The Project Gutenberg eBook of Memorie di Emma Lyonna, vol. 2/8 This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Memorie di Emma Lyonna, vol. 2/8 Author: Alexandre Dumas Release date: May 14, 2025 [eBook #76090] Language: Italian Original publication: Milano: Daelli e C, 1864 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 2/8 *** MEMORIE DI EMMA LYONNA DI ALESSANDRO DUMAS UNICA EDIZIONE AUTORIZZATA IN ITALIA. Vol. II. MILANO G. DAELLI e C. EDITORI MDCCCLXIV. Proprietà letteraria — G. DAELLI e C. Editori. STEREOTIPIA G. DASSI E C. TIP. GUGLIELMINI. MEMORIE DI EMMA LYONNA I. Io era l’amante di sir John Payne. Da questo punto ha principio la storia de’ più tristi avvenimenti, non però forse la più colpevole di mia vita, che in prova del mio pentimento io narrerò con tutta sincerità, avendo promesso di confessarmene innanzi a Dio ed agli uomini. Questo mio primo amore, o dirò meglio traviamento — non avendo io veramente mai amato che una sol volta in mia vita — io non sarei mai per rimpiangerlo quando un tale rimpianto non fosse che conseguenza naturale di quel disgusto che prova un cuore dopo la colpa, se questa non ebbe a fruttargli che materiali disinganni, imperocchè sir John era un nobile e degno signore, pieno di generosità e di cortesia, del quale io non ebbi che a lodarmi in tutto il tempo che durò la nostra relazione, che fu di cinque o sei mesi. Io abitava il bel casino di Piccadilly, al quale ei recavasi ogni qualvolta non erane impedito dai doveri del suo servizio, serbandovi tal delicato contegno, come s’ei ponesse il piede in casa mia e non già foss’io nella sua. A miei comandi stavano equipaggi e servi, e dal rispetto che questi ultimi mi portavano potei arguire quanto a me ne portasse il loro padrone. Cedendo a quella curiosità, mercè la quale una donna mai non tralascia di fare una minuta ispezione a tutti i mobili delle sue stanze, vi trovai in uno di essi una borsa colle mie iniziali, contenente cinque o sei cento lire sterline, ed in uno scrigno un’acconciatura pel capo, scrigno tempestato dai turchesi e dal diamanti. Tostochè m’avvidi che quel denaro era destinato per me, lo spartii in due parti eguali, e ritenutane una per mio uso, mandai l’altra a mia madre, tacendole però il luogo di mia dimora, e la provenienza della somma di cui le spediva la metà. Il pensiero di non aver io mai dall’alto della mia fortuna e vergogna dimenticato un sol momento colei che mi ha data questa vita, già sì splendida ed in un dolorosa, e d’averne provveduto al materiale benessere, è quello che forma la migliore delle mie consolazioni al presente, in cui mi si para innanzi la minaccia d’una vecchiaia triste ed infelice. Del resto io sarei stata perfettamente felice, se non era il travaglio interno che mi davano due pensieri: l’uno si era di almanaccare che mai avrà dovuto pensare il mio sconosciuto Romeo, dopo che la sera m’avrà attesa invano ai piedi del mio balcone; l’altro, che cosa potrà aver detto Miss Arabella allorchè ritornata a casa avrà trovato ch’io me n’era partita. E, per verità, io aveva una maniera singolare di abbandonare coloro che mi avevano fatto e voluto bene, ciò che avrà senz’altro lasciato nel loro concetto un’opinione bene strana a mio riguardo. Ne provai per qualche giorno una certa qual vergogna, per cui io me ne stetti rinchiusa a Piccadilly, dove il giorno dopo che vi fui stabilita ricevetti la visita d’Amy e di Dick, il cui abbigliamento lasciavami supporre che essi avessero partecipato delle larghezze di sir John Payne. Questi alla fine mi persuase a sortire, e sapendo essere il teatro la mia passione dominante, prese un palco a Drury-Lane. Scelse per condurmi il giorno in cui vi si rappresentava l’Amleto, dove io ascoltai con una certa emozione i versi ch’egli mi aveva recitati a bordo del Teseo, e raffrontando la mia sorte a quella d’Ofelia, m’interessai con tutta l’anima alle sventure della figlia di Polonius. Le due scene di pazzia furono per me quello che già erano state le scene del giardino e del balcone di Giulietta e Romeo, e nel ritornare da quelle rappresentazioni non feci che discorrere d’Ofelia, e tutta la notte non feci che pensare ad Ofelia, e ripeterne quei versi che m’erano restati nella memoria. Nella piccola biblioteca di Piccadilly non v’era nulla di Shakespeare, che sir John teneva invece a bordo del Teseo: dovendo quindi recarvisi nel corso della giornata, mi promise di condurvi seco uno dei miei servi, col cui mezzo egli me lo avrebbe fatto tenere. Io aspettai pertanto il mio Shakespeare con una impazienza, quanta ne proverebbe un’altra donna nell’aspettare una collana o dei bracceletti. Anzichè prenderlo, io lo strappai dalle mani del servo, e mi chiusi con esso nella mia stanza, e mi tuffai avidamente in quell’oceano di poesia. Alla sera io sapeva a memoria le due scene di pazzia; ed essendomi pure rimasti nella memoria gli avvisi ora gai ora tristi che Ofelia dà al suo amante quando lo visita nel giorno di San Valentino, o quando ella sparge fiori sulla tomba del padre, io ne seppi riprodurre con quel talento mimico ch’io ho sempre avuto, non solo i gesti, ma persino le stesse intonazioni da me vedute ed udite la sera antecedente. Tutto ciò avveniva da sola, e davanti ad un immenso specchio dalla cornice dorata, quale me l’aveva profetizzato Dick. Non vi mancava che una cosa, un costume — facile d’altronde a farsi, essendo assai semplice quello d’Ofelia — il quale consisteva in una lunga veste bianca. Risolsi di cavarmi questo capriccio il giorno seguente. Alla sera a cena chiesi a sir John il permesso di sortire all’indomani. Egli mi guardò con meraviglia. — Il permesso? egli mi disse. Ma credete d’aver bisogno del mio permesso per sortire? — No, gli risposi, non sarei però sortita senza dirvelo. — Giacchè avete questa bontà, vorreste avere altresì quella di farmi l’intera confidenza del motivo che vi induce a sortire? — Esco, per comperar della stoffa, gli dissi. — Perchè non far venire la vostra sarta? Io mi misi a ridere. — Perchè io intendo farmi da me la veste che mi abbisogna, gli risposi. — Prendete, se non altro, l’indirizzo dei mercanti i più riputati. — È inutile, ciò che m’abbisogna lo troverò presso il primo che mi capiti, anzi non so che mi tenga dal mandarvi la mia cameriera in mia vece; è appunto ciò che farò se voi acconsentite d’accompagnarmi in altro luogo. — Ovunque vi piaccia condurmi, Emma mia diletta, io mi crederò sulla strada del paradiso; sarei quindi ben pazzo s’io avessi a rifiutarmi. — Allora siamo intesi, dopo colazione io mando la mia cameriera in città. — E noi andiamo?.... — In mezzo alle campagne, se ciò v’aggrada; domani i miei gusti saranno campestri. — A che ora faremo questa scampagnata? — Dopo la colazione, se l’ora accomoda a vostra signoria. Queste furono le basi dei nostri accordi. Il seguente mattino, tosto che fui alzata mandai la cameriera in cerca della più bella stoffa di lana bianca che sapesse trovare, e d’un gran velo nero di tulle. Sir John udiva questi miei ordini, e non sapeva intendere che intenzioni io m’avessi, e si scorgeva chiaramente com’ei morisse di voglia ch’io gli svelassi un cantuccio del mio segreto; ma io me ne stetti colla bocca chiusa. Finita la colazione, salimmo in carrozza ed io ordinai al cocchiere che ci conducesse fuori della città nei campi più vicini; ed i più vicini di essi essendo tuttavia ben distanti da Londra, non ci volle meno d’un’ora perchè mi venisse fatto di trovare quanto mi occorreva. Finalmente ordinai al cocchiere di fermarsi e smontai. — Ho da seguirvi? domandò sir John. — Certamente, io risposi, non solo seguirmi, ma dovete pur anco aiutarmi. — A far cosa? — Lo vedrete. Entrai allora nel prato, e mi feci a cogliere dei _fiorellini azzurri_, dei _bottoncini d’oro_, dell’avena selvatica. Sir John poneva mente a che io faceva, e così faceva esso pure. Quando ciascuno di noi ebbe colto un covone di fiori campestri, io montai di nuovo in carrozza. — Invero la vostra è una idea ben singolare. Venir qui a raccogliere tutto questo fieno, mentre presso i primi giardinieri di Londra voi potete procurarvi i fiori i più belli. — Non vi diss’io, ch’io sono una semplice contadinella? Per una mia pari deggion quindi aver maggior prestigio i fiori delle campagne, che non quelli della città. — Avrei io la sventura di vedervi rimpiangere il tempo che voi eravate ninfa dei prati del Flintshire, quando invece dovreste essere una divinità di Londra? — No, mio caro Lord, benchè la mia divinità sia assai contestabile, per essere questa riconosciuta da un adorator solo. — Oh! quanto a ciò non avete che a farvi vedere, perchè v’abbiate un culto universale, rispose sir John. Allorchè a Venere saltò il capriccio di regnare sul mondo intiero, sortì dal mare, e tutto fu fatto. — Mi consigliereste forse, io gli domandai ridendo, di comparire innanzi ai miei sudditi futuri nello stesso costume di Miss Afrodite? — In fede mia no, ciò ebbe un esito troppo infelice presso il re Candolle, perchè ne ritenti la prova. Verso le tre noi eravamo ritornati a Piccadilly, dove sir John mi lasciò giù alla porta insieme al mio fascio di fieno, com’egli diceva, e proseguì la strada fino all’ammiragliato, dove egli aveva affare. Trovai la mia cameriera tornata colle provviste che io le aveva ordinate; io le aveva inoltre ingiunto di condurmi una sarta, e questa pure stava attendendomi. Ricordandomi del taglio della veste di Ofelia, volli correggerne quanto mi parve in essa meno grazioso, e valendomi di quella prodigiosa abilità ond’io seppi mai sempre, non dirò vestirmi, ma adattarmi un costume, mi tagliai io stesso la tunica, e promisi una lira per ciascuna alla sarta ed alla cameriera se per le nove della sera l’avessero finita di cucirla, o per lo meno imbastirla. Sull’istante si misero all’opera, sperando ottenerne il premio promesso. Io poi feci una scelta dei fiori ch’io portai dalla campagna, e li posi nell’acqua acciocchè si serbassero freschi per la sera. A sei ore sir John fu di ritorno. Egli se ne tornava tutto giulivo per essergli stato concesso due mesi di vacanza, ch’egli aveva domandati colla mira di dedicarmeli tutti e due intieramente. L’amore ch’io portava a sir John non era già quello che generalmente intendesi sotto questo nome, — che di questo io non sentiva per lui, — ma era piuttosto un affetto pieno di riconoscenza, non già a motivo del lusso ond’egli m’aveva circondata, sì bene della cortesia ch’egli usavami, rimanendo il mio orgoglio aristocratico maggiormente soddisfatto dalle forme sotto cui celavasi il beneficio, che del beneficio in sè stesso. Sir John m’aveva chiesto il permesso di non ritornare al Teseo se non il giorno seguente; com’è agevole il crederlo, io glielo accordai, dicendogli inoltre che per ricompensarlo o castigarlo — e ciò a norma delle sue idee — della smodata di lui ambizione, io gli preparavo una sorpresa. In fatti alle nove gli chiesi di poter ritirarmi per pochi istanti nella mia camera; per il che egli mi domandò alla sua volta ridendo, se questa eclissi aveva rapporto con la sorpresa di cui si parlò. Io lo lasciai nel dubbio. La mia veste era bell’e all’ordine. Mi disciolsi i lunghi capegli, intrecciai una corona, quale soleva farne per rimirarmi entro l’acqua quand’io era fanciulla, indossai la lunga veste che lasciava scoperte le braccia ed una parte del petto, feci appello a tutto quanto la memoria mi dettava, aggiungendovi del mio checchè l’ispirazione sapesse suggerirmi, e spalancai la porta della sala. Era la prima sera in cui m’apprestava a formarmi un’idea dell’influenza che avrebbe potuto esercitare sugli uomini la mia bellezza, sussidiata dal doppio prestigio della mimica e della poesia. Egli è bensì vero che colui, che in tale circostanza mi serviva da rappresentante degli uomini, nutriva già delle forti prevenzioni in mio favore, e non poteva quindi formar legge generale; tuttavia non volli arrischiare la prova se non dopo aver gettato un ultimo e prolungato sguardo sul famoso specchio dalla cornice dorata. Il complimento ch’io riportai da quello specchio fu sì completo, che ogni mio dubbio svanì ed entrai con tutta franchezza. Sir John trovavasi in quell’istante opportunamente appoggiato al camino, e quindi cogli occhi rivolti alla porta. Al mio apparire egli gettò un grido di sorpresa e d’ammirazione. Ebbi un successo completo fin dal principio. Come ben può credersi, ciò servì non poco a darmi coraggio. Incominciai tosto la canzone metà allegra e metà triste, dalla quale ha principio la scena della pazzia. Come l’amore — vero provato Scerni da quello — che tal non è? Egli ha il cappello — di nicchj ornato Bordone in mano — sandali al piè. Sir John distese verso di me le braccia, ma io finsi di non addarmene, e cogli sguardi vaganti nello spazio, proseguii con un accento di più intensa tristezza. Egli è partito, è morto, o mesta! Morto, partito, non torna più! L’erba è cresciuta sulla sua testa Il freddo sasso vi poggia su. Sir John fece applauso. Io gettai allora quel grido prolungato di lamento come io l’avevo udito gettare dall’artista che rappresentava la parte d’Ofelia, e con voce interrotta dai singhiozzi tirai innanzi. Qual neve alpina, bianco è il suo manto Tutto cosparso di dolci fior. Sulla sua tomba li nutre il pianto, È la rugiada del puro amor! Sir John fece un passo verso di me. Soltanto allora feci mostra di vederlo, e gli rivolsi quei versi che Ofelia rivolge al re. Bene! V’aiuti il cielo. — E’ m’hanno detto Che la civetta d’un fornaio è figlia.... Signore, noi sappiamo quello che siamo, Non quel ch’esser potremo.... Indi di salto dalla più profonda melanconia passando alla più aperta allegrezza, cominciai la canzone tanto popolare in Francia: Quest’è il giorno di san Valentino, Sorgon tutti col primo mattino, Del mio bello al balcon volerò, Suo fedel Valentino sarò. Egli sorge, s’abbiglia e festante La sua porta dischiude all’amante: Ma colei che zitella a lui va, Se ritorni zitella chi ’l sa? Poscia messa di nuovo nel mio sguardo quell’espressione vaga e caratteristica dalla pazzia ch’io aveva cessata per un istante, ripresi: . . . . . . . . . . . . Io spero Che tutto a ben verrà. Di pazienza Abbiam bisogno; ma che far potria Se non pianger, pensando che l’han messo Nella gelida terra?.... Il mio fratello Ben lo saprà, del vostro buon consiglio Grazie vi rendo.... Andiamo, il cocchio mio. O dame, buona notte! buona notte, O dame graziose! buona notte! E sortii gorgheggiando un’aria d’una canzone sconosciuta. Non appena io riposi il piede nella mia stanza, sir John vi si precipitò dietro ai miei passi. — Siete una maliarda, egli disse, ed una pazzia simile farebbe impazzire lo stesso re Salomone. Io però, quasi io non l’udissi, proseguii dando alla mia voce un’espressione sì dolorosa ch’io stessa ne provai ribrezzo: Sulla scoverta bara lo recano.... Ahi! più non è — no! più non è. Sulla sua fossa cade una lagrima. — Emma, esclamò sir John, Emma, rispondetemi dunque, ve ne scongiuro. — Addio, mio tortore, gli dissi, seguitando la mia parte. Indi, ripigliando di nuovo la stessa espressione di dolore ch’io aveva per un istante dismessa, distesi il velo nero sul tappeto e sfogliando i miei fiori: . . . . In terra, in terra! In terra dunque lo mettete. Sir John fece per interrompermi, ma io non gliene lasciai il tempo, e gli dissi col sorriso sulle labbra: . . . . Eccovi questo, È ramerino, e val per ricordarsi, Ven prego, amate, ricordate sempre!.... Pensate! il fiore del pensiero è questo! Questo finocchio, e questa ancolia a voi; E per voi questa ruta; e per me stessa Un poco amor.... Una margheritina eccovi ancora E vorrei darvi alcuna violetta.... Ma tutte inarridir quando mio padre Morì.... Dicon ch’ei fece un giusto fine. Io caddi in ginocchio cogli occhi rivolti al cielo, mormorando come se il pensiero sembrasse non vi avesse parte in nulla. Il caro buon Roberto È tutto il mio tesor! Ma sir John, non sapendo più contenersi, passandomi le braccia attorno la vita, mi rialzò, e stringendomi al seno: — Basta, basta, mi disse, ah! son io colui che voi fareste impazzire. Il terrore che spirava dal suo sguardo, e l’emozione della sua voce erano tali da non lasciar dubbio sul senso delle sue parole. Io allora diedi in uno scoppio di risa. — Vediamo, mi diss’egli, è ciò pure effetto di pazzia, o non è che la continuazione della vostra parte? Rispondetemi da senno, in nome del cielo. — La mia parte è di piacervi, o mio caro signore, e non di spaventarvi. Ofelia è caduta in un fiume e si annegò, ma Emma Lyonna vive, e vi ama. E mi gli gettai al collo tutta allegra. Io non poteva ora più serbare alcun dubbio dell’effetto ch’io aveva prodotto, esso aveva oltrepassato ogni mia speranza. L’unico pensiero, che mio malgrado mi preoccupava dal fondo del cuore, era pel mio povero Romeo, da me sconosciuto, la cui voce rispondeva tanto bene alla mia, là sotto gli alberi del giardino di Miss Arabella. II. Vorrei trascorrer rapidamente su questa parte della mia vita, che, benchè sia la più riprensibile forse pei moralisti, è quella, lo confesso, che m’ispira minori rimorsi. — Povera fanciulla, abbandonata dall’infanzia, non dovendo dar conto della mia condotta a nessuno, nemmeno a mia madre, per la quale la mia nascita stessa sarebbe stata una risposta a’ rimproveri che avrebbe potuto muovermi, dipendendo da me sola, in me sola sperando, bella per mia sciagura, trascinata da naturale istinto a tutte le gioie della gioventù, a tutte le seduzioni del lusso e della fortuna, a qual sostegno morale o fisico potevo chieder soccorso, quand’anche avessi avuto volontà di lottare? Ma ignorando a grado quasi eguale il bene ed il male, non ebbi nemmeno tal pensiero; mi lasciai sdrucciolar per un declivio che mi pareva sempre più dolce, sempre più fiorito. Il vizio veniva a me col sembiante d’un bel giovanotto coronato di fiori, come la primavera; presi il braccio di quel falso protettore, e mi vi appoggiai senza sapere a qual meta tendevo ed in qual trivio fangoso o a qual arido deserto finirei per ismarrirmi. Poi, debbo dirlo, una delle fortune o dei guai del mio carattere, fu sempre di vivere nel presente: quel presente, comparandolo al passato, era, nel tempo che racconto, una vita di godimenti materiali incomparabilmente superiore a’ sedici anni trascorsi. Il mondo, che non mi conosceva, non mi rimproverava nulla; io stessa non aveva rimorsi; tutto mi spingeva quindi all’obblio del passato, alla spensieratezza dell’avvenire. Parevami, finchè durasse la mia bellezza, nulla poter temere dall’incostanza della fortuna; e grazie a Dio, guardandomi nello specchio e ricordando la mia età, avevo tempo d’esser bella. Dissi che sir John Payne aveva chiesto ed ottenuto un congedo di due mesi; que’ due mesi, aggiunsi, voleva consacrarmeli interi. Mi chiese ove volessi andare e che volessi fare. Lo lasciai assoluto padrone del mio destino; nulla conoscendo, fuori il cerchio nel quale ero vissuta, non ambivo nulla: avevo soltanto un trasporto irresistibile verso l’ignoto. Sir John pensò d’andare in Francia; applaudii: avevo molto udito parlare della Francia, ma non m’era nemmeno venuto in mente che potessi mai vederla. Non sapevo il francese; ma sir John lo parlava con eleganza e mi tradurrebbe le parole, di cui i miei occhi gli chiedessero la spiegazione. Partimmo; quel trasporto che risentivo per l’ignoto era la malattia del tempo, ed io, atomo, ero trascinata nel turbine. Havvi momenti in cui le nazioni stanche, fastidendo ciò che è, si rifugiano ne’ sogni, ed aspirano non solo a ciò che non è, ma anche a ciò che non può essere. Per ignorante che fossi, quel gravitar della Francia all’impossibile mi colpì singolarmente. La miseria v’era grande, ma il lusso vieppiù grande. I principi ed i signori vi si rovinavano con un’ostinazione ed una spensieratezza che non sarebbero state maggiori, quando avessero conosciuto il baratro al quale correva la società: ma che importava loro? — Il cardinale di Rohan era intento alla ricerca della pietra filosofale; Cagliostro, dicevano, aveva trovato l’elisir della vita; Mesmer la guarigione di tutti i morbi col magnetismo; Francklin aveva vinto il tuono e lo conduceva captivo, lungo un filo, nelle visceri della terra; infine Montgolfier prometteva un nuovo sentiero ne’ campi infiniti del cielo: — l’antico mondo poteva essere ingoiato dall’abisso, chè un nuovo mondo sorgeva. Que’ due mesi passarono in un continuo stupore: sir John possedeva i più belli cavalli, le più belle carrozze, i migliori palchi a tutti i teatri: vidi Lekain, vidi la signora _Raucour, Orosmane, Atalia, Britannico_; udii l’_Ifigenia in Tauride_ di Gluck e la _Didone_ di Piccini: Greuze, il pittore dell’innocenza, mi fece il ritratto, ed ovunque andavo un mormorio dolcissimo mi ripeteva che ero bella. Era tanto felice che sir John si arrischiò a scrivere per domandare una proroga d’un mese al congedo: gli fu accordato, ma avvertendolo, passato il mese, di tenersi a disposizione del governo. La guerra con l’America infieriva sempre più: la Francia minacciava di prendervi parte, e l’Inghilterra, secondo ogni probabilità, vedrebbesi obbligata a vibrare un gran colpo di là dell’Atlantico. Sir John, annunciandomi la proroga del congedo, si guardò dal dirmi nulla sull’avvertimento che vi era aggiunto: non voleva gettare nessun’ombra sulla mia gioia. Restammo ancora un mese; poi ci fu forza tornare in Inghilterra. Quel viaggio mi restò nella memoria come una visione abbagliante. Avevo veduto due volte la regina, una volta all’_Opera_ alla rappresentazione della Didone di Piccini, una volta alla _Comédie Française_ a quella d’_Orosmane_. — Era il tempo felice della sua vita: era ancora amata ed applaudita, l’odio e la calunnia vennero più tardi. Ella da parte sua m’aveva osservata e s’era informata di me: la mia memoria le restò tanto impressa, che quando, tre anni più tardi, la signora Lebrun, sua pittrice ordinaria, venne a Londra, mi pregò in nome della regina, di lasciarle fare il mio ritratto. Era un onore troppo grande perchè rifiutassi, e mi è stato poi affermato che quel ritratto era nella sua galleria particolare.