The Project Gutenberg eBook of Memorie di Emma Lyonna, vol. 3/8 This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Memorie di Emma Lyonna, vol. 3/8 Author: Alexandre Dumas Release date: May 14, 2025 [eBook #76091] Language: Italian Original publication: Milano: Daelli e C, 1864 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 3/8 *** MEMORIE DI EMMA LYONNA DI ALESSANDRO DUMAS UNICA EDIZIONE AUTORIZZATA IN ITALIA. Vol. III. MILANO G. DAELLI e C. EDITORI MDCCCLXIV. Proprietà letteraria — G. DAELLI e C. Editori. STEREOTIPIA G. DASSI E C. TIP. GUGLIELMINI. MEMORIE DI EMMA LYONNA I. Dopo aver percorso una parte della Francia, il Belgio, la Germania, ci fermammo a Vienna il tempo appena necessario a sir William per presentare i suoi omaggi all’imperatore Giuseppe II, avendo avuto l’onore d’essergli stato presentato quattr’anni prima, quando era venuto incognito a Napoli, senza seguito, sotto il nome di un semplice gentiluomo: poscia partimmo per Venezia, Ferrara, Bologna e Roma. A Roma sir William si decise di cominciare a farmi conoscere la società italiana. Le ricerche archeologiche l’avevano più volte condotto, non dirò nella metropoli del mondo cristiano, ma nella capitale dei Cesari, e v’era in intrinsechezza con le famiglie più distinte. Vi arrivammo al principio della primavera del 1788. Pio VI occupava da tredici anni il trono di San Pietro, e ne avea settantuno. Il bell’Angelo Braschi, che, quando venne nominato Papa, succedendo a Clemente XIV, avrebbe volentieri preso il nome di Formoso II, tanto era vago dell’incarnato gentile del suo volto e dei suoi belli capelli biondi, era sempre l’adoratore della propria bellezza. — Si raccontano le cose più ridicole sull’ammirazione che egli aveva di sè stesso. Le cattive lingue, — e ve ne sono dovunque, anche a Roma, — dicevano del resto che Sua Santità dovea una certa riconoscenza a quella grande bellezza, non essendo stata estranea all’alta sua fortuna, alla quale avea anche contribuito con tutto il suo potere il decano del sacro Collegio, il cardinale Ruffo, che amava, dicesi, il giovane prelato di un amore, a trovar l’eguale del quale bisogna ricorrere alla storia antica, e che può essere paragonato a quello di Socrate per Alcibiade. Quella bellezza che avea cominciato la sua fortuna la continuò, — parlo sempre, ben inteso, come le cattive lingue di Roma. — Angelo Braschi, avendo perduto il suo protettore, tentò di supplirvi con una protettrice, e si fece l’amante della ganza del cardinale Rezzonico, nipote del Papa, che lo fece nominare gran tesoriere, carica che il buon Ganganelli gli tolse nominandolo cardinale. È vero che Clemente XIV non poteva fare altrimenti; il cappello toccava di dritto ad ogni gran tesoriere della santa Sede che usciva di carica, giustamente o ingiustamente. Angelo Braschi non tralasciò per altro di ringraziare Ganganelli della dignità, alla quale avevalo promosso; ma il papa vuolsi che così ingenuamente gli rispondesse: — Vi ho fatto cardinale, perchè volevo dare il posto di tesoriere ad un uomo, la cui probità non fosse posta in dubbio. Il ringraziamento era degno del favore. Braschi non stimò opportuno di rinnovarlo pel motivo che glielo avea fatto accordare. Quando arrivammo a Roma, mi si presentò una bella occasione per vedere Sua Santità, il quale, come si sa, _incontra le signore_, ma non le riceve. Difatti, quando qualche illustre straniera o qualche nobile dama romana desidera di vedere il sovrano pontefice, fa domandare un tale favore a Sua Santità, che generalmente risponde che passeggerà nel tal giorno, alla tale ora, nel giardino del Quirinale, se d’estate, o in quello del Vaticano se d’inverno. La dama si trova nel giorno e nell’ora indicati, sulla via che percorre Sua Santità, e riceve la benedizione pontificale. Ma nella mia qualità di protestante io non poteva nemmeno sperare un tal favore, e però giunsi per un mezzo ancor più semplice, ad ottenere questo onore. I direttori del collegio della Propaganda avevano ottenuto che Sua Santità assistesse ad una delle loro dispute accademiche: niente dunque di più facile a sir William dell’ottenere due posti per la sua qualità di ambasciatore. Essendo que’ posti riservati, non fummo obbligati di attendere nè metterci in coda, ma arrivammo all’ora precisa. Appena seduti, un gran romore annunziò l’arrivo di Sua Santità. Confesso che aspettavo con grande curiosità: sarebbe difficile, davvero, di vedere un vecchio più bello di Pio VI. I suoi capelli biondi erano diventati bianchi, ma aveano serbato la loro ondulazione elegante; il viso era troppo fresco per essere esente da ogni preparazione, ma i denti erano belli e l’occhio di una vivacità considerevole. Forse in quel giorno l’occhio era più vivo ed il viso più colorito del solito. Circolava a bassa voce la diceria che Sua Santità avea dato poco prima in uno di quegl’impeti di collera, che erano il terrore di tutti quelli che lo circondavano, e che la causa più leggera bastava a fare scoppiare. Pio VI avea ordinato al suo sarto un abito nuovo per la solennità cui dovea assistere; ma una malaugurata piega nei calzoni turbava la regolarità delle forme di cui era tanto altiero. Egli rimproverò questo difetto di taglio al povero diavolo con una vivacità, che costui cercava mitigare con una umile scusa; ma la scusa, per quanto umile, fu respinta con un vigoroso schiaffo. — Lo spavento più che il male fe’ svenire il colpevole, il quale non rinvenne se non dopo un copioso salasso. La seduta incominciò: tutto andò a meraviglia sino ai due terzi di essa: ma a questo punto, credendo di far piacere al sovrano pontefice, provandogli quanto la Chiesa fosse estesa, giacchè avea sudditi fin sotto la zona torrida, i direttori introdussero un giovane negro del Congo, che cominciò un discorso che mi parve eloquentissimo, ma che fu interrotto fin dal principio dell’esordio dal santo padre che si alzò ed uscì, dando segni visibili di malcontento. Dopo qualche secondo, la causa del suo cattivo umore fu conosciuta: egli non aveva badato nè alla bellezza del discorso, nè al Congo, nè al grado di latitudine ov’era situato. Egli non avea veduto che un negro bruttissimo, la cui antipatica figura avea ferito la suscettibilità de’ suoi organi visivi, ed era uscito raccomandando che per l’avvenire non gli mettessero più sotto gli occhi siffatti mostri. Ecco quanto aveano guadagnato i direttori del collegio della Propaganda con la loro delicata cortesia. È vero che qualche mese prima, il 6 ottobre 1787, — la data era rimasta come quella di un giorno di festa, nella memoria di tutti quelli che circondavano Sua Santità, — la Provvidenza avea accordato a Pio VI una grande consolazione. La principessa duchessa, la signora Costanza Onesti avea dato alla luce un maschio. — Chiamasi in Roma principessa duchessa la moglie di quel nipote del papa che vien fatto da lui principe duca: gli altri generalmente son tutti cardinali. La principessa duchessa, vale a dire la moglie del duca principe Onesti Braschi, era cara per molte ragioni a Sua Santità, per quanto lo si assicura, prima perchè sua nipote aveva sposato il principe duca, poi come figlia dell’amante del cardinale Rezzonico di cui egli stesso, il bel pontefice, era stato amante, vale a dire la bella Giulia Falconieri. Molti dicevano che la principessa duchessa era molto più stretta parente del papa di quanto egli stesso fingeva di credere; e di fatti Pio VI rifiutava quanto poteva quella paternità, trattenuto dai suoi principii religiosi che non gli vietavano di commettere adulteri, ma che ripugnavano all’incesto. Nell’occasione di questo parto, vi furono grandi feste a Roma, e tutti i cardinali e prelati testimoniarono la loro gioia e la loro divozione a Sua Santità, colmando di doni la principessa duchessa. Suo marito, che trovai alle conversazioni della principessa Borghese, le meno noiose di tutte le riunioni di Roma, — da questa tristezza generale escludo però quella del vecchio cardinale di Bernis ove si rinviene tutta la scioltezza della Francia che egli rappresenta, — era un uomo piuttosto bello della persona, di forme e d’aspetto atletico, nato per essere principe duca nella piccola città di Cesena. Era d’una ignoranza patriarcale, ed a Roma, quando si vuol parlare di un uomo arrivato all’ultimo grado dell’idiotismo, si dice che è bestia come il principe duca. La prima volta che venne dalla principessa Borghese, dopo il suo arrivo da Cesena, gonfio ancora della sua qualità di principe duca, e della genealogia che un dotto romano avevagli scoperta, ebbe bisogno di un bicchier di acqua e lo chiese alla padrona di casa. Il principe duca era appoggiato al caminetto. — Tirate due volte il cordone che vi sta dietro, disse la principessa, ed avrete quanto desiderate. Il principe duca obbedì senza comprendere; ignorava l’uso de’ campanelli, che del resto, inventati da madama di Maintenon, non datano, come si sa, che da un centinaio di anni. Fu dunque grande la sua meraviglia quando, appena tirato due volte il cordone, vide entrare il domestico con un vassoio di rinfreschi. Per soddisfare alla sua curiosità si dovette spiegargli il meccanismo dei campanelli, che, — rendiamo questa giustizia, — eccitò in grado tale la sua ammirazione che ne parlò per tutta la sera. La sua ammirazione, fu tale, che invece di ritirarsi a casa sua, si fece condurre al Vaticano, e risvegliò suo zio per farlo consapevole della scoperta che avea fatta. Il papa, che era coricato, tirò il campanello che pendeva accanto al letto, e disse al cameriere che accorse al romore: — Riconducete il principe duca, e prima di lasciarlo entrare a queste ore, informatevi se ciò che mi vuol dire val la pena di svegliarmi. Questa ignoranza si estende a tutto: una seconda volta lo incontrai dalla marchesa Bocca Paduli Gentili; si parlava di letteratura inglese e francese, di Shakespeare, di Ben Johnson, di Racine, di Corneille, di Molière. Il principe duca rimaneva a bocca aperta; non conosceva nessuno di questi signori, e li udiva nominare per la prima volta. Sir William, a proposito della tragedia _Maometto_ dedicata a Ganganelli, pronunziò il nome di Voltaire. — Ah! costui, esclamò il principe duca, saltando per la gioia sul suo seggiolone, lo conosco. È un frate tedesco che ha fatto molti torti alla Santa Chiesa. Il buon principe avea confuso Voltaire con Lutero. Del resto pareva che una fatalità attaccasse questo imbecille ai nostri passi. Il giorno dopo ci trovammo insieme a pranzo dall’ambasciatore di Vienna. Si parlava di Vienna e della galleria imperiale dei quadri. Il principe duca, preso da un bello entusiasmo artistico, esclamò: — S’io fossi a Vienna, passerei in quella galleria la mia vita, in contemplazione dinanzi alla _Notte_ del Correggio. Tutti si guardarono in faccia; tutti sapevamo che la _Notte_ del Correggio è stata acquistata da Augusto III, elettore di Sassonia, alla galleria di Modena, e che ora si trova a Dresda. Lord Hervey, duca di Bristol, vescovo di Derry in Irlanda, non volle lasciar passare, senza notarlo, un simile tratto d’ignoranza. — Affè, eccellenza, diss’egli, sono dolente di contraddire un uomo del vostro sapere, ma non esito punto ad affermarvi che siete in errore, e che il quadro, che vorreste a Vienna per contemplarlo a vostro bell’agio, non è a Vienna ma a Dresda. — Bene, gli rispose il principe duca, volete voi saperlo meglio di mio zio, che me lo ha detto, e che nella sua qualità di papa è infallibile? — Eccellenza, rispose lord Hervey, mi date una cattiva ragione; sono un vescovo protestante, e però non riconosco l’infallibilità di vostro zio. Ho accennato all’alterigia che sentiva il principe duca per la genealogia inventata espressamente per lui, e che lasciava indietro di molto quella inventata per il duca di Guisa dall’avvocato Nicola David, che lo faceva discendere da Carlomagno. Ecco il fatto. Angelo Bruschi è di famiglia povera ma nobile di Cesena. Sua sorella sposò un povero diavolo chiamato Onesti, negoziante, che non aveva la minima pretesa di salire nei cocchi del re di Francia. Ma quando il nipote del papa fu nominato principe duca, bisognava trovargli una prosapia degna del rango. Allora un genealogista lesse queste parole nella vita di S. Romualdo scritte in latino: «_Romualdus ex honestis parentibus natus_.» Il genealogista afferrò l’occasione pe’ capelli; prese l’epiteto _honestis_ pel nome di famiglia del santo, e fece stampare l’anno dopo un’opera, con un gran lusso tipografico, in cui si provava che S. Romualdo era nato da una famiglia Onesti, di cui il nipote del papa discendeva in linea retta. In virtù di questa genealogia incontestata, come si comprende bene, il primogenito del principe duca, il bambino la cui nascita ha prodotto, il 6 ottobre ultimo, una gioia così grande alla corte di Roma, ha ricevuto da suo zio al fonte battesimale il nome di Romualdo. II. Ho detto che le conversazioni romane erano molto noiose; avrei dovuto aggiungere per gli altri, perchè per me sono uno spettacolo talmente nuovo, che sono dilettevoli, anzi straordinarie. Le Romane sono belle di certo, ma più belle nel popolo che nell’aristocrazia: non è raro di trovare nelle trasteverine e nelle contadine dei dintorni di Roma, dei tipi che ricordano le Madonne di Raffaello; ma, ripeto, que’ tipi sono quasi tutti popolari. Delle nobiltà, le bellezze sono più rare, sicchè la mia apparizione ha fatto grande sensazione nelle sale di Roma. Fu quasi una rivoluzione fra i prelati ed i cardinali. Bisogna sapere prima, che cosa sia abitualmente una conversazione romana, quando un grande avvenimento come quello della mia presenza non vi porta il disordine e la confusione. Le conversazioni di Roma partecipano naturalmente dello spirito del governo e del sacerdozio; si passa il tempo in complimenti di etichetta, e se qualche volta si è interessato il cuore, lo spirito non lo è mai. Dovunque si resta impacciato; dovunque si trova la ritenutezza, la gaiezza non esiste nemmeno fra i giovani. La paura è in tutti i cuori, la diffidenza in tutti i volti, e invece di abbandonarsi a quell’espansione, come in Francia od in Inghilterra, si guarda, si osserva e si tace, perchè si ha paura. I forestieri non hanno simili paure, ma l’atmosfera gelata che li circonda li rende freddi: tutta la società somiglia ad un immenso pendolo, di cui sieno fermi i congegni e che tratto tratto riprendono a scosse i loro movimenti per poi fermarsi ancora. Per fortuna si giuoca e forte, ed io, quantunque buona giuocatrice, preferisco di studiare ciò che mi si presenta sotto gli occhi: per ritornare alle carte ho sempre tempo. Se la padrona di casa non gioca, s’impossessa di qualche eminenza o di un ministro, e discorre con lui finchè dura la serata: gli altri personaggi insigniti di una dignità qualunque fanno lo stesso, e questi colloqui a quattr’occhi per quanto siano numerosi, sono così serii e silenziosi, che in mezzo a cinquanta persone si sentirebbe una mosca a volare; l’immobilità di tutta quella gente mi ricorda quella dei senatori dell’antica Roma, seduti sulla loro sedia corule, aspettando la morte per mano dei Galli. Quando alla conversazione vi sono tre o quattro cardinali la cosa diventa molto incomoda per gli spettatori; queste illustrissime eminenze passeggiano continuamente, bisogna cedere loro il posto, salutarli profondamente quando vi passano per davanti, e guardarsi bene dal camminare sull’enorme coda del loro abito; i semplici prelati che li circondano camminano curvi come parentesi, ed applaudiscono ad ogni frase che l’eminenza si degna di lasciar cadere dalla sacra sua bocca. Il mio arrivo a Roma, e la mia presentazione nei loro circoli, ha rovesciato tutto. Le eminenze invece di passeggiare in lungo ed in largo, come l’ammalato immaginario di Molière, fanno circolo intorno a me; e siccome io parlo facilmente l’italiano e pochissimi parlano il francese e nessuno l’inglese, essi sono maravigliati di potermi fare i loro complimenti scipiti ed esagerati ad un tempo nella lingua dove il sì suona, come dice Dante. Uno dei più assidui a farmi la corte è il nostro lord Herney vescovo di Derry; e siccome egli mi parla in inglese, e se non ha dello spirito, ha della originalità nella sua conversazione, ridiamo alternativamente delle cose che diciamo; le eminenze e i monsignori sono molto imbarazzati. Fra tutte queste conversazioni, quella che trovai più aggradevole finora, è quella della principessa di Santa Croce. È vero che nel suo circolo intimo, ove grazie alla posizione di sir Hamilton sono stata ammessa, non si riceve che una società scelta composta quasi tutta dal corpo diplomatico. Avevo molto insistito per essere presentata alla principessa di S. Croce, sapendo che a dieci ore di sera si trovava alle sue piccole riunioni il cardinale di Bernis, e che desideravo di conoscere questo caro vecchio, di cui avevo letto le poesie, che egli chiama i suoi peccati di gioventù. Il cardinale di Bernis ha settantatrè anni, e non ha perduto nulla del suo spirito, direi quasi della sua giovinezza; egli porta qui il titolo di Protettore della Francia, dopo aver avuto parte alla diplomazia europea; si sa che ebbe assai presto gli ordini e prese il titolo di Abate; e venuto giovane a Parigi, si fece conoscere pei suoi versi galanti, piacque a madama di Pompadour, entrò nell’accademia a 29 anni, e dopo la morte del cardinale Fleury fece una rapida fortuna, fu nominato ambasciatore a Vienna e divenne cardinale. Fu egli che, come ministro degli affari esteri, firmò il trattato d’alleanza con l’Austria, e durante la guerra dei sette anni, cadde in disgrazia per aver consigliato la pace contro l’avviso di madama Pompadour; ma madama di Pompadour essendo morta nel 1764, il cardinale di Bernis fu nominato arcivescovo di Alby, e cinque anni dopo ambasciatore a Roma; nei primi anni della sua residenza ebbe una parte brillantissima, e quantunque la Spagna avesse riacquistato a Roma la principale influenza, il cardinale per le sue qualità personali ha mantenuto la Francia in una buona posizione. Noi fummo tosto presentati a Sua Eminenza, che ci invitò a pranzo pel giorno dopo. Sapevamo già che il pranzo del cardinale di Bernis era eccellente, e che contra l’abitudine sparsa nel servidorame romano, i suoi domestici non vengono il giorno dopo a farsi pagare dai convitati il prezzo del pranzo del giorno prima. Il cardinale vive splendidamente, tiene corte bandita, basta essergli stato presentato una volta per aver sempre il suo posto a tavola. Queste spese giornaliere, le feste che dà, lo sciupo che si fa in casa sua lo conducono, per quanto lo si assicura, in rovina, tanto più che la famiglia incaricata dell’amministrazione dei suoi beni in Francia, inventa ogni anno per dispensarsi d’inviaglierne i frutti, ora la siccità, ora una inondazione; le riparazioni assorbono poi ciò che il flagello avea risparmiato. L’amabile vecchio mi raccontava tutto ciò ridendo e vezzeggiando con me, dicendo; per fortuna che ho 73 anni, e che mi resterà sempre qualche cosa per andare alla fine. Ahimè, il degno uomo s’ingannò; rivocato tre anni dopo per la sua opposizione alla rivoluzione francese, spogliato di tutta la sua fortuna, passò da una rendita di cento mila scudi romani ad una strettezza che sarebbe diventata la miseria, senza il soccorso che gli fece ottenere dalla Spagna il cavaliere d’Azara suo amico. Noi incontrammo dal cardinale questo degno spagnuolo, sulla cui onestà e cortesia non v’ha che una voce sola in Roma. Egli e la sua corte, quella di Carlo III, trovavasi in contegno momentaneamente freddo con Sua Santità a proposito di un piccolo raggiro che gli aveva teso, e di che, malgrado le sue istanze, non aveva potuto ottenere giustizia. Ognuno sa, che la società di Gesù fu cacciata nel 1767 dalla Spagna e da Napoli, e finalmente soppressa nel 1773 da Clemente XIV, che sopravvisse soltanto due anni a questa soppressione. Benchè il re Carlo III fosse adirato contro i buoni padri, per aver fatto spargere la voce all’epoca della sua nascita, che egli non era figlio di Filippo V, ma del cardinale Alberoni, la sua vendetta erasi limitata a cacciarli dai suoi stati e a farli cacciare da quelli di suo figlio Ferdinando; ma continuava a pagare le loro pensioni in buone piastre spagnuole, che erano apprezzate in Italia, e specialmente a Roma, ove la moneta è orribilmente falsificata. Ora un bastimento carico di piastre inviate dalla corte di Madrid era arrivato a Civitavecchia. Queste piastre erano destinate al pagamento delle pensioni degli esuli. Pio VI le fece depositare alla zecca. Una volta lì, invece di distribuire ai buoni padri questo denaro, al primo titolo che era destinato per loro, egli lo fece fondere, vi mischiò un quarto di lega, e fece battere paoli, papetti, testoni e carlini, e pagò i padri di Gesù con questa miserabile moneta, guadagnandovi sopra, come ci assicurò Ienkena il banchiere di sir William, più del 25 per cento. I gesuiti ebbero bellamente a reclamare, e così pure il signor Azara; ma non fu loro resa giustizia tanto che inviarono una supplica al re Carlo III, pregandolo di farli pagare d’ora innanzi direttamente per mano dell’ambasciatore. Ma ciò è nulla in confronto di ciò che si racconta sui mezzi impiegati da Sua Santità per procurarsi del denaro, o piuttosto per aumentare la fortuna del principe duca e del cardinale Onesti suoi nipoti: tant’era Sua Santità roso fino alle ossa dalla cancrena del nipotismo. Si è al punto che Sua Santità, malgrado il suo potere temporale e spirituale, è in procinto di perdere un processo, che avrebbe guadagnato se non fosse che ingiusto. Per sventura è iniquo. Ecco il fatto. Vi era a Roma un facchino dei dintorni di Milano, che col suo lavoro, un vero lavoro da facchino, avea radunato la somma favolosa di 800,000 scudi romani, 4,400,000 lire di Francia. Questo facchino si chiamava Lepri. Aveva tre figli, Amasi, Giuseppe e Giovanni. Ripartì la sua fortuna fra loro tre, mettendo per condizione che la eredità di ciascun fratello che morisse senza figli maschi sarebbesi accumulata a vantaggio degli altri. Giovanni, il maggiore, morì senza figli poco dopo suo padre; Giuseppe, il secondo, morì lasciando una figlia per nome Anna Maria; rimaneva il terzo, Amasi, che erasi fatto prete, e per conseguenza non poteva esser nel caso d’aver figli maschi. Giustizia avrebbe voluto che tutta la fortuna ritornasse alla figlia, anche l’eredità del prete, perchè essa era sua nipote, e che nessuno dei defunti avea lasciato figli maschi. Al contrario il prete pretendeva che tutto veniva a lui e s’impossessò diffatti di tutta la fortuna in detrimento di Anna Maria, di cui egli non amava la madre. Anna Maria intentò un processo a suo zio. Allora il prete, abusando delle sua influenza, subornò i testimoni, ai quali fece deporre che Anna Maria non era legittima. Questa frode non ebbe altro risultato che di sollevare contro di lui la coscienza pubblica. Il processo giunse alle orecchie di Sua Santità, che fiutò un buon affare, ed incaricò un certo Nardini di andare ad offrire ad Amasi il cappello cardinalizio ed una rendita di cui si discuterebbe l’ammontare; si fece osservare ad Amasi che questa fortuna, essendo stata guadagnata interamente da suo padre negli stati di Sua Santità, era giustizia, che meno la porzione che gli sarebbe attribuita, ritornasse a Sua Santità. Amasi scorse in questa offerta un mezzo per soddisfare ad un tempo il suo orgoglio ed il suo odio: fece al papa una donazione di tutti i suoi beni, riportandosi alla sua generosità per il compenso. Il papa mise immediatamente il principe duca in possesso di questa fortuna; ma dimenticò di dare la rendita ed il cappello promesso ad Amasi. Amasi reclamò, ma inutilmente. Allora preso dal rimorso di aver fatto gratuitamente una cattiva azione, fece un testamento nel quale dichiarò che la donazione che aveva fatto a Sua Santità, era il risultato della frode e dei cattivi consigli, aggiungendo che egli aveva ceduto specialmente all’odio che portava alla cognata, di cui implorava il perdono, confessando il suo delitto e rivocando la donazione. Nardini, l’agente di Sua Santità, cui senza dubbio erasi dimenticato di pagar la sua mediazione, si unì ad Amasi, dichiarando che si pentiva di aver prestato il suo ufficio a Pio VI per compire un’azione abbominevole. Il testamento di Amasi e la