Title: Memorie di Emma Lyonna, vol. 1/8
Author: Alexandre Dumas
Release date: May 14, 2025 [eBook #76089]
Language: Italian
Original publication: Milano: Daelli e C, 1864
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.)
MEMORIE
DI
EMMA LYONNA
DI
ALESSANDRO DUMAS
UNICA EDIZIONE AUTORIZZATA IN ITALIA.
Vol. I.
MILANO
G. DAELLI e C. EDITORI
MDCCCLXIV.
Proprietà letteraria — G. DAELLI e C. Editori.
STEREOTIPIA G. DASSI E C.
TIP. GUGLIELMINI.
[3]
MEMORIE
DI
EMMA LYONNA
OVVERO
LE CONFESSIONI D’UNA FAVORITA
Il 14 gennaio 1815, verso le cinque della sera, un prete, preceduto da una vecchia donna che parea servirgli di guida, imprimeva i suoi passi sul tappeto di neve che stendevasi dal villaggio di Vimillle al piccolo porto d’Ambleteur, sito fra Boulogne sul mare e Calais e nel quale Giacomo, scacciato dall’Inghilterra, sbarcò nel 1688. — Questo prete moveva a rapido passo, ciò che facea credere ch’ei fosse con impazienza aspettato, e guarentivasi, avviluppandosi nel suo mantello, da un vento acre e freddo che soffiava dalle coste d’Inghilterra. La marea saliva, ed udivasi il mugghiare del mare misto al rumore dei ciottoli, che il flutto salendo rotolava sulla spiaggia.
[4]
Dopo fatta presso a poco una mezza lega, seguendo la via tracciata da una doppia fila di olmi, sfrondati l’inverno dall’inverno stesso, scompigliati l’estate dal vento del mare, la vecchia prese a destra del cammino un sentiero appena visibile sotto la neve che il ricopriva, e che menava ad una piccola capanna eretta nel mezzo d’una collina che dominava il paesaggio. Un raggio di luce, probabilmente prodotto da una lampada invisibile attraverso i vetri della finestra, denotava solo l’esistenza di questa capanna, completamente perduta nell’oscurità.
Dieci minuti bastarono a raggiungerne la soglia.
La vecchia stendeva la mano verso la porta, quando questa si aprì da per sè, ed una giovine voce disse, con un accento inglese leggermente pronunciato:
— Venite, signor abate, mia madre vi attende con impazienza.
La vecchia si ritrasse per lasciar passare il prete. Questi entrò nella capanna, ella gli tenne dietro. La fanciulla richiuse la porta, ed indicò nella seconda camera, la sola rischiarata, una donna che a stento sollevavasi sul letto.
— È lui? chiese con voce fioca ed in inglese l’ammalata.
— Sì, madre mia, rispose la fanciulla nella stessa lingua.
— Oh! entri, entri, esclamò in francese la malata.
E ricadde sul letto.
Il prete le si appressò: la fanciulla e la vecchia rimasero nella prima camera.
L’ammalata parea sfinita dallo sforzo fatto; e, rovesciato [5] il capo sull’origliere, indicò con mano languida una poltrona, facendo cenno all’uomo di Dio di accostarla al suo letto e sedervisi.
Il sacerdote comprese il gesto, avvicinò la poltrona e sedette.
Fuvvi un istante di silenzio, durante il quale non udivasi che l’oppresso respiro della morente, ed i singhiozzi cui tentava invano di soffocare la fanciulla.
Durante questo momento d’aspettativa il prete ebbe tempo di volgere uno sguardo intorno.
L’interno dell’appartamento offeriva un misto singolare di lusso e miseria. I mobili e le pareti erano ben quelli d’una capanna, ma le lenzuola erano della più fina tela d’Olanda; l’accappatoio, in cui si avvolgea l’ammalata, era d’una magnifica batista, e il fazzoletto annodato al suo collo era orlato da quel prezioso merletto, cui l’Inghilterra ha dato il suo nome.
Di fronte al letto, separati solo dalla finestra, dinanzi alla quale cadeva una povera cortina d’indiana, staccavansi per lo splendore del colorito due ritratti in piedi, uno di donna, l’altro di uomo, ambedue di naturale grandezza.
Quello d’uomo rappresentava un ufficiale superiore della marina inglese. Il suo abito cilestre portava al manco lato, e di sotto all’ordine del Bagno, tanto raro in Inghilterra, che nol si dà se non per grandissimi servigi resi, altre tre decorazioni, cui un intelligente in siffatta materia avrebbe riconosciute, l’una per l’ordine di S. Ferdinando e del merito di Napoli, l’altra per quella di S. Gioacchino di Malta istituita da Paolo I di Russia, e che morì con lui; [6] la terza infine per la mezzaluna Ottomana, che portava nella sua curva la cifra in diamanti dell’Imperatore ottomano Selimo III.
Ma ciò che soprattutto rendeva quest’uomo notabile era la gloriosa mutilazione, onde avea dovuto esser vittima: — una larga cicatrice solcavagli la fronte, su cui stendevasi una benda nera che celava un occhio perduto, mentre la manica destra del suo abito abbottonata all’uniforme, palesava un braccio monco al disopra del gomito.
L’uomo, che il ritratto rappresentava, era piuttosto basso di statura; avea biondi i capelli; l’occhio, che gli restava, parea vibrare il lampo del genio; infine il suo naso aquilino ed il suo mento vigorosamente marcato indicavano il coraggio e la volontà, che fanno i tratti caratteristici dell’eroe da guerra.
La donna invece era il tipo perfetto della grazia e della bellezza; i suoi capelli castagni senza alcun ornamento ricadevanle in folte anella sul collo e sul petto; avea gli occhi ed i sopraccigli neri sopra un incarnato di sfolgorante freschezza; il naso ben fatto; la bocca infantile, semi-aperta qual rosa in un mattino di primavera, lasciava scorgere, o piuttosto divinare due file di perle. — Vestiva una tunica di chachemire, fatta alla greca, con un mantello di porpora gettato sulla spalla destra: avea retta la persona da un largo cinto di velluto color ciriegia ricamato d’oro, il cui fermaglio era fatto d’un cammeo che rappresentava il profilo d’una testa da vecchia.
Questo splendido ritratto era evidentemente quello dell’ammalata, nei tratti della quale potevansi ancora riconoscere, a malgrado i suoi cinquant’anni ed i [7] guasti d’una crudele malattia, i resti di quella perfetta bellezza dal pittore dipinta sulla tela.
Mentre il prete, quasi suo malgrado, davasi a questo esame, la malata riaperse lentamente gli occhi, e glieli fissò sopra con inquietudine. Si sarebbe detto ch’ella cercasse sul volto di colui, che avea mandato a cercare per farne l’intermediario della sua riconciliazione con Dio, ciò che poteva temere o sperare dalla celeste misericordia.
Il sacerdote era un vecchio di sessantacinque anni; dalla dolce e serena sua fisonomia traspariva la semplicità dell’anima: e potea leggersi nel suo sguardo una scintilla di quella inesauribile tenerezza, che Leonardo da Vinci ha data agli occhi di Gesù.
Al vederlo, l’ammalata parve rassicurarsi.
— Padre mio, diss’ella, ho letto in tutti i libri santi che la misericordia di Dio è infinita, ma io ho mandato a cercarvi per udirmi a ripetere queste parole dalla bocca stessa d’un ministro di Dio. I miei peccati, le mie colpe, i miei delitti anche, aggiuns’ella abbassando la voce, sono tanto grandi, che per non morire disperata ho mestieri della parola d’un sant’uomo come voi.
Il prete guardò con sorpresa quella donna dalla voce dolce, dalla fisonomia candida, dall’occhio cui la febbre che ardevala non potea togliere l’angelica espressione, e che pur tuttavia si accusava di colpe e peccati non solo, ma pur di delitti.
— Figlia mia, le diss’egli, il terror della morte vi smarrisce. La donna è una debole creatura esposta dalla sua posizione in società a cader nel peccato, a commettere colpe; ma, se ho ben compreso, voi [8] non vi accusate solo di colpe e peccati, ma ben anco di delitti.
— Oh! di delitti, sì, di delitti, padre mio..... so bene che quando era giovane, bella, potente, quando un eroe mi chiamava sua amante ed una regina sua amica, so bene che nel trasporto della mia giovinezza, nella foga della mia fortuna, io non giudicava tali i miei atti; ma, dopo ch’egli è morto, dopo ch’ella è morta, dopo che io sono caduta nella miseria, e che la miseria, vendetta celeste, mi ha condotta al dubbio, oh! io mi vedo quale sono, padre mio, cioè con un corpo bruttato dalla lussuria e delle mani rosse di sangue!....
— Figlia mia, la misericordia del Signore è infinita, ripigliò il sacerdote, e Gesù in nome del padre suo ha perdonato alla Maddalena ed alla donna adultera.
L’ammalata stese la mano, la posò sul braccio del prete, e sollevandosi per avvicinarsegli:
— Avrebb’Egli perdonato ad Erodiade? chiese ella.
L’uomo di Dio la guardò quasi con terrore.
— Chi siete voi dunque? domandò.
— Di fatto avete ragione, padre mio, rispos’ella. Dirvi il mio nome è tutto dirvi, ma deh! non vi allentate da me quando ve lo avrò detto....
— Figlia mia, disse il prete, accompagnerei e consolerei anche un parricida al patibolo.
— Oh! il patibolo è l’espiazione, esclamò l’ammalata: se io morissi sul patibolo invece di morir nel mio letto, non dubiterei tanto!
— Avete dunque ucciso? chiese il sacerdote con terrore.
[9]
— No, padre mio, ma ho lasciato morire.
— Avete sentimento del delitto che commettevate?
— No, no, io credeva servire il Re, credeva servir Dio, e non serviva che la mia vendetta. — Come volete voi che Iddio perdoni a me che non ho mai perdonato?
Il prete la guardò.
— Siete inglese?
— Sì, padre mio.
— Siete protestante?
— Sì.
— Perchè non avete fatto cercare un pastore della vostra religione? Ve n’ha uno a Boulogne.
— Lo so.... e l’ammalata crollò il capo gettando un sospiro.
— Ebbene? Insistè il sacerdote.
— I nostri pastori son troppo severi, padre mio; la nostra religione è troppo dura; non ho osato.
— È un grand’elogio che voi fate con ciò della nostra, figlia mia. E come, avendo di questa una tale opinione, non avete cercato rifugio nel suo seno?
— E se essa mi avesse respinta, padre mio?
— La nostra religione non respinge alcuno, figliuola mia, Gesù non ha egli detto al buon ladrone: «In verità ve lo dico prima d’un’ora voi sarete meco nel regno del Padre mio?»
— Sì, ma il buon ladrone era in croce; moriva col Salvatore.
— Chi muore in lui, muore con lui, e il pentimento val pure la Croce. — Vi pentite voi, figlia mia?
— Sì, disse la morente, levando al Cielo le mani — sinceramente, e ardentemente, ve lo giuro.
[10]
— Vi pentite voi per la sola paura della morte?
— No, padre mio, mi pento perchè, come a S. Paolo sulla via di Damasco, le scaglie mi sono cadute dagli occhi, e mi vedo qual sono.
— Ebbene, lo vedete, non solo Dio ha perdonato a S. Paolo, ma ne ha fatto uno dei suoi Apostoli: eppure S. Paolo custodiva i mantelli di quei che lapidavano il santo martire Stefano.
— Oh! voi siete buono, padre mio, di sostenermi e consolarmi in tal guisa.
— È mio dovere, figliuola mia; quando un’agnella si allontana dal gregge a malgrado gli avvertimenti del cane, il buon pastore se la prende sulle spalle e la riporta all’ovile: con più ragione la riceve egli con gioia quand’essa vi ritorna da sè. Parlate dunque, ditemi le vostre colpe, sono pronto ad udirle, e se esse non oltrepassano il potere legato ad un povero prete, sono presto a perdonarvi in nome del Signore.
— Il narrarle sarebbe lungo ed inutile: il mio nome basterà; quando saprete il mio nome, saprete tutto.
Il sacerdote la guardò sorpreso.
— Il vostro nome allora? le domandò egli.
La morente si chinò verso lui, e con voce tremula ed appena intelligibile, mormorò queste due parole:
— Lady Hamilton.
— Questo nome non mi svela nulla, figlia mia, rispose il prete. Non lo conosco: odo pronunciarlo per la prima volta.
— Oh, Dio mio! esclamò la morente con accento quasi di gioia. Havvi dunque un uomo che non mi conosce: havvi dunque una bocca che non m’ha maledetta!
[11]
E ricadde sul suo letto, mormorando a bassa voce una preghiera di ringraziamento all’Eterno.
Ma ad un tratto un vago senso di terrore passò sul suo viso.
— Oh! ma allora, seguitò, io sono perduta, padre mio, giacchè non avrò la forza nè il tempo di tutto narrarvi: e se non posso dirvi le pungenti angoscie della miseria, i febbrili allettamenti dell’oro, lo irresistibile affascinare della passione; se voi conoscete della mia vita le sole colpe e non le tentazioni, non mi perdonerete giammai.... oh! se poteste leggere....
— Che!
— La mia vita che scrissi io stessa in tutti i suoi dettagli come una prima espiazione, e soprattutto perchè serva a preservare mia figlia dalla via che io ho percorsa, e dal cadere nelle colpe in cui sono caduta.
— E perchè non leggerei io questa vita scritta da voi?...
— Col sangue del mio cuore, ve lo giuro.
— Perchè non la leggerei io? ve lo domando.
— Perchè essendo io inglese, l’ho scritta in inglese.
— Ho abitato cinque anni l’Inghilterra, dal 1790 al 1795, e parlo l’inglese come la mia lingua materna.
— Oh! padre mio, padre mio! esclamò la moribonda afferrando la mano del sacerdote, gli è ben realmente Iddio che vi manda, e comincio a credere nel suo perdono!....
Poi con un ardore febbrile:
— Tenete, padre mio, gli diss’ella dandogli una [12] chiave, stretta ad un fazzoletto celato sotto il guanciale, prendete questa chiave, aprite il tiretto di quella toeletta, vi troverete un manoscritto intitolato: My Life; prendetelo, leggetelo, e tornate al più presto che vi sarà possibile, se mi recherete il perdono; se sono condannata, rimandatemi il manoscritto: saprò quel che ciò vorrà dire.
Il prete si alzò, aprì il cassetto, e vi prese le carte indicate.
— Figlia mia, le disse egli, bisogna che io adempia ai doveri del mio stato. Non mi rivedrete che domani a quest’ora stessa.
— Dio mi darà grazia di vivere fino a quel momento, ripigliò l’ammalata, soprattutto... e ristette.
Il sacerdote la guardò: il suo sguardo era un incoraggiamento.
— Soprattutto, seguitò ella, se voi mi benedite.
— Vi benedico, povera donna, disse il prete; e possa Dio benedirvi come io lo faccio.
Entrato nella camera attigua vi trovò inginocchiate la fanciulla e la vecchia.
— Vivete con Dio, figliuola, diss’egli alla giovinetta, posandole sul capo la destra mano.
La vecchia afferrò l’altra e la baciò.
Il prete uscì.
L’ammalata lo seguì cogli occhi e le braccia stese fin che potè scorgerlo.
La fanciulla entrò nella camera.
— Madre, chies’ella, come vi sentite?
— Oh! meglio, meglio, Orazia mia, ancora una visita come quella ch’egli mi ha fatta, e quest’uomo porterà seco il mio passato!
[13]
***
Il domane, all’ora stessa, il prete rientrò; era seguito da due chierici; l’uno portava il vaso dell’acqua santa, l’altro la croce.
L’ammalata era più tranquilla, ma anche più debole del giorno innanzi. Era evidente che solo la fede e la speranza, queste due figlie di Dio, la sostenevano.
Egli s’innoltrò verso il letto; il suo viso spirava carità.
La giovinetta e la vecchia, questi due esseri che parevano statue poste ai due lati della vita per rappresentare la gioventù e la decrepitezza, sollevarono sul guanciale la moribonda.
Il prete si fermò a due passi da lei: ella attendevalo con gli occhi al cielo e le mani giunte.
— Credete voi ai sette sacramenti? le chies’egli.
— Vi credo, rispos’ella.
— Credete voi alla presenza reale di Gesù Cristo nella Eucarestia?
— Vi credo.
— Credete voi nella supremazia del romano Pontefice e nella sua infallibilità in materia di fede?
— Vi credo.
Il sacerdote attinse dalla pila un po’ d’acqua nel palmo della mano, e aspergendone la testa della morente:
— Ti battezzo in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo; e che l’acqua del battesimo lavi i tuoi peccati, le tue colpe, ed anche i tuoi delitti.
La moribonda gettò un grido di gioia, afferrò la mano del prete ancora umida dal contatto dell’acqua santa, se la portò avidamente alle labbra e la baciò.
[14]
Poi con uno slancio sublime:
— Dio mio! diss’ella, ricevete l’anima mia!
E si rovesciò sul guanciale, cui lasciarono ricadere la fanciulla e la vecchia.
Il suo volto aveva ripresa una tale serenità che le due donne credettero dormisse: il solo prete comprese che soltanto la morte potea dare quella serenità.
Di fatti era morta.
Come lo aveva detto ella il dì prima, il sacerdote aveva alla seconda sua visita recato seco il suo passato; e l’acqua del battesimo, colandole dalla fronte all’anima, aveva tutto lavato — fango e sangue.
***
Ora ecco ciò che il prete aveva letto nel manoscritto, intitolato: La mia vita.
Alessandro Dumas
[15]
MEMORIE DI EMMA LYONNA
1 gennaio 1814.
Nella fiducia che Dio perdonerà al mio pentimento ed alla mia umiltà, scrivo le seguenti pagine.
Emma Lyonna, ved. Hamilton.
I miei primi ricordi risalgono all’anno 1767: avevo tre o quattro anni. Non ho mai conosciuto l’epoca precisa della mia nascita: attraverso una percezione vaga come una nebbia, mi veggo colla madre a seguire una grande strada in mezzo ai monti, quando portata sulle sue spalle, quando movendo a lei d’accanto, tenendola per mano, o tirandole l’abito. Tratto tratto un ruscello tagliava il sentiero, allora mia madre mi prendeva fra le sue braccia, traversava il ruscello e mi posava dall’altra parte: ciò doveva avvenire durante l’inverno, od almeno verso il finire dell’autunno. Avevo sempre freddo; fame qualche volta.
[16]
Quando traversavamo una città od un villaggio, mia madre si fermava dinanzi alla bottega d’un panettiere, e chiedevagli con voce supplichevole un pane, che quasi sempre le veniva dato.
Ci fermavamo rare volte la notte nelle città o nei villaggi, ma piuttosto in qualche fattoria isolata. Là mia madre chiedeva le si permettesse di dormire in un granaio od in una stalla. Le notti, in cui il permesso ci veniva accordato, erano le mie notti di festa: avevo caldo, e quasi sempre il mattino, prima che ci mettessimo in cammino, la castalda o la domestica, che veniva a mugnere le vacche, mi dava una tazza di latte tiepido, il che era per me un’altra festa non essendovi abituata.
Dalla distanza che percorrevamo, supponendo che noi facessimo quattro o cinque leghe al giorno, il nostro viaggio dovette presso a poco durare una settimana: alfine arrivammo alla città di Hawarden, che era la meta della nostra corsa.
Il defunto mio padre avea nome John Lyon: mia madre lasciava la città, ove era morto, per venire a chiedere alla sua famiglia, che dimorava ad Hawarden, un qualche soccorso che potesse sovvenire alla mia educazione ed alla sua esistenza.
A questo punto un’oscurità di qualche mese si stende di nuovo sulla mia mente, e mi ritrovo a custodia d’un piccolo gregge di montoni, in una masseria ove mia madre era impiegata a domestica.
Relativamente al passato io mi trovava felice. La primavera era giunta, e con essa il caldo e la verdura. Il declivio della collina, ove io menava a pascere il mio gregge, era un vasto tappeto di serpilli e surcelle che i miei montoni sbroccolavano con [17] delizia, e dei cui fiori io mi faceva corone. La sera rientrando alla fattoria dormivo nel pecorile dei miei montoni. Del pane, un po’ di burro o formaggio, qualche volta un uovo duro, bastavano ai miei bisogni del giorno: il mio cane divideva il mio pane, e parea quanto me soddisfatto di quest’ordinario. Quando avevamo finito la colezione ed il pranzo, andavamo a bere ad una vicina sorgente, che faceva un bacino trasparente come il cristallo, prima di spandersi e correre come un filo d’argento sul declivio della collina.
Tre o quattro anni decorsero di tal fatta senza che alcun avvenimento, lasciando traccia nella mia memoria, venisse a rompere la dolce monotonia di quella esistenza.
Un giorno, che mi aveva fatta una corona di surcelle color rosa miste alle margheritine, mentre io beveva come al solito, curvandomi verso la sorgente, sostai per la prima volta al momento in cui le mie labbra stavano per baciar l’acqua, accorgendomi ch’io era bella.
Erro nel dire che m’accorsi ch’io era bella: non sapeva ciò che fosse bellezza: non aveva mai avuto uno specchio nel quale potessi vedermi, ma il sembiante che l’acqua del bacino rifletteva mi piacque, gli sorrisi, ed appressai le labbra all’acqua, meno per bere che per dargli un bacio.
Da quell’istante la riva della sorgente divenne il mio gabinetto di toeletta; sfacendo e rifacendo le mie corone fino a che fossi soddisfatta di me, soddisfazione che io manifestava abbracciando la mia propria immagine.
Un giorno poco mancò che questa tenerezza, ch’io [18] sentiva per me stessa, non mi fosse fatale: — le mie mani scivolarono sull’erba, caddi nel bacino, e senza il mio cane che mi ritrasse per l’abito, mi sarei annegata.
Avevo così poca idea di quel che fosse il bene e il male, che per far asciugare i miei abiti, mi spogliai nuda al sole; in quel momento udii a chiamarmi; mi alzai e vidi mia madre: le corsi incontro: ella mi rimproverò, senza che io comprendessi bene la cagione de’ suoi rimproveri.
Un miglioramento s’era fatto nella nostra esistenza: ella aveva allora ricevuto dal conte di Halifax una piccola somma destinata parte a lei parte a me — la somma destinatami avea per iscopo la mia educazione.
Non ho mai ben compreso la causa di questa munificenza del conte di Halifax, e mia madre non ha mai voluto spiegarmelo: solo corse voce in famiglia che un sangue più nobile di quel di John Lyon potesse scorrere nelle mie vene. Dio mi salvi dall’accusare mia madre, ma se ella fosse, potrebbe spiegarmi quei vaghi desideri, quelle incessanti aspirazioni ad un rango cui giunsi, ma al quale non era certo destinata.
Mia madre veniva ad annunziarmi che dal domane cesserei di guardare il mio gregge, ed entrerei in un istituto di fanciulle, che io vedeva qualche volta il giovedì e la domenica a passeggiare dal lato del podere.
La mia prima parola fu:
— Mamma, avrò io un bel cappello di paglia ed un bell’abito azzurro com’esse?
[19]
— Certamente, rispose mia madre, giacchè è l’uniforme del collegio.
Feci un salto di gioia; mi parve che sarei stata assai bella con simili abiti, cui non avrei mai osato sognare di possedere.
Baciai i miei montoni gli uni dopo gli altri, e gli abbandonai ad un giovinetto pastore che venne a surrogarmi.
I miei più lunghi addii furono al mio cane: quel povero animale, che mi avea salvata la vita un’ora prima appena, sentiva una grand’affezione per me: accarezzai molto il povero Black, ed a stento presi da lui commiato.
La povera bestia avea gran desiderio di seguirmi: parve esitare fra il suo amore ed il suo dovere, ma il dovere la vinse. Mi accompagnò fino ad un luogo, ove, senza perder di vista il suo gregge, potesse seguirmi cogli occhi: sedette sopra una rupe, la testa volta dalla mia parte, e mandandomi di tanto in tanto un latrato lamentoso, restò allo stesso posto immobile e gemente, fino a che la disposizione del terreno me lo ebbe celato: ma anche non vedendolo più, udiva i suoi lai.
Il giorno stesso mia madre mi condusse alla città distante circa un mezzo miglio dalla masseria. Ella andava a pagarvi il primo trimestre della mia pensione, ed a far prendere le misure delle mie vesti, che venivan fatte dallo stabilimento, onde non vi avesse diversità fra le alunne.
Era il mercoledì: dovevo entrare al convitto il vegnente lunedì. La direttrice promise di dirigere la passeggiata della domenica verso la fattoria, affinchè si potesse provarmi l’uniforme. Era una festa [20] per le allieve che dovevano farvi colezione con uove fresche e latte caldo.
Il convegno si fissò per le nove; mia madre s’incaricò di preparare il tutto.
Per la prima volta conobbi la potenza dell’oro. Mia madre, il dì innanzi povera fantesca di masseria, cui parlavasi aspramente come ad una serva dell’ultimo grado, pareva essersi rialzata, naturalmente, tacitamente senza che alcuno facesse obbiezione, al rango di sorvegliante agli altri domestici. E tutto ciò perchè le si avea visto fra mani un biglietto da cento lire, che, se venivale dalla sorgente attribuitale, doveva piuttosto abbassarla che ingrandirla.
La sera io mi coricai accanto a mia madre, in un letto che mi si fe’ su due sedie e sotto al quale si celò il fedele mio Black, che mi festeggiò rivedendomi, come se avesse temuto di perdermi per sempre.
