The Project Gutenberg eBook of La prima donna This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: La prima donna Author: Ferdinando Di Giorgi Release date: May 9, 2024 [eBook #73587] Language: Italian Original publication: Milano: Treves Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA PRIMA DONNA *** FERDINANDO DI GIORGI La Prima Donna MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1895. PROPRIETÀ LETTERARIA _Riservati tutti i diritti._ Tip. Fratelli Treves. LA PRIMA DONNA I. La lieta giornata d’aprile moriva: la dolcezza di quel lungo e tiepido bagno di sole, profumato dall’aria odorante di zágara, esalava lentamente. Ma prima di ritirarsi là, dietro il profilo roseo dei monti, il disco luminoso si stemperava in una densa pioggia di pulviscoli d’oro, ed era come una nebulosa immateriale e trasparente sospesa nell’aria, che s’allargava e si stendeva sempre più su tutte le forme della natura e delle cose. Contro l’onda dorata e dilagante adesso, le gelosie della finestra dietro a cui Filippo Torreforte stava chino sui suoi libri e le sue carte, e che avevano impedito tutto il giorno ai raggi vivi del sole d’irrompere nella stanza, non offrivano più riparo. Ma il giovane non si difendeva più. Dieci ore quasi ininterrotte di lavoro erano passate sulla sua testa curva sopra la scrivania, dieci ore scorse nell’arido studio di un processo, nella consultazione del codice e dei classici del Diritto. E durante il lungo tempo, malgrado i suoi ventisei anni, malgrado il suo ricco e caldo sangue, avea saputo restare sordo e tetragono al languido invito della natura in festa, efficace ad esaltare le carni più pigre, i sensi più tardi, non s’era lasciato sedurre da quella carezza di sole che metteva una voglia acuta di stendervisi sotto, da quell’alito ineffabile di primavera che voleva essere avidamente bevuto — tanto era l’ardore che l’animava, tanta la volontà che lo sorreggeva! Il tramonto veniva a sorprenderlo giusto a lavoro compiuto, e la gradita voce della propria coscienza soddisfatta, levandosi in lui insieme alla dolcezza particolare dell’ora, lo metteva in una disposizione beata di spirito. Appoggiato al davanzale della finestra di cui aveva spalancate con impeto gaio le persiane, egli contemplava l’orizzonte luminoso con gli occhi socchiusi, sorridendo dietro a certe sue liete fantasie; attraverso quella pioggia d’oro fuso, vestita dei suoi riflessi, la prospettiva del proprio avvenire gli appariva più che mai lieta e promettente. Vedeva la ristretta, ma sicura clientela che già aveva saputo formarsi dopo qualche anno di professione col suo talento, e sopratutto con la sua attività instancabile, allargarsi rapidamente, diventare sempre più numerosa e produttiva, procurargli le risorse necessarie per liberare la proprietà della sua casa dai tentacoli di piovra delle ipoteche e dei pesi d’ogni natura che la gravavano, isterilendola, divorandosela.... Ritrovava per lui e per la sua famiglia là, nella vecchia e lontana cittadina natale, la posizione d’un tempo, il primato goduto senza contrasto per tradizione quasi secolare e mutato adesso in una condizione penosa ed umiliante.... Vedeva sua madre, non più malata di tristezza e d’avvilimento, rialzare nella gioia della prosperità riconquistata la personcina magra e curva dal peso dei dolori, le sue due sorelle accasate e bene, ricostruito infine l’edificio che la prodigalità del padre, negli ultimi anni della sua vita, e una serie di speculazioni l’una più disastrosa dell’altra avevano quasi distrutto.... Un’acuta tenerezza lo invase al pensiero della madre lontana. Gli riappariva dinanzi agli occhi della memoria al momento del commiato, l’ultima volta ch’era stato laggiù. Ella aveva voluto accompagnarlo, insieme alle figlie, ancora un tratto lungo la via maestra, seguendo la carrozza che doveva portarlo alla vicina stazione. Andava adagio, appoggiandosi tutta al suo braccio con un abbandono pieno di dolcezza, mentre le ragazze precedevano, bisticciandosi tra di loro come sempre, sfogando al solito così l’acre malinconia degli anni passati a sognare e ad aspettare invano un marito che forse non si sarebbe presentato mai con la povera dote tutta gravata d’ipoteche che avevano. Il giovane le parlava dell’avvenire, dei suoi progetti, delle sue rosee speranze, le mostrava l’orizzonte sereno e lieto ch’egli si vedeva schiudere dinanzi, ed ella gli sorrideva, approvando con la piccola e fine testa già tutta grigia, accarezzandolo con lo sguardo amoroso.... Ad un tratto, una nuvola di polvere e uno scalpitìo di cavalli s’erano levati vicino a loro, e s’erano dovuti trarre da parte per lasciar passare il _phaëton_ di Luciano Mascali, colui che aveva aiutata la rovina di casa Torreforte. Sopra quella rovina egli avea edificato la miglior parte della sua fortuna, prestando ogni momento al capo della famiglia larghe somme, prendendone in affitto le terre a vilissimo prezzo, lapidandole a furia d’iscrizioni creditorie; ed ora metteva delle arie insolenti di signorotto feudale, sopratutto di fronte alle sue vittime, affettando verso di loro un disprezzo da villano arricchito, gridando che volevano