confessione di Nardini furono tosto pubblicati; un mormorio scoppiava da tutte le parti; ma il papa si accontentò di rispondere, che la munificenza di Amasi era un miracolo di San Pietro, e che non spettava a lui di opporsi alla benevolenza, che il Santo conservava pei suoi successori. All’epoca in cui era avvenuto il fatto, il papa avea sessantun anni. Anna Maria e sua madre si limitarono di ottenere un consulto dei migliori avvocati di Roma, salvo ad aspettare la di lui morte, onde tentare il processo non già al papa ma al principe duca. Questa risoluzione spaventò Pio VI, lui morto non sarebbe più là a far preponderare con tutto il suo potere il disco della bilancia, che una vecchia tradizione mitologica mise nella mano della giustizia. Egli forzò dunque la pupilla a far valere i suoi dritti ed a intentargli un processo; ma l’interesse che ispirò la povera fanciulla che egli voleva spogliare divenne così generale, — tanto era evidente l’ingiustizia contro cui reclamava, — che i giudici avvisarono Sua Santità che non potrebbero fare altrimenti che conchiudere contro di lui, consigliandogli di entrare in trattative. Il papa, in conseguenza di ciò, fece delle offerte ad Anna Maria. La cosa rimase là, e si dice che Anna Maria accetterà la metà dei beni di suo avo, e lascerà l’altra metà al principe duca, che in tal maniera sopra 4,400,000 lire s’intascherebbe due milioni e ducento mila lire. Se questo non è forse un togliersi onorevolmente d’impaccio, è però un togliersi fortunatamente. III. S’intende che la mia passione pel teatro m’indusse, appena giunta a Roma, a pregare sir William di condurmi a qualche spettacolo drammatico. La mia curiosità era vieppiù eccitata dall’aver udito narrare che si ha qui la usanza di far rappresentare da’ giovanetti le parti di donna. Non so se si possono chiamar giovanetti gli esseri anfibî, cui son affidate le parti di donna. I Greci, adoratori ardenti della bellezza, inventarono l’ermafrodito, riunione di tutto ciò che è bellezza de’ due sessi, e che era ad un tempo Ebe e Ganimede. I Romani hanno inventato un essere a parte, che non è dell’uno nè dell’altro sesso, e che non è nè Ebe nè Ganimede. Per questi strani esseri i prelati romani fanno in ogni età le stesse pazzie che i nostri giovani _gentlemen_ fanno a Londra ed a Parigi per le donne da teatro. Sir William mi condusse al teatro Valle: vi si rappresentava l’_Armida_ di Gluck, e la parte d’Armida era sostenuta da un giovane cantante, che godeva allora di tutto il favore della prelatura romana. Quando entrò in iscena, — e confesso che se non fossi stata avvertita avrei giurato che era una donna, anzi una bella donna, — prima che avesse emesso una sola nota, tutto il teatro ruppe in applausi. Gravi prelati, vecchi cardinali, il cui rigido aspetto m’aveva colpita, mi parvero voler svenire di giubilo nel momento che quel... — non so veramente come dire, — quell’_oggetto_ uscì dalle quinte. Il suo trionfo fu completo. Avevamo nel palco il cardinal Braschi Onesti, fratello minore del principe duca: riavutosi da un lungo malore, che aveva messo Roma in lutto, aveva pensato che una passione per quel novello Sporo non avrebbe nulla di pericoloso per un convalescente. Ci narrò, pavoneggiandosi, che il morbo, di cui era stato afflitto, era stato prodotto da un rifinimento completo di forze venutogli dopo un’orgia, in cui aveva scommesso di tener testa a cinque de’ più grandi beoni ed alle cinque più belle cortigiane di Venezia. Era stato in pericolo di morte, ma aveva guadagnato la scommessa. Il cardinal Braschi Onesti era uno de’ più assidui adoratori della meraviglia in voga, ed offrì al cavalier Hamilton di condurlo nel palco della bizzarra Armida, e di farlo assistere alla toeletta della maga, che mutava vestito fra il secondo ed il terz’atto. Gli chiesi se le dame solevano andarvi. Mi rispose che non era l’usanza, ma che certo, come forestiera, sarei perfettamente accolta dal signor Veluti, — era il suo nome; — soprattutto se volessi accondiscendere a fargli qualche complimento, chè, del resto, il signor Veluti adorava le belle donne. Il cardinale ci fece aprire la porta del teatro. Traversammo il palcoscenico e penetrammo nel corridoio che menava al suo camerino. V’era folla all’uscio; il corridoio era ingombro. Ma alla vista del cardinal nipote, la calca s’aprì, gli adoratori secondari si ricantucciarono al muro, e ci lasciarono passare. Entrammo in un camerino tutto parato di raso cilestrino, che poteva per l’eleganza gareggiare col gabinetto d’una damina. L’idolo era innanzi all’ara, cioè innanzi alla toletta: accolse il cardinal nipote col più seducente sorriso, e gli chiese come osasse presentarglisi, senza portargli un mazzolino o un cartoccio di confetti. Il cardinal Braschi Onesti si cavò dal dito mignolo un anello del valore d’un migliaio di scudi romani e lo passò all’indice del signor Veluti, pregandolo d’accettar invece quella gemma. Venuto al teatro con l’ambasciadore e l’ambasciatrice d’Inghilterra, non era certo di poter andare a riverirlo; ma, avendo sir William Hamilton e Lady Hamilton bramato veder il gran cantante che avevano applaudito, egli aveva colto quell’occasione per andargli a dir l’immenso diletto che aveva risentito durante il primo atto d’_Armida_, e ci presentò il signor Veluti, che si degnò far a sir William Hamilton l’onore di dargli la sua mano a baciare ed a me quello d’invitarmi a sedere. Sia che l’esser forestieri fosse per noi una raccomandazione, sia che fosse lusingato dal ricever la visita dell’ambasciadore d’una potenza straniera di prim’ordine, il signor Veluti fu per noi amabilissimo, mi fece gli occhietti teneri, e ci disse che, ove lo permettessimo, si terrebbe fortunato di renderci la visita. Ci guardammo bene dal rifiutar un tanto onore. Poscia, occupandosi particolarmente di me, mi pregò di dirgli il nome della pomata con cui mi ungevo le labbra, e del liquore con cui mi rinettavo i denti. Gli risposi, che mai pe’ denti m’ero servita di altro che d’acqua pura, e che le mie labbra erano naturalmente del colore ch’egli le vedeva. Il signor Veluti gridò impossibile un tanto miracolo; prese il lume e mi chiese licenza di guardarmi da vicino le labbra ed i denti, disamina a cui mi prestai con la maggior possibile cortesia, e dopo la quale il signor Veluti esclamò che ero la più bella donna che avesse mai veduta. Poscia, pensando con questo elogio avermi pagato il suo tributo d’ospitalità, si rimise alla toletta, vezzeggiandosi co’ suoi adoratori, e tratto tratto dicendo qualche amena facezia, subito applaudita dagli astanti. Era curioso di veder l’affaccendarsi di quelle persone, appartenenti tutte, o quasi tutte almeno all’alta prelatura per ottenere uno sguardo, un sorriso, una parola dalla falsa Armida. Uno teneva pronta la corona di rose; l’altro la verga magica; questi il velo, che doveva non coprire ma lasciar trasparire i suoi vezzi; quegli la mantellina, che doveva preservar quella voce celeste dalle correnti d’aria che avrebbero potuto offenderla. Io era presente; guardavo, ascoltavo, udivo, mi pareva sognare; sorridevo macchinalmente a que’ segni di rispetto, dati, da uomini creduti dal popolo venerabili, a quell’idolo, che aggiungeva un nuovo incredibile nume allo stuolo innumerevole di false divinità, raccolte nel Panteon delle eresie umane. Venne il momento d’entrar in iscena; il campanello del buttafori si fe’ sentire pel volgo degli artisti; ma pel signore o la signora Veluti, — come, vorrete, — l’invito fu fatto a viva voce, con tutti i segni d’ossequio dimostrati ad una vera regina. La bella Armida non si scusò se non con me sola della sua assenza forzata; poscia, toccandomi con la verghetta: — Non posso farvi più bella che non siete, mi disse; ma posso fare per voi ciò che la sibilla di Cuma, che andate a visitare, aveva obliato di domandar ad Apollo di fare per essa. Posso con la mia arte magica far che restiate bella eternamente. Poi, pronunziando alcune parole, che avevano la pretesa di esser cabalistiche, la maga mi fece un inchino femminile e s’allontanò, dondolandosi e solfeggiando note, alla cui nettezza e finezza debbo dire che nulla potevasi riprendere. Uscii muta di stupore e tornai nel palco, posto tanto vicino al teatro da poter io esser riconosciuta dal signor o dalla signora Veluti, che ebbe la bontà, durante tutto il resto della serata, di darmi segni della sua attenzione, sia volgendomi i suoi più difficili trilli, sia ferendomi de’ suoi sguardi più assassini. Il domani ricevetti la visita del conte di Bristol, al quale narrai gli avvenimenti favolosi del giorno innanzi. Si mise a ridere, e mi riferì che a Roma esisteva nell’alta prelatura un ottavo peccato capitale, detto il _peccato nobile:_ i prelati protestavano contro quest’accusa, ma con tanta debolezza, tanta indolenza, con fatuità tanto strana, che mostravano compiacersi più che dispiacersi dell’accusa. È vero che con lui, inglese e vescovo protestante, si stavano sul sostenuto, ma ciò non toglieva che monsignor Bristol non avesse su questo punto dei costumi romani i particolari più curiosi e più incredibili. Qualunque fosse la mia curiosità di rivedere da vicino ed in piena luce il signore o la signora Veluti, non permisi che il moderno Sporo entrasse in casa mia quando, alle cinque del pomeriggio, si presentò all’uscio in un elegante abito d’abate: gli feci rispondere che i preparativi della partenza mi obbligavano a sospendere ogni ricevimento. Ma la notte stessa, che precedè quella partenza accadde un fatto curioso, che darà un concetto della polizia di Roma e della giustizia di Pio VI. A cinquanta passi da noi, sulla piazza di Spagna, un furto era stato tentato alle due dopo la mezzanotte, a danno d’un tal Rovaglio, orologiaro del Vaticano. L’orologiajo, suo figlio e due servi s’erano difesi; uno de’ ladri era rimasto sul luogo, e l’altro era stato trovato spirante al canto di via del Babbuino. Il domani si seppero i seguenti particolari, e come Rovaglio s’era fatto giustizia da sè. Non era la prima volta che i ladri tentavano introdursi nel magazzino di Rovaglio, che sapevasi riccamente fornito d’orologi e gioielli: due volte già aveva respinto, strepitando dentro il magazzino, due tentativi di rottura. Ogni volta era andato ad avvertire la polizia; ma il prelato Busca, incaricato del ripartimento della Pubblica Sicurezza, aveva risposto con belle parole, ma senza far nulla contro i ladri. Vedendosi così abbandonato dall’amministrazione che avrebbe dovuto proteggerlo, Rovaglio, andando un giorno a dar corda agli orologi del Vaticano, incontrò il Santo Padre e gli narrò tutto, chiedendogli soccorso contro gl’industrianti, che volevano a mano armata prender parte al suo commercio. — Mio caro Rovaglio, gli rispose il papa, duolmi profondamente il fatto vostro; ma non vi posso nulla; giacchè monsignor Busca non vuol proteggervi, non lo posso obbligare; ma proteggetevi da per voi. — Come, Santità? chiese Rovaglio. — Appiattatevi co’ vostri figli e co’ servitori, con fucili, pistole e tromboni, sia nel magazzino, sia fuori, e quando que’ furfanti torneranno per derubarvi, fate fuoco: tanti ne ucciderete, tante assoluzioni vi do anticipatamente. Rovaglio aveva seguito il consiglio del papa, s’era protetto da sè stesso, ed aveva ucciso due banditi. Il papa gli tenne fede, e pubblicamente gli diè l’assoluzione di que’ due delitti. IV. Non posso lasciar Roma senza fare qualche osservazione sugli uomini e sugli avvenimenti; la differenza dei nostri costumi settentrionali con quelli del mezzogiorno si impresse tanto profondamente nella mia memoria, che, dopo trent’anni, il ritratto degli uomini ed il racconto degli avvenimenti si presenta spontaneo sotto la mia penna, e così somigliante e fedele, come se avessi scritto, passando da Roma nel 1788, le pagine che seguono. Ciò che mi colpì prima di tutto arrivando a Roma fu la differenza dei prezzi d’ogni cosa; una cittadina costa a Londra una ghinea al giorno, a Parigi diciotto lire, a Roma sette od otto. La stessa proporzione vale anche per gli alberghi; a Londra un appartamento appena conveniente costa una ghinea al giorno, a Parigi quindici lire, ed a Roma appena dieci. Ciò che costa caro a Roma non è nè la vettura, nè l’alloggio, nemmeno il vitto, è vero però che si mangia assai male; ma è la _buona mano_, vale a dire le mance; qui non si può fare una visita ad un nobile cardinale o prelato senza che i domestici in corpo non si presentino da voi il giorno dopo per chiedere le loro mance; un arcivescovo di Vienna aveva incaricato sir William di far ricapitare un piego al cardinale Buoncompagni. Sir William, che non aveva nessun motivo di vedere questo prelato, quantunque fosse il fratello del principe regnante di Piombino, fece consegnare dal suo cameriere il piego alla porta del suo palazzo, mentre passava per la via. Il giorno dopo un mascalzone vestito della livrea del cardinale venne ad augurare il buon giorno a sir William da parte del suo padrone e sua chiedendogli la buona mano. Sir William gli rispose che non avea fatto per nulla una visita al cardinal Buoncompagni, ma per pura compiacenza gli aveva fatto consegnare il piego di cui erasi incaricato, e che per conseguenza spettava invece al cardinale Buoncompagni di dare la buona mano al suo cameriere, anzichè a sir Hamilton di dare la mancia al domestico del cardinale. Ma quegli insistette, sir William gli fece chiudere la porta sul naso. Il banchiere di sir William Hamilton a Roma è un uomo troppo straordinario, perchè io non ne dica qualche parola alla sfuggita. Egli si chiamava Tommaso Ienkens, era di nazione inglese, ed avea incominciato a studiare la pittura ma accorgendosi che sarebbe rimasto sempre un artista mediocre, si accontentò, esercitando sempre la professione di banchiere, di essere un abile conoscitore assai versato nella teoria di tutto ciò che concerne la pittura ed il disegno; era pure un distinto archeologo, i cui giudizii erano considerati quasi come infallibili in materia di cammei e di pietre incise. L’antichità gli era famigliarissima, e nessuno meglio di lui poteva dare una spiegazione ragionata di un basso rilievo, di una statua, di un busto, per quanto fosse mutilato o guasto l’oggetto d’arte pel suo soggiorno nella terra, o dallo strumento dell’operaio che lo avea disseppellito; per terminare il suo elogio dirò che egli era soventi volte consultato dal cardinale Alessandro Albani, che non bisogna confondere col cardinale Francesco, dal celebre Winkelmann autore della storia dell’arte presso gli antichi, dall’illustre Raffaele Mengs, uno dei migliori pittori della scuola moderna morto or son dieci anni. Questa riunione del commercio di statue, cammei, medaglie con quello di banchiere, ha reso Ienkens uno dei capitalisti più ricchi di Roma. Sir William prese da lui, non soltanto il denaro che gli abbisognava per continuare il viaggio, ma comperò due o tre anelli dei più belli, e dei cammei dei più preziosi di cui mi fece dono. Allora testimone della maniera con cui Ienkens vendette quel ricordo, mi si impresse nella mente la cosa in modo incancellabile. Se si vuole comperare da lui una medaglia, Ienkens comincia a farvi la storia di ciò che rappresenta, e con un elogio pomposo espresso colla più grande passione, vanta la rarità e la singolarità dell’oggetto che voi desiderate, con che egli si permette di dimandare un prezzo considerevole. Poi se contro la sua aspettazione voi gli dite il prezzo richiesto, comincia a sospirare, a versare delle lagrime, e finisce col singhiozzare; un padre che si vedesse togliere la sua unica figlia da un marito che parte per gli antipodi, non esprimerebbe un dolore più vivo. Io era presente quando sir William acquistò i gioielli che destinava per me, e confesso che egli ne era commosso alle lagrime. Mylord, diss’egli a sir William, che quantunque cavaliere avea soltanto diritto al titolo di sir, se vi pentiste una volta dal negozio che avete fatto adesso, riportatemi quegli anelli e quei cammei e le medaglie, che mi troverete pronto a rendervi il prezzo integrale; riportandomi quegli oggetti inestimabili, voi mi ridonate tutta la felicità e la consolazione dei miei giorni. Ed è strano che preso talvolta in parola, Ienkens non ha mai mancato di mantenerla e di restituire integralmente il denaro che aveva preso esprimendo la gioia più viva di ritornare in possesso dell’oggetto rimpianto. Fosse calcolo, oppure vera passione da archeologo, che come Cardillas non può separarsi dal suo tesoro, la fedeltà di Ienkens nel mantenere la sua parola assicurava sempre il compratore che non credeva mai di pagare una cosa dippiù del suo valore, dal momento che sapeva che riportandola al venditore gli veniva rimborsato il prezzo a vista. Io ho una certa pretesa di esprimere colla mia fisionomia le differenti impressioni dell’animo; ma confesso, che se invece di sentire un vero dolore, separandosi dai suoi cammei e dalle sue medaglie, Ienkens rappresentava una commedia studiata, mi lasciava molto indietro da lui nell’arte del ridere e di versare lagrime. Noi venimmo un’altra volta di passaggio a Roma, ma senza fare più intima conoscenza con lui. Credo questo il momento di presentare ai miei lettori un prelato, che più tardi ebbe una parte così importante alla Corte di Napoli. Voglio parlare del gran tesoriere di Sua Santità monsignor Fabrizio Ruffo. Monsignor Fabrizio Ruffo era il nipote del cardinal Ruffo, decano dal Sacro Collegio, che spinse non senza cattivi fini sulla grande amicizia che gli professava, il bel Angelo Braschi nella carriera della prelatura. Rendiamo questa giustizia a Sua Santità, che conservò sul trono di S. Pietro una riconoscenza così grande a chi gli avea facilitato la via, che la prima sua cura, essendo diventato papa, fu di dare al nipote del cardinale defunto lo stesso posto che egli Braschi aveva in addietro ricevuto da Rezzonico colla protezione della bella Giulia Falconieri. Nominò il giovane Fabrizio Ruffo gran tesoriere, carica che dal momento che ne esce dà diritto al cappello di cardinale. Monsignor Ruffo passava in Roma per un uomo di grande ingegno, e che non era straniero nell’arte dei Folard e dei Montecuccoli; egli aveva pure l’abitudine di dire che, se egli fosse nato al tempo dei Lavalette e dei Richelieu, avrebbe portato più spesso l’elmo e la corazza che il berretto e la mantellina di porpora. Monsignore Ruffo, grande amatore del bel sesso, pel quale non dissimulava punto le sue tendenze, teneva al contrario in grande disprezzo i cantori-cantatrici, ossia le cantatrici-cantori. Quando eravamo allora a Roma, egli facea la corte più assidua ad una signora Lepri, parente di quell’Anna Maria, di cui abbiamo raccontato la persecuzione; e poichè egli non nascondea nulla, i suoi amori erano noti a tutti; ciò gli valse l’onore di essere celebrato nei versi satirici, il cui autore, il gazzettiere di Firenze, è stato punito con una lunga sospensione. Dopo il famoso satirico condannato alle galere da Sisto V non erasi veduto l’esempio di tanto rigore. E poichè ho fatto allusione ad un aneddoto molto conosciuto a Roma, ma molto ignorato altrove, forse gli è bene, come quadro di costumi, che io giri una parentesi e che lo racconti. Sotto il pontificato di Sisto V un poeta, nominato Marera, fece una satira contro alcuni alti funzionari, i quali se ne lagnarono al papa. Costui severo, ma equo giustiziere, mandò pel poeta, e l’interrogò sul motivo che aveva di permettersi un simile libello; dopo molte spiegazioni che non soddisfecero che mediocremente Sua Santità, quantunque gli avessero attirato parecchie volte il sorriso sulle labbra, gli chiese come avesse potuto designare sotto il suo nome e come cortigiana una donna, il cui nome al contrario era quasi un simbolo di virtù. — Avete motivo di lagnarvi di lei? gli chiese Sisto V. — No, Santo Padre, rispose il poeta, per nulla affatto. — Ma allora, perchè l’avete avvilita colle vostre calunnie? — Avevo bisogno di una regina, ed il suo nome me la diede. Sisto V si morse le labbra. — E voi, signor Poeta? come vi chiamate voi? dimandò egli. — Marera, per servire Vostra Santità, rispose il poeta. Ebbene, farò io dei versi; e poichè il vostro nome mi fornisce una rima, provo a rimare così: Vi sta ben signor Marera Di far versi alla galera. La sentenza pronunciata dal papa ebbe il suo effetto, ed a tutte le sollecitazioni che furono fatte in favore del colpevole, Sua Santità rispose: — Per mia fè, rime e ragioni vanno tanto difficilmente d’accordo, che per una volta che vanno d’accordo, è bene che l’avvenimento sia constatato e faccia epoca. Ed il signor Marera andò a rimare nelle galere di Civitavecchia, ove morì, lasciando due volumi di poesie inedite, che furono perdute per la posterità, nessun editore avendo avuto l’ardire di pubblicarle. Il giorno prima della nostra partenza, sortendo dal teatro Valle, la sera essendo ancor lungi dall’essere terminata, siamo stati a presentare i nostri complimenti d’addio al caro cardinale di Bernis, che Voltaire avea battezzato col nome di _Babes la Bouquetière_. Vi abbiamo trovato il conte di Bristol, vescovo di Derry, che vi veniva colla stessa intenzione. — Vostra altezza lascia dunque Roma? domandai io a questo singolare prelato, la cui originalità mi aveva colpito. — Eh mio Dio, sicuramente, mia bella compatriota, la grazia mi ha illuminato. — Quando parte vostra altezza? — Dimani. — Per qual paese? senza indiscrezione. — Lo saprete dimani. Il giorno appresso venne da noi dopo la nostra colazione, domandò un colloquio a sir William. Sir William entrò con lui nel gabinetto. Cinque minuti dopo ne uscì ridendo, traendolo per mano. Cara Emma, diss’egli, ecco milord Hervey che pretende di essere diventato ad un tratto talmente innamorato di voi, che non saprebbe separarsi dalla vostra cara persona senza morirne di dolore. — Egli ci chiede in conseguenza il permesso di accompagnarci a Napoli; ed io, presumendo che non vogliate la morte di uno dei nostri pari più illustri e di uno dei più alti dignitari della nostra chiesa, ho annuito per mio conto alle sue preghiere. E sua altezza non attende altro che il vostro consenso per essere il più altiero degli uomini ed il più felice de’ vescovi. Siccome i 78 anni di monsignore di Bristol non mi facevano una grande paura, non credetti per una dimanda così innocente di mettermi in opposizione per la prima volta con sir William Hamilton. Diedi la mano a monsignor di Bristol che la baciò con dimostrazioni di gioia la più viva, e fu convenuto che da questo momento egli era addetto all’ambasciata d’Inghilterra col titolo di cavalier servente. V. Partimmo da Roma con due vetture da posta ed un forgone, e prendemmo la via di terra a rischio d’essere svaligiati: ma debbo dire per verità che avevamo nei sei domestici del conte di Bristol ed i due nostri, tutti inglesi forti e coraggiosi, una scorta bastevole a difenderci. Per me specialmente, che ho sempre avuto il desiderio di accrescere il circolo delle mie povere conoscenze, era un gran piacere il viaggiare con sir William Hamilton. Sir William Hamilton, molto istruito nelle cose di antichità, aveva passato tutta la sua scienza al vaglio di una sana critica, di maniera che quando vi raccontava un fatto, vi citava una data, vi descriveva un monumento, potevate credere ad occhi chiusi a tutto ciò che vi diceva. Uscimmo da Roma per la via Appia, l’antica porta Capena, lasciando alla sinistra nostra la valle d’Egeria, il circo di Caracalla, la tomba di Cecilia Metella, ed alla nostra diritta le catacombe di S. Sebastiano ed i monumenti della famiglia Aurelia. Sir William fece fermare le nostre vetture davanti alla tomba della figlia di Metello il Cretico, ove riposano le ceneri di questa giovane ed intelligente donna, che aveva vissuto nei bei tempi di Roma, che aveva conosciuto Cesare, Pompeo, Cicerone, Clodio, Catullo, Ortensio, Lucullo, Catone, e li avea adunati forse un giorno intorno al suo focolare, prima che fossero separati dagli odii irreconciliabili della guerra civile. Malgrado i settantadue anni del mio cavalier servente, il conte di Bristol discese, e volle assolutamente salire fino in cima alla tomba di Cecilia Metella per cogliermi un ramo di melograno selvatico Che talliva in quelle rovine. Arrivando ad acqua Ferentina sir William ci fece vedere il