Durante i tre o quattro anni decorsi e che si eran dileguati senza altro mutamento che quello delle stagioni, io non aveva mai avuto l’idea di trovare un giorno più lungo dell’altro: non avevo mai bramato di affrettare il passo del tempo: mi alzavo col giorno e mi coricavo col sole: dividevo il mio pane con Black; isbricciolavane il resto agli uccelli; mi facevo corone di fiori; mi specchiavo nella sorgente; sognavo senza saper che, e giungeva la sera senza che avessi misurato a quale distanza essa fosse dal giorno.
Non era più così: un mutamento completo s’era operato nel mio spirito: i minuti s’eran fatti ore; le ore giorni; ed i giorni anni: mi parea di non giungere mai a quella benedetta domenica, in cui, abbandonati i miei cenci, indosserei quell’abito cilestre, [21] due volte per me color del cielo, e quel grazioso cappello di paglia, aureola delle vaghe mie prime ambizioni. — Desta, io aveva confuse e incoerenti visioni quali si hanno nei sogni: avrei voluto salire una montagna, alta tanto da vedere al disopra della cinta di monti che ne circondava: non avevo idea alcuna di ciò che potea trovarsi al di là, ma certamente ciò doveva esser più bello di quel che vedevo.
Oimè! in tutta la mia vita volli raggiungere le più alte cime, e vedere al di là dell’orizzonte, che Dio mi accordava!
Il giorno tanto desiderato giunse finalmente: non dormii punto la notte che il precedette: prima assai dell’apparire dell’aurora io era in piedi: mia madre si alzò quasi subito dopo: ella pure avea comprato nuovi abiti, e quel giorno diede al suo acconciamento un’insolita cura. Il suo vestito era quello dei montagnuoli del paese di Galles, e per la prima volta m’avvidi che mia madre dovea essere stata molto vezzosa: era bella ancora.
Ultimata la sua toeletta, ella si occupò di me; pettinò i miei capelli, che erano magnifici e per natura inanellati; e, avvedendosi che io era coperta dalla sola camicia, volle rimettermi gli abiti del dì innanzi; ma io rifiutai ostinatamente, dicendole che sperava bene, deponendoli la sera precedente, di essermene separata per sempre.
Siccome il suo abbigliamento mi parea molto bello, le chiesi se era tanto ricca da farmene regalo d’uno simile: ella me ne promise uno più bello ancora, se dopo un mese la direttrice fosse stata contenta di me.
[22]
Mi proposi di meritarlo.
Per non rimettere i miei abiti del dì innanzi mi ricoricai, ed attesi le 9 dal mio letto.
Finalmente un gioioso cicalio, simile a quello d’uno stormo di capinere, mi annunciò l’arrivo delle mie future compagne: mia madre che sapeva la mia impazienza entrò tosto con una sotto maestra che mi portava l’uniforme.
Il mio corredo si componeva di due vestiari completi esattamente eguali di forma: solo quello delle domeniche era di stoffa più fina: — tutti gli altri oggetti dalle calze ai colletti, erano a mezze dozzine.
Io non potea credere che tutte quelle ricchezze deposte sul mio letto fossero mie. — Mia madre ne chiese il prezzo e li pagò: solo allora credetti la mia proprietà assicurata; quattrocento franchi ne pagarono l’acquisto. — Non avevo visto mai tanto denaro.
La mia toeletta ebbe principio. — Le misure erano state prese da un’abile mano, giacchè tutto mi andava per eccellenza: in capo a dieci minuti era pronta.
Un frammento di specchio, nuovo lusso nella camera di mia madre, mi permise di vedermi. Gettai un grido di gioia; mi vidi ben più bella che nella fontana: il mio gran cappello di paglia dagli ondeggianti velluti azzurri mi stava a meraviglia, — e spesso in seguito, anche all’epoca della mia più alta fortuna, quando volevo trar partito di tutta la mia bellezza, non sceglievo altra acconciatura che quella della piccola alunna di Hawarden!
Non feci che uno sbalzo dalla mia camera al cortile e dal cortile al giardino.
[23]
Tutto il collegio era là: sessanta fanciulle presso a poco dell’età di otto a quindici anni.
Elleno mi guardarono più con curiosità che simpatia.
Una delle grandi disse: —
— Non c’è male per una piccola contadina.
Un’altra rispose:
— Sì, ma ha l’aria goffa.
Il mio cuore si serrò.
Al mio entrare nel mondo, vi era ricevuta dal disprezzo e dal sarcasmo.
Restai in piedi, muta, immobile, sentendo il rossore della vergogna salirmi alla fronte.
— Bambina, mi disse una terza, va a dire alla masseria che ci si portino le uova ed il latte.
Il mio orgoglio si rivoltò.
— Scusate, signorina, le dissi, io non sono, parmi, la domestica di alcuna di voi.
— No, ma siccome vostra madre è quella della masseria, disse la prima che avea parlato, ella avrà, spero, la bontà di servirci. Noi abbiamo fame.
Mia madre esciva in quell’istante: mi gettai fra le sue braccia piangendo: ella mi chiese donde venissero le mie lagrime.
In due parole le narrai il tutto.
La castalda ci ascoltava: ella si avvicinò alle alunne.
— Signorine, diss’ella, la mia fattoria non è un albergo: io vendo le mie uova, il mio latte ed il mio burro al mercato, ma non qui. A preghiera della mia amica madama Lyon io era felice di offerirvi tutto ciò, ma se l’ospitalità ha i suoi doveri, ha eziandio i suoi diritti, ed uno di questi è il non [24] essere insultati. Reclamo io dunque questo diritto, e per me, e per tutte le persone che fan parte della mia casa.
— Ben detto, madama, disse la direttrice, vi ringrazio della lezione che io stessa stavo loro per dare, ma non l’avrei data sì buona. Quelle fra queste signorine, che vorranno mostrarsi degne dell’onore che voi fate loro, andranno elleno stesse a prender la loro colezione; e vi ringrazio anticipatamente in nome di tutte le vostre convitate e mio; — quelle che non andranno, faran senza della refezione: — ecco tutto, signorine. Chi mi ama mi segua.
E la direttrice, che chiamavasi mistress Colmann, diede l’esempio, dirigendosi verso la casa seguita dalle alunne, meno le tre che mi avevano rivolta direttamente o indirettamente la parola.
Un momento dopo madama Colmann uscì dalla masseria tenendo da una mano un cestellino pieno d’uova, e dall’altra un’immensa scodella di latte fumante.
Le due sotto-maestre la seguitavano portando ognuna com’ella uova e latte.
La massara e mia madre venivano lor dietro con due enormi pani dalla corteccia bianca e appetitosa.
Ogni alunna portava il suo piatto, la sua forchetta, il suo cucchiaio ed il suo coltello.
Tutte sedettero sull’erba attorno a madama Colmann ed alle due sotto-maestre.
Le tre ribelli sole in piedi formavano un gruppo a parte.
— Madama Davison, dissi io alla massara, volete voi darmi sei uova in un cestellino, una scodella di latte caldo, e tre tazze?
[25]
Ella comprese la mia intenzione, e baciandomi in fronte, mi diede ciò che io le chiedevo.
Uscii dalla fattoria portando il mio cestellino, la scodella e le tre tazze alle tre espulse.
— Signorine, lor diss’io, volete voi perdonarmi di essere la cagione del castigo datovi?
— Grazie, rispose la maggiore delle tre, non abbiamo fame.
— Emma, disse la direttrice, venite ad abbracciarmi e sedermi vicina: voi siete una buona fanciulla.
Io posai il cestino d’uova, il latte e le tazze appiè delle tre renitenti, ed andai a sedermi accanto a mistress Colmann.
Ella avea detto il vero; sì, io era una buona bambina. — È colpa mia o del mondo se sono divenuta la perversa creatura, che si prostra ora dinanzi a voi, o mio Dio!
[27]
Dopo la colezione, cui le tre grandi alunne assistettero senza parteciparne, tutte le fanciulle condotte da madama Colmann tornarono in città.
Il mattino innanzi sarebbe stato mio maggior desiderio di entrare il giorno stesso in collegio, ma dopo quel che era avvenuto, il mio entusiasmo s’era raffreddato, e chiesi a mia madre il permesso di rimanere quel dì ancora alla masseria. Fu dunque stabilito ch’ella mi condurrebbe al convitto la mattina del domane.
Nel lasciarmi, madama Colmann che, avendo visto la reazione operatasi in me, temeva di perdere una alunna, mi fece mille carezze, e incitò alcune delle fanciulle più piccole a far altrettanto, ma io sentii [28] bene che sarei sempre per quelle signorine la piccola contadina, la figlia della domestica della masseria.
Mi dilungo su questi dettagli, che sembreranno forse a primo aspetto puerili, perchè questi ed altri, onde avrò occasione di parlare in seguito, ebbero una grande influenza sulla mia vita. I fiori devono il loro splendore ed il loro profumo, i frutti il loro gusto e la loro bellezza, non solo alle cure più o meno abili e premurose del giardiniere che li coltiva, ma anche alla temperatura atmosferica in cui il caso li pose. Il peccato mio originale era l’orgoglio; il vento dello scherno e del dispregio, soffiandovi sopra, non fe’ che infiammarlo invece di spegnerlo; e come Satana, il più bello ed il più amato di tutti gli angeli, io, povera creatura umana, caddi per orgoglio.
Uscite madama Colmann e le alunne, mossi verso la collina, ove, per tre o quattr’anni, aveva guidato il mio piccolo gregge. A questa collina convenivano la domenica alcune persone della città: tutte quelle della masseria mi avevano già veduta nel mio nuovo splendore; l’impressione prodotta su loro al mio primo apparire non potea più rinnovarsi; cercai dunque da nuovi sguardi nuovi encomi.
Di fatto nel salire la collina, col mio gran cappello di paglia, i miei lunghi capelli al vento, le guance porporine, incontrai varj gruppi d’individui che mi guardarono: alcune voci dissero: — Ecco una bella fanciulla. — Una sola chiese: — Non è ella la piccola guardiana del gregge di madama Davison? —
Oimè, sì, era ben quella.
[29]
Questa domanda, che del resto non avea nulla di malevolo, avvelenò tutta la gioia datami dalle lodi precedenti: — caddi in una triste meditazione, e seguii ad occhi bassi il mio cammino, lasciandomi ad uno ad uno cader di mano i fiori, che avevo raccolti per farmene una corona.
Ad un tratto udii i festevoli latrati d’un cane, e Black, che m’avea da lunge riconosciuta, si slanciò a me incontro, posandomi addosso le sue zampe: la povera bestia non si dava pensiero degli abiti ch’io portava, e credeasi sempre permesso di trattare la fiera alunna di madama Colmann come la piccola guardiana di pecore. Un — va via, Black, — accompagnato da un colpo di verga sulle irrispettose sue zampe, che gli strappò un grido di dolore, fu la sola ricompensa che ottenne per l’atto tenero questo amico, uno dei più antichi e più fedeli ch’io m’ebbi.
Black si allontanò ad orecchi bassi, e scuotendo la testa come se parlasse e rispondesse a sè stesso.
Il piccolo pastore, che m’avea surrogata a guardia del gregge, si alzò, vedendo ch’io m’appressava, e mi disse quando gli fui vicina:
— Ah! siete voi, madamigella Emma! Quanto siete bella!
Gli sorrisi; era il solo complimento senza misto d’amaro ch’io avessi ancor ricevuto. Gliene seppi buon grado: si vedrà l’influenza che queste parole ebbero più tardi sul mio destino.
— Buon giorno, Dick,[1] gli rispos’io, tu sei un buon [30] figliuolo e saresti bello tu pure se fosti meglio vestito.
— Oh! io, seguitò egli, non sono che un povero contadino, nè muterò probabilmente mai il mio vestito; ma voi pare si sia saputo che siete una signorina.
Egli faceva allusione alle voci sparse intorno, circa una relazione che avrebbe avuto mia madre col conte di Halifax, dopo ch’ella ebbe ricevuto da quel signore cento lire sterline.
Non gli risposi, perchè non comprendeva ciò ch’egli volesse dire: gli chiesi nuove di sua sorella, fanciulla presso a poco della mia età, che serviva in una fattoria vicina alla nostra, e che avea nome Amy Sturg.
— Oh, diss’egli, ella sta bene, e sarebbe lieta di vedervi così bene abbigliata.
— Credi? gli chies’io.
— Certo, rispos’egli: ella vi ama molto, madamigella Emma, e non è punto invidiosa della fortuna altrui.
Era giunta vicino alla fontana: mi chinai per guardarmivi, ma non osai, — ne ignoro il perchè, — in presenza di Riccardo dare alla mia immagine il bacio ch’io le dava quand’era sola.
— Oh! disse Riccardo ridendo, guardatevi nelle nostre sorgenti, un giorno vi guarderete in grandi specchi dorati, quali ve n’ha nella bottega del mercante di Hawarden. Quando passerete dinanzi la sua porta, potrete fermarvi e guardarvi dalla testa ai piedi senza che ciò vi costi nulla.
Sedetti vicino alla fontana non pensando più a cercare in essa un’incompleta riproduzione della [31] mia immagine, ma vagheggiando di vedermi dinanzi ad un grande e bello specchio dorato, in una camera elegantemente addobbata, dai tappeti turchi, dalle cortine di seta cilestri come il mio abito, dai mobili riccamente ornati. Chiusi gli occhi per non veder più la realtà, e concentrarmi nel mio sogno.
— Oimè! quante volte ho io avuto di questi sogni, profetici baleni dell’avvenire!
Donde poteano venirmi questo visioni di cose incognite? Forse i primi miei sguardi avevano veduto splendori prontamente svaniti, ma che aveano lasciato nella mia giovine mente i riverberi d’un mondo anteriore. Quando io parlava di queste vaghe rimembranze a mia madre, ella si contentava di rispondermi che io aveva probabilmente avuto a matrina una fata, che la notte mi avea fatta viaggiare nei suoi palazzi.
Questa volta ancora la mia matrina mi prese per mano, e per più d’un’ora mi fe’ trascorrere i suoi fantastici dominj.
Mi riscossi sorridente e lieta, e riaprendo quegli occhi che avean traveduti i più vaghi colori dell’arcobaleno:
— Addio, Dick, gli dissi; domani entro in collegio, ma i giovedì e le domeniche ritornerò alla masseria, e di tanto in tanto verrò qui per vederti.
E mi allontanai senza pensare a Black: il povero animale, che non avea compreso il mio accoglimento, non comprese il mio addio. Mi seguì di qualche passo, ma men lungi della prima volta, e sedette per guardarmi a scendere la collina.
Volsi un ultimo sguardo a quell’angolo che fu l’Eden della mia fanciullezza, e che io riveggo ancora [32] col suo boschetto di querce e di ginepri, col suo poggio coperto d’un tappeto di surcelle rosse colla sua sorgente d’acqua viva, che va a cadere nella vallata a piccole cascate. — Black mi guardava con occhio triste, come fanno gli amici disconosciuti: io non pensai neppure a chiamarlo nè a consolarlo: la povera bestia avea al vedermi tentato di farmi comprendere il suo affetto, ma non avea potuto dirmi, come Dick, che io era bella.
Fu questa la mia prima ingratitudine.
Si vedrà invece come fui riconoscente, e troppo, a Dick.
Il domane, siccom’era convenuto, mia madre mi condusse da madama Colmann. Vi fui ricevuta come si riceve ogni alunna che entra in collegio, ogni monaca che fa noviziato. Le sotto maestre ebbero raccomandazione di usarmi indulgenza, e madama Colmann condusse ella stessa mia madre in dormitorio, le fe’ visitare il letto preparato per me, e le mostrò ad uno ad uno gli oggetti di toeletta che mi erano destinati.
Tutti quei nuovi oggetti, che erano per me un avviamento al lusso, mi fecero tollerare gli sguardi sdegnosi delle mie nuove compagne; e presi commiato dalla mia povera madre, assai più commossa di me, senza versare troppe lacrime.
Fui interrogata su quel che sapevo; l’esame non fu lungo: non sapevo assolutamente che le mie preghiere, secondo il rito anglicano, nel quale ero stata educata. Di lettura e scrittura non avevo mai avuto notizia: mi fu dunque forza cominciare dall’alfabeto, e, malgrado i miei nove anni, che già mi davan la [33] pretensione di essere una giovinetta, entrare nella classe delle bambine di cinque a sei.
Fu una grande umiliazione per me; ma in questa occasione il mio orgoglio, che spesso mi fu tanto fatale, mi servì; vergognandomi della classe in cui mi trovava, feci sforzi inauditi per innalzarmi alle classi superiori. — In capo a due o tre mesi leggeva passabilmente e cominciava a scrivere: mi si fe’ allora passare nella classe dell’aritmetica e dell’inglese, ove trascorsi sei mesi, dopo i quali fui ammessa in quella classe che chiamavasi delle grandi. — Là imparavasi la geografia, la storia, la musica ed il disegno.
Avevo già fatto qualche progresso in queste due arti, quando un bel mattino mia madre, piangendo, venne a dirmi che il mio protettore, il conte di Halifax, s’era ucciso subitamente cadendo da cavallo, ed era morto senza nulla lasciarci.
La mia pensione era pagata per un mese ancora; ma dopo questo mese mia madre sarebbe stata obbligata ad interrompere la mia educazione, non avendo mezzo di pagarne le spese.
La novella che la piccola contadina, i cui progressi aveano spesso assai umiliate le belle signorine, sarebbe astretta di tornar a guardare i suoi montoni, cagionò una gioia generale nella classe delle grandi, dove facean parte le mie tre prime nemiche, che mi avevano serbato un rancore inglese. Ispirai qualche rammarico nelle classi inferiori, ove passando mi avea fatta qualche amica; madama Colmann finse d’asciugarsi una lacrima nel lasciarmi, per dare il buon esempio alle sue alunne, ma si guardò bene dall’offerirmi di continuar gratis la mia educazione, [34] sebbene mi avesse più d’una volta detto, soprattutto quando mia madre veniva a pagarle il trimestre, che io sarei fra uno o due anni la gloria del suo istituto.
Lasciai il collegio, portando meco, per unica consolazione, i miei oggetti di toeletta ed un uniforme nuovissimo, coll’ingiunzione però fattami da madama Colmann di non servirmene, non facendo io più parte del suo istituto.
Del resto me ne andai dopo 18 mesi, recando dalla casa di madama Colmann una educazione abbozzata su tutti i punti, ma imperfetta su tutti. Sapea leggere e scrivere; un po’ d’aritmetica, un po’ di geografia, un po’ di storia, i primi elementi di disegno e di musica, vale a dire, a parte la lettura e la scrittura, nulla che potesse essermi utile. Non era abbastanza per sovvenire alla mia salvezza; ma, dagli orizzonti traveduti, era più che non abbisognasse per la mia perdizione.
Mia madre pure avea ricevuto la ripercussione della sventura che mi colpiva. Saputo che ella era ridivenuta la povera vedova senza risorse, la massaia l’aveva risospinta alla sua prima posizione, vale a dire a domestica della fattoria.
Quanto a me, per metà signorina quale era diventata, non era più atta a nulla; non potea tornare a custodire il gregge come una pastorella di Marmontel col mio abito color di cielo e il mio gran cappello di paglia. Si cercò dunque per me un’occupazione diversa.
Un giorno la sorella di Dick, Amy Strog, venne ad annunziarmi che sua madre mi aveva trovato il posto nella famiglia del signor Tommaso Hawarden, che portava non so perchè il nome della città che abitava, [35] cognato dell’ultimo Alderman Boydel e padre dell’illustre chirurgo di Leicester Square. Questo posto, che riuniva le incumbenze di aia de’ fanciulli e d’istitutrice per la prima età, era ben lungi dal corrispondere ai miei sogni d’ambizione; ma bisognava vivere, e non aveva la scelta dei mezzi.
Mi si compose un corredo dei resti di quello del collegio, si trasformò la mia veste azzurra in una veste ordinaria; e siccome io guadagnava dodici scellini al mese ed il vitto, si lasciò a cura della mia economia lo arricchirmi d’altri oggetti.
Fu una grande umiliazione per me il rientrare in Hawarden in una posizione poco dissimile dalla servitù, ma era questo uno dei primi capricci del Dio Caso, che pare aversi fatto un gioco di innalzarmi ed abbassarmi a vicenda.
Voi siete testimonio, o mio Dio, se dall’imo dell’abbassamento, da cui non ho più speranza di rialzarmi, vi benedico e v’imploro col cuore più riconoscente di quel che non ebbi al sommo della grandezza!
[37]
Entrai presso il signor Tommaso Hawarden il 20 settembre 1778: potevo avere dai 12 ai 13 anni.
Il signor Hawarden era un vero antico puritano, grave e giusto in ogni cosa. Sua moglie era dal canto suo fredda e severa: i bimbi, su cui doveva vegliare, erano figli della lor figlia unica, morta etica durante un viaggio del padre loro in America.
Erano tre: i due maggiori avevano 4 o 5 anni; l’ultimo era ancora lattante.
Un gran oriuolo a pendolo, simile a quello dello zio Tobia, pareva essere la divinità regolatrice della casa: tutti i sabati a mezzogiorno lo si caricava, e mediante questa cura, cui non vidi il signor Hawarden mancare una sola volta, tutta la settimana si trascorreva [38] congegnata a ruote non meno esatte di quelle del pendolo.
Voi mi domanderete chi rimpiazzava il signor Hawarden nel caricare l’oriuolo al sabbato a mezzogiorno, se egli doveva assentarsi. Vi risponderò che il signor Hawarden, sapendo di avere al sabbato quest’importante occupazione, veniva a casa a undici ore e mezza se era fuori, ovvero se dovea sortire non se ne andava che a mezz’ora dopo mezzogiorno.
Durante un anno, che io passai presso il signor Hawarden, nol vidi mai fare un passo più veloce dell’altro, mai dire una parola più forte dell’altra, mai sorridere una sola volta, mai una volta sola adirarsi, mai rifiutare una sola occasione di far il bene, mai commettere un’ingiustizia per quanto leggera la fosse.
Madama Hawarden era letteralmente l’ombra del suo sposo. Ella facevami l’effetto di quelle buone donne che indicano sul barometro il bel tempo e la pioggia, ove la donna esce o rientra dietro al marito ripetendone i gesti, aprendo l’ombrello s’egli lo apre in segno di tempesta, chiudendolo s’egli lo chiude ad indicare il sole.
Il signor Tommaso Hawarden doveva esser ricco, per quanto non abbia visto splendere altro denaro che i dodici scellini ch’io riceveva tutti i primi del mese, alle 10 del mattino colla esattezza ordinaria, dalla mano scarna e bianca come l’avorio di madama Hawarden. Tutta la casa apparteneva ai due coniugi: guardava da una parte sulla strada principale della città, dall’altra sopra un giardino dai viali sparsi di sabbia marina, dalle aiuole circuite di bossolo, [39] dai tassi tagliati a piramidi. Un giardiniere avea cura di questo giardino, in cui non vidi mai una foglia secca, un fiore divelto: i fanciulli vi passeggiavano, ma sapeano di non avere il diritto di trastullarvisi, ed esser loro proibito di toccare i fiori ed i frutti.
In estate ci alzavamo alle sei; alle sette in inverno. Alle otto, tutta la famiglia, padroni e servi, entravamo in una specie d’oratorio, ove sopra un seggio stava una Bibbia dai fermagli d’acciaio. Il signor Hawarden leggeva questa Bibbia e una preghiera, cui sua moglie rispondeva — Amen. — Finita la lettura e chiusa la Bibbia, entravasi nella sala da pranzo, ove era imbandita una colezione, composta di latticini, di burro e di latte: un gran vaso da thè, al quale ognuno aveva il diritto di ricorrere a volontà, ma a cui pareva tacitamente convenuto che non si ricorrerebbe che due volte, conteneva una dozzina di tazze: eravamo cinque a tavola, il signor Hawarden, madama Hawarden, i due fanciulli ed io, che, grazie alla parte delle mie attribuzioni che innalzavami al grado d’istitutrice, aveva il diritto, poco invidiato del resto dagli altri domestici, di mangiare al tavolo del padroni.
Quando il pendolo faceva sentire quel rumore che negli orologi di questo genere precede il suono delle ore, ci alzavamo tutti da tavola, era per ciò rarissimo che qualcuno si trovasse ancora in sala quando suonava la mezza.
A mezzogiorno preciso si andava a pranzo, eccettuato il sabato in cui tardavasi d’un minuto, perchè il signor Tommaso Hawarden caricasse il pendolo. Senza essere di lusso, il pranzo era convenevole: la [40] bevanda ordinaria era la birra; ma ognuno riceveva in una piccola bottiglia un bicchierino di vino di Bordeaux che dovea servire pel pranzo e la cena: i fanciulli, un mezzo bicchiere. Il pranzo durava un’ora.
A cinque ore si merendava con dei sandwich, del pane di segale, del burro e qualche dolce; veniva in campo la thetiera della colazione, il thè costituiva la sola bevanda, e, come la colezione, la merenda durava mezz’ora.
Alle otto si cenava: la cena era presso a poco la ripetizione del pranzo, tranne che i fanciulli non vi assistevano: alle sette e mezzo si dava loro una fetta di pane coperta di burro, o miele, a loro scelta, e poi si coricavano.
