dignità dei sovrani della Gran Brettagna, alla calma ed al freddo entusiasmo del popolo di Londra era maravigliato; queste rumorose esplosioni meridionali gli davano le vertigini: del resto, in quel momento, il re e la regina non avevano pel suo cuore che un interesse secondario; seduto in faccia alla regina come io era seduta in faccia al re, la sua mano sinistra si era impossessata della mia destra, e me la stringeva con fremiti febbrili, che indicavano la commozione del suo animo, e mi dicevano quali emozioni violente facevano risalire il sangue al cuore. Ci volle più di un’ora, io credo, per andare alla banchina a Santa Chiara. Il _Te Deum_ durò anch’esso una mezz’ora, ed il ritorno circa tre quarti d’ora. Finalmente giungemmo al palazzo dell’ambasciata d’Inghilterra ed era tempo; io era morta di fatica, di emozione e di collera. VIII. L’immenso portico del palazzo Calabritto era trasformato in un arco di trionfo, ai cui lati erano collocate delle antenne con bandiere, portanti il nome di Nelson: fino al primo piano lo scalone offriva veramente una volta di lauri e di fiori. Una tavola di novanta coperte era posta nella sala dei quadri. Alle frutta i centoventi professori di musica di S. Carlo suonarono l’aria del _God save the king_, interrotto da una voce meravigliosa che cantava le strofe. Una nuova strofa era stata aggiunta in onore di Nelson. Eccola: Join we in Great Nelson’s Name First on the Rolls of Fame Him let us sing Spread we his fame around Honour of British ground Who made Nile’s shores resound God save the King. Si comprende l’entusiasmo con cui fu accolta questa strofa: il re, la regina, il principe reale e tutti i convitati l’ascoltarono in piedi. E le acclamazioni — Viva Nelson, viva il vincitore del Nilo, viva il Salvatore d’Italia — proruppero dapprima dalle labbra reali, e poscia dai commensali. Perchè non mi son io inebbriata in mezzo a tutti questi onori, a tutte queste gioie, a tutti questi canti, lo dirò altamente, spinta, come lo era dalla regina, autorizzata quasi dal silenzio di sir William che non fece nulla per sostenermi, nessun’altra donna avrebbe avuto la forza di resistere. Ciò che però si disse, che fin dal primo giorno quasi al primo incontro, io mi sia abbandonata a lui senza alcuna resistenza, è una calunnia, come se ne dissero tante sul conto mio; sventuratamente il passato autorizzava i maligni a credervi e ad accusarmi. Fu soltanto dopo sei mesi, che lasciai indovinare a Nelson, lontano da me, che avrei potuto corrispondere al suo amore. In prova di ciò che dico presento queste due lettere di Nelson. La prima è del 24 ottobre 1798, un mese dopo l’entrata di Nelson a Napoli — Eccola, e proverà che assolutamente non esisteva ancor nulla fra noi. «_Dal Vanguard_ — MALTA «Cara Signora. «Eccoci arrivati dopo una lunga traversata, e trovai le cose come già le supponeva; i ministri di Napoli non conoscono assolutamente nulla della posizione in cui si trova quell’isola; non vi è nè una casa, nè un bastione di Malta che sia in possesso degl’Italiani, ed il marchese di Nizza mi ha detto che erano nel più gran bisogno di munizioni, di armi, di viveri, e di soccorsi infine. Non sa nemmeno se vi sieno uffiziali napoletani nell’isola, e siccome io ho un elenco dei loro nomi, essi non sono ancora arrivati. Ciò che vi ha di certo si è che il marchese di Nizza afferma, che non gli è stato inviato nessun soccorso dai governatori di Messina e di Siracusa. «Però voglio saper tutto. Appena sarà partito il marchese dimani mattina me ne informerò. Egli mi dice che desidera ardentemente di servire sotto il mio comando; lo credo anch’io, dal momento che si accontenta di cambiar bastimento; lo vedremo poi come si piegherà alla nostra disciplina. «Ball, dopo la mia partenza, avrà il comando del blocco; dico dopo la mia partenza, atteso che, sembra alla corte delle Due Sicilie che la mia presenza sia necessaria a Napoli al principiare del novembre. «Spero che ciò avvenga. Però sento che il mio dovere mi chiama in Oriente, benchè sappia che la flotta francese sia stata distrutta in Egitto. Non sono sicuro che l’armata possa ancora ritornare in Europa. «Prima di tutto il mio scopo è di servire e di salvare il Regno delle Due Sicilie, e di fare ciò che le Loro Maestà Siciliane _desidereranno ch’io faccia, foss’anche contro la mia opinione_. Quando verrò in Napoli e che il paese sarà in guerra, desidero di avere su questo punto una conferenza positiva col generale Acton. «Sono certo che mi renderete giustizia presso la regina, atteso che, ne chiamo Dio in testimonio, il mio solo desiderio è di meritare la sua approvazione. «Che Dio protegga voi e sir William e credetemi per sempre, col più affettuoso rispetto, vostro obbligatissimo e fedelissimo amico, «O. NELSON.» Nessuno, lo spero, riconoscerà in questa lettera una sola parola, che non sia di un amico, di un amico tenero, affettuosissimo, ma che non è ancora che un amico. Certamente io non m’ingannava, e neppur la regina, intorno a questo grande affetto di Nelson per lei e per suo marito. Se Nelson ritornava a Napoli, era per vedermi. Se non andava in Oriente ove il suo dovere lo chiamava, e le sue previsioni sull’Oriente erano così vere, che se non fosse rimasto a Napoli, quando il generale Buonaparte s’imbarcò al 22 Agosto 1799, per ritornare in Francia, egli forse avrebbe impedito quel ritorno che mutò l’aspetto dell’Europa; ma al 22 Agosto 1799 egli era a me vicino a Palermo, e credo che non mi avrebbe lasciata un giorno da sola, anche colla certezza di prendere Bonaparte. Ecco nella seconda lettera di cui ho parlato, Nelson conosce già che io l’amo, ma egli non ha altra prova del mio amore, che quanto gli aveva detto o scritto. «12 Maggio 1799. «Cara Lady Hamilton, «Ricevete i miei sinceri ringraziamenti per la vostra egregia lettera: nessuno scrive come voi, non ditemi dunque più che non scrivete bene. E poichè lo pretendete, vi ripeterò anch’io ciò che talvolta voi mi avete detto colla vostra bocca «I l..... y...»[4] No. Io so leggere e comprendo perfettamente ogni parola che scrivete. «Abbiamo fatto un brindisi alla vostra salute ed a quella di sir William — Troubridge Hallowell ed il nuovo capitano portoghese pranzarono da me. Io sarò presto a Palermo, poichè l’affare che mi tiene lontano non tarderò ad essere accomodato. «Credete che nessuno è più di me sensibile alla vostra bontà. «Vostro obbligatissimo e riconoscente «O. NELSON.» «Sono contento della piccola Maria, abbracciatela da parte mia, vi ringrazio tutti per la vostra affezione per me, e che Dio vi benedica tutti. «Dimani, se il tempo è bello, mando a terra, poichè le feluche partono, ed io ho il mal di mare. «Ho il pezzo di legno per far una scatola da thè, ve lo manderò subito. «Vi prego di presentare i miei umilissimi ossequi e l’espressione della mia più profonda riconoscenza a Sua Maestà, per tutte quelle prove di favore che mi dà; siate sicura che la semente non cade sopra suolo ingrato.» Lo vedete che non è ancora il linguaggio di un amante; del resto non avrei bisogno di dir nulla ai miei lettori: essi ne apprezzeranno la differenza di stile. E non si dirà che era freddezza da parte di Nelson, perchè in tutte le sue lettere, sia all’ammiraglio Saint Vincent, sia a sua moglie, egli parla di me. I termini con cui egli ne parla davano anche dei sospetti a Lady Nelson, ed io fui obbligata di scriverle per calmare questi sospetti; siccome le lettere di Nelson sono le mie scuse, mi si permetterà di citare tre sue lettere, una che racconta il suo arrivo a Napoli, l’altra una festa che io diedi per l’anniversario della sua nascita, e l’altra le sue impressioni ad un pranzo dal generale Acton. Ecco come Nelson racconta da parte sua il mio arrivo sul _Vanguard_, arrivo che ho già raccontato dalla mia. «Nella notte del 25 settembre 1798. «_A Lady Nelson_ «Il povero e miserabile _Vanguard_ è giunto qui il 22 settembre. «Io tenterò di farvi conoscere qualche cosa di quello ch’è successo; ma se quanto è accaduto ha tanto commosso coloro che mi erano solo affezionati pei legami dell’amicizia, cosa sarà per la mia carissima moglie, per la mia amica, per tutto ciò che v’ha di più caro per me in questo mondo? «Quando sir William e lady Hamilton furono in mare, erano talmente stivati, che furono seriamente ammalati, prima d’ansietà, quindi di gioia. La cosa era stata raccontata imprudentemente a lady Hamilton, e l’effetto era stato quello di un fulmine. Per un momento, la si potette credere morta, ed essa non è ancora ristabilita da quest’accidente. Quando i miei degni amici salirono a bordo, la scena sul vascello fu terribilmente commovente. Sua Signoria esclamò: «Dio mio, è egli possibile,» e cadde nelle mie braccia più morta che viva; ma tosto le lagrime cominciarono a scorrere. Quando il re venne sul vascello, la scena diventò delle più interessanti. Mi prese per la mano chiamandomi suo liberatore e suo protettore, aggiungendo amabili espressioni; in una parola tutto Napoli mi chiama, _il nostro liberatore_, ed i contrassegni di affezione che mi danno tutte le classi sono veramente tali da fare intenerire. «Io spero avere un giorno il piacere d’introdurre presso voi Lady Hamilton. È dessa una delle migliori donne del mondo; l’onore del suo sesso, la sua amabilità e quella di sir William per me vanno al di là d’ogni credere. Io abito in casa loro, e posso ora confessarvi che è mestieri di tutta la tenerezza dei miei amici, per collocarmi tanto in alto, come fanno. Lady Hamilton deve scrivervi. «Che Dio onnipossente vi benedica, e ci dia a suo tempo una felice riunione. «O. NELSON.» La seconda lettera è del 28 settembre. «28 settembre 1798. «_A Lady Nelson_ «I preparativi di Lady Hamilton per celebrar domani il giorno della mia nascita mi riempiono di vanità: tutti i nastri, tutti i bottoni, tutte le bandiere portano il nome di Nelson; il servizio ha le cifre O. N. Glorioso 1. agosto! «Le canzoni ed i sonetti piovono in maggiore abbondanza di quel ch’io credeva meritare. Io vi domando una