luogo dove Clodio era stato ferito mortalmente dai gladiatori di Milone. Arrivati a Genzano, lasciammo per un istante le nostre vetture, ed accompagnati da quattro delle nostre guardie del corpo colla carabina in ispalla, salimmo fino al lago di Nemi, uno dei laghi più simpatici della campagna romana, che il monte Gentili separa dalle rovine invisibili di Alba Lunga. Il conte di Bristol, cui il suo amore per me sembrava aver reso le sue gambe di vent’anni, non ci lasciava nemmeno un minuto, camminandoci a fianco quando non ci precedeva. L’escursione durò un’ora circa: riprendemmo posto nelle vetture, e per una china assai rapida ci dirigemmo verso le paludi Pontine, che Pio VI si occupava di prosciugare, non già pel bene pubblico, nè per la salubrità di Roma; ma per aumentare i dominj territoriali di suo nipote il principe duca. A metà di questa discesa noi incontrammo un cocchio, che da lontano avevamo riconosciuto come appartenente a qualche sommità della Chiesa. — Nel passargli vicino riconoscemmo monsignor Ruffo. Egli ci fece fermare per chiederci se potessimo dare un bicchier d’acqua fresca ad un infelice colpito dalle terribili febbri delle paludi Pontine, che egli conduceva a Roma nella sua carrozza: egli l’aveva trovato coricato a piedi di un albero, l’aveva preso sulle sue spalle, e postolo nella carrozza, lo conduceva a Roma per farlo curare. Nella sua qualità di gran tesoriere, il cardinale Ruffo andava sovente a visitare i lavori che Pio VI faceva eseguire, e a pagare gli operai. Era in una di queste corse che ebbe l’occasione di fare la buona azione di cui fummo testimoni. Gli odii ciechi delle guerre civili resero per un certo tempo Hamilton, Nelson e me nemici personali del cardinale Ruffo. — Ma oggi che gli odii si sono calmati, che scrivo colla destra sulla carta e colla sinistra sulla coscienza, debbo dire che il cardinale, capace di azioni del genere che noi abbiamo raccontato, prese spesso, contro la cieca vendetta, cui pel riposo dell’animo mio ebbi sventuratamente una parte troppo attiva, il partito dell’umanità. Del resto, venuto il giorno di raccontare avvenimenti terribili, gli renderò tutta la giustizia. Noi gli demmo l’acqua che desiderava pel suo febbricitante che ad ogni istante chiedeva da bere. Avevamo nel nostro forgone un’intiera cantina. Il gran tesoriere ci lasciò dicendoci che probabilmente ci saremmo riveduti a Napoli. Diffatti il cardinale è napolitano, nato da una grande famiglia a S. Lucido in Calabria; la sua nobiltà era proverbiale. Si dice in Italia, quando si vuole parlare di nobiltà antica ed incontestata, gli Evangelisti a Venezia, i Borboni in Francia, i Colonna a Roma, i Sanseverino a Napoli, i Ruffo in Calabria. Continuammo la nostra via verso Terracina, ed egli la sua per Roma. Nulla di più pittoresco di questa via delle paludi Pontine, ai due lati della quale gli operai di Sua Santità scavavano un canale. Non si vedevano che figure scarne e malaticcie; tutti quei disgraziati erano più o meno colpiti dalla malaria; ogni quindici giorni si era obbligati sostituire con operai freschi, mentre quelli andavano sulle alture a riacquistare la salute che venivano a perdere nelle paludi. Fu specialmente quando venne la notte che il paesaggio prese un carattere completamente fantastico: la luna scorrea in mezzo a grossi nuvoloni neri, e rischiarava certe parti delle paludi per lasciarne altre nell’oscurità più profonda. Al rumore che faceano galoppando i nostri cavalli, e la frusta dei nostri postiglioni, dei grandi uccelli della specie delle ardee e dei milvi s’innalzavano silenziosamente dagli alti erbaggi e dalle pozze d’acqua, in mezzo alle quali respiravano con rumore sollevando le schifose loro teste e le loro narici, dei grandi bufali che la notte rendeva ancor più giganteschi. Era la prima volta che vedeva questi mostri di notte ed in libertà; io scorsi in loro un aspetto selvaggio e primitivo che mi metteva i brividi, mio malgrado. Ma era specialmente allo scambio de’ cavalli che tutto ciò, che ci attorniava, prendeva un tale aspetto che non mi dimenticherò mai. Nelle paludi Pontine non vi sono villaggi, ma soltanto due o tre rilievi postali accanto a qualche capanna di legno, ove dormono gl’infelici postiglioni e le loro famiglie. I cavalli piccoli, magri, pelosi, non sono chiusi nelle stalle, ma pascolano sciolti. Al rumore della frusta dei nostri condottieri, vedemmo uscire come ombre cinque o sei uomini armati di lunghe pertiche; saltavano a dorso nudo sul primo cavallo che incontravano, e formando un cerchio intorno a quelli che pascolavano in libertà, li riconducevano al galoppo con grandi gridi verso la capanna. — Colà altri uomini appostati li afferravano pel naso e per la criniera, e dopo una lotta ostinata finivano col metter loro una bardatura che andava a pezzi, colla quale si attaccavano alle nostre vetture fra i nitriti, gli scalpiti e gli sbuffi che erano altrettante proteste contro le violenze che loro si facevano. Poi quando le tre vetture erano attaccate, in mezzo alle grida ed alle vociferazioni degli uomini e degli animali, i cavalli tenuti pel freno e per le narici erano abbandonati a loro stessi, e partivano di un galoppo furioso, accompagnati a dritta ed a manca da due cavalieri, che unitamente ai postiglioni mantenevano, colle loro eccitazioni ed i loro colpi, le vetture in mezzo alla strada. Non erano più tre veicoli o forgoni di posta; erano valanghe, turbini, uragani, che non traversavano lo spazio, ma divoravano la via. Arrivammo a Terracina verso le tre ore del mattino. Ci riposammo un paio d’ore sopra delle sedie; la dubbia nettezza dei lini ci aveva fatto rifiutare il letto. Verso le sei di mattina ci mettemmo di nuovo in cammino per fermarci a Mola di Gaeta: mentre i domestici di monsignor di Bristol toglievano la colazione dal forgone e la disponevano sulla tavola, ci facemmo condurre alle rovine della Villa di Cicerone; col Plutarco in mano sir William ci fece assistere alla morte del grande oratore, dal momento che mise il piede in terra in mezzo ai corvi che l’accompagnavano ostinatamente, presagio di morte vicina, fino a quello che, fuggendo dalla villa per la via che conduce al mare, fu ucciso. Udiva dietro lui il passo degli assassini che lo perseguitavano, fece fermare la sua lettiga, e dopo aver vissuto tutta la sua vita fra gli spaventi della morte, morì colla calma di un martire e la tranquillità di un eroe. Questa paura, che faceva fare ai Romani tutte le bassezze, e che al momento in cui finalmente trovavansi in faccia alla morte, che tutto avevano tentato per evitare, li abbandonava per far luogo alla più strana intrepidezza. Era una delle particolarità dell’antichità. — Veggasi la morte di Petronio, Lucano e Seneca, questi tre adulatori di Nerone. In meno d’un’ora arrivammo a Mola di Gaeta. Facemmo colazione, poi riprendemmo la nostra corsa per Napoli, ove arrivammo verso le nove di sera per la via di Capua. Una sensazione non meno indelebile, ma di un genere tutto opposto a quella delle paludi Pontine, mi colpì al mio arrivo a Napoli, quando mi trovai in una notte limpida in faccia al Vesuvio fumante; sopra al cratere sorgeva la luna nella sua pienezza e nel suo splendore, che pareva una palla infocata lanciata dalla bocca d’un mortaio sur un’atmosfera vaporosa. Noi passammo per Porta Capuana, Castel Vecchio, la marina, il Piliero; lasciammo a manca Castel Nuovo, e la piazza Medina a destra, indi passammo innanzi al portico di S. Carlo illuminato per una festa straordinaria; attraversammo il largo S. Ferdinando, prendemmo la via di Chiaia, e finalmente ci fermammo all’angolo della riviera di Chiaia, al palazzo Calabritto Cappella-vecchia, ov’era l’ambasciata d’Inghilterra. In questa prima notte milord Bristol dormì all’ambasciata, ma per fortuna essendovi un’appartamento vacante superiormente a quello di sir William che occupava i due primi piani, monsignor Derry se ne accontentò, e vi si stabilì pel giorno seguente. Finalmente ero a Napoli, e mi ci trovava in una posizione che non avrei mai osato di ravvisare nei miei sogni più insensati di ambizione. — Emma Lyonna era scomparsa, miss Hearte non era più; tutto questo immondo passato era rimasto nel fango di Londra; — vi era Lady Hamilton ambasciatrice d’Inghilterra. Stava a me il non dimenticarlo. VI. Dovendo ora fare una pittura della società tutta particolare che vedevo a Napoli, prima di entrare nel racconto degli avvenimenti politici, in mezzo ai quali mi trovai trascinata, credo di dover cominciare col dare un’idea più completa di ciò che era questo strano personaggio già intraveduto dal lettore, nominato lord Hervey conte di Bristol, vescovo di Derry. Egli era il più giovine di venti figli, ed essendo il solo superstite, aveva ereditati i beni, i titoli e le dignità di tutta la famiglia. Lord Bristol non stava mai alla sua residenza. Erano a un bel circa venti anni che non aveva, all’epoca in cui lo incontrammo, messo il piede nella sua diocesi. Nulla indicava in lui ch’egli appartenesse in qualsiasi modo alla chiesa, nè il suo vestire, nè la sua conversazione. Portava abitualmente un cappello bianco, un abito di seta di un colore qualunque, talvolta chiarissimo, talvolta molto spiccante, e raramente nero: fin qui pel suo modo di vestire. Quanto ai costumi, essi erano come i suoi discorsi, non si può dire più rotti. La prima cosa che fece arrivando a Napoli fu di prendere un palco a S. Carlo ed a san Carlino. Non aveva nessuna credenza religiosa, nemmeno per i dogmi più assoluti della chiesa, che egli metteva in ridicolo; parlava dell’immortalità dell’anima con una indifferenza che si avvicinava al dubbio, e non si compiaceva che di discorsi mondani, e di raccontare od ascoltare aneddoti leggieri ed anche scandalosi. Nel suo primo viaggio in Francia, visitò la valle del Rodano, Grenoble, il Delfinato, e trovandosi vicino alla grande Certosa, salì sino al convento dei discepoli di S. Brunone. Quando si presentò al convento, trovò che i frati erano a tavola; bussò alla porta, che era chiusa a motivo dell’opera a cui si dedicavano i buoni padri ed il portinaio gli annunziò che era proibito di entrare quando i religiosi erano in refettorio; ma egli tirando dalla tasca il suo biglietto di visita, su cui erano le sue armi, e sopra di esse «a lord Bristol vescovo di Derry,» lo fece consegnare all’Abate, il quale non vedendo che le parole «vescovo di Derry» e credendo di dover trattare con un vescovo cattolico, lo ricevette ginocchione, con tutti i monaci in ginocchio al pari di lui, chiedendogli la sua benedizione, che lord Hervey non ebbe alcuna difficoltà d’impartire a lui ed ai suoi certosini. Questo era uno de’ ricordi che avevano il privilegio di eccitare in sommo grado l’ilarità di monsignor di Derry, pensando che dei monaci cattolici avevano ricevuto con una perfetta compunzione la benedizione di un vescovo protestante. In seguito ad una rappresentazione del _matrimonio segreto_ di Cimarosa, egli fu talmente invaghito dello spartito, che il giorno dopo mandò allo spettacolo i suoi dieci domestici inglesi, raccomandando loro di ascoltare la musica di Cimarosa colla più grande attenzione. Al loro ritorno, li chiamò nella sua camera, chiedendo se avevano eseguito esattamente i suoi ordini. Rispondendo essi affermativamente, ordinò di non parlargli più per l’avvenire se non in recitativo, ed in recitativi tolti sempre dal _matrimonio segreto_, sia per prendere i suoi ordini, sia per dirgli ch’era servito, sia per annunciargli i nomi delle visite. I suoi domestici si guardarono in faccia, credendo senza dubbio che monsignore fosse diventato pazzo; poi, dietro i suoi ordini reiterati, dimandarono di prendere consiglio e di dargli risposta pel giorno seguente. Alla dimane mandarono due di loro in deputazione, ed annunziarono al conte mylord, che consideravano come indegno delle dignità di domestici inglesi di parlare in musica come fanno gl’istrioni di teatro. Lord Bristol dichiarò loro che se essi annuivano ai suoi desiderii, avrebbe raddoppiato il loro salario, e dava a loro inoltre 24 ore di più per prendere la loro risoluzione. Il giorno seguente gli stessi deputati dichiararono che, qualunque fossero i vantaggi offerti dal signor conte vescovo, non potevano accettare. Milord Hervey pagò loro sei mesi di salario, e li mandò tutti in Inghilterra. Poi, quando furono partiti i servi inglesi, fece venire dei napolitani, e fece loro le proposizioni seguenti: Di non parlare a M. di Bristol che sui motivi dei recitativi tolti dal _matrimonio segreto_; stava a loro poi di adattare le parole alla musica. Per tale servizio particolare, che necessitava una intelligenza superiore a quella di un domestico ordinario, avrebbero 45 ducati al mese, dieci lire sterline di Inghilterra, vale a dire che erano pagati quattro volte tanto quanto lo sono i domestici meglio pagati di Napoli. Solamente la condizione _sine qua non_, essendo alimentati e vestiti da M. di Derry, i sei virtuosi d’anticamera non prenderebbero nulla durante i primi sei mesi, ma sarebbero pagati per tutti i sei mesi, dopo scorso il semestre. Se uno dei domestici lasciasse il servigio di monsignore prima dei sei mesi non ancora compiuti, non aveva diritto a nessuna indennità. I domestici napolitani accettarono, fecero venire un notajo per redigere il contratto, ed in capo a sei mesi M. di Bristol era servito colla cadenza cromatica la più soddisfacente. Una sera che M. di Bristol pranzava da sir William, uno dei suoi sei domestici napolitani gli portò, in misura di recitativo, una lettera con un gran suggello nero. — Lord Hervey dissuggellò la lettera, la lesse, la pose sotto il suo piatto, e per tutto il rimanente della serata rise, chiacchierò e vezzeggiò come il solito. Alle undici ore si ritirò; era un’ora più presto del solito. Il giorno seguente sir William dovendosi informare se la sua partenza non fosse stata cagionata da qualche indisposizione, fece chiedere a lord Bristol se era visibile. Sua signoria fece rispondere che gli era arrivata una grande sventura e non poteva ricevere nessuno. Sir William inquieto forzò la consegna, e trovò il povero vecchio in lagrime e fra i singhiozzi. — Mio Dio! che avete dunque? gli chiese sir William. — Avete osservato che jeri a pranzo mi venne consegnata una lettera sigillata in nero? rispose il conte di Bristol. — Sì. — Ebbene, essa mi annunziava che mio figlio è morto a Livorno: io non ho voluto spargere la mia tristezza nel vostro pranzo, mi sono frenato, ma una volta in casa, il mio dolore è stato tanto più violento quanto fu compresso; ecco perchè, per piangere liberamente oggi non volli ricevere nessuno, nemmeno voi. La società ufficiale di sir William era naturalmente il Corpo diplomatico; la sua società intima si componeva di dotti e di letterati distinti. Il ministro estero più anziano a Napoli era il conte di Sa, ambasciatore di Portogallo, che da trent’anni era stato nominato a quel posto; egli non era ritornato che una sol volta a Lisbona e ne era ritornato più presto che aveva potuto. Qualche anno fa il suo terrore fu grande. Si trattava di sopprimere l’ambasciata di Portogallo a Napoli, come una spesa inutile, e d’incaricare per gli affari delle due corti il ministro di Portogallo a Roma; ma poi essendo morto il re Giuseppe I, la regina che gli succedette decise di mantenere l’ambasciata, ed il conte di Sa respirò. Vi erano pochi diplomatici che avessero una sinecura così completa come questo ministro, che non aveva altro da fare che di dare alla sua Corte le notizie del giorno che faceva redigere dal suo segretario; il passeggio era la sola fatica che imponeva a sè stesso; si parlava molto dell’harem del conte di Sa, composto dalle ballerine di S. Carlo. Quanto a lui non parlava di nulla, avendo dimenticato il portoghese e non avendo potuto imparare a parlar correttamente nè il francese nè l’italiano. Egli era alto, aveva le spalle larghe ed una incollatura da bufalo, di cui teneva anche la fisionomia. In quanto ai suoi talenti od ai suoi meriti, in sette od otto anni io non lo vidi che tre volte per settimana, e non ho mai potuto scoprirgliene un solo. Il ministro più importante, perchè è ambasciatore di famiglia, è il conte di Lemberg. Costui è sotto tutti i rapporti una persona considerevole quanto il conte di Sa lo è poco. La cronaca gli rimprovera di esser superbo, ma sia che il rimprovero fosse ingiusto, sia che agli occhi del ministro d’Inghilterra un tale difetto fosse un nonnulla, non avemmo mai occasione di scorgerlo; ciò che ha dato al conte di Lemberg questa riputazione fra i Napolitani, è che egli non può soffrire i cortigiani e gli striscianti, di cui è ricca la Corte di Napoli. Nella prima sera che lo vidi osservai una cosa, cioè che egli dava il suo giudizio sulle persone più ragguardevoli della Corte senza maggior riguardo, come se avesse parlato dell’ultimo lazzarone. La conversazione cadde sul cavaliere Acton, ed il ministro di Toscana si azzardò di farne gli elogi. Ma il conte di Lemberg alzò le labbra con una espressione di supremo sdegno. — Quest’uomo, disse, sarebbe stato un buon corsaro, ed ecco tutto; ha i talenti e la figura d’un pirata, ed è probabilmente a ciò che deve la sua grandezza. Si assicura che in una discussione che ebbe colla regina, le disse parlando con lei a proposito del cavaliere Acton: — Io non ho alcuna prevenzione pro o contra le qualità occulte di questo ministro, le ignoro e non desidero punto conoscerle; ma ciò che io so è che quelle che manifesta al ministero non convengono punto all’ufficio di cui V. Maestà l’ha onorato. La posizione che il conte di Lemberg aveva alla corte di Napoli era poco invidiabile; come ambasciatore di famiglia si trovava mischiato in tutti gl’intrighi; e, bisogna confessarlo, alcuni di questi intrighi non erano all’altezza della maestà del suo ministero. V’erano querele frequenti fra il re e la regina. Io ne racconterò qualcuna, perchè avvennero in mia presenza. Ebbene, l’ambasciatore era obbligato d’intervenire in tutte queste querele, di ravvicinare gli sposi, di parlare in nome dell’imperatore, e di fare almeno una volta al mese l’ufficio di giudice di pace. Il povero Lemberg non era mai sicuro, se era al passeggio che non si corresse appresso a lui; se era a tavola, che non lo si facesse levare per ristabilire la calma fra gli augusti sposi. Qualche giorno dopo il nostro arrivo egli dava un gran pranzo; uno dei convitati ci raccontò, che durante il pranzo, arrivato un corriere della regina da parte di S. Maestà, il conte di Lemberg dovette alzarsi all’istante, lasciando i suoi ospiti a terminare il pranzo senza di lui. Nacque una discussione a Caserta a proposito della marchesa di San Marco, dama di confidenza della regina. — Maledette donnicciuole, esclamò il conte, gettando la salvietta, esse mi faran divenir pazzo. Terminerò la mia rivista degli uomini di stato, dicendo una parola di un atomo diplomatico chiamato Bonnecchi, console imperiale ed agente della Toscana. Piccolissimo e vecchio, che parla senza posa, spiando continuamente, sempre in cerca di novità, coll’occhio fisso, il collo e le orecchie tese, il signor Bonnecchi è il corrispondente dell’imperatore Leopoldo, al quale ogni settimana invia un rapporto di aneddoti e fatti scandalosi, che avvengono alla corte od in città; e quando gli aneddoti mancano, li fa. In principio, come ogni agente consolare, aveva un trattamento fisso, ma insufficientemente stimolato, le notizie mancavano. L’imperatore stimò opportuno allora di non pagarlo più all’anno, ma ogni settimana. Dopo un anno il signor Bonnecchi prendeva due luigi di Francia per ogni aneddoto, giudicato _interessante_ dall’imperatore. In questa maniera il signor Bonnecchi si faceva una ventina di luigi al mese. Questa esca ha dato a quel piccolo uomo un talento singolare d’introdursi nelle case, di farsi invitare a tutti i pranzi, a tutte le feste. Si sa ciò che egli vi va a fare. Ma siccome egli ci andava in nome dell’imperatore e, secondo certuni, in nome della regina Carolina, di cui lo si vorrebbe la spia privata, come era la spia pubblica di suo fratello, nessuno rifiutava di riceverlo, nè gli si faceva mal viso. Una volta poi tornato a casa, egli ricompone tutto ciò che ha inteso, ne tira le conseguenze, ne stabilisce i risultati, aggiunge, ritocca, guasta, e così ogni settimana invia al suo sovrano una cronaca in cui ci entrano tutti i più alti personaggi. Ora passiamo ai medici, ai dotti ed ai letterati, che componevano la società particolare di sir William, e così termineremo di conoscere le persone che mi seguirono nella nuova mia vita, in cui mi trascinarono gli avvenimenti che ho raccontati, e quegli ancora più incredibili e specialmente più drammatici che or mi rimane di far conoscere ai miei lettori. VII. Sir William, qualche tempo prima della sua partenza per Londra, aveva perduto due dei suoi commensali più assidui. L’uno era morto all’età di 38 anni, ed era l’illustre Gaetano Filangieri, verso la moglie del quale ho bene da rimproverarmi dei torti. L’altro, vecchio di 80 anni, era il famoso abate Galiani, che passava per l’uomo più spiritoso di Napoli. Forse questa riputazione gli veniva dall’aver passato una parte della sua vita in Francia. Ora che son morti non ho più ad occuparmi di loro. Fra le nostre visite più assidue eranvi il celebre medico Cotugno ed il suo collega il cavaliere Gatti, due personaggi i più curiosi di Napoli. Oltre la sua scienza medica, il dottor Cotogno era per quanto assicurava sir William, uno degli uomini più versati nei classici greci, latini ed italiani; non ho mai compreso come colla sua immensa clientela, il suo servizio agli spedali e le sue consultazioni in casa, gli restasse ancora il tempo di fare le letture necessarie per alimentare la sua immensa erudizione. Non riceveva mai nulla da chi veniva a consultarlo in casa, ma faceva pagare tre piastre le sue visite, mai di più, e guadagnava con ciò tre mila lire sterline all’anno. Qualche tempo prima del nostro arrivo a Napoli, egli aveva curato il visconte d’Herrera, ambasciatore di Spagna, da un attacco di paralisia che gli aveva tolto l’uso del braccio destro. In capo ad un mese e mezzo ed a cinquanta visite, Cotugno l’aveva completamente guarito. L’ambasciatore di Spagna gli mandò mille ducati. Cotugno gli rispose: «Vostra Eccellenza si è ingannata quando mi ha inviato mille ducati per cinquanta visite. «Ho per principio, fosse anche il re, di non far pagare le mie visite più di tre piastre. «Cinquanta visite a tre piastre fanno centocinquanta piastre. «Ho l’onore di ritornare la differenza a Vostra Eccellenza. «COTUGNO.» Non era così del dottor Gatti, il quale era tanto avaro quanto era disinteressato il Cotugno: uno dei più grandi propagatori dell’inoculazione, ha guadagnato somme favolose a Parigi esercitando questa arte. Due cose facevano di sir William l’amico per eccellenza del dottor Gatti: la nostra mensa che era buona, e le nostre carrozze che erano a sua disposizione. Tutt’all’opposto di Cotugno che si occupava molto delle classi povere, il dottor Gatti dichiarava altamente che non si abbassava punto a trattare colla gente di second’ordine, sempre all’opposto di Cotugno di cui pare che abbia giurato d’essere l’antipode. Egli non apriva mai un libro di scienza, non leggeva che delle pasquinate e delle gazzette; invece di conservare come il suo illustre collega la sua indipendenza presso i grandi, il dottor Gatti era il cortigiano più assiduo del favoritismo. Egli pretendeva che i popoli più felici del mondo fossero i Napolitani e gli Spagnuoli, perchè il re Ferdinando ed il re Carlo III erano tanto amanti della caccia, che non avevano il tempo di occuparsi dei loro popoli, e che ogni popolo, il cui sovrano non si occupa punto di lui, è sulla via della perfetta felicità. Sotto questo rapporto io credo che sir William fosse un poco dell’opinione del dottor Gatti; egli doveva tutto il suo favore presso Ferdinando alla sua passione per la caccia, ed alla sua abilità a questo esercizio. Il giorno seguente al suo arrivo il re gli scrisse di suo pugno: «Venite subito, mio caro Hamilton, a fare una caccia con me a Caserta: dopo la vostra partenza non ho avuto mai una buona giornata: vi siete portato con voi la mia fortuna, spero che me la abbiate riportata. «Vostro