Non li ho mai uditi a piangere una sol volta, a meno che cadendo non si facessero molto male.
Il giovedì dopo pranzo si metteva il cavallo al calessino. I bimbi, la nutrice ed io vi salivamo, ed il cocchiere ci conduceva in qualcuno dei prati che confinano colla città di Hawarden.
Allora era per noi tutti una festa. Il peso, che la diacciata atmosfera della casa aggravava sui nostri petti, si sollevava; perfino il lattante parea più lieto: la nutrice passeggiava, e i due fanciulli correvano meco nell’erba, cogliendo fiori ed inseguendo farfalle.
I bambini mi adoravano perchè io era bambina com’essi.
Il sabato sera, dopo cenato, la vettura attendeva alla porta. Tutti vi salivano, eccetto il giardiniere che rimaneva a guardia del giardino e della casa, incamminandosi verso la campagna.
[41]
Chiamavasi campagna un gran poggio, sito a due leghe e mezza da Hawarden, fra Chester e Flint, sulle rive della Dee, presso a poco ad un quarto di lega del luogo ove si getta nel mar d’Irlanda, o piuttosto nel golfo che vi comunica.
Si impiegavano due ore e dieci minuti a fare la strada, mai più, mai meno; il cocchiere frustava tre volte il suo cavallo; la prima volta partendo, la seconda volta a mezza via, la terza arrivando al viale.
La prima volta che vidi il mare ebbi una profonda sensazione; quantunque il golfo della Dee sia assai stretto, potevasi da un monticello scoprire all’orizzonte il largo mare: stesi le braccia verso l’infinito, con un gesto appassionato, come se avessi visto l’eternità.
La domenica, che durante i sette bei mesi di primavera, d’estate e d’autunno, trascorremmo invariabilmente alla campagna, era consacrata alla preghiera ed al passeggio; in quel giorno io aveva la direzione dei bimbi non solo dopo colazione, come il giovedì, ma ancora dopo pranzo.
Ivi non avevamo bisogno di carrozzino. La campagna posta sulla destra riva della Dee, fra la riviera ed il golfo, ci offeriva a scelta o la spiaggia del mare per raccogliervi conchiglie, o l’argine della riviera per cogliervi fiori. Tutto il terreno compreso fra il fiume ed il mare poteva offerirci una passeggiata di tre quarti di lega.
Là la libertà era ancor più grande che il giovedì nei prati di Hawarden: insomma erano due giorni di sole per cinque giorni di ombra: la mia vita non è sempre stata così ben divisa.
[42]
Un giorno, — era la domenica della prima settimana del maggio 1777, — verso le due pomeridiane, alla nostra seconda escita del giorno, vedemmo in riva al mare una bella barca guidata da 4 o 5 rematori. I banchi a poppa erano coperti di tappeti e ornati di cuscini in velluto.
Qualche passo più oltre un uomo era seduto sopra uno sgabello, e disegnava una contadina del paese di Galles, che avea fra le braccia un bambino: una giovin donna stavagli a fianco in piedi e guardava al di sopra della spalla i progressi del disegno.
L’uomo e la giovine, benchè indossassero abiti da campagna, erano vestiti con ricercata eleganza: divinavasi che erano abitanti di Londra smarriti nel Flintshire.
I fanciulli, spinti dalla curiosità, mossero verso il gruppo: io li richiamai, ma quanto erano obbedienti in casa, tanto erano caparbi quando si sentivano in libertà; non mi risposero, e continuarono a correre fino a che giunsero l’uno vicino alla dama, l’altro al disegnatore.
Ambedue si volsero.
— Ecco un bel fanciullo, disse l’uomo posando la sua mano sul capo del fanciullo come per vederlo meglio. Come vi chiamate, mio piccolo amico?
— Edoardo, rispose il bimbo.
— E voi, madamigella? chies’egli alla bambina.
— Sara, rispos’ella.
— Non è egli strano, Arabella? seguitò il pittore, sono i nomi dei due miei figli.
Poi con un sospiro:
— Essi aveano l’età loro l’ultima volta ch’io li vidi.
[43]
E restò pensoso senza curarsi di ripigliare il suo disegno.
Frattanto gli occhi della dama s’erano fissati su me, e pareano inchiodati al mio viso.
— In fede mia, mormorò ella, ecco una splendida creatura. Osservate dunque, Romney.
E gli posò la mano sulla spalla a destarlo dalla sua meditazione.
Egli scosse il capo come uomo che volesse scacciar dal suo spirito un triste ricordo.
— Che dite, Arabella? domandò egli.
— Dico che vi voltiate, e guardiate dietro a voi invece di guardarvi dinanzi.
Il pittore guardò dalla mia parte, e parve compreso da meraviglia.
— Avvicinatevi, madamigella, mi disse la dama, e lasciate che vi guardiamo a nostro bell’agio: siete bella abbastanza perchè si abbia piacere a vedervi.
Il mio volto arrossiva per vergogna, ma il mio cuore gioiva: non era più un piccolo pastore che dicevami bella; non erano più sprezzanti compagne che mi trovavano bella, e mi rimproveravano d’esser goffa; erano un signore ed una signora di città che mi ammiravano francamente e senza restrizione.
Mi appressai macchinalmente.
Il pittore mi stese la mano; gliela diedi.
— E qual mano, non dirò ella ha, ma ella avrà, seguitò il pittore: guardate, Arabella.
— Oh! credete pure che la guardo con egual piacere di voi, Romney. Io non sono, la Dio grazia, gelosa. Puossi chiedervi il vostro nome, madamigella?
[44]
— Mi chiamo Emma, madama, risposi.
— E l’età vostra? chiese il pittore.
— Devo avere presso a poco quattordici anni, signore.
— Come, dovete avere...?
— Mia madre non mi ha detto mai precisamente la mia età.
— È la figlia di qualche duchessa, disse Romney.
— No, signore, rispos’io; sono la figlia d’una semplice contadina.
— Questi due fanciulli, chiese la dama, sono fratello e sorella vostri?
— No, madama: i loro genitori li hanno affidati alla mia custodia, ed io insegno loro a leggere e a scrivere.
— Dite dunque, Romney, disse la dama curvandosi verso il pittore per parlargli sottovoce; qual fortuna farebbe ella a Londra con un fisico come il suo?
— Non vogliate perderla, tentatrice.
Poi volgendosi a me:
— Miss Emma, mi diss’egli, vorreste voi rendermi un gran servigio?
— Volontieri, signore, e quale?
— Volete voi star ferma cinque minuti, affinchè io faccio uno schizzo di voi.
— Con piacere, signore.
— Allora rimanete come vi trovate in questo momento.
Restai: egli fe’ un mezzo giro sul suo sgabello, e in meno di dieci minuti ebbe fatto all’acquarello un grazioso schizzo di me stessa.
Seguii avidamente il pennello sulla carta.
[45]
Quando fu ultimato, mi mostrò il disegno.
— Vi riconoscete voi? mi chies’egli.
— Oh! gli diss’io, arrossendo questa volta dal piacere, non sono così bella.
— Mille volte di più, — ma, vedete voi, Arabella, per questa trasparenza di carni, per questa limpidezza di sguardo, per questi morbidi capelli, abbisogna l’olio. — Venite a Londra, madamigella, quando sarete stanca d’abitare la provincia; e per ogni seduta d’un’ora, che vorrete, spero, accordarmi, vi darò quel che vi si dà in un anno per l’educazione di questi bimbi.
— Chiamatemi ancor tentatrice, Romney.
— Fate a vostra volta le vostre proposte, Arabella, non ve lo impedisco.
— Oh! quanto a me, se venite a Londra, madamigella, e vi contentate del posto di semplice dama di compagnia a dieci lire il mese, mi troverete sempre lieta di ricevervi. Datemi un pezzo di carta e una matita, Romney.
— Che volete farne?
— Dare il mio indirizzo a questa bella fanciulla.
— A quale scopo, disse Romney alzando le spalle.
— Chi sa? disse Arabella.
— Ed avrete l’ardire dì tener quel viso lì presso di voi, Arabella?
— Perchè no? rispose la dama con aria provocante: io sono di quelle che cercano i confronti anzichè sfuggirli.
Poi, rivolgendosi a me:
— Tenete, madamigella, in ogni caso eccovi il mio indirizzo, diss’ella.
[46]
E mi porse il foglio, su cui erano scritte queste parole, miss Arabella — Oxford Street, 23.
Lo presi senza sapere quel che ne farei, senza intenzione di servirmene, come Eva prese il pomo senza intenzione di mangiarlo.
— Andiamo, disse la giovine, andiamo, Romney: siamo attesi a Park Gate fra un’ora, ed abbiamo tutto lo stretto a traversare.
Il pittore si alzò, gettò un luigi appiè della contadina che avea presa a modello, e venendo a due passi di distanza da me:
— Venite a Londra, madamigella, farete bene; non vi venite, farete meglio ancora. Frattanto, — e mi salutò della mano, — addio, o a rivederci.
— A rivederci, gridò Arabella, ponendo il piede nella barca.
E la fragile navicella si allontanò rapidissima sotto lo sforzo di quattro rematori.
Io, pensosa e taciturna, ricondussi a casa i bambini.
[47]
Se si ricorda l’effetto che m’avea prodotto Dick quando, parlandomi di un grande specchio dorato nel quale mi vedrei dal capo ai piedi, mi avea trasportata nel magico regno della fata Morgana, è facile ideare le folli visioni che sursero nel mio cervello dopo la mia conversazione col pittore e la sua bella compagna.
Non comprendeva metà delle parole ch’essi aveano scambiate fra loro, o che mi aveano dirette, ma aveva capito soltanto l’offerta fattami dal pittore di cinque lire ad ogni seduta, in cui gli poserei dinanzi; e da miss Arabella di dieci lire al mese, se accettava di essere sua damigella di compagnia. Ambedue insomma mi avean detto che, andando a Londra, una fortuna mi attendeva.
[48]
Certo non era un posto molto elevato quello di damigella d’una donna, la cui condizione mi pareva dubbiosa, ma per me, povera figlia d’una domestica di fattoria, per me, guardiana di montoni, tre anni innanzi spregiata alunna di madama Colmann, da dodici mesi istitutrice di bimbi a quattro pences circa il giorno, era un gran passo fatto verso questa promessa fortuna lo arrivare a ricevere cento lire l’anno invece di sette od otto.
Poi Londra, Londra dal magico nome, la città di cui tutti parlavano, ove tutti volevano andare, ove si gettano tutte le ambizioni, come tutti i fiumi al mare, — Londra! — Non era già egli un gran che lo essere a Londra, in una città che conta un milione e mezzo d’abitanti, invece di vivere in un borgo di Flintshire, in mezzo ai monti del paese di Galles, presso le spiaggie triste e deserte del mar d’Irlanda?
E nel rientrarvi il lunedì mattina, la casa del signor Tommaso Hawarden mi parve di fatti più fosca e malinconica che mai.
Una cosa ancora contribuì alla mia mestizia. Come al solito, il vegnente lunedì condussi a far trastullare nel prato i fanciulli: — era seduta sopra un albero atterrato, errando col pensiero in quella vasta città sconosciuta, cui tendevano i miei desiderj, quando udii un rumore di passi e un cicalìo, che mi si appressava.
Alzai il capo: erano le mie antiche compagne che si dirigevano dalla mia parte.
Il caso non me ne avea condotto alcuna dinanzi dopo la mia uscita di collegio, ma in compenso me le menava oggi tutte in massa.
[49]
Mi levai in piedi per salutare madama Colmann, ma parve ella appena riconoscermi, e mi rispose con un lieve cenno del capo, senza volgermi parola.
Le mie tre nemiche, invece, mi riconobbero: nel passarmi dinanzi, la maggiore, che avea nome Clarice Damby, disse alla sua vicina, Clara Sulton:
— Vedi, ecco la nostra antica compagna Emma Lyon. Pare ch’ella non guadagni di più come aia di bimbi, che come guardiana di montoni, giacchè ha ancora l’abito del collegio.
E si posero a ridere.
Alcune delle più giovani mi riconobbero; una sola lasciò le compagne e venne ad abbracciarmi; si chiamava Fanny Campbell: era la figlia d’un sergente di marina.
Ventidue anni dopo, questo bacio salvò la vita a suo padre.
Ma il bacio non cancellò il sarcasmo che lo avea preceduto.
Ed era vero, io aveva ancora il mio uniforme: aveva tanto avuto cura di quel della domenica, che durava ancora, e aveva potuto metter da parte gli uni dopo gli altri i dodici scellini che riceveva al mese.
Era il mio tesoro, vale a dire la libertà.
Dacchè stava presso il signor Hawarden avevo accumulato sei lire sterline: le mie sei monete d’oro erano chiuse in un cassettino dell’armadio nella camera mia, la cui chiave io non abbandonava un momento, precauzione inutile per altro nella casa del signor Hawarden, ove si avrebbe potuto lasciare il diamante del gran Mogol senza tema che fosse derubato.
[50]
Sì, io aveva sempre lo stesso abito; Clarice Damby aveva detto il vero, ma andando a Londra e divenendo damigella di compagnia di miss Arabella con dieci lire il mese, e modello del signor Romney con cinque lire ogni seduta, potrei bene mutar le mie vesti tutti i mesi, tutti i quindici giorni, tutte le settimane!
Mai tentazione morse più violentemente il cuor d’una donna di quella che m’assalì in quell’istante: guardai la carta che teneva in seno ripetendo ben dieci volte:
— Miss Arabella, Oxford Street, 23.
Anche perdendo quel foglio, l’indirizzo era indelebilmente scolpito nel mio cervello.
Rientrata in casa, vi trovai un nuovo ospite; il Signor James Hawarden, quegli che, come ho detto, era chirurgo a Leicester Square.
Egli giungeva da Londra, e doveva restare otto giorni presso suo padre: durante otto giorni udrei dunque a parlare di Londra!
Il mio aspetto produsse su lui l’impressione che produceva su tutti: ei m’interrogò sulla mia famiglia, su me: mi chiese quel che contassi di fare e il perchè non andava a Londra, ove ei s’incaricherebbe, mi disse, di trovarmi un posto.
Poi, mentre il mio cuore batteva tanto da spezzarmi il petto di desiderio e speranza, dopo avermi guardata un momento con una suprema espressione d’interesse:
— No, diss’egli, è meglio assai che non vi veniate.
Io moriva dal desiderio d’interrogarlo, ma non l’osai in presenza del signor Hawarden padre: fece il caso che questi uscisse; allora, prima ancora che la [51] porta si richiudesse, queste parole m’erano uscite di bocca:
— Conoscete voi il signor Romney?
— Quale Romney? chiese il signor James.
— Il pittore, rispos’io.
— Chi non conosce Romney! È il più gran ritrattista dei tempi moderni. — Poi, crollando le spalle: Che peccato!..... seguitò egli.
Ma non terminò la sua frase.
Io lo guardai interrogandolo cogli occhi, non osando farlo colle labbra.
— Sì, soggiunse egli, che peccato che una sì grande immoralità sia congiunta a tanto genio! — Egli aveva una moglie adorabile, due vezzosi bambini, ed ha tutto abbandonato per vivere con donne di teatro e cortigiane, che logorano la sua salute e smungono il suo avere. Egli pagherebbe un modello venticinque lire sterline, se questo modello gli offrisse qualche nuova bellezza. — Ma come conoscete voi Romney?
— Non lo conosco, rispos’io, arrossendo; una mia compagna di collegio era sua parente.
Il signor Hawarden rientrò: io mi tacqui. Il severo puritano avrebbe per certo trovato mal fatto che io tenessi con suo figlio una conversazione su tal materia.
Non riparlai più di Romney col signor James Hawarden: sapeva quanto volea sapere. Non osai interrogarlo su miss Arabella; temevo di conoscere quel ch’ella fosse; il dubbio mi permetteva di servirmi della sua offerta.
D’altronde la prima parola di quelli che mi vedevano non era essa che io doveva andare a Londra? [52] Vero si è che riflettendovi ognuno se ne disdiceva; ma che avea dunque Londra di tanto spaventevole? Sopra un milione e mezzo d’individui che l’abitavano eranvi ben certo due o trecento mila fanciulle dell’età mia. Per abitar Londra erano elleno perdute?
Dopo gli otto giorni il signor James Hawarden partì: il suo interesse per me non avea fatto che accrescersi durante il suo soggiorno dal padre; e nel lasciarmi, egli mi disse che se mai io andassi a Londra, cosa ch’egli non mi augurava, mi ricordassi di lui.
Non era a temersi ch’io nol facessi; aveva scritto nella mia mente il suo indirizzo con quel di miss Arabella.
Qualche giorno dopo la partenza di lui, fece il caso che, uscendo per andar a riprendere i bambini che erano andati a scorrere un’ora da una loro parente, passassi dinanzi il negozio di specchi, di cui mi avea parlato Dick cinque o sei anni innanzi.
Trasalii nel vedermi tutta intera in uno degli specchi esposti alla porta del magazzino; mio malgrado, sostai come affascinata dalla mia propria immagine.
In quel momento sentii toccarmi una spalla; mi volsi e riconobbi Amy Strug, che io non aveva vista da un anno.
Senza essere elegante era vestita assai meglio di quel che non convenisse al suo stato: la guardai dunque con sorpresa.
Ella vide ch’io stava per interrogarla, e non me ne diè il tempo.
— Che facevi tu là, mi chiese.
[53]
Mi posi a ridere.
— Lo hai ben veduto, risposi.
— Sì, ti guardavi in uno specchio, e ti vedevi bella; ed avevi ragione. Vorrei esserlo quanto lo sei, e so ben io quel che vorrei fare.
— Che faresti?
— Non resterei a lungo nel ducato di Galles.
— Dove andresti?
— A Londra; tutti dicono che con un bel fisico si fa fortuna a Londra: procura di andarvi; e quando sarai milionaria mi prenderai teco per cameriera.
Trassi un sospiro.
— Non è il desiderio che mi manca, le dissi.
— Ebbene, chi te lo impedisce?
— Come vuoi tu che all’età mia io parta sola per Londra.
— Se non ti manca che una compagna di viaggio, eccomi.
La guardai.
— Parli seriamente? le dissi.
— Nol potrei più seriamente.
— Ma fa mestieri di molto denaro per andare a Londra.
— No, al contrarlo; con una lira vi si va: me ne sono informata a Chester. Con una lira si ha un posto nell’interno della diligenza: noi prendiamo due posti con due lire e in tre giorni siamo a Londra.
— Ma tua madre?
— Mia madre, disse Amy, con una smorfietta; oh! v’ha un po’ di freddezza fra noi dopo la mia uscita dalla fattoria.
— Non sei dunque più da madama Rivers?
[54]
— No..... anzi, tanto vale che io ti dica il tutto. Immagina dunque che suo figlio Carlo venne a vederla. Nel tempo ch’el fu da sua madre mi ha fatto la corte; in fede mia io lo trovava troppo bello per non lasciarmela fare: sua madre se l’ebbe per male e mi ha messa alla porta. Carlo ha creduto di dovermi un compenso pel posto ch’io aveva perduto a cagion sua, e prima di partire mi ha dato quindici lire. Cinque mi sono occorse nella compera d’abiti onde avea gran bisogno; me ne restano dieci, vuoi tu venir meco a Londra? te ne do cinque. Oh! me le renderai, non ne sono inquieta.
— Grazie, Amy, le rispos’io; ma son quasi ricca quanto lo sei: ne ho sette.
— Hai sette lire, ed io dieci: abbiamo diciassette lire! ma abbiamo tanto da fare il giro del mondo! aggiungendo soprattutto che Carlo è a bordo d’un vascello.
— Oh! le diss’io, se fossi certa...
— Certa di che? chiese Amy.
— Che la dama, di cui ho l’indirizzo, fosse tornata a Londra.
— Una dama ti ha dato il suo indirizzo?
— Sì.
— E a quale scopo?
— Perchè io vada da lei come damigella di compagnia. Mi offre dieci lire al mese.
— Dieci lire al mese! e tu esiti?
— Son quindici giorni appena che la ho veduta, in riva al mare, presso alla campagna del signor Hawarden.
— Dove abitava?
— Ho udito loro a nominare Park Gate.
[55]
— Hai loro udito nominare! Ella non era dunque sola?
— Era con un pittore, il quale m’ha offerto cinque lire per ogni volta che io volessi servirgli da modello.
— Come! hai trovato una dama che ti offre dieci lire, un pittore che te ne offre cinque ad ogni seduta, ed hai rifiutato? — Se tu fossi cattolica, direi che vuoi essere canonizzata. Partiamo, Emma: tu farai la tua fortuna dapprima, quindi la mia.
— Se vi fosse mezzo di sapere se sono ancora a Park Gate, o partiti.
— Nulla di più facile.
— E come?
— Non abbiamo noi Dick che vuole egli pure venire a Londra, e che noi condurremo con noi, giacchè siamo tanto ricche? In qual giorno vai tu alla campagna coi tuoi padroni?
— Tutte le domeniche.
— Dammi il nome del tuo pittore e quel della tua dama.
— Il pittore si chiama Romney, la dama miss Arabella.
— Romney — miss Arabella — Prender notizia a Park Gate del luogo ove si trovano. — Sta di buon animo, non dimenticherò nulla. Sabato sera partirò per Chester con Dick: domenica, alle dieci del mattino, io passeggerò in riva al mare: fa di trovarviti e ti darò la risposta.
— Ma Dick, vuoi fargli perdere il posto di pastore?
— Oh! da gran tempo egli non è più a guardia dei montoni.
[56]
— E che fa egli allora?
— Nol saprei bene — nulla — un po’ di contrabbando, probabilmente.
— Oh! mio Dio! ma i contrabbandieri son mandati in galera.
— Sì, quando li prendono, ma Dick è furbo e non si lascia prendere; solo, siccome egli comincia ad essere conosciuto sulle nostre sponde, non gli dorrebbe di mutar paese, — quindi, a domenica.
— A domenica, ma non ti prometto nulla.
— Chi ti chiede di promettere qualche cosa? Quando saremo là, combineremo. Solo, non dimenticare nè il tuo denaro nè la valigia.
E si allontanò con passo noncurante e leggero, a provarmi che per conto suo tutte le sue riflessioni erano fatte.
Io restai un istante immobile e pensosa allo stesso posto: mi allontanai a mia volta volgendo un ultimo sguardo allo specchio.
Disgraziatamente lo specchio mi diede lo stesso consiglio di Amy Strog.
[57]
Come al solito, il sabato vegnente all’ora stessa degli altri sabati, partimmo per la campagna. Il cavallo s’ebbe i tre colpi di frusta cui era avvezzo, e dopo due ore e dieci minuti ponemmo piede a terra.
Non avevo punto dimenticate le istruzioni d’Amy: aveva prese meco le mie sette lire aumentate da dodici scellini, che il signor Tommaso Hawarden mi avea pagati il dì innanzi, ma non ebbi bisogno di valigia per chiudere la mia roba: una salvietta annodata ai quattro lati erami bastata.
Sarebbe difficile lo esprimere i sentimenti che mi assalirono nell’entrare in quella casa che io rivedeva forse per l’ultima volta, da cui mi allontanava [58] forse la notte seguente, fuggitiva, senza saper dove andassi, ed in qual nuovo ed incognito mondo mi slancerei, sotto la protezione di quella capricciosa divinità che si chiama Caso.
Considerai, qualora la mia fuga venisse risoluta, quali sarebbero gli ostacoli che avrei a superare: disgraziatamente non erano tali da arrestare una testa folle come la mia. La camera dei fanciulli e mia era a pianterreno e guardava sul giardino, la porta del quale metteva alla spiaggia, e sulla spiaggia Amy e Dick, liberi da ogni sorveglianza, potevano attendermi.
Il domani all’ora stabilita io era sulla spiaggia coi bimbi: Dick e Amy mi aspettavano al posto stesso ove un mese prima avevo incontrato Romney e miss Arabella, i quali da tre settimane erano partiti da Park Gate, ma non potea sapersi ove fossero andati: siccome però s’eran fatti condurre a Chester, recavansi probabilmente a Londra.
Nel dubbio, Amy e Dick eran d’avviso di partire: Dick soprattutto parea desideroso di allontanarsi dalle coste d’Irlanda. Siccome su’ tre pareri ve ne avean due per la partenza, la maggioranza prevalse.
La vettura per Londra ponevasi in cammino il domani, alle sei del mattino, e Amy aveva avuta la cautela di ritenere i nostri due posti nell’interno, e quel di suo fratello sull’imperiale.
A mezzanotte mi aspetterebbero ambedue alla porta del giardino: una barca ci condurrebbe a Chester, ove arriveremmo un’ora almeno prima della partenza del Coach-Post.
[59]
Prese queste disposizioni, Amy e Dick si allontanarono.
Il giorno trascorse colla consueta regolarità: ho osservato che nulla passa più presto delle giornate regolari, o piuttosto che, una volta passate, nulla pare essersi più velocemente dileguato, attesochè, lasciando solo uniformi ricordi, e non essendo notate da alcun avvenimento piccante, questi ricordi si cancellano nella tinta fosca e monotona d’una vita senza gioie e senza dolori.
Giunta la sera, i bambini si coricano all’ora solita; io andai a cena coi coniugi Hawarden, poi, alle dieci precise, entrai nella mia camera. Ebbi la precauzione di portarvi penne, carta ed inchiostro, volendo scrivere due lettere, una al signor Hawarden, l’altra a mia madre.