strofa aggiunta al _God save the king_ che voi canterete con piacere. Quando io esco a piedi o in carrozza, la folla m’impedisce di fare un passo. Ieri la regina, che è sempre inferma, mandò il suo figlio prediletto[5] per visitarmi, e per rimettermi da parte di lei una lettera nella quale ella mi esprimeva la sua riconoscenza, e mi faceva i suoi complimenti. «Tutta la gloria sia rivolta a Dio; più io penso, più io sento dire, maggiormente la mia meraviglia aumenta sull’importanza, e sui risultati di questa vittoria. «_Vostro_ — O. NELSON.» Darò soltanto un frammento della lettera di Nelson a lord S. Vincent. «... Noi pranziamo tutti oggi in compagnia del re, a bordo d’un vascello. Sono stato a veder la regina, la quale è preoccupatissima. «Ella è veramente la degna figlia di Maria Teresa. A me di rincontro è seduta Lady Hamilton, onde non siate sorpreso dalla gloriosa confusione che regna in questa lettera. Se la vostra signoria fosse al mio posto, dubito ch’ella potesse scrivere con tanta calma, come io fo. Il nostro cuore e la nostra mano son sempre in moto. Decisamente Napoli è pericoloso, ed è ben ch’io me ne allontani al più presto. «Sono ec. ec. — O. NELSON.» Che mi si perdoni almeno un poco per aver saputo resistere più di sei mesi a un tale amore. IX. È inutile il dire che una simile dimostrazione era la guerra colla Francia. Col pretesto di essere stato nominato al consiglio dei cinquecento, il cittadino Garat lasciò Napoli; ma con grande stupore di ognuno, la Francia invece di cogliere questa occasione per fare la guerra a Napoli, nascose l’affronto, ed in rimpiazzo del cittadino Garat inviò il cittadino La Comble Saint-Michel. Questa indifferenza affettata per un simile insulto provava che la Francia non era in condizioni da far la guerra, e l’ardimento della regina aumentò. A forza di sacrifizi d’ogni maniera, il regno di Napoli era giunto ad avere un esercito di 65000 uomini, mentre tutti i rapporti confermavano che i francesi non avevano a Roma più di diecimila uomini, mancanti di viveri, di vestimenta, di calzature, non pagati da tre mesi, e che avevano per tutta artiglieria soltanto nove pezzi di cannone senza munizione, e centottantamila cartucce piccole. Il re e la regina erano d’accordo nel loro odio contro i francesi, però il re voleva aspettare per attaccarli che l’imperatore li attaccasse, e l’imperatore non voleva incominciare la guerra se non coi quaranta mila russi che l’imperatore Paolo gli aveva promesso. La regina invece voleva attaccare i francesi senza perdere un istante: coi suoi sessantacinquemila uomini era sicura di riconquistare gli Stati Romani, ed una volta a Roma tutti i popoli d’Italia, che secondo lei, sopportavano con impazienza il giogo dei francesi, si solleverebbero e li caccerebbero dalla penisola. In queste circostanze fui incaricata dalla regina di rivolgermi a Nelson. Siccome la regina era per una guerra immediata, si trattava di ottenere che Nelson scrivesse a sir William ed a me una pretesa lettera confidenziale, che sir William comunicherebbe al re. Nelson, bravo soldato, era un politico mediocre, e scrittore ancora più mediocre; le quaranta o cinquanta lettere che mi scrisse nella sua vita sono più apprezzabili per la franchezza che per lo stile. Nelson acconsentiva di scrivere la lettera, ma a condizione che gli si desse un esemplare, e che egli non avrebbe che a trascriverlo. Era ciò che avrebbe chiesto la regina se lo avesse osato. La lettera fu composta fra il capitano generale Acton, sir William Hamilton e la regina. Io la mandai a Nelson, ed il giorno seguente ricevetti la lettera seguente, che non era che la trascrizione della lettera redatta, come dissi dal triumfeminavirato che governava Napoli. «Napoli, 3 ottobre 1798. «Mia cara signora, «L’interesse che voi e sir William Hamilton avete sempre addimostrato per le felicità delle LL. MM. Siciliane mi è confirmato da cinque anni, ed io posso veramente dire che in tutte le occasioni che si sono presentate, ed esse sono state numerose, io non ho mai mancato dal canto mio di manifestare il mio interesse pel bene di questi regni. A causa di questo attaccamento, io non posso restare spettatore indifferente di ciò che è successo e di quanto accade nelle Due Sicilie, nè della miseria, che, senza essere uomo politico, io vedo vicina a piombare su questo regno tanto leale, e ciò per la peggior politica che esista, quella del temporeggiamento. Dal mio arrivo in questi mari io mi sono accorto che i Siciliani erano un popolo leale e fedele al proprio sovrano, avendo il più grande orrore dei Francesi e dei loro principii. Dal mio arrivo a Napoli ho trovato dal primo all’ultimo tutti pronti alla guerra contro i Francesi, i quali, come si sa, generalmente preparano un’armata di ladri per mettere a sacco queste contrade e per distruggere la monarchia. Io ho visto il ministro di questi insolenti francesi tacere la violazione del V articolo pel trattato, tra Sua Maestà Siciliana e la Repubblica francese. Questa strana politica non merita d’esser segnalata: la politica francese non è stata forse sempre quella di addormentare i governi, in una falsa sicurezza, per rovesciarli in seguito? Dopo ciò che io ho detto, non sanno tutti forse che a Napoli è lo scopo permanente di tutti i desiderii devastatori? Conoscendo ciò e sapendo che Sua Maestà di Sicilia ha un’armata pronta ad entrare in azione, a quanto mi è stato detto, in un paese desideroso di riceverla, col vantaggio di trasportare in lontani luoghi il focolaio della guerra, invece di attendere che essa scoppii in casa, mi meraviglio che quest’armata non sia da un mese già in cammino. «Io credo che l’arrivo del generale Mack deciderà il governo a non perdere uno dei momenti più favorevoli, che la provvidenza abbia messo a sua disposizione, perchè se vuolsi attendere d’essere aggrediti nel paese invece di trasportar fuori la guerra, non è mestieri esser profeta per dire che questo regno è ruinato e che la monarchia è distrutta. Ma se disgraziatamente si vuol persistere in questo rovinoso sistema di temporeggiamento, io vi raccomando di star pronta ad imbarcarvi alla prima cattiva nuova con tutto ciò che vi appartiene. Sarà allora mio dovere pensare e provvedere alla vostra salvezza, insieme a quella — mi dispiace credere che ciò abbia ad essere necessario — dell’amabile regina, del suo regno e della sua famiglia. «Ho letto con ammirazione la vostra degna ed incomparabile lettera del settembre 1796; possano i consigli di questo regno esser guidati dal medesimo sentimento d’onore, di dignità e di giustizia, e possano le parole del gran Guglielmo Pitt conte di Graham essere ben comprese dal ministro di questo paese. «Le _misure coraggiose_ son quelle che salvano. «È questo il voto di colui che si dice, «_Di vostra signoria_ «O. NELSON.» «P. S. Prego Vostra Signoria di ricevere questa, come una lettera preparatoria per sir William Hamilton, al quale scrivo, con tutto il rispetto che gli è dovuto, la ferma e materiale opinione d’un ammiraglio che desidera provare egli stesso che è un fedele servitore del suo sovrano, facendo quanto è in suo potere per la felicità e per la sicurezza delle LL. MM. Siciliane e del loro regno.» Una frase della lettera di lord Nelson riusciva inintelligibile per colpa mia. Aveva dimenticato di dire che la regina aveva chiesto a suo nipote l’imperatore d’Austria il generale Mack per comandante in capo del suo esercito, e che l’imperatore glielo aveva accordato. Questa lettera produsse su Ferdinando l’effetto che si aspettava, ma però, contro la sua abitudine, egli tenne fermo su di un punto, quello di mettersi in campagna nello stesso tempo dell’imperatore. In conseguenza fu convenuto che il re scriverebbe a suo nipote una lettera nella quale lo eccitava a decidersi: la lettera tutta di suo pugno fu spedita dal suo corriere Ferrari, coll’ingiunzione di consegnarla personalmente all’imperatore, e di riportare la risposta direttamente al re Ferdinando. Ma prima della sua partenza Ferrari aveva ricevuto mille ducati dalla regina coll’ordine invece di ripassare per Caserta, ed al suo ritorno di consegnare la lettera dell’imperatore a lei, invece di consegnarla al re. Egli riceverebbe due mila ducati consegnando la lettera alla regina che l’avrebbe soltanto letta, e poi riposta nella sopracarta. Era pagar bene questo piccolo tradimento, e Ferrari non esitava nemmeno, sapendo che in fatti era la regina che regnava sotto il nome di suo marito, e ciò lo tranquillava molto sui pericoli cui andava incontro nel caso che si fosse scoperto questo tradimento. Ferrari partì, si calcolò il tempo necessario; se l’imperatore d’Austria non frapponesse ritardo alla sua risposta egli poteva ripassare per Caserta fra undici o dodici giorni. Il generale Mack arrivò il Martedì, 8 ottobre, a Caserta; al giovedì fu invitato a pranzo dal re e dalla regina: sir William ed io ricevemmo un invito ufficiale per quel giorno. Il re e la regina lo ricevettero con grandi manifestazioni di stima, e la regina presentandolo a Nelson gli disse: — Il generale Mack è in terra ciò che il mio eroe Nelson è in mare. Il complimento non era lusinghiero, e il paragone mancava di giustizia. A Tolone, a Calvi, a Teneriffa Nelson si era diportato gloriosamente; ad Aboukir egli si era condotto non soltanto da eroe, ma da uomo di genio. Mack al contrario era stato battuto dovunque aveva incontrato i francesi, e ciò malgrado aveva acquistato in Europa, non si sa perchè, una riputazione di uno dei più grandi strategici dell’epoca. Per quanto fossero buone le idee che gli altri avevano di Mack, non potevano però mai raggiungere quella che Mack aveva di sè medesimo; io non ho mai veduta fatuità più formidabile di quella; egli non ammetteva nulla affatto, non dirò la supposizione che egli potesse essere battuto; ma nemmeno quella che i francesi gli potessero fare resistenza. Confesso che questa burbanza mi riescì antipatica fin dalla prima parola che ebbi l’onore di scambiare coll’illustre generale. Il tempo