affezionato, «FERDINANDO B.» Il terzo famigliare fuori del corpo diplomatico era il marchese del Vasto, il quale discende in linea diretta da quello a cui Francesco I consegnò la sua spada, non volendola dare al conestabile di Borbone. Il marchese del Vasto appartiene alla casa d’Avalos, una delle più ragguardevoli d’Italia; ha centomila ducati di rendita, cinquecento mila lire d’argento di Francia. Queste fortune assai comuni in Inghilterra sono molto rare in Italia. La spada di Francesco I si conserva, per quanto si assicura, nel tesoro di Casa d’Avalos. Sir William riceveva anche spesso il duca di Termoli, che discende da una famiglia genovese stabilita da lungo tempo a Napoli. Egli era grande scudiere del Re e figlio del duca di san Nicandro, ma quest’ultimo titolo era lungi dall’essere invocato da lui; difatti il duca di san Nicandro nominato governatore del re, gli uni dicono a forza d’intrighi, gli altri a forza di denaro, ha allevato sì male il re, che, più di una volta, nei suoi momenti di collera contro sè stesso, riconoscendosi tanto ignorante, vuolsi che gli avesse detto: — Tuo padre è causa della mia infelicità e di quella dei miei sudditi, ma io sono troppo giusto per volerne male a te, perchè tuo padre ha fatto di me un asino. È vero che più di una volta ho inteso il Re deplorare l’educazione che aveva ricevuto, e riversare sul duca di san Nicandro quella ignoranza, che per istruzione non lo mise guari al di sopra de’ lazzaroni del molo. Del resto la regina, che deplorava questa ignoranza di suo marito, ma che con tutto ciò ne approfittava per allontanarlo dagli affari e concentrare tutto nelle sue mani, mi disse sovente che non era punto il duca di san Nicandro che bisognava rendere risponsabile di questo male; ma bensì il Tannucci che aveva deliberatamente scelto il duca di san Nicandro a motivo della sua nota incapacità, e che aveva raccomandato che si tenesse il Re in questa ignoranza, perchè, incapace di vigilare su nessuna partita dell’amministrazione del Regno, gliela lasciasse tutta intiera nelle sue mani. Vi era in ciò molta parte di vero, ma non bisognava credere assolutamente alla regina quando parlava del vecchio ministro toscano, che essa non poteva soffrire, perchè, ligio a Carlo III cui doveva la sua fortuna, rappresentava l’influenza spagnuola mentre essa, figlia e sorella d’imperatori, rappresentava l’influenza austriaca. Allora vedendo l’odio della regina per tutto ciò che era spagnuolo e francese, — odio in cui erano compresi suo marito ed i suoi figli maschi, — e la sua simpatia per tutto ciò che era austriaco, si andò fino a dire, che essa aveva formato un complotto anticoniugale, antifigliale ed antinazionale per riunire il Regno delle Due Sicilie all’Austria, alla quale aveva appartenuto in forza del trattato di Utrecht; dalle cui mani era stato tolto colla conquista di Carlo III uno degli episodi della gran guerra della Francia contro l’Austria nel 1634, ed io debbo oggi confessare che l’amicizia ed il favore reale non m’accecano più di quanto la regina dava su questo punto pretesto alla calunnia. Difatti io non aveva mai potuto comprendere donde veniva nella regina di Napoli quest’antipatia per i propri figli maschi, e questa debolezza per le sue figlie. Questa antipatia, sotto pretesto della correzione necessaria alla irregolarità del loro carattere ed alla regolarità della loro educazione, si manifestava in punizioni crudeli, che ispirarono in loro una paura per la loro madre che non aveva nulla di esagerato. In sua presenza non ho mai veduto i suoi piccoli principi a sorridere, tremavano al minimo rumore, e quando intendevano la sua voce si rifugiavano istantaneamente nelle braccia del Re. Il maggiore dei figli di Maria Carolina morì all’età di sette od otto anni verso l’anno 1778, in seguito ad un deperimento continuato che i nemici di Maria Carolina attribuivano ai cattivi trattamenti di cui era stato vittima. Quando cadde realmente ammalato, la regina si mise a discutere coi medici le cause e la natura della sua malattia, mentre suo marito, non osando nemmeno di sollevarsi dalla sua ignoranza che confessava ingenuamente, si accontentava di piangere. Ma quando infine il giovane principe morì, le lagrime del Re raddoppiarono, mentre Maria Carolina, — così si assicura, — si contentò di ripetere le parole della madre spartana: «Quando gli ho messi al mondo, sapeva che un giorno dovevano morire». Io ho veduto morire uno dei giovani principi, il principe don Alberto. Egli morì fra le mie braccia e sui miei ginocchi, perchè esso era quello dei giovani principi che io preferiva. Racconterò questa morte a suo tempo; ma ciò che debbo dire qui, è che questa morte mi parve che raddoppiasse l’odio della regina contro i Francesi ed i Repubblicani, anzichè scuotere nel fondo del suo cuore quelle fibre d’amore che fanno versare alle madri lagrime di sangue sulla tomba de’ loro figli. Il solo che la regina amasse davvero era il principe di Salerno, nato, io credo, nel 1790, e che la regina teneva stretto al suo cuore mentre moriva nelle mie braccia il principe Alberto. — A costui essa avrebbe sagrificato tutti gli altri, e si dice anche, ma io era in quell’epoca lontana da lei, e non crederò mai ad una tale atrocità, e si dice anche che verso il 1812, quando parve in Palermo volersi adottare il partito e le idee inglesi, essa attentò alla sua vita, tentando di avvelenarlo con una tazza di cioccolata. Secondo le dicerie popolari, sarebbe stato salvato da quel pericolo dal suo cameriere Carlomagno Viglia. Da qui sorge la fonte inesplicabile di favore di questo uomo più potente del suo padrone, di qualunque membro della sua famiglia, e di qualunque favorito o ministro. La voce pubblica voleva dunque che Carolina preferisse suo fratello Giuseppe II ai suoi figli, o mettesse gl’interessi della monarchia austriaca al di sopra di quelli del regno delle Due Sicilie. Del resto, racconterò tutto ciò che ho veduto colla stessa sincerità con cui racconto ciò che è accaduto a me stessa. Il lettore ne tirerà quelle conseguenze che gli converranno. VIII. Quando noi arrivammo a Napoli, la casa di sir William Hamilton non era punto preparata per ricevere una donna; era un museo di uno scienziato ed antiquario interamente dedicato alla geologia, alla numismatica, ed alla statuaria. Bisognava fare in mezzo al passato ed alla natura morta un posto pel presente e per la natura viva. Debbo rendere questa giustizia a sir William, che non avendo voluto dare ai suoi tesori una preferenza su di me, io scelsi nell’immenso primo piano dell’ambasciata tre camere per farne il mio appartamento particolare, senza che egli permettesse alle lave del Vesuvio, alle medaglie dei Cesari, ed ai frammenti di Apollo e di Venere di reclamare contro di me. Del resto, debbo dirlo, la mia civetterie istintiva era tale, che volli fare la mia corte e tutte queste antichità insieme ai nostri vecchi scienziati. In capo ed un mese avrei potuto fare il nome senza catalogo alle 24 o 25 specie di lave del Vesuvio, riconoscere a prima vista l’effigie di un Cesare contemporaneo dello stesso Cesare, oppure di uno battuto sotto Adriano: infine ricostruire da un semplice frammento una statua intera. Sir William era estatico di vedermi ad adottare così facilmente i suoi gusti, ed a prender parte della sua vita di archeologo ed antiquario. Abituata a fare gli onori di casa da lord Greenville, uno degli uomini più eleganti di Inghilterra, non ebbi nulla da imparare per mettere le sale di sir William all’altezza degli appartamenti più eleganti di Napoli; Napoli essendo sotto questo rapporto inferiore di molto a Londra. Fu allora che, per raddoppiare l’entusiasmo dei miei adoratori ho stimato bene di far conoscere i miei talenti mimici, e siccome la maggior parte delle nostre conoscenze erano italiani, non ho creduto conveniente di dar loro delle rappresentazioni di alcune scene di Shakespeare: i loro stomachi deboli non avrebbero potuto sopportare quel cibo copioso, e mi limitai alle pose plastiche; ed in una stessa sera, mutando il manto ebreo col peplo greco, il turbante turco col diadema asiatico, feci passare sotto i loro occhi Giuditta, Aspasia, Rosellana, Elena, e cominciai i primi passi di questa danza dello sciallo, che ebbe più tardi una riuscita così prodigiosa non solamente a Napoli, ma a Parigi, a Londra, a Vienna, a Pietroburgo. Poco dopo non si parlava d’altro nella capitale del Regno delle Due Sicilie che della meraviglia condotta da Londra da sir William Hamilton: tutti gli uomini distinti di Napoli, ed anche qualche signora, ambivano l’onore di essere ricevuti all’ambasciata d’Inghilterra; ma, a mia grande umiliazione, ed a grande stupore di sir William, non vedevamo venire nessun invito collettivo dalla Corte. Sir William era sempre il compagno di caccia e di pesca del Re; quasi mai l’accompagnava all’uno od all’altro di questi esercizj senza parlargli di me e senza fargli il mio elogio: il Re lo felicitava per la sua fortuna di avere una moglie tanto bella, distinta ed istruita. Ma la cortesia reale non andava più innanzi. Molte volte, lo so, si era parlato di me alla regina Maria Carolina, ma essa aveva sempre lasciato cadere il discorso, e qualche volta l’aveva troncato con affettazione. Mi fu dato il consiglio di trovarmi come per caso sul cammino che la regina percorreva: la cosa era facile; passeggiava spesso coi giovani principi e le sue figlie nel giardino di Caserta. L’entrata senza essere pubblica era aperta alle persone distinte, e qualche volta, colla protezione dei subalterni, alla gente del popolo che aveva qualche grazia da domandare. Pregai lord Hamilton che alla prima occasione che aveva di andare a Caserta, mi conducesse insieme, mostrandogli un gran desiderio di vedere i giardini, che si dicevano molto belli. Probabilmente sir William si accorse della causa principale della mia dimanda, e poichè gli spiaceva forse più di me questa specie di disprezzo che lui si dimostrava non gli rincresceva che qualche fatto piacevole o no desse motivo ad una spiegazione. Un giorno che sir William aveva dei dispacci del gabinetto di san Giacomo da comunicare al Re, partimmo per Caserta. Sir William vi aveva un appartamento ove poteva restare quanto gli conveniva, ed ove era servito dai domestici di Sua Maestà. Prima del suo viaggio in Inghilterra aveva usato sovente di questo favore; ma dopo il mio arrivo a Napoli, benchè avesse fatto dei frequenti viaggi a Caserta, non vi aveva mai passato la notte. Comunicati i dispacci, sir William ricevette l’invito pel Re di restare fino al giorno seguente per accompagnarlo ad una grande partita di caccia. Sir William accennò la mia presenza in Caserta; ma il Re rispose: — E non avete il vostro appartamento a palazzo? se Lady Hamilton ha bisogno di qualche cosa, che comandi; i miei domestici le obbediranno come se fossero i suoi. E il discorso finì là. Però accordandosi il soggiorno a Caserta coi miei progetti, sir William accettò in suo nome e al mio; chiese soltanto al Re se non trovava inconveniente che io passeggiassi nel giardino. Il re alzò le spalle, ciò che voleva dire che la dimanda era inutile. Sir William, ritornò e mi raccontò ciò che era avvenuto. Al pranzo, servendoci certi vini, il cameriere aveva cura di dirci: — _della cantina del Re_. All’arrosto, porgendoci un fagiano guarnito di beccafichi, affettò di ripeterci: — _della caccia del Re_. Era evidente che sir William era l’oggetto di attenzioni particolari di Sua Maestà, ma visibilmente queste attenzioni non si estendevano sino a me. Alla sera sir William fu invitato a giuocare dal Re; ma poichè nell’invito non si trattava punto di me, prese un pretesto, il meno adatto che poteva, per non andarvi, — si finse di trovarlo buono. Il giorno dopo all’alba vennero a battere alla porta di sir William da parte del Re. Sua Maestà partiva sempre di buon mattino, e come il suo avo Luigi XIV non gli piaceva di aspettare. Sir William era profondamente punto da questa maniera di considerare il suo matrimonio come non avvenuto. Mi disse che se sul mio progetto d’incontrare la regina avessi di che rammaricarmi, nulla lo teneva a Napoli, nè le sue abitudini di vent’anni, nè il suo amore per l’antichità, nè il clima che era eccellente per la sua salute. Egli domanderebbe al Re, suo fratello di latte e suo amico, o il suo richiamo a Londra, o la sua destinazione presso la tale o tal altra corte che io stesso avrei designata. Il mio vestire era semplicissimo, nè cercai di far valere in alcun modo i miei pregi: l’essere troppo bella è un cattivo mezzo di fare la sua corte ad una regina gelosa della sua bellezza; il mio orgoglio mi aveva già sobillato più di una volta che alla regina, che non era più nel fiore della sua gioventù, poco garbasse la mia vicinanza. Le finestre dell’appartamento di sir Hamilton davano sul giardino; da queste finestre si poteva vedere ad entrare la regina: si sapeva che dopo la colazione, dalle 10 alle 11 essa vi faceva la sua passeggiata colle giovani principesse. A dieci ore ed un quarto io la vidi comparire accompagnata da tre dalle sue figlie, la principessa Maria Teresa, che contava 17 anni, che in quell’anno dovea diventare arciduchessa, e due anni dopo imperatrice d’Austria. La principessa Maria Luisa, di 16 anni, che l’anno dopo doveva diventare gran duchessa di Toscana, e la principessa Amalia che non aveva ancora sei anni. Oltre a queste tre principesse restavano la principessa Maria Cristina dell’età di nove anni, che fu regina di Sardegna; la principessa Maria Antonietta dell’età di quattro anni e mezzo, che fu principessa delle Asturie; la principessa Maria Clotilde dell’età di due anni che doveva morire nel 1792, e Maria Enrichetta ancora in fasce, che doveva morire nello stesso anno come sua sorella. Era venuto il momento di mettere in esecuzione il mio progetto: vedendo la regina e le principesse, inoltrate nei giardini, le due più grandi passeggiando a lato della madre, la più giovane Maria Amalia correndo avanti cogliendo fiori e tentando di prendere delle farfalle, io presi un libro e discesi; facevo sembiante di leggere, ciò che mi permetteva di vedere senza far vedere che guardava. Feci un giro per non incontrare la famiglia reale che all’altra estremità del giardino. Io voleva che la regina credesse che il caso soltanto mi avesse condotta sulla sua via; poi desiderando e temendo insieme questo incontro, io non dimandava meglio che di avere qualche momento per prepararmi a ciò. M’inoltrai nel viale che doveva infallibilmente condurmi dalla regina; aveva gli occhi sul mio libro, ma mi sarebbe impossibile di dire il titolo di questo libro; vedeva i caratteri senza che porgessero alcuna idea alla mia mente: la mia mente era altrove. Il mio cuore batteva con una violenza strana. Tutto ad un tratto sulla curva d’un sentiero mi trovai a venticinque o trenta passi dalla regina. La piccola principessa, sempre correndo davanti a sua madre, non distava che dieci passi da me. Feci sembiante di non veder nulla, intenta nella mia lettura; ero sempre a tempo di levare gli occhi e fingere una rispettosa sorpresa. È nota la mia scienza di esprimere non solamente tutti i sentimenti, ma eziandio le più delicate gradazioni; ma un incidente mi fece levare gli occhi dal mio libro prima che lo volessi. La piccola principessa Amalia venne correndo verso di me, e togliendo un fiore dal suo mazzo, me lo presentò. Era di buon augurio. Alzai la testa, mi parve allora di vedere solamente la reale fanciulla, le sue sorelle e la regina, e facendo un profondo inchino, mi accingeva ad accettare il fiore che mi offriva; ma in questo momento, colla sua voce più vibrante, e come sorpresa della mia presenza, la regina chiamò due volte «Amelia, Amelia,» e la fanciulla, riconoscendo nella voce di sua madre un accento imperativo, che essa sapeva esprimere tanto bene, si rivolse sbigottita, e corse dalla regina col suo mazzo intatto e prima ch’io fossi rinvenuta dalla mia sorpresa. Maria Carolina aveva preso la sua piccola figlia per mano, l’aveva spinta su di un sentiero di traversa, e si era incamminata essa pure da quella parte colle due grandi principessine, allontanandosi con affettazione per lasciarmi la strada libera. Il colpo fu atroce, mi vennero le lagrime agli occhi, presi correndo la via verso il mio appartamento, ordinai di attaccare i cavalli alla carrozza, e partii per Napoli lasciando queste parole a sir William: «Non vi turbate punto della mia salute, essa non c’entra colla prima partenza; ho creduto di dovere lasciare Caserta; quando vi racconterò ciò che mi è accaduto, voi approverete la mia risoluzione, lo spero.» «Vostra Emma.» Due ore dopo era di ritorno all’ambasciata, e dopo aver fatto cambiare i cavalli, rimandai la carrozza a sir William. Sir William arrivò alle sette ore di sera. Ritornando della caccia, trovò che io era partita, e benchè il re in persona l’avesse invitato a pranzo, egli aveva lasciato Caserta, facendo dire a sua maestà che una circostanza impreveduta l’obbligava a ritornare a Napoli. IX. Sir William dubitava ciò che era accaduto; io non ebbi bisogno che di raccontargli i particolari. Debbo rendere questa giustizia a sir William, che egli fu più offeso di me di questo affronto; mi offerse di partire quella sera stessa da Napoli senza nemmeno prendere congedo; ma ciò significava ritirarsi, cedere il campo di battaglia, era un confessare la disfatta; ciò non era quanto io voleva, io voleva vincere. Insomma voleva essere presentata, volevo essere ricevuta a corte, come lo esigeva il mio diritto di ambasciatrice d’Inghilterra. Volevo ottenere l’esito che ho ottenuto dovunque volli ottenerlo, volevo infine vendicarmi di quella insolente regina, facendo dire ai suoi cortigiani stessi che io era più bella, e altrettanto intelligente e spiritosa di lei. Io insisteva adunque perchè sir William dimandasse al re stesso una spiegazione sul contegno sdegnoso della regina. Quando io penso oggi in quale accecamento orgoglioso mi aveva gettata la mia fortuna inopinata, mi maraviglio con me stessa della mia audacia. Sir William non esitò punto di cedere alla mia volontà. Egli aveva per me una adorazione così insensata, che sembrava maravigliato al pari di me del contegno che Sua maestà aveva a mio riguardo. Egli partì per Caserta, andò a trovare il re, e francamente entrò in questione, non lasciandogli punto ignorare che il suo futuro soggiorno a Napoli sarebbe una conseguenza del modo con cui si sarebbe condotto verso di me. Il re amava assai William, non già per sir William, ma per lui stesso. Questo principe essenzialmente egoista era così fatto; sir William era buon camminatore, buon cacciatore, buon cavalcatore, e un compagno spiritoso e gaio; da parecchi anni il re si era fatto una necessità della sua compagnia, e avrebbe sentito la di lui mancanza. Poi l’orizzonte politico cominciava ad oscurarsi dalla parte di occidente: il re di Napoli per quanto poco fosse versato negli affari, comprendeva che sir William, fratello di latte del re d’Inghilterra, compagno d’infanzia di Giorgio III, poteva, al caso di una rottura probabile colla Francia, essergli di un potente aiuto presso il gabinetto di San Giacomo; accolse dunque le sue parole con una perfetta dolcezza, e con quella bonomia, che in lui talvolta era naturale e talvolta finta; ma in questa circostanza, tanto bene rappresentata, era impossibile accorgersi che fosse stata una commedia. — Mio caro sir William, gli disse, sapete voi la voce che corre? — No, ma spero che vostra maestà mi farà la grazia di dirmela. — Ebbene, corre voce che voi non siate ammogliato. Sir William aveva preveduto il colpo; tirò dalla sua tasca il certificato del pastore protestante e lo presentò al re. — Ecco, sire, diss’egli, questa è la mia risposta. Il re lesse il certificato, lo volse e lo rivolse con un certo imbarazzo. — Io non vi dico nulla di nuovo, dicendovi che vi sono molti cattivi a Napoli, non è vero? ebbene, quand’anche voi faceste affiggere il vostro certificato su tutti gli angoli delle strade, e che io con un editto ordinassi di credervi, sarebbero ancora capaci dì dubitarne. Finchè voi non avrete fatto riconoscere il vostro matrimonio alla corte d’Inghilterra, e che non avete presentato lady Hamilton al re Giorgio III, cosa che voi avreste potuto fare facilissimamente nei rapporti con cui siete con lui, non vi sarà più motivo per dire di no. E come mai voi non avete punto pensato a ciò? Sir William guardò in faccia al re con uno sguardo il più scrutatore, ma fu impossibile di leggere più in là della maschera; Ferdinando aveva a sua disposizione un certo giuoco di fisionomia bonaria, che avrebbe fatto scambiare lui, il re astuto per eccellenza, per l’uomo più ingenuo del mondo. — Va bene, sire, rispose sir William, voi mi date un congedo d’un mese, non è vero? — Con mio grande rincrescimento, perchè non vorrei lasciare nemmeno per un giorno solo un compagno così buono come siete voi; ma se voi me lo comandate, e specialmente per un affare così importante, come quello di far riconoscere il vostro matrimonio, comprenderete bene che io non ve lo saprei rifiutare. — Non ho dunque che a scrivere a Londra, perchè il mio arrivo non arrechi una brusca sorpresa. — Aspettate, posso risparmiarvi questo ritardo. — Ne sarò molto obbligato a vostra maestà. — Or bene, le lettere che io ricevo da mio cognato l’imperatore d’Austria e da mio cognato il re di Francia, possono essere giudicate abbastanza importanti per essere comunicate senza ritardo a monsignor Pitt; dico monsignor Pitt, perchè da voi, è presso a poco come qui, il re non è nulla, ed il ministro è tutto; senza di che vi avrei detto al re Giorgio III. Vi confiderò gli originali stessi di queste lettere, con una mia autografa per mio fratello il re della gran Brettagna, e compiendo in tal modo la missione di cui v’incarico, voi farete il vostro affare come crederete. Sir William non poteva desiderare di meglio; egli ricevette seduta stante, le lettere che doveva comunicare al re d’Inghilterra ed al suo ministro, e la sera stessa su di un piccolo bastimento della marina reale, che il re mise a nostra disposizione, partimmo per Livorno. Sir William dovea consegnare, passando per Firenze, una lettera al gran duca Leopoldo, poi da Firenze dovevamo continuare il nostro viaggio in posta; la feluca reale attendeva il nostro ritorno a Livorno. Si sarebbe detto che il tempo era d’accordo colle nostre impazienze, avemmo costantemente il vento favorevole, e facemmo la traversata in tre giorni. Sir William, compì la sua missione presso il gran duca Leopoldo che trovò molto inquieto sul modo con cui andavano le cose di Francia. Tutto accennava ad una prossima rivoluzione, ed i primi avvenimenti dell’anno 1789, in cui eravamo giunti, indicavano che questa rivoluzione sarebbe stata seria, e si sarebbe fatta sentire per tutto il mondo. Egli non poteva adunque che approvare il viaggio di sir William a Londra, e lo scopo apparente pel quale aveva fatto questo viaggio; non era pure meno inquieto sul conto di suo fratello Giuseppe II, imperatore di Germania, la cui salute andava affievolendosi. — Vedremo, disse egli, come da tutto ciò uscirà nostro cognato Ferdinando IV, che pretende di avere la felicità di non mantenere un filosofo nei suoi stati. In tutti i casi egli avvisava che l’Austria, il re di Napoli, il santo Padre e tutti i principi d’Italia, dovessero fare una lega offensiva e difensiva, e stabilire una specie di cordone sanitario per impedire alle idee rivoluzionarie di passare le Alpi. Noi partimmo da Firenze per la posta, attraversammo il S. Gottardo e la Svizzera, e arrivammo ai Paesi Bassi, ove ci imbarcammo per l’Inghilterra. Arrivammo a Londra in punto a dieci mesi dopo che l’avevamo lasciata, e scendemmo al palazzo di sir William Hamilton. Nello stesso giorno fu ricevuto dal re. Io aspettava con una certa ansietà; ritornando a Londra, io era ritornata, per così dire, nella mia vita passata, e m’era trovata in faccia alla miseria ed alla vergogna dei miei primi anni; poteva venir qualche scrupolo al re, e se la mia presentazione fosse stata rifiutata a sir William, sebbene io fossi Lady Hamilton, ricadevo però più bassa di quanto era partita. Sir William ritornò tutto in gioia; la mia presentazione doveva aver luogo il lunedì