[1] Trovai, lo confesso, tornando a Londra, la mia casetta di Piccadilly alquanto triste: laonde, a poco a poco, sir Jonh, temendo senza dubbio che m’annoiassi, mi chiese il permesso di presentarmi alcuni suoi amici, e cominciammo a riceverli una volta la settimana, poi due, poi tre, poi ogni giorno. Sir John a cui non avevo nulla nascosto della mia umile nascita, nè dalla mia educazione inculta, aveva temuto dapprima che fossi poco atta a sostener le parti di padrona di casa; ma fin dal primo giorno fu rassicurato. Uno dei doni più singolari prodigatimi dalla natura, è d’avermi fatta naturalmente gran signora, e sotto questo rapporto non mi fu necessaria nessuna educazione; nacqui, per così dire, già educata. Una sera si ricordò quella scena di Ofelia che aveva, al principio de’ nostri amori, prodotto in lui un’espressione tanto profonda. Mi chiese se non volessi fare pe’ pochi amici che prendevano il thè con noi ciò che avevo fatto per lui solo. Avendomi egli fatto la domanda sotto voce, potetti rispondere sotto voce anch’io, che alcuni accessorî necessarî e sopratutto i fiori selvatici mi mancavano, ma che il domani alla sera sarei pronta ad esordire la seconda volta. I nostri amici furono invitati a tornare il domani, e sir John li avvertì che preparavo loro una sorpresa. Il domani corremmo, sir John ed io, non nei campi, come sei mesi prima, — i campi erano coperti di neve, — ma nei magazzini di fiori artificiali per trovare le margherite, il ramerino e le viole bandite dalla terra per tre o quattro mesi ancora. Non so qual sentimento malinconico mi tormentava, riunendo in un mazzolino que’ fiori falsi in cambio de’ fiori veri. Sir John mi pareva mesto anch’egli. Tratto tratto lo sorprendevo con gli occhi fissi su me, quando i nostri sguardi s’incontravano si sforzava di sorridere. Da una settimana o due andava ogni giorno all’Ammiragliato, ed i messaggi si succedevano in casa sua ed al _Theseus_; dava ordini sotto voce; faceva preparativi che mi nascondeva: era evidente che un cambiamento qualunque nel mio destino approssimavasi. La sera venne: gli amici si riunirono ignoranti e curiosi della sorpresa da me preparata, e da sir John promessa con qualche solennità. Dopo il thè, o meglio durante il thè, passai dal salotto nella camera da letto: mi vi trasformai in pochi minuti in Ofelia; poi, quando tutti meno m’aspettavano, riaprii l’uscio: — un grido unanime m’annunziò che l’entrata aveva fatto effetto. Il mio successo fu immenso: per la prima volta esordivo innanzi a spettatori: fin allora avevo sempre recitato o per me o per una sola persona. Una volta sola ero stata applaudita dal mio sconosciuto uditore, chè da sir John avevo ottenuto più che applausi; e l’effetto che in lui produssi la seconda volta fu anche maggiore del primo. Fu un entusiasmo generale: mi gridarono _bis_; supplicarono l’ammiraglio di domandarmi una seconda rappresentazione, ma rifiutai ostinatamente. Ero convinta che i difetti sfuggiti agli occhi degli spettatori a quel primo saggio, si paleserebbero al secondo. — Ma, dissi, se qualcuno vuol rispondermi, reciterò volentieri la scena, anzi le due scene di Giulietta al balcone. Per disgrazia, bontemponi più che letterati, gl’invitati di sir John non erano abbastanza famigliari con Shakespeare per secondarmi. Pensai allora con vivo senso di rammarico a quel povero Harry, che nel giardino di miss Arabella mi aveva dato un Romeo tanto poetico ed innamorato. Quel velo della notte disteso sulla sua faccia, che m’aveva celato le sue sembianze, lasciando la sola sua voce giungere a me, gettava un dolce e vago mistero su quella memoria. — Che sventura, disse sir John, che il mio amico Featherson non sia a Londra, egli che sapeva Shakespeare a mente, meglio di Garrick! La prima volta che vedrò Sheridan, gli chiederò dov’è. — Ma è qui, rispose uno de’ nostri invitati. — Ne siete sicuro, sir Giorgio? disse l’ammiraglio. — Lo vidi e gli parlai ieri. — V’è mezzo di saper ove sia? — Nulla di più facile: me ne informerò da suo zio che dimora ad Hay-Market. Non so perchè avevo seguito con vivissima attenzione, anzi con un certo batticuore, le parole scambiate fra l’ammiraglio e sir Giorgio. L’ammiraglio si volse a me. — E se troveremo Featherson, acconsentirete a recitar con lui le due scene di Giulietta e Romeo? — Certo, dissi; ma aggiunsi sorridendo: — Perchè non le imparate voi? — — Infatti, rispose sir John con un sospiro, quella scena s’accorderebbe alla congiuntura presente; ma Harry, vi riuscirà meglio di me. — Harry! esclamai, chi è Harry? — Harry, cara Emma, è il nome di Featherson. — Perdono, dissi. — Avete conosciuto un Harry? ripigliò sir John con qualche curiosità. — Udii una volta pronunciare questo nome, dissi, ma non apparteneva ad un nobile lord, sibbene ad un povero artista, e certo il mio Harry non aveva nulla di comune con sir Harry Featerson. Fu convenuto che sir John si darebbe a ricercare sir Harry, e che, ritrovatolo, ci accorderemmo per la recita delle due scene di Romeo. III. Sir Giorgio non si era ingannato; lord Featherson era tornato a Londra dopo un viaggio di cinque o sei mesi sul continente. Sir Giorgio seppe dallo zio l’indirizzo di lui; dimorava in una magnifica casa di Brokstuet, al canto dello _Square_ di Grosvenor. Ma, non avendolo trovato a casa, gli lasciò un bigliettino, pregandolo, senza dirgli il perchè, di andare con lui a prendere il thè in casa di sir John, o meglio in casa mia. M’interessavo singolarmente, senza intenderne la ragione, a quanto riferivasi a quello sconosciuto. Aspettai con impazienza la serata del domani: mi occupai più del solito della toletta: sarei stata disperata di non sembrar bella a sir Harry. I primi invitati arrivarono dalle 9 alle 10: ogni qualvolta la porta s’apriva, mi volgevo vivamente; ma alle 10 e mezzo soltanto, il servo annunziò sir Harry Featherson. La mia inquietezza non era sfuggita a sir John: come i miei, i suoi sguardi si volgevano all’uscio sempre che s’apriva, e quando fu annunziato sir Harry Featherson, sentii il suo sguardo pesar su me, e quasi circondarmi tutta. Sir Harry entrò. Era un vaghissimo giovane di 23 o 24 anni, con occhi azzurri, denti magnifici, la carnagione d’una donna. Aveva acquistato, durante i sei mesi della sua dimora in Francia, molto della disinvoltura francese, e sembrava essersi spogliato, nel traversare la Manica, di quella durezza britannica, di cui i miei compatriotti stentano tanto a smettere. La prima persona che cercò con gli occhi fu sir John; andò dritto a lui; ma per via i suoi occhi si fermarono su me con un espressione strana di stupore, mentre i suoi piedi sembravano inchiodati al pavimento. Arrossii senza sapere perchè. Sir John vide il suo stupore ed il mio rossore: il suo occhio errò da lui a me e da me a lui. Ma quella sensazione fu percettibile a me sola. Dopo avere stretto la mano dell’amico che non aveva veduto da molto tempo, sir John me lo condusse per presentarmelo. Sir Harry mi fece qualche complimento con voce commossa: risposi non so che parole sconnesse: quella voce m’aveva profondamente turbata: aveva un’analogia incredibile con quella del giovane artista sconosciuto che, nel giardino di miss Arabella, aveva declamato con me la parte di Romeo. Sir Harry, dopo avermi salutata andò a stringere la mano agli altri amici; l’ammiraglio restò solo accanto a me. — Conoscete sir Harry? mi disse con dolce rimprovero stringendomi la mano. — Vi giuro, gli risposi, che lo vedo per la prima volta. — Sapete che credo tutto ciò che mi dite, Emma. — Ve ne do parola d’onore, caro sir. Mi guardò teneramente. — Con questi occhi e questa bocca non si mentisce, mi rispose, ma come parlando a sè stesso. — Soprattutto, aggiunsi, quando non si ha alcun interesse a mentire. Era tanto convinta io stessa di dir la verità, che tutto era vero in me, accento e sguardo. Sir John fu affatto rassicurato. Allora sir Giorgio trasse la conversazione sul motivo che aveva prodotto quella riunione, e chiese a lord Featherson se aveva sempre l’amore del teatro, e se sapeva sempre Shakespeare a mente. Lord Featherson sorrise come ad una memoria. — Ho molto dimenticato, disse, da sei mesi, o meglio, ho tentato dimenticar molto; ma di certe cose mi ricordo ancora. — Vi ricordate delle due scene d’amore fra Romeo e Giulietta, gli chiese sir John Payne. Lord Featherson sorrise tristamente. Quelle due scene, disse, fanno parte appunto di quanto ho voluto, ma non potuto dimenticare. Lo guardai come per interrogarlo; ma il suo volto non voleva esprimere assolutamente nulla più di ciò che aveva detto. — Allora Emma, disse sir John Payne, palesate al mio amico Harry Featherson il nostro desiderio; avrà certo maggiore condiscendenza per la preghiera d’una leggiadra donna, che per la nostra. — Di che si tratta? domando sir Harry. — D’un fastidio che vorrete darvi, spero, signore, per soddisfare ad un desiderio di sir John Payne ed a quello de’ suoi onorevoli amici. Sono appassionata non dico pel teatro, — giacchè probabilmente mai salirò sulle scene, — ma per la declamazione. L’altra sera recitai per questi signori la scena d’Ofelia, del quarto atto di _Amleto_, e promisi di recitare le due scene di amore di Romeo e Giulietta, se alcuno volesse darmi le risposte. Nessuno di loro le sapeva a memoria: il vostro nome fu pronunziato come quello d’un artista perfetto; ci dolemmo della vostra assenza; ci fu annunziato il vostro ritorno. In fine sir Giorgio promise di trasmettere alla S. V. l’invito di venire a prendere il thè con noi, confidando ognuno, caduto che foste nell’insidia, di non lasciarvene uscire senza impegnarvi ad essere per una sera almeno il mio Romeo. Ora avete udito ciò che ha detto sir John Payne, e la speranza che pone in una preghiera fattavi da me. Credo che la vostra cortesia sarà abbastanza compita da non dargli una smentita. Sia che la mia domanda paresse loro ben fatta, sia che la mia voce avesse presa un’espressione di dolcezza persuasiva, que’ signori m’applaudirono, come in teatro, dopo una lunga parlata. Dopo quel successo sul pubblico, sarebbe stato strano non ottenerne alcuno sul mio interlocutore. Tuttavia sir Harry contentossi d’inchinarsi e di rispondermi, balbettando, che era a’ miei ordini. Fui circondata, fui complimentata, e tutti si fecero una vera festa di vederci e d’udirci rappresentare le due scene promesse. Era d’uopo soltanto di dare tempo a sir Harry di farsi fare il vestito di Romeo; quanto a me avevo quello di Giulietta; ma sir Harry rispose che, impromettendosi tutti gran diletto da quello spettacolo improvvisato, niente doveva ritardarlo. Si procaccerebbe un vestito e sarebbe pronto per la sera del domani. Una grande stufa da fiori era unita alla casa. La mattina seguente, sir John Payne mandò per un falegname che co’ suoi garzoni costruì un balcone; lo circondarono di piante tropicali, lo coprirono di fiori, e alle due del pomeriggio il teatro era pronto. In quel momento giunse un corriere dell’ammiragliato con dispacci urgentissimi: sir John li lesse, impallidì leggermente, e con voce visibilmente alterata: — Dite alle signorie loro, rispose, che saranno in ogni punto obbedite. M’ero avveduta del suo turbamento, e mentre il messo ritiravasi, andai a lui, posi il mio braccio sotto il suo e gli chiesi se il dispaccio non contenesse qualche cattiva notizia. — Cattivissima, mi disse, sforzandosi di sorridere: i lordi dell’ammiragliato tengono un’adunanza di notte e mi pregano d’andarvi. — Allora, gli dissi, il divertimento sarà per un’altra sera. — No, disse, al contrario; se la nostra riunione non avesse luogo stasera, chi sa quando potremmo ritrovarci insieme! Non debbo lasciar la casa che a mezzanotte: abbiamo quindi tutto il tempo di udir le due scene; intanto venite e datemi alcuni minuti, ve ne sarò gratissimo. Lo guardai inquieta: perchè sir John che mi possedeva sempre sarebbemi grato di pochi minuti che gli dessi? Non osai chiederglielo, ed avendomi egli cinto la vita col braccio, mi lasciai trascinare. La sera venne: a misura che il tempo passava, sir John si faceva più mesto, ed io stessa mi sentivo presa, non so perchè, d’un incredibile brivido: il cuore mi si stringeva, e pure quelle contrazioni non erano senza diletto. Parevami che temessi insieme e sperassi un non so che d’ignoto. Mi figuravo sir Harry col vestito nero: parevami che il giustacuore di Romeo dovesse ottimamente confarsi alle sue aristocratiche fattezze. Nel corso della giornata aveva mandato gli abiti che erano stati portati nella casa del giardiniere attigua alla stufa: da quella casa doveva uscire sir Harry per venire sotto il mio balcone. Alle 9 giunse co’ suoi abiti ordinarii: sembrava raggiante di gioia, e quel giubilo gl’illuminava il volto com’un’aureola. Non potetti astenermi dal trovarlo bellissimo. Come il giorno prima, l’accento della sua voce mi fe’ sobbalzare. Venne a me e baciommi la mano, dicendomi: — «Buona sera, cara Giulietta.» — Quella volta io mi turbai e non risposi: sarei stata assai confusa, se avessi dovuto fargli un secondo discorso simile al primo. Fortunatamente non era d’uopo, giacchè tutto era già stabilito. Alle nove e mezzo ciascuno occupossi della toletta: ho sempre fatto rapidissimamente anche le tolette più complicate, avendo sempre portato, tranne nelle occasioni di gran gala, i capelli senza cipria. Que’ signori scesero nella stufa, che era illuminata in modo vaghissimo: fra l’una e l’altra scena dovevano servirci il thè. Quando fui pronta, un campanello interno avvisò sir Harry che poteva entrare in iscena. Lo guardai a traverso una finestra che dava sul verone. — Non m’ero ingannata; le foggie del medio-evo gli si attagliavano perfettamente, ed era maravigliosamente bello così. S’appressò al verone, come avrebbe potuto fare un artista espertissimo, o un uomo veramente innamorato, ed incominciò il verso: «Oh! me sol chiama Amor tuo ch’io n’avrò battesmo Nè da tal punto sarò più Romeo! Alle prime parole fui scossa: era quella volta impossibile dubitarne; era proprio la stessa voce, era proprio lo stesso accento che avevo udito nel giardino di miss Arabella; o era quello un miracolo inaudito di somiglianza, o avevo ritrovato il mio Harry, che credevo perduto per sempre. Ma era d’altra parte impossibile che il nobile lord Featherson fosse l’umile artista, che avevo conosciuto in guisa sì pittoresca e misteriosa. Meglio era credere ad una somiglianza di voce improbabile, ma possibile, anzichè ad un’identità più che inverosimile. Ad ogni modo mi sentivo invincibilmente affascinata, e senza dubbio, quando uscii sul verone, il mio volto era impresso dello spirito della mia parte, giacchè i pochi spettatori riuniti da sir John mi applaudirono tutti d’un sol movimento. Tutti sanno come ha principio quel dialogo amoroso, in cui Giulietta parla senza veder Romeo, credendosi sola, e Romeo parla, vedendo l’amata a pochi piedi da lui, ma senza osar di volgergli la parola, e come quelle due voci che favellavano dapprima, l’una alla solitudine, l’altra alla notte, finiscono per rispondersi scambievolmente: è, del resto, la scena che ho già più su riferita, avvivata allora da’ lumi, dalla vista degli attori, dagli applausi degli spettatori. Ho detto gli applausi che avevo ottenuti entrando in iscena: quegli applausi si volsero a lord Featherson quando esclamò: «È l’amor mio Senza confine, come il mar; com’esso Profondo è l’amor mio; più te ne dono E in me n’ho più, che sono ambo infiniti!» La scena proseguì per me con uno strano realismo; certo non era più Emma Lyonna; il mio interlocutore non era più sir Harry; sir Harry era Romeo: io era Giulietta, e con tutta l’anima gli dissi: «Ah! ti soffocherebbe L’amplesso mio!» Il mio sguardo attirato dagli applausi si volse al gruppo degli uditori: parvemi vedere sir John asciugarsi una lagrima. Quella lagrima mi piombò sul cuore. Per fortuna, in quel momento supponevasi che la balia mi chiamasse e, per rispondere a quell’appello, lasciai un momento il balcone. Durante que’ pochi secondi mi riebbi, benchè mi sembrasse che da quel momento il corso della mia vita volgesse ad altro scopo. Due o tre volte, mio malgrado, mormorai a bassa voce: — «sir Harry! sir Harry! sir Harry!» — come avrei mormorato: — Romeo.» — Tornai al verone colla vista velata, il cuore inebbriato, trasalendo d’amore, e quando profferii quel verso, le braccia mi si serrarono al petto, stringendo, non un sogno, non un’ombra, non un fantasma, ma come Psiche, l’Amore stesso sul cuore. Rientrando nella mia camera, fuor di me, mentre Romeo, rimasto a piè del verone diceva i versi che precedono la sua uscita, mi scontrai a faccia a faccia con sir John. Sobbalzai. Ma egli, attirando il mio capo sul suo petto ed appoggiandovelo: — O povera Giulietta, mi disse, quanto ami Romeo! Compresi il tenero rimprovero chiuso in queste parole, e come dubitasse di quanto gli aveva detto d’Harry, cioè che non l’avevo mai veduto. — Ascoltate, sir John, gli dissi, non ho mentito mai, ed a voi, che siete stato tanto buono per me, men che ad altri mentirei: vi dirò tutto. — Oh! no, rispose, sforzandosi di sorridere. — Lo voglio, insistetti. Ed in poche parole gli narrai quanto m’era accaduto nel giardino di miss Arabella quella notte, in cui, credendo declamarvi sola, v’avevo trovato un interlocutore sconosciuto. Gli dissi della lettera che avevo ricevuta il domani, e come infatti, andata lo stesso giorno con Amy a chiedergli la grazia di Dick, non avevo mai riveduto quel creduto studente di Cambridge. Vero è che, alle prime parole dette da sir Harry all’entrar nel salotto, avevo creduto riconoscere la sua voce; a’ primi versi che aveva pronunziati entrando in iscena, non avevo più serbato dubbio; ma quando gli avevo affermato non aver mai veduto sir Harry gli avevo detto schietta ed intera la verità. — Che volete, amico mio? aggiunsi; se non fosse troppa superbia in una debole creatura, qual sono, crederei la mia vita soggetta ad una fatalità, contro cui nulla posso. Sir John tacque, e mise un sospiro. In quel momento udii i nostri spettatori richiamarmi con grandi grida, come richiamasi al teatro l’artista che piace. — Emma! Emma! Sentii il rossore salirmi al viso. — Venite, cara, a ricevere i complimenti che tanto vi son dovuti, mi disse sir John. E mi trascinò nella stufa, ove, appena entrata, fui circondata, lusingata, applaudita da tutti, — tranne da sir Harry, che si tenne da banda, ma i cui occhi erano per me più eloquenti de’ complimenti degli amici, per frenetici che fossero. IV. Lo spettacolo non era finito: dopo la scena del balcone, restava da eseguir la scena della finestra; dopo aver espresso il desiderio, dovevamo dipinger la felicità. Temevo molto quella seconda prova, e pregai sottovoce sir John, e forte i suoi amici, di volermela risparmiare, sotto pretesto di stanchezza; ma il fremito nervoso dei muscoli, il mio sguardo scintillante, l’accento febbrile della mia voce dicevano al contrario come avessi bisogno più di fatica che di riposo. Insisterono: il mio cuore era troppo d’accordo con quelle istanze perchè potessi resistere a lungo; cedetti. Quella volta dovevamo apparire insieme al verone, sir Harry ed io, col mio braccio cinto al suo collo, co’ miei occhi smarriti ne’ suoi, coi nostri cuori frementi d’amore. Sir Harry si trovò quindi un momento solo con me, dietro le quinte: mi si avvicinò, mi cinse la vita con un braccio e m’appoggiò sul suo cuore, mormorando la sola parola: — Finalmente!... La commozione fu elettrica; gli occhi mi si chiusero; gli gettai un braccio al collo, con un lieve grido; poscia, non so come accadde, una fiamma mi corse le labbra: — non era il primo bacio dato a Giulietta, ma era il primo bacio datole da Romeo. Mi sentii presso a svenire. Sir Harry mi trasse alla finestra; feci un violento sforzo e tornai padrona della mia volontà; ma una notte intera d’amore non m’avrebbe meglio disposta a quegli addii tanto inebbrianti e dolorosi, che precedono l’eterna separazione degli amanti di Verona. Il nostro apparire fu salutato da unanimi applausi. Toccava a me a cominciare: l’arte meglio studiata e più profonda non avrebbe saputo dare maggior verità alla mia voce dello stato in cui trovavasi il mio cuore. E però que’ be’ versi di Shakespeare «Partir già vuoi? Non viene il giorno ancora. Fu l’usignol non già la lodoletta Ch’or ti feriva il timoroso orecchio,» sfuggirono alla mia bocca dolci, come dolcissimo mele, e quando sir Harry rispose che era contentissimo di restar meco, e di morir per me, una triplice salva d’applausi mi disse che tutti erano pronti ad imitar il falso Romeo. La scena continuò, percorrendo tutte le fasi onde l’ha colorita il possente genio di Shakespeare; ma quando Romeo si tolse delle mie braccia, parvemi che l’anima mi fuggisse, e caddi in ginocchio affranta. Fu creduta ispirazione del cuore quel ch’era debolezza del corpo. Recitai il resto della scena curva fuori il balcone, avvinghiata al parapetto. Io stessa fui maravigliata dall’espressione che diedi alla mia voce quando giunsi a’ versi: «Oh cielo! il mio È un cor presago di sciagure. Il credi? Or che laggiù tu sei, parmi vederti Sì come un morto in grembo della fossa. O l’occhio mio s’appanna, o impallidito Tu mi sembri.» E quando Romeo allontanossi, mandandomi l’ultimo addio, l’addio mio fu un grido tanto doloroso, che poteva credersi in verità quello d’un corpo che sente l’anima fuggirgli. Esprimerei difficilmente l’entusiasmo ispirato da quella scena e la frenesia degli applausi che la seguirono. Sir John mi s’appressò; mi sollevò fra le braccia e portommi, più che non mi condusse, ai suoi amici. Sir Harry prese nella sua mano fredda ed umida le nostre due mani febbrili, dicendo: — Se Romeo e Giulietta si fossero amati come voi, la morte, tuttochè spietata, non avrebbe avuto cuore di separarli! Lo guardai stupefatta, ritraendo la mano, che sir Harry non lasciò senza un’ardente stretta. Prendemmo il thè. Poi sir John cavò l’oriuolo: — Signori, disse, a mezzanotte sono obbligato a lasciarvi: l’Ammiragliato si riunisce; abbiamo un altro quarto d’ora da passare insieme. Poi chiamandomi da parte: — Non vi dico addio, cara Emma, proseguì; può darsi che la tornata finisca presto, e ch’io venga a passar la notte con voi; tuttavia non m’aspettate. Andate a letto, dormite; ho la chiave; non vi date nessun pensiero di me. Non so perchè a queste parole mi sentii rabbrividire per tutto il corpo. — Non potete dispensarvi dall’assistere a quell’adunanza? gli domandai, senza sapere se desiderassi che restasse. — Impossibile, rispose. Poi, tornando alla tavola da thè, intorno a cui erano in crocchio gli amici, conversò facendo uno sforzo visibile per simulare una falsa gaiezza. Il quarto d’ora passò; udimmo sonar mezzanotte; sir John cavò di nuovo l’oriuolo; era l’ora infatti di partire. Que’ signori pensarono che era ora di ritirarsi; si congedarono da me, Harry come gli altri, ma con uno sguardo di profondo rammarico: poi, sir John venne a me, mi baciò sulla fronte, e mi disse que’ due versi di Romeo: «Il dolce sonno Scenda sugli occhi tuoi, la pace al seno.» Non ebbi forza di rispondere che con un sorriso mesto quasi quanto il suo; mi volse un ultimo sguardo, prese a braccetto sir Harry ed uscì con lui. Quando l’uscio si chiuse, mi trovai sola ed oppressa, come nella tomba de’ Capuleti. Ammirava, impaurita di quella persistenza, per quali strani nodi il destino legava gli uni agli altri i vari episodî della mia vita, senza che la mia volontà v’avesse alcuna parte. Avevo infatti quasi obbliato quell’artista sconosciuto, quell’umile sir Harry, che m’era apparito appena nella vita, passando come un fantasma nelle tenebre, nè vi lasciando traccia, più che un fantasma. Ecco, vien voglia a sir John di dar a’ suoi amici un saggio della mia arte mimica; recito la scena di pazzia d’_Amleto_; mi chiedono di ripeterla: offro, se alcuno vuol darmi le risposte, di declamar l’una o l’altra delle due scene d’amore di _Romeo e Giulietta_: nessuno le sa a memoria; uno degli amici di sir John pronunzia il nome di sir Harry Featherson, a quel nome d’Harry sobbalzo: lord Featherson, assente da sei mesi, è tornato da due o tre giorni appena; l’ammiraglio Payne prega sir Giorgio di condurlo in casa nostra: vi viene, ed il caso, la fatalità, vuole che lord Featherson