scorrea, e Ferrari galloppava. Dieci giorni dopo la sua partenza, sir William, gran cacciatore, suggerì al re una partita di caccia a Persano, e la regina, il generale Acton ed io andammo a stabilirci a Caserta. Il giorno seguente a quello del nostro arrivo, verso le sette ore di sera Ferrari arrivò, ed era latore di una lettera dell’imperatore Francesco II. Acton sopra un suggello di lettera dell’imperatore, ne aveva fatto scolpire uno eguale; non vi era dunque motivo d’inquietarsi anche da questo lato; si rammollirebbe la cera, si dissuggellerebbe la lettera, e se dessa era tale quale la si desiderava, la si rimetterebbe intatta nella sopraccarta che si tornerebbe a suggellare. Se invece la lettera non assecondava i desideri della regina, si prenderebbe consiglio. L’imperatore annunziava positivamente a suo zio che non si sarebbe messo in marcia se non quando Souwarow ed i suoi quarantamila russi sarebbero arrivati, e che egli supponeva che non sarebbero giunti prima dell’aprile 1799. Lo invitava quindi a calmare la sua impazienza, ed a fare come lui, attendendo fino a quell’epoca, e attaccarli ad un tempo con 150,000 Austriaci, 40,000 Russi e 65,000 Napoletani: era evidente che i Francesi sarebbero costretti a sgombrare l’Italia, e chi potrebbe dire, con Bonaparte e coi suoi trenta mila uomini confinati in Egitto, dove si arresterebbe la marcia trionfale dell’armata austro-russa? Secondo ogni probabilità non dinanzi a Parigi. Ma la regina era una giuocatrice troppo spinta, per fermarsi al momento che aveva in mano un giuoco così bello, ed il progetto stabilito fra lei ed il capitano Acton fu messo in esecuzione. Figlio di un medico irlandese, Acton, l’abbiamo detto era un abile chimico: con una miscela già preparata levò l’inchiostro dalla lettera non lasciandovi che la firma, poi invece del rifiuto di marciare, espresso tanto chiaramente dall’imperatore, scrisse una promessa positiva di entrare in campagna appena che suo nipote Ferdinando avesse passato il confine romano. Poi la lettera fu suggellata di nuovo col suggello imperiale e consegnata a Ferrari che la portò direttamente a Persano, e la presentò al re affermandogli che era esso il primo a prenderla dopo di averla ricevuta dalle auguste mani dell’imperatore. Il re che era a tavola con sir William dissuggellò la lettera, la lesse con soddisfazione visibile, e la passò a sir William. Sir William, che era anch’egli del complotto, non fu meno maravigliato di questa risposta favorevole. Però ne felicitò il re Ferdinando, dicendogli: — Lo vedete, Sire, Sua Maestà Augusta è esattamente dello stesso parere di Sua Gran Signoria Nelson; non avete un momento da perdere. Difatti fu deciso che il generale Mack occuperebbe gli stati romani, senz’altro ritardo che quello necessario pei preparativi della campagna. Eravamo giunti ai primi di novembre. X. Ottenuta la guerra da Ferdinando, mi restava da trattare un affare ancora più grave. Era di ottenere ch’egli si mettesse alla testa della sua armata e facesse questa guerra il re in persona. Il re, come ho già detto, era lungi dall’essere valoroso, e se io fui acciecata sul conto della regina, non lo fui però mai su quello del re, che la regina procurò sempre di farmi vedere sotto la sua vera luce. Le trattative furono lunghe, ma la regina e sir William fecero valere presso il re che si trattava non soltanto di combattere i Francesi e di sostenere la legittimità, due cose molto lodevoli, ma anche, una volta occupato lo Stato romano, di vedere nella sua qualità di liberatore quale sarebbe la sua parte nella divisione del Patrimonio di S. Pietro. Alla fine il re acconsentì. Siccome non si attendeva che il consenso del re, l’esercito fu diviso in tre corpi: 22,000 uomini furono inviati a S. Germano, 16,000 negli Abruzzi, 8,000 nella pianura di Sessa e 6,000 si chiusero nelle mura di Gaeta, ed alcune navi onerarie si tennero pronte per trasportare 10,000 uomini in Toscana, accompagnate dalla squadra di Nelson. Questi 10,000 uomini erano destinati a tagliare la ritirata dei Francesi quando il generale Mack li avesse battuti. Questi tre corpi d’armata, cosa curiosa, furon messi sotto il comando di tre stranieri: Mack generale in capo, Micheroux e Damas generali di divisione; il primo era austriaco, e gli altri due erano francesi. Cinquantadue mila uomini erano pronti ad entrare negli Stati Romani. Del resto, come lo aveva giudicato l’ammiraglio Nelson, il momento era ben scelto per attaccare i Francesi. Il Direttorio prevenuto dal cittadino Garat delle intenzioni ostili della Corte di Napoli, aveva cercato, per quanto gli riuscì possibile, tutti i mezzi per far fronte a questa aggressione; aveva distaccato quanti uomini potè dall’esercito della Repubblica Cisalpina, li aveva inviati a Roma e ne aveva dato il comando a Championnet. Championnet non aveva fin allora sostenuto che comandi secondarii; e per conseguenza poco conosciuto, il suo comando di Roma, la sua conquista di Napoli lo resero celebre. Vuolsi che al momento che lasciava la Francia, ove, in ricompensa dei suoi antichi servigi, riceveva questo nuovo comando, il direttore Barras gli avesse posto la mano sulla spada e gli avesse detto: — Parti per l’Italia, generale, e ti do parola che sarai incaricato di detronizzare il primo re che incorrerà nella collera della Repubblica. Championnet partì da Parigi ed arrivò a Roma con questa speranza. Ma a Roma trovò l’armata francese nello stato che dissi. Senza pane, senza calzature, senza abiti, senza soldo, con cinque cannoni e 180,000 cartucce, col rinforzo avuto dalla Cisalpina, si compose di quattordici a quindici mila uomini. Al 22 novembre, il re pubblicò il famoso manifesto firmato dal principe Pignatelli Belmonte, diretto al cavaliere Priora, ministro del re di Piemonte Carlo Emanuele II. Come tutti gli atti che emanavano dal re, anche questo era stato redatto dalla regina, dal capitano generale e da sir William. È dopo dieci anni d’intervallo, quando il velo è caduto, quando sparvero le ire, che un tale documento vi apparirà sotto la sua vera luce; vale a dire come un appello all’assassinio. Eppure a Caserta il 20 novembre 1798, nel momento in cui questo manifesto passò per le mie mani, io applaudii come gli altri. Ecco questo manifesto, che fece un gran rumore quando apparve, e che poi fu quasi dimenticato: «Noi sappiamo, — diceva questo curioso documento, — che nel consiglio del re vostro signore, molti ministri prudenti per non dire timidi fremono alle parole di spergiuro e di assassinio; come se il nuovo trattato d’alleanza fra la Francia e la Sardegna fosse un atto politico degno di essere rispettato. «Ma non dimenticatelo; quest’atto fu dettato dalla forza delle armi, dalla violenza del vincitore; è stato accettato dalla necessità, e deve durare fin quando lo esigerà la necessità. Trattati simili a quelli che avete sottoscritto sono ingiurie del potente al debole, il quale violandoli cede alla prima occasione che gli presenta la fortuna. E infatti in presenza del vostro re, prigioniero nella sua capitale, circondato da baionette nemiche, chiamerete voi spergiuro non mantenere una promessa strappata colla forza e disapprovata dalla coscienza? «Chiamereste voi assassinio, l’assassinare i vostri tiranni, e se tale è la sorte, la debolezza degli oppressi non potrà mai sperare nessun soccorso contro la forza che l’opprime? «I battaglioni francesi tranquilli e dispersi dalla pace, sono sparsi pieni di confidenza nel Piemonte. Eccitate il patriottismo dei popoli fino all’entusiasmo ed al furore, che tutti i Piemontesi aspirino a calpestare sotto i piedi un nemico della loro patria. Gli assassini parziali saranno più proficui al Piemonte, che una vittoria in campo, e mai la giusta posterità condannerà colla infame parola di tradimento questi atti energici di tutto un popolo che va alla conquista della sua libertà sui cadaveri dei suoi oppressori. «I nostri generali napoletani sotto gli ordini del valoroso generale Mack, suoneranno pei primi il segno di morte contro i nemici dei troni e dei popoli. E forse saranno già all’opera quando avrete ricevuto questo manifesto.» Pubblicato questo manifesto non aveva più che a mettersi in campagna. La regina aveva fatto fare per suo marito un magnifico uniforme di generale, e visitammo successivamente i campi di Sessa e di S. Germano per mostrare il re ai suoi soldati. Queste passeggiate militari, le acclamazioni che sollevarono le grida di — Viva il re, morte a’ Francesi — finirono di far girare la testa al re Ferdinando, che ci lasciò facendo alla regina ogni sorta di promessa guerriera. Debbo però dire che, malgrado queste promesse, la regina ne fu poco persuasa, e malgrado la cattiva opinione che aveva di suo marito, era però lontana di aspettarsi la sorpresa che l’avvenire le serbava. Ritornammo a Caserta, ed il re alla testa della sua armata mosse verso il confine Romano al 24: quest’armata sboccò da tre punti sul territorio pontificio. L’ala destra che costeggiava l’Adriatico passò il Tronto, e cacciò da Ascoli una debole vanguardia francese che vi si trovava e prese la direzione di Ponte di Fermo. Il centro scese dagli Appennini da Aquila e si avanzò sopra Rieti. In fine l’ala sinistra, ove trovavansi Mack e il re, passò il Garigliano su tre colonne, a Isola, a Ceprano, a sant’Agata, e marciò direttamente su Roma per le paludi Pontine, Valmontone e Frascati. Passando il confine, il generale Mack scrisse al generale francese questa lettera che ci darà la misura della confidenza che aveva in sè stesso. «Signor Generale, «Vi dichiaro che l’armata di S. M. siciliana, che ho l’onore di comandare sotto gli ordini diretti del re, ha passato jeri il confine degli stati romani, rivoluzionati ed usurpati dopo la pace di Campo-Formio, rivoluzione ed occupazione non riconosciute ed approvate nè da parte di S. M. Siciliana, nè dal suo Augusto alleato Sua Maestà l’imperatore e re. Dimando adunque che, senza il minimo ritardo, ordiniate alle truppe che si trovano nello stato romano, di