seguente; il re non aveva fatto alcuna difficoltà, e si era mostrato più che mai gentile, affettuoso e pieno di amicizia per lui. Lo stesso giorno sir William mi espresse il desiderio di portare a Napoli un mio ritratto fatto da Romney, che allora era il gran pittore alla moda. Era impossibile che sir William non conoscesse punto le mie antiche relazioni con Romney; ma egli era così poco mio marito, che compresi benissimo che egli non lasciò a divedere di nutrire gelosia per questo grande artista. Fu convenuto che alla mattina appresso saremmo andati a sorprenderlo nel suo studio in Cavendish Square. Era troppo sicura della cortesia di Romney per avere bisogno di prevenirlo con una lettera di non vedere in me che Lady Hamilton; e più ancora sicura dell’impero che io aveva sopra sir William, mi faceva una festa della sorpresa, che avrebbe prodotto in Romney la mia presenza inaspettata. Siccome sir William desiderava di avere il mio ritratto rappresentante un’Odalisca, vestii un magnifico abito turco, e salimmo in una carrozza chiusa che ci condusse a Cavendish Square, poco lungi dal palazzo di sir William. Io conosceva quella casa; essa avea conservato, bisogna dirlo, alcuni dei miei buoni ricordi, e senza essere mai stata innamorata di Romney, nel senso che si accorda alla parola, io l’aveva amato teneramente, e la sua memoria non s’affaccia mai alla mia mente senza essere accompagnata da un sorriso del mio labbro. Era sempre lo stesso domestico che lo serviva. Egli mi riconobbe, gli feci un segno indicandogli coll’occhio mio marito che mi seguiva; ed egli mi provò di aver compreso, domandandomi se doveva annunziare sir William e Lady Hamilton; gli risposi di no, volendo fare al suo padrone una visita d’amicizia e non di cerimonia, e che ci saremmo annunciati da noi. Si ritirò e mi lasciò passare. Entrammo nello studio di Romney; le quattro parti del mondo erano state messe a contribuzione per adornare questo splendido tempio dell’arte: trofei che riunivano le più belle armi dei popoli selvaggi e dei civilizzati, le frecce dell’Indiano della Florida, i cangiar dell’Asia e le spade di Damasco, le pelli di tigre del Bengala, le pelli di leone dell’Atlante, d’orsi della Siberia e di pantere della Persia, sparsi sotto i mobili, si stendevano sotto i nostri piedi, e tappezzavano la base delle pareti coperte da meravigliosi schizzi dell’autore che visitavamo. Non vi era un angolo in questa vasta camera ove l’occhio potesse riposare senza cadere su di un oggetto prezioso, e per valore materiale e per valore artistico. Romney era occupato a dare l’ultimo tratto di pennello ad un’Erigone che si rotolava con una tigre su di un tappeto di fiori. L’Erigone aveva una lontana somiglianza con una certa Emma Lyonna, e provava che questa Emma Lyonna non era affatto scomparsa dalla memoria del pittore. Al rumore della porta non si mosse: senza dubbio aveva semplicemente creduto che il suo domestico fosse venuto per mettere l’ordine o il disordine in qualche cosa. Gli toccai la spalla colla mano, si volse, mi riconobbe, mise un grido, e scorgendo mio marito si levò facendomi un inchino. — Ancora più bella di prima, mi disse, non l’avrei creduta possibile una tal cosa; poi volgendosi a sir William: — Accogliete tutti i miei complimenti, milord, gli disse, e ditemi tosto se posso avere la fortuna d’esservi utile in qualche cosa. Poi colla sua maravigliosa cortesia, Romney, come se mi vedesse per la prima volta, ci fece gli onori del suo studio. Sir William gli disse che desiderava un mio ritratto alla foggia in cui mi trovava. Romney tutto contento, prese all’istante una gran tela e schizzò tutta la composizione. Si convenne che vi andassi tutti i giorni per la posa, e Romney promise che in capo ad otto giorni il ritratto sarebbe finito. Il giorno dopo sir William mi condusse a Cavendish Square, ma siccome doveva andare in varii luoghi, si contentò di lasciarmi nel suo studio, e ritornò alla carrozza, promettendomi di venirmi a prendere fra due ore. In queste due ore Romney ebbe la garbatezza di non dirmi una parola, di non fare la minima allusione che potesse ricordare la nostra intimità passata; mi parlò di Roma e di Napoli, discorremmo un po’ di tutto, e promise di venirci a fare una visita. Era, lo confesso, un poco punta da una tale delicatezza: io la comprendeva, ma mi stringeva il cuore. La donna anche quando oblia, non vuol essere dimenticata. Sir William ritornò più tardi di quanto aveva detto, di modo che il ritratto andava avanti. Aveva veduto monsignor Pitt, gli aveva mostrato le lettere di Maria Antonietta e dell’imperatore Giuseppe II, e aveva parlato a lungo degli affari di Francia. Le cose andavano alla peggio, il freddo e la fame sembravano essersi data la parola per far dei Francesi altrettanti diavoli arrabbiati. Si parlava della riunione degli Stati Generali pel 4 aprile. Monsignor Pitt fissava a quell’epoca il principio della rivoluzione. Sir William aveva ricevuto pieni poteri di trattare a Napoli gli affari d’Inghilterra come egli intendeva, salvo sempre, ben inteso, l’onore e gl’interessi della Gran Bretagna. Non disse nulla di tutto ciò, s’intende, dinanzi a Romney; ma a me sola riconducendomi a casa. X. Il lunedì seguente, 20 marzo 1789, giorno della mia presentazione, non vi fu seduta da Romney, ben si intende: tutta la giornata fu consacrata ai preparativi di questa grande cerimonia e particolarmente alle cure della mia toletta. Dopo la mia presentazione vi fu gran ballo a Corte. Il re, vedendomi a comparire, mi venne incontro con una galanteria graziosa, mi offerse la mano e mi condusse al mio posto, non cessando di parlarmi, se non per trattenersi con sir William. Il re mi aveva appena lasciata, che il principe di Galles venne alla sua volta; allora, mio malgrado la mia testa era occupata da un solo pensiero; cioè quando mi trovava semplicemente vestita da dama di compagnia sul terrazzo di miss Arabella, la sera in cui essa aveva ricevuto il principe di Galles: mi pareva di vederli tutti e due alla finestra, poi ritornare nella sala, e quantunque esposti a mezza luce, mi parvero brillanti di gioventù e di desiderio. Non so ciò che il principe mi disse, nè mi ricordo ciò che gli risposi: tutte le fibre della memoria mi distoglievano la mente dal presente, e la facevano viaggiare a ritroso nel passato: dovetti sembrare stupida al principe. Questa sera fu per me una serata di orgoglio e di dolore. D’orgoglio, perchè aveva raggiunto il mio scopo; ricevuta ufficialmente alla Corte d’Inghilterra, come sposa di sir William Hamilton, nessuna altra corte poteva rifiutarsi di ricevermi, e come ambasciatrice di una grande potenza, veniva per rango immediatamente appresso alle principesse del sangue; di dolore, perchè ogni sorriso, ogni sguardo obliquo, ogni parola detta all’orecchio, mi sembrava un insulto, che strisciando sotto l’erba, era pronto a levare la testa tostochè io fossi uscita. Sir William era maravigliosamente tranquillo e soddisfatto: se per diventare sua moglie io fossi uscita dal chiostro più austero, dal convento il più chiuso, non sarebbe parso più altero di me. Però quella sera mi parve lunga, e benchè mi fossi ritirata ad un’ora di giorno, pure mi sentiva affranta. Il giorno dopo mi guardai bene dal mancare alla seduta; aveva bisogno di vedere un viso amico; sentiva che quella sera non aveva veduto che delle maschere. Romney era uscito per affari indispensabili, mi fece dire che mi pregava di perdonargli, ma che lo aspettassi. Sir William, che ancora in quel giorno doveva andare in varii luoghi, prese la carrozza e mi lasciò da Romney. Io l’aspettava con una suprema impazienza, era io che dovea dargli le notizie; e mi sembrava che egli dovesse darmene. Così, quando intesi il suo passo, quando riconobbi la sua voce nella camera vicina, quando vidi aprirsi la porta, mi slanciai verso di lui per interrogarlo. — Ebbene? gli dimandai. Qualche cosa di consimile balenò pure alla sua mente, perchè quantunque fosse vaga la mia interrogazione, egli rispose direttamente alla mia idea. — Ebbene, ieri voi avete avuto un esito strano; questa mattina sono corso per la città per avere vostre notizie, e non ho veduto che delle donne furiose; sembra che ieri foste miracolosamente bella; si parla di tre duchesse morte di gelosia; altre vedendo il re condurvi alla vostra sedia, ed il principe di Galles a parlare con voi, si sono morse le dita per la collera, e minacciano di diventare idrofobe. Finisco ora d’aver schizzato il ritratto di Lady Craven, che è una buona inglese puro sangue, e che ora, dopo 14 anni d’unione, ha ottenuto il suo divorzio da Lord Craven. Essa era là e rise di tutto cuore vedendo i visi che vi facevano; le dissi che vi avrei veduta da me, essa mi rispose semplicemente: — «fatele i miei complimenti, e ditele che è la più bella creatura che abbia mai veduta.» Io presi la mano di Romney, e gliela strinsi di tutta forza; avrei desiderato di abbracciarlo; egli m’ispirava nelle vene il sentimento divino della vendetta soddisfatta. Il giorno dopo tutti i giornali rendevano conto del ballo di corte: alcuni non mi risparmiarono; ma non importa, la mia causa rispetto alla regina di Napoli era vinta. Al settimo giorno il mio ritratto era finito; ma a motivo degli accessorii orientali, di cui mi aveva circondato Romney, era diventato un quadro più che non un semplice ritratto. Sir William del resto maravigliato del talento con cui era eseguito, chiese a Romney di spingere la compiacenza fino a voler ricominciare il lavoro, e farne un altro tanto semplice quanto l’altro era lavorato. Romney non chiese di meglio. Egli pretendeva di avere tanto piacere di lavorare vicino a me, che non avrebbe voluto mai altro modello. Nel giorno stesso, in cui finì il primo, incominciò il secondo; esso era di una semplicità veramente greca. Aveva la testa spoglia che, veduta di faccia, era un po’ inclinata sulla spalla destra; i miei lunghi capelli sciolti cadevano ondeggianti sul mio petto velato appena da una tonaca di mussolina; un mantello di cascemiro rosso mi copriva le spalle: il mio solo gioiello era una cintura d’oro cesellata alla foggia araba, che incastonava un cammeo rappresentante Sir William Hamilton. Questo che a mio parere era ancor superiore al primo fu finito in cinque giorni. Fu quello che fu dato da Sir William a Lord Nelson, e che questi aveva nella cabina del _Fulminante_, e che mi fu restituito dopo la sua morte, e che nella meschina capanna in cui scrivo queste memorie, ancora oggi è appeso a lato al suo. Nei miei momenti di miseria mi furono offerte fino a 12,000 lire dei due ritratti; non ho voluto mai separarmi da loro; essi saranno la dote della mia Orazia. Durante il nostro soggiorno a Londra, Sir William diede qualche serata, ove fu invitata tutta la _gentry_ della capitale; qualche donna che aveva creduto opportuno di farsi ritrosa passando al di là della quarantina, non giudicò conveniente di onorarle della sua presenza; ma le giovani e belle donne dell’aristocrazia non vi mancarono. Sir William volle che in due di queste serate rappresentassi alcune scene di carattere; in una recitai il soliloquio di Giulietta, nell’altra cantai la scena mimica della Nina. Quella sera produssi un vero entusiasmo; Romney principalmente era come un pazzo. Il giorno dopo scrisse ad uno de’ suoi amici. «Nella mia ultima lettera credo di avervi informato che era a pranzo da Sir William e sua moglie; alla sera molte persone della nostra prima società eransi riunite per udirla a cantare: nel serio come nel comico, per la sua grazia come per il suo ingegno, essa eccitò l’ammirazione di tutti; ma la sua Nina sorpassò ciò che si può vedere, ed io credo che nessuno non saprebbe eguagliarla, per l’anima che vi mette: tutta la società era a bocca aperta, tanto la sua scena è semplice, grande, terribile e patetica.» I miei due ritratti furono imballati colla più gran cura, e Sir William non volendosi separare da ciò che chiamava _il suo tesoro_, combinò in modo di prenderseli in viaggio con noi. Lasciammo Londra il 20 aprile; per curiosità Sir William volle ritornare per Parigi. L’Inghilterra che doveva fare una guerra così accanita alla Francia, era ancora in pace con essa. Nulla impediva dunque a Sir William di seguire a questo riguardo la sua fantasia. Arrivammo il 26 in buon punto per essere spettatori di una sommossa; grazie dell’avviso! quella sommossa fu quella che prese il nome dal sobborgo S. Antonio. Sir William aveva fatto ogni premura per vedere l’apertura degli Stati generali che doveva aver luogo il 27. Arrivando, intese che era rimessa al 4 di maggio. Invece dell’apertura degli Stati generali, avemmo l’incendio ed il saccheggio del magazzino Reveillon. Si sapeva fin dal giorno prima che qualche cosa doveva succedere; perchè alla sera Sir William entrò con un permesso per vedere la Bastiglia. Noi ne approfittammo pel giorno seguente. Mano mano, che noi ci avvicinavamo alla Bastiglia, la folla si faceva più numerosa; credevamo di non poter mai arrivare colla nostra carrozza alla porta d’entrata. Finalmente ci entrammo, ma in mezzo ai fischi ed alle ingiurie; il popolo francese mi parve ben mutato dall’epoca in cui l’aveva veduto la prima volta. Il signor Delaunay, prevenuto che l’ambasciatore d’Inghilterra e sua moglie visiterebbero la Bastiglia, ci attendeva per farci egli stesso gli onori del castello reale. Ci chiese prima se volevamo vedere i suoi prigionieri, almeno quelli che gli era permesso di mostrarci. Mi informai se mi era permesso di liberarne qualcuno. Il signor Delaunay mi rispose che la sua cortesia non poteva andare fin là. — Allora, gli dissi, non potendo far nulla per essi, desidero piuttosto di non vederli. — Che volete vedere allora? Parigi dall’alto della torri? La cosa era molto facile; il signor Delaunay, ci precedeva col cappello in mano, e per quante istanze gli feci non volle mai metterlo in testa. Io diceva a me stessa, come mai un gentiluomo tanto cortese e di sì belle maniere, poteva essere così spietato, o piuttosto così cupido verso i suoi prigionieri. Si raccontavano di lui dei tratti di avarizia incredibili. Tutti gl’impieghi della Bastiglia, fino a quello di guattero, si vendevano e dipendevano da lui. Con sessanta mila lire di stipendio, dicesi, che trovava modo di formarsene centoventi, egli guadagnava su tutto: sulla legna, sul vino. Il terrazzo di un bastione era stato convertito in giardino per il passeggio dei prigionieri; egli trovò modo di ricavarne cento franchi l’anno affittandolo ad un giardiniere. Quando fummo in cima alle torri, da un lato spingevamo lo sguardo fino in fondo al baluardo del Tempio, dall’altro fino al giardino del re, verso oriente fino alla barriera del trono, e ad occidente fino agli Invalidi. Di là solamente potemmo apprezzare quanto fosse numerosa la folla a traverso la quale eravamo passati, e che ora dominavamo. Tutta questa folla si recava verso il sobborgo San Antonio, e sembrava irritata, ed alcuni in passando facevamo i pugni alla Bastiglia. Il signor Delaunay se ne rideva. Gli chiesi donde veniva tutto questo rumore e tutti questi clamori del popolo. Mi rispose che il popolo di Parigi, preso da vertigine e pieno di malvolere, pretendeva morire di fame; ora il cartaio Reveillon, uno di quegli aristocratici del commercio, — i peggiori fra gli aristocratici, — sosteneva che l’operaio guadagnava ancor troppo, e che abbisognava ridurre la sua mercede giornaliera a quindici soldi; si aggiungeva che doveva essere decorato del cordon nero di S. Michele dalla corte che si assicurava in lui un elettore realista. Tutta questa comitiva era diretta verso la sua casa; le grida che metteva eran grida di morte contro il cartaio. Per fortuna egli era nascosto, e non lo si trovò in casa: allora in un momento, con un fascio di paglia, si fabbricò un fantoccio, un rigattiere recò un abito vecchio, e tostochè il fantoccio fu vestito, gli si aggiustò un cordone nero al collo, e lo si appese in cima ad una pertica, e la si faceva passeggiare per le vie di Parigi. Il corteggio ripassò innanzi alla Bastiglia per andare ad abbrucciare il fantoccio al palazzo municipale, ma allontanandosi minacciò di venire il giorno dopo ad appiccare il fuoco alla casa. — Se voi volete vedere ciò, ci chiese galantemente il signor Delaunay, ritornate dimani alla stessa ora; sarà una cosa curiosa, io credo. — Ma, gli diss’io, dal momento che questa gente manifesta apertamente la sua intenzione, dimani la polizia prenderà le sue misure e si opporrà. — Oh Milady, disse ridendo il signor Delaunay, voi vi credete ancora in Inghilterra ove un conestabile col suo piccolo bastone disperde, toccando il capo della sommossa, un assembramento di cento mila persone. Disingannatevi, Milady; noi siamo in Francia, ed in Francia quando il popolo comincia a farne delle sue, non si ferma là così. Fatemi l’onore di accettare dimane un asciolvere; metterò un uomo in sentinella sulle torri per avvertirci quando lo spettacolo comincerà, e vi prometto alle frutta un saccheggio che sarà forse un incendio. Guardai in faccia a sir William; egli lesse nei miei occhi il desiderio che aveva di assistere allo spettacolo promesso; e siccome egli non aveva altra volontà che la mia: — Signore, disse, eccettuato l’asciolvere, io e Milady accettiamo l’offerta che ci fate. Il signor Delaunay fece un inchino. — C’è un male, però, signore, diss’egli; le due offerte vanno insieme e non possono essere disgiunte; mi si offre un’occasione di ricevere alla mia tavola uno dei primi dotti del mondo forse, e senza dubbio la più bella donna di Inghilterra, e quest’occasione non la lascerò sfuggire. Io era maravigliata e nel medesimo tempo accarezzata da questa galanteria francese, che sorgeva come un fiore naturale fin dalle fessure delle pietre di una prigione. — Ebbene, signore, gli dissi, io accetto anche in nome di mio marito: ma ad una condizione. — Una condizione posta da voi, Milady, si accetta ad occhi chiusi, foss’anche quella di consegnarvi le chiavi della Bastiglia; dite questa condizione. — Che voi ci darete l’ordinario dei prigionieri, onde mi ricordi di aver pranzato in una prigione. — Su questo punto vi posso soddisfare, Milady; vi prometto l’ordinario dei prigionieri. — In parola d’onore? — Da gentiluomo. — Io gli porsi la mano. — So bene, gli dissi, che quando un Francese ha detto ciò, si farebbe piuttosto ammazzare che mancare di parola. A dimani, signore. E in ciò, ci accomiatammo dal galante governatore della Bastiglia. XI. In attesa dello spettacolo promesso pel giorno seguente, sir William mi chiese dove desiderassi di passare la sera; senza esitare risposi: alla Commedia francese. Il teatro era e fu sempre la mia passione, e quando penso che se al momento della mia miseria Drury Lane non fosse stato incendiato, probabilmente vi avrei fatto le mie prime prove e sarei diventata la rivale di Maria Siddons, in vece di essere diventata quella di Aspasia. Ciò sarebbe stato probabilmente meglio per la salvezza dell’anima mia e per la tranquillità della mia coscienza. Si rappresentava la _Berenice_ di Racine. Sir William mandò a prendere un palco; gli si rispose che non ve n’erano più. Nessun palco disponibile! in mezzo alle sommosse ed alla carestia; non è nemmeno credibile. Chiedemmo la causa di quell’affluenza; ci si rispose che un giovane tragico, che da due anni appena calcava la scena, e che otteneva gli applausi più grandi e più meritati, rappresentava per la prima volta in quella sera la parte di Tito. Chiesi che nome aveva; — si chiamava Francesco Talma. Sir William mi vide talmente contrariata per questo contrattempo, che scrisse in quel momento al suo collega ambasciatore d’Inghilterra presso la Corte di Francia per chiedergli se per avventura non avesse un palco da dargli per la commedia francese. Sua signoria che probabilmente non era ammogliato, o aveva una moglie che non amava la commedia, rispose che con suo grande rincrescimento non poteva soddisfare al desiderio di sir William; Sua signoria non teneva palco. Era talmente disperata, che pregai sir William di far salire l’albergatore e d’interrogarlo per sapere se conoscesse qualche mezzo per procurarsene uno, ovvero alcuni posti qualunque fossero. — Non conosco che un solo mezzo, ci disse: scrivere al signor Talma in persona. Sir William fece un movimento di rifiuto. — È un giovane educatissimo, diss’egli a sir William, che conosce la migliore società di Parigi; è un eccellente patriota, e certamente se Vostra Signoria si degna di onorarlo, farà tutto ciò che potrà per procurarle il piacere di vederlo. Sir William si volse dalla mia parte per interrogarmi su di ciò che doveva fare; egli mi trovò colle mani giunte e col viso supplichevole. — Ebbene, diss’egli, giacchè lo vuoi. Prese la penna e scrisse: «Sir William Hamilton ambasciatore di S. Maestà Britannica, e Lady Hamilton sua moglie hanno l’onore di presentare i loro complimenti al signor Talma e di esprimergli il desiderio di vederlo a rappresentare questa sera la parte di Tito; tutte le loro premure per procurarsi un palco sono state vane; essi si trovano obbligati, anche a rischio di rendersi importuni, di ricorrere a lui e di chiedergli due posti nella sala, qualunque fossero, purchè una Lady vi possa andare». «27 aprile 1789» — V’incaricate voi di far ricapitare questa lettera al signor Talma? dimandò sir William all’albergatore. — Certamente, è la cosa più facile del mondo. — E di farci avere la risposta? — Più ancora, mylord, disse il nostro albergatore; per essere sicuro che la commissione sia ben eseguita, vado a farla io stesso. E senza aspettare i nostri ringraziamenti, partì portando seco la lettera. — Davvero, mormorò sir William, a malincuore bisogna convenire che questo popolo francese è pure assai garbato; peccato che sia tanto leggiero. Sir William era lungi dal dubitare che i francesi si correggessero presto della qualità per cui li lodava, e del difetto di cui li rimproverava. In capo ad un quarto d’ora il nostro albergatore ritornò tutto giulivo; aveva un viglietto in mano. — Voi avete un palco? esclamai scorgendolo. — Sì, l’ho, diss’egli, sollevando in aria il viglietto, eccolo. Gli presi di mano il viglietto; esso racchiudeva una piccola cartolina con queste cinque parole: — _Buono pel mio palco_. — TALMA.» e più sotto. — _Entrata degli artisti_. — Io m’impossessai tutta contenta del palco. — Aspettate, mi disse sir William; Tito ci fa l’onore di risponderci. — Ah vediamo, e lessi: «Il cittadino Talma è dolentissimo di non poter offrire all’illustre sir William Hamilton ed a Milady Hamilton che il suo palco posto sulla scena. Ma, come si trova, glielo offre coll’espressione della sua riconoscenza la più tenera, per avere voluto pensare a lui. «27 aprile 1789.» Era impossibile di contenersi meglio nei limiti della convenienza più assoluta. Alle sette ore e mezza precise noi eravamo in teatro. Il portiere che ci attendeva al portone ci fece attraversare la scena, e ci condusse al palco. Era facile di vedere che colui che ce lo prestava ci aveva messo tutta la galanteria di cui è capace un artista. Un grande specchio decorava una parete; i mobili erano coperti da stoffe turche ricamate in oro; questo palco mi ricordava in miniatura lo studio di Romney. Io era incantata di essere sulla scena, e aveva un piacere dieci volte maggiore che se fossi stata nella sala, fosse stata pur messa a mia disposizione la loggia reale. Aspettava con impazienza che si levasse il sipario. Ma per questa attesa ebbi anche uno spettacolo più curioso di quello della tragedia, quello del dietro scena. Tutti gli artisti si trattenevano dal loro collega Talma, e si facevano dimande sulle nuove eccentricità della foggia di vestire che egli si sarebbe permesso. Essi chiamavano eccentricità quel lavoro pieno di scienza a cui si dedicava Talma per ricondurre il teatro alla verità storica. In fine la campana si fece sentire, si diedero i tre colpi, il direttore dispose gli artisti, e si levò il sipario. Confesso che quando Talma entrò alla prima scena del secondo atto, misi un grido di ammirazione. Mi sembrava di veder camminare una statua romana. La testa particolarmente era superba, i capelli tagliati corti ed arricciati alla foggia antica, la corona d’alloro d’oro posava sui suoi capelli; il mantello di porpora, non