Scrissi al primo, ringraziandolo della bontà che aveva avuto per me, dicendogli che non dimenticherei mai l’anno che avevo avuto la fortuna di passare in sua casa, ma che un desiderio più forte della mia volontà mi trascinava verso quel paese di chimere che ha nome Londra; che io partiva raccomandandomi alle sue preci e a quelle di sua moglie, come fa al suo salire in un fragile schifo il povero marinaio, che si avventura in un incognito mare.
Scrissi a mia madre che, avendo trovato a Londra, presso una ricca signora, un posto eccellente che dovea fruttarmi dieci lire al mese, io partiva per quella città. Aggiunsi, ma senza darle altre spiegazioni, che se il posto fosse quale mi si annunciava, non tarderei a provarle la mia riconoscenza per le cure prese di me: le dissi infine che se io non mi recava [60] a farle i miei addii, si era nella tema di non aver più il coraggio di staccarmi dalle sue braccia.
Scritte queste lettere, piegatele, e postivi gl’indirizzi, mi sentii più tranquilla.
In un’altra famiglia avrei potuto temere che i padroni si ritirassero tardi, ovvero l’incontro del giardiniere o qualche altra persona in giardino; ma la casa del signor Hawarden era troppo bene regolata, perchè mi avvenisse un tale inconveniente.
Udii a suonare le 11, poi la mezza al pendolo della sala da pranzo, simile per esattezza a quello di Hawarden; colla differenza, che in luogo del sabato a mezzogiorno, veniva caricato alla medesima ora nella domenica. Lasciai trascorrere ancora dieci minuti circa; abbracciai nel lor letto i bimbi, che, dalla regolarità con cui dormivano, attestavano la incontestabile figliazione; apersi la finestra, e da questa scivolai nel giardino, tentando, se non di chiuderla, almeno di avvicinarne le due imposte.
Appiè della finestra fui costretta a fermarmi un istante: per quanto non avessi gran che a temere, il mio cuore batteva violentemente: per soprappiù la notte era tetra, e dacchè abitavo Hawarden io era ricaduta in quei puerili timori ispirati dalle tenebre, che non avevo avuti giammai quando abitavo la masseria e scorrevo le mie notti nelle montagne.
Ma in capo a qualche secondo, questo terrore, piuttosto prodotto dall’azione stessa che io commetteva, che dalle condizioni in cui la eseguivo, questo terrore svanì; i miei occhi si abituarono alla oscurità; grazie alla ghiaia ond’era sabbiato il terreno, io lo vidi svolgersi dinanzi ai miei occhi come una lunga e fosca striscia: questa striscia menava direttamente [61] alla porta del giardino che metteva al mare.
Corsi verso questa porta: giuntavi, sostai: mi pareva d’aver udito a parlare dall’altra parte del muro: era ben naturale, Amy e Dick erano là che mi aspettavano.
Ripigliai fiato e chiesi a mezza voce:
— Sei tu, Amy?
La voce d’Amy risposemi affermativamente: udii inoltre la stessa voce che diceva a Dick:
— È dessa, eccola.
Era evidente che essi, malgrado l’accordo della mattina, temevano ch’io mancassi alla mia parola.
Apersi la porta girando solo la chiave e tirando due catenacci. Per vero nessuna fuga, seguita da così strani risultati, fu accompagnata da men romantici avvenimenti.
Dietro la porta mi attendevano Amy e Dick. Osservai che Dick era armato di una corta carabina e d’un paio di pistole. Egli s’era fatto un robusto giovinotto di 18 anni, dall’aspetto coraggioso e risoluto.
Chiuse la porta e la serrò al di fuori colla chiave, affinchè, noi partiti, nessuno potesse introdursi nel giardino, e gettò la chiave dall’alto del muro.
Una piccola barca attendevaci a qualche passo di distanza: Amy ed io vi salimmo prime; Dick la spinse e vi saltò dentro, mentre già cominciava a correre sull’acqua; poi, impadronitosi dei remi, vogò arditamente.
Era, il ricordo, una bella notte dell’agosto 1797, la notte del 15 al 16 luglio, quando abbandonai la placida casa che non dovea più rivedere, lasciandomi dietro tutte le innocenti rimembranze della fanciullezza, [62] attraverso le quali non dovea più ripassare che in sogno, e per dire, come Francesca da Rimini:
«...... Nessun maggior dolore,
Che ricordarsi del tempo felice
Nella miseria;..........»
Trentasett’anni sono decorsi da quella notte, e quando chiudo gli occhi, e mi concentro nei miei pensieri, mi par che sia ieri, e riveggo tutti gli oggetti che colpirono in quel momento i miei occhi e preoccuparono il mio spirito.
Il cielo era oscuro, ma dalla sola assenza della luna: milioni di stelle brillavano nel fosco suo azzurro, riflettendosi nell’azzurro più cupo ancora delle acque del golfo. La casa del signor Hawarden, dinanzi a cui passavamo tacitamente, lasciandoci dietro un solco che si cancellava all’istante, scompariva alla nostra destra come una massa grigia: un fuoco splendeva al sommo d’una collinetta sulla costa che avevamo appena lasciata, e sull’opposto lido un cane latrava in qualche invisibile fattoria.
Approdammo verso le tre all’altra riva del golfo. Dick allogò il suo battello vicino ad uno schifo ancorato alla spiaggia: al suo richiamo due uomini si alzarono: egli scambiò con essi qualche parola, consegnò loro le sue armi, strinse la mano dell’uno, abbracciò l’altro, saltò a terra e ci porse la destra per discendere: i suoi addii eran fatti.
Movemmo per la via di Chester, discosta presso a poco una lega dal lido. Una lega era ben poca cosa a campagnuoli come noi: portai il mio piccolo fardello; Dick, il quale probabilmente non possedeva che gli abiti che indossava, s’incaricò di quello d’Amy.
[63]
Arrivammo a Chester all’apparire del giorno. Dick ci condusse in una specie di taverna vicina all’ufficio della diligenza: Amy ed io ci facemmo portare una coppa di latte ciascuna: Dick, meno pastorale di noi, trangugiò un bicchiere d’acquavite. L’ora trascorse alla meglio, e alle sei montammo in carrozza.
La strada non ci offrì incidente alcuno che meriti d’esser qui ricordato. Traversammo le città principali del centro dell’Inghilterra, Lichfield, Coventry, Oxford, ed il terzo giorno arrivammo a Londra verso le quattro del pomeriggio.
Dick s’era munito dell’indirizzo d’un piccolo albergo, ove qualche parola di riconoscimento dovea farlo il benvenuto, essendo, a quel che pareva, l’albergatore in relazione con tutti i contrabbandieri della costa.
Quest’albergo era sito nella piccola via di Villiers, che confinava da un parte col Tamigi, dall’altra collo Strand.
Confesso che al mio entrare in Londra fui più impaurita che sorpresa. Quelle vetture che s’incrocicchiano in tutti i sensi; quel clamore continuo, in mezzo al quale tenterebbe invano di farsi udire quello del tuono; que’ pedoni spaventati che corrono anzichè andare; quell’atmosfera che da limpida e pura, quale l’avevamo sentita, viaggiando nelle campagne, erasi fatta fosca e grave, dacchè eravamo entrati nella città; quel miserabile albergo, ove eravamo venuti a cadere, dopo una corsa di sessanta ore, tutto ciò insomma non era fatto per dare una dorata e poetica realtà ai miei sogni.
Dick chiese una camera per Amy e per me, e siccome l’incertezza in cui ero sulla presenza di miss [64] Arabella a Londra non mi lasciava un istante di riposo, tosto ultimata la mia toeletta, presi il braccio di Dick e mi feci da lui condurre a Oxford Street. Dick non conoscea meglio di me la via che conduceva a questa meta di tutte le mie speranze, ma ne prese notizia, e siccome Oxford Street era poco distante dal nostro albergo, in men d’un quarto d’ora vi fummo.
Il numero 23 era impresso alla porta d’una graziosa palazzina, dal cui cortile, attraverso un’inferriata, distinguevasi la lussureggiante verdura d’un giardino.
Uno Svizzero in gran livrea stava ritto sul limitare della porta.
Ebbi un certo timore nel dirigere la parola ad un personaggio che parevami considerabile, e con voce tremula per doppia emozione, gli chiesi se miss Arabella era a Londra.
— Che volete da sua signoria? domandommi egli.
— Ho avuto l’onore d’incontrarla a Chester or fa quasi un mese, e mi ha detto di venire a ritrovarla in Londra: ed ecco l’indirizzo ch’ella mi ha dato, risposi.
Lo Svizzero sonò una campana, ed una cameriera discese.
— Rispondete a questa fanciulla, mistress Northon, disse lo Svizzero, ripigliando la sua maestosa immobilità.
Ripetei alla donna quel che avevo già detto allo Svizzero, e le presentai l’indirizzo datomi da miss Arabella.
— È di fatto la scrittura di madama, diss’ella, [65] dopo averlo letto, ma disgraziatamente, madama non è a Londra.
— Oh, Dio mio! E dov’è ella? Ed io che venni qui solo per lei!
— L’ultima sua lettera veniva da Douvres: ci annunziava ch’ella partiva per la Francia.
— E, chies’io col cuore affranto da questo primo disinganno, nulla vi fa sospettare l’epoca del suo ritorno?
— Nulla; — è probabile però che madama sia qui per le corse.
— E quando avranno luogo queste corse?
— Dal 15 al 25 agosto.
— Che fare? diss’io, volgendomi a Dick.
— Eh! rispos’egli, attendere.
— Se madamigella vuole scrivere il suo nome, ripigliò la cameriera, appena tornata madama, le si mostrerà.
— Volentieri.
Entrai nella stanzina dello Svizzero e scrissi — Emma Lyonna.
— Avrete la bontà di dire a madama, seguitai, che è la giovanetta da lei incontrata nel ducato di Galles, in riva al mare, ed alla quale ella ha dato il suo indirizzo, perchè venisse a raggiungerla in Londra.
— Ed ove si potrà trovarvi, se madama ordina che vi si cerchi?
— Nol so ancora; arrivo da mezz’ora appena ed ignoro quel che farò.
— Per ora, disse Dick, abitiamo....
Lo interruppi comprendendo che l’indicazione del nostro albergo darebbe poca opinione di noi.
[66]
— Per ora, dissi, si saprà sempre ove trovarmi — presso il signor James Hawarden chirurgo a Leycester Square.
Volete che aggiunga, al mio, il suo indirizzo?
— È inutile: egli ha curato Tom quando si ruppe la gamba.
— Grazie; ed ora, dissi a Dick, abbiate la bontà di condurmi dal signor Hawarden.
Dick s’informò del sentiero da prendere. Per fortuna Leicester Square non era molto discosto da Oxford Street, e ripigliammo il nostro cammino.
[67]
Anche il signor James Hawarden era fuor di casa, ma dovea rientrarvi prima delle sette, ed erano le cinque e mezzo.
Mi si offerse d’attendere. Io pregai Dick di rientrare all’albergo e tornar a prendermi due ore dopo.
Dopo una mezz’ora, udii battere tre o quattro colpi alla porta; era il padrone che, rientrando, s’annunciava in tal modo.
Io lo aspettava in una specie di parlatorio; e quantunque la luce fossa scemata per l’appressar della notte, egli mi riconobbe subito.
— Ah! siete voi mia bella fanciulla? mi diss’egli con un sorriso misto ad una certa tristezza; m’immaginavo, nel lasciare Hawarden, che non tarderei molto a rivedervi a Londra.
[68]
— È egli un rimprovero che mi fate, signore? chies’io.
— No, la gioventù è ardita, e la bellezza ha i suoi destini venturosi o fatali, ai quali non può sfuggire. — Volete entrare nel mio gabinetto? Vi saremo più liberi per parlare, giacchè suppongo che avrete non poche cose a dirmi.
— Se voi siete tanto buono da ascoltarmi....
— Venite, figliuola mia.
E, prendendo un candeliere, mi precedette.
Entrammo e sedemmo in un gabinetto elegante e semplice in una volta.
— Ebbene, eccovi dunque, mi diss’egli; e che venite a far qui?
— Signore, gli dissi, quando vi ho chiesto se conoscevate il pittore Romney, dicendovi ch’egli era parente d’una mia compagna di collegio, ho mentito.
Il signor Hawarden sorrise d’un singolare sorriso.
— V’ingannate, signore, soggiunsi arrossendo; non ho visto che una sola volta il signor Romney: egli stava alla spiaggia del mare con una dama a nome miss Arabella.
— Diffatti, disse il signor Hawarden, mi fu detto ch’egli viaggiava con essa.
— Ora, ripigliai, lasciate ch’io vi dica la verità.
E gli raccontai il nostro incontro in tutti i suoi particolari; l’indirizzo datomi da miss Arabella; le offerte fattemi da ambedue; gli dissi senza nulla celargli come avevo lasciata la casa di suo padre, come ero venuta a Londra, e la visita senza risultato fatta poco prima ad Oxford Street.
Egli mi lasciò dir tutto, poi, guardandomi fiso e serrando le mie nelle sue mani:
[69]
— Figlia mia, mi disse con una gran dolcezza, ma al tempo stesso con una certa solennità, quando si ha l’età vostra e la vostra bellezza, due sono i cammini nella vita: l’uno, diritto e semplice attraverso una pianura dall’aspetto monotono e tranquillo, che mena col matrimonio e la maternità ad una vecchiezza onorata ed onorevole; l’altro, che si eleva talvolta per lasciarvi travedere splendidi orizzonti, talvolta si abbassa per forzarvi a traversare fangose paludi: seguendo questo, si giunge per tre stadi al fine della vita: l’uno si chiama l’orgoglio, il secondo la fortuna, il terzo l’onta. Voi siete al bivio delle due strade. Vedete quale delle due volete seguire.
— Oh! signore, potete voi domandarmelo?
— Sì, fanciulla mia, posso e devo chiedervelo, giacchè, prima d’essere moralista, lasciatemelo dire, sono filosofo. Ora io non credo, come dicono certi spiriti assoluti, che l’uomo fruisca interamente del suo libero arbitrio; credo al potere irresistibile della materia sull’anima, più che al comando dell’anima sulla materia. Ancorchè prendiate la via retta e semplice, talora l’oscurità della notte, talora l’ebbrezza de’ sensi, ve ne faranno ritorcere. Buoni consigli ed una buona guida vi rimetteranno in cammino; ed io sarovvi, ove il vogliate, guida e consiglio; ma hanvi condizioni primitive in certe organizzazioni, di cui non possono trionfare nè i consigli, nè l’esempio: la società le respinge, la legge stessa le punisce, ma la scienza le compiange e qualche volta anche le assolve. È però sempre una fortuna di più lo scegliere il buono anzichè il cattivo sentiero: è già una bontà della Provvidenza il non aver [70] trovata quella donna: volete voi promettermi di non andar mai di moto proprio, nè a casa di lei nè da Romney?
Stetti muta.
— Voi esitate? mi diss’egli.
— No, signore; ma io aveva vagheggiato un avvenire melodioso e dorato, mi si è tanto detto che, venendo a Londra, vi farei la mia fortuna, che vi sono venuta senza punto curarmi del modo con cui la si farebbe. È egli troppo il chiedervi cinque minuti per dar tempo all’illusione di dileguarsi?
— Povera fanciulla! mormorò il dottore.
Restai pensierosa: sentivo il suo sguardo fiso nel mio, e parevami che questo sguardo mi penetrasse nell’animo, dandogli una forza di volontà sconosciuta fin allora.
— Signore, gli dissi dopo alcuni momenti, vi prometto di non cercar mai di rivedere nè miss Arabella nè il signor Romney: vi prometto di non andar da loro, ma se essi vengono a me, se io li incontro senza cercarli, non vi prometto di aver la forza di resistere alla tentazione.
— Avrai fatto quanto potevi, rispose il signor Hawarden, e non si può chieder di più ad una figlia d’Eva.
In quel momento si udì batter due volte la porta; questi due colpi indicavano l’umiltà di colui che picchiava.
Io trasalii.
— Che avete? mi chiese il dottore.
— Signore, gli dissi, è probabilmente Dick, il fratello d’Amy, che viene a cercarmi. Se volete che io profitti dei vostri buoni consigli non mi lasciate [71] tornare presso l’amica: è dessa che m’ha fatto abbandonare Hawarden, è dessa che m’ha trascinata a Londra; e, se mi perdo, ho il presentimento di perdermi per mezzo suo.
— Sta bene; dite che vi fermate qui stasera, e che vi ritengo, perchè ho promesso di trovarvi un posto domani.
Il servitore che mi aveva introdotta aprì la porta del gabinetto, e volgendosi al suo padrone:
— Signore, disse, il giovinetto che ha accompagnato madamigella viene a riprenderla.
— Fatelo entrare, rispose il signor Hawarden.
Poi, aprendo una porta da cui vedevasi un salotto ove stava ricamando una giovin donna di 23 a 24 anni, con ai piedi un bimbo seduto che sfogliava un libro d’incisioni:
— Amica mia, le diss’egli, eccoti la giovinetta di cui ti ho parlato, tornando da Hawarden: ella è arrivata dalla casa di mio padre; sii buona tanto da darle ospitalità fino a domani: domani spero trovarle il posto che le conviene.
La signora si alzò e mi venne incontro.
In quel momento Dick comparve alla porta.
— Dick, gli diss’io, scusatemi con Amy, perchè mi fermo presso i signori Hawarden: se la speranza datami dal mio degno protettore si realizza, vi scriverò tosto.
— Ebbene, ve lo diceva io, madamigella, che non bisognava diffidare? Il buon Dio è buono, e v’ha a Londra posto per tutti: in ogni caso, signor Hawarden, potrete vantarvi di aver reso servigio a quella che era ieri la più bella fanciulla della provincia, e che è oggi probabilmente la più bella fanciulla [72] di Londra. A rivederci, madamigella Emma; signore e signora, Dio vi rimeriti.
Ed uscì felice della mia felicità.
Questa felicità non era precisamente quella che io aveva vagheggiata: ciò che a me pareva felicità era la vita clamorosa, agitata, colle subitanee fortune, le repentine catastrofi, le inaspettate peripezie. Certo quella donna che or ora m’aveva abbracciata come una sorella, che aveva abbracciato suo marito come un fratello, ed erasi, sorridente e tranquilla, riseduta accanto al bimbo, che dal canto suo non avea neppure alzato gli occhi dal libro per vedere chi entrasse; quella giovin donna che avea ripreso il suo ricamo con una mano, cui le passioni parevano non avere agitata giammai, che assortiva i colori dei fiori con una noncurante destrezza, ed una paziente abilità, quella donna era felice; ma come lo avea così bene spiegato il sapiente dottore hanvi nature alle quali non può bastare questa fredda e monotona felicità.
E ancora, qual probabilità eravi per me di giungere al punto cui ella era giunta? Era io nata ricca ed onorata com’essa, per trovare a diciott’anni uno sposo illustre nella scienza, che mi condurrebbe in un elegante salotto, caldo, dolce ed aggradevole come un nido? — No, io era una povera contadina senza beni di fortuna e quasi senza educazione: non osava rispondere quando mi si chiedeva quel che facesse mia madre, e poteva appena rispondere quando mi si domandava il nome del padre mio. Era bella, ecco tutto: dovea dunque chiedere alla mia bellezza ciò che le altre si aspettavano dalla nascita, dalla educazione e dal loro stato: non avendomi [73] largito che questo dono, Dio me lo avea forse dato per supplire a tutto ciò che mancavami.
Spettava dunque alla mia bellezza il decider di me, anzi che a me il decidere della mia bellezza.
Ecco le riflessioni che io facevo in vedere quella placida famiglia, in cui il marito leggeva, mentre la moglie ricamava ed il bimbo guardava le incisioni.
Ma, quale distanza da questa tranquillità a quel portamento altero e risoluto di miss Arabella, a quell’ardente entusiasmo, a quella vita libera, a quella gloria artistica di Romney! Erano senza dubbio bimbi che si trastullavano, e una moglie che ricamava come la donna ed il bimbo che io aveva sott’occhi, quelli ch’egli aveva abbandonati, e per verità, se ciò era così, io non mi sentiva coraggio di fargliene un delitto!
O folle giovinezza! o immaginazione insensata!
Oimè! quando, giunta all’altra estremità della vita, io guardo oggi con gli occhi del pentimento quel che guardava allora cogli occhi dell’illusione, come vorrei essere stata la dolce giovine, e aver trascorsa la mia vita a ricamar fiori, col marito accanto ed il bimbo a’ piedi, anzichè la brillante e colpevole Emma Lyonna, la ricca e possente Lady Hamilton!
Alle sette, madama Hawarden fece il thè: alle nove cenammo; tutta la differenza fra il signor Hawarden padre ed il Hawarden figlio fu nel far cenare il bimbo con noi. Alle dieci fui condotta nella mia camera. Dick aveva avuto cura di portarmi il mio piccolo fardello: i pochi panni che lo componevano e le cinque lire che mi restavano, dopo pagato il viaggio, erano tutto il mio avere.
Il domani, non sapendo se dovessi discendere [74] attesi che mi si prevenisse di quel che dovea fare: vennero ad annunciarmi che la colezione era pronta, e discesi.
Il signor James Hawarden rientrava allora appena.
Egli mi mosse incontro tutto lieto, dicendomi:
— Ebbene io sono riuscito, e sta ora e voi lo scegliere il cammino indicatovi ieri. Uno dei miei clienti, il signor Plowden, uno dei più ricchi gioiellieri di Londra, ha bisogno d’una damigella di magazzino. I vostri occhi potranno spesso far danno a’ suoi diamanti, ed i vostri denti alle sue perle, ma, in fede mia, tanto peggio per essi. Voi avrete cinque lire al mese dapprima, in seguito, si vedrà: dico in seguito, perchè non intendo che basti la raccomandazione che gli ho fatto per voi questa mattina. Ora è convenuto che voi entrate domani in funzioni; vi conduco da lui e vi colloco.
Poi guardandomi dal capo ai piedi:
— Diavolo! esclamò.
Io arrossii.
— La mia toeletta; non è egli vero?
— Sì; non avete un abito più fresco e un po’ più di moda?
Scossi il capo.
— Siete bella, per Dio, e non è ciò che m’inquieta; sareste vezzosa anche vestita di bigello e di cenci; ma bisogna avere una certa apparenza per entrare in siffatti negozi alla moda. Se vi fosse tempo da qui a domani...
In quel momento la cameriera di madama Hawarden entrò.
— Madama non è qui? chies’ella.
[75]
— No; che volete da lei?
— Madamigella Cecily la domanda.
— Appunto la sarta! disse il signor Hawarden; pregate Cecily di attendere, e madama di venir qui.
La cameriera uscì, e cinque minuti dopo entrò madama Hawarden. Io aspettava tutta confusa.
— Ti ho fatto chiamare, amica mia, le disse suo marito, per chiederti se, da qui a domattina, madama Cecily può fare un abito a questa fanciulla.
— Ciò mi par difficile; ma, aspetta.
Madama Hawarden mi guardò a sua volta con attenzione, ed appressandomisi, misurò alla mia la sua spalla.
— Credo che potrò trarvi d’impaccio, diss’ella.
— M’affido a te.
— La sarta, seguitò madama Hawarden, mi porta appunto un abito semplice ma elegante; madamigella ha la mia statura, è forse un po’ più gracile di me, in ogni modo se credi potremo combinarci così: essa potrà prendere il mio abito, e siccome io posso attendere, Cecily me ne farà un altro.
Suo marito la baciò in fronte.
— Tu sei un angelo, rispos’egli; no, m’inganno una santa, o piuttosto l’uno e l’altra ad un tempo.
Poi, volgendosi a me:
— Ciò vi conviene, madamigella, e vorrete voi portare un abito fatto per mia moglie?
— Ne sarò felice e orgogliosa.
Il signor Hawarden suonò il campanello.
— Fate entrare madamigella Cecily.
La sarta entrò.
— Vi lascio, ripigliò il signor Hawarden, la cosa dee passarsi fra voi.
[76]
Ed uscì.
L’abito pareva fatto a mio dosso.
Il domani alle dieci del mattino io era stabilita presso il signor Plowden, nel più bel negozio dello Strand, e il signor Hawarden prendeva commiato dal padrone del negozio, raccomandandomegli come fossi stata sua figlia.
Ho certo avuto molte vesti dipoi, ma non ne ebbi mai una che mi facesse più bella, e mi andasse meglio di quella di madama Hawarden.
[77]
Se il signor Hawarden avea creduto allontanarmi dalla tentazione, ponendomi in mezzo ai diamanti, agli smeraldi, ai rubbini, agli zaffiri, ed alle perle del signor Plowden, egli s’era di gran lunga ingannato. Quel dotto anatomico, che leggeva nel petto e nei visceri dei suoi ammalati le loro infermità fisiche, non avea saputo leggere nel mio cuore la infermità morale che lo divorava.
Farmi toccare ad ogni istante del giorno quei mille gioielli d’ogni forma, che costituiscono quel superfluo, tanto necessario, dirò anzi indispensabile, alla donna veramente donna: farmeli mettere al collo, ai polsi, agli orecchi di creature meno belle di me, ma che condotte a quella fonte di luce dai loro mariti [78] o da’ loro amanti, se li portavano via per adornarsene ai balli, ai teatri, alle feste, era far giocare la polvere col fuoco.