e lo studente Harry sieno una stessa persona. Di che potevo accusarmi in tutto ciò? Di nulla, se non delle sensazioni provate al vederlo, all’udirlo, al toccarlo. — Ma dipendevano da me que’ sentimenti, sì o no? E non era già molto che avessi forza di padroneggiarli? Che accadrebbe nella mia vita per quel nuovo rincontro? — Oh! quanto a ciò, ero ben risoluta a non assumerne la responsabilità. Avevo detto tutto a sir John; gli direi al suo ritorno di quali sentimenti m’era stata cagione la presenza di sir Harry; a lui spetterebbe decider della mia vita, allontanandomi da Londra, o permettendomi di restare, e perciò di rivedere sir Harry. Fermai questa risoluzione nella mente; non amavo sir John d’amore, ma avevo grande stima pel suo carattere, grande riconoscenza per la sua generosità: — ingannarlo, lo sentiva, mi sarebbe stato un eterno rimorso. Presa quella risoluzione, mi sentii più calma; la sua mano, n’ero sicura, mi guiderebbe come quella d’un amico, e senza pensar a sè stesso, sceglierebbe per me la via men dolorosa. Lasciai la stufa, tornai nella mia camera, mi spogliai e mi coricai, ed, avendomi egli detto che, potendo, sarebbe tornato, sicura che manterrebbe la parola, l’aspettai. Ma, pensando che la notte non sarebbe mai tanto oscura per la confessione che dovevo fargli, spensi ogni lume, anche il lumicino di notte. Un lungo spazio passò, durante il quale la mia cameriera e gli altri servi si ritirarono, ed il pendolo sonò un’ora, poi due, senza che, ansiosa, preoccupata, potessi chiuder l’occhio. Le due e mezzo sonavano, quando parvimi udire il rumore d’un cauto passo sul pavimento; poi lo strepito dell’uscio d’un camerino da toletta attiguo alla mia camera che s’apriva; poi infine seguì un momento di silenzio. Non dubitai che fosse sir John che tornava; aveva la chiave dell’uscio esterno per entrar ad ogni ora e spesso mi sorprendeva così. Per un momento la risoluzione da me presa dopo la sua partenza sembrò presso ad abbandonarmi al suo ritorno; ma raccolsi tutta la mia volontà, e se posso dirlo, tutta la mia onestà. Finalmente l’uscio aprissi; il camerino era buio come la camera da letto; a tentoni dunque, guidato dalla mia voce, s’appressò al letto. Mi prese fra la braccia ed io lo respinsi dolcemente, dicendogli che, prima di ricever le sue carezze, dovevo fargli una confessione. Ed allora gli descrissi tutti i miei sentimenti di quella serata e delle precedenti, dal momento che l’avevo veduto, da quello in che avevo acquistato la certezza che lord Featherson ed il mio giovane studente del giardino erano lo stesso uomo: nulla gli celai di quanto avevo provato quando il falso Romeo m’aveva cinto la vita col suo braccio; quando le sue labbra avevano sfiorato le mie; quando infine m’aveva mandato quell’addio che m’aveva affranta; e giunsi fino a dirgli che, in quel momento stesso che gli ero accanto, nelle sue braccia, sul suo cuore, a sir Harry pensavo, sir Harry invocavo. Con mio immenso stupore un grido di giubilo seguito da folli carezze rispose alle mie parole: quell’uomo non era sir John ma sir Harry Featherson. Lo riconobbi a quel grido, al mio nome mille volte ripetuto nel suo delirio, a quella voce che mi scendeva al cuore, a quelle carezze che mi bruciavano il sangue. Non potevo più difendermi dopo la confessione che avevo fatta: m’abbandonai a quella sorte, i cui bizzarri capricci mi padroneggiavano. In due parole, sir Harry mi spiegò quella strana sostituzione che tanto bene rispondeva a’ voti del mio cuore. L’ammiraglio, al momento di partire per l’America, con la squadra che comandava, si era avveduto del mio amore per sir Harry e dell’amore di sir Harry per me. Ho riferito le sue domande e le mie risposte, senza dubbio aveva voluto assicurarsi che gli dicevo la verità. Era uscito dalla stufa con sir Harry, l’aveva fatto salire nella sua carrozza ed era entrato deliberatamente nella questione con queste parole: — Voi amate Emma ed Emma vi ama. Allora, con la stessa mia schiettezza, sir Harry gli aveva detto tutto: sir John restò un momento pensoso, e presa la mano di sir Harry, gli diè una chiave dicendo: — Rendetela felice! Poscia l’abbracciò e gli disse addio. Era quella chiave della casetta di Piccadilly. Mentre sir Harry mi narrava questa storia, l’ammiraglio era in mare, e navigava a piene vele alla volta dell’America. V. Così di nuovo il destino disponeva di me senza lasciar al mio arbitrio la scelta del bene o del male. La casa in cui dimoravo era stata tolta in fitto da sir John Payne per un anno in mio nome: l’annata era già stata pagata; tutto ciò che la casa conteneva era quindi mia proprietà. Ma risentivo una ripugnanza ad occupar con un altro uomo quelle stanze ove tutto ricordavami sir John. Fu questa la prima cosa che la mattina seguente dissi a lord Featherson: lo capì come me, ed il domani, portando via soltanto quella turchina inanellatami dall’ammiraglio il primo giorno che lo conobbi, e le poche ghinee che conteneva la mia borsa, consegnai le chiavi della casa al fattore di sir John, ed andammo a dimorar insieme nell’appartamento occupato de sir Harry solo a Brok-Street al canto dello _Square_ di Grosvenor. Sir Harry aveva 23 anni appena; era quindi in tutto il bollore della gioventù, e non dovendo serbare nessuno de’ riguardi che all’ammiraglio Payne imponeva una carica ufficiale, mi trasse seco nel romoroso e gaio turbinio di cui faceva parte nella triplice qualità di _gentleman_ ricco, elegante ed alla moda; quella vita che John Payne non aveva potuto menare, meno che a Parigi soltanto, perchè a Parigi ritrovavasi in tutta la sua libertà, egli menavala a Londra. Fin allora non avendo chi facesse gli onori della sua dimora, sir Harry non aveva ricevuto in casa; ma quando mi unii a lui, accolse i suoi amici tre volte la settimana. Si giocava: si perdevano e guadagnavano somme ingenti, ed io vi presi l’amore del giuoco, passione fatale che non ho potuto mai perdere interamente. La primavera venne, e con essa le corse dei cavalli; quelle d’Epsom erano nuove, e però in piena voga. Non mi fu d’uopo chiedere a sir Harry di condurmivi: ogni occasione a spendere gli era ben accetta. Comprò una carrozza e cavalli stupendi, e nel giorno stabilito, fra quella confusione e quel chiasso che distinguono particolarmente le feste del _derby_, ci avviammo verso il campo della corsa. Non tenterò descrivere quel tramenio di dugento mila persone tirate da tutte le fogge di carrettelle, di _landaus_, di _calessi_, di _phaétons_, di veicoli insomma d’ogni maniera. A chi l’ha veduto è inutile descriverlo, perchè, quando l’avessero veduto solo una volta, quello spettacolo resterà loro eternamente nella memoria; e a chi non l’ha veduto nessuna descrizione può darne un concetto. L’eleganza della sua vettura e delle sue livree, il suo nome pronunziato al suo apparire assicuravano a lord Featherson un posto alle prime file; ivi infatti ci ponemmo, accanto a un calesse non meno elegante del nostro. Due signore occupavano il fondo, o meglio, secondo l’usanza, avevano i piedi sul sedile di dietro, sedute sul mantice abbassato. Le guardai e ne fui scossa. Erano le due allieve di madama Colmann, che due volte m’avevano insultata, una volta nel podere, ov’erano venute a bere del latte, una volta nella prateria mentre conduceva a spasso i bimbi del signor Hawarden. Coloro che leggeranno queste memorie avranno di certo dimenticato i loro nomi, ma io me li ricordava; una era Clarice Damby e l’altra Clara Sutton. Un _gentleman_ elegantissimo, e che era senza dubbio marito dell’una o dell’altra, stava ritto sulla predella del cocchiere. Com’io le riconobbi, anch’elle mi riconobbero, e dopo aver parlato insieme sotto voce, guardandomi, una di loro, Clara Sutton, passò sul sedile davanti e disse alcune parole all’orecchio del _gentleman_, che si volse a me, mi guardò attentamente, e diè ordine al cocchiere di lasciar quel posto e d’andarne a prendere un altro. Il cocchiere obbedì, e la carrozza s’allontanò lasciando quel posto vuoto. Sir Harry non aveva nulla veduto del fatto, occupato com’era a seguir con gli occhi i cavalli che si menavano al luogo della partenza: quando si volse a me, vide grosse lacrime rigarmi le gote. Era la prima volta che dopo lungo tempo avevo disimparato le lacrime: quell’insulto mi mostrò ch’erano sospese non esaurite. Sir Harry m’amava veramente: mi chiese con viva insistenza la cagione del mio pianto: gliela tenni nascosta fin che potetti, ma finalmente cedendo alle sue preghiere, gli additai il luogo vuoto. Dapprima non mi capì, e mi fu forza spiegargli l’accaduto: volle sapere chi fossero le persone che m’avevano fatta quell’offesa, e gli dissi ch’erano due delle mie antiche condiscepole, che avendomi riconosciuta e saputo a qual titolo ero nella carrozza di lord Featherson, s’erano vergognate di restarmi vicine. — Non è possibile, disse sir Harry, impallidendo. — Ahimè! risposi, è pur troppo vero. — Vedremo, disse. E tosto, salendo in piedi sul sedile, e prendendo le redini dalle mani del cocchiere, andò a farsi di nuovo accanto al calesse ov’erano le due signore. Ma, appena fermatici, ad un ordine del generale Hernan che accompagnava le signore, il loro calesse si mosse e mutò luogo di nuovo. Sir Harry divenne livido, cavò di tasca un taccuino, lacerò un foglio, scrisse poche parole con la matita, e chiamando un servo: — A milord Camberwell! disse. Sospettai che quelle poche parole scritte col lapis non fossero che una sfida: supplicai sir Harry di non mandare il viglietto. — Cara Emma, mi disse, siete tanto buona da non occuparvi di questa faccenda: non siete stata insultata voi, ma io. Profferì queste parole in tuono sì fermo che capii esser inutile l’insistere. Cinque minuti dopo il servo riportava la risposta. — Benissimo, disse dopo averla letta, e pose lo scritto in tasca. Supplicai sir Harry di lasciare le corse e di ricondurmi a Londra. — Dopo le tre prime corse, cara Emma, mi rispose: ho fatto una scommessa di due mila ghinee contro lord Greenville, e voglio sapere se ho perduto o guadagnato. M’avvidi che non era quella la vera causa del rifiuto di sir Harry; ed infatti, terminata la prima corsa andò sul _turff_, ma per chiamare a parte due suoi amici, uno de’ quali era sir Giorgio: conversò con loro qualche tempo, poi, tornando a me col volto sorridente, ma impresso ancora di un’orma di pallore: — Ebbene, disse, ho vinto la prima corsa: voi mi portate fortuna, cara Emma. E tornò a sedermi accanto. Sir Harry perdè la seconda corsa, ma vinse la terza, cioè la bella. Fra la seconda e la terza corsa, i suoi amici erano andati a parlargli: aveva scambiato rapidamente poche parole con loro, e tutto era finito. Terminata quella terza corsa, sir Harry diè ordine di tornar a Londra. Nel movimento che seguì, la carrozza di sir Harry s’imbattè in quella di lord Camberwell: i due gentiluomini si salutarono con la più squisita cortesia, e col sorriso sulle labbra. Tornai a Londra col cuore orribilmente tormentato. La sera i due padrini di sir Harry andarono a visitarlo: i tre gentiluomini si chiusero insieme e conversarono quasi un’ora. Partiti che furono, volli sapere qualche cosa; ma sir Harry mi rifiutò ogni schiarimento. Verso le 9 di sera, lord Greenville gli mandò il prezzo della scommessa perduta, due mila ghinee come m’aveva detto sir Harry. — Prendete, disse, ho scommesso in nome vostro: a voi quindi appartiene la somma; — e la versò nel cassettino della mia toletta. Feci appena attenzione a quanto mi disse sir Harry, preoccupata come era del suo litigio con lord Camberwell. All’una dopo la mezzanotte, sir Harry ritirossi nella sua camera, lasciandomi nella mia; capivo che aveva bisogno di solitudine e di sonno, avendo domani una partita d’onore: per me ero persuasa di non poter dormire un solo minuto durante la notte. Sir Harry aveva chiuso l’uscio di comunicazione delle nostre due camere: mi levai ed andai a guardare a traverso la toppa: scriveva. Era un po’ pallido, ma sembrava tranquillissimo. Tornai al letto. Udii sonare, una dopo l’altra, tutte le ore della notte: verso le sei del mattino, sfinita, gli occhi mi si chiusero, e m’addormentai mio malgrado. Quando mi svegliai, era giorno chiaro: avevo dormito d’un sonno agitato, ma insomma avevo dormito tre ore; mi gettai dal letto ed aprii l’uscio della camera di sir Harry: era vuota. Vestii un camice, chiamai un servo e l’interrogai. La sera prima, il padrone aveva ordinato di attaccar i cavalli alle sette meno un quarto: alle sette precise i due padrini di sir Harry erano venuti a trovarlo, e tutti e tre erano partiti insieme. Non v’era dubbio: sir Harry era andato a battersi. Restai in preda alla più crudele ansietà per più di due ore. Circa le undici del mattino udii lo strepito d’una carrozza che si fermava nel cortile. Corsi alla finestra: vidi scendere sir Harry ed i suoi due amici: misi un grido di gioia e mi slanciai sulle scale. S’era battuto alla pistola: il suo avversario aveva ricevuto una palla nella coscia; egli era tornato incolume. Il duello levò gran romore nel mondo elegante di Londra: ma la faccenda fu narrata in modo a me sfavorevolissimo. Affermarono ch’io avessi eccitato sir Harry ad andarsi a porre a canto della carrozza fuggitiva, mentre al contrario, sicura che vi troverei un secondo insulto, aveva posto tutto in opera per dissuadere sir Harry dal lasciar il primo posto. Durante tutta la convalescenza di milord Camberwell, sir Harry mandò ogni dì a prender notizie della sua salute. La primavera sopravvenne: sir Harry Fetherson aveva un bellissimo podere ad Up-Park nella contea di Sussex: mi vi condusse e mi ci stabilì come padrona di casa. Il titolo usurpato di milady, che per cortesia mi davano gli amici del conte, commensali del castello e parassiti della sua fortuna, bastava al mio amor proprio finchè restavamo fra noi: ma fuori le mura della splendida villa, milady Featherson non era più che l’avventuriera Emma Lyonna, cioè una mantenuta, un po’ più bella forse, ma non più rispettabile delle altre. Ne risultava da parte de’ nostri vicini, la cui posizione era regolare, un’espressione di scherno, che ad ogni occasione rivelavasi, e che mi feriva all’intimo del cuore. Vero è che sulla picciola corte fattami da sir Harry dominavo da regina, delle corse, delle feste, delle cacce. Imparai, durante i tre o quattro mesi che passammo ad Up-Park, a cavalcare con molta eleganza e fermezza: la sera continuavo a recitare scene di commedia o di tragedia, ed a riprodurre con atteggiamenti plastici l’aspetto delle donne più famose dell’antichità. Riuscivo egregiamente, mercè vestiti magnifici, che facevo fare sui disegni migliori de’ personaggi illustri, e mercè una estrema mobilità di fisionomia, a dare un concetto esatto di que’ personaggi, e spesso non m’era nemmeno d’uopo dire qual eroina della storia greca, giudaica o romana, volevo effigiare, perchè il nome di essa veniva spontaneo sulle labbra degli spettatori. Sarebbe difficile valutar la spesa giornaliera di quella ricca villeggiatura. Due o tre volte sir Harry Featherson andò di persona a Londra a prender il danaro necessario a sostener quel lusso: il fattore che aveva soddisfatto alle sue prime richieste, aveva alla perfine scritto che, esaurite quasi due annate anticipate delle rendite di sir Harry, non si poteva più sperar nulla da lui, prima che lord Featherson, raggiunto i 25 anni, non divenisse unico gerente della sua fortuna, che in quel tempo dovea essere immensa. Sul finir di luglio si trovò in tanta angustia di danaro, che, volendo andare a Londra a tentar uno de’ suoi soliti prestiti, ricorse a me per far il viaggio. A poco a poco i suoi amici, che s’erano avveduti di quella inevitabile rovina, erano spariti. I due ultimi partirono con lui per Londra, promettendo di tornar con lui: io solo nulla vedevo, nulla temevo, e credevo la borsa di sir Harry inesauribile quanto quella di Fortunatus. Aspettai tre giorni senza darmi troppo pensiero: due altri giorni passarono senza notizie; la mattina del sesto solamente, dopo l’abbandono d’Up-park, ricevetti una lettera da sir Harry. Quella lettera fu per me un fulmine: eccone il tenore: «Mia povera Emma! Sono affatto rovinato, pel momento almeno. Debbo circa cinquantamila sterline; la mia famiglia non acconsente a cavarmi dalle mani degli uscieri e degli _aldermen_, se non a patto d’una totale riforma, e debbo subirla, prima di tutto, in quanto ho di più caro al mondo, rinunziando cioè a voi. Più, per esser sicuro della mia saviezza durante i due o tre anni che mi separano dalla mia età maggiore, son esiliato nelle Indie, ove la mia famiglia m’ha comprato una compagnia. Tutto si è terminato soltanto questa mattina: m’imbarcheranno questa sera, sicchè quando riceverete la mia lettera, sarò in mare. Addio, cara Emma; m’avete dato otto mesi d’una felicità ignota agli uomini: perdonatemi d’avervi sì male ricompensata. Colui che v’ha amata, v’ama e v’amerà sempre. HARRY.» Lo stesso giorno vennero alcuni uomini di giustizia per compilar un inventario degli oggetti lasciati da sir Harry Featherson nel castello di Up-Park e che divenivano guarentigia de’ creditori, di cui, mediante varii pegni, s’erano calmati i reclami. Tosto lasciai il castello, non portando che le robe che m’appartenevano personalmente, ed una somma di dugento cinquanta lire circa. VI. Quella commozione fu una delle più violente della mia vita: fin allora ero salita dalla miseria al lusso, dalla sventura alla gioia: d’un colpo, qualche cosa rompevasi nella mia esistenza; ed io stessa cessava di credere alla mia invulnerabilità. Amavo Harry con tutta l’anima, e l’anima mia era tutta straziata nello strapparne quell’amore; esso aveva radici in tutto il mio essere e non una parte di me stessa non era addolorata. Al lato ideale, sul quale era caduto il primo colpo, seguiva il lato materiale. Rimasta viva dopo l’urto, dovevo pensare a vivere, e ne’ grandi dolori è questa una terribile fatica. Ove andrei? che diverrei? sotto qual tetto mi rifuggirei? su qual pietra poserei il capo? — Non lo sapevo; lo chiedevo a me stessa, seduta sotto un albero del gran viale, di cui, otto giorni prima sollevavo la polvere con le ruote d’un’elegante carrozza, o sotto i piedi d’un magnifico cavallo. Avendo noleggiata una vettura nella vicina città, l’avevo empita con due o tre bauli; mi aveva serbato un posto, e quando il cocchiere mi domandò: «Ove condurrò Vossignoria?» non seppi che rispondergli. — Seguite la via, gli dissi. — In qual direzione? — In questa. — Ma fin dove? — Fin al primo villaggio, od alla prima città. — Il primo borgo è Nutley. — Andiamo a Nutley? Il cocchiere maravigliato partì. Dopo tre ore, fermossi in una grossa borgata in posizione amenissima, a piè d’una collina. — Siamo a Nutley, mi disse. — Informatevi se v’è una casetta da affittare, che possa occuparsi da una donna sola con una cameriera. Gettò le briglie sulla groppa del cavallo e si diè a cercare quel che domandavo. Restai immobile e muta nella carrozza, quanti minuti o quante ore, non saprei dirlo: avevo perduto la misura del tempo. Tornò: aveva trovato all’altra estremità del villaggio un piccolo _cottage_, che, secondo lui, doveva perfettamente convenirmi. — Conducetemi, gli dissi. Il cavallo fermossi innanzi ad una casetta lieta d’ombra e di fiori: era posta nel mezzo d’un giardino chiuso da una siepe e nel quale penetravasi per un cancello di legno dipinto in verde, come le imposte delle finestre. Era stata dalla padrona lasciata in custodia ad una vecchia, commettendole di darla in fitto a chi volesse. Quella signora, senza altra fortuna che quel _cottage_ ed una piccola rendita di cinquanta lire di cui viveva, era stata chiamata presso suo fratello, uffiziale generale in ritiro che aveva perduto l’unica sua figlia. La casa era rimasta qual l’aveva lasciata, cioè fornita di ogni suppellettile, modesta, ma pulita. Un solo sguardo mi bastò volgere alla casa per riconoscerla conveniente sotto ogni rapporto allo stato del mio cuore e della mia borsa: era abbastanza solitaria perchè vi trovassi la pace ond’aveva d’uopo; era abbastanza modesta per darmi, benchè povera, tempo di risolvermi su quel che mi restava a fare. Il prezzo n’era di trenta lire annue: pagai sei mesi anticipati con facoltà di lasciar la casa quando mi piacesse, senza pagar nulla di più, purchè ne partissi nel corso dei sei primi mesi: la mia fortuna si trovò così ridotta a 230 lire, cioè a 5750 franchi. Ove volessi restar in quella casa e vivervi lontana dal mondo, ero sicura di circa tre anni di pace. Due ore dopo, ero stabilita nel cottage, con cui la mia toletta più semplice contrastava singolarmente; ma quando paragonai a quella modesta ma ridentissima dimora il punto dal quale ero partita, parvemi che nella mia caduta mi fossi almeno fermata a mezza via. Mediante una lira al mese ed il vitto, la vecchia acconsentì a restar meco e ad attendere a tutte le faccende di casa. Mio primo pensiero fu di farmi fare due o tre abiti più conformi alla modesta vita che dovevo menare: li feci fare di seta nera ed a tutte le domande risposi nomarmi mistress Hearts, esser vedova, ed essere andata a passar nella solitudine e nel silenzio i primi mesi del mio dolore e della mia vedovanza. Ero molto giovane per essere già vedova; delle mie parole crederono quel che vollero: m’importava poco; non vedevo nessuno. Gli otto primi giorni passarono interi in preda a quel dolore fisico e morale, che sempre accompagna i grandi cataclismi della vita; poi, a poco a poco, la calma mi tornò, se non nel cuore, nella mente, e potetti giudicare del mio stato. Insomma, aveva perduto un uomo amato, ma era egli degno delle mie lagrime? La sua condotta era stata a mio riguardo quella d’un gentiluomo? Al rovinar delle sua fortuna s’era dato pensiero di me? Aveva posto mente a quel che diverrei? Aveva tentato risparmiarmi una di quelle vergogne serbate alle misere donne che han posto la loro vita nell’amore? Mi era forza confessare che no. Che differenza dalla condotta di sir John Payne alla sua. Giunta a giudicar sir Harry con imparzialità e ad apprezzarlo pel giusto suo valore, ero assai vicina a consolarmi della sua perdita. Era un bello ed elegante giovine di certo; ma la memoria mi ricordava fra gli amici di sir John cinque o sei amici eleganti ed avvenenti quanto lui, e secondo ogni probabilità, senza il misterioso incidente col cui favore era entrato nella mia vita e v’aveva lasciato un’orma incancellabile, non avrei badato a lui più che ad un altro, e mi sarebbe passato accanto inosservato. Lo stato poi in cui mi trovavo era certo migliore che al mio primo arrivo in Londra. Volevo viver solitaria? Avevo a me d’innanzi una lunga serie di giorni tranquilli. Volevo riapparire a Londra con la stessa pompa di quando ne ero partita? Avevo certo uno o due mesi di lusso da gettar agli occhi di quella società, in cui ero vissuta, ed in cui potevo sempre rientrar con le stesse condizioni. Fatte queste riflessioni, volsi uno sguardo allo specchio: ero più giovane, più bella, più fresca che mai, e se qualche traccia restavami ancora sulle guancie delle lagrime versate, erano già cancellate in un mezzo sorriso. Un sol bisogno risentivo dopo la vita