già attaccato ma gettato senza cura sulle spalle, permetteva a chi lo portava di avvolgerselo in mille guise; tutto ciò dava una singolare verità all’artista che riconduceva gli spettatori a 1700 anni addietro. Tutti gli altri commedianti mi sembravano maschere. La parte di Berenice era sostenuta, per quanto mi posso ricordare, da una giovine e bella artista chiamata madamigella Vestris; essa aveva un abito all’antica, i capelli incipriati e il guardinfante. Quando entrò alla quarta scena del second’atto, e si trovò in presenza di Tito, fece dapprima un movimento di sorpresa, poi represse un violento scoppio di riso; Tito aveva le braccia e le gambe ignude, mentre gli altri avevano delle maglie di cotone, e dei calzoni di seta. Pure declamò con tutta l’anima che potè mettere nella sua lunga parlata, che cominciò con questo verso: «Non ti lagnar, signor, se un indiscreto zelo mi spinse.... ecc. e finisce: «Signor! presente almeno ero al pensiero?» Ma finito questo verso, invece di ascoltare la risposta di Tito, lo guardò da capo a piedi, mentre che Tito le diceva alla sua volta: «Donna, non dubitar! n’attesto il Cielo, Berenice a’ miei occhi è ognor presente, Tempo od assenza ti rinnovo il giuro, Non possono rapirti al cor che t’ama. — Mi perdoni Iddio, Talma, mormorò la donna, ma voi non avete la parrucca, ma voi non avete la maglia; ma voi non avete i calzoni. Poi mentre Talma avea finito quanto doveva dire, le rispose: — Cara amica, i Romani non ne portavano. Ed essa ripigliava con una nuova tenerezza: «E vuoi giurarmi Un affetto immortal, se tu mel giuri Freddamente così? Confesso che mi gettai indietro sullo sfondo del palco per poter ridere in tutta libertà, mentre Sir William, nella sua qualità di antiquario, si sfiatava a dire: — Ma ha ragione, ha perfettamente ragione. Bravo quel giovane, bravo; voi sembrate una statua trovata ad Ercolano od a Pompei. _Perge sic itur ad astra._ Il tragico fece un leggiero inchino verso di noi in segno di ringraziamento. — Chi sono quelli che hai nel tuo palco? chiese con un fare sgarbato madamigella Vestris seguitando a recitare. — Sono artisti inglesi, rispose Talma con un leggiero sorriso, che faceva valere anche per conto dell’amore che Tito aveva per Berenice. — Sì, sì, artisti, signor Talma, esclamai io applaudendo, avete ragione, veri artisti. I miei applausi raddoppiarono alla parlata di Tito; questa parlata, che aveva insieme del disordine, dell’amore e della dignità, fu ammirabilmente declamata dal giovine tragico. Quando calò il sipario verso la fine del secondo atto, si udirono grandi applausi nella sala, si gettavano quasi fuori dei palchi e gridavano _bravo_. Ove noi eravamo non potevamo vedere; ma gli artisti si avvicinavano al sipario e guardavano dal foro che vi era praticato. — Che c’è, che c’è dunque? chiedevano gli altri commedianti, a quello che aveva la fortuna di stare a quel foro. — Bene, rispose, non ci mancava che questa. — Ma che cosa? — Ecco che quel pazzo di Talma ha trovato degli imitatori. — Come? soggiunse uno del commedianti; vi sarebbe qualcuno in platea, che per avventura sia senza calzoni? — No, ma vi è un giovane presso l’orchestra, che dopo l’atto è andato probabilmente a farsi tagliare i capelli: è acconciato _alla Tito_, ed è lui che si applaudisce. Fra il secondo ed il terzo atto l’esempio fu imitato da tre o quattro giovani. All’ultimo atto Talma aveva una ventina di imitatori nella sala. È inutile dire che da quella sera venne la moda di portare i capelli alla Tito. Quando calò il sipario al quinto atto. — Dio mi perdoni questa empietà sul mediocre intreccio della Berenice, — sir William, prevenendo i miei desideri, fece dimandare dal portiere _il cittadino_ Talma: — ricordiamoci che questo era il titolo che aveva preso quando ci scrisse, — se potevamo ringraziarlo nel suo camerino. Ci fece subito rispondere che era un grande onore per lui, che non avrebbe ardito di aspettarsi; ma poichè noi eravamo disposti di farglielo, lo accettava con riconoscenza. C’incamminammo verso il suo camerino: il corridojo era ingombro; però vedendo una signora che sembrava essere dell’alta società, ciascuno si ritrasse verso il muro, di modo che riuscimmo ad entrare. Tito ci aspettava alla porta per farci gli onori del suo camerino; la nostra meraviglia fu grande quando rivolgendosi a noi in perfetto inglese, ci chiese, o piuttosto chiese a sir William se voleva o no conservare l’incognito. Sir William rispose che non aveva alcun motivo di nascondere _l’onore che egli faceva a sè stesso_ venendo a ringraziare un grande artista, facendogli i suoi complimenti, e che anzi desiderava di essere presentato alla società che si trovava nel suo camerino, e che dall’apparenza doveva appartenere alla classe più intelligente della società. Sir William non s’ingannava: Talma ci presentò successivamente il poeta Mario Giuseppe Chenier, di cui dovea rispondere il _Carlo IX_; Ducis di cui facea fede il Macbet, il giovine Arnault di cui studiava il _Mario a Minturno_; La Harpe che lo tormentava per rappresentare il suo _Wasa_; il pittore David che gli dava i modelli del vestiario; il cavalier Bertin che cinque o sei mesi prima avea pubblicato il suo libro degli amori, e che al giorno seguente o l’altro doveva partire per S. Domingo, ove dovea morire l’anno dopo; Parny, che si chiamava il Tibullo francese, e che era in procinto di cantare la sua Eleonora, mentre suo fratello, con minor poesia forse ma con altrettanto spirito cantava madamigella Comtas. Infine cinque o sei altri giovani, che avevano tutti un nome, od erano per farselo. Sir William ebbe la sua corte, ed io la mia. Egli entrò in una discussione sul modo di vestire degli antichi con David e Talma: mentre io faceva sui loro versi i complimenti al cavalier Bertin e Parny e essi me ne facevano sulla mia bellezza. Sir William sempre preoccupato dei miei trionfi me ne procurava uno. Egli invitò Talma, pregandolo d’invitare tutti gli amici che si trovavano nel suo camerino, di venire a passare la serata di domani all’hôtel des Princes. Se Talma consentiva a declamare dei versi di Corneille, di Racine e di Voltaire, Lady Hamilton declamerebbe da parte sua il Shakespeare. Talma era pregato di prevenire i suoi amici che la serata sarebbe terminata con una cena. L’invito fu accettato all’unanimità; e ci ritirammo. Noi avevamo, se vi ricordate, da ricondurvi per le due ore del giorno alla Bastiglia per asciolvere col governatore. XII. Ritornando, ringraziai Sir William Hamilton della piacevole serata che mi aveva fatto passare; l’arte in fin dei conti, mi sembrava sempre il mezzo al quale era destinata, e se seguitando la mia vera vocazione, avessi potuto entrare in un teatro, avrei certamente lasciato una riputazione eguale a quella di M. Champmesle e di mistress Siddons. Il giorno seguente alla mattina feci venire due sarte, e feci loro il disegno di due vestiarj, che desiderava di avere per la sera; quello di Ofelia e di Giulietta. Dissi loro di prendersi in aiuto quante operaie volessero, purchè i due abiti fossero finiti per le otto ore della sera. Le due sarte m’impegnarono la loro parola, e tanto sicura su questa parola, come lo era stata il giorno innanzi sulla _fede di gentiluomo_ del signor Delaunay, salimmo in carrozza alle nove ore e mezza per condurci alla Bastiglia; ma arrivando al baluardo del Tempio, la folla era così grande, che ci fu impossibile di andare innanzi. Allora prendemmo la via del Tempio, e giungemmo sulla banchina della Senna dalla parte del baluardo Bourdon. Da questa parte lo spazio era libero, la sommossa non passava per la Bastiglia, ma volgeva a sinistra verso il sobborgo S. Antonio. Il signor Delaunay ci attendeva e la tavola era messa con un gran lusso: c’invitò ad asciolvere senza ritardo, atteso che la sommossa sarebbe verosimilmente nel suo splendore verso mezzogiorno. Alla prima portata, la profusione delle vivande e la finezza del vini ci accusavano che il signor Delaunay non aveva mantenuto la sua parola di darci l’ordinario dei prigionieri. Ma egli al contrario: — Milord, disse, voi mi avete imposto delle condizioni, ma in esse mi avete lasciato tutta la latitudine. Noi abbiamo alla Bastiglia prigionieri e prigionieri; prigionieri che sono principi del sangue, fino ai motteggiatori; ora per il vitto di un principe del sangue sono fissate cinquanta lire al giorno, per quello di un maresciallo di Francia trentasei, per quello dei generali e brigadieri ventiquattro lire, per quello di un consigliere quindici lire, per quello di un giudice ordinario dieci lire, per quello di un ecclesiastico sei lire, e per un motteggiatore uno scudo. — Ebbene? gli domandai, non indovinando molto a che serviva questa lunga enumerazione. — Ebbene, soggiunse, io vi tratto da principi reali, ecco tutto. — Noi abbiamo allora la colezione del signor de Beaufort? gli domandai. — V’ingannate, cara amica, disse sir William; il signor de Beaufort non è stato alla Bastiglia, ma a Vincenne; è il signor de Condè che è stato alla Bastiglia. — Come? è qui che egli coltivava i suoi garofani! se ve rimane ancora, me ne dareste uno, signor governatore? — V’ingannate ancora, disse sir William, quello che faceva il giardiniere era Luigi II, il gran Condè. Anch’egli è stato a Vincenne, a meno che non consideriate per essere stato alla Bastiglia l’esservi nato; allora è Enrico II suo padre, un sovrano assai triste che è stato alla Bastiglia. — Alla buon’ora, disse il signor Delaunay; ecco un dotto inglese che può istruirmi sulla storia della mia fortezza. Alla salute della Torre di Londra, e che sgombri sempre i re d’Inghilterra dai suoi nemici, come la Bastiglia liberi i re di Francia dai suoi. Posso affermare a Vostra Signoria che il duca di Clarence non è stato annegato in un vino migliore di quello ch’ella beve in questo momento. Avevamo appena vuotato i nostri bicchieri per dare ragione al signor Delaunay, quando venne uno ad annunciarci che se noi volevamo vedere la sommossa in tutta la sua bellezza, non avevamo un momento da perdere. Il signor Delaunay ci voleva trattenere a tavola; ci affermava che avevamo tutto il tempo; ma la curiosità vinse: insistemmo e salimmo sulla torre più vicina al sobborgo S. Antonio. Difatti, appena giunti a quel punto elevato, da cui non ci poteva sfuggire alcun particolare, noi vedemmo quella scena terribile in tutta la sua sconcezza. — Ah! perdio! ci disse il signor Delaunay, volgendosi pian piano verso sir William: io posso non solamente mostrarvi il saccheggio di Reveillon, ma lo stesso Reveillon in persona. — In che modo? — Dimenticava di dirvi che ieri mattina, egli, sapendo che era minacciato nientemeno che di essere appiccato, è venuto a dimandarmi un asilo che io, ben inteso, gli accordai. Vedete quell’uomo piccino coi capelli crespi, col viso contratto, che sembra prendere tanto interesse a ciò che succede, e che si china fuori dal parapetto in modo da far credere ch’egli voglia gettarsi dalle mura? — È lui? — Egli stesso. E perchè non ne dubitassimo: — Eh! signor Reveillon, disse egli, che pensate voi di ciò che succede laggiù? Reveillon raccapricciò. — Io penso, signor governatore, disse egli, che se la Corte non avesse bisogno di una sommossa per guadagnar tempo per gli Stati Generali, si sarebbero spicciati presto con questa massa di saccheggiatori: guardate! non è mica una derisione? Vi sono circa a due mila che saccheggiano la mia casa, e che probabilmente vanno a metterla in fiamme. — Ebbene, il signor di Besenval vi manda — quanti? — contiamoli: — dieci — quindici — venti — venticinque — trenta. — Il signor di Besenval invia trent’uomini per contenerne due mila, senza contare centomila spettatori che vi si divertono, e per conseguenza li spingono a continuare. — Signor Reveillon, signor Reveillon, disse il signor Delaunay, mi sembra che voi parlate assai leggermente del governo di Sua Maestà, e mentre vi trovate alla Bastiglia vi potrete anche restare. — Oh! disse il poverello, che la vista dei suoi mobili che gettavano dalla finestra metteva alla disperazione; io sono ben tranquillo; non è per i pari miei che la Bastiglia è fatta, ma per i gran signori; per voi, per esempio, se lo voleste. E si fermò esitando. — Ebbene? chiese ridendo il governatore. — Voi non avreste che a dire una parola, e mi salvereste; perchè dimani sarò ridotto alla miseria. — E quale parola avrei a dire? — Voi non avreste che a dire: «fuoco,» ed uno dei vostri cannoni non avrebbe che ad obbedire, e la piazza sarebbe tosto sgombra. — Ma, disse sir William al governatore, mi sembra che quest’infelice non abbia tutti i torti. — Anzi, rispose il signor Delaunay, egli ha invece tutte le ragioni; ma io sono comandante di un castello reale, io non posso movere un cannone, nè abbrucciare un’esca senz’ordine del re. Intanto il saccheggio andava crescendo. Dopo il saccheggio venne l’incendio; le fiamme cominciavano ad uscire dalle finestre. Allora vennero alcune compagnie di guardie francesi e fecero fuoco; due o tre di quel miserabili caddero, ma gli altri respinsero i soldati a colpi di pietra. — Io cercai cogli occhi di vedere Reveillon; non vi era più: senza dubbio la vista del saccheggio della sua casa l’aveva così profondamente rattristato, che non aveva potuto sopportarla più a lungo, ed erasi forse ritirato in qualche camera della Bastiglia. Finalmente dopo due o tre ore, durante le quali si lasciò sbizzarrire a lor talento i saccheggiatori, vennero gli Svizzeri. I rivoltosi volevano fare a questi ciò che fecero alle guardie francesi; ma gli Svizzeri non erano di sì buona pasta, fecero fuoco davvero non già a polvere ma a palla, uccisero una ventina di persone e dispersero non solamente i saccheggiatori ma anche i curiosi. Poi entrarono nella casa, trascinando fuori per la via degli uomini che sembravano morti e invece erano soltanto ubbriachi; quelli là li avevano trovati in cantina; ma alcuni, credendo di bevere il vino di Reveillon, avevano bevuto i colori della fabbrica, e morirono avvelenati. In complesso vidi che una sommossa non era una cosa gaia come credeva; quella aveva cominciato coll’appiccare un fantoccio, e terminò col saccheggio e coll’incendio di una casa, oltre la morte di cinque o sei soldati e di una ventina d’uomini, che per essere dei miserabili non erano nemmeno uomini. Noi ringraziammo il signor Delaunay della sua sommossa e del suo asciolvere; ma gli confessammo che la vista dell’una c’impediva di finir l’altro. Lasciammo quindi a metà il suo ordinario dei principi reali, che, — debbo confessarlo, — era eccellente, e più facilmente che non eravamo venuti ritornammo a casa. Quando quattro mesi dopo udimmo a Napoli la presa della Bastiglia e la morte del signor Delaunay, le due notizie ci fecero una impressione più profonda, avendo conosciuto il castello ed il suo comandante. Solamente, si dimanda, quando si è veduto l’altezza delle torri, lo spessore delle mura, e la forza delle porte; come mai un popolo male armato, mal comandato, senza cannoni, senza macchine di guerra, prende una fortezza come la Bastiglia? La questione si agita da venticinque anni, e la risposta non è ancor fatta. Una volta ritornata a casa, mi occupai più dei preparativi della nostra serata. Vi metteva un certo vezzo particolare a conquistare i suffragi di una tale riunione di uomini intelligenti. Temeva solamente che gli avvenimenti della giornata non facessero torto ai nostri progetti della sera. Ma io non conosceva ancora i Francesi, questo popolo proteiforme che trova tempo per tutto, che maneggia nello stesso tempo con eguale indifferenza, direi quasi colla stessa abilità, il fucile, la matita e la penna; che alla mattina fa una sommossa, alla sera coltiva le arti, e tutto ciò con una ferocia ed una delicatezza che non appartiene che a lui. Alle otto ore le due sarte mi avevano mantenuto la parola, ed io aveva i miei due abiti; l’esattezza colla quale i nostri invitati si presentarono dalle nove alle nove e mezza ci provarono il piacere che avevano di trovarsi al convegno. Si parlò dapprincipio della novella del giorno, della sommossa; vidi con stupore che tutti questi artisti, tutti questi poeti, tutti questi pubblicisti erano dello stesso parere, e se non ne incolpavano la corte erano almeno dell’avviso del povero Reveillon che vedeva abbrucciare il suo magazzino, cioè che la corte non si era opposta quanto avrebbe potuto. Il poeta Chenier ed il pittore David andavano più oltre, e pretendevano che non solamente la Corte non si era opposta alla sommossa, ma che l’impulso veniva da essa. Essa sperava, dicevano costoro, che tutta questa turba affamata, tutti questi uomini senza pane, cinquantamila operai senza lavoro si unirebbero ai turbolenti e si metterebbero a saccheggiare le case dei ricchi; allora tutto muterebbe d’aspetto, la Corte avrebbe un eccellente motivo per concentrare una armata sopra Parigi e Versaille, e un pretesto eccellente per aggiornare gli Stati; ma, contro l’aspettazione della Corte, la moltitudine era rimasta onesta e si era astenuta. Queste cose le dicevano con una tale convinzione, ed i loro uditori erano disposti a convenire nel loro avviso, che la mia coscienza ne era molto scossa. Quanto a sir William, la sua riserva diplomatica non gli permetteva di essere apertamente di questa opinione, ed io osservava che la lasciava manifestare senza altrimenti combatterla con dei _forse_ e dei _credete voi_. Ma siccome la riunione non aveva uno scopo politico, a poco a poco si cessò di parlare di affari, per ritornare alla poesia ed alla letteratura. Il signor Talma, come ci era stato detto, era un uomo di un giudizio affatto superiore. Disponendosi a declamare l’_Amleto_ di Ducis, si rammaricava con lui di dover molto sagrificare il gusto francese. Mi parve che allora era il momento di far propendere la bilancia dalla parte di Shakespeare, e senza dir nulla entrai nella camera vicina; cinque minuti mi bastarono per addossare l’abito di Ofelia; e la discussione animata da sir William, che aveva compreso la mia intenzione, continuava ancora. Quando ad un tratto si aperse la porta, e nella oscurità opportunamente procurata nella stanza vicina, apparvi pallida e coll’occhio fisso come lo spettro di Ofelia, non vi fu che un grido nella sala, e ciascuno si ritrasse istintivamente innanzi a me per farmi posto. La pazzia d’Ofelia, e le scene di Giulietta al balcone erano il mio trionfo. Io era riescita ad assicurarmelo tre o quatto volte a Londra, ove aveva declamato le due scene. La cosa era completamente nuova e per conseguenza doveva produrre un effetto maggiore; ma anche poche persone comprendevano l’inglese, e bisognava indovinare dalla mia fisionomia l’intenzione del poeta. Per fortuna questa splendida scena della pazzia d’Ofelia non aveva bisogno di spiegazione, tanto la mimica che l’accompagna può diventare parlante; quasi ad ogni verso io era interrotta dagli applausi, che invece di aumentarne l’effetto non potevano che diminuirlo. Anche Talma prevenendo il mio desiderio, supplicò che mi lasciassero almeno finire senza essere interrotta nei differenti periodi che la scena presenta. Lo ringraziai con un segno di testa, e senza interrompermi nè essere interrotta, continuai sino alla fine della prima scena: «Addio Milady, — la carrozza.» Ma allora fu un vero scoppio d’applausi. Talma, chiedendomi perdono della famigliarità, si slanciò verso di me, e dichiarò che io era per niente affatto l’ambasciatrice d’Inghilterra, ma mistress Siddons che viaggiava incognita. In conseguenza di ciò mi baciò la mano. Confesserò di sfuggita che mai un gran signore, principe o re che mi avesse baciato la mano, non mi fece il piacere, anzi direi l’onore che mi fece Talma in questo momento. E sir William lo comprese bene, egli così artista, poichè da parte sua prese la mano di Talma con un’affezione in cui entrava una parte di riconoscenza. Corsi via dalla sala in mezzo alle grida che mi richiamavano. Si credeva la scena finita, ma Talma dichiarò che la scena era stata solamente declamata per metà e che rimaneva l’altra, vale a dire la più pittoresca e la più drammatica. Io non voleva lasciar spegnere l’entusiasmo dei miei ammiratori; e ricomparvi quasi subito coi miei capelli sciolti, colla mia corona di papaveri e di avena selvatica, i miei fiori campestri e il mio velo. Ho già detto una volta l’effetto che produssi in questa scena; si perdoni al mio orgoglio di ripeterlo; sono i soli trionfi che non mi hanno lasciato dei rimorsi, era la scintilla che aveva in me e che si manifestava: era la fiamma artistica che mi coronava della sua aureola. Perchè Dio non ha permesso che io venissi nel mondo della intelligenza, invece di venire nel mondo della grandezza? È inutile dire che il mio trionfo fu ancora più grande la seconda volta che la prima, e finì con una vera rampogna che Talma fece al povero Ducis per avere _sfigurato_ l’Amleto di Shakespeare, al punto di non avere osato di introdurvi le due scene che io aveva rappresentato. Ducis sembrava interamente convertito all’idea di Talma; ma mi parve che volesse meglio lasciare il suo Amleto tale e quale era, che di rifarlo. Come l’abate Vertot il suo giudizio era fatto. — Ve l’aveva ben detto, ve l’aveva ben detto, ripeteva Talma; colla vostra smania di tutto accomodare, è come il mio monologo, come il famoso _Be or not to be_ che voi mi avete guastato. Guardate, mio caro Ducis, volete vedere come era in inglese? Guardate ed ascoltate. All’istante tutti gli fecero posto; mise per un momento la sua mano sul viso per dar tempo alla sua fisionomia di scomporsi: poi lasciando cadere lentamente la mano, colla fronte alta, l’occhio fisso, la testa bassa, cominciò in inglese, con un perfetto accento, il famoso interrogatorio, in cui la vita costringe la morte a confessarle i suoi segreti. Talma fu sublime. Oh! se io fossi stata libera, se mi fosse stato permesso di rompere la mia catena dorata, oh come gli avrei detto: prendetemi, elevatemi con voi all’altezza ove voi poggiate, e non mi lasciate ricadere sulla terra se non attaccata al vostro cuore. Ahimè! io aveva altri destini. Perdonatemi mio Dio, di non aver saputo scegliere, o piuttosto di non aver saputo aspettare. A che serve dire il rimanente di questa serata d’ebbrezza! Dopo ventidue anni essa risplende ancora nella notte del passato, più splendida dei miei giorni più ridenti. Restammo riuniti fino a giorno, senza che a nessuno dalle nove di sera fino alle sei del mattino fosse venuto in mente una sola volta di osservare l’orologio. XIII. Due giorni dopo, il 30 aprile, ricevemmo dall’ambasciatore d’Inghilterra dei viglietti per assistere all’apertura o piuttosto alla processione degli Stati generali a Versaille. La nostra partenza era fissata pel 5 aprile. Se gli Stati venivano ritardati ancora un’altra volta, noi continueremmo il nostro viaggio. Sir William non intendeva di prolungare il suo soggiorno a Parigi. Alle tre ore di sera andammo a dormire a Versaille. L’ambasciatore d’Inghilterra aveva preso a pigione una casa per la metà dell’anno, presumendo che era là particolarmente che si sentiva battere il polso della nazione; ci aveva dato due camere al primo piano di questa casa, situate lungo la via che doveva percorrere il corteggio. Noi andammo prima in una tribuna per ascoltare la messa dello Spirito Santo. Non so se molti pensarono a queste parole della Scrittura: «Tu griderai ai popoli e la faccia della terra sarà mutata». Un po’ prima, verso la fine del _Veni Creator_, uscimmo per andare a prendere posto sul cammino della processione. Le larghe vie di Versaille, tutte parate con tappezzerie della corona, fiancheggiate da guardie francesi e svizzere non potevano contenere la folla. Tutta Parigi era a Versaille; le porte, le finestre, i tetti, gli alberi stessi erano carichi di spettatori; i balconi coperti di stoffe magnifiche, e scialli preziosi: i davanzali e le ringhiere piene di signore cariche di piume e di fiori. Si sarebbe detto che al momento di lanciarsi nell’arena della guerra civile, le donne, che poco dopo doveano essere colpite dalle leggi sommarie dell’eguaglianza, avevano preso quest’occasione per mostrarsi ancor una volta in tutta la loro gloria e la loro eleganza. Era evidente che un gran fatto cominciava: quale ne sarebbe stato il risultato, tutto il mondo l’ignorava ancora. Noi