ritornare nella Repubblica Cisalpina e che facciate evacuare tutte le piazze che occupano. I generali comandanti le diverse colonne delle truppe di S. M. Siciliana, hanno l’ordine di non incominciare le ostilità sui punti in cui le truppe francesi si ritireranno al mio invito, ma d’impiegare la forza nel caso che resistessero. Vi dichiaro inoltre, cittadino generale, che se voi mettete il piede sul territorio del gran duca di Toscana, considererò tale cosa come un atto di ostilità. «Aspetto la vostra risposta senza il minimo ritardo, e vi prego di rinviarmi il maggiore Reischach che vi spedisco, e ciò al più tardi quattro ore dopo aver ricevuto la mia lettera. La vostra risposta dovrà essere positiva e categorica, circa all’evacuazione degli stati romani, ed al non metter piedi negli stati del gran duca di Toscana; una risposta negativa da parte vostra sarà considerata come una dichiarazione di guerra, e S. M. Siciliana saprà sostenere colla spada in mano le giuste dimande che vi dirigo in suo nome. «_barone_ C. MACK.» Il generale Championnet rinviò il maggiore Reischach dopo avergli offerto dei rinfreschi come ad un ospite; ma poichè costui gli chiedeva quale risposta riporterebbe al generale: — Ditegli ciò che avete veduto, gli disse Championnet, ed alzando le spalle gli volse il tergo. Lo stesso giorno il generale francese ricevette un ordine dal Direttorio che gli toglieva tre mila uomini per rinforzare la guarnigione di Corfù. Forse, vista l’urgenza, poteva rifiutare di obbedire a quell’ordine. Egli diede i tre mila uomini e restò con quasi dodici mila. Ma nello stesso tempo fece tirare il cannone d’allarme in Castel S. Angelo, fece battere la generale per tutta la città, e prese tutte le misure suggerite dalle circostanze, per far fronte al pericolo che si avvicinava su di lui colla rapidità di una valanga. Ricevevamo tutti i giorni dei corrieri del re; questi corrieri ci tenevano al corrente del suo cammino trionfale. Al 30 novembre, di notte, ricevemmo la notizia che il re aveva fatta fin dal giorno innanzi la sua entrata in mezzo ad acclamazioni frenetiche; il popolo staccò i cavalli dalla sua carrozza, e la portò fino al palazzo Farnese, che aveva ereditato dalla sua ava Elisabetta. La lettera del re ci annunziava che il generale francese aveva lasciato Roma, lasciando cinque cento uomini in Castel Sant’Angelo, ordinando al comandante di non arrendersi senza alcun pretesto, e gli aveva dato, dicevasi, parola di ritornare a Roma prima di venti giorni. È inutile il dire che questa promessa faceva andare in giubilo il re e specialmente il generale Mack. Il re annunciava in una sua poscritta che il popolo scannava i patriotti e saccheggiava le loro case; egli stesso aveva fatto fucilare due napoletani, i fratelli Corona, di cui uno era stato ministro della Repubblica Romana. Al dire del re tutto andava coi fiocchi. Di fatti il giorno seguente ricevemmo una copia di questa lettera che il re scriveva al papa Pio VI. «Vostra Santità conoscerà colla più viva soddisfazione che, grazie all’aiuto del nostro Divin Salvatore, e per l’augusta protezione del beato S. Gennaro, siamo entrati colla nostra armata, senza resistenza e da trionfatori nella capitale del mondo cristiano; i Francesi fuggirono spaventati alla vista della croce e delle mie armi; Vostra Santità può dunque riprendere il supremo e paterno suo potere, che io difenderò colla mia armata; Vostra Santità abbandoni dunque la sua dimora troppo modesta della Certosa, e sulle ali dei Cherubini, come altra volta la Nostra Santa Vergine di Loreto venga e discenda al Vaticano per purificarlo colla sua presenza: tutto è pronto per riceverla; Vostra Santità potrà celebrare i divini ufficj per la solennità di Natale.» La regina ordinò che si cantasse un _Te Deum_ in tutte le chiese di Napoli, che il cannone tuonasse in segno di trionfo e che la città fosse illuminata. Questi ordini, bisogna dirlo in lode dei Napoletani, furono ricevuti ed eseguiti con entusiasmo. XI. Credo di aver detto che un distaccamento da otto a diecimila uomini comandato dal generale Naselli, doveva partire per Livorno sopra bastimenti di trasporto. Partirono infatti, e al 22 novembre uscirono dal porto di Napoli. Erano accompagnati da _Vanguard_, ove trovavasi l’ammiraglio Nelson, dal _Culloden_, dal _Minotauro_, dall’_Alleanza_, dalla _Buona Cittadina_, dal cutter _Flora_ e dalla squadra portoghese. Vascelli di guerra e navi di trasporto giunsero a Livorno circa dopo il mezzodì del 28 novembre: i ministri inglese e napoletano vennero a fare la loro visita all’ammiraglio. Il generale Naselli intimò alla città di arrendersi, il che avvenne verso le 8 di sera. L’intimazione era stata fatta congiuntamente dal generale Naselli e dal vice-ammiraglio Nelson. Naselli prese possesso della città; ma Nelson restò sul suo vascello. E poi, Nelson era così innamorato che non voleva restar molto tempo lontano da me; e però lasciò Livorno al 30 novembre, alle 7 di mattina, ed al 5 dicembre era a Napoli. Alle sei del mattino giunse al capitano generale Acton una lettera in cui trovavasi il periodo seguente che il ministro si affrettò di farci leggere. Nelson non vedeva le cose sotto un aspetto così ridente come il re di Napoli. «Ecco in poche parole lo stato del paese e la situazione delle cose — diceva. — L’esercito del re è a Roma, Civitavecchia è presa; ma rimasero 500 Francesi in Castel Sant’Angelo. I Francesi hanno 13,000 uomini ed aspettano i napoletani in una forte posizione a Civita Castellana. Il generale Mack va contro di loro con 20,000 uomini. L’avvenimento a mio avviso è dubbio, e può decidere immediatamente della sorte di Napoli. Se Mack è disfatto, in venti giorni il paese è perduto; l’imperatore non ha fatto muovere nemmeno un uomo della sua armata, e senza il soccorso dell’imperatore questo paese non può resistere ai Francesi. Certamente non è sua scelta ma la necessità che ha obbligato il re di Napoli ad uscire dal suo regno, e di non aspettare che i Francesi, radunate le loro forze, lo cacciassero in una settimana da Napoli.» Noi ricevemmo quasi le stesse notizie da Roma. Però il re ci annunziava la marcia di Mack sopra Civita Castellana non già con ventimila uomini ma con quarantamila. Era impossibile di credere che con tale superiorità numerica, la vittoria fosse dubbia. Inoltre il re era talmente sicuro del successo che la sua tranquillità cl rassicurava. Le sue lettere erano piene di descrizioni delle feste che gli avevano dato. Non usciva nelle vie di Roma che camminando sopra tappeti e sotto una pioggia di fiori; nella stessa sera vi fu gran gala al teatro Apollo. La lettera che ci dava questi particolari era del 6 dicembre; la mostrammo a lord Nelson, facendogli osservare che non era con ventimila uomini che Mack andava incontro al nemico, ma con quarantamila. Tutto ciò però non lo rassicurava, egli aveva preso già fin dal primo incontro una cattiva opinione di Mack. Ci lasciò verso le cinque di sera, e restammo la regina, io e alcune dame di sua intimità che componevano la nostra società ordinaria. Verso le sette di sera, quando prendevamo il thè, udimmo il rumore d’una carrozza che passava sotto le volte del palazzo, poi un rumore di servitori che si precipitavano dalle scale. La regina impallidì. Io la guardava interrogandola cogli occhi. — Ah! mi disse, ho un presentimento. — Quale, signora? le chiesi. — Che il re sia arrivato. — Il re! impossibile, signora; abbiamo ricevuto una sua lettera questa mattina. La porta si aperse, un usciere annunziò: — Sua Eccellenza il duca d’Ascoli. Il duca d’Ascoli entrò, la regina ed io mandammo un grido di stupore: egli era vestito coll’uniforme del re, e siccome egli era della stessa statura ed età e la camera era semi-oscura, la regina ed io lo credemmo a prima vista il re. La regina fu la prima ad accorgersi dello sbaglio, e il suo istinto coniugale le fece indovinare che sotto questo travestimento si celava qualche vergogna. Si alzò e severamente: — Che significa questa mascherata? dimandò essa. — Ahimè! signora, nulla di allegro, rispose il duca, ma almeno è una prova della mia devozione pel re. — Pel re? e dov’è il re? — Qui, signora. — E dove dunque qui? chiese di nuovo. — Nel suo appartamento. — Ah! ah! egli non osa nemmeno di comparirmi davanti, a ciò che pare. Poi dopo un momento silenzio: — I Napoletani sono stati battuti, non è vero? E siccome il duca esitava a rispondere: — Vediamo, disse la regina, se il re è una donna, io sono un uomo, io; ditemi tutto. — Battuti completamente, signora. — Bravo Nelson! disse, volgendosi dalla mia parte, lo vedi, il suo istinto non lo ingannava; ma è dunque veramente un idiota, come già ce ne accorgiamo, il generale Mack. — Non posso dir nulla a Vostra Maestà se non che le truppe napoletane sono state completamente battute. — Siete sicuro della notizia? — La sappiamo ambedue, io ed il re, dalla bocca stessa del generale Mack. — Dal generale Mack! La regina mi prese la mano e me la serrò convulsivamente. — È scritto che io dovrò trangugiare tutta la vergogna? mormorò essa. — Ma infine, signore, dimandai al duca, mentre la regina sì lacerava i manichini coi denti, non potete dare alcun particolare a Sua Maestà? — Non posso dire a Sua Maestà che quello che so io stesso. — Ditelo, dunque, esclamò la regina, e spicciatevi perchè ho premura, ve lo confesso, di sapere per qual motivo avete indossato l’abito ed avete al collo l’ordine del re. — Vostra Maestà si degni di ascoltarmi con pazienza, disse il duca d’Ascoli; altrimenti sarò obbligato di ritornare dal re, e dirgli che non avete voluto ascoltarmi. — Voi fate appello alla mia pazienza, ebbene, vi prometto d’averne, parlate. — Ebbene, signora, ieri eravamo nel palco di S. M. al teatro Apollo, quando verso le nove ore della sera, la porta si aperse bruscamente e vedemmo apparire il generale Marck coperto di fango come chi arriva dopo una lunga corsa. Sire, diss’egli, voi vedete un uomo nella disperazione che vi annunzia una tale notizia, siamo battuti su