fragorosa, dopo i giorni di festa, dopo le notti di giuoco che avevo traversate, quelle di poche settimane di riposo: la serenità del mio cuore era turbata come la purezza d’un lago dopo una procella; gli bisognava il tempo di riprendere la primitiva limpidità. E però i primi giorni di solitudine che passai in quella casetta di Nutley non furono scevri di malinconici gaudi, che talvolta rimpiansi all’apice delle grandezze, e chiesi a me stessa se quella vita dolce, facile, di cui tutti i giorni somigliavansi non fosse infin di conto quella a cui ci ha destinati la natura. Ma, debbo dirlo, a quella dimanda, una voce segreta rispondeva: che non ero di quelle a cui la natura ha serbato la calma della mediocrità e le dolcezze della solitudine: avevo al contrario uno di que’ caratteri estremi, cui fa d’uopo della lotta e del trionfo o della disfatta che la seguono. Su qual teatro s’impegnerebbe quella lotta del mio avvenire contro il mio destino? Nol sapevo; ma sentivo che, atleta del lusso, del capriccio, dell’ignoto, il momento di calma in cui ero caduta non era che il momentaneo riposo che precede la pugna. Due mesi restai a Nutley, quasi senza varcare l’uscio del giardino. In questi due mesi tutte le aspirazioni della mia gioventù ebbero tempo di rinascere; la ferita del mio cuore si rimarginò, tanto più facilmente, perchè dicevo a me stessa, che nell’abbandono di sir Harry, abbandono forzato, nulla aveva avuto a soffrire il mio amor proprio, giacchè la nostra separazione era stata cagionata non da un raffreddamento della sua passione, ma da una forza esercitata su lui da avvenimenti più possenti della sua volontà. Ora in tali abbandoni, forse non dovrei tradir questi segreti femminili alla pubblicità, il nostro amor proprio sanguina anche più del nostro cuore, e la donna, che può dire: «son divisa dal mio amante, ma son sicura che mi ama sempre» si consola assai più facilmente di quella che dice: «Son separata dal mio amante perchè non m’ama più.» Ne risultò che nel corso del secondo mese del mio ritiro, sentendomi di nuovo invincibilmente trascinata a quel turbine, che da un anno mi rapiva seco, deliberai di tornar a Londra e di tentar di nuovo la fortuna: m’era stata fin allora sì fedele, che potevo sperar che non m’abbandonerebbe a mezza via. D’altronde, a misura che la riflessione, o meglio la memoria m’era tornata, e la luce aveva irradiato il mio spirito, avevo pensato ad una risorsa che forse ancora restavami; avevo tanto rapidamente lasciata la casetta di Piccadilly, nella fretta di seguir sir Harry fuori della mia vita passata, che non aveva più pensato al dono fattomi da sir John delle ricche suppellettili che conteneva. Ora, adesso, sentiva una brama ardente di rivedere quella casa, testimone dei miei primi giorni d’orgoglio, cioè di felicità, giacchè per me, e ciò è quello che m’ha perduta, la felicità è nella soddisfazione dell’orgoglio, anzichè in quella dell’amore. Mi ricordavo vagamente di aver udito dire all’intendente di sir John che un’annata della pigione della casa era anticipatamente pagata e che quanto trovavasi nella casa m’apparteneva. Ma nessun atto comprovava quella donazione; e se la memoria m’ingannava, se l’affitto era fatto in nome di sir John anzichè nel mio, faccenda di cui non m’ero mai seriamente occupata, o se il fattore era poco onesto, tutta quella ricca speranza era perduta. Venne un momento in cui non potetti reggere a quel dubbio, e deliberai di partire e di accertarmi della verità qualunque fosse. Una diligenza passava ogni giorno a Nutley, andando da Lewes a Londra e viceversa: senza dire alla cameriera se tornerei o no, cosa inutile giacchè la casa era pagata per due o tre altri mesi ancora, le rimisi le chiavi, presi posto nella diligenza e partii par Londra, ove giunsi il domani alla mattina. Giunta a Londra, chiamai una vettura da nolo, vi feci deporre i miei bauli, e col cuore palpitante diedi ordine di portarmi a Piccadilly. Quando la vettura fermossi innanzi alla facciata a me sì nota di quella cara casa, in cui era per decidersi una questione tanto importante nella mia vita, sentii mancarmi le forze ed esitai a picchiar all’uscio. Ma d’un tratto, quasi per dar termine alla mia incertezza, l’uscio si aprì per dar passaggio ad una donna, ed io misi un grido di gioia. Era Amy Strong, che, il lettore lo rammenterà, aveva sempre avuto tanta influenza sulla mia vita. Quella volta ancora la fatalità sembrava ricondurmela innanzi. Mi riconobbe com’io la riconobbi: e ci slanciammo l’una nelle braccia dell’altra. Dietro di lei il portinaio stava ritto rispettosamente, col cappello in mano: quando m’ebbe riconosciuto, aprì i due battenti della porta perchè la carrozza potesse entrare. La vettura entrò: fermossi a piè della scala, il portinaio aprì lo sportello, e vedendomi esitar ad interrogarlo: — Vossignoria è stata molto tempo assente, mi disse: ma troverà tutto come il giorno che partì. E mi presentò la chiave del primo piano, ch’era stato già da me occupato. Era chiaro che nulla era mutato, e che quanto racchiudeva la casa era proprio mio. VII. Entrai in quel caro appartamento che ritrovava in maniera tanto insperata, con profondo sentimento di gioia, e fra lacrime di riconoscenza per sir John rividi la mia camera azzurra, quella camera dei miei sogni, e quel grande specchio a cornice dorata predettomi da Dick. La povera Amy non aveva fatto fortuna; ero sempre stata io la sua provvidenza; cinque o sei volte era venuta per saper mie nuove e ricorrere a me; le era stato sempre risposto che era lontana e che ignoravasi la mia dimora: era venuta a far un ultimo tentativo, con lo stesso risultato, quando sulla soglia, che ella ripassava disperata, ed a cui io m’appressavo tremante, ci eravamo incontrate. Nella solitudine in cui mi trovavo quell’incontro parvemi una benedizione del cielo: le proposi di restar meco, e senza discorrer del grado che occuperebbe in casa mia, ella accettò. Esaminata bene la posizione, a due partiti potevamo attenerci. Gli arredi della casa di Piccadilly erano miei, giacchè m’erano stati donati da sir John; e, venduti, potevano valere da due mila a duemilacinquecento sterline. Potevo dunque con ciò che mi restava realizzar un sessantamila franchi, da cento o centoventi sterline di rendita. Rinunziando al mondo, al lusso, alla vita elegante, tornando alla mia casetta di Nutley, non dovevo darmi pensiero dell’avvenire: la mia esistenza era assicurata. Volendo, per l’opposto, seguir la via in cui ero entrata, quella dell’avventura, del capriccio, del caso, doveva serbare le suppellettili e la casa, avrei ricevuto gente, avrei aperto saloni di giuoco e corso il rischio di novelli amori. Ahimè! il mio carattere pur troppo m’incitava a quest’ultimo partito, ed Amy che compiva meco l’ufficio dal serpente tenuto sei mila anni prima con Eva m’incoraggiava a tal risoluzione. Chi legge indovina che ad essa m’attenni. Dio che rappresenta la misericordia, non la vendetta, non chiede, spero, ch’io racconti nei suoi particolari l’anno che passò, e che fu il diciannovesimo della mia vita: tutte le fasi di quella vita dolorosa della donna che vive della sua beltà, vi furono da me percorse, tutti i dolori esauriti, tutte le vergogne bevute: se non le enumero, non è già che le avessi dimenticate, ma mi manca la forza di ripassar colla memoria per lo stesso sentiero; dirò che un anno, giorno per giorno, dopo il mio ritorno nella casetta di Piccadilly, ne uscivo, venduti i mobili, le gioie, i merletti, assai più povera e derelitta, che non ero uscita da Up-Park, non possedendo più delle reliquie del mio antico splendore, che la veste di seta che portavo indosso. Com’ero caduta a tal grado di miseria, che Amy stessa, causa prima e perseverante della mia perdita, m’aveva abbandonata? — La fatalità sola, che voleva precipitarmi all’ultimo gradino della scala umana per farmeli di nuovo salir tutti, potrebbe dirlo. Ogni minuzia di quella terribil giornata m’è presente alla memoria: fu il venerdì, 26 ottobre 1782, che uscii alle undici del mattino, con un tempo freddo e nebbioso, qual non trovi che a Londra, dalla casetta di Piccadilly. Avevo mangiato un tozzo di pane e bevuto un bicchier d’acqua a colezione: non ero sicura d’aver altrettanto a pranzo. Seguii Piccadilly fin a Old-Bond-Street, senza sapere ove andavo, senza tendere ad una meta: andavo innanzi, alla cieca, urtando i viandanti ed urtando i muri: mi trovai ben presto in Oxford-Street: il caso solo mi aveva condotta. Ivi tornai in me: ero quasi rimpetto alla casa di miss Arabella. Mi vi fermai un momento: una carrozza venne dal cortile; si fermò a piè delle scale; una donna tutta avvolta in una ricca mantellina di raso fregiata di merletti vi salì seguita da un elegante cavaliere: la carrozza si richiuse e passò coprendomi di fango. — Quella donna era miss Arabella; il cavaliere, che probabilmente era un nuovo adoratore, mi era ignoto. La carrozza sparì per High-Street. Perchè quella donna, che non era forse di miglior qualità di me, restava ricca e felice, mentre, dopo essere stata ricca e felice quanto lei, io la guardavo passare, povera e miserabile, e la sua carrozza mi lordava di fango? Mi parve quella una crudeltà inesplicabile della natura. Restai immobile nello stesso luogo, mezz’ora forse, e senza dubbio mi sarei rimasta più a lungo, senza saper perchè restavo ferma in luogo di camminare, se un crocchio non mi si fosse formato intorno, e se un _policeman_, penetrando nel gruppo, non m’avesse domandato che facevo colà, simile ad una statua, muta e co’ piedi nel fango. Gli risposi che, avendo veduto uscire una donna di mia conoscenza dal numero 23, aspettava il suo ritorno per parlarle. — Andate avanti, mi disse sgarbatamente il _policeman_; le donne vostre pari han dritto soltanto la sera di star ferme su’ marciapiedi. Quelle parole mi entrarono nel cuore come un ferro rovente; diedi un salto e per Dean-Street scesi verso lo Strand. Fatti appena pochi passi, mi trovai innanzi al negozio del signor Plowden, ove, come i lettori sanno, ero restata un mese; ivi la vita non era stata per me nè felice, nè brillante, ma calma. Al posto ove m’ero seduta durante quel mese era una giovane quasi mia coetanea. Era certo meno avvenente di me; ma era facile vedere dalla placidità del suo volto ch’era arrivata, o quasi, alla meta de’ suoi desideri e della sua ambizione. Mi ricordavo troppo crudelmente l’apostrofe del policeman per restar innanzi al magazzino del signor Plowden, come m’ero fermata innanzi al palazzo di miss Arabella. Risalii lo Strand fino a King-Williams-Street, e di là passai a Leycester-Square, e quasi dovessi a grado a grado risalir la scala delle mie memorie, ivi ritrovai quella casetta del signor Hawarden, ov’era scesa arrivando a Londra, ed ove aveva trovato sì dolce e benevola ospitalità. Dopo lo Strand ero stata colta dalla pioggia che continuava a scendere sempre più copiosa; ma ero giunta a tal grado d’insensibilità che non m’avvedevo d’essere bagnata fin all’ossa: la casetta aveva sempre la sua apparenza d’onestà, anzi di puritanismo: sedetti su gli scalini d’un teatro ambulante costruito sulla piazza. Avevo di rimpetto la porta della casa del signor Hawarden; vi restai più di due ore: pioveva sempre; la fame cominciava a farmisi sentire, ma ero troppo superba per andar a chieder del pane a quella casa ospitale. Sventuratamente due risorse, sulle quali avrei potuto far assegnamento in quello estremo, mi venivano meno. Il signor Sheridan, di cui avevo tanto spesso udito il nome come direttore di Drury-Lane, era ridotto nell’impossibilità di giovarmi per l’incendio del suo teatro, ove avrei potuto esser addetta e farmi un nome. Romney non m’aveva mai dato il suo indirizzo: credevo ricordarmi soltanto che dimorava poco lontano da Cavendish-Square, ma l’indirizzo era troppo vago, perchè potessi trovar la sua dimora. Mi bisognava un soccorso pronto ed efficace: avevo fame; non avevo ove mangiare; la notte avanzava; non avevo ove dormire. Levai gli occhi al cielo, per tentar di placarne la collera con uno sguardo supplichevole. In quel punto una carrozza passava a quattro passi dal luogo ov’ero seduta; si fermò; lo sportello s’aprì; una donna su’ quarant’anni, avvolta in un bellissimo cacimiro indiano, ne discese, e mi si fece incontro, esponendosi alla pioggia che veniva giù a secchie. Un misto di cinismo e di volgarità era nelle sembianze di quella donna, e contrastava con le sue vesti eleganti. Non potendo credere che volesse parlare a me, avevo lasciato ricader la fronte fra le due mani. Ella mi toccò la spalla. Rialzai il capo: ella era ritta innanzi a me: mi guardò con attenzione sfacciata, e mormorò: — Affè! è leggiadra, leggiadrissima. La guardai stupita. Che voleva da me quella donna? — Perchè restate così esposta alla pioggia? mi chiese. — Perchè non so ove andare, risposi. — Oibò! con un visino come questo, non è mai difficile trovar un asilo. — Eppure io non l’ho trovato. — Perchè siete tanto pallida? — Perchè ho freddo e fame. — Non siete inferma? — No; ma certo lo sarò, se resto stanotte sul lastrico. — Chi v’obbliga a restar all’aria stanotte? Venite meco. La guardai. — Chi siete? dissi. — Son tale che v’offro ciò che non avete; cibo, tetto, vesti, danaro. — Ed a qual prezzo? — Lo saprete: ma spicciatevi; perdo, non il tempo, ma il cappello e la mantellina a discorrere con voi. Esitai. — Dunque buonasera, quella giovane. E fece un passo per tornar alla carrozza. — Signora! signora! le dissi. — Ebbene, avete risoluto? — Se domani i progetti che avete sopra di me non mi convengono, sarò io libera di lasciarvi? — Certamente, però rimborsandomi tutte le spese che avrò fatte per voi, se mai ne facessi. — Vi seguo, signora. Mi alzai, i miei abiti eran tutti grondanti d’acqua. — Mettetevi alla parte d’avanti della carrozza, e fatevi più piccola quanto più vi sarà possibile. Io obbedii, ella crollò la testa. — Voi siete in un tristo stato: a proposito, avete nessuna partita da aggiustare colla polizia? — Io? — Sì, voi. — Come potrei aver qualche partita da aggiustare con la polizia, io che sono uscita da casa mia questa mattina? — Ah, voi eravate a casa vostra. — Sì. — E dove sta la casa vostra? — A Piccadilly. — Ma Piccadilly non è uno de’ nostri rioni. — Uno de’ nostri rioni? io non vi comprendo. Essa mi guardò ancora, ed allungò le labbra. — Infatti è possibile, ella disse, ha un’aria onesta, ma si prende così facilmente quest’aria. — Signora, le dissi, quasi spaventata dalla trivialità del suo linguaggio, se vi pentite dell’offerta che mi avete fatta, son pronta a scendere di carrozza. — No, rimanete. E tirando ella stessa lo sportello che si chiuse. — A casa, disse al cocchiere. Dieci minuti dopo la carrozza si fermava alla porta d’una casa di Hay-Market, le cui finestre eran tutte chiuse. Io aveva molto freddo, ma nell’entrare in quella casa, e sentendo la porta chiudersi dietro di me, ebbi anche più freddo. Mi pareva di entrare in una tomba. Ed infatti era una tomba, tomba del pudore e della virtù, d’onde non si esce mai senza conservare sulla sua persona quelle tracce della morte morale, ben più terribili di quelle della morte fisica. VIII. Il mio bisogno più urgente, anche prima del nutrimento, era quello di un cambiamento completo di toletta e d’un bagno. La signora Love, — era un soprannome datole dagli amici di casa, ovvero un capriccio del caso? — la signora Love comprese questo doppio bisogno, poichè nell’entrare diè l’ordine che fosse preparato un bagno e che fossero portati nella camera che mi destinava della biancheria ed un camice. Appena entrata in quella camera, io era caduta senza forze sopra una poltrona, — insensibile, fredda come il ghiaccio, accorgendomi appena di ciò che accadeva intorno a me. La signora Love presedeva a tutto con singolare tenacità. Il suo sguardo non si distoglieva mai un momento da me. Allorchè il bagno fu pronto, volle essa stessa servirmi da cameriera, servigio ch’essa faceva con una certa passione, di cui non mi rendeva conto, ma di cui pure, nella atonia in cui ero caduta, non mi davo nessun pensiero. Le mie vesti s’erano incollate sulle mie spalle: in quel tempo si portavano molto strette; essa le stracciò e tagliò con le forbici il laccio del mio busto. In un momento mi trovai nuda. Provai, sebbene in faccia ad una donna, un rapido sentimento di vergogna che mi fece arrossire. Mi ricoverai nel bagno, la cui acqua limpida mi copriva d’un velo ben trasparente. Nel pormi in quell’acqua tiepida provai una prodigiosa sensazione di benessere, il mio petto si allargò e il mio respiro divenne facile e regolare. — Ah, signora! le dissi, senza badare al motivo che la faceva operare così, quanto vi ringrazio. — Bene, bene! disse ella; si avrà cura di voi, mia cara bimba; siate tranquilla, siete abbastanza bella per esser trattata così. Poi, sonando il campanello, domandò a voce alta un brodo, e dette poi sotto voce un ordine, che non intesi. Vi era in quella casa uno strano miscuglio di lusso e di bassezza. Una cameriera, troppo elegante come cameriera, e non elegante abbastanza come signora, mi portò un brodo eccellente in una tazza di terraglia comune. Le mie labbra vi si accostarono con ripugnanza. Da un anno assuefatta al lusso, io, già povera contadina, non potevo mangiare se non con le posate d’argento, nè bere se non in bicchieri di cristallo o di porcellana. Allorchè ebbi preso il brodo, la signora Love si pose alla testa della mia bagnaruola, prese un pettine, sciolse i miei capelli e li pettinò essa stessa con una cura ed una destrezza che avrebbe fatto onore ad una pettinatrice per mestiere. Poi, dopo averli sciolti e pettinati, li strinse di nuovo in treccie e li accomodò sulla mia testa con un’abilità ed in un modo sì elegante, che mi sentii obbligata a riconoscere guardandomi in uno specchio. Nel momento in cui terminava di rendermi questo servigio, entrò la cameriera e disse qualche parola all’orecchio a madama Love. Queste parole parve che le recassero una viva soddisfazione. — Ora, mia cara bimba, disse, è tempo che usciate dal bagno; un soggiorno troppo prolungato nell’acqua tepida nuoce non solamente alla sanità, ma anche alla bellezza, uscite fuori dalla vostra bagnaruola, ed io stessa vi asciugherò. Io avevo preso subito l’assuefazione di farmi fare tutti i servigi che richiede la toletta da una cameriera; accettai dunque l’invito della signora Love senza alcuna opposizione. La camera ben riguardata, guernita di tappeto, era riscaldata ad una dolce temperatura. Io uscii dalla bagnaruola non avendo neppure, come la Venere Afrodita, il velo de’ miei lunghi capelli. La signora Love mi si avvicinò con una veste a camice, ma tutt’ad un tratto, volgendosi alla cameriera: — Che cos’è questa biancheria grossolana? disse; prendete voi la signorina per una cameriera d’albergo? Portate via questo canavaccio e recate una camicia ed un camice di battista. La cameriera uscì. Io la guardai fin che si allontanò, maravigliandomi assai e cercando, come una statua antica, a farmi velo con le due mani. La signora Love si mise a ridere. — Orsù dunque, voi uscite forse da un pensionato di giovani signorine? Se è così bisognava prevenirmi, mi sarei messa i guanti per toccarvi, e una sordina alla bocca per parlarvi. Andiamo, state dritta ed alzate le vostre mani in aria per far scendere il sangue. — Ma, signora. — Avete freddo, forse? — No. — Ebbene, allora non vi date pena di nulla e lasciate che vi guardi a mio bell’agio. Non mi ritratto, voi siete bella, anzi bellissima. Questi elogi cominciavano a darmi pensiero senza però che io avessi una ragione vera per temer qualche cosa. — Ve ne supplico, signora, le dissi, lasciatemi rivestire. — Bisogna aspettare che vi si porti la biancheria conveniente; d’altronde voi che fate la vergognosa innanzi a me son sicura che più d’una volta vi siete guardata nel vostro specchio, carina mia, tal qual vi trovate in questo momento, se no non sareste donna. In ogni caso ecco la vostra biancheria; voi potete vestirvi adesso; solamente lasciatemi dirvi un’ultima cosa, ed è che se non siete una sciocca, la vostra fortuna è nelle vostre mani. Intendete voi? — Sì, signora, intendo; ma vi confesso che non vi comprendo. — Va bene, va bene, signorina Clarice, verrà qualcuno che si spiegherà chiaramente: vestitevi con tutto il vostro comodo, e se avete bisogno di qualche cosa, sonate. Non fate la pinzochera e tutto andrà bene. E la signora Love uscì seguita dalla cameriera che aveva deposta la biancheria sopra una poltrona. Rimasta sola, dimorai per un momento pensierosa ed immobile. Io non pensavo più che era nuda, o, per dir meglio, io vi pensava, ma solo per gettar su me stessa uno sguardo nello specchio. La signora Love, secondo quel che mi pareva almeno, non aveva fatto di me un elogio esagerato, ed io potevo veramente sostenere il paragone co’ più be’ marmi dell’antichità. Infine, a poco a poco e cosa per cosa, io mi rivestii con quella biancheria che avrebbe soddisfatto i gusti aristocratici della regina Anna d’Austria. Tutti i miei istinti di lusso s’erano risvegliati, e le parole della signora Love risuonavano dolcemente alle mie orecchie: — Se non siete una sciocca, la vostra fortuna è nelle vostre mani. Ed io stendeva le braccia verso quella fortuna promessa, e mormoravo: — Venga dunque, io sono pronta a riceverla. Bisogna ch’io sia una creatura molto debole, e molto facile ad esser tentata, poichè infine aveva finito per comprendere in che luogo mi trovavo; avevo indovinato l’infame mestiere ch’esercitava la mia impudente albergatrice; sapevo che quell’ammirazione che mi aveva manifestata, era quella del sensale de’ cavalli per l’animale che vuol comperare o vendere, e, alla vista della mia bellezza, al toccare quella morbida biancheria, io ritrovavo la speranza e rinascevo alla vita. Nel momento in cui finiva d’involgermi nella mia veste a camicie ed introducevo i miei piedi nudi in graziosissime pantofole di seta, vidi aprirsi la mia porta e fu portata una tavola tutta preparata con due posate. Questa tavola era preparata con lusso: argenteria cesellata, porcellana di Cina, biancheria di Sassonia; non vi mancava nulla. Solamente, come ho detto, questa tavola non era preparata per me sola. La seconda posata indicava un convitato sconosciuto. La fortuna, rivenendo verso di me, riprendeva le sue abitudini di mistero, solamente mi parve che trattasse senza molte cerimonie la povera Emma. È vero che io era in una posizione sì trista, che essa non doveva avere molti riguardi. Quando la tavola fu posta innanzi al caminetto, la porta si aprì di nuovo ed entrò un uomo di 40 a 42 anni. Egli era elegantemente vestito, sebbene l’eleganza del suo abbigliamento consistesse piuttosto nel taglio che nella stoffa e nella ricchezza de’ suoi vestiti: aveva un abito di velluto color granato orlato in nero, un corpetto di seta bianca ricamato, calzoni di raso e calze di seta nera. Una cravatta bianca, una camicia con un magnifico collare di merletti d’Inghilterra, scarpe con fibbie di brillanti, un cappello a tre punte orlato con un gallone di seta nera, completavano la sua toletta: alla quale un paio di occhiali d’oro finivano di dare un