Dieci o dodici giorni dopo il mio collocamento, il signor Hawarden venne a chiedere mie nuove: gli furono date eccellenti: il signor Plowden era soddisfattissimo di me; pretendeva che la maggior parte dei signori che venivano a far acquisto di gioielli per le loro mogli o le loro amanti, si servissero del pretesto di queste compere per veder me, e che, se avessero osato, ne avrebbero fatto piuttosto dono al mio collo ed alle mie braccia, che a quelli delle loro donne.
Eravi in ciò molto di vero, nè io m’ingannava sull’effetto che produceva.
Il signor Hawarden, tutto lieto, chiese al suo cliente di permettermi di andare a trascorrere in casa sua la vegnente domenica, volendo egli farmi una sorpresa: mi ricondurrebbe il domani per tempissimo. Il signor Plowden acconsentì, tanto più volentieri quanto che la domenica a Londra non un magazzino è aperto; talchè la gentilezza ch’egli mi usava era più un vantaggio che una privazione per lui.
La casa del signor Hawarden non era, come si sarà potuto giudicare da quel po’ che ne ho detto, d’una folle allegria, ma i quindici giorni trascorsi seduta in negozio, astretta a mostrare i gioielli, ad encomiare le persone che se ne adornavano, ed a spingere gli avventori alla generosità, mi avevano insegnato ad apprezzare ventiquatt’ore, se non di piacere, almeno di riposo.
[79]
Poi il signor Hawarden avea parlato di sorpresa, ed io chiedeva a me stessa quale poteva essere.
La domenica mi trovai a Leicester Square all’ora dell’asciolvere.
Madama Hawarden mi ricevè colla dolcezza e la benevolenza che le erano abituali. Era una magnifica giornata d’agosto: si attaccarono i cavalli alla vettura e andammo a passeggiare a Hyde Park.
Non conosceva di Londra che Williers Street, Oxford Street, Leicester Square e lo Strand; quest’aristocratica gita fu dunque il principio della mia introduzione in un altro mondo. Quegli squadroni di cavalieri vestiti della ricca assisa dell’epoca, quelle eleganti amazzoni dalle vesti e dai veli fluttuanti, quegli squisiti modi dell’alta società inglese mi stupirono.
Avrei dato metà del tempo che restavami a vivere, per condurre uno di que’ leggieri calessi, che ci passavan dinanzi rapidi come il turbine, o per corvettare con uno di quei bel cavalli nel viali riserbati ai cavalieri.
Decisamente il signor Hawarden avea adoperato per guarirmi dall’ambizione e dall’orgoglio una cura che correa rischio di produrre un effetto totalmente contrario a quello ch’ei s’attendeva.
Tornammo per Green Park, che traversammo a piedi, pel piacere del bimbo, e rientrammo a casa per desinare.
Chiesi ai signor Hawarden se quella era la sorpresa di cui mi aveva parlato.
— No, mi diss’egli: pare vi siate divertita al passeggio; ma ho assai meglio di ciò ad offerirvi; voglio farvi vedere Garrick.
[80]
Ignorava completamente chi fosse Garrick. Non ebbi la debolezza di nascondere la mia ignoranza; gliene chiesi la spiegazione.
— Ah! è vero, mi rispos’egli, Garrick è il primo attore che sia mai stato al mondo.
Spalancai gli occhi.
— Egli recita probabilmente stasera per l’ultima volta, mentre per la prima esordisce una giovane attrice, cui promettono un grande avvenire, madama Siddons. Sheridan, del quale sono amico e chirurgo ad un tempo, mi ha serbato un palco per questa solennità, e, come m’ero proposto, ho voluto farvi partecipe di questa munificenza.
— Come! esclamai, andrò al teatro, vedrò una commedia?
— No, una tragedia, ma spero vi piacerà egualmente.
Misi un grido di gioia, battendo l’una contro l’altra le mie mani come una bambina.
— Oh! quanto siete buono, signor Hawarden! Vedrò una tragedia! Vi saranno dunque re e regine sulla scena!
— Oggi no, ma vi saranno due amanti che valgono un re ed una regina.
— E qual’è il titolo di questa tragedia?
— Giulietta e Romeo, uno dei quattro capo lavori di Shakespeare.
— Ed io la vedrò! esclamai con giubilo. Dio mio, quanto sono felice!
— Orsù alla buon’ora! disse il signor Hawarden, è una soddisfazione il procurarvi un piacere.
Io era di fatti in estasi: aveva udito più volte a parlar di teatro, ma non aveva idea di quel che [81] fosse. Alcune alunne di madama Colmann, che già avevano udito a recitare qualche compagnia di provincia, ne erano tornate tutte sorprese.
Che sarebbe dunque a Londra?
— A qual ora comincia? domandai al signor Hawarden.
— Alle sette e mezzo precise.
— E finisce?
— Presso a poco alle undici.
— Quindi lo spettacolo dura tre ore e mezzo?
— Ma da queste tre ore e mezzo bisogna detrarre gl’intermedj degli atti.
— Assisteremo al principio, non è egli vero?
— Saremo nel nostro palco all’alzar della tela.
— Ma Dio mio, non sono ancora che le sei!
— Meno cinque minuti, ma il tempo passerà: Abbiamo qualche cosa a fare; prima il thè da prendere, ed ecco appunto che ci viene portato; poi la vostra toeletta da preparare.
— La mia toeletta? Oh! sapete pure, signor Hawarden, che io non ho altro abito che questo, donatomi da madama; e, salvo che io non indossi una altra volta la famosa veste azzurra, cosa che, v’assicuro, non ambisco gran che....
— L’azzurro vi sta però bene.
— Sì, ma non l’abito: ricordatevi che tale è stata appunto la vostra opinione.
— Oh! ma tutto ciò si accomoderà, spero.
I miei occhi non si staccavano dall’oriuolo.
— Non ritarda il pendolo? chiesi.
— Nella famiglia Hawarden ciò non accade giammai; ed è perciò che, bevuto il thè, mangiato i dolci, ognuno entrerà nella sua camera, perchè saranno [82] le sei e mezzo, e bastano dieci minuti per andare da qui a Drury-Lane.
Mangiato e bevuto, salii alla mia stanza che era la stessa ove avea già dormito: ignorava quel che vi farei durante i quaranta minuti che ci separavano ancora dall’istante di lasciar la casa, quando vidi sul letto un grazioso abito di taffettà cilestre, che pareva quello della peau d’âne tagliato da un lembo del cielo.
Al tempo stesso la cameriera entrò.
— Madamigella, vuol ella permettermi di aiutarla a vestirsi?
Ed alzò l’abito nelle sue mani.
Allora compresi ciò che m’era rimasto oscuro nelle parole del signor Hawarden: non solo egli aveva pensato a condurmi in teatro, ma ancora a darmi una veste per andarvi.
Le lacrime mi spuntarono sul ciglio: sentiva il bisogno di correre a lui ed esprimergli la mia riconoscenza.
— Ov’è il signor Hawarden? domandai.
— Egli veste madama, onde io possa aiutare madamigella, acciò che ognuno sia pronto all’ora stabilita.
Io restai muta e triste dinanzi a quella suprema bontà, di cui mi riconosceva del tutto indegna, e fin’anco incapace ad esprimere la mia gratitudine.
Ero divenuta più astratta che impaziente; pensava a quell’uomo che godeva d’una stima universale, che era uno dei primi chirurgi di Londra, anatomico eminente, scienziato di prim’ordine, e che si dava la pena di vestire sua moglie affinchè la figlia [83] della povera serva di fattoria, l’aia dei bimbi di suo padre, la damigella di magazzino non giungesse troppo tardi allo spettacolo, e non perdesse alcun che della felicità che ne attendeva.
Avvi nel genio una misericordiosa bontà pe’ piccoli, una suprema benignità pe’ deboli, che lo avvicina alla onnipotenza di Dio.
Alle sette ed un quarto battè egli stesso alla mia porta.
— Ebbene, mi chies’egli, siamo presti?
Io gli afferrai vivamente la mano, e prima che egli avesse tempo di indovinare la mia idea, gliela baciai.
Egli mi guardò: doveva essere senza dubbio assai bella, perchè con un muover di spalle pieno d’affettuosa pietà:
— Confessa, diss’egli, additandomi a sua moglie, che usciva in quel momento dalle sue camere, confessa che la sarebbe pure una grave sventura se questo portento della creazione si avviasse al male?
Poi, come pentendosi d’aver dato questo alimento al mio orgoglio:
— Andiamo, andiamo, soggiunse; in carrozza: ho promesso a questa fanciulla che arriveremmo prima dello alzar della tela.
Difatti ci sedevamo nel nostro palco al momento in cui cominciava la sinfonia; ebbi tempo di volgere uno sguardo all’intorno. Sheridan, che era il direttore del teatro, lo avea fatto addobbare a nuovo dal primo decoratore di Londra.
Avremmo potuto crederci in un palazzo di fate.
[84]
Io, abbagliata dalla luce, magnetizzata dalla musica, affascinata dall’oro, dai diamanti e dai fiori, non potendo comprendere come si riunissero tante ricchezze senza rovinare l’universo, mi sentiva incapace di dire e di comprendere dove mi fossi.
Il sipario si alzò, ed io non vidi più altro che una pubblica piazza in Verona.
[85]
Coloro che mi hanno seguita in tutte le fasi della mia oscura ed ignorante fanciullezza, possono farsi un’idea dell’effetto prodotto in me da questa rappresentazione di Giulietta e Romeo, recitata dal più gran tragico che già vantasse l’Inghilterra, e dalla più gran tragica che dovea vantare in avvenire. Il mio cervello, bianco ancora come le pagine d’un vergine libro, ricevette tutte le impressioni di poesia, d’affetto, di pietà, d’orrore, racchiuse in quell’ammirabile poema, le quali, incidendosi nel mio spirito, portarono tutti i miei sensi al più alto grado d’entusiasmo e d’esaltazione.
Aveva appunto l’età di Giulietta; era bella ed appassionata com’essa: compresi quel subito amore da lei sentito pel giovine Montecchio, che le fa esclamare [86] nella previsione d’una prossima morte, il primo giorno, o piuttosto la prima notte del loro abboccarsi.
— «Corri, nutrice, corri; informati s’egli è ancor libero, chè ove fosse ammogliato, oimè, te lo giuro, la bara sarebbe il mio letto nuziale.»
Il signor Hawarden contava sul mio viso le fluttuazioni del cuore e l’abile psicologo vi leggeva tutte le mie impressioni: era per lui uno studio curioso, misto a quella dolce soddisfazione che ispira la vista del piacere o della felicità altrui procacciata.
E, difatti, il mio piacere e la mia felicità eran grandi: quando vennero le scene del balcone, tanto poetica la prima, tanto appassionata la seconda, io, strette le mani sul cuore a comprimerne i battiti, anelante, coll’occhio immobile, il respiro sospeso, avrei voluto, siccome Giulietta, rattenere e nello stesso tempo spingere fuor dalla scena Romeo.
Si giudichi dunque a qual grado di terrore io giungessi quando Giulietta, bevuto il filtro che deve addormentarla, trema pensando al suo destarsi sola nel sepolcro de’ suoi avi, in mezzo ai defunti, e all’idea di veder questi morti uscire dalle loro tombe.
Poi venne la catastrofe, catastrofe che mi produsse tanto maggiore effetto, perchè nuova, non solo a me, ma agli altri uditori. Si sa che, nella tragedia primitiva originale di Shakespeare, Romeo muore accanto all’avello di Giulietta, ignorando ch’ella è soltanto addormentata, e Giulietta non riprende i sensi che dopo morto Romeo.
Per un lampo di genio drammatico, Garrick ha visto, o piuttosto ha divinato, a fianco di quale terribile [87] scena il gran Drammaturgo sia passato, senza avvedersene; ed ha svegliata Giulietta al momento in cui Romeo, credendola morta, si è avvelenato: invece di far le due morti isolate e, per conseguenza, solitarie, egli ha dato ai due amanti una stessa agonia, che finisce per l’uno col veleno, per l’altra col pugnale. E con questa intuizione egli ha portato la scena dal dolore alla disperazione, dal bello al sublime.
Al momento in cui Giulietta si uccide, io mi rovesciai all’indietro e svenni, mentre la intera adunanza, ringraziando Garrick della sua prodigiosa invenzione, e dello splendido talento onde avea fatto mostra, ruppe in applausi.
Il mio deliquio non fu pericoloso: con un po’ di acqua fresca tornai in me: non seppi che prendere e stringere le mani del signor Hawarden, e, senza punto curarmi della convenienza o della sconvenevolezza dell’atto, mi gettai nelle braccia di sua moglie e la baciai.
Tornammo in casa: la cena era imbandita, ma, come è facile comprenderlo, io non pensai a gustarne; aveva gli occhi pieni di luce, la mente piena di poesia, il cuore pieno d’amore e di lacrime.
Chiesi al signor Hawarden il permesso di ritirarmi nella mia camera; egli me l’accordò, poi, prendendo un libro dalla sua biblioteca, e ponendomelo in mano:
— So quel che volete, diss’egli; vorreste far ritorno in teatro; ebbene, andatevi.
E mi diede un libro.
Era un volume di Shakespeare, ove trovavasi la tragedia di Giulietta e Romeo.
[88]
Trassi un grido di gioia; il signor Hawarden avea divinato il più ardente desiderio del mio cuore, e lo avea prevenuto.
Mi slanciai nella mia stanza, e, adagiatami sopra una sedia a bracciuoli, rilessi dal primo all’ultimo verso la produzione.
Poi tornai alle scene principali, alle scene d’amore fra Giulietta e Romeo, cominciando da quella del ballo a quella delle tombe.
Io era incapace di apprezzare il genio che avea creato questo capolavoro di dramma e poesia, ma il mio cuore pieno di gioventù, di speranza e d’amore, suppliva alla scienza colla intuizione.
D’altronde, non aveva nulla dimenticato, nè un gesto dell’attore, nè un accento dell’attrice: e qual attore? Quale attrice? Garrick e madama Siddons!
Verso le tre del mattino, col cuore e la testa in fuoco, ma vinta dalla stanchezza, mi coricai. Fui per sognare ch’io era Giulietta, per stringermi fra le braccia un Romeo ideale, e morire con lui di dolore e d’amore.
È vano il dire in quale disposizione di spirito io rientrassi il domani al magazzino. Avea chiesto al signor Hawarden il permesso di portar meco il magico libro, che io mi teneva stretto al cuore, quasi temessi che la poesia di cui era copioso, gli prestasse le ali per isfuggirmi. Oh! come i riguardi ch’io era astretta di usare agli avventori, le adulazioni che la mia posizione mi obbligava a far loro, le lodi alle merci che io loro offeriva, come pesarono al mio cuore e parvero basse al mio orgoglio! Esser bella quanto Giulietta, avere un cuore pieno d’amore e di poesia quanto il suo, e provar gioielli [89] in un negozio, fosse anche quello del primo gioielliere di Londra, invece di strascinare un abito di broccato in un ballo, invece di scambiare parole d’amore con un bel cavaliere dall’alto al basso d’una finestra, invece di ascoltare il canto degli uccelli e discutere coll’uomo del cuore, se sia quello del rosignuolo o dell’allodola. Eravi, bisogna convenirne, un abisso da quel che era a quel che poteva essere, dal sogno alla realtà.
Non osai leggere nel giorno: e, l’avessi ardito, il tempo mi sarebbe mancato, essendo il negozio del signor Plowden uno dei meglio avviati di Londra, ed io occupatissima per conseguenza: attesi con impazienza le dieci della sera, ora in cui chiudevasi.
Appena chiuso, salii alla mia camera.
Non mi limitai più a leggere: aveva in una notte imparato a memoria quasi tutto il dramma; le scene soprattutto di Giulietta m’erano rimase parola per parola nello spirito, e rammentava non solo i versi ma il tuono di voce con cui la grande attrice che rappresentava Giulietta, li avea pronunciati.
Allora mi studiai a riprodurre i gesti e le intonazioni, ma, orgogliosa ch’io m’era, per quanto perfetta mi fosse sembrata madama Siddons quando la vedeva e l’udiva, parevami, nel ridire quelli stessi versi, ch’ella avrebbe potuto giungere ad una maggior dolcezza di voce. Difatti, madama Siddons, come ebbi agio di giudicare in seguito, perfetta veramente nelle parti di Lady Machbeth e di Lady Hamlet, lasciava qualche cosa a desiderare in quelle più dolci, più affettuose, più varie di Giulietta e [90] Desdemona. — Ebbene, questa grazia del corpo, questo incanto della voce, pareva a me che la natura me lo avesse largito. La mia persona pieghevole, alta, armoniosa, poteva colle sue naturali ondulazioni giungere a quella perfezione di languore e di flessibilità che gl’italiani dinotano coll’intraducibile nome di morbidezza. Parevami di avere, cosa assai rara, la voce dolce e tragica: il mio viso, posso dirlo oggi, era tanto atto ad esprimere ogni impressione che, anche riproducendo le sensazioni più facili, era nella tristezza una melanconia, nella gioia un abbagliamento. Se la trasparenza del mio animo era già un po’ offuscata, il mio corpo era ancor puro; e la mia bellezza aveva quell’aureola d’incontrastabile innocenza, che fa rispettare, per quanto ignuda, la Venere dei Medici. In una parola, io seminava già il fuoco, ma non ardeva ancora.
Trascorsi una parte della notte a declamare e a gestire dinanzi un piccolo specchio, che riproduceva appena la quinta o sesta parte della mia persona.
Il domani madama Plowden, sia ingenuamente, sia ironicamente, mi chiese se io aveva l’abitudine di parlare ad alta voce sognando: i miei vicini di soffitta essendosi lagnati che io avea loro impedito di dormire, ella mi pregava a moderare gli slanci della mia voce, sia parlando desta, che in sogno.
Era un dirmi di rinunciare alla sola gioia vera che fosse venuta a visitarmi dacchè io era al mondo.
Continuai i miei studi notturni, ma sottovoce. La maggior illusione che mi sorridesse era quella di presentarmi ad un impresario, e farmi da lui scritturare: [91] pensava pure di farmi raccomandare a Sheridan, di cui non aveva obliato il nome, quantunque a quell’epoca non avessi alcun’idea della celebrità che lo accompagnava; ma come fare una simile domanda al signor Hawarden? Come aver la forza di dirgli che io voleva lasciare il negozio del signor Plowden, per farmi attrice? Che voleva abbandonare la via retta ch’egli mi aveva aperta per quella tortuosa che avea creduto di chiudermi? Questa forza, io lo sentiva bene, non l’avrei mai trovata in me stessa.
Che fare?
Attendere: rimettermi a qualcuno di quegli strani avvenimenti che mutano ad un tratto l’avvenire d’una vita, e aggrapparmi nel naufragio al fragile sostegno della speranza.
Quindici giorni decorsero di tal fatta, e furono forse i più dolorosi che io avessi ancora passati.
Era da più d’un mese presso il signor Plowden e da quindici giorni almeno provava i tormenti che ho tentato descrivere, quando un’elegante vettura fermossi dinanzi alla porta, e un lacchè vestito d’una livrea grigia e rossa aprivane lo sportello, che dava adito ad una donna abbigliata con ammirabile ricercatezza.
Appena ebbi volti gli occhi su questa donna, poco mancò non gettassi un grido.
Era miss Arabella.
Ella entrò in negozio col suo incedere risoluto ed altero; si sarebbe detta la regina della moda e della ricchezza, o meglio ancora, la stessa Fortuna.
Ella mi vide, incrociò col mio il suo sguardo, ma non un muscolo del suo volto indicò che mi avea riconosciuta.
[92]
Ciò non mi sorprese: senza dubbio non le era stato detto ch’io fossi andata da lei ed ella mi credeva sempre nel ducato di Galles, supponendo però che mi ricordasse, la sola cosa che potesse attirare i suoi sguardi su me, vedendomi a Londra, nel magazzino del gioielliere Plowden, era uno stupore cagionato dalla somiglianza.
Ma questo stupore ella nol fe’ in modo alcuno manifesto.
Chiese le si mostrassero de’ gioielli, e quantunque fossi io che glieli esibissi, ella non mi volse la parola che come ed una straniera che le fosse stata perfettamente sconosciuta.
Preferì un fregio di smeraldi attorniato di diamanti, del valore di tre mila lire sterline.
Fatta la scelta:
— Mandate questo fregio al mio palazzo oggi alle cinque, diss’ella, colla fattura e la quitanza.
Poi, additandomi con un semplice sguardo:
— Madamigella mi porterà il tutto, soggiunse.
Mi sentii correre un brivido pel corpo.
Il signor Plowden, riconducendola con ogni sorta di cerimonie fino alla sua carrozza, le promise che sarebbe stata obbedita.
— Madamigella, e non un’altra, ripigliò miss Arabella prima di salire; intendete, signor Plowden, o altrimenti non pago il vostro gioiello e ve lo rimando per non comprare più mai nulla da voi.
— La S. V. stia tranquilla, rispose il signor Plowden, che sarà fatto com’ella desidera.
Miss Arabella fe’ un cenno, e la carrozza partì a galoppo.
Io era annichilita: quell’inaspettato avvenimento, [93] che io invocava senza poter specificare, come quelle magiche evocazioni improvvisate dalla bacchetta d’una fata, era accorso alla mia chiamata. Io non aveva cercata miss Arabella che mi avea rinvenuta: qualunque cosa derivasse da quest’incontro, io non mancava alla parola data al signor Hawarden.
Alle cinque il signor Plowden fe’ venire una vettura, non stimando prudente di lasciarmi andar a piedi per Londra con un astuccio di tanto valore. Era il momento decisivo. Si appiccò in me una lotta violenta; fui sul punto di pregare il signor Plowden a risparmiarmi la tentazione; ma il tentatore mi stava nell’animo, — e vinse.
La carrozza si fermò ad Oxford Street, n. 23. Riconobbi la palazzina col giardino al fondo e lo Svizzero sulla porta. Egli suonò colla stessa maestà, e la stessa cameriera comparve. Dissi che veniva per parte del signor Plowden; l’ordine era dato di farmi entrare.
Miss Arabella stava in un salottino bianco e oro, tappezzato di raso azzurro; vestita riccamente alla foggia turca, con un’acconciatura di zecchini sul capo, un giubbettino di velluto color ciriegia ricamato in oro, che lasciava scorgere una parte del petto; i suoi piedi ignudi calzavano pantofole orientali color ciriegia e d’oro come il cinto.
Era seduta o piuttosto sdraiata sopra dei cuscini.
Fe’ cenno a mistress Northon di chiuder la porta e lasciarmi sola con lei.
— Madama, le diss’io con voce tremula e senza ardire d’alzar gli occhi, ecco il fregio che voi avete scelto dal signor Plowden ed il conto da voi richiesto. [94] Il signor Plowden vi fa dire che non avrebbe mandato il conto se l’ordine vostro non....
Ella m’interruppe.
— Siete dunque voi, piccola ingrata, disse; appressatevi.
La bellezza ha sempre avuto su me una potenza suprema, e miss Arabella era per vero d’una splendida bellezza.
Me le avvicinai, e mi posi in ginocchio come avrei fatto davanti a Venere, nel tempo in cui gli Dei scendevano in terra, se fossi stata una fanciulla di Pafo.
— Oh! madama, le dissi, completamente soggiogata, voi mi giudicate male. La mia prima visita a Londra fu per voi: si fu per seguirvi, per obbedirvi, per servirvi in ginocchio, come lo fo in questo momento, che io venni a Londra: vi sarà stato, spero, consegnato il mio nome, ma voi stessa lo avrete certo posto in obblio.
— Venite qui, mi diss’ella, e, prendendomi per mano, mi fe’ sedere su’ cuscini. Vedete pure, al contrario, che non vi ho dimenticata, giacchè vi ho seguita fino al magazzino di quell’orribile ebreo per nome Plowden. Ma perchè non siete tornata al palazzo?
Abbassai gli occhi, perchè stavo per mentire.
— Temevo che non foste ancora di ritorno.
— Perchè avete proibito in casa Hawarden che mi si desse il vostro indirizzo?
— Oh! non l’ho mai proibito, esclamai vivamente: fu senza dubbio il signor Hawarden che....
Ella m’interruppe.
[95]
— Che ha voluto salvare la vostra virtù, la quale, a parer suo, correa pericolo presso di me.
Chinai gli occhi arrossendo.
— Andiamo, voi non sapete ancora mentire: è letteralmente quel che io aveva indovinato.
E suonò il campanello. Madama Northon rientrò.
— Prendete, diss’ella, dandole un pacchetto di biglietti di banca già pronti: portate ciò al signor Plowden, e ditegli che io tengo il fregio e la persona che lo ha portato.
— Oh! madama, esclamai; come volete....
— Vorreste voi farmi credere che rimpiangiate il magazzino del signor Plowden e il posto di damigella da bottega? Andiamo, via, sarebbe un annientare le mie credenze in fisionomia. Qui, mia cara, soggiunse ridendo, potrete declamare a vostro bell’agio; nessuno si lagnerà che voi parliate sognando....
— Come, voi sapete...
— Sono assai curiosa: la curiosità, lo sapete, è il peccato delle belle donne. Dico dunque che potrete declamare a vostro bell’agio, senza contare che anderete in teatro ogniqualvolta vi piacerà.
— Oh! davvero, madama?
— Non è un gran favore ch’io vi faccio: ho un palco annuo che è sempre vuoto; ne profitterete a piacer vostro.