tutti i punti, separati gli uni dagli altri, in piena ritirata, o piuttosto in fuga. La nostra unica speranza di salvezza per Vostra Maestà è che parta immediatamente per Napoli; — libero dalla cura che m’ispira il vostro prezioso capo, cercherò di radunare l’armata e di prendere una rivincita. — Miserabile orgoglioso, mormorò la regina. — Comprenderete facilmente, signora, continuò il duca, lo stupore del re ad una simile notizia, nel momento in cui si credeva vittorioso; stette guardando Mack senza rispondere e col viso alterato. Poi ad un tratto Sua Maestà si alzò, ed uscì dal palco. Per fortuna nessuno si era accorto e si credette che il re fosse andato nella camera vicina alla loggia. Non bisognava far vedere di fuggire, i giacobini romani che volevano vendicarsi delle esecuzioni comandate dal re lo tenevano di vista, e dicevano che se Mack fosse battuto avevano l’intenzione d’impossessarsi di lui: prima che si fossero accorti della sua assenza, e che la notizia si fosse sparsa, eravamo già al palazzo Farnese: colà il re montò a cavallo con una dozzina di uffiziali, ed alcuni dei suoi più fedeli servitori, fra i quali si è degnato di scegliere me; uscimmo dalla porta del Popolo, e girammo intorno alle mura fino alla porta S. Giovanni. Giunti colà il re prese il galoppo, con sette ad otto uomini di scorta e verso le undici di sera giungemmo ad Albano. Ad Albano il re s’informò dal mastro di posta se aveva una vettura. Non aveva che una carrozzella. Mentre attaccavano i cavalli, il re mi trasse in disparte, e pregò di mutare di abito con lui, cosa che eseguii al momento. — E perchè mutar di abito con lui? chiese la regina. — L’ignoro, signora, rispose il duca; ma siccome una preghiera di Sua Maestà è un ordine, obbedii. — Un ordine, un ordine, ripetè la regina; ma infine quest’ordine aveva uno scopo. Il duca fece un inchino senza rispondere. — Vorrei ben sapere, disse la regina, battendo con impazienza i piedi, che cosa sperava il re con questa mascherata. — Desiderate di sapere ciò che sperava io, disse il re entrando e gettandosi su di una poltrona, come se arrivasse dalla caccia; sperava, se fossimo stati presi dai giacobini, che avrebbero impiccato d’Ascoli invece di me. — Eh! fece la regina. — Ebbene, intanto che lo appiccavano io mi sarei salvato in qualche modo. La regina alzò le mani al cielo e poi le portò al suo viso. — Oh! oh! mormorava essa. — Ma, disse il re che non comprendeva niente affatto delle esclamazioni della regina, ma essi lo avrebbero fatto come lo hanno ben detto questi f... di p... di giacobini. — E voi avreste lasciato appiccare il vostro amico invece di voi! esclamò la regina. — Ma, lo credo bene, io, meglio due volte lui, che me. — E voi, duca, vi sareste lasciato appiccare invece del re! esclamò la regina, alzandosi ed andando incontro al duca. — Il dovere di un suddito non è di sacrificare la vita pel suo padrone? rispose semplicemente il duca. — Ah! signore, esclamò la regina volgendosi a suo marito; siete fortunato di avere un simile amico. Conservatevelo preziosamente; è probabile che se voi lo perdete, non ne troverete un altro. Poi volgendosi verso di me: — Del resto, disse, anch’io non ho di che lagnarmi, perchè sono sicura, Emma, che al bisogno faresti per me ciò che il duca era pronto a fare pel re. E mi gettò le braccia al collo. — Vieni, Emma, vieni, mi disse. Gli è bello d’avere un tal cortigiano; ma gli è triste di avere un tal re. XII. La regina entrò nei suoi appartamenti e ordinò di attaccare i cavalli alla carrozza. E siccome la guardava quasi per cercar di leggere nel suo pensiero: — Comprendi bene, mi disse, che non voglio lasciare a questo egoista, che lascerebbe appiccare il suo migliore amico, la cura di vegliare alla nostra sicurezza; egli sarebbe capace di fuggire in Sicilia col suo fucile da caccia e coi suoi cani, senza altrimenti occuparsi di noi. — Come! fuggire in Sicilia Vostra Maestà, senza che il re pensi a lasciar Napoli? — E che vuoi tu che faccia egli mai? Fra quindici giorni i Francesi saranno qui; non ci hanno detto che il direttore Barras aveva detto al generale Championnet nel mandarlo a Roma: — Generale, voi avete l’onore di detronizzare il primo re che sarà incorso nella collera della Repubblica? — Ora, grazie a Dio, noi abbiamo fatto la parte nostra per incorrere nella collera di questa rispettabile repubblica. Per fortuna ci rimane Nelson, — e in quali rapporti sei tu con lui? spero che non lo avrai messo alla disperazione. — Nelson farà tutto quello che vorremo, risposi sorridendo. — Bene. Sarà troppo tardi per fargli dire questa sera che venga a terra, ma dimani mattina noi dobbiamo conferire con lui. — Perchè troppo tardi questa sera? due parole scritte da me basteranno per farlo venire in qualunque siasi ora della notte. Sono le otto; alle nove e mezzo possiamo essere a Napoli; alle dieci potrà avere un mio viglietto; una mezz’ora dopo sarà a palazzo. — Bene, allora lo riceverai tu e gli dirai tutto; intanto io parlerò con Acton; comprendi bene, che bisogna ch’egli si dedichi a noi in corpo ed anima. Ci va nientemeno che della vita. — Oh, Maestà! — In tal modo i giacobini se la sono presa con mia sorella Maria Antonietta: credi forse che quei di Napoli se la prenderanno meno con noi? Poi tu comprendi bene che può benissimo venir un ordine da lord S. Vincent che lo allontani da noi. — Ebbene, bisogna che egli disobbedisca anche ad un ordine di Lord S. Vincent, anche ad un ordine dell’ammiragliato se gli venisse dato. — Venendo il caso, risposi, ridendo, alla regina, Vostra Maestà mi dirà cosa dovrò fare perchè egli disobbedisca; io lo farò, ed egli disobbedirà. Si venne ad annunziare che i cavalli erano pronti. — Vieni, disse la regina. — Vostra Maestà non previene il re? — Per che farne? — E se egli fa chiamare Sua Eccellenza il capitano generale? — Acton non verrà, se non dopo avermi veduta; scendiamo. Scendemmo lestamente senza prevenire alcuno. La regina si ravvolse nel suo sciallo di casimiro perchè pioveva a torrenti e faceva freddo; entrammo nella carrozza, chiudemmo la portiera sollevando il vetro, ed il cocchiere partì al galoppo. La Regina s’era adagiata tutta in pensieri sul fondo della carrozza; si avrebbe potuto credere che dormisse, se di tempo in tempo non l’avesse agitata qualche sussulto nervoso, e in queste convulsioni bisbigliava, o la parola di imbecille che si applicava a suo marito: poi di tempo in tempo esclamava: O Nelson, bravo Nelson, non vi ha speranza che in lui. Io le stringeva la mano dicendole: — State tranquilla, signora, vi rispondo di lui come di me. Un’ora e mezza dopo la nostra partenza da Caserta arrivammo al palazzo reale. Prima di scendere dalla carrozza, la regina chiese se il capitano generale Acton era a palazzo. Per fortuna vi era. — Ditegli che l’aspetto sul momento da me, disse la regina. E salimmo le scale. A tutti quelli che si presentarono per offrirle i loro servigi, tanto uomini che donne, la regina evitandoli rispondeva: grazie. Entrammo sole nel suo appartamento. L’usciere di servizio pose un candelabro su di un tavolo e chiese gli ordini della regina. — Non lasciate entrare che il signor Acton, milord Nelson e sir William Hamilton, rispose con quella nettezza d’accento e brevità di parole che indicavano in lei una forte emozione. Poi ella stessa pose su di una tavola delle penne, della carta ed un calamaio. — Scrivigli, mi disse. Presi la penna. «Venite, gli scrissi; noi vi aspettiamo a palazzo, la regina ed io, per affari d’importanza.» «EMMA» — Cosa gli scrivi dunque? chiese la regina. — Gli scrivo di venire, ecco tutto. — Come, ecco tutto? — Non c’è bisogno di più. — Emma, Emma, disse la regina, tu lo lascerai sfuggire. — Non sono io il vostro piloto, sì o no? — Certamente... ma. — Allora non vi mischiate punto alla manovra, lasciate fare a me. — Fate pure. Ma nel dare il suo consenso la regina fece un movimento di spalle che indicava che al mio posto avrebbe agito assai diversamente di me. Non m’inquietai punto. — Ora, le dissi, da chi V. M. farà portare questa lettera? — Ciò riguarda Acton. Dal porto militare ci vorranno meno di 10 minuti per andare a bordo del _Vanguard_. In quel momento Acton entrò. — Quale sventura, non è vero, signora? diss’egli avanzandosi verso la regina con un viso che indicava la sua inquietudine. — Sì, disse la regina, è immensa; il generale Mack è stato battuto, il re è arrivato or son due ore a Caserta dopo aver fatto prodigi di valore. E diede in uno scoppio di risa stridente e nervoso che le era famigliare nei momenti di suprema irritazione. E poichè Acton la osservava con uno stupore sempre crescente: — Saprete tutto in un istante; ma prima di tutto, gli dissi, fate portare questo viglietto a Lord Nelson. È necessario che egli possa attraversare il porto militare senza ostacolo. — Scenderò io in darsena, rispose il generale, e spedirò io stesso la barca che lo anderà a cercare e darò le mie istruzioni all’uffiziale. E il generale s’allontanò. — Ha questo di buono almeno che è obbediente, disse la regina seguendolo cogli occhi. — Perchè non gli fate l’onore di chiamarlo affezionato, signora? — Perchè questa parola non esiste nel dizionario dei cortigiani. — Bene, ma il duca d’Ascoli? — Colui non è il cortigiano del re, è suo amico; quando il re è di buon umore, è d’Ascoli che gli dice le verità più dure; e non è come te, adulatrice, che non me ne dici mai. — È forse colpa mia se le più dure verità che si possono dire a V. M. sono delle lodi? La regina mi abbracciò, e cominciò a passeggiare in lungo ed in largo; si fermava di tempo in tempo innanzi al terrazzo, e gettava sguardi a traverso alle tenebre alla flotta inglese, di cui si riconosceva ciascun vascello dai suoi fanali di posizione e ad ogni volta esclamava: — O Nelson, la nostra sola speranza è in te. E poi ritornando verso di me: — Comprendi, mi disse, cinquanta due mila uomini, provveduti di tutto, ben nutriti, ben vestiti, ben pagati, e che si fanno battere da dieci o dodici mila