certo carattere indeciso fra la toletta d’un magistrato e quella d’un uomo di scienza. Nel vederlo mi alzai tutta confusa, e compresi che la casa e la situazione nella quale egli mi trovava non mi davano il dritto di fare, come diceva la signora Love, la pinzochera con chiunque fosse. Questa riflessione mi fece ricadere tutta tremante sulla mia poltrona. Egli si avvide del mio turbamento, vedendomi a volta a volta impallidire ed arrossire. Ma, avvicinandosi a me con una squisita cortesia: — Vi domando perdono, signorina, mi disse, se mi presento innanzi a voi senza essermi fatto annunziare, ma ho premura di sapere se siete tanto buona quanto siete bella. Io balbettai poche parole inintelligibili. Per quanto fossi caduta in basso ne’ miei giorni di miseria, non ero mai arrivata ad essere, senza preparativi e senza transazione, la proprietà del primo che capitasse, e mio malgrado, le lagrime mi sgorgavano dagli occhi. Oh! esclamai quella miserabile creatura non ha perduto tempo! Lo sconosciuto mi guardò con un certo stupore, e come se volesse assicurarsi che erano vere lagrime quelle che io versava. — Signorina, mi disse, la mia assuefazione a giudicare della fisionomia mi fa vedere al primo sguardo, che io ho che fare con una persona non volgare, che un concorso di disgraziate circostanze, le quali non ho il diritto di ricercare, ha gettata in una falsa posizione. Mi affretto dunque a tranquillizzarvi, io non vengo a parlarvi d’amore, sebbene la vostra bellezza pare che dovesse allontanare in voi ogni altro soggetto di conversazione. — Ah! signore, esclamai, la bellezza è qualche volta una grande disgrazia! L’incognito sorrise. — E, diss’egli, una disgrazia, di cui ho sempre veduto consolarsi facilmente quelle che n’erano colpite. La bellezza, signorina, è la divinità che si rivela alla terra; permettete dunque ad un apostolo del gran culto universale di deporre il suo omaggio ai vostri piedi. Io sorrisi, mio malgrado, del tuono enfatico col quale aveva pronunziato questa ultima parola. — Vi domando perdono, signore, gli dissi, ma mi pareva che voi mi aveste promesso poco fa di non parlarmi punto d’amore. — E in che ho mancato alla mia promessa, signorina? Un omaggio non è una dichiarazione. Io comprendeva sempre di meno. — Ma voi dovete, secondo quel che m’ha detto la vostra albergatrice, aver bisogno di prendere qualche cosa. Ponetevi dunque a tavola e mangiate. Io sederò presso di voi per tenervi compagnia, e soprattutto per avere l’onore di servirvi. Non v’era modo di ricusare, in ispecie quando si moriva alla lettera di fame, un’invito fatto in termini così gentili. Avvicinai la mia poltrona alla tavola. L’incognito, che non s’era ancora seduto, si avvicinò una sedia, e si pose rimpetto a me, mettendo tutta la larghezza del vassoio fra noi due. — Signorina, mi disse l’incognito, prendendo un pollo freddo colla punta della forchetta, e cominciando a scalcarlo con una destrezza ammirabile, un poeta latino chiamato Orazio ha detto: «Gli affari che riescono più facilmente a buona fine son quelli, che si trattano a tavola, perchè il vino è per i pensieri ciò che l’acqua è per le piante: esso li fa sbocciare e fiorire.» Mangiate dunque, e soprattutto bevete per porre il vostro spirito in un giusto equilibrio. Poi parleremo dell’affare che mi ha condotto qui, il quale può essere una miniera d’oro per voi e per me. E nel tempo stesso in cui poneva un’ala di pollo nel mio piatto, empiva a mezzo il mio bicchiere con un eccellente vino di Bordeaux. IX. L’imperiosa necessità de’ bisogni fisici è una delle maggiori umiliazioni per la povera famiglia umana, giacchè ne rivela la debolezza e l’infermità. Ho già detto qual mutamento avessero in me operato quel tepido bagno, quella dolce atmosfera, quei soffici pannellini: la cena delicata servitami dal mio sconosciuto con tutti i riguardi che avrebbe avuti per una duchessa, finì di rendermi tutto il benessere e tutta la serenità lecite ad una condizione precaria quanto la mia. Ma restavami a sapere una cosa importante, — il genere d’affari che la signora aveva a propormi; ma per quanto insistessi, il pasto finì senza che me ne avesse fatto motto. Il mio sconosciuto fu meco di cortesia perfetta: la sua conversazione era quella d’un uomo istruito e distinto, benchè cosparsa di quella leggiera vernice di pedanteria che appartiene in ispezial modo a’ medici, agli avvocati, agli uomini di scienza insomma. Terminata la cena, il mio commensale mi chiese la mano; gliela diedi: la prese fra le sue, tastandomi il polso. — Ora, signorina, che un perfetto equilibrio s’è stabilito ne’ vostri umori, mi disse; ora che il polso batte regolarmente, sessant’otto volte al minuto, ora che il vostro stomaco, mediante una digestione tranquilla e facile, tramanda un dolce calore in tutto l’organismo: ora che perciò il vostro cervello è nelle condizioni più favorevoli per prendere un’importante risoluzione, vi dirò chi sono e qual cagione a voi mi conduce. Aprii gli occhi e tesi le orecchie. — Sono il dottor Graham, proseguì, amico di Mesmer e di Cagliostro, dimostratori della scienza _megalantropogenesiaca_: la mia fama in Londra è grande, ed i miei successi incontestati mi pongono sulla via della fortuna. — Ah! dottore, dissi sorridendo, son lietissima di conoscere un uomo tanto cospicuo; un mio amico, di cui non posso dirvi il nome, ma che è amico vostro, m’aveva sempre promesso di condurmi ad una delle vostre lezioni ad Old-Ballay: non tenete ivi il vostro corso? — Sì, signorina, e vedo che non m’ero ingannato trattandovi subito come una persona distinta tanto per ingegno quanto per bellezza: mi sarà d’uopo ora spiegarvi di quale studio scientifico mi occupo? — Ve ne saprò grado, dottore, benchè già sappia che cotesto studio scientifico è una dimostrazione sur una figura di cera, di grandezza umana, de’ misteri più segreti della natura, dalla circolazione del sangue fino a quelli ancora più intimi della generazione umana: quella figura che avete denominata _la dea Igea_, è distesa sur un letto, che chiamate _letto d’Apollo_: è questo, dottore? — Appunto, signorina. Orbè, se le mie dimostrazioni attirano già la folla, fatte sur una statua di cera, pensate un po’ quanto maggiore sarebbe il concorso pubblico se fossero fatte sur una persona viva, ornata d’una bellezza perfetta come la vostra? — Ma, dottore, risposi, voi, per cui la natura non ha segreti, dovete sapere che la beltà del viso non porta di necessità la bellezza del corpo, e che poche donne posson servir da modello d’insieme. Cleomene, per quel che ne ho udito dire da persone più istruite di me, dovè riunire da cinquanta giovanette greche, le bellezze di cui compose la sua Venere de’ Medici. — Ed ecco appunto ciò che finora m’ha trattenuto; cercavo un modello che credevo ancora introvabile: da due ore l’ho finalmente ritrovato in voi. — In me, dottore? Ma permettetemi di dirvi che di me non conoscete ancora che il volto, e che posso esser ben lontana dalla perfezione che cercate. — Siete in errore, signorina, ripigliò il dottore con grandissima tranquillità: appunto perchè so che siete un complesso di tutti i vezzi, vengo ad offrirvi un’associazione, che ci condurrà alla fortuna. — Come! lo sapete? chiesi, e chi vi ha detto?.... — Non mi è stato detto, signorina, ho veduto. — Avete veduto, voi? Ma dove e come? — La signora Love, che da lungo tempo ricerca per me una bellezza perfetta m’ha fatto avvertire del vostro arrivo. Son accorso: ero nella stanza attigua, quando siete uscita dal bagno: vi vedevo a traverso un foro della parete, e siete restata nuda bastante tempo perchè nessuna vostra perfezione mi sia sfuggita: difetti poi ne ho cercati indarno; non ho potuto trovarne un solo. Misi un grido di terrore. — Ma sapete che avete commesso un’azione scellerata, dottore? — Signorina, mi rispose imperturbato, se avessi avuto l’onore di conoscervi due ore fa, come ora vi conosco, non avrei acconsentito a quell’insidia; ma, trovandovi in casa della signora Love, sapendo in che modo v’aveva trovata a Leycester-Square, non potevo supporre che m’imbatterei in un diamante, quando non credevo aver che un ciottolo del Reno. — Oh! dottore, dottore! esclamai, e nascosi fra le mani il viso. Il dottore aspettò paziente che abbassassi le mani: prendendole allora fra le sue: — Ascoltate, mi disse: il caso v’offre oggi un’occasione che mai più non si presenterà. Avete a scegliere fra una lunga miseria, una vergogna eterna, ed una rapida e sicura fortuna, che non avrà limiti che il vostro volere. Siete bella, siete giovane, siete distinta: prima che abbiate vivuto un anno in questa casa infame, la vostra gioventù sarà spenta, la vostra bellezza appassita, la vostra distinzione perduta. In cambio d’un’ora data alla pubblica ammirazione per una somma che dopo tre mesi v’assicura l’indipendenza di tutta la vita, vendete qui a vil prezzo le notti e le giornate; appartenete al primo ubbriaco che verrà; siete il balocco di qualunque marinaio dispone d’una ghinea: compagna di creature abbiette; schiava d’una turpe mezzana: presso il dottor Graham siete la dea Igea; presso la signora Love la cortigiana Hearte. Qui nulla v’appartiene, nemmeno il cappello, nemmeno la veste, nemmeno la camicia che portate sul marciapiedi d’Hay-Market: laggiù, da oggi, ricostruirete la vostra grandezza passata, di cui, secondo ogni probabilità, non vi resta che l’anello che portate al dito. Vi spaventate di mostrarvi nuda agli sguardi degli spettatori: lo intenderei se non foste d’una bellezza meravigliosa. — «Il pudore, dice un filosofo mio amico, non è che il sentimento d’un’imperfezione: — » ma vedete la ballerina del gran teatro: non è ella sotto la sua gonna diafana nuda quanto lo sarete voi sotto un velo leggero, sotto la balaustrata che impedirà che alcuno giunga fino a voi? Nella suprema bellezza, credetemi, havvi maestà suprema, e l’ammirazione spinta all’entusiasmo esclude il desiderio. Giudicatelo voi stessa. V’ho veduta uscire dal bagno, n’è vero? Siete in una casa ove desiderare è possedere. Che ho fatto dopo avervi veduta? Son forse venuto a dirvi rozzamente: — «Mi piacete; voglio che siate mia? — » No, son venuto a dirvi ossequioso, piegando innanzi a voi le ginocchia: — «Regina della bellezza, volete che v’eriga un altare?» «Mi parlavate di quelle fanciulle di Sparta che fornivano, povere mortali, ognuna il suo contingente alla beltà divina: esitavano esse a mostrarsi nude al grande artista, che le indiava nel presente e le illustrava nella posterità? — No, giulive ed altere, smettevano fin l’ultimo velo e facevano pompa delle loro più arcane bellezze. — La cortigiana Mnesarete doveva in Atene esser condannata per delitto d’empietà. Che fece il suo difensore, Iperide? Le disciolse il cinto e le lasciò cadere la tunica, obbligandola ad apparire inaspettatamente a’ giudici in tutta la sua abbagliante beltà. — Che fece allora l’Areopago? Non solo dichiarolla innocente, ma le cadde alle ginocchia. — Orbene, anche per voi trattasi d’esser condannata all’onta eterna o coronata regina. V’è più pudore, credetemi, a svestir la tunica una volta al giorno innanzi a dugento persone, che a snudar dieci volte il cinto a testa a testa col primo venuto. — Ora vi lascio; riflettete: son tanto sicuro dell’assennatezza del vostro spirito, che me ne appello ad esso. Son tanto sicuro della vostra delicatezza che vi lascio il prezzo di quindici serate a 25 sterline ognuna, cioè trecento settantacinque ghinee. Se rifiutate la mia proposta, mi restituirete le trecento settantacinque ghinee e saprò ciò che vuol dire. Se non riceverò nulla fino a doman l’altro, vi verrò a prendere in carrozza, calcolate che somma fanno venticinque ghinee al giorno per un anno, per sei mesi, anzi per tre mesi; 2250 sterline, quasi una fortuna. E pensate che, per la somma enorme che potete guadagnare, non vi domando che un’ora al giorno, durante la quale non v’obbligherò a far alcun gesto, a pronunziar nessuna parola; durante la quale potrete chiudere gli occhi, fingervi addormentata, dormir anzi del sonno magnetico; da ultimo, coprirvi il volto d’un velo tanto spesso che nessuno possa dirvi, incontrandovi il domani: — «Ecco la stupenda statua che vidi ieri.» — Ed ora, datemi a baciare la vostra bella mano, miss Hearte; mi ritiro e spero. E lasciando sur una credenza tre rotoli di monete di cento ghinee ognuno, ed uno di settantacinque, il dottor Graham, dopo avermi rispettosamente baciato la mano, mi salutò ed uscì. Restai dapprima muta, quasi immobile: il solo mio movimento era stato per seguirlo con gli occhi finchè l’uscio gli si fu chiuso alle spalle. A tutto ciò che m’aveva detto non avevo trovato a rispondere una parola; senonchè una gran lotta mi s’era accesa nella mente. L’ospitalità, che avevo ricevuto e che fino ad un certo segno era scusata dalla miseria, dalla mancanza d’un tetto, dalla fame, era obbrobriosa; se l’avessi accettata tre giorni, subendone le conseguenze, distendeva la sua macchia su tutta la mia vita, e non aveva nemmeno la scusa d’un compenso proporzionato al sagrifizio. Presso il dottor Graham al contrario, come m’aveva detto egli stesso, la nudità della statua era coperta dal velo della fortuna: rappresentavo la parte di Danae, ma con la pioggia d’oro, che in questo mondo lava tante brutture: da una parte avevo l’infamia, dall’altra soltanto impudenza. Distesi la mano: presi, l’uno dopo l’altro i quattro gruppi di monete; li aprii; mi feci cader le ghinee sulle ginocchia; tuffai le mani in quell’oro; lo feci balzare in cascata sonora e sfavillante: mi feci affascinare da’ suoi fulvi riverberi; dissi che da me sola dipendeva d’averne dieci volte, venti volte, cento volte altrettanto; che in fin di conto, restando il mio volto celato, nessuno potrebbe farmi arrossire guardandomi; insomma mi ripetei tutto ciò che l’orgoglio e la necessità possono soffiare nel cuore indolenzito e vacillante d’una povera creatura umana, a danno di cui la natura ha creato istinti, la società ha creato leggi, e che, giovane, bella, intelligente, non ha scampo altro che la prostituzione contro la miseria e la fame. Risultato di tutte quelle riflessioni fu che non restituii le trecento settantacinque ghinee al dottor Graham, e due giorni dopo, alle 11 del mattino, venne, come m’aveva promesso, a prendermi nella sua carrozza. La sera stessa, coperto il volto da un denso velo, coperto il corpo da un velo trasparente, addormentata del sonno magnetico, che avevo chiamato in aiuto contro il mio pudore riluttante, ero distesa sul letto d’Apollo e servivo al dottor Graham per le sue dimostrazioni _megalantropogenesiache_. X. Solo chi conosce Londra, strano mescuglio di pudore apparente, e d’impudicizia reale, può farsi un concetto della voga che ottenne quell’esposizione umana, in cui la polizia, che, in tutti i paesi civili del mondo, sarebbe intervenuta, non pose nessun ostacolo. La folla s’ammassava alla porta, e benchè il prezzo dell’entrata fosse d’una sterlina, ogni sera la sala, ove il dottor Graham teneva il corso, era piena. Appena usciti gli spettatori, il dottor Graham mi svegliava; mi vestivo, cenavamo insieme, ed ognuno ritiravasi nella sua camera. Mai, debbo dirlo, ne’ due o tre mesi che restai con lui, il dottor Graham non mi volse parola, che non fosse un segno di simpatia e di rispetto. Ed ora tocca a me, che ho giurato a Dio di dir tutto, di far discendere il lettore nelle misteriose latèbre, non dirò del cuore della donna, — mi guardi Dio dal credermi l’espressione del mio sesso, — ma del cuore d’una donna. Rousseau anch’egli, nelle sue _Confessioni_, ha dipinto non gli uomini, ma l’uomo, e le _Confessioni_, a malgrado delle strane rivelazioni che contengono, son tenute un bel libro. Vorrei, non celando al fisiologo nessuno degli arcani del mio cuore, scrivere un libro, non dico rivale, ma emulo di quello di Rousseau. Vengo al mio nuovo peccato. Ogni sera, cenando con me, il dottor Graham, senza dubbio perchè non mi saltasse in mente di sospendere il corso delle sue lucrative lezioni, parlavami del coro d’elogi, che sorgeva intorno al letto, sul quale ero esposta, e che non era nemmeno per me un suono vuoto, giacchè nessuno strepito, di qualunque sorta, trapassava la densità del mio sonno. Ne derivò che a forza di dirmi che Venere nella rete, ove lo sposo l’aveva tenuta captiva, non aveva eccitato fra’ numi dell’Olimpo un’ammirazione maggiore di quella che promovevo fra gli abitanti della terra, mi venne voglia d’udir con le mie orecchie quell’inebbriante melodia che chiamano lode. Come tutti i miei desiderii, questo divenne presto invincibile, ed essendo facile il soddisfarlo, anche senza avvertirne il dottore, deliberai di porlo ad effetto. Laonde, il terzo o il quarto giorno, feci vista, alla prima _passata_ del dottor Graham, d’essermi addormentata, e, con gli occhi chiusi ma con le orecchie all’erta, coperto il viso dal fazzoletto di batista che lo involava agli occhi, m’apprestai ad ascoltar quello stuolo di lodi ardenti, che la mia bellezza strappava, per quanto affermava il dottore, agli ammiratori della forma. Graham non aveva detto nulla di troppo: mai l’elogio non ascese in incenso più profumato innanzi alla dea di Gnido e di Pafo, di quel che levossi intorno al piumaccio sul quale ero distesa: avreste detto che ogni ammiratore indovinasse che il mio sonno era simulato, e che poteva udirlo, e perciò esagerasse la lode nella speranza d’un guiderdone. Bevvi il dolce veleno fino all’ultima goccia. Da quel momento, promisi a me stessa di restar sempre sveglia: il premio in elogi sorpassava il premio in danaro. Quanto al dottore, guadagnava tanto, che senza che glielo chiedessi, raddoppiò il prezzo delle mie serate e mi diè cinquanta sterline al giorno in luogo di venticinque. Cinque o sei serate trascorsero in quella specie d’ebbrezza che accompagna ogni successo; ma in quelle lezioni alcune parole, come un ferro aguzzo, mi penetrarono in fondo al cuore e mi fecero trabalzare. — Che sventura, diceva una voce, che un volto forse spiacente guasti una perfezione di forme tanto rara! — Chi vi fa credere che questa magnifica statua abbia un volto indegno del corpo? chiese una seconda voce: Graham dice al contrario che il volto è di beltà finita. — Se ciò fosse, disse la prima voce, lo nasconderebbe con tanta cura? La seconda voce trovò senza dubbio la riflessione tanto giusta, che non rispose. Il domani ed i giorni di poi, altre riflessioni quasi simili furon fatte e fecero assai soffrire il mio amor proprio. Il dottor Graham s’avvide della mia brutta cera che mi tormentava qualcosa che non volevo confessare: m’interrogò con la consueta cortesia, ma non gli detti nessuno schiarimento. Le voci più contradditorie divulgavansi a Londra rispetto al mio viso. Nessuno voleva starsene alla causa naturale; gli uni dicevan saper da buona fonte che ero stata sfigurata dal vaiuolo; gli altri che una larga scottatura mi solcava una delle guance: udivo tutte quelle dicerie, e l’ira mi si addensava nel cuore. Agognavo il giorno che la somma accumulata da me fosse vistosa abbastanza per dispensarmi dal continuar quella mostra, alla cui vergogna m’ero assuefatta, mentre non poteva tollerarne il dubbio. Alfine, un dì che una discussione di quel genere insorse, non potetti resistere: un movimento fece cader il fazzoletto di battista che mi velava il viso, ed il mio capo apparve scoperto, con gli occhi chiusi, ma sulle labbra l’espressione della sfida. Un grido d’ammirazione s’udì; temetti per poco che gli astanti, nel loro entusiasmo, non rompessero la balaustrata: il dottor Graham fu obbligato a slanciarsi fra essi e me. Quel fatto, che parve effetto del caso, produsse un aumento di spettatori ne’ saloni del dottor Graham: la sera stessa, la notizia che ero bella di viso quanto di corpo era in tutte le bocche, il domani in tutti i giornali. Ingannato come gli altri, il dottor Graham attribuì al caso la caduta del mio velo; ma quel caso aveva avuto un risultato tanto meraviglioso, che egli mi supplicò di subire d’allora in poi l’esposizione a volto scoperto; mostrai cedere alle sue istanze, ma cedetti alla mia civetteria. Il mio successo crebbe: gl’introiti del dottore, giunsero ad una somma ingente: dopo un mese ebbe realizzato quasi trentamila sterline. Una sera, una voce, il cui accento non m’era ignoto, mi fe’ trabalzare. — È lei mormorò la voce. Poi, un momento dopo aggiunse. — È anche più bella che non credevo. Non ardii aprire gli occhi: si sarebbero accorti che ascoltavo; le mie palpebre chiuse erano l’ultima difesa dietro cui era scampato il mio pudore. Era manifestamente qualcuno che conoscevo, qualcuno che avevo incontrato nel corso della mia vita passata; ma per quanto vi studiassi, il suono dì quella voce, benchè presente alla mia memoria, non ricordava nessuno di coloro che avevo veduti durante la mia relazione con lord Featherson e con sir John, o anche poi. Dovevo risalir più alto, a memorie anteriori al mio arrivo a Londra. È inutile dire che era una voce d’uomo. Terminata la lezione, una sola persona restò dopo le altre; alla sua voce riconobbi in lei quella di cui invano cercavo il nome. — Caro Graham, diceva la voce, mi dovete ad ogni modo ottener da miss Emma Lyonna il favore che vi domando. — Innanzi tratto la persona cui chiedete tal favore non ha nome Emma Lyonna, ma miss Hearte. — È possibile che si chiami miss Hearte per voi, caro dottore, ma per me chiamasi Emma Lyonna: ad ogni modo presentatemi a lei, e spero che non m’avrà dimenticato del tutto. — Stasera? Impossibile. — Non dico stasera, ma domani. — Domani, sia. È detto. — Salvo non vi si opponga. — In tal caso, intendete, non ho nulla a dire; ma spero che non vi si opporrà. Addio, caro Graham. — Addio, caro Romney. Romney! Era Romney! Quando il dottore tornò, non gli parlai di lui: si sarebbe avveduto che non dormivo. Cenando, mi chiese se non conoscessi un pittore a nome Romney. Gli risposi con indifferenza che tre o quattro anni prima, sulla sponda della Dée, avevo incontrato infatti un pittore di tal nome, che m’aveva schizzato un ritratto, e m’aveva offerto cinque ghinee per ogni volta che volessi servirgli da modello. — Vi dispiacerebbe di rivederlo? mi chiese il dottore. Era stasera fra’ miei ascoltanti; vi ha riconosciuta, e brama vivamente d’esservi presentato. Il vostro ritratto fatto da Romney è un passaporto per la posterità. Risposi che lo rivedrei con piacere; ma, volendogli domandar il segreto su certi fatti della mia vita passata, desideravo vederlo nelle mie stanze da solo a solo. Graham inchinossi. — Sapete, mi disse, che siete padrona assoluta delle vostre azioni e di voi stessa: ma promettetemi che, qualunque influenza egli prenda su voi, non v’indurrà ad abbandonar le nostre lezioni prima di due mesi. Fra due mesi sarò ricco ed avrò il contento di avervi per lungo tempo tolta alla miseria. Impegnai la mia parola al dottor Graham, porgendogli la mano. S’era condotto meco con troppa lealtà, perchè gli rifiutassi quella prova di gratitudine. Il domani facendo colezione sola col dottore, secondo il solito, trovai sotto il tovagliuolo un par di orecchini di diamanti del valore di cinquecento sterline ognuno. Me li stavo aggiustando