Rivolgendosi a madama Northon:
— Ebbene, che fate voi là, mia cara?
— Farò osservare a V. S. ch’ella attende una visita dalle cinque alla sei, e se vado io stessa dal signor Plowden, la persona può venire mentre io sono assente, e non troverà alcuno che la introduca.
[96]
— Avete ragione: mandate Tom. Se quella persona viene, voi la pregherete d’aspettare un momento in salotto, e mi farete avvertita; andate.
Mistress Northon uscì.
— Vediamo i diamanti, disse miss Arabella, con tuono svogliato.
Le presentai l’astuccio.
— Sono veramente belli.
— Oh! ne ho già tanti, mio Dio; ma Giorgio mi ha detto ieri che la pietra di sua preferenza è lo smeraldo, e bisogna pure far qualche cosa per coloro che vi... oh! la brutta parola che m’era venuta alle labbra! stavo per dire, che vi pagano, invece di dire, che vi amano.
Io la guardai: una specie di sudor freddo mi correva per la fronte: cominciavo a credere che il signor Hawarden avesse avuto ragione; ma era troppo tardi.
— Aiutatemi a mettere questo fregio, mi diss’ella.
E mi porse il suo collo, poi gli orecchi, poi le braccia.
Mi era io innalzata, od aveva disceso, passando del negozio dello Strand al palazzo della via Oxford? Là, era la serva del pubblico, qui la cameriera di miss Arabella.
Avevo appena affibbiato il secondo braccialetto, quando madama Northon rientrò.
— È lui, diss’ella.
— Dov’è?
— Nel salotto.
— Conducete madamigella all’appartamento che guarda sul giardino, e vegliate acciò non abbia a mancarle nulla. Incaricate Sara del suo servizio.
[97]
Mistress Northon aprì una porticina celata nell’intavolato e m’invitò a seguirla, mentre miss Arabella, alzatasi e fatti alcuni passi verso il salotto, diceva colla maggior dolcezza di voce:
— Entrate, mio caro principe.
[99]
Il mio appartamento componevasi di tre belle camerette che guardavano sul giardino: avevano l’altezza dei mezzanini comuni. Il balcone di quella del mezzo, tutto ricoperto di edera e di vite, prolungavasi a mo’ di terrazzo dinanzi alle finestre delle altre stanze, sotto a grandi alberi verdeggianti e frondosi.
La vista di questo poggiuolo fe’ balzarmi il cuore di gioia: mi ricordò la decorazione del secondo atto di Giulietta e Romeo: a mezzanotte, al chiaror della luna, con un accappatoio bianco, affacciata a questo balcone, nulla m’impediva di credermi Giulietta: non mancavami che un Romeo.
[100]
Appena mi vidi sola, pensai al nuovo mutamento fattosi nella mia vita, alla fatalità che mi spingeva, ed all’avvenire verso cui era trascinata. Certo, un volere più forte del mio disponeva della mia esistenza, senza lasciarmi tempo di resistergli.
Dapprima, un inaspettato sussidio del conte di Halifax mi toglie all’umile mia posizione ed alla mia ignoranza natía, per darmi un principio d’educazione più nocivo forse che utile; poi, questo soccorso mi manca, e il destino mi spinge in seno ad una buona ed onesta famiglia puritana, ove credo per qualche tempo fissata la mia vita, quando lo inaspettato incontro di Amy Strog, non crea, ma sviluppa con tal forza nel mio spirito nuovi progetti, che tento invano resistere alla mano che mi trascina, e vengo a Londra rispondendo all’appello d’una donna sconosciuta. La Provvidenza, che degna abbassare il suo sguardo infino a me, svia questa donna dal mio sentiero, e trovo, in luogo suo, un uomo dal cuore nobile, una donna dall’animo compassionevole e dolce; per essi io m’innalzo in un momento dallo stato di straniera a quello d’amica. Mi si cerca, mi si trova un posto, tanto più alto di quello ch’io occupava presso il signor Hawarden padre, quanto questo era già superiore alla mia prima posizione presso madama Davison. Da guardiana di montoni giungo ad essere damigella di fiducia d’uno dei più ricchi gioiellieri di Londra, e qui, la fatalità cui ho sfuggito, mi ritrova, mi avvinghia di nuovo, e mi getta, senza che io abbia il tempo d’accorgemene, in quella via tortuosa della quale il signor Hawarden mi ha fatto una così triste pittura.
Che fare?
[101]
È ancor tempo: correre dal signor Hawarden, fuggendo questa casa perduta; dirgli tutto, confessargli tutto, anche il mio desiderio di farmi attrice; pormi sotto la di lui protezione e dirgli: — Eccomi, salvatemi, salvatemi; e ciò prima che trascorra la notte, chè decorsa una notte sulla mia assenza, tutto è perduto.
O restare; lasciar la navicella, seguire il corso dell’acqua che la trascina, senza pilota e senza governale, in mezzo alle onde ed ai turbini che la spingono all’Oceano, vale a dire all’ignoto, forse al meraviglioso Cattai di Marco Polo, ma forse ancora ai geli del Polo.
Ma qual differenza fra la vita di questa donna che ha magnifici cavalli, splendide vetture, lacchè riccamente vestiti, un sontuoso palazzo, gemme a profusione e un amante cui dice: — Entrate, mio caro principe, io vi attendo, e l’esistenza di questa povera figlia di banco, che si alza alle otto del mattino, passa le sue giornate a toccar fregi, di cui le sue mani non serbano che l’impronta, e gli occhi il riflesso; che si corica alle dieci, non osando neppure declamare qualche verso di Shakespeare nella sua camera, per tema che i vicini se ne lagnino ed il suo padrone le chieda se parla dormendo.
Oh mio Dio, Signore! Sante sono quelle che hanno la forza di resistere al torrente, ma degne di scusa, nella posizione che le leggi umane lor fanno in società, scusabili assai, o mio Dio, sono quelle che si lascian da esso trascinare!
Oimè! io fui di queste! La sera trascorse: venne la notte senza che io avessi il coraggio di nulla decidere: avrei almeno dovuto scrivere al signor Hawarden; [102] avrei dovuto dirgli di baciare per me i piedi della sua degna consorte: non solo mi rifugiai da lui, non solo non gli scrissi, ma, vergognosa di rivederlo, evitai il suo incontro, e sentendo che il ricordo stesso di lui m’era un rimorso, mi studiai a dimenticarlo, e non potendo riuscirvi, tentai almeno sbalordirmi.
Fu la mia seconda ingratitudine!
Eppure mancò ben poco che non facessi tutto all’opposto: voleva scrivergli: entrai in un piccolo gabinetto ove avea visto uno scrittoio, nel quale sperava trovare l’occorrente: ma non vi rinvenni altro che un libro: machinalmente lo apersi e vi lessi: Clarice Harlowe.
Non sapevo che fosse un romanzo, come ignoravo, venendo a Londra, quel che fosse teatro. Apersi il libro, o piuttosto schiusi una nuova porta in quell’incognito e fantastico mondo, nel quale ero entrata il giorno, in cui il sipario d’un teatro s’era alzato dinanzi ai miei occhi.
Questo romanzo, che assicurasi scritto con uno scopo morale, produsse in me un effetto opposto d’assai a quello propostosi dall’autore. Lovelace invece di apparirmi un infame seduttore, mi parve un gentiluomo seducente. Invidiai le sventure di Clarice Harlowe a prezzo della felicità ch’ella aveva avuta in amore; e mi sentii presta ad arrischiare gli stessi suoi casi, a cimento di cadere nelle stesse avversità.
Dall’istante in cui il libro mi cadde fra mani, dall’istante in cui l’ebbi aperto, non pensai più nè a scrivere al signor Hawarden, nè a tornare dal signor Plowden. La fata mi avea tocca di nuovo [103] colla sua magica verga, ed io non mi apparteneva più.
Mistress Northon venne a chiedermi se voleva discendere per bere il thè, e mi trovò assorta nella mia lettura. Le chiesi se era un ordine di miss Arabella, o un invito di lei mistress Northon; ella mi rispose che miss Arabella avea gente nel suo appartamento, e probabilmente non pensava a me. La pregai allora a mandarmi in camera il thè ed i sandwich, che comporrebbero la mia merenda e la mia cena, e a lasciarmi alla mia lettura.
Un momento dopo, senza che il suo entrare ed uscire mi facessero alzar gli occhi dal libro, udii il lacchè portarmi quel che avevo richiesto: gli feci segno di porre il tutto sopra un tavolo e d’andarsene.
Siccome ei non chiedeva probabilmente meglio che di non servirmi, obbedì tosto.
Chiusi la porta quasi temessi di venir disturbata.
Obliai il thè, mistress Northon, miss Arabella, il mondo intero: ero divenuta Clarice Harlowe, come prima mi sentivo Giulietta.
Ma due o tre ore dopo una tanto ostinata lettura, si fe’ tale un caos nella mia mente, il sangue mi affluì con forza tale al cervello, che provai imperioso il bisogno di prender aria.
Apersi la finestra e andai a sedermi sopra uno degli scanni di pietra del poggiuolo.
Era una bella notte d’estate: una di quelle notti che Shakespeare scelse a popolare d’uno dei suoi sogni.
Il chiaror della luna, adombrato dagli alberi del [104] giardino, marezzava il verde tappeto delle zolle e l’acqua tranquilla della fontana: il rosignuolo di Giulietta cantava in un cespuglio. Era una dì quelle notti che più inebbrianti del sole più ardente, maturano l’amore in un vergine cuore.
A traverso le seriche cortine, vedevansi le finestre dell’appartamento di miss Arabella, splendidamente illuminato: udivansi gli accordi di un’arpa e il suono indistinto d’una voce di donna.
Non avevo mai udito l’armonia delle corde del divino istrumento: quelle vibrazioni quasi soffocate dall’ostacolo che loro impediva di giungere fino a me, avevano un’infinita dolcezza: l’arte e la natura si univano per dare un concerto ai miei sogni: era il rosignuolo di Giulietta, era l’arpa di Clarice che dicevanmi ad una volta: Tutto ama; noi abbiamo amato; ama tu pure.
Tutt’a un tratto spalancossi una finestra e una parte del giardino ne rimase illuminata, lasciando me nell’ombra, di modo ch’io poteva veder non vista. Vi si affacciò una donna, quella donna era miss Arabella.
Mi mossi per ritirarmi, ma comprendendo che io non poteva essere scorta, rimasi al mio posto.
Colla luce un soave profumo si sparse al di fuori. Sentii quindi una voce domandare.
— Dove siete, Arabella?
— Qui, monsignore, rispose miss Arabella.
— Che andate voi facendo alla finestra, mia diletta regina?
— Bruciavo e cerco un refrigerio.
Dietro a lei comparve allora un leggiadro giovanetto, un ragazzo quasi, e venne ad appoggiarsi [105] coi gomiti sul davanzale; la testa dell’una era sì vicina a quella dell’altro, che i capelli ondeggianti di miss Arabella celavano mezzo il volto del ragazzo, confondendosi coi di lui biondi ricci.
Il giovanetto altri non era, se non il principe di Galles, che fu di poi re Giorgio IV.
Ei presele con ambe le mani i capelli, e li baciò appassionatamente.
Porgevo attenta l’orecchio per sentir quel che si dicessero; ma parlavano tanto piano, che le parole loro non giungevano sino a me; udii soltanto lo scoccar di uno o due baci, quindi il giovane cinse colle braccia la vita di miss Arabella e la condusse nelle stanze. La finestra si chiuse, le cortine furono calate; l’amorosa e poetica apparizione era svanita lasciandomi immersa in un languore fin allora a me del tutto ignoto.
L’usignuolo seguitava a cantare, ma gli accordi dell’arpa erano dismessi.
Mi sovvenni della seconda scena di amore fra Giulietta e Romeo, e parevami di aver impressi in cuore accenti ancor più dolci di quelli ch’avevanmi colpito al teatro; pure esitai, sebbene sentissi il bisogno di sfogarmi con quella ammirabile poesia di Shakespeare. Non sapeva risolvermi a turbare questo silenzio, rotto soltanto dai gorgheggi dell’usignuolo, e dall’ineffabile rumore, che nelle trasparenti tenebre delle notti di estate rassomiglia al batter delle ali di Oberon e Titania.
Eppure, mio malgrado, tanta era in me la piena degli affetti, che proruppi in questo primo verso:
Partir già vuoi? Non viene il giorno ancora.
[106]
Poi, tremante, mi guardai attorno; era ben sola, e d’una voce più accentata continuai:
Fu l’usignuol, non già la lodoletta,
Ch’or ti feriva il timoroso orecchio:
Là sovra il melograno, ad ogni notte,
Ei se’n viene a cantar. Credilo, o caro,
Fu l’usignuol.
Mi fermai ansante, mi parve d’aver udito il rumore d’una finestra che s’apriva dalla parte del giardino.
Guardai dalla parte che supponeva venuto il rumore; ma non vidi niente: tutto era calmo, tutto sembrava solitario. Avea provato un immenso piacere a sentire il suono della mia voce, e continuai, rispondendo per l’assente Romeo:
La lodoletta ell’era,
La nunzia del mattin, non l’usignuolo:
Vedi, amor mio, di striscia invida ortale
Le sparse nubi là nell’orïente:
Le notturne facelle omai consunte,
Ve’ il giocondo mattin, che coll’estremo
Piè tocca i monti nebulosi! — È forza
Ch’io parta e viva, ovver rimanga e muoia.
Superato questo primo timore, inebriata dalla melodia della mia voce, proseguii a declamare, con tutta la maggior espressione possibile, la scena fino alla fine. Venne il mio turno e con tutta l’anima mia, come se Romeo fosse stato presente per intendermi, [107] o come se avessi avuto qual spettatore un pubblico per applaudirmi, risposi:
Quello splendor, ben io lo so, ben io,
L’alba non è; ma qualche eterea sfera
Dal sole uscita a rischiararti in questa
Notte, qual face, a Mantova il cammino.
Deh, resta! di partir non anco è l’ora.
Mi sembrava di non aver sentito abbastanza passione in quest’ultimo verso, e quindi lo ripetei con forza.
Questa volta fui contenta di me; mi parea di aver fatto vibrare tutte le corde del mio cuore nelle tre parole: Ti amo tanto!
Indi, rimpiazzando Romeo, risposi a me stessa:
Colganmi pur, mi traggan pure a morte;
Pago son io, se così vuoi tu stessa.
Quel barlume non è, dirollo anch’io,
L’occhio dell’alba; è il pallido chiarore
Della fronte di Cinzia. Oh! non è quella
L’allodola che leva il canto arguto
Sui nostri campi, e ne rïempie il cielo.
Più di restar che di partirmi ho brama. —
Vieni, o morte, e sarai la benvenuta:
Giulietta così vuole. — Anima mia,
Che hai tu? Parliamo ancor, non è il mattino.
Mi ricordai quanto era stata bella madama Siddons in questo momento, cioè quando, conoscendo ch’ella [108] s’inganna, s’avvede in qual pericolo il suo errore, o piuttosto il suo amore, ha trascinato il suo amante, ed esclamai d’una voce non meno vibrante di terrore della sua:
È il mattino, è il mattin! fuggi, t’affretta!
L’allodola quest’è, che in tuon discorde
Sforza aspre note e disgustosi trilli.
E dicon, che può far metri soavi:
Ah no! che di partirci ora non teme.
Dicon che dessa e il sozzo rospo han fatto
Scambio d’occhi fra lor: perchè del paro
Non iscambiâr la voce? È questa voce
Che ne sgomenta, e braccio svelle a braccio,
E te spinge di fuor col suo saluto
Intempestivo al dì. — Pártiti, vanne:
Splendida più e più la luce avanza.
Non appena ebbi detto quest’ultimo verso con tutta quell’espressione ond’io era capace, una voce gridò: Brava! e risuonarono applausi dalla parte ove erami sembrato sentir aprire una finestra.
Misi un grido, rientrai nella stanza, chiusi la finestra, e tutta tremante mi gettai su di un divano.
Erami creduta sola ma m’ingannava, qualcuno stava ad ascoltarmi, e chi? Un giovane certamente. La fresca voce ed argentina faceami così supporre. Gli applausi poi avean seguitato anche dopo che io ebbi chiusa la finestra, sarebbesi detto che, come al teatro, si raddoppiavano gli applausi per far ricomparir un’artista che avea esordito in tali strane condizioni.
[109]
Ma benchè turbata, il mio turbamento era pieno di dolcezza.
Tutte queste minuzie parranno forse puerili a chi le leggerà, eppure come dovrei cercare di impetrar perdono alla mia caduta, se non mostrassi quanto ripida fosse la discesa giù per la quale io precipitava?
[111]
Nella notte, le emozioni della serata continuarono a svilupparsi: parevami di avere cominciato anch’io un romanzo.
Due cose mi perseguitarono nel mio sonno, penetrandomi ambedue fino al core per la porta dei sensi: l’una, la dolce e amorosa visione che rappresentavami quelle due belle teste sì vicine l’una all’altra da confondere i loro capelli, il loro alito, i loro sospiri, dispiccantisi vivamente dal fondo della camera splendidamente illuminata; l’altra, quell’ascoltatore invisibile che mi avea senza dubbio seguita con gli occhi nei più piccoli movimenti di quella scena notturna ch’io credeva solitaria.
[112]
Tutto si riuniva così per perdermi: gli avvenimenti del giorno, i sogni della notte.
Miss Arabella non fu visibile che ad ora tarda: ella mi fe’ chiamare, la trovai nello stesso salottino ove l’avea vista il dì innanzi.
— Mia cara fanciulla, mi disse con accento da regina, io lascio Londra per qualche giorno; vorrei condurvi meco, ma è impossibile: resterete dunque qui, me assente. So che amate il teatro, e metto il mio palco a vostra disposizione: potrete andarvi sola, se vi aggrada, ma siete troppo giovane, e troppo bella, e quindi sarebbe meglio se vi andaste con mistress Northon, che vi accompagnerà volentieri. La sola cosa di cui vi prego, si è di non ricevere alcuno: al mio ritorno, se la smania del teatro non vi avrà lasciata, parlerò di voi a Sheridan e vi faremo esordire. Se per caso incontraste Romney, fate ch’egli non vi vegga; se vi vede, evitate di parlargli; e se vi parla, non gli dite presso chi vi trovate: siamo divenuti mortali nemici.
Promisi a miss Arabella di eseguire i suoi cenni.
— Ed ora, mi disse ella, vuoi aiutarmi a svestirmi?
— Voglio quanto voi mi ordinerete, rispos’io; non sono qui per obbedirvi?
— Sì, finchè non comanderai altrove, carina, ciò che non può tardare ad accaderti con quel visino.
E mi prese fra le dita il mento.
— Davvero, ripigliò, credo che Romney avesse ragione, e che sia una grande presunzione la mia l’avvicinare questo vezzoso visetto al mio volto. Sai tu di che mi dolgo? diss’ella, passando le sue mani nella anella dei miei capelli.
[113]
— No, risposi io, perchè non saprei veramente che abbiate a desiderare al mondo, voi, giovane, bella, ricca e amata.
— Mi trovi tu proprio bella, o lo dici come gli altri per farmi un complimento? seguitò ella posandosi dinanzi uno specchio, e appressando al mio il suo viso come per paragonare il diverso genere delle nostre bellezze.
— Bella, bellissima! esclamai coll’accento della più perfetta verità.
— Ebbene, diss’ella, mi duole di non essere bello, bellissimo, invece di bella, bellissima; perchè, te lo giuro, se fossi uomo, farei per te tutte le follie possibili: e, vedi, ecco che senza esser uomo, le comincio, giacchè mi dimentico, parlando teco, che farò attendere il principe.
Mi diè un bacio in fronte e suonò il campanello: la cameriera comparve.
— Or bene? chiese miss Arabella, i miei abiti non sono ancora pronti? Il sarto me gli avea promessi per le tre del pomeriggio.
— Sono qui da una mezz’ora madama.
— Datemeli allora.
La cameriera uscì e rientrò all’istante con un completo vestiario da uomo della più perfetta eleganza.
— Come! esclamai, vi vestite così?
— Sì, è un capriccio del principe. Andiamo a passare qualche giorno in campagna con alcuni dei suoi amici; faremo la vita de’ castellani, cacceremo, e che so io. Egli mi ha detto ieri: — Sapete quel che dovreste fare, Arabella? vestitevi da uomo.
Io ho mandato a chiamare a sarto, e gli ho ordinato [114] un vestito per quest’oggi alle due: egli me l’ha promesso e, come vedi, mi ha tenuto parola.
— Ebbene, soggiunse, volgendosi alla cameriera che fate voi là?
— Aspetto gli ordini di madama per abbigliarla.
— No, Emma mi aiuterà: non è vero, carina, che vorrai prestarmi questo servigio?
— Senza dubbio.
— Lasciateci dunque, e fate venire i cavalli da posta, affinchè io possa fra mezz’ora partire.
La cameriera uscì.
Miss Arabella esaminò allora ad uno ad uno i diversi oggetti del suo vestimento; tutto era del miglior gusto, ed atto a far risaltare la persona che lo indossava.
L’abito era di velluto color granato a bottoniere d’oro: il farsetto di seta bianco ricamato di un ramo di fiori; i calzoni di velluto azzurro e gli stivali d’un cuoio tanto fino, che pareva una stoffa, giungevano più alti del ginocchio, e lasciavano indovinare la gamba, mostrando il piede più grazioso che potesse vedersi.
Arabella parve contentissima di quell’esame.
— Credi tu ch’io sarò passabile in tal guisa?
— Sarete adorabile, le risposi io.
— Adulatrice! mi diss’ella, svestendosi dell’abito da camera; vediamo, aiutami.
Trasse dal cassettino della sua toeletta un camiciotto in batista con una gala di merletto d’Inghilterra ed i manichini eguali, e me lo diede perchè l’aiutassi a indossarlo. Ell’era già pettinata e la pettinatura da uomo si addiceva perfettamente al suo [115] bel volto, la espressione del quale era, bisogna convenirne, più ardita e fiera, che modesta.
Finì allora di spogliarsi delle sue vesti donnesche: Arabella avrebbe potuto lottare per bellezza plastica, non con le statue antiche, ma con quelle, forse più seducenti dal punto di vista della grazia e delle pieghevolezza, del medio evo.
Non era la Venere di Prassitele, o la Vittoria di Fidia, ma per certo, una delle Grazie di Germano Pilone.
Io non aveva mai vista una donna ignuda; ristetti un istante a guardare con ammirazione quella perfezione di forme, che nell’antichità era una religione.
— Ebbene, mi diss’ella, che pensate voi dunque, bella distratta?
— Vi osservo, madama, e penso che il principe è ben fortunato.
Ella sorrise, fece un grazioso moto di spalle, e si chinò perch’io potessi indossarle la camicia.
Strana cosa è la nostra femminile natura, le cui supreme soddisfazioni stanno nell’orgoglio, e i complimenti più dolci sono quelli dell’adulazione! — Che era io per miss Arabella? Poco più d’una cameriera. — Eppure era evidente ch’ella ricercava i miei complimenti con avidità pari a quelli del principe.
Il seguito dell’abbigliamento si fece colla stessa lentezza e la stessa civetteria. Senza dubbio non era la prima volta che la volubile creatura vestiva l’abito di cavaliero; ultimata la toeletta, la metamorfosi fu completa, e si avrebbe giurato esser ella un giovine gentiluomo di sedici o diciott’anni tutto al [116] più, mentre in fogge donnesche ne dimostrava venticinque, per quanto avesse, secondo ogni probabilità, già oltrepassata questa età prima fioritura della vita.
Al momento in cui, rimproverandomi la mia goffaggine perchè non sapeva come si mettesse la cravatta, ed ella stessa se la annodava al collo, con una prestezza ed un’abilità che ne svelavano l’abitudine, la cameriera rientrò annunciando che i cavalli eran giunti e la vettura attendeva.
Miss Arabella diede un’ultima occhiata a sè stessa, poi a me: era evidente che combatteva in essa una strana battaglia, di cui io non sapeva rendermi conto.
Poi, curvandosi al mio orecchio:
— Non sai a che penso? diss’ella.
— No, risposi io, con la più perfetta ingenuità.
— Penso che vorrei esser uomo e rapirti in questa vettura, anzichè esser donna e salirvi, anche per raggiungere l’erede della corona d’Inghilterra.
Poi, prendendo uno scudiscio nel cui manico era incastonato un magnifico smeraldo:
— Addio, diss’ella; farò ritorno il più presto possibile, sii tranquilla: frattanto ti lascio padrona di casa.
E si allontanò rapidamente, frustando il suo stivale e facendo risonare gli speroni sul pavimento.
La finestra guardava sulla strada: corsi a quella per vedere ancora miss Arabella: ella saltò leggera nel calesse tirato da quattro cavalli, levò il capo, mi vide, portò la mano alle labbra e la stese verso me.
[117]
I postiglioni fecero scoppiettare le fruste e la vettura partì al galoppo.
Restai sola in quella camera tepida e profumata, ove era impossibile pensare ad altro che alla ricchezza, all’amore, ed alla voluttà. Vi restai un’ora ad assorbire quella molle atmosfera, che faceva Baia tanto pericolosa alla virtù delle matrone romane. Quanto era diversa dall’atmosfera dolce ed intelligente che mi avea confortata nella casa di Leicester Square, dall’atmosfera aspra e mercantile che avevo spirata nel magazzino del signor Plowden, da quella, infine, puritana e rigida dalla casa del signor Hawarden padre!