Francesi, seminudi, senza soldo, senza pane, senza scarpe, senza munizioni; eccoli ora forniti di tutto fuorchè di scarpe, menochè i nostri soldati non si sieno levati le scarpe per fuggire più presto. Oh se fossi uomo mi sarei posta in mezzo a tutti questi vili, come avrei strappato le spalline a tutti questi uffiziali che son solamente buoni di fare scintillare alle parate i loro ricami di argento, ed a far sventolare al vento le loro piume di tutti i colori. Vi sono dei momenti, vedi, che, in parola d’onore, avrei volontà di montare a cavallo come mia madre Maria Teresa, e far vergogna a questo re fa niente, che non sa che andare a caccia, alla pesca, a far l’amore colle contadine. Sgraziatamente non ho a che fare cogli Ungheresi, ma con Napoletani. Intanto Acton entrò. — Eccomi, signora, disse; la lettera è spedita, e se lord Nelson mette a servire vostra Maestà la metà della premura che ci metterei io, in un quarto d’ora egli sarà qui. Intanto V. M. vorrà dirmi di che si tratta. La regina lo condusse nella camera vicina perchè voleva lasciarmi sola con Nelson; e poi forse aveva degli ordini, di quegli ordini segreti e terribili, che spesso io non conosceva se non quando erano eseguiti. Difatti seppi poi dopo che vi era stata questione fra la regina e il capitano generale, circa il corriere Ferrari, nelle cui mani si era sostituita la lettera redatta da sir William e dal generale Acton alla vera lettera scritta dall’Imperatore d’Austria; si temeva che Ferrari svelasse la frode, e che Ferdinando venisse in cognizione del vero, vale a dire, che invece di invitarlo a mettersi in campagna, suo nipote Francesco gli scriveva di non muoversi, non contando di dichiarare la guerra alla Francia, se non quando fossero arrivati i suoi alleati russi, vale a dire verso il mese di aprile e di maggio. Sarebbe stato adunque in questo istante, in cui restai sola ad aspettare Nelson, che sarebbe stata risolta la perdita di questo infelice. Racconterò a tempo e luogo la sua morte, e le circostanze terribili che l’accompagnarono. Era sola da un quarto d’ora, quando l’usciere entrò ed annunziò Sua grazia lord Nelson; immediatamente vidi sua signoria nel vano della porta. Era tutto ansante per la rapidità con cui aveva salito le scale, e la sua fisonomia alterata testimoniava la sua inquietudine. Prima che avesse aperto bocca gli aveva gettato le braccia al collo dicendogli: — Caro Nelson, la sola nostra speranza è riposta in voi. Mi strinse al suo cuore, di cui sentiva la palpitazione a traverso al suo uniforme, appoggiò le sue labbra convulse sui miei occhi, e come se avesse temuto di sorprendere una carezza, non già un sentimento d’amore; ma quell’emozione mi allontanò dolcemente da lui, e guardandomi con indefinibile espressione di passione, mi chiese: — Vediamo — che c’è, parlate ad un uomo, che darebbe la sua vita per la regina; ed esitò.... il suo onore per voi. — Oh, caro Nelson, esclamai, gli presi la mano e gliela volli baciare. Nel momento che fece per ritirarla, egli abbassò il capo, io rialzai il mio e le nostre labbra s’incontrarono. — Oh! esclamò Nelson alzandosi, e ritirandosi di qualche passo, voi mi rendete pazzo. Gli tesi la mano. — Che importa, gli dissi, se vi guarisco. Egli guardò intorno per vedere se fossimo soli. Compresi il suo sguardo e con un sorriso: — La regina e il capitano generale son là, gli dissi. E gl’indicai la camera vicina. Egli mandò un sospiro, si avvicinò, mi strinse la vita col suo unico braccio, e invitandomi a sedere vicino a lui: — Mi avete fatto chiamare per chiedermi un servizio, mi disse, sono un egoista, per non esser venuto prima; in che vi potrei essere utile? Riparerò la mia colpa, parleremo più tardi della mia pazzia. — Quando vorrete, gli dissi con uno sguardo pieno di promessa, e se voi tardate troppo, sono io che vi parlerò per la prima. — State in guardia, mi disse; voi siete Partenope ed io non sono Ulisse. Poi facendo uno sforzo su di sè stesso: — Vediamo, vediamo, disse — Mack è battuto, non è vero? L’armata è in sfacelo; avete ricevuto un corriere del re? — Meglio ancora: il re è arrivato saranno tre ore a Caserta; tutto è perduto, in quindici giorni i Francesi saranno qui; la regina pensa a fuggire in Sicilia, e conto su di voi per condurla. — Vi andate voi? chiese Nelson. — Io non lascio la regina. — Ed io non vi lascio. — Qualunque ordine vi arrivi? — Dovessi stracciar le lettere senza aprirle. — Nelson! esclamai. E gli stesi le braccia. Egli si gettò sul mio cuore. — Ancora, mi disse egli, ancora, abbiate dunque pietà di me. — Nelson, non è per compassione che vi dico che io vi amo, è per riconoscenza... è.... per amore. Mise un grido, si lasciò sdrucciolare alle mie ginocchia, e baciandomi le mani, con deboli gridi che sembravano quasi gridi di dolore più che gridi di gioja. In questo momento la regina aperse un poco la porta e vedendo Nelson ai miei ginocchi, fece un movimento per ritirarsi. — Oh! entrate, entrate, signora, ho nulla da nascondere nè a voi nè al mondo. Nelson viene a dirmi che è per noi, ed io gli dico che io era per lui. Vostra Maestà sia abbastanza buona per dare la sua mano da baciare al nostro salvatore. XIII. Il giorno seguente si tenne consiglio di Stato. Il re espose la situazione, non tacque nulla del disastro. L’avrebbe reso anche più grande se fosse stato possibile. L’ammiraglio Caracciolo, come comandante le forze di mare, fu chiamato al consiglio. Siccome non aveva nulla a temere dalla parte di mare, poichè gl’Inglesi sorvegliavano il porto, propose di riunire i soldati di marina in un corpo di mille a mille e ducento uomini, di mettersi alla loro testa, e di muovere incontro ai Francesi. Impossessandosi delle strette degli Abruzzi prima che vi fosse giunto il grosso dell’armata napoletana, poteva mettere un ostacolo alla disfatta, e radunare colla forza i fuggitivi. Qualunque fosse il numero dei soldati perduti nei varii combattimenti contro i francesi, l’armata napoletana doveva essere ancor più forte almeno di quattro volte di quella da cui fuggiva. Il re respinse quest’offerta. Egli dubitava della devozione di Caracciolo, e lo supponeva di voler organizzare quella truppa per riunirsi con essa ai patriotti. Caracciolo offeso da quel sospetto, che non meritava, ritirandosi prima della fine del consiglio, dichiarò che si recava sul suo bastimento, ove aspettava gli ordini del re. Ma prima di andarvi si fece annunziare dalla regina. Anche dalla regina si teneva consiglio, ma questo consiglio si componeva soltanto della regina, di Nelson, di sir William e di me. Fin dal giorno antecedente la regina aveva stabilito col capitano generale la sua fuga e quella della sua famiglia. Essa esitava di ricevere l’ammiraglio Caracciolo, ma sir William Hamilton la decise a riceverlo. La regina allora mi prese pel braccio, esigendo la mia presenza al suo colloquio coll’ammiraglio, senza dubbio per fargli comprendere la persistenza di un’amicizia che invece di diminuire si aumentava, per avere degli avvisi diretti od indiretti che gli si potessero dare contro quest’amicizia. La pregai inutilmente di non espormi a qualche nuovo insulto da parte del principe napolitano; ma la regina mi dichiarò che così voleva, e che alla minima parola equivoca che sarebbe uscita dalla bocca dell’ammiraglio, egli sarebbe stato arrestato. Ma fin dal primo momento era facile di scorgere che non vi era nulla di simile da temere da parte dell’ammiraglio; mai espressione più profonda di rispetto non fu impressa sopra nobile viso, quanto quella che potemmo leggere su quello di Caracciolo. — Signora, disse facendo un inchino, il re ci ha ora dato contezza dei disastri dell’armata; ma fortunatamente la vostra fedele marina è intatta. Io non sono chiamato a dar suggerimento a V. M., ma se Vostra Maestà mi facesse l’onore di consultarmi, le darei quello, dopo aver, ben inteso, tenuto fermo fino all’ultimo momento e di aver fatto tutto per riprendere la nostra rivincita. Le darei, dico, il consiglio di abbandonare i suoi stati di terra ferma e di rifugiarsi in Sicilia. — Tale è la nostra intenzione, signore, disse la regina. — Allora, riprese Caracciolo, facendo un altro inchino, allora supplicherei V. M. di voler onorare la _Minerva_, e di sceglierla per suo bastimento di trasporto. La _Minerva_ è la miglior veliera di tutta la squadra napolitana, e nello stato in cui la battaglia d’Aboukir ha messo la flotta inglese, potrebbe gareggiare per velocità e sicurezza colle navi dello stesso lord Nelson; noi siamo in giorni di cattiva navigazione, conosco i nostri mari e direi quasi le nostre burrasche; nessuno dunque meglio di me potrebbe rispondere della sicurezza di V. M. e della sua augusta famiglia, ed io ne risponderò. In pochi giorni la fregata potrà essere accomodata in modo che V. M. vi possa trovarsi degnamente. La regina salutò in segno di riconoscenza. — È inutile di dire, continuò Caracciolo, che se lady Hamilton e sir William credono, come è probabile, opportuno di seguire V. M., sarà un grande onore per me di riceverli a bordo; il più grande che potei ottenere, se non avessi avuto nello stesso tempo quello di ricevere V. M. Tutto ciò era stato detto in una maniera tanto nobile e rispettosa, che la regina non vi potè resistere e stese la mano all’ammiraglio. — Signore, gli disse, nel giorno del bisogno non dimenticherò la vostra offerta, intanto vi ringrazio in mio nome e in quello di lady Hamilton di avermela fatta; avete altra cosa da dirmi, o desiderate qualche cosa? — Ho a dire a V. M. che la supplico di credermi il suo più fedele servitore, e desidero di mettere ai suoi piedi i miei rispettosi omaggi. E salutando di nuovo la regina e me, l’ammiraglio s’avvicinava alla porta, unendo con un tatto squisito la dignità della sua persona alla venerazione dovuta alla maestà della regina. La regina lo seguì cogli occhi. — Questa prova di fedeltà e di rispetto mi commove ancora più per te che per me, disse la regina; ma avrei però voluto che l’ammiraglio non me la avesse data questa