alle orecchie, abbagliando me stessa del fuoco che gettavano, quando udii batter all’uscio que’ cinque o sei colpi frettolosi e sonori, che annunziano a Londra una visita aristocratica. Non dubitai che non fosse Romney; infatti, cinque minuti dopo, l’uscio s’aprì e riconobbi il vecchio mio amico del golfo della Dée. XI. Aveva capito che con Romney solo una grande disinvoltura di maniere poteva coprire la falsità della mia posizione: starmene sul sostenuto dopo quanto aveva egli veduto il dì prima sarebbe stato operar da stolta. Mi levai quindi al vederlo, ed andai a lui porgendogli il benvenuto. — Affè! mia cara Emma, mi disse, mi serbate a tutte le sorprese: tre volte già v’ho veduta; due volte ho creduto non potervi mai trovar più bella; e già due volte mi son ingannato, e forse son destinato ad ingannarmi una terza volta. — Parlate da amante? gli risposi. Allora ponetevi alle mie ginocchia. Parlate soltanto da amico? Allora sedete accanto a me. — Giacchè cominciate così, disse Romney, lasciate che vi dica che non desidero di venirvi amico, se non quando avrò perduto la speranza d’un titolo più invidiabile. Eccomi quindi alle vostre ginocchia, cara Emma, e vi dico che siete in verità la creatura più bella che m’abbia veduta sulla terra e che per me un sol giorno della vita sarà più bello di questo in cui vi dico: — «Emma, lasciatemi amarvi,» — e sarà quello che mi direte: — «Romney v’amo!» — Amatemi, non mi oppongo, caro Romney; ma venite qui e discorriamo, perchè voglio saper da voi stesso se mi trovate ancora degna d’amarvi, dopo avervi narrato tutto quello che è accaduto dacchè non ci siamo veduti. — Bene! disse; ora non vi contentate d’esser bella e mostrate d’aver uso del mondo e spirito: volete dunque farmi impazzire. — Quanto a questo, non potrò che contribuirvi per una metà: miss Arabella ha fatto il resto. — L’avete riveduta? — Vi dico che ho una lunga confessione da farvi: ascoltatemi dunque. Ed allora, mezzo seria, mezzo mesta, sempre civettuola, perchè volevo piacergli, narrai a Romney tutti gli avvenimenti della mia vita, dal giorno che l’avevo veduto; com’ero venuta a Londra, soprattutto nella speranza di rivederlo; come, trovatolo partito, ero andata a casa del signor Hawarden: poscia svolsi tutta la bizzarra catena dei fatti della mia vita, maravigliandomi io stessa di non essermi imbattuta in lui una sol volta fra quella turba di _gentlemen_, e d’artisti da me veduti ne’ quattordici o quindici mesi passati con sir John e con lord Featherson. Da parte sua, Romney aveva udito parlare molto di me, senza conoscermi: le due scene d’_Ofelia_ e di _Romeo_ e _Giulietta_ avevano fatto romore nel mondo artistico, ed egli avea desiderato vedermi: ma la sua vita tutta dedita all’arte, ed ai piaceri, l’aveva trascinato altrove, e non c’eravamo incontrati. — Ora, mi disse Romney, siete troppo ricca perchè vi proponga di pagarvi cinque ghinee ogni ora, e tocca a voi farmi l’elemosina: siete libera del vostro cuore e della vostra persona? — Libera come l’aria. — E Graham? — È il mio _cornac_ e non altro: ma ho un impegno d’onore con lui: m’ha tolto alla miseria, anzi all’infamia, e gli debbo in iscambio la sua fortuna. — Ebbene, disse Romney, tutto può aggiustarsi. Arricchirete Graham e mi farete famoso: poi, nei vostri momenti di carità, penserete se non potrete insieme farmi beato; e così poche vite saranno state meglio spese della vostra. Fu convenuto che il domani andrei a passar un’ora a Cavendish-Square nello studio di Romney, e che ivi comincerebbe una serie di disegni, pigliandomi a modello. Ci lasciammo come due teneri amici, che non hanno che un passo da fare per divenir amanti. Da lungo tempo il mio povero cuore era senza occupazione nessuna. Aveva sempre avuto gran simpatia per Romney; come glielo aveva detto, ero libera da ogni impegno: benchè in età di circa quarantacinque anni, Romney aveva la triplice gioventù della forza, dell’eleganza e della fama: una donna, che avesse più diritti di me ad esser difficile, non poteva desiderar di più: potetti creder un momento che amavo, o meglio che amerei Romney. Il domani andai a casa sua all’ora convenuta: egli m’aspettava con tutti quei piccoli preparativi che si fanno per una donna desiderata, fiori, profumi, soffici tappeti; una bellissima pelle di tigre era distesa sur un letto simile a quello che occupava in casa del dottor Graham: una corona di pampini intrecciata a grappoli d’uva aspettava senza dubbio un’Erigone. Giacchè ero in casa di Romney; giacchè vi ero andata non solo di mia volontà, ma per un desiderio espresso da me stessa, sarebbe stato ridicolo per parte mia di rifiutar nulla di quanto egli mi chiedeva. Fece in quel giorno stesso, in due ore, uno stupendo schizzo: abbiamo pochi pittori in Inghilterra, ma quasi tutti quelli che abbiamo sono perfetti coloristi: Romney merita d’esser nominato fra’ primi. Trovai, tornando a casa, il povero dottor Graham un po’ inquieto: dacchè m’aveva condotta fuori la casa della signora Love, era quella la prima volta che uscivo. Lo rassicurai su quello che sopra ogni altra cosa gli stava a cuore, cioè sulla certezza che manterrei la parola data; gli dissi ciò che già sapeva, giacchè prima di me Romney glielo aveva detto, che cioè da lunga mano conoscevo il celebre artista, nè gli tacqui gl’impegni di cuore che avevo presi con lui. Passai così tre mesi, dando al dottore Graham un mese più che non m’avea domandato: durante quel tempo, Romney menò a termine una serie di studi riprodotti dalla mia persona: dopo l’Erigone, fece una Venere, una Calipso, una Elena, una Giuditta, una Rebecca. Circa la metà del quarto mese, il dottore annunziò la fine del corso: aveva guadagnato quasi centomila lire sterline. Le ultime lezioni fecero furore: la folla vi soffocava, benchè da me stessa, sapendo di far piacere a Romney, avessi ripreso il velo che già mi copriva il viso. Io stessa aveva guadagnato da otto a dieci mila sterline; Graham m’offriva la metà del guadagno, purchè volessi continuare: rifiutai: ero stanca di quell’esposizione: avevo bisogno di riprender un po’ la vita di donna di piacere: non ero stata mai sì ricca, e parevami che non vedrei mai la fine delle mie ricchezze. Romney m’offrì d’andar a dimorare a casa sua: accettai. Passammo tre mesi nell’unione più perfetta: Romney riceveva in sua casa tutta la gioventù elegante di Londra: fra _gentlemen_ più nobili era lord Greenville, che dicevano congiunto alla nobile casa di Warwick, quello stesso a cui sir Harry Featherson aveva guadagnato 2000 sterline alle corse d’Epsom. Fra gli omaggi che da tutti mi si facevano, i suoi erano i più assidui, e, debbo dirlo, i più rispettosi. Fervido ammiratore della forma, Romney mi aveva ritratta in tutti gli atteggiamenti dell’antichità, ed il suo pennello non lasciava desiderar che il godimento a coloro che vedevano i disegni che di me aveva fatti. Lord Greenville restava ore intere innanzi a quei quadri. Durante un mese o due, il suo amore non si tradì che per la sua ammirazione per le copie, ed i suoi applausi all’originale quando riproducevo qualche atteggiamento storico, o quando declamava qualche brano di Shakespeare. Una sera che avevo recitato il monologo di Giulietta quando beve il narcotico, mi s’appressò, e profittando del momento, che nessuno poteva vederlo nè udirlo: — Bisogna che siate mia, Emma, mi disse, o diverrò pazzo. Lo guardai ridendo. — Sull’onore, mi disse, parlo seriamente. — In fè di gentiluomo? — In fè di gentiluomo! — Venite allora in un momento che sarò sola, gli risposi; ne parleremo. — Ed a che ora dovrò venire per trovarvi sola? — Non tocca a me, ma a voi di spiare quand’esca Romney, e di profittar della sua assenza. — Bene, disse, non chiedo altro. Due giorni dopo, lo vidi entrare poco dopo che Romney fu uscito. — Eccomi, disse con voce commossa, gittandomisi alle ginocchia. — D’una faccenda tanto importante, milord, risposi, non potete discorrere alle mie ginocchia, ma al mio fianco: sedete quindi e discorriamo. Lord Greenville mi guardò attonito. — Oh! mi disse, miss Emma, credevo esser ricevuto da voi men freddamente. — Perchè vi riceverei altrimenti? gli risposi: amo Romney e non v’amo, nel senso che vorreste ch’io dessi a questa parola. — E non m’amerete mai? — Non dico ciò, milord. L’amore consta di due elementi, o meglio dovrei dire che l’amore è di due maniere: evvi l’amore che invade i sensi d’una donna al primo sguardo, e che è l’urto della scintilla simpatica: evvi l’amore che occupa lentamente il cuore d’una donna, ed è il risultato di dolci rapporti e di cortesi maniere. Benchè giovane, milord, ho già amato di questi due amori, e colui che fu amato della seconda maniera non è colui che ha più motivo di dolersi della sua sorte. — Se avessi dovuto amarvi nella prima guisa, sarebbe già fatto e ve lo direi, e lascerei subito Romney per voi; giacchè il desiderio della donna per un uomo, che non sia quello con cui vive, è già un’infedeltà. — Ma voi siete giovane, bello, ricco, di grande famiglia; posso quindi amarvi non come ho amato sir Harry, ma sir John e Romney. — So, rispose sir Carlo, che un proverbio francese dice: — «Da un cattivo debitore prendine quel che puoi». — Mi rassegnerò a questo aforisma. — Senonchè, sir Carlo, ripresi, vi farò notare che un debitore _deve_ e che io _non debbo_. — Avete molto spirito, miss Emma, ed ho sempre udito dire che il troppo spirito nuoce al cuore. — Non so se ho spirito, giacchè nessuno me l’ha detto ancora, ma so d’avere un cuore: perchè sventuratamente il mio cuore ha parlato. Non ho dovuto quindi finora diffidare del mio spirito: permettetemi dunque che per questa volta il mio cuore commetta al mio spirito di fare i suoi affari. — Ascolto, miss Emma, ma lo confesso, tremo, ascoltandovi. — È tempo ancora; fate come Ulisse: o cansate il promontorio di Circe, gridando al pilota — «alla larga!» — o turatevi con la cera le orecchie. — Preferisco ascoltar la vostra voce e correre il rischio d’esser mutato in bestia: d’altronde, lo vedete, giacchè v’ascolto ancora, dopo ciò che m’avete detto, la metamorfosi è già mezza fatta. — Bene! anche voi, milord, siete uomo di spirito e vedo che c’intenderemo. — V’ascolto. — Avrò fra poco vent’anni: son nata in un villaggio, ed ho vinto la rusticità della mia nascita: non ho avuto educazione, ed a forza di ingegno, di lettura e di memoria ho supplito all’educazione che mi manca: ho commesso errori; li ho emendati: sono stata misera; ho avuto fame e sete; non ho avuto rifugio contro la pioggia, il vento ed il freddo, e son vestita di velluto; dimoro fra’ capilavori dell’arte, e senza esser ricca, posso, limitando le mie spese a mille franchi al mese, essere per tutta la vita al sicuro dalla miseria. Restando tre altri mesi col dottor Graham, sarei divenuta milionaria. Non volli, Romney mi piaceva; preferii darmi a lui. — M’avete dunque invitato a venir da voi mentre Romney era lontano per dirmi che ha la fortuna di esser da voi amato? — Appunto, perchè dovendo parlarvi di cose serie, giacchè il vostro avvenire ed il mio ne dipendono, bisogna che vi parli con tutta franchezza. Sir Carlo mise un sospiro. — Amate meglio diventar pazzo: proseguii. — Non v’intendo. — Non m’avete detto: — «Emma, se non sarete mia, diverrò pazzo?». — Vero. — Orbene, non potendo esser vostra che a certe condizioni, debbo dirvele. — Ditele. — Adunque, ve lo ripeto, ecco il mio stato. Ho preso Romney senza grande amore, ma come si prende un uomo amabile, per non esser più sola nella vita, per aver un appoggio. Romney m’ama e gli porto affetto; la nostra vita è piacevole e dolce; non ho nessuna ragione di mutarla; se non — ascoltatemi bene, — se non per uno stato sociale, non pecuniario, migliore. M’amavate abbastanza per impazzire? Adunque m’amavate abbastanza per isposarmi. Sir Carlo Greenville balzò sulla sedia. — Sposarvi! esclamò. Mi levai e gli feci inchino. — Milord, gli dissi, quando sarete disposto a rispondere alla mia proposta altrimenti che con un salto di sorpresa, avrò l’onore di rivedervi. Fin allora permettete che mi privi dell’onore della vostra conversazione e del piacere della vostra presenza. E, salutatolo col capo, rientrai nella mia camera, lasciandolo solo nello studio. Tre o quattro giorni passarono senza che vedessi sir Carlo. XII. Romney continuava ad essere per me amabilissimo: soddisfacevo insieme il suo amor proprio come amante ed il suo amor dell’arte come modello. — Certo le sue migliori opere di pittura furono da lui fatte durante la nostra relazione. Era tanto in voga in quel tempo, che, per prodigo che fosse, poneva in serbo, quasi suo malgrado, venti o venticinque ghinee al giorno, e ciò con quattro cavalli nella scuderia, due carrozze nella rimessa, tre o quattro servitori nell’anticamera. Tre volte per settimana ricevevamo gente; le quattro altre sere andavamo a spasso o al teatro. La nostra relazione aveva tutti i diletti della simpatia senz’avere le burrasche dell’amore. Il quarto giorno dopo il nostro colloquio, sir Carlo riapparve: lo ricevetti esattamente come se nulla fosse accaduto fra noi: non avevo per lui nè attrazione nè ripugnanza: gli avevo proposte alcune condizioni senza desiderare che le accettasse, piuttosto per parlar chiaro che per voglia di diventar veramente milady Greenville. Mi si appressò più volte; mi parlò sottovoce; ma non essendo entrato nella questione, non potè aver da me una parola che si riferisse _allo stato del suo cuore_. Sia che Romney intendesse che la sua gelosia sarebbe stata ridicola; sia che si fidasse di me, che restavo con lui senza domandar nulla, anzi senza ricever nulla; sia che, come me, stimasse la nostra relazione non obbligatoria da una parte nè dall’altra, e dovesse durare soltanto finchè ad entrambi piacesse, non aveva mai mostrato darsi pensiero delle cortesie che mi si facevano. Una volta m’aveva detto: — È convenuto, n’è vero, che non siamo tanto sciocchi nè l’uno nè l’altro da ingannarci? Son doppiamente felice, come amante e come pittore, di possedervi: ma non m’impongo a voi per forza: intendete bene, n’è vero? Probabilmente non sarò io il primo a stancarmi della nostra vita; ma se ciò accadesse, ve lo direi; convinto che voi mi perdonereste la mia franchezza, e che resteremmo buoni amici. Chiedo altrettanto da parte vostra. Gli avevo steso la mano, nè avevamo detto altro. Ero risoluta a parlargli dell’amore di sir Carlo, appena quell’amore si spiegasse in modo positivo. Ma m’ero prescritta una norma per non aver nulla da rimproverarmi, smettere, cioè, ogni civetteria con sir Carlo. Debbo dirlo? Con l’istinto della donna, sentiva che tutta la mia forza con sir Carlo, forza che probabilmente assicurerebbe il mio trionfo, era nella mancanza di ogni desiderio. Il domani, mentre Romney era andato a cominciar un ritratto di Lady Craven, — che fu poi la famosa margravia d’Anspach, — il servo annunziò sir Carlo Greenville. Risposi ch’ero pronta a riceverlo. Entrò pallidissimo ed agitato. Gli accennai, sorridendo, di sedermi accanto. — Cara Emma, mi disse, m’è impossibile di restar nell’incertezza in cui sono. — Incertezza! risposi; parevami al contrario che nessuna posizione fosse più precisa al mondo, di quella che v’avevo proposta. — E perciò non sarei irresoluto se fossi libero. Vedete, poco è mancato che non mi rivedeste più. — Come? avreste per caso voluto uccidervi? Aspettate almeno il mese d’ottobre; è il mese de’ suicidj. — No, non voglio nemmeno darvi a’ vostri occhi questo merito o questa ridicolezza. Ecco la semplice verità: sapete o non sapete che ho uno zio ricchissimo, che m’è congiunto per avere sposato in prime nozze una sorella di mia madre: è scozzese di nascita e fratello di latte del re Giorgio IV, vecchio erudito, geologo, archeologo, che so io? ed ha nome sir William Hamilton. Da lui aspetto tutta la mia fortuna, giacchè di mio patrimonio personale non ho nulla o pochissima cosa. — Ma dunque, milord, onde la spesa che fate? Dall’impiego che ho al ministero; ma se il ministero cambia; se il signor Fox, che mi fu compagno di collegio e mi vuol bene, cessa d’esser ministro, perdo millecinquecento sterline di stipendio che mi frutta l’impiego, e non ho altro mezzo di vivere che mio zio. Orbene, cara Emma, mio zio m’ha scritto per dirmi appunto quel che vi dico, ed offrirmi il grado di primo segretario d’ambasciata a Napoli, e dopo la sua morte non solo l’ufficio tenuto da lui oggi, ma le sue immense ricchezze. Sono stato un momento dubbioso se dovessi accettare; ma ho sentito che mi sarebbe impossibile viver lontano da voi: ho rifiutato. — È male. — Ed avete il coraggio di dirmelo? — Sì, rifiutando commetteste un primo errore, e sposandomi, — giacchè, se è vero che siate restato a Londra per me, mi sposerete, — ne farete un secondo. — Voi non siete consolante, Emma. — Sono schietta. Credetemi, sir Carlo, se la lettera a vostro zio non è partita, laceratala; se è partita, scrivetene un’altra in senso contrario. Sposandoci, faremmo entrambi un cattivo affare; io crescerò forse, ma v’abbasserò di certo. — Ciò vuol dire che mancate alla promessa fattami, e che, anche offrendo di sposarvi, non debbo sperar nulla da voi? — Non ho detto una sillaba di ciò, milord: la mia promessa è impegnata e la terrò. — Ahimè! disse sir Carlo, la sventura è che non sono nemmeno libero di fare quel che dite una pazzia; mai, prima d’esser maggiorenne, mio padre mi permetterà di sposare una donna che non m’abbia scelta egli stesso, e fatto maggiorenne, per prender moglie a mio piacere, mi bisognerà lottare contro lui e chiamar in aiuto la legge. — Che età avete? — Non ho che ventidue anni e mezzo. — Ebbene, milord, penso io, risposi ridendo, che è questa anzi una fortunata congiuntura. Durante i due anni e mezzo che ancor vi separano dalla vostra età maggiore, avrete tempo di assicurarvi che m’amate veramente, ed allora, fra due anni e mezzo vedremo. — Come! vedete quel che soffro, e potete così beffarmi? — Non vedo quel che soffrite; ascolto soltanto quel che mi dite. — E non credete alle mie parole? — Ricordatevi di quel che Amleto dice a Polonio: — «Parole! parole! parole!» — Credete al mio onore, miss Emma? mi disse seriamente lord Greenville. — Più che al vostro amore, sir Carlo. — Credereste alla mia parola da gentiluomo? — Nella misura del tempo che basta a fare svaporare un giuramento. — Non credereste dunque a nulla? — Sì, credo all’incostanza delle cose umane. — Supponete, miss Emma, che m’obblighi fermamente a sposarvi alla mia età maggiore? — Ciò diverrebbe più serio senza diventar molto più positivo. — Perchè? — Perchè una donna nel mio stato non ricorre ai tribunali per farsi sposare. — Ma se sottoscrivessi la mia promessa in termini tali che fosse per me disonore mancarvi? — Sarebbe allora da pensarvi. — Vi pensereste? — Se avessi la promessa, forse. — Bene; stasera l’avrete. — Non mi tentate, milord. — Miss Emma, mi disse sir Carlo, levandosi, vi amo sopra ogni cosa al mondo. E se solo il matrimonio può darvi a me, ebbene! sarete mia moglie. — Farò un’ultima cosa per voi, milord, non aprirò le mie lettere nè stasera nè dimani, sicchè avrete fino a doman l’altro per disdirvi. — Posso aspettare ventiquattr’ore, avendo aspettato due mesi. Mi baciò la mano ed uscì. Tutto ciò fu fatto e detto da lord Greenville con grande semplicità, da uomo risoluto. Del resto sir Carlo aveva una fama di lealtà, che non lasciava dubbio, non sul compimento della promessa, ma sulla sua intenzione di compierla. Da parte mia sentivo che, operando come facevo, non cedevo nè ad un calcolo d’interesse nè ad un desiderio ambizioso; ma che rientravo in qualche maniera sotto il potere di quella potenza inesplicabile ed ignota che disponeva del mio destino, e mi spingeva innanzi, facendomi quasi ad ogni passo della vita salir un gradino della scala sociale. È vero che una volta ero caduta e la caduta era stata profonda. Ma me n’ero riavuta, relativamente almeno; l’amore di sir John e di sir Harry non era che la glorificazione della mia bellezza; l’amore di Romney era la consacrazione dell’arte. Dicevo fra me che la storia ha gradi anche per le cortigiane; che dopo essere stata Frine ero divenuta Taide; e dopo Taide, restavami a salire fino ad Aspasia. Aspasia, amica di Socrate e d’Alcibiade; Aspasia donna di Pericle, che gettava il peso della sua parola negli affari dalla Grecia, decideva le guerre di Samo, di Megara e del Peloponneso; Aspasia era più che una cortigiana comune. Ebbene, non so qual voce dicevami all’orecchio che non mi bastava esser Taide e che sarei Aspasia. Romney tornò. M’era troppo amico, perchè gli celassi nulla di quel che accadeva. — Caro Romney, gli dissi, qual consiglio dareste ad una donna della mia condizione, che trovasse l’occasione di sposare un futuro Pari d’Inghilterra e di diventar milady? — Bene! disse Romney, sir Carlo v’avrebbe finalmente palesato il suo amore? — Vi eravate accorto che m’amava? — Perdio! — E non me n’avevate parlato? — Era sicuro che, venuta l’ora, voi stessa me ne parlereste. — Caro Romney, siete un uomo amabilissimo, ed in vero credo che non avrò mai cuore di separarmi da voi. — Siete persuasa, cara Emma, che non saremo mai separati. — Ma se sposo sir Carlo?... — I corpi non si separano, ma l’anime. Ora, finchè vi sovverrete di me con piacere ed io di voi con delizia, non saremo l’uno all’altra presenti, non avremo la presenza reale, come dice la chiesa nel suo simbolico linguaggio, la comunione delle anime? A cinquecento, a mille leghe, saremo forse più presenti l’uno all’altra che alcuni che non si lasciarono mai. — Siete un filosofo platonico, Romney. — Gli antichi dicevano: — «Muor giovane colui ch’al Cielo è caro!» — Ebbene, io ho sempre pensato che amore dolcissimo sarebbe quello cui non si desse tempo d’invecchiare, e che si cogliesse nel suo fiore, s’imbalsamasse nella sua memoria, e che comparato a tutti gli altri amori, restasse giovane e fresco com’un’aurora di primavera. — Adunque il vostro parere, Romney, è...? — Non terminai. — Il mio parere è che seguiate il vostro destino, Emma. — Credete che sarò un giorno _Paressa_ d’Inghilterra? — Non so quel che sarete, Emma; ma se dopo una lontananza di quattro o cinque anni, tornando a Londra, mi si dicesse che siete regina de’ tre regni, non me ne maraviglierei. Non sarei Romney, cioè il primo pittore dell’Inghilterra, se non credessi all’onnipotenza della beltà. — Romney, è bizzarro; quel che ora mi dite m’è stato spesso detto da una voce interna. Romney, ve lo confesso quasi con terrore, credo al mio destino. — Ebbene, seguite dunque il vostro destino. Se è ne’ voleri della Provvidenza, sarebbe empietà opporvisi. La sera ricevetti la lettera di lord Greenville, ma come gliel’avevo detto, non l’aprii. Nella sua impazienza non potè aspettare, e venne la sera. Gli mostrai la lettera suggellata. Romney fu per lui affettuoso come sempre, più affettuoso forse. — A che ora avrò da voi una risposta? chiese sir Carlo. — Domani, prima di mezzodì. — Voglia Dio che secondi i miei desiderii, disse sir Carlo. Il domani aprii la sua lettera; conteneva queste sole parole: «M’obbligo sull’onore a sposare miss Emma Lyonna alla mia età maggiore, ed acconsento ad esser trattato da