vedemmo da principio apparire in fondo alla via come un’onda nera: era il terzo Stato. Cinquecentocinquanta deputati, fra i quali trecento legali, avvocati, magistrati; tutti nomi ignoti o poco meno, eccettuato uno che pei suoi scandali, — bisogna che io sia franca come sempre, — era quello che io era principalmente venuta per vedere. Onorato Riquetti de Mirabeau. Il suo nome ed i suoi amori eransi resi celebri in Francia e fuori; i suoi ratti, i suoi adulteri, le sue prigioni formavano un romanzo più commovente, più spettacoloso, più terribile dei romanzi ideati nelle immaginazioni dei poeti. Non aveva che una sola dimanda: — Dov’è Mirabeau? dov’è Mirabeau? Me lo indicarono. Lo vidi da lontano; stese indietro quella testa dominatrice, distinta per la sua potente bruttezza, che scuoteva a guisa di un leone una foresta di capelli. Era la società dell’epoca tutta intiera riassunta in un uomo solo, lo ripeto in un uomo solo, perchè gli altri a lui vicino non sembravano che ombre. Lo seguii cogli occhi quanto lo potei lontano. Il suo passaggio, o piuttosto quello del terzo Stato scatenò una tempesta di applausi e di bravo, che cessò quando apparve la nobiltà. All’opposto del terzo Stato rimarchevole per la semplicità ed uniformità del suo vestire, la nobiltà vestita di seta e di velluto presentava un assortimento di tutti i colori più vivi, ornati di ricami sfarzosi. Dimandai il nome di una ventina di queste illustri oscurità: nessun uomo mi era noto. Mi mostrarono Lafayette, l’eroe dell’America; mi aspettava di vedere una di quelle vigorose nature chiamate dalla provvidenza per sostenere colla parola, colla penna e colla spada i grandi principii. Vidi invece un giovane smilzo, pallido o piuttosto biondo e rosa, che non dava alcun indizio della parte che avea rappresentato nel passato, e specialmente di quella che avrebbe rappresentata nell’avvenire. La nobiltà passò. Il duca d’Orleans solo fu applaudito freneticamente; si sapeva di far disgusto alla regina, e s’inferocivano nella vendetta. Da molto tempo vi era una guerra dichiarata fra Filippo d’Orleans e Maria Antonietta; si davano a quest’antipatia i motivi più strani; essa durava da otto o nove anni, e non doveva estinguersi che sul patibolo, su cui salirono a ventidue giorni di distanza l’uno dall’altra. Dopo la nobiltà veniva il clero; il silenzio era lo stesso. Nel clero solamente sembravano riuniti i due ordini che noi avevamo poco prima veduti a passare separati. Nobiltà e terzo Stato. Difatti precedeva una trentina di prelati in rocchetto e veste pavonazza. Poi un coro di musicanti. Poi infine, dopo i musici, duecento curati circa colla loro veste nera da prete. A questi ultimi il popolo senza applaudirli si avvicinava istintivamente. Erano il popolo della Chiesa che nei primi secoli non ha soltanto rappresentato il popolo, ma anche tutelata la libertà del popolo. Forse si era un poco allontanato da questa missione, ma non si chiedeva meglio che di perdonargli, tanto erasi ricondotto sulla buona via. Il Re alla sua volta ottenne qualche applauso: ma era lontano da quelli prodigati a Mirabeau ed al duca d’Orleans. Poi venne la regina. Fra il mio primo e il mio secondo viaggio a Parigi, si era fatto in lei un cambiamento terribile; Invece di quella graziosa dolcezza del suo viso, aveva nella sua fisonomia qualche cosa di secco, di smunto, d’ingrato. Le si gridò alle orecchie: «_Viva il duca d’Orleans_,» ed in mezzo alle grida si fece udire un fischio. Essa impallidì e pensò a svenire; fu sostenuta. Essa passò. La storia di ciò che aveva sofferto era scritta sul suo volto, già fatto di marmo, e non era ancora, povera donna, che al principio di ciò che doveva soffrire. Del resto quasi tosto, richiamando il suo coraggio, rialzò la testa, mandò intorno ad essa uno sguardo di sfida più di odio che di corruccio, poi riprese il suo fare abituale, sdegnoso ed indurito. Passata la regina, lasciai la finestra ed andai a sedermi; io provava lo stesso effetto come se mi avessero messo un pezzo di ghiaccio sul cuore, e se mi avessero detto; questa spranga di ferro non volendosi piegare, sarà spezzata, io non mi sarei punto maravigliata. Ci riposammo un istante; poi avendo veduto ciò che volevamo vedere, ripartimmo per Parigi. Durante la via, sir William mi spiegò la situazione: era una vera lotta che si agitava fra il basso clero, il terzo Stato ed i prelati e la nobiltà sostenuti dal Re. Tutte queste questioni erano troppo gravi per potervi fermare lungamente il mio pensiero. La mia cattiva sorte volle che mi fossi mischiata colla politica di un altro paese; ma io vi fui trascinata da un doppio motivo: dalla mia profonda amicizia per la regina, e dal mio amore irresistibile per Nelson. Lo so che un giorno nè l’uno nè l’altro mi serviranno di scusa, ma voglio piuttosto, dovendo rendere un conto così terribile, renderlo in nome del mio amore e della mia devozione, anzichè in nome del mio interesse personale. Lasciammo Parigi il giorno dopo, il 5 maggio 1789; prendemmo la via del Belgio e della Svizzera; attraversammo il S. Gottardo, scendemmo pel lago Maggiore, arrivammo a Livorno in posta, e vi trovammo la nostra feluca, ed il 20 di maggio mettemmo piede all’Immacolatella. Ritornando all’ambasciata, sir William trovò un viglietto del Re concepito in questi termini: «Il giorno dopo del vostro arrivo, mio caro sir William, vi aspetto a pranzo con noi al palazzo di Caserta; ma la regina, che desidera di fare una conoscenza colla vostra graziosa sposa, una conoscenza più intima, che non si può fare in una presentazione ufficiale, l’aspetterà fra le undici ore e mezzodì.» «Restate dunque ai vostri affari fino a quattr’ore, ma inviateci Lady Hamilton come la colomba dell’arca per annunziarci che voi avete messo piede a terra.» VOSTRO AFFEZIONATO FERDINANDO B. Sir William rispose: «Sire, «La colomba sarà da voi all’ora indicata, ma non aspettatevi che vi porti il ramoscello d’ulivo. Credo che de qualche tempo non si coltiva più quell’albero in Francia. «Alla mia volta, nell’ora che mi è assegnata, verrò a ringraziare Vostra Maestà di tutta la bontà che ha avuto per me. «Ho l’onore di essere con rispetto, «Di V. Maestà, _Umil. ed obb. servo_ W. HAMILTON. Come vedete, il mio trionfo era completo. XIV. Aveva portato dalla Francia una quantità di abiti. Esitai qualche tempo nello scegliere la specie di toeletta con cui mi doveva presentare alla regina. Mi decisi per la più semplice. Un abito di raso bianco, una piuma bianca nei capelli, uno sciallo di cascemiro azzurro chiaro sulle spalle, furono tutto il lusso che sfoggiai. Alle dieci partii per Caserta: alle undici discesi ai gradini del grande scalone. Al primo piano mi si aperse una porta che metteva in un corridoio. La regina mi aspettava nel suo piccolo appartamento. Non ho bisogno di dire in che modo mi battesse il cuore; mi sentiva pallida, tutto il sangue mi affluiva al petto. Infine dopo tre o quattro porte aperte e chiuse, se ne aperse un’ultima; e in mezzo ad un’abbagliamento udii il cameriere, che mi precedeva, pronunziare queste parole: — Lady Hamilton. Entrai senza vedere nulla; una densa nebbia si era stesa sui miei occhi, mi sentiva vacillare, volli fare una riverenza, fui costretta a tenermi ad una poltrona. Sentii allora che mi si sosteneva alla vita. — Che avete Milady? mi disse una voce benevola. — Perdono, signora, balbettai, l’emozione mi fa l’onore tanto desiderato e tanto aspettato di trovarmi innanzi a Vostra Maestà. — Ah! mio Dio, ma io sono dunque assai imponente? — Voi siete regina, signora. — Ecco quanto v’inganna; io sono una donna, e una donna che cerca un’amica; questa amica se voi me la recate, m’avrete dato più di quanto mai potrei darvi; ciò posto, sedetevi, e lasciatemi contemplarvi a mio bell’agio. Feci un movimento per nascondere la mia testa fra le mani. — Ma volete lasciarmi vedere questo bel viso, che io non ho veduto finora, che imperfettamente e alla sfuggita? Allora misi due o tre grida soffocate, e poi diedi in uno scoppio di singhiozzi; mi era impossibile di contenermi, io soffocava. — Ah! per esempio, esclamò la regina, non vi credeva pazza a questo punto: vediamo, vi debbo fare io delle scuse. — Oh, signora, mormorai appena. — Civetta, diss’ella, tutt’al contrarlo delle donne che si fanno brutte nel pianto, essa sa che le lagrime la fanno più bella ancora: vediamo, non vi è qui che una donna, è dunque inutile di fare la civetta, lasciatemi asciugare i vostri occhi, e discorriamo. La regina mi voleva asciugare gli occhi, io mi gettai ai suoi piedi e le baciai la mano. — Ecco che va già meglio, soggiunse, e quando vi avrò abbracciata saremo pari. Ed essa mi abbracciò. — Ah bene! disse la regina, ora che sono finiti i capriccietti, sedetevi qui vicino a me, e siamo buone amiche, meno che voi non lo vogliate, e allora non sarà colpa mia. Non trovando di che risponderle, le sorrisi nel modo il più riconoscente. — Suvvia, mi disse giuocando coi miei capelli; non mi piacciono le giornate che cominciano colla pioggia. — Oh! signora, balbettai, chi mi avrebbe mai detto che una grande regina, che l’augusta figlia di Maria Teresa.... — Zitto, zitto, o piuttosto, a proposito di regina, so che avete veduto mia sorella a Versaille; nella sua ultima lettera mi scrive che le cose vanno alla peggio in Francia, che soffre assai, e deperisce a vista d’occhio; che vi ha di vero in tutto ciò? — Ahimè, maestà, io non aveva veduto la regina di Francia da otto anni, e debbo confessare che in questi otto anni sembra aver dato un addio a tutto il lato bello e felice della vita. — Ed io che non la veggo da diciannove anni, che sarebbe mai se la rivedessi. Povera Antonietta. — Essa non ha che trentatre anni, replicai, ed a trentatre anni si è giovane. — Ma non quando si è regina, rispose Carolina, inarcando le sopraciglia, e se poi gli affari continuano a farsi serii, toccherà a noi di....; ma lasciatemi ora osservare la vostra toletta. — Non so se siete voi che andate bene al vostro abito, o se sia il vostro abito che vi sta dipinto; ma ciò che vedo si è che siete d’un gusto squisito; voglio farmene fare uno perfettamente eguale; noi sembreremo due sorelle. — Oh! signora. — Voi sarete la minore, s’intende; quanti anni avete, ventitre? — Un poco più? ventisei, maestà. — Il vostro volto ha un difetto impareggiabile, mia cara, quello di mentire in vostro vantaggio; tutt’all’opposto di me, io sono sempre sembrata più vecchia di quel che sono; voi non me ne fate perciò i complimenti, non è vero? Il vostro abito siamo intesi, io ne farò fare subito uno simile. E chi viene ora a disturbarci? ah sì, è il Re, lo riconosco al suo passo. — Il Re, signora, esclamai alzandomi, io non sono così esperta, come avrete potuto scorgere, in fatto di etichetta; che debbo fare? — Ma che! voi dovete rimanere; Sua Maestà poi non mi fa mai delle lunghe visite, i nostri atomi attraenti, come diceva il defunto signor Descartes, sono ancora da attrarsi. In questo momento la porta si aperse, ed il Re entrò frettolosamente. Del resto quando dico il Re; per fortuna che la regina mi aveva prevenuto col dirmi _che riconosceva il passo del Re_, perch’io certamente non lo avrei riconosciuto in quella specie di villanzone, che faceva invasione nell’appartamento di Maria Carolina. Figuratevi un uomo ancor giovane, di statura alta, assai ben fatto, quantunque avesse i piedi troppo grandi e le mani troppo grosse; portava una calzatura da caccia con grandi uose di cuoio, un farsetto di pelle di daino, una giacchetta e pantaloni di velluto di un colore abbronzato, con una fronte ed un mento che sfuggivano innanzi ad un naso enorme, che gli dava l’aspetto non già di un’aquila ma di un pappagallo: pettinato colle _oreilles de chien_ ed una coda _en salsifis_, e aveva in mano per le zampe tre tacchini che si dibattevano e chiocciavano quanto potevano: aggiungete a tutto ciò dei gesti comuni, ed un accento volgare, e avrete o quasi un’idea di ciò che era il re Ferdinando IV. — Buon Dio, disse la regina, che vi è accaduto, signore; io sono solita a vedervi quando ritornate dalla caccia, ma oggi mi sembra che facciate meglio, mi pare che abbiate dei polli. — Ah! mia cara maestra, disse Ferdinando, — egli chiamava con questo nome sua moglie nei suoi momenti di buon umore; visto che essa gli aveva o quasi imparato a leggere ed a scrivere; — voi che mi dite sempre che se non fossi Re, non avrei saputo guadagnarmi il pane, ecco per provarvi un poco il contrario, osservate un poco questi tre tacchini. — Li vedo. — Fatemi il piacere di palparli. — E così, signore? — A voi, a voi, Milady, e me li porse; io non sapeva che fare, esitava. — Palpate, palpateli, disse egli, e poichè ne dovete mangiare, non ci è male che vi assicuriate che sono grassi. Spero che avremo a pranzo sir William. — Egli avrà l’onore di obbedire all’invito di Vostra Maestà. — Farà bene, mangerà i tacchini guadagnati da me. — Ma alla fine, signore, disse la regina con impazienza, terminateci dunque la storia di queste povere bestie. — Ah! potete ben dire la mia, essa è abbastanza intimamente collegata colla loro, perchè potessimo separare l’una dall’altra. Immaginatevi che passeggiava ieri in giardino, quando incontrai una povera donna che mi ferma e mi dice: signore, mi hanno detto di mettermi qui per trovarmi sul passaggio del Re; credete voi che il Re passerà presto? — Nulla di più probabile, buona donna. — Come sarà vestito, onde lo possa riconoscere? Voleva quasi darle i contrassegni di san Marco e di D’Ascoli; ma preferii di spingere l’avventura sino alla fine. — Ascoltate, le dissi. Siccome il Re non passeggia tutti i giorni e voi potreste aspettarlo tutta la notte senza che passi, facciamo di meglio; se voi avete qualche istanza da presentargli, me ne incarico io. — Ve ne sarò molto obbligata, disse la buona donna; sono una povera vedova e non posseggo che tre tacchini; ma se voi mi tenete parola, ve li regalerò. — Sono grassi? le dimandai; capirete che non voglio comperare ad occhi chiusi. — Come oche, mio caro signore, rispose la donna. — Allora mercato fatto, venite domani coi tre tacchini, e voi avrete il vostro ricorso. — Sì? — Datelo a me. Dimani ve lo porterò postillato dal Re, io vi restituirò il vostro ricorso, e voi mi darete i tre tacchini, e ci saremo sbrigati. — Prendere e dare? — Prendere e dare, certamente. Vedete che non ho mancato al convegno. Aveva messo un uomo in sentinella e quando venne a dirmi: «C’è abbasso una donna con tre tacchini» allora discesi, le consegnai il suo ricorso postillato da me; ed essa mi ha dato i tre polli: povera donna, ho paura che abbia fatto male i suoi conti. — E perchè? — Perchè i giudici non ci baderanno alla mia raccomandazione; ma questa volta sono a fare, se bisogna, un colpo di stato, perchè si renda giustizia a questa povera vedova. Se però i tacchini sono teneri. Ed il Re uscì schiamazzando dalle risa, e tenendo in mano i tacchini che egli stesso andò a portare in cucina. La regina lo seguì con uno sguardo che aveva un’impressione indefinibile di sdegno, e rivolgendosi a me: — L’avete veduto? mi disse; non ho altro a dirvi di più. I miei occhi si fissarono su di essa e la osservai minutamente colla più grande attenzione. Aveva trentasette anni, come aveva detto, di modo che anche in lei la bellezza della matrona succedeva alla bellezza da sposa. Aveva la carnagione bianca delle donne nordiche, i capelli di un biondo ammirabile, occhi azzurri capaci di rendere tutte le espressioni, dall’amore il più tenero fino all’odio più violento; in questo caso la sua fisonomia era di una durezza, a cui non avrei creduto che potesse giungere, il naso era diritto, ben fatto, la bocca quantunque bella era guasta da quella prominenza del labbro inferiore particolare ai principi di case d’Austria, le spalle, le braccia e le mani erano magnifiche. Ma, bisogna dirlo, l’abitudine della maestà reale dava a tutto ciò una rigidezza che toglieva alla regina molto della grazia della donna. Gl’italiani hanno inventato una parola, per questo genere di grazia che manca specialmente in Italia, e l’hanno chiamato _morbidezza_. Ne potreste avere un’idea completa in quelle attrattive neglette delle creole. Mentre la osservava, essa mi guardava pure alla sua volta, e sembrava esaminarmi nello stesso modo ch’io faceva con essa. La medesima idea ci venne nello stesso tempo, essa mi cinse nel suo braccio e traendomi a lei mi abbracciò con quella specie di violenza d’azione che sarebbe meglio convenuta ad un amante, anzichè ad un’amica. Raccapricciai. Ciò mi ricordava l’amicizia di Miss Arabella. A pranzo mangiammo i tacchini, arrostiti allo spiedo; erano grassi, ma duri; ciò derivava dal non avere il Re voluto aspettare qualche giorno per assicurarsi della loro qualità. Terminiamo subito con questa storia dei tacchini. Come aveva pensato Ferdinando, la sua firma non aveva avuto la minima influenza. Il giudice aveva letto la sua raccomandazione, e considerandola come una di quelle raccomandazioni, che l’importunità o l’inavvertenza carpiscono ai sovrani, aveva alzato le spalle e messo da parte il ricorso. Ne derivò che in capo a quindici giorni il Re ritrovò la vedova sul suo cammino. Gli fece una scena, l’accusò di avere abusato della sua bonarietà facendogli credere che conosceva il Re. — Ascoltate, le disse il Re, ritornate dopo quindici giorni, e se non avrete vinto il vostro processo, m’impegno di darvi cento ducati per ciascuno dei vostri tacchini. La buona donna tentennò il capo: evidentemente non credeva più al rimborso dei tacchini che alla vincita della causa, e brontolava fra i denti, accusando gl’intriganti, che promettendo molto, com’egli aveva fatto, si facevano pagare anticipatamente, e poi non mantenevano la loro promessa. Il Re prese il nome del relatore e scrisse al tesoriere della giustizia di non pagargli il suo stipendio del mese che scadeva appunto il giorno dopo; e se chiedeva una spiegazione di dirgli che quando avrebbe sbrigato il processo raccomandato dal Re, sarebbe pagato, ma non prima. Quindici giorni dopo, il Re diede alla buona donna la sentenza che conteneva il suindicato in suo favore e facendosi conoscere, vi aggiunse i trecento ducati dei tre tacchini. XV. Or che la mia vita si passa per dieci anni alla corte di Napoli, debbo, per l’intelligenza dei fatti che seguiranno, mettere in grado i miei lettori di conoscere più completamente i due personaggi, presso i quali li introduco, vale a dire il re Ferdinando e la regina Carolina. Non ho bisogno di dire come Carlo III, capostipite de’ Borboni dì Napoli, secondo figlio di Filippo V e primogenito di Elisabetta Farnese, s’impossessò del trono delle Due Sicilie nel 1734, e fu riconosciuto re nel 1735. Quando suo fratello maggiore morì senza figli, egli fu chiamato al trono di Spagna e dovette scegliersi un successore. Abbiamo detto scegliersi, perchè in questa occasione il diritto di primogenitura doveva essere invertito; l’infante Don Filippo, in causa di cattivi trattamenti che aveva dovuto sopportare da sua madre, era diventato idiota. Non era punto il caso di pensare a lui. Il re Carlo III lo lasciò a Napoli, per morire della sua malattia giudicata incurabile; condusse con lui suo figlio Carlo, principe delle Asturie, che, dopo la sua morte, avvenuta, credo, nel 1788, diventò re sotto il nome di Carlo IV, e designò per erede del regno delle Due Sicilie il suo terzo figlio che aveva sette anni. Prima di partire per la Spagna volle destinargli un governatore, ma a motivo della tenerissima sua età questa cura spettava più alla madre che al padre. Sventuratamente fu la madre che fece questa scelta. Essa mise la carica all’incanto, ed il principe di San Nicandro, uno degli uomini meno degni di un tale impiego, fu scelto per coprirlo. Una delle raccomandazioni del re Carlo III fu questa: — Fate particolarmente di mio figlio un buon cacciatore; la caccia è il solo piacere che sia veramente degno d’un re. Il re Carlo III considerava in fatti le caccia come una cosa superiore anche alla felicità dei suoi sudditi. Non citerò che un aneddoto su questo soggetto. Avendo destinato l’isola di Procida per la caccia de’ fagiani, fece un editto che vietava assolutamente di tenere qualsiasi specie di gatti. Possedere uno di questi animali era, a contare da quel momento, un delitto, che poteva anche essere espiato con una pena afflittiva ed infamante. Un uomo contravvenne all’editto; conservò il suo gatto, fu denunziato, arrestato, giudicato e condannato ad essere bastonato dal carnefice, e mostrato per tutta l’isola con al collo la prova del suo delitto, cioè il suo gatto, ed infine mandato in galera. Si converrà che era duro. E che ne avvenne? Ne avvenne che le talpe, i ratti, i sorci liberati dai gatti, loro nemici naturali, crebbero e moltiplicarono liberamente ed in tale quantità, che dei bambini furono divorati nella culla da quegli animali. Allora i Procidani disperati presero le armi, e riuniti in corpo, risolsero di emigrare nei paesi barbareschi, anzichè di vivere sotto un governo tanto iniquo. Ne risultò adunque che Carlo III fu obbligato a rivocare l’editto. Ecco un altro aneddoto che indica il fanatismo dello stesso re Carlo III per i suoi cani, e che farà opposizione al suo odio pei gatti. Un uffiziale del reggimento delle guardie italiane era di guardia a Caserta, e per conseguenza vestiva il suo uniforme di gala, e in vista della mediocrità della paga, stentatamente era riuscito a comperarsi quell’uniforme. Il re Carlo III passò di ritorno dalla caccia seguito dalla sua muta di cani; uno di quegli animali inzaccherato di fango saltò contro l’uffiziale nella benevola intenzione di fargli festa, e insucidò il suo uniforme. Senza considerare l’intenzione, vedendo il guasto fatto al suo vestito, l’uffiziale scacciò da sè il cane con un colpo di piede. Il cane mise un guaito che richiamò l’attenzione del re; Carlo III si rivolse, fissò in faccia l’uffiziale, e movendogli incontro: — Non sai tu, razza di cimice, gli disse, che l’animale che tu hai l’indegnità di percuotere mi è più caro che cinquanta dei tuoi pari? L’uffiziale atterrito di vedersi trattato così, per aver dato un colpo di piede ad un cane, mutò colore, fu colto dalla febbre, si ammalò, e morì il giorno dopo. Ritorniamo al giovane Ferdinando ed al suo precettore, il principe di San Nicandro. Non ho mai conosciuto il principe di San Nicandro, che morì quando arrivai a Napoli; ma non vi era che una voce sola sul di lui conto, e l’educazione del re confermava quella voce, cioè che era indegno dell’onore che gli fu dato dalla regina. Il principe di San Nicandro era di un’ignoranza crassa. Nella sua vita non aveva letto che l’offizio della Vergine; buon libro, ma insufficiente per un uomo incaricato dell’educazione di un re; ora, non sapendo nulla, non poteva insegnare nulla al suo allievo, il quale quando prese moglie sapeva appena leggere e scrivere, e non parlava altra lingua che il dialetto napolitano; d’altronde non aveva ricevuto dal re Carlo III che una raccomandazione, cioè quella di fare del giovane principe un buon cacciatore, e perciò credeva di non doversi occupare d’altro. Da parte sua poi il vecchio ministro toscano di Carlo III Tannucci, che per ventiquattro anni aveva regnato sotto il nome del suo padrone, e che era stato nominato capo della reggenza del giovane principe, non chiedeva di meglio che di ricever alla sua maggior età un re imbecille, sotto il nome del quale continuerebbe a regnare come per lo passato. Egli non diede adunque nessun consiglio sull’educazione del giovane re, se non quello di aggiungere il piacere della pesca a quello della caccia, di maniera che riposando da un piacere faticoso con un passatempo tranquillo, il giovane re non avrebbe il tempo di attendere agli affari di Stato. La sola cosa che inquietava il principe di San Nicandro, e di cui si rammaricava con una commovente malinconia, era la troppo grande bontà del re. Si occupò dunque di correggere questo dono del cielo, tanto raro nei re, tentando di variare i suoi piaceri. Il giovan principe delle Asturie, cui non poteansi rimproverare le stesse disposizioni alla mansuetudine, prendeva un vivo piacere a scorticare conigli vivi. Il principe di San Nicandro vantò molto questa distrazione al suo allievo; ma scorgendo che gli ripugnava molto, mise alla