prova. Entrammo nella camera, ove avevamo lasciato sir William e lord Nelson. Nelson sembrava visibilmente contrariato, e siccome la regina non fece parola del suo colloquio con Caracciolo, egli non osava interrogarla. — Signora, disse, spero che V. M. non dimenticherà che Ella si è rivolta a me pel primo e che pel primo mi son posto a sua disposizione: — State pur tranquillo, mio caro ammiraglio, rispose la regina. — Dunque, disse Nelson, ho la parola di V. M. che nessun bastimento, eccettuato quello che io comando, avrà l’onore di trasportare V. M. in Sicilia. — Voi l’avete, disse la regina; ma questa parola non impegna che me, sir William e Lady Hamilton, io non so quali sieno le intenzioni del re, su di cui non posso portare influenza. — Vostra Maestà mi permetterà dunque che agisca di conseguenza. — Fate pure, e siamo sicure che tutto ciò che farete, sarà per nostro bene. — Dimanderò alla regina il permesso di scrivere una lettera, di cui avrà la bontà di prendere cognizione. Preparai sopra una tavola, a parte, delle penne, dell’inchiostro e della carta, e feci segno a Nelson che tutto era pronto. Lord Nelson si sedette innanzi alla tavola, facendomi segno che potevo leggere, intanto che le parole uscivano dalla sua penna. «Napoli, dicembre 1798 «Mio caro Troubridge, «Le cose sono qui in uno stato così critico, che desidero che voi mi raggiungiate senza alcun ritardo, lasciando la _Tersicore_ a Livorno per ricondurre il Granduca: questa misura è indispensabile, e probabilmente vi manderò subito il comandante Campbell per fare questo servigio. «Il re è ritornato, e le cose vanno alla peggio: per l’amor di Dio sbrigatevi, avvicinatevi a Napoli colla più grande prudenza. Io sarò probabilmente a Messina; ma in ogni caso informatevene quando passerete per le isole Lipari, onde sapere se siamo a Palermo. «Avvertirete Gage di operare colla maggior secretezza, che scriva a Windsham, dandogli le istruzioni necessarie sulla situazione in cui ci troviamo, perchè anch’egli agisca colla maggior secretezza possibile. «Tutti uniscono il loro affetto ed il loro rispetto a quello del vostro fedele amico «O. NELSON.» La seconda lettera era diretta al capitano Ball colla stessa raccomandazione. «Molto segreta «Napoli, dicembre 1798 «Mio caro Ball, «Desidero che m’inviate direttamente il Golia, e che diate ordine a Foley d’incrociare fuori del faro di Messina, fino a nuovo avviso. È possibilissimo che mi vedrà _con altri_; la situazione di questo paese è tristissima, quasi tutti sono traditori o vili. «Che Dio vi benedica; tenete segreto tutto ciò, dite solamente a Foley di non avvicinarsi a Napoli senza grande precauzione. «Non ho ricevuto nulla dall’Inghilterra; io sono qui coll’_Alcmena_ e coi Portoghesi. Tutta la casa si unisce al vostro fedele amico per dirvi mille cose gentili. «O. NELSON.» «Il cutter la _Flora_ si è perduto, e non ho nulla da mandarvi; se poteste spedirmi l’incendiario, ma sopra tutto nessun bastimento napolitano. _Quelli della marina sono tutti traditori_; insomma tutto è corruzione.» Si vede dalla linea, o piuttosto nelle linee che sottosegnamo, nascere quell’odio della marina inglese contro la marina napoletana e apparire i primi lampi di gelosia di Nelson contro Caracciolo, gelosia che fu tanto fatale a quest’ultimo. È inutile di dire che queste lettere sono copiate agli autografi di Nelson. Nelson mi diè queste due lettere che rimisi a sir William perchè ne spiegasse alla regina i passi che potessero parerle oscuri: Nelson scriveva con un laconismo, che nella sua propria lingua facevalo talvolta incomprensibile ai compatriotti, a più forte ragione agli stranieri. Mentre la regina, aiutata da sir William, leggeva le due lettere su riferite, Nelson era rimasto pensoso, agitando la penna fra le dita, e pareva esitar a scriverne una terza. Finalmente si decise. «_A lord Spencer_ «Napoli, 10 dicembre 1798 «Caro Lord «Permettete che in due parole v’informi di quanto è accaduto. «L’esercito napoletano è stato pienamente disfatto da’ Francesi, ed i fuggiaschi non tarderanno ad arrivar in Napoli, inseguiti dai vincitori. In questa crudele congiuntura, la regina m’ha fatto promettere di non abbandonarla prima che non tornino giorni più lieti. Il re è giunto la scorsa notte, messaggiero della propria sciagura. Pare sia stato incalzato tanto da vicino che egli fu obbligato a scambiar i suoi abiti con un suo ciambellano. Lo vedete, per ricorrer ad un partito tanto estremo, bisogna che il pericolo sia stato reale. «Spero dunque che l’Ammiragliato non farà difficoltà perchè io resti presso la regina, alla quale, d’altronde, ho impegnato la mia parola. Aiutatemi con l’alta vostra influenza a mantenerla, ancorchè io sia stato imprudente. Appena ci verranno notizie più complete, ve le farò tenere. «Con tutti i sentimenti d’un profondo rispetto, mi dico. «Vostro fedele servitore «O. NELSON.» Queste tre lettere provvedevano a tutti gli avvenimenti. La regina ne ringraziò Nelson, e presa questa prima disposizione, si attese con maggior tranquillità. Il consiglio del re non aveva preso alcuna determinazione, ciò gli sarebbe riuscito difficile, perchè non si sapeva in fine dei conti, ciò che il re stesso sapeva; ciòè che l’armata era stata battuta e scompigliata. Si compilò pertanto un manifesto così bizzarro, che io mi dimando ancora a me stessa a quale scopo sia stato fatto. Eccolo. Era anche datato da quattro giorni, e doveasi ritenere come se fosse scritto e pubblicato a Roma. «Mentre era nella capitale del mondo cristiano occupato a proteggere la Santa Chiesa, i Francesi, coi quali ho fatto tutto per vivere in pace, hanno minacciato di penetrare negli Abruzzi; io moverò incontro ad essi con una armata numerosa per sterminarli; ma attendendo che i miei popoli corrano alle armi, e che volando in aiuto della religione difendano il re, il loro padre, che è pronto a sagrificare la vita per conservare ai loro sudditi i loro altari, i loro beni, la loro libertà, l’onore delle loro donne, chiunque abbandonerà le sue bandiere sarà punito come ribelle e nemico della Chiesa e dello Stato.» Questo manifesto fu affisso sopra tutti i muri, nel momento in cui soltanto alcuni sordi rumori sull’avvenimento erano giunti a Napoli. La notizia del disastro scoppiò poi come una bomba. Ciò che aveva detto il generale Mack era vero. L’armata napolitana non vi era più; non già che fossero state grandi le perdite che avea fatte sul campo di battaglia; aveva perduto soltanto mille uomini; ma composta di elementi completamente eterogenei, si era rotta al primo colpo, e disciolta come un fumo: nulla impediva adunque ad un nemico che si diceva empio, crudele, profanatore della religione, persecutore dei suoi ministri, d’invadere il regno e di penetrare fino a Napoli. Il re lo sapeva tanto bene che, rinunziando di difendersi colle armi terrestri, rimise la sua causa nelle mani di Dio, ordinò preghiere per le chiese, onde calmare la collera celeste, ed invitò i preti ed i frati più noti per la loro eloquenza, di salire sul pergamo, e di predicare nelle chiese e per istrada, eccitando con tutti i mezzi possibili il popolo a difendere la capitale. XIV. Si comprende l’effetto che fece sulla popolazione di campagna e della città la pubblicazione del manifesto reale e la predica dei preti e dei frati nelle chiese e per le piazze. Si è veduto qual fosse lo spirito del ceto medio e illuminato di Napoli, da ciò che abbiamo raccontato in proposito dell’arresto dei giacobini e delle esecuzioni di Emmanuele de Deo, di Gagliani e di Vitagliano; ma tutta la classe del lazzaroni, vale a dire la più numerosa, centomil’anime all’incirca, erano per il re, e consideravano i francesi come empii, eretici e scomunicati. Il manifesto del re non era che un appello al brigantaggio; ora il brigantaggio è cosa nazionale negli Abruzzi, nel Masico e nella Terra di Lavoro. Ognuno prese il fucile, la scure ed il coltello e si mise in campagna, senza altro scopo che la distruzione, senz’altro eccitamento che il saccheggio, secondando il suo capo senza obbedirgli, seguendo il suo esempio e non i suoi ordini. Masse di soldati erano fuggiti innanzi ai francesi; ed ora uomini isolati movevano contro di loro; una armata si era dispersa, un popolo usciva dalla terra. Quanto avveniva poi in città; era una confusione spaventevole quella di vedere tutta una classe intiera della società, il mezzo ceto, circa un terzo di Napoli, quelli che si dicevano patriotti e gli altri chiamavano giacobini, stavano rinchiusi temendo di esporsi, mostrandosi, al furor del popolo, che la sola vista di un pantalone o di una testa acconciata alla Tito bastava ad aizzarlo al suo più alto grado. Si formarono degli assembramenti su tutte le piazze al largo Castello, al largo della Trinità, al largo delle Pigne, al mercatello, al vecchio mercato, a largo di Palazzo; infine dovunque vi era spazio eravi un palco, e su di esso predicava un frate col crocifisso in mano. Gli assembramenti ingrossavano enormemente; un lazzarone s’improvvisava capo, si metteva alla loro testa, e percorreva le vie di Toledo, di Chiaia, di S. Lucia, gridando: Viva il re! morte ai giacobini! morte ai francesi! Innanzi a questi attruppamenti, tutte le botteghe, tutte le finestre si chiudevano; e giunta la sera, si era in dicembre con un tempo piovoso e freddo, si accesero grandi fuochi, e intorno ad essi si passava la notte, bevendo, cantando ed urlando. La regina, guardando spesso dalle finestre, si spaventava anch’essa di questa tempesta, che contribuiva a sollevare, senza sapere, se sotto quegli impeti burrascosi non si sarebbe rovesciato anche il trono. Però alla vista di quella sollevazione generale, alle notizie che arrivavano dalle provincie, il re riprendeva un po’ di coraggio. Lasciava intravedere la possibilità di organizzare tutti i mezzi di resistenza che il fanatismo metteva a sua disposizione, e di aspettare i francesi. I contadini continuavano a far miracoli di fanatismo, e gli ufficiali dei prodigi di viltà. Tschudy, vecchio colonnello