gentiluomo senza fede se mancherò alla promessa. «1 maggio 1783. «LORD GREENVILLE» Comunicai la lettera a Romney. — Non v’è un minuto da esitare, disse, la vostra fortuna è in queste quattro linee; e se mai sir Carlo mancasse alla sua parola, io stesso m’incaricherei di disonorarlo. — Adunque serbate questa lettera, dissi a Romney: è meglio nelle vostre mani che nelle mie. — Da questo momento, cara Emma, disse Romney, chiudendo la mia lettera nello scrigno ove riponeva le sue gemme più preziose, siete mia sorella ed io son vostro fratello. Se m’accadesse sventura, penserei a farvi capitar questa lettera. D’altronde potreste sempre reclamarla, giacchè è a voi diretta. Tornai nella mia camera, presi una penna, e scrissi a sir Carlo Greenville: «Ottenete un permesso di otto giorni dal ministro; venite a prendermi stasera in carrozza e conducetemi ove vorrete. «EMMA LYONNA.» Un’ora dopo ricevetti questo biglietto: «Sarò a’ vostri ordini: ma avete commesso una dimenticanza nella vostra risposta. Dopo Emma Lyonna, dovevate aggiungere: _Lady Greenville_. «Colui che avete fatto il più felice degl’uomini, «C. G.» La sera una carrozza a quattro cavalli ci trasportava sulla strada d’Edimburgo, mentre Romney annunziava a tutti i nostri amici, che fra due anni e mezzo, mi rivedrebbero col nome e col titolo di lady Greenville. XIII. Credo aver perfettamente spiegato il sentimento, non dirò che mi legava, ma che m’univa a sir Carlo. M’univa a lui primamente la coscienza ch’egli mi amava veracemente; la certezza ch’era un uomo onesto; poi forse, sopra ogni cosa, quell’ambizione che mi spingeva agli onori, alle grandezze, alla ricchezza, invincibilmente, come la farfalla è tirata alla fiamma che deve divorarla. Sir Carlo aveva avuto in eredità da sua madre un piccolo castello nella Scozia, sul Forth, fra Musselburgo e Preston-Pant, ad otto leghe da Edimburgo. Ivi ci fermammo. Aveva ottenuto dal signor Fox, al quale probabilmente s’era astenuto dal dir il perchè della sua domanda, un congedo, non di otto giorni, ma di un mese. Quella relazione, che durò tre anni e decise della sorte della mia vita, è forse quella di cui, in fatto di _emozioni_, abbia meno a dire. Secondo la promessa fatta, dalla quale si teneva irrevocabilmente obbligato, sir Carlo mi stimava e mi trattava come sua moglie: da parte mia, vedendo in lui il mio marito futuro, lo trattavo come se già lo fosse. Non illudendomi circa lo stato in cui m’aveva presa, e sopratutto su quello che l’aveva preceduto, apprezzavo benissimo il sagrifizio ch’egli aveva fatto obbligandosi a sposarmi: ora, prima d’ogni altra cosa, volevo renderlo tanto felice, che, durante i due anni e mezzo che dovevano precedere la nostra unione legale, un sol momento non si pentisse della sua risoluzione. Non restammo al castello di sir Carlo che il tempo necessario per riposarci del viaggio, e quindi ci demmo a visitar la Scozia. Quando fossi stata principessa del sangue reale, sir Carlo non avrebbe avuto per me più riguardi di quelli che mi mostrava. Il mio viaggio con lui fu un corso di storia, in cui imparai le leggende di Wallace e di Roberto Bruce, di Montrose e di Carlo Edoard: visitai la stanza in cui fu assassinato Rizzio, ed il castello ove fu prigioniera Maria Stuarda. Il mese trascorse rapidamente; ritornammo a Londra. Durante la nostra assenza, l’agente di sir Carlo aveva presa in affitto una casa a Green-Park, ove avevamo, sir Carlo ed io, ciascuno un appartamento. Col suo stipendio ed il suo patrimonio, sir Carlo aveva circa duemila sterline per anno. Era poco, avuto riguardo al lusso sfoggiato da lui; ma il ministro gli aveva promesso, se restava al governo, di trovar un mezzo di accrescergli il soldo. Aveva scritto allo zio William che, legato alla fortuna di Carlo Fox, resterebbe a Londra finchè il suo amico fosse ministro: gli aveva comunicato la promessa fattagli e l’aveva pregato di aiutarlo a conseguirne l’effetto. Sir William gli aveva spedito un bono di mille lire sul suo banchiere. Con perfetta delicatezza, lord Greenville mi domandò se non volevo prender maestri d’utilità e di diletto per compire la mia educazione. Capii che il cerchio di cognizioni che bastava ad Emma Lyonna, donna d’avventure e di piaceri, non bastava a milady Greenville, e dissi a sir Carlo di tracciarmi egli stesso un sistema d’istruzione. Da quel momento ebbi un maestro di francese, un maestro d’italiano, uno di canto, uno di disegno, uno di ballo. Ho detto già con quanta facilità imparavo, e che portentosa memoria avevo: benchè imparassi tutte quelle arti e quelle lingue insieme, feci in ciascuna rapidi progressi. Avevo naturalmente la voce intonata: la musica mi pareva un’arte che avessi dimenticata e di cui bastavami ricordarmi. Imparai l’italiano quasi cantando; al francese poi ponevo tanto ardore che, durante tutto il tempo che mi lasciavano i miei altri esercizi, avevo sempre in mano un volume scritto nell’idioma di Racine e Voltaire. La mia vita era dunque affatto mutata; que’ mille piaceri che son il corollario della vita d’una bella donna, avevano ceduto agli studi d’una donna seria, dirò anzi d’una madre di famiglia. Dopo dieci mesi, una bambina venne a dare alla nostra unione una nuova apparenza coniugale più completa. Ma due mesi prima avevamo subito un gran colpo nella nostra fortuna. Quel che sir William Hamilton aveva preveduto accadde: dopo aver abbattuto il ministero di Pitt, Carlo Fox, incaricato nel 1782 del portafogli degli Esteri, aveva fatto fermare la pace con l’America e la Francia; aveva creduto vedere in quel trionfo l’origine d’un potere illimitato, e sdegnato de’ peculati della compagnia delle Indie, l’aveva altamente accusato alla tribuna, domandando un’inchiesta; ma non avendola ottenuta dalla camera alta, era obbligato a ritirarsi dal ministero ed a tornar all’opposizione. Per questo mutamento, sir Carlo perdè l’ufficio: restavangli quindi in tutto di suo asse particolare, dugento cinquanta o trecento sterline annue. Ricorse, come soleva, allo zio, affermandogli che fra poco Carlo Fox non poteva mancare di tornare al ministero; che in questa congiuntura la sua posizione sarebbe più bella che mai, giacchè avrebbe tosto ricevuto il premio della sua devozione all’amicizia. Sir William Hamilton spedì una nuova cambiale di mille sterline sul suo banchiere. Con quella somma, con gli averi particolari di sir Carlo, con la rendita delle mie otto o diecimila lire, avremmo potuto viver modestamente ed aspettare giorni migliori. Esortavo a ciò a tutto potere sir Carlo; ma sia che credesse veramente alla rivincita di Carlo Fox, sia che le sue prodighe abitudini soverchiassero i consigli della ragione, proseguimmo a menar la stessa vita. Ne derivò che presto trovammo aver esaurito il nostro avere. In tal congiuntura, mi correva obbligo di porre il mio peculio a disposizione di colui, del quale avrei portato fra breve il nome. Lo feci. In diciotto mesi vedemmo finita quella somma. Per la terza volta sir Carlo scrisse allo zio, ma questa volta ebbe da lui un rifiuto, con invito tuttavia di andarlo a raggiungere, se credesse, alle condizioni già offertegli. Quel partito era la nostra separazione eterna: sir Carlo non vi pensò un momento. La nostra famiglia s’era accresciuta di due figli, il che aumentava anche le nostre angustie. È vero che fra tre mesi sir Carlo giungerebbe alla sua età maggiore, e che quello stesso giorno, ne ero sicura, egli porrebbe ad effetto la sua promessa; ma sarei lady Greenville e non altro: la mia posizione sarebbe mutata, la nostra fortuna no. La nostra povertà mutavasi a poco a poco in miseria. Non so, o so male descrivere questo stato, in cui l’orgoglio, le abitudini, gl’istinti lottano ogni dì col bisogno; già una volta trascorsi rapidamente sulla mia caduta; il mio coraggio non sarà la seconda volta maggiore della prima. Non potevo non esser riconoscente a sir Carlo che durava tanti patimenti per amor mio; ma la sua tristezza, il suo scoramento, il suo soffrire m’eran sensibili: vinsi la sua ripugnanza a scrivere per la quarta volta allo zio; scrisse. La risposta di sir Hamilton fu per noi un fulmine. Scriveva che s’era informato della vita di sir Carlo, ed aveva saputo che le sue angustie derivavano dall’amar una cortigiana indegna di amore; annunziava il suo prossimo arrivo a Londra, dicendo che voleva veder le cose con gli occhi proprii, ed agirebbe a seconda di quel che vedrebbe. Non pertanto una proscritta annunziava a sir Carlo, che, ove gli piacesse accettar le proposte già fatte, partisse subito per Napoli, lasciando a Londra quella creatura indegna di lui, alla cui esistenza in tal caso la sua pietà degnerebbe provvedere. Debbo dirlo a lode di sir Carlo, fu anche più sdegnato che non afflitto da quella lettera, a cui non rispose nemmeno. Ma i suoi sentimenti generosi nulla mutavano al nostro stato. Dopo essere stati privati del superfluo, cominciavamo ad esser privati del necessario. Avevamo venduto fino alle ultime nostre gioie; dovevamo più d’un anno di pigione: un atto giudiziario bastava a gettarci sulla via, noi ed i nostri bambini. Eravamo in quello stato estremo, in cui anche una nuova sventura si fa desiderabile, tanto è impossibile che una catastrofe, per terribile che sia, peggiori la nostra condizione. D’improvviso ci fu riferito che da otto giorni sir William Hamilton era a Londra, nel suo palazzo a Fleet-Street. Non eravamo stati avvisati di quell’arrivo, senza dubbio sir William aveva speso quel tempo a prender informazioni sul nostro conto; ad ogni modo una grande sventura ci era sospesa sul capo. All’udir quella nuova, sir Carlo prese una subita risoluzione. — Cara Emma, mi disse, tranne che non siamo separati, non possiamo esser più infelici di quel che siamo: ebbene, la nostra sorte è nelle vostre mani. Lo guardai stupita. — Ascoltate, continuò: conosco mio zio: è un archeologo fanatico d’ogni bellezza plastica; passa la vita fra’ più bei marmi della Grecia: ora non conosco una statua, fosse di Prassitele o di Lisippo, che v’uguagli in bellezza. Andate a trovar mio zio: gettatevi a’ suoi piedi; orate la nostra causa, e sarà guadagnata. Guardai sir Carlo, tutta stupefatta di simile proposta. — Come! gli dissi, contro me egli è irritato, e volete che io vada ad espormi alla sua collera? — È irritato contro voi, cara Emma, perchè non intende il mio amore, e non l’intende perchè non vi conosce. Ma quando v’avrà veduta una volta; quando avrà udito la vostra voce irresistibile; quando le lagrime vi gronderanno supplichevoli dagli occhi, intenderà tutto e perdonerà. Dimenai il capo: sentivo una ripugnanza profonda a quel passo. — Allora, disse sir Carlo, non resta che rassegnarci alla nostra sorte, perchè io, ne son sicuro, non otterrò nulla da mio zio che aspetta la mia visita, ed è già preparato a respingermi: mentre voi... — Ascoltate, sir Carlo, risposi, non vorrei che vi entrasse, non dirò nella mente ma nel cuore, il pensiero che, potendo ricompensare i vostri sacrifizi, io mi sia rifiutata ad un’azione, benchè per me umiliante: lasciatemi fin a domani per prepararmi all’abboccamento, e domani andrò. — Farete quel che vorrete, cara Emma, disse sir Carlo; ma pensate che il tempo è prezioso e che è imprudente di perdere un minuto. Fin a domani, sir Hamilton può prender qualche risoluzione: mettetevi la veste più semplice; non siete mai più bella che nella vostra semplicità; andate a Fleet-Street; tutti conoscono il palazzo Hamilton; entrate arditamente, parlate col cuore, a nome vostro, a nome mio, a nome de’ nostri figli: Dio farà il resto. Sir Carlo parlava con tanto convincimento, che anch’io cominciai a far cuore. Domandando fino al domani, avevo fatto ciò che fa il condannato che chiede s’indugi di qualche ora la condanna; avevo tentato ritardar il momento supremo; ma, risoluta la visita, era meglio farla subito. Entrai nella mia camera con la fermezza delle risoluzioni disperate; indossai la mia veste meno ricca; legai i miei capelli che portavo sempre senza polvere con un semplice nastro: mi posi sul capo un gran cappello di paglia; mi gettai una mantellina sulle spalle; e riapparii d’improvviso nella stanza ov’era restato sir Carlo. Allo strepito che feci entrando, sir Carlo levò il capo e mise un grido. — Oh! mi disse, non siete mai stata tanto bella, cara Emma; siam salvi! XIV. In luogo di prender una carrozza per andar da sir William, volli esser umile fino alla fine, e m’avviai a piedi a Fleet-Street per Pall-Mall e lo Strand. Sir Carlo aveva ragione: mi bastò chiedere il palazzo di sir William Hamilton perchè mi fosse indicato. Giunta alla porta, sentii sciogliermi nelle gambe m’appoggiai al muro e tentai darmi cuore. Sua Signoria era in casa. All’uscio un servitore mi chiese il nome per annunziarmi: temetti che dicendolo, non mi si rifiutasse l’ingresso. — Dite soltanto a sir William, risposi, che una donna desidera parlargli. Benchè avessi passato ventiquattr’anni, sembravo tanto giovane che il servo, non volendo riconoscermi per una _donna_, m’annunziò come una _fanciulla_. Udii la voce di sir William che diceva: — Fatela entrare. Mi posi la mano sul cuor per comprimerne i battiti: mi sentivo presso a soffocare. Il servo tornò, si strasse da banda e m’invitò ad entrare. Sir William era seduto ad una tavola, correggendo le prove del suo libro, _Osservazioni sul Vesuvio_. Restai per poco sulla soglia, aspettando che levasse il capo. Mi vide; restò un momento immobile, guardandomi; poscia, levandosi e dando un passo incontro a me: — Che volete, bella fanciulla? mi chiese. La voce mi venne meno; non potetti che andar a lui e cader mezzo svenuta sul tappeto. Vedendo il mio pallore ed il tremito nervoso che m’investiva, sonò il campanello per chiamar soccorso: il servo entrò. — Ella sviene! ma vedete che sviene! esclamò sir William; venite, aiutatemi. Il servo aiutò sir William a portarmi sur una poltrona; nel muovermi, il cappello cadde, ed i capelli caddero sciolti. Quand’avessi ciò fatto per civetteria, non avrei ottenuto più bell’effetto: avevo i più magnifici capelli del mondo. — Dell’aceto! dell’aceto! gridò sir William. Il servo gliene portò una boccetta; egli mi sedè accanto, appoggiò il capo mio sulla sua spalla, e me la fece aspirare. Riaprii gli occhi che, durante l’ultimo minuto, avevo tenuti chiusi più per terrore che per debolezza. — Ah! milord, mormorai, quanto siete buono! E mi lasciai cadere a’ suoi piedi. Mi guardò con crescente stupore. — Bisogna che voi abbiate a chiedermi qualche cosa di impossibile, signorina, mi disse, perchè dubitiate di ottenerlo. Mi lasciai cader il capo fra le mani e ruppi in pianto. — Oh! milord, milord, gli dissi senza levar il capo, se sapeste chi sono! — Chi siete dunque? — La persona che più odiate al mondo, milord. — Non odio nessuno, madamigella, rispose sir William. — Allora, quella che più disprezzate. Mi pose la palma della mano sulla fronte, e mi sollevò il capo. — Emma Lyonna, balbettai. — Impossibile! esclamò, dando indietro, impossibile! — Perchè, milord? — Una donna perduta non ha un viso come il vostro. — Un nobile cuore come quello di vostro nipote, milord, non si sarebbe dato ad una donna perduta. — Tutto ciò che m’è stato detto è vero, o non è che un complesso di menzogne? — Che han detto a vossignoria? Son pronta a risponder francamente alle sue domande: nel mio stato la prima delle virtù è la schiettezza. — Mi si è detto che vostra madre era fantesca in un podere, e che voi stessa avete guardato le pecore. — È vero, milord. — Poscia serva in una piccola città di provincia. — È vero ancora. — Che veniste a Londra, ove un bravo medico, il sig. Hawarden v’allogò presso un gioielliere, ma i vostri malvagi istinti non permisero che vi restaste. — È sempre vero. — Qui comincia senza dubbio la menzogna: siete stata mantenuta prima da sir John Payne e poi da sir Harry Featherson. Accennai col capo ch’era vero. — Poi scendete più basso, sempre più basso; divenite complice del cerretano Graham, druda di Romney, druda di mio nipote, cui non cedete, affermasi, se non a patto che vi sposerà, ed a cui fate firmare una promessa di matrimonio, che lo fa, suo malgrado, vostro schiavo. — Chiedo dieci minuti a Vossignoria per giustificarmi, risposi. E, rialzatami, mi slanciai fuori della camera. — Ove andate, gridò sir William, ove andate? — Torno subito, milord. Scesi le scale volando più che correndo e balzai in una vettura da nolo che passava, gridando: — «Cavendish-Square!» Cinque minuti dopo ero da Romney. La fortuna volle che fosse in casa. — La promessa di lord Greenville, gli gridai, datemela, caro Romney. — Che v’accade, mia povera Emma? Siete tutta sossopra. — Non è nulla. Quella promessa, ve ne supplico, presto! presto! Romney corse ad un armadio, aprì lo scrigno di cui parlai, e mi diè la promessa di matrimonio di lord Greenville. — Prendete, mi disse; avrei per altro voluto che mi consultaste su ciò che volete farne. — Per le cose di delicatezza, si consulta solo la propria coscienza, Romney. Grazie! Mi slanciai fuori della camera; mi feci ricondurre a Fleet-Street; risalii le scale con la stessa rapidità e ritrovai Sir William che passeggiava pensoso, a gran passi. Non gli diedi tempo d’interrogarmi e gli presentai la promessa di matrimonio di sir Carlo. — Che è questo? mi disse. — Vossignoria si degni leggere. Sir William lesse: «M’obbligo sull’onore a sposare miss Emma Lyonna alla mia maggiorità, ed acconsento ad esser trattato da gentiluomo senza fede se mancherò alla promessa. «1 maggio 1783. «LORD GREENVILLE» — Ebbene, e poi? disse: sapevo che questa promessa esistesse. — V’ingannate, milord, risposi, essa non è più. E m’appressai al fuoco e la gettai nelle fiamme, che subito la divorarono. — Che fate? esclamò sir William. — Nulla lega più vostro nipote, milord, risposi: a voi tocca ora ottener da lui che m’abbandoni. E senza rispondere alla sua voce che mi chiamava, uscii dalla stanza e tornai a casa. Sir Carlo aspettava pieno di vivissima ansietà. — Ebbene, mi chiese, vedendomi tornare col volto acceso e dalla corsa e dalla commozione, che è accaduto? Gli narrai il mio colloquio con lo zio minutamente. — Adunque, mi disse, avete arso la mia promessa? — Sì, sir Carlo, e siete libero. — Cioè, mia cara Emma, il mio debito scritto si è mutato in un debito d’onore: ecco tutta la differenza. — Ascoltate, sir Carlo, gli dissi, e riflettete bene: siete giunto a quel momento supremo in cui una vita intera si decide. Se m’abbandonate, non solo tutti vi daranno ragione, ma all’istante, il vostro avvenire è assicurato, la vostra fortuna fatta. Se, al contrario, v’ostinate a restar meco, la società tutta vi condanna, e vostro zio vi rinnega e vi disereda. Non potete materialmente vivere con me, e materialmente io posso far senza di voi. Voi ricco, mi renderete le diecimila lire spese da noi insieme; otterrete da vostro zio che assicuri una sorte a’ nostri figli; vivrò io e vivranno essi. Voi povero, i miei figliuoli ed io restiamo poveri, ed un giorno, inevitabilmente vi pentirete del vostro sacrifizio ed i nostri figli mi rinfacceranno la loro rovina. — Basta, Emma, basta, esclamò sir Carlo, cingendomi delle sue braccia come per impedire che nessuno mi strappasse a lui, avverrà quel che Dio vorrà, ma nessuna forza umana potrà separarci! In quel momento mise un grido: l’uscio della camera era rimasto aperto: suo zio che era salito senza permettere che alcuno l’annunziasse, e senza che lo vedessimo, era ritto sulla soglia ed aveva udito quanto avevamo detto. — Mio zio! esclamò sir Giorgio, dando un passo indietro. — Vedete, signore, gli dissi, che fo quel che posso, e che non ci ho colpa. — Lasciatemi solo con questa giovane, signore, disse sir William Hamilton a sir Carlo. Sir Carlo salutò rispettosamente ed uscì. Sir William Hamilton mi si fe’ vicino e mi porse la mano. — Son contento di voi, madamigella, mi disse, e spero che persevererete nella via in cui siete entrata. — Perdono, signore, gli risposi; ma lo vedete, non ho d’uopo d’esser incoraggiata dai vostri consigli: quelli della mia coscienza mi basteranno, spero. — Benissimo, ma, come dicevate a quel pazzo, avete figli. — Questo è un altro discorso, ed il mio dovere di madre è di raccomandarveli. — Da quel che ho udito, mio nipote vi dovrebbe un 10,000 lire sterline. — È possibile, signore; ma questo è un affare fra vostro nipote e me. — Se mio nipote acconsente a lasciarvi, triplicherò questa somma. — Non presto ad usura nè il mio danaro nè il mio amore. — Ma che farete con due o trecento lire di rendita? — Tenterò trar profitto dalla mia istruzione. — Darete lezione? — Perchè no? — E che lezioni? — Di francese e d’italiano. — Parlate francese ed italiano? -Sì. Sir William mi parlò in queste due lingue: gli risposi abbastanza correttamente perchè paresse soddisfatto. — Sapete anche di musica, a quanto pare, aggiunse, giacchè veggo un cembalo ed un’arpa. — So sonare infatti questi due strumenti. — Sarebbe indiscretezza chiedervi d’eseguire un pezzo? — Avete dritto di comandare, signore. — E se invece di comandare pregassi? — Scuserete allora se vi canterò un’aria che s’accorda allo stato del mio cuore. — Cantate quel che volete: checchessia, l’ascolterò con piacere. Lo confesso. In quel momento un po’ di civetteria entrò nel mio cuore: non potendo indovinare il sentimento che spingeva sir William a farmi tutte quelle domande, non ne vidi che il lato insensibile ed egoista, e trovai ch’era crudeltà a pregarmi di cantare in quella circostanza; costretta ad obbedirgli, volevo almeno trarre tutto il vantaggio possibile della mia obbedienza a pro del mio amore. Chiamai in aiuto tutta la potenza mimica che la natura m’aveva data. Andai a sedere innanzi all’arpa, e con la fronte appoggiata ad essa, i capelli scinti ed inanellati sulle spalle, disperata e gemente come Desdemona, feci correre alcuni accordi dolorosi sulle corde dello strumento ed incominciai quella straziante ballata del Salice: «La giovinetta piangea, piangea, D’un sicomoro a piè sedea: Teneasi al core la man vicina E su’ ginocchi la testa inchina. — «Il verde salice cantate ognor Cantate il salice del mesto amor.» Spesso avevo, nelle nostre serate presso sir Harry, o presso Romney, cantato quel poetico lamento e sempre con immenso successo; ma quella volta più che mai ero commossa da parità di situazione. Durante la pausa fra la prima e la seconda strofa, non udii nemmeno il respiro di sir William, tanto anelante, tutta l’anima sua era sospesa alle mie parole. Proseguii: «Un fresco rio scorreale accanto, Che mormorava al suo compianto: Amaro il pianto dal ciglio uscia Che fin le rupi commosso avria. — «Il verde salice cantate ognor; Cantate il salice del mesto amor.» Mi fermai, quasi mi paresse aver dato a sir William un saggio sufficiente della mia arte di musica, di cantatrice e di mima. — Oh! di grazia, disse, continuate! Ripresi: «Nomai mendace l’amante mio; E’ che rispose quando m’udio? — Se a molte io dono facile il core, Tu molti allieta del tuo favore. — «Il verde salice cantate ognor; Cantate il salice del mesto amor.» E dopo aver fatto rendere all’arpa il suo strido più doloroso, lasciai i suoi concenti morir lentamente, come un ultimo sospiro. Avevo