tortura la sua immaginazione e trovò una variante. Era cioè di collocare il giovane principe, a cui non si fidava ancora di dare in mano un fucile per timore che si ferisse, dietro la porta forata di una gattajola, e di colpire a quel posto i conigli quando uscivano. Ferdinando armato di bastone stava in guardia sul loro passaggio e li ammazzava. Era già qualche cosa; a questo divertimento il principe di San Nicandro ne aggiunse presto un altro; quello cioè d’insegnare al suo allievo di far balzare su di una coperta dei conigli, dei cani, dei gatti e dei ragazzi di contadini e di operai. Il re Carlo III che veniva informato di queste ricreazioni di suo figlio, le trovò buone, e scrisse che bisognava solamente fare una riserva per i cani, animali nobili che servivano per la caccia, ed il giovane principe continuava a far balzare i conigli, i gatti, i ragazzi, i contadini e gli operai, che non essendo animali nobili, non avevano quindi dritto all’eccezione. Fu in questo modo che un giorno, avendo veduto fra gli spettatori un giovane chierico toscano, di figura meschina e pallido in faccia, gli venne in mente di farlo balzare; diede sottovoce degli ordini a’ suoi domestici, i quali si impossessarono di quel disgraziato, lo misero su di una coperta e lo balzarono finchè svenne. Il giovinetto rinvenuto che fu, pieno di vergogna si rifugiò a Roma, ove cadde ammalato e morì in capo a due mesi; egli si chiamava Marrighi. Fu in mezzo a questi divertimenti che il re crebbe, diventando gran cacciatore, gran cavalcatore, pescatore incomparabile, percuotitore di prima forza, prima col comandare gli esercizii ai suoi camerata con dei bastoni con cui accarezzava loro le spalle quando facevano qualche falsa manovra: ed infine ad un reggimento che organizzò e che chiamava i suoi Liparioti, perchè i giovani che lo componevano erano in gran parte dell’arcipelago di Lipari. In questo modo arrivò, senza affatto occuparsi degli affari del regno, fino ai suoi diciassette o diciotto anni, e giunse all’età di prender moglie. Il suo matrimonio era da tempo stabilito colla giovane Arciduchessa d’Austria Maria Giuseppa, figlia dell’Imperatore Francesco I; ma non appena si furono scambiati i ritratti ed i doni nuziali, e preparate le feste sul cammino che doveva percorrere la giovane principessa, e fissato il giorno della partenza, la giovinetta imperiale ammalò e morì. Allora in luogo di quella che era morta dianzi così miseramente, fu destinata sua sorella minore Maria Carolina, anch’essa figlia di Francesco I e di Maria Teresa. Essa partì da Vienna nel mese di aprile 1768. Il fiore imperiale entrava nel suo regno nel mese della primavera. Era nata nel 1752, non aveva che sedici anni appena, portando seco i segreti della corte austriaca, ed incaricata di dirigere la Corte di Napoli nel senso che le indicherebbe Maria Teresa. Sua madre, di cui era la preferita, poteva confidarsi con essa; la regina aveva uno spirito superiore alla sua età, era letterata più che dotta, e più che intelligente filosofante; bella in tutta la estensione della parola, graziosa quanto lo voleva. Da ciò che ho detto di lei a trentasette anni, si può comprendere ciò che era stata a sedici. Parlava e scriveva quattro lingue, la tedesca, la francese, la spagnuola e l’italiana; solamente quando si animava nel discorso, aveva una certa difficoltà di lingua, che produceva un borboglio; ma i suoi occhi vivaci e mobili, la lucidità delle sue idee facevano presto dimenticare quella piccola imperfezione. Essa portava seco verso l’ardente mezzodì i sogni della nebbiosa poesia del nord; andava a vedere il paese favoloso delle sirene; ove nacque il Tasso e morì Virgilio; andava a cogliere di sua mano l’alloro che cresceva sulla tomba del cantore d’Augusto, e su quella del poeta di Goffredo; suo marito aveva diciott’anni; sarebb’egli un Eurialo od un Tancredi — Niso o Rinaldo? Perchè non era essa venuta a dirittura come Venere od Armida? Essa trovò il re, che ho tentato di descrivervi, con i piedi grandi, le ginocchia grandi, le mani grandi ed un naso grande, e che parlava il dialetto napolitano con dei gesti lazzaroneschi. Un articolo del contratto di matrimonio della regina, che Tannucci aveva lasciato passare senza farvi attenzione, doveva mutare interamente la faccia alla politica del regno della Due Sicilie. Esso diceva: — Quando la regina avrà dato a Napoli un erede della corona avrà il diritto di far parte del consiglio. È vero che essa non diede questo erede che dopo cinque o sei anni; ma a ventidue anni Carolina era più che atta a seguire i voti di sua madre. Da principio la regina credette di poter rifare completamente l’educazione di suo marito, e ciò le sembrava tanto più facile dopo averlo udito a parlare con Tannucci, e le pochissime persone istruite della Corte. Egli era rimasto attonito di stupore, incapace di distinguere la vera scienza dalla ciarlataneria, esclamava con ammirazione: Davvero, la regina è la scienza universale! Ma riflettendo poi, quest’ammirazione si calmò, e più di una volta lo intesi dire: Come mai la regina, essendo così sapiente, commette degli sbagli più di me che sono un asino! Ciò nulla meno nei primi tempi del suo matrimonio, egli si sottomise alle lezioni che essa gli voleva dare, e gli insegnò a leggere ed a scrivere quasi correttamente. Ed è a queste lezioni date da lei, che egli faceva allusione quando nei suoi momenti di buon umore la chiamava mia cara maestra. Ma ciò che non potè mai insegnargli furono i modi eleganti delle corti del nord e dell’occidente, furono quelle cure della persona così rare nei paesi caldi, ove sono però più necessarie che altrove, fu quel dolce e grazioso celiare della galanteria che fa dell’amore una lingua, tolta in parte dal profumo dei fiori, ed in parte al canto degli uccelli. La superiorità di Carolina umiliava Ferdinando, e la rozzezza di Ferdinando umiliava Carolina. Vedremo che ne risultò da questa disparità di carattere, e da questa opposizione di animi. XVI. Ecco dunque i nostri due personaggi uno d’avanti l’altro, da un lato la regina, bella, altiera, graziosa, distinta, delicata, sensuale, un po’ pedante, facile ad irritarsi, difficile a pacificarsi, sprezzante di suo marito per la rozzezza della sue parole e per la imbecillità del suo spirito; dall’altro il re, brutto, ingenuo fino all’ignoranza, libero fino alla rozzezza, senza alcuna cura della persona, senza delicatezza ne’ suoi modi, che somigliava non già ad un sovrano nè ad un principe, e nemmeno ad un semplice gentiluomo, ma ad un lazzarone. Una delle cose che metteva alla disperazione la regina Carolina, e che la condusse a privarsi quasi intieramente dello spettacolo, era il modo con cui il re vi si conteneva, facendosi fra un atto e l’altro l’attore del popolaccio. Fra l’opera ed il ballo gli si portava la cena nel palco; uno degli elementi di questa cena era sempre un piatto di maccheroni. Il re prendeva il piatto, ed avanzandosi al parapetto del palco, in mezzo ai grandi applausi della platea, facendo smorfie e gesti da Pulcinella, il gran mangiatore di maccheroni napolitani, inghiottiva tutto il piatto servendosi delle dita invece di forchetta, e rispondeva con saluti alle acclamazioni degli spettatori. La regina credette da principio di aver preso su di lui un impero più grande di quello che aveva in realtà e che prese in seguito. Un giorno che era adirata contro il duca d’Altavilla favorito di Ferdinando, colmò d’ingiurie quel gentiluomo, e l’accusò di non mantenere il suo credito presso il re, che impiegando mezzi indegni di un gentiluomo. Il duca, offeso nella sua dignità, si dolse presso il re delle ingiurie della regina, e gli chiese il permesso di ritirarsi nelle sue terre; il re irritato del contegno di sua moglie, andò da lei e la rimproverò vivamente. Ma essa invece di calmarlo, l’irritò talmente colle sue risposte, che la discussione terminò con un vigoroso schiaffo, di cui la regina portò il lividore alla guancia per tre o quattro giorni. Allora, come Achille, essa si ritirò nella sua tenda, ma il re tenne duro, e la regina dovette umiliarsi, al punto di essere costretta ad implorare il favore del duca d’Altavilla per ritornare in grazia. Fu l’Imperatore Giuseppe che allora viaggiava in Italia e che arrivando a Napoli riuscì a riconciliare i due sposi. Per qualche tempo il re si rammaricava dello sdegno della regina, ma presto risolse di consolarsi facendo senza di lei, cosa che fu per essa un dispiacere; per non sapere come ed in qual momento potesse riprendere la sua influenza sul marito. Ferdinando, gran cacciatore, lasciava di rado passare un giorno senza andare alla caccia. Aveva fatto costruire in ogni angolo dei suoi boschi delle grandi capanne internamente addobbate con semplicità e comodo. Quando vi entrava col pretesto di prendere riposo, vi trovava sempre qualche giovane villanella elegantemente vestita alla foggia della contadine dei dintorni di Napoli, che andava là pel buon piacere di Sua Maestà; soltanto aveva gran cura di raccomandare ai compiacenti servitori incaricati di questo servizio, di fare le cose con tale discrezione che la regina non venisse istruita di questo particolare amoroso. — Ma, — gli disse una volta un cameriere al quale aveva permesso di parlare liberamente, — a che servono tanti misteri, quando la regina fa altrettanto, e chi sa forse anche più di voi? — Taci, taci, lasciamola fare, disse il re, così s’incrociano le razze. Ed oggi che ho permesso di non celare nulla della verità, bisogna dire che il vecchio cameriere non mentiva; la regina, il cui primo amante fu il principe di Caramanico, ebbe in seguito Acton, e nello stesso tempo, senza che Acton se ne preoccupasse, più di quanto si preoccupava Potiemkine degli amanti di Caterina II, aveva il duca della regina, il cui nome sembra averlo predestinato, e Pio d’Ameni che se non ha inventato ha però perfezionato i Batilli in Italia, come la grande Caterina voleva ricompensare i suoi amanti; ma meno ricca di lei si rovinava, e per questa ragione si trovava sempre senza un ducato. Torniamo al re. Oltre le sue fermate di caccia, che erano affari d’istinto sensuale, il re aveva di volta in volta dei gusti passaggieri per le dame di Corte, o di altra condizione; la regina non era punto gelosa di suo marito, che non solamente non amava, ma anzi disprezzava; però temeva che qualche donna più abile delle altre, s’impossessasse di una influenza sul re che a nessun prezzo non voleva lasciarsi sfuggire; in certi momenti allora aveva un’accortezza ed una insistenza tutta femminile, gli carpiva i segreti dei suoi intrighi amorosi, e poi si vendicava delle sue rivali; in tal modo dopo qualche mese d’intimità colla duchessa di Lusciano, il re confessò questa intimità a Maria Carolina. Essa allora fece esiliare la Duchessa nelle sue terre; sdegnata la Duchessa si vestì da uomo, e mettendosi sul passaggio del re, lo coprì di rimproveri; il re, debole al suo cospetto, come era debole al cospetto della regina, confessò i suoi torti; ma la Duchessa non fu meno obbligata di ritirarsi nelle sue terre, ove ancora si trovava all’epoca del mio arrivo a Napoli. Lo stesso accadde per la duchessa Cassano Serra, benchè vi fossero dei motivi totalmente opposti. Il re si occupava di lei; e malgrado tutte le sue cure e tutte le sue promesse, essa rifiutò costantemente di arrendersi ai suoi desiderii. Il re si dolse con sua moglie di questo rigore. E la regina trovò mezzo di farla esiliare per essere stata troppo virtuosa, come aveva trovato mezzo di far esiliare la duchessa di Lusciano per non esserlo stata abbastanza. Ahimè! la povera duchessa pagò due volte più cara la sua virtù, che un’altra non avrebbe pagato le sue colpe, e sventuratamente per lei, ritornò nel ’99 dal suo esilio. Abbiamo detto che il principe di San Nicandro si era preoccupato di fare del suo allievo il primo cacciatore ed il primo pescatore del regno, e ciò nello scopo egoista ispirato da Tannucci, per impedire al giovane principe di prendere parte agli affari di Stato; difatti quando assisteva al consiglio, vi portava la preoccupazione della pesca e della caccia al punto di non permettere che si mettesse il calamaio sul tappeto delle deliberazioni, per timore che venisse l’occasione di redigere qualche decreto che il re dovesse firmare; per questi casi aveva fatto incidere la sua firma che egli applicava, o faceva applicare sotto la deliberazione presa o no in sua presenza. Anzi, per esempio, qualche giorno dopo il mio arrivo a Napoli, vi trovai fresco fresco questo aneddoto. Il re teneva consiglio di Stato a Caserta. Vi assistevano la regina, il ministro Acton, Caracciolo e qualche altro. Si trattava di un affare della più alta importanza che però ignoro; nel momento della discussione si udì bussare alla porta; l’interruzione sorprese tutti; chi era mai l’uomo ardito di venire a disturbare un consiglio di Stato in funzione? ma il re che aveva riconosciuto la maniera di bussare, corse alla porta, l’aperse ed uscì, e ricomparse poco dopo dando segni della gioia più viva. Signori, disse, vi prego di terminare al più presto la discussione, perchè io ho un affare di un’importanza ben maggiore di quella per cui v’intrattenete. La seduta fu levata, il re si ritirò presto, e si coricò per levarsi il giorno seguente prima dell’alba. Questo grande affare era un convegno di caccia, i colpi dati alla porta del Consiglio di Stato era il segnale convenuto fra il re ed il suo bracchiere che veniva ad avvertirlo che una torma di cignali era stata veduta nel bosco verso lo spuntare del giorno, e che si erano fatti stornare, e per trovarli il giorno dopo bisognava trovarsi pronto prima dell’aurora. Qualche giorno dopo, nelle medesime circostanze, tre fischi si fecero udire in corte; era ancora un segnale tra il re ed il suo bracchiere; il re interruppe il consiglio, aperse la finestra e diede udienza al messaggiere, che gli annunziava un volo di uccelli, ed il luogo ove si erano appostati: allora il re volgendosi a Carolina. — Mia cara maestra, le disse, presiedi tu in mia vece e finisci l’affare come credi, ti do carta bianca. E correndo fuori della camera, andò a perseguire il suo volo d’uccelli. Esiste fra il re di Napoli ed il margravio di Anspach una corrispondenza interna, continuata, settimanale, su tutto ciò che è relativo alla caccia. Ciascuno dei due principi tiene un registro esatto in cui sono indicati, giorno per giorno, ora per ora, gli alti fatti che li illustrano. Uno stesso registro ed una corrispondenza simile sono tenute o piuttosto erano tenute fra il re di Napoli ed il re di Spagna suo padre; ora avvenne sovente che alcune differenze politiche disgustarono i due monarchi, ma per quanto fossero disgustati, politicamente parlando, il registro cinegetico non subiva mai nessuna interruzione. La lista dei selvatici sagrificati al piacere dei monarchi fu sempre tenuta regolarmente; la caccia minuta vi era numerata come gli animali grassi, dal fagiano fino al beccafico; in una colonna per le osservazioni vi erano esposte le difficoltà che si erano dovute superare, gli accidenti che erano incorsi, le persone che avevano accompagnato il re, e le menzioni onorevoli delle persone che l’accompagnavano e che dopo di lui si erano distinte. Quello dei due registri che era destinato al margravio di Anspach era il registro preferito, per la ragione semplicissima che Ferdinando, quantunque abilissimo, era men buon tiratore di Carlo III, mentre al contrario era miglior tiratore del margravio di Anspach. Il più dolce complimento che potesse accarezzare le orecchie del re, era di dirgli che tirava meglio del margravio di Anspach, ciò che era constatato dal numero degli animali uccisi da lui, e se il numero degli uccisi da Carlo III, superava di molto il suo, ciò dipendeva non già dalla sua bravura, ma dall’estensione della fecondità della selvaggina nelle foreste spagnuole. Riferirò ancora due aneddoti, che completeranno il ritratto che intendiamo di fare del re, poi passerò immediatamente al racconto degli avvenimenti che scossero il regno di Napoli, ed ai quali ho preso parte, più per amicizia verso il re e la regina, che per un sentimento di antipatia ragionata contro il popolo francese e contro i patrioti italiani. Il re, cacciando in uno de’ suoi boschi, incontrò una povera donna: essa non lo conosceva e sembrava molto afflitta. — Senza avere nè il cuore, nè lo spirito di Enrico IV, il re aveva una specie d’istinto per le avventure popolari; si avvicinò ad essa e la interrogò; la buona donna gli rispose che era vedova, che aveva sette figli da mantenere, e che non possedeva che un piccolo campo che era stato poco prima devastato dalla muta del re. — Ora converrete, signore, soggiunse la vedova piangendo, che è ben duro di avere per sovrano un cacciatore, i cui piaceri sono irrorati dalle lagrime dei suoi sudditi. Ferdinando le rispose che le sue querele erano giuste, e che essendo egli al servizio di Sua Maestà non avrebbe mancato di informarnelo. — Glielo dite o non glielo dite, rispose la donna, io non spero nè punto nè poco; non può essere che un uomo senza cuore chi distrugge per suo piacere il bene del poveri, perchè sa che la povera gente non può far nulla contro di lui. Questa dichiarazione della vedova non tolse al re di accompagnarla fino alla sua capanna, e di vedere coi suoi occhi il guasto che aveva fatto. Giunto là chiamò due contadini, vicini della donna, e chiese loro di stabilire una stima del danno; essi fecero i loro calcoli, e lo stimarono a venti ducati. Il re tirò di tasca sessanta ducati e ne diede quaranta alla vedova, dicendo che era giusto che il re pagasse il doppio dei privati. Gli altri venti ducati furono ripartiti fra i due arbitri. Il re dava udienza un giorno per settimana a Capodimonte, palazzo costruito da Carlo III espressamente per la caccia dei beccafichi; in quel giorno ognuno poteva giungere fino al re senza dimanda d’avviso e senza lettera d’udienza; non v’era che di aspettare il suo turno, tanto le anticamere erano ingombre di gente. Un vecchio prete dei dintorni di Capodimonte, avendo da chiedere una grazia al re, risolse di approfittare di quel giorno di udienza e di chiederla personalmente a Sua Maestà. Ma dovendo fare anticamera per un tempo maggiore o minore, ebbe cura di prendere le sue precauzioni contro la fame, e si pose in tasca un pezzo di pane e di formaggio; non già che avesse l’intenzione di mangiare quel pezzo di pane nell’anticamera, per tutto l’oro dal mondo non avrebbe commesso una simile irriverenza, — ma avendo tre leghe da fare a piedi per ritornare al suo villaggio, aveva stabilito che dopo l’udienza si sarebbe fermato alla prima fontana, e mangiarsi il pane ed il cacio seguito da qualche sorso d’acqua, e così ristorate le sue forze, rimettersi in viaggio per il suo presbitero. Dopo tre o quattro ore di attesa, venne il suo turno, ed entrò. Il re era seduto in poltrona, ed ai suoi piedi stava coricato un grosso bracco che era il suo prediletto per la finezza del suo olfatto. Appena il prete ebbe spinta la porta il cane aperse le narici, sollevò la testa, fece gli occhi teneri e dimenò la coda. Tutte queste dimostrazioni di amicizia erano dirette al prete, o piuttosto al pezzo di formaggio che aveva in tasca; è noto l’irresistibile desiderio che i cani da caccia hanno per questo commestibile. Mano mano che il prete si avvicinava o faceva degli inchini, il cane si alzava, e con tutta l’espressione amichevole andava incontro al prete. Costui non credeva forse le dimostrazioni del cane così amichevoli come lo erano realmente; lo vedeva con inquietudine, si cambiò in terrore quando vide il cane passargli dietro. Ma fu bene ancor peggio quando, in mezzo all’esposizione della sua dimanda, sentiva il muso del cane introdursi insidiosamente nella sua tasca. L’amore del re per i suoi cani era noto. Non si trattava di liberarsi con un colpo di piede del bracco favorito del re; eppure questi cominciava a spingere l’indiscrezione fino all’importunità. In quanto al re era nella sua più grande gioia insensibile ad uno scherzo grazioso, si compiaceva oltre modo delle buffonate. Interruppe il prete in mezzo alla sua arringa già sufficientemente tormentata. — Perdonatemi, padre mio disse egli, che avete in tasca, giacchè il mio cane insiste tanto ad osservarla? — Ahimè, Sire, rispose il prete con esitazione, un semplice pezzo di formaggio, atteso che sono già le quattro dopo mezzogiorno, come potete vedere, ed ho ancora tre leghe da fare per giungere alla mia casa; non sono abbastanza ricco per pranzare in città. Difatti voi dite il vero, disse il re, perchè ecco che Giove, — tale era il nome del cane, — è riuscito a prendervi il formaggio: continuate dunque nella vostra domanda, perchè è probabile che intanto vi lascerà tranquillo. Il prete, mentre Giove mangiava il suo formaggio, continuava ciò che doveva dire al re, che l’ascoltava con maggior attenzione. — Va bene, disse il re, quando il prete ebbe finito. — Noi siamo d’avviso che.... Ma contro la previsione di Sua Maestà, Giove dopo di aver mangiato il formaggio, sembrava di non voler lasciare in pace il curato pel pane. — Andiamo, andiamo, disse il re interrompendosi, non fate il sacrifizio a metà, vuotate completamente le vostre tasche. — Tutto ciò è bello e buono, Sire! disse il prete, ma mio Dio! ed io? — Ma non inquietatevi per così poco, il buon Dio provvederà. Il prete diede il suo pane al cane ed uscì. Mentre Giove mangiava il suo pane, il re suonò il campanello. — Trattenete, disse, quel prete che è uscito adesso, e dategli un buon pranzo sicchè resti un’ora a tavola. L’ordine di Ferdinando fu eseguito; in quell’ora il re ritornò a Napoli, sbrigò l’affare del prete in modo che ritornando alla sua cura già confortato da un buon pasto, trovò anche già accordato il favore che egli aveva chiesto. Mi sono estesa molto sulla caccia, ciò che mi fa trascurare la pesca. Diciamo una parola sopra questo secondo divertimento, di cui il re è quasi più fanatico del primo. Dire il re pesca, non è nulla, ma dire che il vero piacere del re non è la pesca, ma di vendere egli stesso il pesce, ecco quanto riconosceva io stessa come inconcepibile per coloro che non hanno conosciuto questo principe: ed io stessa ho veduto questo singolare spettacolo, non soltanto una volta, ma più di dieci. Ecco come va la cosa. Il re pesca ordinariamente in una parte riservata del mare, in faccia ad una piccola casa che gli appartiene, del quartiere di Posilippo. Quando ha fatto un’ampia cattura di pesce, ritorna a terra, fa portare il suo pesce alla marina, chiama i compratori che di certo non mancano mai di accorrere all’appello reale. Là si mette il pesce in vendita come sulle panche del mercato; ciascuno può aggiungere un grano all’asta; quando il re trova che il prezzo è troppo basso, lo spinge egli stesso, e se il pesce resta per suo conto, lo conserva e lo si mangia a palazzo; tutti in questa circostanza, come sempre altrove, si avvicinano al re per parlargli, ed anche per questionare, cosa che non mancano mai di fare nel loro dialetto i suoi amici lazzaroni, che non si danno nemmeno la cura di chiamarlo Maestà, ma soltanto Nasone, pel suo naso grosso tre volte quanto un naso ordinario. Questa vendita è generalmente assai comica; il re vende caro quanto più può, vanta il suo pesce, lo prende per le pinne per mostrarlo, e schiaffeggiando quelli che gli offrono un prezzo troppo basso se si trovano a portata; da parte loro poi i lazzaroni gli rispondono con delle ingiurie, come se avessero a trattare con un vero pescivendolo; queste invettive lo fanno ridere sgangheratamente. Finita la vendita, inzuppato di acqua di mare, e col puzzo di pesce, ritorna a palazzo, e prima di lavarsi e di mutar vestito, va a raccontar tutto, sbellicandosi dalle risa, alla regina, la quale secondo l’umore in cui si trova, lo ascolta pazientemente, o lo mette alla porta, rimproverandogli quei piaceri grossolani, a’ quali però le rincrescerebbe che rinunciasse, perchè grazie a questi piaceri plebei, che interessano il re più degli affari, essa governa a suo talento il regno. FINE DEL VOLUME TERZO. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 3/8 *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. 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