svizzero che comandava a Gaeta, ne aveva aperte le porte, malgrado la sua riputazione di imprendibile. Civitella del Tronto, fortezza situata in cima ad un monte inaccessibile, era difesa da uno spagnuolo, di cui non mi ricordo più il nome: dopo dieci ore di assedio, si arrese prigioniero di guerra con tutta la guarnigione. Il comandante Pricard, governatore del forte di Pescara, non aspettò nemmeno che l’assedio fosse incominciato: si arrese alle prime dimostrazioni ostili. Ma in cambio, i contadini abbruciavano, scannavano, massacravano tutto quanto cadeva loro nelle mani; si erano impadroniti della città di Teramo, che avevano ripreso ai francesi; il ponte fortificato di Teramo era caduto nelle loro mani; avevano spezzato la catena dei battelli che lo componevano, ed i battelli dispersi erano andati per la corrente. Una massa di volontari era uscita da Terra di Lavoro; percorreva la linea del Garigliano abbrucciando i ponti, imboscandosi intorno alle strade, assassinando i messaggieri, gli uomini isolati, e fin anche piccoli distaccamenti di soldati. D’altra parte; se Gaeta, Civitella del Tronto e Pescara si erano rese, Capua teneva fermo, e Macdonald aveva sofferto un rovescio sotto le sue mura; Duhesme era giunto innanzi a Capua con due ferite ancor sanguinose, il generale Maurizio Mathieu ebbe spezzato il braccio da un colpo di fuoco; il colonnello d’Arnaud era stato fatto prigioniero, il generale Boisregard era stato ucciso e Championnet usciva tutto ansante dalla Terra di Lavoro, pronunziando i nomi ancora ignoti di fra Diavolo e di Mammone, che più tardi dovevano diventar tanto celebri. Il prestigio si dileguava. Se i francesi erano sempre invincibili, per lo meno, non erano invulnerabili. Dicevasi, che l’armata francese raccoglievasi intorno a Capua, non già coll’intenzione di prenderla; ma per prepararsi una ritirata onorevole in mezzo a popolazioni sollevate. Tutte queste notizie davano coraggio a Napoli, il re era talmente amato, che non soltanto compensava l’impopolarità di Acton e della regina, ma la faceva anche dimenticare. Quella fuga del re che gli aveva fatto un torto immenso presso tutte le persone intelligenti, lo aveva reso ancor più caro a’ lazzaroni, i quali andavano ripetendosi a vicenda che il re, tradito dalla sua armata, era venuto a rifugiarsi in mezzo ai suoi cari lazzaroni. D’altra parte le persone intelligenti del partito del re, ve ne era ancora un certo numero a Napoli, dicevano che vi erano ancora quarantamila uomini almeno nelle mani di Mack e di Damas, che Naselli poteva ricondurne otto o dieci mila dalla Toscana, che le bande armate si erano sollevate all’appello del re, e correvano la campagna, e poteva ammontare a quindici mila uomini almeno. Tutta questa forza riunita a sessantacinque mila uomini almeno, appoggiata ad una città di cinquecento mila abitanti, ed alla triplice flotta inglese, portoghese e napolitana. Era evidente che in questo oceano di uomini, dieci o dodici mila francesi sarebbero tosto dispersi ed inghiottiti. Ma ciò non rassicurava ancora la regina, sentiva che oltre all’odio che aveva per i napolitani, i napolitani anch’essi l’odiavano, Acton aveva con essa il sentimento di quest’odio, inoltre fin dai primi momenti la paura si era impossessata degl’inquisitori di Stato, Castelcicala, Vanni, Guidobaldi, si sentivano circondati da vendette segrete, ognuno tremava per l’avvenire e creava un progetto di fuga. Nelson che rispondeva di tutto in Sicilia, non rispondeva di nulla a Napoli. Ma se il re fosse rimasto a Napoli nessuno avrebbe osato di lasciarlo. Bisognava dunque decidere il re con qualche spettacolo terribile che lo spaventasse, e lo cacciasse per così dire da Napoli. Non posso affermar nulla di quanto sono per raccontare, se vi fu delitto, fu deliberato ed eseguito fra la regina ed Acton; io non ne so nulla, e quasi direi che non ci credo nemmeno. Ho già detto una parola dell’imbarazzo che cagionava Ferrari per aver consegnato al re un dispaccio falso. Se in simili circostanze il re venisse a sapere che in un modo o nell’altro era stato ingannato, la sua collera poteva diventare terribile. Ho già raccontato che alla sera del 19 era giunto un dispaccio da Vienna. La regina che stava in guardia su tutto ciò che veniva da quella parte, lo sorprese. Se questo dispaccio fosse giunto nelle mani del re, gli avrebbe rivelato tutto. L’imperatore scrivevagli che agendo prematuramente aveva tradito la causa dell’Europa, e meritava di essere abbandonato al suo destino. Da quel momento Ferrari, che non era che giudicato, fu condannato, e la sua morte fu destinata a spaventare il re. Lo ripeto, in tutto questo affare, non parlo che per quanto ho udito a dire. Io pensava in silenzio su questo fatto, non potendo dire con certezza la verità, come in altre cose in cui presi parte. Credo di aver parlato di un certo Pasquale De Simone, che la regina teneva al suo servizio, e per questa ragione era chiamato lo sbirro della regina. Egli ricevette, si dice, cinque mila ducati, con ordine di spargerne una parte fra il popolo, e particolarmente fra gli uomini del porto ed i marinai. Si trattava di disfarsi d’un uomo che Pasquale de Simone indicava alla collera del popolo, trattandolo da giacobino. Al venti, verso le dieci di mattino, Ferrari usciva di palazzo, latore di un viglietto del capitano generale per lord Nelson. Pasquale de Simone lo aspettava alla via del Piliero, vale a dire sull’angolo della banchina in faccia al molo. Con un segno, fece conoscere ai marinai, indicando Ferrari, che era l’uomo in questione. I marinai risposero con un altro segno che avevano compreso. Ferrari senza alcun sospetto, saltò dalla banchina in una barca, ordinò ai due marinai di condurlo a bordo del bastimento di Nelson. Costoro vollero essere pagati anticipatamente. Ferrari diede loro quattro carlini: era pagarli ad esuberanza. I marinai pretendevano una piastra. — Badate a quel che fate, disse Ferrari, io sono corriere di S. M. — Tu? rispose un marinaio incoraggiato da un segno di Pasquale De Simone: ti conosciamo, sei un giacobino. Appena fu pronunziata questa parola, che era il segnale dell’assassinio, che venti coltelli brillarono, e l’infelice Ferrari cadde tutto crivellato dai colpi. Il giorno prima vi era stata una grande dimostrazione, che aveva poco confermato il re nella sua risoluzione di rimanere a Napoli. Una folla immensa di popolo si era riunita sulla piazza del palazzo gridando, Viva il re! morte ai giacobini! chiedendone i nomi per massacrarli dal primo fino all’ultimo, facendo comprendere che una volta sterminati i nemici interni, era facile distruggere i nemici esterni. A queste grida furiose di amore e di odio mandate dalla moltitudine, il re si era mostrato al balcone ringraziando il popolo col gesto e colla voce ed aveva mandato il Principe Pignatelli in mezzo a quella moltitudine colla missione di parlare ai suoi capi, e dir loro che la partenza del re, di cui si era parlato prematuramente era lungi dall’essere una cosa decisa, e che secondo ogni probabilità, se il re era sicuro di essere sostenuto dal popolo, egli resterebbe. E il popolo aveva gridato: — Per Dio e pel re siamo pronti a farci ammazzare dal primo all’ultimo! Questa dimostrazione aveva molto spaventato la regina e tutto il partito della fuga. Il giorno dopo, alla stessa ora, il re intese questo stesso sordo rumore, accompagnato da quegli urli e clamori, in cui dà la moltitudine di ogni paese e particolarmente quella di Napoli. Egli credette ad una dimostrazione inoffensiva, ed almeno offensiva soltanto in parole, e si pose come di solito al balcone. La folla veniva questa volta dalla parte del teatro S. Carlo, e trascinava qualche cosa di informe che il re cercava invano di distinguere. Si udivano queste grida: — Il giacobino! a morte il giacobino! Il re cominciò a comprendere che questo oggetto informe, seminudo e insanguinato, trascinato nel fango, poteva essere un uomo. Ma il corpo di quest’uomo, se in fatti era un corpo, non poteva essere che quello di un nemico. E il re Ferdinando era un poco dell’avviso del re Carlo IX, che diceva visitando il cadavere dell’ammiraglio: — «Il cadavere di un nemico non puzza mai.» Accolse dunque la folla col suo sorriso abituale ma per rispondere convenientemente a questo sorriso, la folla solleva il cadavere in piedi: il re dopo un momento di esitazione riconobbe Ferrari, e mandò un grido lasciandosi cadere, colle mani sugli occhi, su di un seggiolone. La regina aspettava questo momento, entrò, prese il re per un braccio, e lo condusse quasi a forza alla finestra. — Vedete, gli disse, si comincia dai nostri servitori, e si finirà con noi; ecco la sorte che è serbata a voi, a me e ai nostri figli. — Date gli ordini, e partiamo, gridò Ferdinando chiudendo la finestra e rifugiandosi nel suo appartamento. La partita era guadagnata. FINE DEL SESTO VOLUME. NOTE: [1] Posti fuor dalla legge. [2] Non si deve dimenticare che è la moglie dell’ambasciatore d’Inghilterra che parla, l’amica frenetica della regina Carolina. [3] Giuseppe Buonaparte abitava nel Palazzo Corsini. [4] I love you. — Vi amo. [5] Il principe Leopoldo. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 6/8 *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. 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Except for the limited right of replacement or refund set forth in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE. 1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied warranties or the exclusion or limitation of certain types of damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement violates the law of the state applicable to this agreement, the agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or unenforceability of any provision of this agreement shall not void the remaining provisions. 1.F.6. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate. While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. 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