lasciato cadere, sfinita, il capo sulla spalla: aspettavo l’assoluzione o la condanna. — Signora, dissemi sir William, intendo ora l’adorazione di mio nipote per voi: ditegli che lo prego di venirmi a parlar dimani. E salutandomi con rispetto, si ritirò. Appena fu uscito, sir Carlo, che dalla camera attigua aveva veduto ed udito tutto, slanciossi nel salotto, e stringendomi fra le braccia, con gli occhi pieni di gioia, il cuore pieno di speranza, esclamò: — Lo sapevo io che ci salveresti! XV. È facile l’immaginarsi da quali emozioni io fossi dominata in quel giorno, sir Carlo nutriva una sicura speranza, la quale, non saprei per qual motivo, mi era impossibile di condividere. Mi pareva che questa apparente sconfitta di sir William celasse qualche cosa d’ignoto. Ad ogni cosa che mi dicesse, o ad ogni progetto che lord Greenville facesse io rispondeva: domani vedremo. Il domani arrivò. Non avendo sir William Hamilton fissata l’ora, sir Carlo si recò da lui alle nove del mattino. Io me ne stetti ad aspettare, ed aspettai un’ora che mi parve un secolo. Passata un’ora circa, sir Carlo fu di ritorno, ed a prima vista potei agevolmente comprendere non essersi avverata nessuna delle sue speranze. Era pallido ed affatto abbattuto. — Ebbene? gli domandai io tutta tremante. Si cavò di tasca una lettera. — Inflessibile, mi rispose, egli vuole che ci separiamo immediatamente. — Che v’aveva detto io? — Se vi acconsentiamo, continuò a dire sir Carlo egli assicura cinquecento lire sterline di rendita a ciascuno dei nostri figli reversibili in caso di morte sulla testa degli altri. — Ed a me egli costituisce una rendita di mille e cinquecento lire, ed a voi egli restituisce le dieci mila lire sterline che abbiam speso insieme. — E che avete risposto? — Ho rifiutato. — Cos’è questa lettera? — È per voi. — Di vostro zio? — Di mio zio. — Leggiamola. — Non è che per voi, ed io gli promisi che non l’avreste letta che voi sola. — Date. — Devo dirvi una cosa? proseguì sir Carlo guardandomi con mestizia. — Che? — Mio zio è innamorato di voi. Io trasalii. — Sir Carlo, siete pazzo. — Son pronto a giurarlo. Abbassai la testa sul seno: un lampo m’aveva illuminata. Mi sovvenni della scena della sera antecedente, gli sguardi d’ammirazione, e l’accento carezzevole di sir William. Mi accostai al camino colla lettera in pugno decisa di gettarla al fuoco. Sir Carlo mi trattenne. — Emma, mi disse con voce abbastanza sicura, ieri eravate voi che m’incoraggiavate ad esser uomo, ed era io che faceva resistenza a checchè voi mi diceste in pro de’ miei figli e mio. Oggi son io che vi dico: Emma, leggete questa lettera e considerate seriamente le proposte che in essa si trovano, poichè son certo che ve ne sono, il momento è supremo, e se ieri mi credeva in diritto di disporre del mio destino, e di quello de’ miei figli, oggi non sento d’aver quello di disporre del vostro: e di essere un ostacolo al vostro avvenire ed alla vostra felicità. Lo rimirai con stupore; ma conoscendone il cuor nobile, io non dubitai un istante del motivo che lo faceva parlare. — Ho promesso a mio zio, egli continuò, ho promesso di lasciarvi tutta la libertà di leggere questa lettera: leggetela, cara Emma, e se, come non ne dubito, è l’ultimatum di sir William Hamilton, decidete della nostra sorte. Ed abbracciandomi lagrimoso, passò nelle stanze da letto e mi lasciò sola nella sala. Io restai un momento in piedi, tutta tremante e col sudor sulla fronte; indi vacillando mi lasciai cadere su d’una sedia a bracciuoli; io capiva difatti ch’io teneva nelle mani il nostro comune destino. Apersi la lettera, ma non potei leggerla tosto, una nube mi copriva gli occhi. A poco a poco i caratteri si fecero più visibili, la mia vista si schiarì e lessi: «Signorina «Da ieri a questa parte ho fatto le mie riflessioni con tutta quella freddezza e quella calma che si possono conservare, anche alla mia età, dopo avervi veduta. Nelle vostre qualità, nei vostri meriti, nell’avvenenza infine della vostra persona io trovo la spiegazione della passione di mio nipote. Non solo comprendo il modo con cui vi si possa amare, ma eziandio perchè vi si possa amare per sempre; vi hanno però nella vita certe fatalità, contro le quali sarebbe follia il voler lottare, contro le quali si finirebbe ad infrangersi, ma a vincerle non mai; queste fatalità ieri noi le abbiamo insieme passate in rassegna, e trovansi comprese nelle confessioni che ieri aveste la franchezza di farmi. Pensateci bene, e ditemi voi stessa se sia possibile che, nella stessa città che vide in voi l’amante di sir John Payne, e di sir Herry Featerson, che vide in voi la socia di Graham, il modello di Romney, voi diventiate la moglie di sir Carlo Greenville, a rischio di incontrare ad ogni passo che farete nelle vie di Londra, una memoria di quel passato, contro il quale nulla valgono i pentimenti, e che la potenza di Dio stesso non potrebbe cancellare. Il vostro matrimonio con mio nipote, quand’anche io avessi ad acconsentirvi, ed avessi ad assicurarne la posizione, è una disgrazia per voi ed i vostri figli. Voi avete venticinque anni, — siete voi che mi confidaste la vostra età, giacchè non giudicando che dai miei occhi io non ve ne stimerei più di 18. — Voi avete 25 anni; mio nipote non ne ha che 24, egli è quindi minore di voi di un anno, egli s’avanza verso l’età delle passioni. Per quanto siete bella, seducente, perfetta, non potrebbe darsi un giorno che egli vi sfuggisse, e che in quel giorno si lasciasse egli altresì sfuggire di bocca una parola di pentimento pel sagrificio che crederà di avervi fatto? So benissimo, che sposando oggi un uomo rovinato e senza avvenire, siete voi quella che si sagrifica, ed io sono il primo a proclamarlo in faccia al mondo, però il sagrificato sarà egli. Ecco quindi ciò ch’io vi propongo: invece d’essermi nipote, siatemi figlia. Io son vedovo e senza figli, e quindi solo a questo mondo. — Mio nipote che fu da me lontano fin dalla giovinezza, non è per me che uno straniero; io l’amo per l’amore che aveva per mia sorella, e non per quello che io abbia direttamente per lui, ed egli stesso, senza saper darsene ragione, non ha per me che un affetto in rapporto al bene ch’io possa fargli. Divenendo mia figlia adottiva scompaiono tutte le impossibilità che vi sono d’ostacolo per vivere tranquilla e felice in Inghilterra, nella guisa stessa che scompare il solco d’una nave passando da un mare all’altro. Io vi conduco meco a Napoli, dove nessuno vi conosce, dove nessuno vi ha veduta, dove non vi chiamate più nè Emma Lyonna, nè Miss Hearte; dove non sarete più l’amante di Featherson nè la socia di Graham, nè il modello di Romney; dove avrete il nome che più vi piacerà di adottare, vale a dire di mia figlia adottiva, di mia amatissima figlia. Non vi parlo delle mie sostanze, sono sette od ottocento mila lire sterline di rendita, oltre il mio posto d’ambasciatore che ne vale altre cinque mila. Di questi beni io ne faccio tre parti, una per voi, una per mio nipote, e l’altra pei vostri figli. No, io non parlo se non di servigi che voi possiate rendermi. Ho cinquant’otto anni, io ho bisogno di cure, d’amicizia, in luogo d’amore; ho bisogno d’essere amato come si ama un vecchio. Quanto tempo mi resta da vivere? Sei, otto, forse dieci anni. — Considerate come alla vostra età volino rapidi dieci anni. — Dunque da qui a dieci anni, alla più lunga, voi ne avreste trentacinque, sarete cioè in quella età in cui la donna è ancora in tutta la pienezza della forza e bellezza, sarete allora libera, ricca e — permettetemi di aggiungere queste parole alle quali io non attribuisco nessun significato offensivo — e purificata dalla vostra divozione. Lasciate che inoltre vi dica che io abito Napoli, una delle più amene città del mondo, e che ho ragione di sperare che io l’abiterò fino alla morte; che in essa godo dell’amicizia del re e della regina, e che in essa io vedo una società sopra la quale voi prenderete quell’ascendente che vi danno la vostra bellezza ed i vostri talenti e la vostra eccellenza; una società composta di ogni sorta di talenti, e di intelligenze, e di tutte le aristocrazie, dall’aristocrazia della nascita a quella del genio, e che sarete colà la regina dell’avvenire, mentre siete qui la schiava del passato. Ora avete letto, fate i vostri riflessi; io aspetto la vostra risposta con maggior impazienza che non farebbe un giovane innamorato; io l’attendo da vecchio egoista. Del resto qualunque sia per esserne il tenore, non verrà meno in me nessuno di quei sentimenti che vi ho dedicati, fra i quali la stima occupa il primo posto. William Hamilton.» Questa lettera cotanto semplice, cotanto nobile e degna, debbo confessarlo, mi commosse profondamente, — mi lasciai cadere le braccia lungo la vita, e la testa sul petto; e m’immersi in una profonda meditazione. Quando rialzai il capo, sir Carlo era in piedi dinanzi a me — al di lui melanconico sorriso, era facile scorgere com’egli indovinasse ciò che avveniva nell’intimo del mio cuore. Io gli stesi la lettera. — Leggetela, gli dissi. Egli vi gettò su uno sguardo. — No, io gli dissi, non leggetela in mia presenza, leggetela da solo come io feci. — In ogni caso, è però sempre un cuor generoso il cuore di vostro zio. Sir Carlo ripassò nella stanza ed io restai di nuovo sola nella sala. — Sola, oh no! La lettera di sir William l’aveva popolata d’un mondo intiero di fantasmi sconosciuti. Anche stavolta il caso, il destino, la fatalità, la provvidenza sembravano voler disporre di me senza riguardo ai miei desiderj e senza lasciar libero il campo al mio libero arbitrio. Io non potevo dissimulare la forza e la verità degli argomenti di sir William Hamilton intorno al mio matrimonio con suo nipote; tutti questi pensieri mi erano venuti più di una volta, e quanto più io andava avvicinandomi alla meta ideale della mia ambizione, tanto meno appetibile me ne sembrava la realtà. Al contrario l’orizzonte che sir William m’aveva ora schiuso sfolgorava di tutto il fuoco di quel sole del mezzogiorno, ch’io non aveva per anco intraveduto, se non a traverso dei canti del Tasso e dell’Ariosto; la mia funesta immaginativa, pronta sempre a trascinarmi nelle sue illimitate regioni, mi andava ora svolgendo i raggi più abbaglianti. Avezza a regnare nelle sale, stava ora per riconquistarvi più completo, più vasto, e più sublime quell’impero che io aveva perduto a cagione della partenza di sir John, dell’abbandono di sir Harry, e da ultimo per la rovina di sir Carlo, ben altrimenti più elevata essendo la posizione diplomatica occupata da sir William Hamilton. Un ambasciatore non è già un re, ma ha l’incarico di rappresentarlo; quindi che immenso campo per soddisfare l’ambizione d’un ambasciatore foss’ella la donna la più esigente della terra! Quest’idea era tuttavia non poco attutita dal pensiero, che l’essere figlia adottiva d’un ambasciatore è ben altra condizione che l’esserne la moglie: potendo la noia, il capriccio, le fantasie d’un vecchio ghiribizzoso una volta serie che fossero, lasciar ricadere la figlia adottiva, la cui adozione non fosse assicurata, al livello d’Emma Lyonna ed a quello pure di Miss Hearte. Se in luogo di figlia adottiva il signor William avesse detto moglie, oh allora sì! A questo pensiero un lampo mi abbacinò la vista. Come ciò? La schiatta di Lord Greenville non era forse assai più grande di quella di sir Hamilton? Non discendeva forse il primo dai Warwich, o non era desso per lo meno alleato di quell’illustre famiglia dei Warwich, originaria da quel famoso conte Riccardo Nevil che chiamavano il fattore dei re? Sir William era tutto al più di buona famiglia scozzese, se pertanto un Greenville, vale a dire un Warwich non aveva sdegnato di impegnare per me la sua parola, perchè sir William Hamilton che era bensì ricco, che godeva bensì di una posizione elevata, ma difettava di quei pregi seducenti di aristocrazia e di gioventù che aveva suo nipote — perchè sir William doveva esitare a dare il nome di Lady Hamilton a colei che non aveva se non una parola da dire per essere Lady Greenville? M’era io forse sostata nella corsa ascendente, o se io era caduta, la mia caduta provvidenziale, per così dire non m’aveva sempre ricondotta in regioni più alte da quelle ond’ero discesa? Essendo già quasi Lady Greenville, io aveva maggiore distanza a divenir Lady Hamilton di quanta ne avessi avuta a divenir Lady Greenville quand’ero l’amante di Romney. Sarò o l’una o l’altra, ma sarò Lady: questa fu la mia determinazione. XVI. Stetti più d’un’ora in balia di queste riflessioni, dalle quali mi ridestò il suonare del pendolo. Alzai gli occhi in cerca di sir Carlo. Questi aveva avuto tutto il tempo per leggere la lettera di suo zio; perchè mai dunque non era ritornato per farmene parola? Vedendo che egli non veniva da me, io mi alzai per andare da lui, ed entrai nella stanza da letto: era vuota. Apersi il gabinetto della toletta — era vuoto al pari della stanza da letto. Sir Carlo era dunque sortito? La cosa era possibile, essendovi una scala da servizio che dalla stanza da letto conduceva nella via. Mi guardai tutto all’ingiro per aver la chiave di questo enigma, e vidi sullo scrittoio di sir Carlo la lettera di sir Hamilton bell’ed aperta. Accanto di essa v’erano pure queste due linee di Lord Greenville. «Non mi ero ingannato, mio zio è innamorato di voi. Non voglio quindi, valendomi dell’influenza che io posso avere sul vostro cuore, esser d’ostacolo al vostro destino; io non ritornerò in questa stanza che da qui ad otto giorni, dove è assai probabile che io non abbia più a trovarvi. Ma deh! per l’avvenire dei nostri figli, per il nostro reciproco onore, fate di non essere meno di Lady Hamilton. Sir Carlo Greenville». Esso pure aveva quindi veduto il cammino che innanzi mi stava aperto, egli pure credeva che io potrei raggiungere la meta che tanto m’aveva abbagliata in sulle prime, e che a poco a poco io mi ero avvezza a guardar fisso come aquila il sole senza stornarne lo sguardo. Impugnai la penna e scrissi: «Milord «Comunicai a Lord Greenville la lettera che mi faceste l’onore di scrivermi. Egli abbandonò sull’istante la casa, dicendomi che egli desiderava ch’io sola fossi l’unico arbitro della sorte mia, sua, e dei nostri figli, e che non sarebbe di ritorno se non dopo otto giorni. Quindi ora tocca a me a rispondervi, o milord, e lo farò colla stessa franchezza ch’io ebbi sempre fin ora, dicendovi: Come mai essendo indegna di essere la nipote di sir William Hamilton, posso esser degna di esserne la figlia adottiva? No, milord, v’ha alcun che di più semplice ancora, ed è ch’io non abbia ad essere nè vostra nipote nè vostra figlia, ma rimanga puramente Emma Lyonna. Son io che partirò da Londra — e me ne ritornerò a Nutley piccola ed amena città, dove tre mesi sono passai tre mesi, i più felici di mia vita. E colà assecondando la volontà di Carlo; il quale vi prometto di non più rivedere e di lasciargli tutta la libertà di seguire il suo proprio destino, vivrò da sola, e mi consacrerò all’educazione dei nostri figli. Io ve li ho raccomandati questi figli, o milord; ho quindi ragione di non più serbare alcuna inquietudine intorno alla loro sorte. Fu dunque un inganno il mio di credere, o milord, che io potrei essere moglie onesta e buona madre, e che come tale io renderei felice un gentiluomo. Oh! certo fu un inganno, poichè voi ne giudicate altrimenti. Fu però un inganno anche il vostro, di supporre che col perdere una falsa posizione, io ne avrei accettata un’altra ancora più falsa. La mia posizione, qual amante di lord Greenville, a Londra era certa, or chi m’assicura ch’io arriverò a farmi a Napoli l’altra, di vostra figlia adottiva? No, milord, un tanto onore non è riserbato per me nata nell’oscurità, è giusto che io muoia in essa. I giorni che io m’ebbi illuminati dal sole non furono per me i più felici. Addio, milord; trovate a vostro nipote una sposa, nobile e pura, e di essa fatene la vostra figlia adottiva, ed abbandonate alla miseria ed al disonore la povera Emma. Ella vi si dichiara umilissima serva, e non ha l’ambizione di ottenere altro titolo dalla signoria vostra. Emma Lyonna». Feci recare immediatamente questa lettera a sir William Hamilton, e m’accinsi a fare i preparativi della partenza. O sir William Hamilton si recherà da me prima ch’io avessi finito la prima valigia, o sir Carlo sapendomi a Nutley, mi avrà colà raggiunta. Nel primo caso, facevo un passo avanti, nel secondo la posizione rimaneva la stessa, anzi migliore, poichè, una volta sortito di casa lord Greenville, non avevo voluto restarci. Chi venne il primo fu sir William Hamilton, il quale accorse all’albergo non appena egli ebbe ricevuta la mia lettera. Egli mi trovò occupata a fare i preparativi per la partenza. — Mi avete dunque scritto da senno? egli esclamò. — Del miglior senno del mondo, o milord, io gli risposi, non vorrete supporre, io credo, che io possa permettermi scherzare con voi. — Ma se la vostra lettera non mi avesse trovato all’albergo, e se quindi invece di venir tosto io non fossi venuto se non da qui a due ore? — Avreste trovato ch’io era partita. — E partendo, avreste creduto di sfuggirmi? — Sfuggirvi? Non v’intendo, milord; io non fuggo da voi, non sono sir Carlo io, non fuggo nessuno io, non faccio che ritirarmi. — M’avreste veduto a Nutley un’ora dopo di voi e fors’anco un’ora prima. — Che sareste venuto a fare a Nutley, milord? — Sarei venuto a dirvi che ora che vi conosco mi è impossibile star senza di voi, ed a scongiurarvi che vogliate voi stessa scegliere sotto qual titolo preferiate di starvene presso di me. Mi sentii un brivido d’orgoglio al cuore. — Milord, gli dissi, voi sapete bene non esservi altro titolo ch’io possa accettare dallo zio, che quello che ho rifiutato dal nipote. — È l’ambizione, che vi fa tenere un simile linguaggio, o Emma? — No, milord, è un sentimento di dignità. — V’ha alcuno che vi diriga nel modo di condurvi in faccia mia? — Non lo nego, milord. — Chi è costui? — Sir Carlo. — Mio nipote? — Degnatevi di entrare in quella stanza, o milord, e colà troverete sullo scrittoio la lettera ch’egli mi scrisse nel partire dall’albergo: leggetela. Sir William Hamilton andò nella stanza da letto, donde ritornò quasi subito tenendo in mano quella lettera, ch’egli ebbe appena il tempo di leggere. — Miss Emma, egli mi disse, fareste voi ad un uomo la grazia di accettarlo per isposo, un uomo che non vi sarà mai altro che padre? Le gambe più non mi ressero, e mi lasciai cadere su d’una sedia a bracciuoli colla fronte grondante di un freddo sudore. Era un sogno? Sarebbe mai vero che il borioso sir William Hamilton, venuto appositamente da Napoli per impedire il matrimonio ch’io stava per contrarre con suo nipote dissestato, volesse ora offrirmi il suo nome, rango e sostanze? — Milord, io gli dissi, s’io avessi ad accettare così di subito una sì magnifica offerta, potrebbe in seguito sembrarvi una sorpresa. Fate di rinnovarmi domani quest’offerta, ed allora vi risponderò. — Accetto, ma a patto che voi mi rispondiate nella cappella dell’albergo, e che la stessa sera partiremo per Napoli. — Domani toccherà a me ad obbedire a qualunque ordine siate per darmi, o milord. — Permettereste frattanto che sir William possa in qualità di amico passar questa sera con voi? — S’io avessi a farvene rifiuto, tornerebbe lo stesso che togliervi l’occasione di pentirvi. — Credete forse ch’io sarei per annoiarmi? — L’ambasciatore, l’amico d’un re e d’una regina, l’uomo dotto cui fan corona le aristocrazie del nome e dell’intelligenze, temo voglia trovare un mediocre interesse nelle conversazioni della povera pastorella del ducato di Galles. — Voi rassomigliate, o Emma, ad una principessa di cui parlano i racconti del nostro popolo. Vi fu matrina una fata di certo, e voi levaste una lettera dal nome che essa v’impose, affine di conservar meglio l’incognito: e questo nome non è già Emma, ma Gemma sicuramente. — Milord, milord, voi siete avvezzo a parlare ad una regina, vi sovvenga che qui siete a Londra e non a Napoli. — Ebbene, questa regina sarà vostra amica, o Emma; essa vi pregherà di darle delle lezioni di grazia e di buon gusto; questa regina quando vogliate farla dimenticare dovrà pur cedervi la sua corona. — Quando alla regina voi dite di queste cose, o milord, vi dà essa la mano da baciare? — Perchè tal domanda? — Perchè mi sento disposta a fare il noviziato di viceregina. E gli stesi la mano. Sir Hamilton la prese e baciolla con uguale rispetto come se avesse baciata la mano della regina Maria Carolina. — Non vi fate stupore, mi disse sir Hamilton nel restituirmi la mano, e nel farmi un saluto; non vi stupirete se io vi dico che mi restano molte cose da fare per dar compimento ai progetti ch’io ho per domani; datemi quindi licenza di assentarmi, e vogliate intanto riserbarmi la serata che mi avete promessa. Io pure sentiva il bisogno d’esser sola per spiegarmi le diverse sensazioni che mi s’incalzavano nel cuore e più di tutto nella mente; feci quindi a sir William una riverenza con quella grazia che mai sapessi maggiore, e gli dissi che l’aspettavo per le otto della sera. Partito sir William, mi presi la testa fra le mani che sembrava mi volesse scoppiare. Fa egli mestieri che io mi diffonda sulla strana situazione in cui mi trovava, e ch’io ne sfogli, per così dire, i particolari agli occhi dei lettori? Non torna conto. Lord Greenville aveva indovinato, sir Hamilton era innamorato pazzo di me; egli mi lasciò ad un’ora del mattino stordito, inebbriato, abbagliato. Il dì seguente, sir William, essendosi procurata con denaro la dispensa delle pubblicazioni, fummo sposati da un ministro protestante, il quale andava debitore della sua cura a sir William, e la cerimonia ebbe luogo in una stanza dell’albergo ridotta a cappella, senza alcun romore nè pompa coll’assistenza di nessun altro che i testimonii di obbligo. Compita la cerimonia il pastore ci rilasciò una per ciascuno la copia dell’atto di registro, perchè ne testimoniasse la validità. Questa volta non era più una promessa di matrimonio, come quella di Lord Greenville, era un vero matrimonio segreto, ma valevole. La sera dello stesso giorno lasciammo Londra e ci avviammo per Napoli, avendo prima sir William dato, con una generosità veramente da principe, ordine agli affari di sir Carlo.... Che Dio mi conceda ora la forza di scrivere la seconda parte di mia vita, con ugual senso di sentimento qual mi fu scorta nello scrivere la prima. Chè questa volta non è più su di me sola che voi fate gravitare li miei peccati, ma bensì su di un popolo intero. Amen! FINE DEL VOLUME SECONDO. Questa forza che Lady Hamilton domandava a Dio non le fu concessa, avendo fatta la malattia rapidi progressi. Il racconto che comincia al terzo volume, e che va fino all’ultimo, è perciò affatto profano. Ma secondo noi non è che più curioso, perchè, raffrontato al primo, esso presenta questa Maddalena politica sotto i suoi due aspetti. _Nota dell’editore._ NOTE: [1] Quel ritratto è oggi nella galleria del Louvre. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 2/8 *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. 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