— Ti lascio padrone della casa, mi avea detto miss Arabella partendo.
— Perchè, come, e con quale diritto aveva io conquistato un tanto favore?
Eppure, qualunque fosse il motivo cui lo doveva, era questo potere reale: me ne avvidi dal modo con cui la cameriera mi chiese se avevo nulla ad ordinarle.
Comandare io! io che fino a quel momento avea sempre ricevuti comandi.
Debbo dirlo, ebbi sempre il sentimento della mia umiltà. In certe ore d’ebbrezza obbliai forse qualche volta il punto da cui era partita: ma appena mi ritrovava sola con me stessa, sentivami piuttosto disposta a rampognar la fortuna dei suoi doni, i quali pareano elevarmi solo per far più profonda la mia caduta, anzichè a ringraziarla di questo innalzamento, che io sentiva per istinto essere un errore della Provvidenza.
Risposi che se mistress Northon volea farmi il [118] piacere di pranzar meco e d’accompagnarmi al teatro, gliene sarei riconoscente.
Mistress Northon non chiedeva di meglio: era una buona fortuna per essa andare in teatro: mi chiese quale preferissi: io non ne conosceva che uno, Drury Lane.
Recitavasi Macbeth: era il trionfo di mistress Siddons.
Questa volta le mie impressioni furono ben diverse dalla prima: scorsi tutte le fasi del terrore. Ai doni di dolcezza e di leggiadria, che mancavano a mistress Siddons nella parte di Giulietta, supplivano le doti opposte in quella di Lady Macbeth: l’energia della voce, l’inflessibilità della fisonomia, davano alle ambiziose aspirazioni di quell’anima ferrea una perfezione nel dire, che giungeva al sublime. Nella scena, in cui spinge Macbeth al delitto, nell’altra, ove rincora il suo sposo minacciato dall’ombra di Banco, in quella, infine, nella quale affranta nel sonno più dal crollare del suo potere, che dal rimorso, in veste da notte, cogli occhi aperti ma senza sguardo, con voce ansante ma senza suono, dà, addormentata, spettacoli di quei terrori notturni che perseguono l’assassino, ella era d’uno splendore cui non vidi mai alcun’altra raggiungere. Tornai a casa forse più sorpresa ancora della prima volta, ma meno commossa, meno intenerita; ammirai, ma non piansi: sentiva di aver assistito ad una cosa d’arte, mentre dopo Giulietta e Romeo m’era sembrato prender parte ad una scena della natura.
Entrai fremente nel mio appartamento e sotto l’impressione di quel che aveva veduto, volli provarmi, [119] come la prima sera, in cui il signor Hawarden mi condusse in teatro, a riprodurre ciò che aveva ascoltato, ma mi avvidi tosto che nè la mia fisionomia, nè la mia voce si prestavano ai sentimenti terribili: la mia voce era troppo dolce, la mia fisionomia troppo tenera e troppo giovanile: risi di me stessa vedendomi incapace a ripetere que’ tetri accenti e quelle irresistibili tentazioni che fanno dire a Macbeth:
... Bring forth men-children only,
For the undaunted mettle should compose
Nothing but males!.........[2]
Mio malgrado io cadeva nelle dolci e amorose inflessioni di voce, che facevanmi credere di aver trovato nuovi ed incogniti accenti nella parte di Giulietta: la mia fisionomia accordavasi allora per eccellenza coll’armonica solfa delle mie parole: sentiva infine che mi sarebbe impossibile, per quanto facessi, innalzar meco fino al trono un Macbeth qualunque, ma che colla sola parola, col solo sguardo, col solo sorriso, trascinerei il più ribelle dei Romei nella mia tomba.
E mi vedeva allora passare dinanzi agli occhi tutta quella scena ammaliante del ballo, ove, senza quasi parlarsi, i due giovani si danno l’uno all’altro, in modo che, all’uscir di Romeo, Giulietta, sentendo il suo cuore involarsi con lui, esclama spingendogli dietro la sua nutrice:
[120]
Va, chiedi il nome suo. — S’egli è già sposo,
Sarà mio letto nuzïal la tomba!
E ripetevo queste parole con tutta l’anima e tutta la passione ond’era capace il mio cuore, quando mi parve udire a chiamarmi nel giardino appiè della finestra, non col mio nome d’Emma, ma con quel di Giulietta.
Era un errore della mia immaginazione, una sorpresa de’ miei sensi? Era io entrata sì addentro del sogno da incontrarvi la realtà? Mi appressai leggermente al balcone, l’apersi, e dolce come un alito di brezza, una voce ripetè:
— Giulietta, Giulietta!
Romeo era trovato; Romeo era appiè della finestra: ma, chi era egli?
[121]
Fatta certa che un incognito era in giardino, avrei dovuto chiudere il balcone, lasciarne ricadere le cortine, fuggire al fondo della mia camera e chiudermivi con doppia chiave: e lo avrei fatto senza dubbio in tutt’altra disposizione di spirito, ma, quell’essere, cui la Scrittura non osa nominare e chiama quegli che cammina nelle tenebre, pare si fosse stretto a me come ad una preda ed avesse giurato di non lasciarmi un istante finchè non m’avesse trascinata al più profondo dell’abisso.
Invece di chiudere la finestra, invece di fuggire appressai il mio orecchio alle socchiuse imposte, ed ascoltai.
[122]
Allora lo sconosciuto, con voce dolce e fresca, pronunciò i versi seguenti, come se fossimo l’uno e l’altro chiamati a recitare la parte dinanzi ad un pubblico invisibile, o piuttosto, come se veramente fossimo stati Giulietta e Romeo.
Ascoltai ansiosa:
. . . . . . . . . . . Qual luce
Là sul verone scintillar vegg’io?
È l’orïente, e n’è Giulietta il sole! —
Sorgi, o bel sol! La luna invida spegni,
Ch’egra e pallida già, par che si dolga
Che tu splenda di lei più bella tanto,
Tu, vergin sua: più non ti leghi a quella
Invidïosa il virginal tuo voto.
Già fioco e smunto appar quel che la cinge
Ammanto di vestal, che omai non orna
Più che le stolte... deh! tu pur lo spoglia. —
Oh! dessa è la mia donna, è l’amor mio!
Conoscete il potere affascinatore attribuito dagli antichi al canto delle sirene, a quel magico canto, cui Ulisse si sottrasse legando i suoi compagni agli alberi de’ suoi vascelli, e turandosi egli stesso gli orecchi con cera? Oimè! Io non era stretta da alcun laccio: oimè! le mie orecchie erano aperte a tutte le sensuali melodie dell’amore; la voce mi attirava con un irresistibile fascino; misi il piede sul balcone, col cuor palpitante e le labbra tremule.
E come avesse avuto il segreto del mio cuore, la voce continuò:
[123]
Deh! se saperlo ella potesse...! È lei
Che parla, e pur non dice accento. — Or come?
Son gli occhi suoi che parlano.... Io rispondo:
Ma troppo ardisco; non a me favella.
Ah! sì, due de’ più belli astri del cielo,
Svagáti altrove, supplicâr que’ cari
Occhi d’irradïar le loro sfere
Sinchè faccian ritorno. Oh! se quegli occhi
Fosser nel cielo, e stelle avesse in fronte?
Allor della sua gota il chiaro lume
Quelle stelle farìa discolorite,
Come al raggio del dì notturna lampa;
E gli occhi bei, del ciel ne’ scuri campi,
Di novello splendor versando un fiume;
Farìan desti gli augelli a’ lieti canti.
Qual se notte non fosse!...
Trascinata da questa dolce poesia, e cominciando ad entrare nello spirito della mia parte, ricordai madama Siddons e mi posai sulla mano la fronte. Il mio incognito Romeo, che pareva attendere ch’io mi atteggiassi all’apparato scenico, seguitò:
Or vedi come
Posa la gota sulla mano! Oh fossi
Un guanto a quella man, ché almen potrei
Toccar la bella gota!
Non seppi astenermi dal rispondere col poeta:
Aimè!
E sospirai: la voce ripigliò con un accento di passione, che fe’ vibrare tutte le fibre del mio cuore:
[124]
Favella!
Oh! parla, parla, angiol di luce. In questa
Notte tu scendi sovra il capo mio,
Splendido al par d’un messaggiero alato
Del ciel, quando i mortali a riguardarlo
Colle bianche pupille in su rivolte,
Per maraviglia cadono a ritroso;
Ed ei le pigre varca e lente nubi,
E in grembo del commosso äere veleggia.
Io mi appoggiai ambo le mani al cuore, e con accento che non lasciava nulla da desiderare al mio interlocutore che io divinava più che nol distinguessi nell’ombre, risposi:
Romeo! Romeo! Perchè Romeo tu sei?
Deh! rinnega tuo padre e il nome tuo;
O se così non vuoi, giurami amore,
Ed io più non sarò de’ Capelletti.
La voce mormorò:
Deggio starmi ad udirla? o le rispondo?
Ed io, tutta alla mia parte, ripigliai con voce la più soave che per me si potesse:
Gli è solo il nome tuo che m’è nemico:
Pur lo stesso sei tu, ben che non uno
Dei Montecchi. E che mai ti fa Montecchio?
Non la mano, nè il piè, nè il braccio o il viso
Od altra parte che d’un uomo sia.
Oh! tu avessi altro nome! E che v’ha mai
[125]
Nel nome?... Il fior che rosa è da noi detto,
Un olezzo soäve avrìa del paro
Con altro nome. Tal Romeo, se pure
Romeo non si nomasse, avrebbe tutti
I cari pregi ond’è fornito. Oh! lascia
Il tuo nome, Romeo: prendi per esso,
Che parte tua non è, tutta me prendi.
Confesso che io attendeva con emozione la risposta che impegnava direttamente il dialogo col mio interlocutore: la risposta non si fe’ attendere, e Romeo ripigliò con un accento di tenerezza non minore del mio:
Io ti piglio al tuo detto. Oh! me sol chiama
Amor tuo, ch’io n’avrò nuovo battesmo;
Nè da tal punto sarò più Romeo!
Il lettore ci vede, me alla finestra, il mio incognito Romeo celato nell’ombre, ma solo separati da un sì breve spazio che le nostre mani, stendendosi, avrebber potuto toccarsi. Non ho dunque che a trascrivere la scena fino al fine, perchè il lettore se ne figuri egli stesso l’apparato scenico, ed immagini le emozioni nate in un cuor quindicenne che faceva, per così dire, il suo doppio esordire in una poesia inebriante e in un amore misterioso.
Lascerò dunque da parte i commenti e seguiterò la scena:
Giul.
Chi mai se’ tu che, nella notte ascoso,
Vieni a turbar l’arcano mio?
[126]
Rom.
Per nome
Dirti non so qual io mi sia, chè troppo
Abborrito a me stesso è il nome mio;
Poichè nemico a te, mia cara santa,
Ei mi rende; e s’io qui l’avessi scritto
Lacerar lo vorrei.
Giul.
Cento parole
Da tal voce profferte ancor non bevve
L’orecchio mio; pur ne conosco il suono:
Romeo non se’ tu forse un de’ Montecchi?
Rom.
Nè l’un nè l’altro io son, se a te disgrada,
O mia santa gentil!
Giul.
Ma come, dimmi,
E perchè mai venisti? Alto è il recinto
Del giardin, periglioso alla salita;
E, pensando chi sei, se alcun de’ nostri
Qui ti trovasse.... questo suol t’è morte.
Rom.
Io d’amor con le lievi ale varcai
Quel recinto: ad amor non vieta il passo
Confin di pietre; e tutto ciò che vuole
Amor l’ardisce. A me non fanno intoppo
I tuoi congiunti.
Giul.
Se da lor veduto
Qui sei, t’uccideranno.
Rom.
Oimè! periglio
Ben più fatal negli occhi tuoi vegg’io
Che in venti spade lor. Dolce mi guarda,
E saldo io son contr’essi, a tutta prova.
Giul.
Per quanto è in terra, non vorrei tu fossi
Qui veduto da lor.
Rom.
Di notte il manto
M’asconde ad essi — Ma, purchè tu m’ami,
Qui mi discopran pure! Oh! meglio assai
[127]
Finir per loro nimistà la vita,
Che non vedermi prolungare la morte,
Non amato da te!
Giul.
Chi mai t’apprese
A trovar questo loco?
Rom.
Amor, che primo
Mi pose in su la traccia; esso il consiglio,
Ed io gli occhi prestai. Non son nocchiero;
Ma pur vorrei, se tu più lunge fossi
Dei lidi ermi che lava il mare estremo,
Sfidar, per tal tesoro, ogni fortuna.
Queste ultime parole furon dette con tal passione, che non ebbi a fingermi commossa nel rispondere:
Giul.
Sai che larva mi fa la notte al viso;
Se no, per quel che da me udisti, avrei
D’un virgineo rossor pinta la gota.
Star vorrei contegnosa, e vorrei pure
Rivocar ciò che dissi!... E invece, addio,
Addio, rispetto! — M’ami tu? So bene
Che mi dirai di sì; che la tua fede
M’impegnerai; ma pur, giurando, puoi
Farti spergiuro: intesi dir che Giove,
Allo spergiuro degli amanti, rida.
O gentile Romeo! se m’ami, dillo
Veracemente: o, se ben presto vinta
Tu mi credessi mai, farò cipiglio,
Sarò cattiva, e mi terrò sul niego:
Così preghiera mi farai d’amore.
Ma in altra via, non mai, per quanto è in terra!
In ver son troppo ardente, o bel Montecchio,
[128]
E il mio contegno puoi stimar leggero:
Ma credi, cavalier, me troverai
Più vera di tant’altre che ti fanno
Ad arte la ritrosa. E più ritrosa
Esser dovea, confesso; ma, già prima
Ch’io di me fossi accorta, avevi udito
La voce del mio vero amor possente.
Dunque perdona, nè m’apporre a colpa
D’amor leggero la fralezza mia,
Cui tolse il velo questa notte oscura.
Rom.
Io giuro, o donna, per la sacra luna
Che le cime inargenta a quei frutteti...
Giul.
Oh! così non giurar, no, per la luna,
Per l’incostante luna, che si muta
D’ogni mese al mutar della sua sfera,
Perchè non cangi anche il tuo cor, com’essa.
Rom.
Per chi giurar?
Giul.
Nol dèi per cosa alcuna:
O giura, se tu il vuoi, per la tua cara
Sembianza, ch’è mio nume, idolo mio;
E fede ti darò.
Rom.
Se del mio core
Il sacro amor...
Giul.
Deh, non giurar! Bench’io
Ponga ogni gioia in te, questa promessa
Nell’alta notte, non m’è gioia; troppo
È ratta, sconsigliata ed improvvisa,
Come balen che più non è, già prima
Che tu dica: Balena! — O caro, addio!
Questo germe d’amor, se fiato estivo
Lo feconda, sarà fior di bellezza,
Quando vedremci un’altra volta. Addio!
[129]
Addio! Venga al tuo cor dolce riposo
E così dolce nel mio cor la pace.
Rom.
Malcontento così dunque mi lasci?
Giul.
E che più brami in questa notte?
Rom.
Un fido
Contraccambio d’amore al voto mio.
Giul.
Io ti diedi, già pria che tu il chiedessi,
Il mio: così m’avessi a darlo ancora!
Rom.
Ritòr me lo vorresti? E perchè mai,
Mio dolce amore?
Giul.
Sol perchè vorrei
Libera a te ridarlo. Eppure io bramo
Cosa che già posseggo. È la mia grazia
Senza confine, come il mar; com’esso
Profondo è l’amor mio: più te ne dono,
E in me n’ho più, chè sono ambo infiniti![3]
Mancavaci un terzo interlocutore; perchè nella tragedia in questo momento la nutrice chiama Giulietta: ma, come se il caso avesse giurato di far in tutto di questa finzione una realtà, all’istante in cui doveva essere pronunciato il nome di Giulietta, quello di Emma rintronò nella mia camera pronunciato da una voce di donna, e vidi alcuno appressarsi alla finestra.
Non ebbi che il tempo di dire in prosa al mio Romeo:
— Attendetemi, ritorno.
Rientrai in camera e mi trovai di fronte ad Amy [130] Strog ch’io non aveva riveduta dal dì del mio arrivo in Londra.
La poveretta piangeva dirottamente.
Quantunque la sua venuta non fosse molto opportuna, mi slanciai fra le sue braccia con tutto l’abbandono d’un giovin cuore troppo pieno che prova il bisogno di effondersi in quel d’un’amica.
Compresi dalle sue prime parole ch’ella aveva una lunga storia da narrarmi, e che era sua intenzione nel venire ad ora sì tarda, di non lasciarmi che il domattina.
Restavami a prender commiato dal mio Romeo: feci entrare Amy nella mia camera da letto e tornai al mio balcone: m’inclinai dalla balaustrata e stesi la mano.
Due mani l’afferrarono: una bocca ardente si posò su di essa, e le nostre voci mormorarono unite:
— A domani.
Poi tornai all’amica, col cuore agitato ed i sensi scossi da quel nuovo ed incognito sentimento infiltratosi nelle mie vene, con quella inebbriante poesia e quello strano mistero.
[131]
Non sarebbe stato difficile ad Amy Strog lo indovinare che avveniva qualche cosa d’insolito nella mia vita, ma ella parea tanto preoccupata del soggetto della sua visita, che non parve punto farvi osservazione, e venne subito al fatto.
Dick, il fratello d’Amy Strog, che, come si ricorda, era venuto con noi a Londra, in una leva di marina era stato preso e destinato a far parte dell’equipaggio del comandante John Payne.
Trattavasi di ottenere dall’ufficiale la liberazione del giovine, ed essendo stato detto ad Amy Strog che il galante capitano non sapea nulla negare ad un bel visino, ella avea pensato a me per farmi l’interceditrice della grazia cui voleva ottenere.
[132]
Allora ella s’era data a cercarmi: avea chiesto notizia di me al signor Hawarden, che l’avea rimandata al signor Plowden: il signor Plowden le avea dato l’indirizzo di miss Arabella, dicendo che io era scomparsa, ma che probabilmente mi si ritroverebbe colà.
Due volte nella serata ella era venuta, ma le era stato risposto ch’io mi trovava assente; e difatti lo si ricorda, io era andata a Drury Lane; ma, ferma nel proposito di voler vedermi, ella era tornata una terza volta, ed avea talmente insistito che, quantunque fosse vicina la mezzanotte, l’aveano introdotta nella mia stanza. Ed era giunta, come si è veduto, precisamente al momento in cui la nutrice chiama Giulietta, ed avea fatta una doppia variante: la prima, chiamandomi col nome d’Emma invece di quel di Giulietta, e la seconda, astringendomi a prender commiato dal mio Romeo, prima assai che nol faccia la vera Giulietta.
Io era in quella disposizione di cuore e di spirito, nella quale pare abbiasi tanta felicità da espanderne su tutto il genere umano.
Promisi ad Amy di occuparmi il domani della libertà di Dick; e siccome ella non potea tornare a casa sua ad una simile ora, le preparai un letto sopra un divano, affine di potere, al dì dopo, prendere insieme le opportune misure.
Amy avea già saputo che il signor John Payne era a bordo del suo bastimento il Théseus, ancorato nel Tamigi, fra Greenwich e Londra.
Amy s’avvide che, all’opposto di lei, io aveva il volto sorridente, e lieto il cuore: com’ella mi avea raccontato le sue pene, le narrai io, non la mia felicità, [133] perchè non avea ragione alcuna di trovarmi felice, ma le illusioni della mia immaginazione di quindici anni, i quali se non sono per le fanciulle la felicità, ne hanno almeno lo splendore.
È vano il dire che, fino che fummo deste, il mio incognito Romeo fu il soggetto della nostra conversazione: mi addormentai col cuore pieno del nome di Romeo e le labbra sulla mia mano al posto ove egli avea posate le sue.
La intera notte non fu per me che un sogno di fuoco.
Il domani, nell’aprir la porta della mia camera, vidi una lettera a terra sul pavimento: era stata probabilmente spinta all’interno dell’apertura che trovavasi fra il pavimento e la finestra del poggiuolo.
Portava questa soprascritta:
A Giulietta.
L’apersi e fissai vivamente gli occhi sulla firma: il nome di quegli che l’avea scritta poteva essere un nome di battesimo come un cognome; era sottoscritta: Harry.
Allora la lessi o piuttosto la divorai.
Avevo presso a poco divinato il vero; Romeo Harry era il mio vicino, mi avea vista alla mia finestra la sera, in cui, credendomi sola, io ripeteva la scena di Giulietta al balcone. Era egli che m’aveva applaudita al finir della scena e m’avea fatta fuggire applaudendomi: allora egli s’era fissato nell’idea di scendere al domani nel giardino, senza punto occuparsi, come Romeo, de’ pericoli cui potea [134] correre con tale imprudenza, e tentar di attirarmi alla finestra, dicendo i primi versi della bella scena del giardino.
Si sa com’ei vi fosse riuscito.
Le spiegazioni ch’egli davami sul conto suo eran brevi: era studente all’università di Cambridge, ma trascinato da un’irresistibile passione per il teatro, e credendo che io dividessi questa vocazione, mi proponeva di tentare insieme i favori della sorte e della gloria artistica.
Supplicavami a venir la notte seguente al poggiolo per dargli una risposta da cui dipendeva, diceva egli, la felicità della sua vita futura.
Questa lettera era stata evidentemente scritta dopo l’interruzione della nostra scena; e quegli che ne era l’autore aveva scalato il mio balcone, e dopo essersi accertato che io non ero sola e nol sarei probabilmente in tutta la notte, era penetrato dal di fuori all’interno.
Ciò indicavami che io non era gran che sicura nel mio appartamento, e che passerei bentosto, come la vera Giulietta, dalla scena del giardino a quella del balcone.
Oimè! era ancora uno dei pericoli della mia situazione lo arrestare senza spavento il mio spirito sopra un vincolo del genere di quello che venivami offerto. Se Giulietta, l’erede dei Capuleti, vale a dire d’uno de’ più nobili casati di Verona, cui spettava sostenere l’onore d’una famiglia che adoravala, che l’avea con ogni cura educata a tutti i principj di virtù, a tutte le esigenze della società, aveva, in una di quelle giovanili attraenze nelle quali il cuore prevale su tutte le umane considerazioni, fatto al [135] suo amante sacrificio della sua virtù, della sua fama, del suo onore, come poteva io, povera fanciulla isolata e senza nome, educata quasi dalla pubblica carità; io, che non avea mai conosciuto mio padre, mal vigilata da mia madre, che guadagnava il suo pane giornaliero col travaglio dell’intero suo giorno; come, io, cui la prima di tutte le lezioni, quella dell’esempio, mancava; io, che non dovea conto ad alcuno della mia condotta; io, che cadendo non macchiava nè un nome, nè una famiglia, e perdendomi, perdeva me sola, come poteva io neppur pensare a resistere, se Giulietta avea soggiaciuto?
E difatti non vi pensai; non pensai altro che alla felicità di rivedere, o piuttosto vedere la sera il mio incognito Romeo, giacchè non avea potuto distinguere il suo volto nell’oscurità: solo, dalle intonazioni della sua voce avea riconosciuto la gioventù, e, dalla sua calligrafia e dal suo stile, divinata un’elegante educazione. Quanto alla bellezza, io era certa della sua, chè aveanvi in quest’avventura non solo le ispirazioni della gioventù, ma quelle eziandio dalla leggiadria.
Baciai la lettera e me la posi sul cuore.
Frattanto Amy si vestiva: avevamo presso a poco una lega e mezzo da fare per giungere vicino al Tamigi, al luogo ove era ancorata la flotta inglese; ma noi non dovevamo presentarci all’ammiraglio che verso il mezzogiorno, ed avevamo quindi il tempo d’asciolvere al palazzo e partirne dopo colezione.
Chiamai per chiedere se si potesse servirmi di colezione nel mio appartamento: il domestico rispose [136] che miss Arabella avea lasciato ordine che mi si obbedisse come a lei stessa.
Mentre noi asciolvevamo mi fu chiesto se volevo che si mettessero i cavalli alla carrozza, ma io, non volendo si sapesse ove andavamo, rifiutai, dicendo soltanto che probabilmente non farei ritorno che la sera.
Verso il mezzodì ci ponemmo in cammino. Più avvezza di me agli usi di Londra, la mia compagna prese una vettura, ne fissò il prezzo per l’intero giorno e partimmo.
Io mi lasciava del resto assolutamente condurre da Amy: il mio spirito era tutto all’avventura del dì innanzi: ad ogni istante ponevami al cuore la mano per accertarmi che non avea perduta la lettera di Harry; la sola cosa che facea nube a quella serena illusione era lo aver incontrato un semplice studente, un semplice artista, che m’offriva di percorrere al suo braccio lo spinoso sentiero dell’arte, invece d’un bel gentiluomo, d’un ricco signore che mi menasse alla gloria di mistress Siddons e alla fortuna di miss Arabella in un’elegante vettura a quattro cavalli.
Ma ciò che era protratto non era perduto: il teatro è un piedestallo, sul quale la statua della bellezza ha un culto come quella dell’ingegno; e siccome io era certa d’esser bella, — oimè me lo avean già tanto ripetuto, dal povero Dick che primo me lo avea detto nelle montagne del ducato di Galles, ad Harry-Romeo che me lo avea scritto il mattino stesso, — siccome, ripeto, era sicura d’esser bella ed avea speme di posseder del talento, non era che un affare di data, e potevo attendere.
[137]
Vedasi che io sono fedele al programma che mi ho imposto scrivendo la mia vita, e svelo il fondo de’ miei pensieri agli uomini, che mi hanno, forse troppo severamente, giudicata, come a Dio che, ne ho fiducia, mi sarà più indulgente all’ora di morte.
Se scrivessi un romanzo, potrei invertire o mutare i fatti, celare i miei torti e scusar le mie colpe, ma ho posto in titolo a questo libro la mia vita, e non ho quindi il diritto di nulla alterare negli avvenimenti di essa; deggio svolgerli nel loro ordine e nella loro sincerità. Confesso che, come romanzo scritto da pugno umano, questo libro sarebbe mal fatto; e, quel che è peggio, mal ideato, perchè, frutto dell’immaginazione, non potrebbe avere influenza alcuna sulla vita degli altri, ma non è di tal guisa: io stacco una pagina di storia dal gran libro universale dell’umanità, scritta dalla penna di ferro del destino che mi ha fatta passare come fatale meteora attraverso al mio secolo, ed usare un’infausta autorità su’ miei contemporanei. Devo dir tutto, anche i miei cattivi pensieri, come tutto svelare, anche le cattive azioni; sono gli uni che menano alle altre; la mia sola scusa sia nel non aver nulla preparato, nulla macchinato, nulla voluto di quanto mi accadde, ma di aver in vece sempre ceduto ad un fascino stabilito da cagioni indipendenti dalla mia volontà, e soprattutto più forti di essa.
E poi, lo dirò io? Sì, perchè deggio dir tutto, anche ciò che dee servimi di difesa; le mie più cattive azioni, o piuttosto i più brutti avvenimenti della mia vita, hanno avuto quasi sempre una buona intenzione, un eccellente principio; e quella che io intraprendeva in questo momento, la quale dovea [138] menarmi alla prima mia colpa, e per essa condurmi dagli abissi più cupi e profondi della società alle più brillanti sua altezze, aveva uno scopo lodevole ed era dettata dall’umanità, giacchè era per salvare il fratello della mia amica dal destino più temuto per un libero Inglese.
Ma perchè poi vi poneva io tanta premura, tant’anima, tanto cuore? Non forse perchè Dick pel primo aveva ammirata la mia bellezza?
Io era tanto assorta nelle mie riflessioni, che non m’avvidi nè del cammino percorso, nè del tempo impiegato a farlo, quando la vettura arrestossi.
Ci trovavamo in riva al fiume, poco discosti da un magnifico bastimento da guerra.
Eravamo noi aspettate? Lo ignoro, e mi ricorse in seguito più volte al pensiero l’idea che tutto fosse dapprima convenuto fra Amy e sir John Payne. Avevamo appena posto piede a terra, quando una barca guidata da sei rematori si scostò dal Théseus e vogò verso noi.
Tutto era sì nuovo per me, ed io mi trovava in mezzo a tante e diverse emozioni, che questa circostanza mi sfuggì in quel momento, e non vi pensai che in seguito.
In un istante fummo a bordo del bastimento.
Una delle prime cose ch’io vidi salendo la scala fu il povero Dick già in assisa da marinaio, il quale, appressandomisi, mi disse con voce compassionevole:
— Madamigella Emma, abbiate pietà del povero Dick; il mio destino è nelle vostre mani.
Non poteva io ben comprendere come disponessi d’un sì gran potere, ma l’infelice giovine avea l’aria [139] sì mesta, che io gli promisi di fare quanto stesse in poter mio.
Un sottotenente lo respinse brutalmente, e ci condusse alla cameretta del comandante. Questa stanzina era uno dei più eleganti salottini che io abbia veduti mai, anche al tempo in cui passava la mia vita nelle sale d’una regina. Il tappeto era composto di magnifiche pelli di tigri, e la tappezzeria dei più fini casimiri dell’India! Nel sollevarsi questi casimiri lasciavano scorgere trofei d’armi magnifiche tolte dai più ricchi bazar dell’Oriente. La scranna, su cui il comandante era seduto o piuttosto sdraiato, era uno di quei divani turchi ricamati a fiori d’oro, quali appena si sognano sulle rive del Bosforo e del Gange; la base, su cui si posava, era di due cannoni in bronzo, brillanti come oro: nei giorni ordinari sparivano completamente sotto alla stoffa: in quei di combattimento levavansi i casimiri che mettevano a nudo i trofei, i cuscini del divano che scoprivano i cannoni, e il salottino da elegante signora, tramutavasi nell’arsenale d’un comandante inglese.
Sir John Payne, avvolto in un magnifico abito da camera di stoffa chinese, era intento a leggere quando noi entrammo.
Egli si volse dalla nostra parte colla trascuranza di un uomo che riceve una visita inaspettata; poi, vedendo due donne, si alzò.
Gettai su lui un rapido sguardo, che pure mi valse a veder tutto.
Sir John Payne era un bell’ufficiale dai 30 ai 35 anni, il quale, per certo, doveva il grado che occupava a tale età, più alla sua nascita ed alla sua fortuna, che alle campagne fatte: tutto in lui, come a lui d’intorno, [140] annunciava il lusso. Il coltello con cui tagliava il suo libro era d’argento dorato, le sue dita eran carche di anelli, un magnifico orologio posato a lui vicino era adorno delle sue iniziali in diamanti.
Tutto in lui indicava la suprema aristocrazia.
Amy, singhiozzando (ella aveva un’ammirabile segreto per trovar lagrime), gli si prostrò ai piedi, o piuttosto volle prostrarvisi; ma egli la rattenne, chiedendole il motivo che la conduceva.
Ed ella, come se i singhiozzi le soffocassero la voce, mi trasse per mano, accennandomi di parlare in luogo suo.
Allora soltanto parve l’ammiraglio accorgersi della mia presenza; mi guardò, parve sorpreso della mia bellezza, e mi fe’ sedere accanto a lui.
Amy restò in piedi, col volto nascosto dal fazzoletto, dicendomi con voce soffocata:
— Parla, parla; Sua Signoria ti ascolterà ben più volentieri di me!
[141]
Era io stessa fortemente turbata, e con voce commossa spiegai all’ammiraglio lo scopo della nostra visita, affermandogli ch’egli acquisterebbe un diritto eterno alla mia riconoscenza se mi desse il congedo del povero Dick.
Sia ch’ei lo credesse di fatto, sia che volesse dirigermi un’adulazione, mi domandò quale motivo una persona della mia condizione potesse avere ad interessarsi d’uno scapestrato, come quegli di cui chiedevo la liberazione.
Risposi allora con umiltà mista ad un certo orgoglio, che io non era una persona di condizione, ma una povera contadina compatriotta di Dick.
Egli mi prese una mano, la guardò, e scosse il capo con aria di dubbio.
[142]
Di fatto le mie mani, di cui con una civetteria superiore alla mia età aveva sempre avuto la più gran cura, erano assai belle.
— Queste mani, mi diss’egli ridendo, non sono mani da contadina.
Assicurai l’ammiraglio ch’ei s’ingannava.
— Allora, seguitò egli, levandosi dal dito mignolo un diamante, non mancano che di quest’anello per divenir mani da duchessa.
Io mi sentii arrossire, più di piacere che di vergogna però, e quantunque la mia mano mi sembrasse molto più bella coll’ornamento ricevuto, pure volli restituire all’ammiraglio l’anello che egli mi offeriva tanto galantemente; ma ei rattenne la mia nella sua mano, dicendomi che se io persisteva nel mio rifiuto, avrei a temere ch’egli pure persistesse nel suo.
Volsi gli occhi ad Amy; ella mi guardò con uno sguardo tanto supplichevole in mezzo alle lacrime che irrigavanle le gote, ch’io non ebbi il coraggio di durare una più lunga resistenza. Tenni l’anello.
Allora Amy ripigliò coraggio.
— E il mio povero Dick? chies’ella.
— Ascolta, rispose l’ammiraglio; io non sono solo a decidere la quistione: posso proporre il congedo, ma debbo farlo accettare dall’ammiragliato.
— Sì, diss’io, prendendo le mani di sir John Payne: ma domandato da voi, questo congedo sarà accordato, non è egli vero?
— Lo spero.
— Dite che ne siete certo.
— Farò quanto mi sarà possibile per esservi accetto, [143] disse l’ammiraglio, inchinandosi cortesemente.
— Oh! se riusciste, ve ne sarei tanto riconoscente! esclamai.
— È egli proprio vero quel che mi dite? chiese l’ammiraglio, guardandomi fisso e con occhio, se non pieno d’amore, almeno pieno di desiderio.
Io arrossii, e chinai il capo senza rispondere.
Parvemi allora vedergli scambiare uno sguardo con Amy; ma questo sguardo poteva essere come il mio, uno sguardo di preghiera.
— Ascoltate, ci diss’egli, voglio darvi una prova del mio buon volere: oggi stesso andrò a Londra, e farò i passi opportuni.
— Oh! quanto siete buono! esclamai.
— E, domandò Amy, come e dove avremo noi la risposta?
— V’ha un mezzo assai semplice, rispose l’ammiraglio, attendetemi qui.
— Qui? chies’io con esitazione, giacchè pensavo al mio appuntamento della sera.
— No, a Londra nel mio palazzo di Piccadilly.
Guardai Amy come per interrogarla.
— Domandatelo ad Emma, diss’ella; io sono agli ordini della Signoria Vostra.
— Aspetterò dove vi piacerà, Mylord, rispos’io, nella fiducia che la risposta sia buona: solo...
— Solo che? ripetè l’ammiraglio.
— Devo esser rientrata a casa alle dieci della sera.
— Sarete padrona di ritirarvi quando vi piacerà; ma siccome la risposta può farsi attendere e ritener me stesso fino a tard’ora, prenderete almeno una tazza di thè ed un dolce, dopo di che vi rendo [144] la vostra libertà e vi chiedo la mia, cosa che non farei certamente, se non fosse per rendervi servigio.
E suonò un campanello chinese che fece udire un suono prolungato e vibrato.
Entrò un servo.
— Il thè, domandò l’ammiraglio.
Senza dubbio gli ordini erano stati dati dapprima, perchè il domestico rientrò subito con un vassoio coperto di pasticcerie che posò sopra un tavolo.
— Vediamo, mia bella interceditrice; fateci gli onori del thè, mi disse l’ammiraglio.
Obbedii arrossendo, e versai una tazza di thè che gli offersi con una mano, presentandogli coll’altra lo zucchero, e facendogli un inchino da collegiale.
— In verità, mi disse sir John, non m’era stato detto nulla di troppo, e voi siete adorabile.
Volsi uno sguardo di rimprovero ad Amy: ciò che era sfuggito di bocca all’ammiraglio provavami che la mia venuta non era imprevista, come io il credeva, ma attesa.
— Sapreste a lei mal grado, ripigliò il capitano, di avermi detto ch’ella aveva ad amica la più bella creatura terrena, ed a me di aver bramato vedervi? La sarebbe cosa crudele, perchè rifiutando di venire, avreste fatto del vostro amico Dick un marinaio, stato che parmi non sia di sua inclinazione, e non mi avreste permesso di dirmi vostro servitore, ciò che parmi proprio la mia.
Non sapevo che rispondere a questa cortesia facile ma irrispettosa: egli mi porse la sua tazza perchè vi lasciassi cadere qualche goccia di crema, e s’accorse del tremito della mia mano.
[145]
— Che? mormorò egli, in una donna sola virtù, cortesia e pudore, oltre la bellezza e la gioventù?
Io lo guardai sorpresa.
— Non avete visto recitare Amleto?
— No, rispos’io.
— Ebbene, ciò che vi ho detto è quel che Amleto dice ad Ofelia quando è sorpreso di trovar tanta grazia, tanto affetto e tanto pudore riuniti in una stessa donna.
Scossi il capo.
— E, seguitò sir John, siccome ella non crede all’amore del principe di Danimarca, questi prosegue:
«Dubita pure che gli astri splendano,
Dimmi che il sole più non appar,
Dimmi che il vero mente e sa fingere
Ma, deh! ch’io t’ami non dubitar.»
Sir John mi prese ambo le mani, e dando alla sua voce la più tenera espressione, seguitò:
«O cara Ofelia! il mal che m’addolora
Cresce con questi versi. I’ non ho l’arte
Di vestir di bel metro i miei sospiri,
Ma pure io t’amo tanto! Oh non è cosa
Che agguagli l’amor mio! Credilo, addio.
Per sempre tuo, soave e cara donna,
Fin che sia questa macchina d’Amleto,»
— E che risponde Ofelia a questi versi?
Sir John si alzò.
— Amleto, rispos’egli, non le lascia tempo di rispondere, ed esce, rimettendo al cuore di lei, che [146] egli ama, la cura di parlare per lui nella sua assenza.
— Voi ci lasciate? chiesi a sir John.
— Dopo le tre non rinverrei più i lordi dell’ammiragliato, e voglio avere almeno il merito di mantenere la mia promessa, dandovi oggi, buona o cattiva, una risposta.
— E noi? domandò Amy.
— Voi, rispose sir John, avrete la bontà di attendermi a Piccadilly, ove il mio servitore vi accompagnerà.
— Dareste frattanto un congedo di 24 ore al povero Dick?
— Sì, disse l’ammiraglio ridendo, purchè miss Emma impegni la sua parola che il mariuolo non diserterà: nel qual caso, miss Emma risponderà di lui corpo per corpo.
— Odi, Emma? disse Amy.
Stesi la mano a sir John.
— Lo prometto, Mylord, diss’io.
— Ed ora ripigliò l’ammiraglio, non desidero che una cosa, la fuga in capo al mondo del mariuolo. Venite voi con me, o bramate ch’io vi metta a terra?
— Eravamo venute a bordo di questo bastimento per Mylord, diss’io; e dal momento che Mylord lo lascia, non abbiamo nessun motivo di restarvi.
Sir John suonò una seconda volta il campanello. Lo stesso domestico comparve.
— La iolo, disse l’ammiraglio.
— È pronta, Mylord.
— Venite a terra con noi, e conducete le signore a Piccadilly. La cena per le sette.
[147]
Volli fare un’osservazione sulla cena alle sette, ma sir John non me ne diede il tempo, ed offrendomi il suo braccio, mi condusse alla scala.
Tutti gli ufficiali erano schierati in doppia fila a noi dinanzi.
Io chinai non solo gli occhi ma il capo: tutti quei sguardi pesavano in certo modo sulla mia fronte, curvandola sotto il loro peso.
Mi trovai nella iolo senza saper come vi fossi discesa: udii la voce di sir John ordinare a Dick di seguirci; poi la barca si staccò dal bastimento leggera come un uccello, e mosse verso terra.
Quivi attendevaci la carrozza di Mylord, e poco discosta stava l’umile nostra vettura.
— Non tornerete a Londra lì dentro, non è egli vero? ci diss’egli.
— Ma in che volete voi che vi rientriamo? gli chies’io.
— Piccadilly è sul mio cammino, e quivi vi lascerò passando.
Fe’ un cenno al suo domestico che andò a pagare la nostra vettura; aprì egli stesso lo sportello e mi fe’ scendere prima, mentre Amy scambiava qualche parola con Dick per dargli un appuntamento, e farlo avvertito del risultato della faccenda.
Dick, meno fiero di noi, entrò nella vettura e si fe’ trionfalmente condurre a Londra.
Sir John sedette al dinanzi, cedendoci i due posti di fondo: il domestico montò accanto al cocchiere, e la carrozza partì, riconducendomi, strana condizione del mio destino, immersa in tutt’altri sogni di quelli con cui era partita.
Oh! fu ben per me che la vita ebbe a simbolo [148] una ruota che gira incessantemente; ma da qual lato girava questa ruota? Era per elevarmi o per avvilirmi?
Mi era io innalzata dal dì in cui era la pastorella di mistress Davison, od aveva disceso?
La mia meditazione era tanto profonda, che quasi non sentii sir John impadronirsi della mia mano: gliela lasciai inerte nelle sue.
Dopo una mezz’ora di corsa la carrozza si arrestò: ci trovavamo a Piccadilly.
Lo sportello si aprì: scese primo sir John per darci la mano: io mi sentiva riconoscente ad un gentiluomo di tal fatta, che ci trattava come duchesse: per un moto involontario strinsi la destra ch’ei mi stendeva.
— Grazie, mormorò egli sottovoce.
Ritrassi violentemente la mano.
Egli mi guardò con una certa sorpresa, ma vide dal mio sorriso che non vi era nulla d’offensivo per lui nel mio atto.
Erano le tre: non doveva egli perdere un minuto se volea giungere in tempo all’ammiragliato; risalì dunque in carrozza; e noi, guidate dal servo, entrammo in casa.
Questa casa, sita presso a poco a metà strada fra Londra e la stazione, era una graziosa palazzina costrutta colla maggior eleganza, il cui solo locatario e proprietario era l’aristocratico protettore di Dick.
Il lacchè lasciatoci per introdurci, ne condusse ognuna nella nostra camera.
All’entrar nella mia, io mi fermai, cercando nelle [149] mie rimembranze, ove avessi già veduta questa stanza.
Eravi qualche cosa d’impossibile nella realtà di questa visione: le mie gite non mi aveano mai condotta dalla parte di Piccadilly, e si sa che venendo a Londra vi veniva per la prima volta.
Mi trovava dinanzi ad un grande specchio dalla cornice dorata, in una camera elegante con cortine di seta azzurra e mobigliata di toelette e cassettoni in legno di rosa: aveva sotto ai piedi un tappeto turco, sovra il capo un soffitto adorno di affreschi, che si sarebbero detti sortiti dal pennello di Boucher o di Watteau.
Senza fallo io aveva veduta questa camera.
Mi lasciai cadere sopra una sedia a bracciuoli simile alle cortine: e questo colore azzurro mi ricordò per analogia il primo abito azzurro da collegiale: mi rividi seduta con quella veste vicino alla sorgente della collina, ove pascolava il mio gregge, il giorno in cui Dick mi avea detto:
— Guardatevi nelle nostre sorgenti, madamigella Emma; un giorno anderete alla città e vi guarderete in grandi specchi e cornici dorate, come quelli della bottega del negoziante di Hawarden.
Condotta dal filo de’ miei ricordi, rammentai il tutto.
Questa camera, questo specchio, questo turco tappeto, queste cortine del colore del mio abito da collegiale, così lungi da me, sì, io li avea visti in un sogno della mia fanciullezza, ed ecco che sette od otto anni dopo, io li ritrovo in realtà!
E Dick che me ne avea fatta la predizione era causa del suo avverarsi: strana concatenazione di [150] circostanze che radicò nel mio cuore la fatale idea, che un potere più possente della mia volontà disponesse del mio destino, e che invano tenterei di oppormi al fascino di questo potere.
Amy Strog entrò nella mia camera mezz’ora dopo, e mi trovò nello stesso seggiolone ove m’era abbandonata entrando: il mio meditare parve inquietarla e tentò distrarmene parlandomi di sir John Payne, della sua bontà per Dick, e della sua cortesia per noi.
Io sorrisi senza rispondere; comprendeva lo scopo di questa cortesia, il calcolo di questa bontà, e sentiva per istinto che il mio onore sarebbe il riscatto di Dick.
Disgraziatamente sir John Payne era giovane, era bello, era ricco; disgraziatamente era amabile e parea buono: tutto concorreva dunque alla mia perdizione, perfino i buoni istinti del mio cuore che mi portavano a salvar Dick ed a consolare Amy.
Alle cinque una vettura arrestossi davanti alla porta: trasalii: Amy corse alla finestra.
— Non avea bisogno, esclamò, di andare alla finestra per sentire che era sir John che rientrava.
Un istante dopo la porta si aprì, ed ci comparve tutto lieto.
— Che mi darete voi, miss Emma, mi disse egli, se vi porto una buona notizia pel vostro protetto?
— Che posso io darvi Mylord, risposi alzandomi e stendendogli ambo le mani, se non i sinceri ringraziamenti di un cuore oltre ogni dire riconoscente alle vostre bontà?
— Sta bene, seguitò egli; prendo per ora i ringraziamenti: regoleremo più tardi i conti.
[151]
— Avete dunque ottenuto, Mylord? domandò Amy.
— Sono almeno a buona via di riuscirvi: mi fu promesso il congedo di vostro fratello per questa sera: lo aspetteremo, se il volete, a tavola: dovete avere gran fame, avendo appena gustata una ciambella; ed io confesso, che le corse fatte mi hanno dato grand’appetito.
Stavo per fare un’osservazione sulla necessità che io aveva di tornare a Oxford Street, quando il domestico entrò, annunciando che Mylord era servito.
Sir John afferrò il mio braccio, e mi condusse nella sala da pranzo.
— Andiamo, andiamo, mie belle commensali, a tavola, diss’egli.
Il giorno cominciava a cadere, e dalla mezza oscurità della mia stanza, aumentata dallo spessore delle cortine, entrammo in una sala da pranzo sfolgoreggiante di luce che riflettevasi nel cristallo dei bicchieri e nello splendore delle argenterie.
Si sarebbe detta una mensa imbandita dalle fate pel loro re Oberone e la loro regina Titania: l’atmosfera era tepida ed imbevuta d’un profumo acre e dolce ad un tempo, che parea penetrarmi per ogni poro.
Alla vista di tutto quel lusso, all’impressione profumata di quest’atmosfera, provai un subito offuscamento: mi sentii quasi mancare: le mie mani tremavano, la mia testa s’inclinò sulle spalle: sir John mi sentì pesare al suo braccio, e vedendo al languore dei miei occhi ed alla curva del mio corpo ciò che avveniva in me.
[152]
— Siete della specie delle sensitive, mi diss’egli; donna e fiore ad un tempo: felice quegli che spirerà l’olezzo del fiore e suggerà la parola amore sui labbri della donna.
Trassi un sospiro e vacillante sedetti sulla scranna ch’egli mi indicò accanto a lui.
Il fascino dell’opulenza è sempre stato possente su me quanto l’orrore della miseria. Sono io dunque realmente d’un sangue aristocratico e tutti i miei istinti tendono essi a ripigliare il livello distrutto dalla mia nascita illegittima? La mia vita non fu sotto a questo rapporto che un lungo inebbriamento; e quando ricca, e gran dama, non ebbi più nulla da chiedere al rango ed alla fortuna, sentii l’abbagliamento della gloria, come povera fanciulla aveva avuto quello dell’aristocrazia e della ricchezza.
Per la prima volta io sedeva ad una mensa riccamente imbandita: per la prima volta i miei occhi erano accecati dallo splendore di fiamma dei cristalli simili ai diamanti: per la prima volta io appressava le mie labbra a quello spumoso vino di Francia, che simile a quel dell’antichità, pare premuto dalle mani delle Baccanti nella coppa del piacere.
Nulla di tutto ciò bastava a scuotermi dal mio abbagliamento, a calmare il sangue che scorrevami più rapido per le vene, a spegnere il fuoco che, serpeggiando, salivami dal petto alla fronte. Nel sedermi a tavola era già ebbra di profumo e di luce.
Al pospasto un domestico entrò latore d’un dispaccio a largo sigillo.
[153]
Sir John lo ruppe, accertossi che fosse il congedo di Dick e lo porse ad Amy.
Amy si alzò subito, e sotto il pretesto di non ritardare a Dick l’annuncio di così buona novella, chiese di ritirarsi.
Sir John non vi si oppose, lodando questo slancio d’una buona sorella.
Compresi che tutto l’avvenire della mia vita dipendeva da’ cinque minuti che stavano per decorrere: vedendo Amy alzarsi, mi levai pur io, e sir John non vi si oppose: ma restavami a prendere nell’altra camera il mio cappello e la mia mantiglia; feci uno sforzo di volontà, decisa a svellermi dalla seduzione, e mi slanciai nella mia stanza che trovai fiocamente rischiarata da una lampada d’alabastro.
Nulla di più incantevole di quella camera, vista al suo dolce chiarore, che parea quel della luna in una bella notte d’estate: restai un istante muta, immobile, estasiata, in lotta fra il desiderio di rimanere e quello di seguire Amy: compresi allora che mi era mestieri cercare un appoggio altrove che in me; misi la mano sul cuore vi cercai e sentii la lettera di Harry.
Respirai allora e volli uscire dalla stanza; ma dietro a me, la porta s’era chiusa, e perduta nella modanatura dell’intavolato, s’era fatta invisibile: sarebbesi detto che la magia fosse entrata nella mia esistenza e mi spingesse in un palazzo di fate.
Mi volsi per chiamare qualcuno; ma, fra me e il camino stava ritto sir John, colle braccia aperte, mormorando la parola:
— Ingrata!
[154]
Al suono di quella voce, il fascino mai assopito si ridestò: una nube di fuoco passò dinanzi ai miei occhi e caddi fra le braccia che m’erano aperte.
Vi ringrazio, o mio Dio, d’aver permesso che la prima mia colpa fosse una caduta per amicizia e bontà, non per cupidigia e dissolutezza!
FINE DEL PRIMO VOLUME.
1. In inglese Dick è il diminutivo di Riccardo.
2. Non mettere al mondo che figli maschi, giacchè il tuo cuore invincibile non dovrebbe produrre che uomini.
3. Possedendo l’Italia la traduzione in versi di Shakespeare per Giulio Carcano, sarebbe stato profano la intendere ad altra versione e credemmo perciò di trascriverne la scena suddetta.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.