rubarlo, perchè il giorno d’impadronirsi della loro proprietà non era ancora giunto e mai come da quando Filippo s’era messo alla testa della famiglia pareva meno vicino. E come se la mala grazia voluta con cui aveva rovesciato la sua pomposa carrozza quasi addosso a loro non fosse bastata, egli aveva sentito il bisogno, incontrandoli in quel punto, di aggiungervi l’insolenza del saluto evitato con ostentazione, torcendo lo sguardo dall’altra parte. Istintivamente gli occhi di Filippo e di sua madre s’erano incontrati: quelli della vecchia signora avevano un’espressione durissima e il torbido riflesso del suo orgoglio in rivolta, l’orgoglio della propria famiglia ch’era tra le più nobili della provincia e quello dei Torreforte svegliati insieme. Il suo volto era diventato pallidissimo, e le tremavano persino le labbra ed il mento per la collera e la vergogna dell’umiliazione patita.... Poi, lentamente, come certo dentro di lei spasimava più forte dell’orgoglio ferito il suo amore di madre, e l’assaliva il pensiero delle sue creature, l’angoscia di saperle alla mercè di quell’arpìa rapace, delle lacrime si misero a rigarle le guancie sottili.... Allora egli le avea cinta col braccio la vita, come ad un’amica benamata, e se l’era stretta contro il petto, invaso da un tumulto di appassionata tenerezza, mentre le diceva con la voce concitata e insieme solenne: — Vedrai, mamma!... Dammi ancora cinque o sei anni di tempo e poi vedrai se non vi riscatterò io da colui! Te lo prometto per la memoria di mio padre! Vedrai mamma, vedrai!... D’allora non era passato che poco tempo, eppure quanto cammino verso la mèta che formava la sua ambizione ed il suo sogno! Non aveva egli già dei clienti che non avrebbero barattata l’opera sua per quella di un avvocato principe, tanta fiducia s’era guadagnata in loro con la sua intelligenza e col suo zelo? Il suo bilancio di quell’inverno s’era chiuso così felicemente che non soltanto non era costato nulla ai suoi, ma anzi avea potuto provvedere del proprio a delle scadenze di frutti maturati. E intanto che avanzava ogni giorno dippiù verso la conquista del suo bel sogno, badava ad amministrare con tutto l’impegno della sua doppia qualità d’interessato e d’uomo di legge l’intricata successione paterna e a difenderla dalle insidie del Mascali. Dippiù non sarebbe stato possibile fare, la sua coscienza non gli rimproverava neppure un minuto di distrazione o di stanchezza; avea quasi scordato d’esser giovane e ricco di vita, pareva che non fosse vissuto mai altrimenti se non a quel modo misurato e modesto, quando il ricordo dell’esistenza spendereccia, del fastoso lusso di provincia a casa sua, era invece tanto recente in lui. Così, in quel momento, ripassando mentalmente i suoi propositi, la sua condotta, gli occhi gli ridevano di soddisfazione e di piacere. Lo vinceva una gaiezza irrequieta, da scolare all’uscita di classe. Pensava al desinare che l’aspettava nella modesta pensione dov’egli era assiduo, con una piccola e comica smorfia interiore, sicuro di trovarlo troppo magro per l’eccellente appetito che sentiva svegliarsi. Si domandava che impiego avrebbe fatto della sua serata; voleva ben regalarsi qualche ora di distrazione! Ma non sapeva proprio come, poichè non aveva relazioni di società e poichè giusto quella sera, con tutta la sua buona volontà di fare un piccolo strappo al sistema di vita che s’era imposto, l’unico teatro aperto taceva. Allora si ricordò d’aver ricevuto il giorno avanti la carta da visita d’una artista che doveva cantare in quella stagione al Massimo, insieme ad una lettera d’introduzione e di raccomandazione da parte di un vecchio suo amico d’infanzia che s’era poi trapiantato a Milano, giornalista e critico influente. Certo questi aveva creduto renderle un favore importante dandole una commendatizia per lui, perchè aveva veduto il suo nome fra i redattori della _Sera_. Filippo Torreforte infatti, era intinto un po’ di giornalismo, ma superficialmente, senza appartenere alla corporazione, e solo per quel tanto che riguardava la sua professione e gli giovava a mettere meglio in vista il nome suo. Perciò, non avea fatto quasi alcun caso della lettera ricevuta il giorno prima in mezzo al _tran-tran_ dei suoi affari. Ricordandosene allora, gli parve un’insperata risorsa, e risolse di dedicare la serata ad Alice Rossati, accademica di Santa Cecilia e cantante di camera della regina di Portogallo — come diceva il suo biglietto da visita, profumato di _corylopsis_ così acutamente che dava al capo. II. L’attesa, nel salottino dell’albergo, cominciava a parere un po’ lunga a Filippo Torreforte. Finalmente s’udì un fruscìo, e la cantante comparve, avanzandosi con la mano stesa e il passo lungo e in cadenza che tradiva l’abitudine della scena. Le sue prime parole furono per farsi perdonare l’attesa e, malgrado le proteste del giovane, ella insisteva su questo, spiegandogli con un’intenzione di confidenza nel sorriso e nella voce come fosse stata trattenuta al piano dal maestro per concertare certi tagli e certe cadenze nell’opera in cui doveva presentarsi al pubblico, troppo irta di note acute per il mezzo-soprano che, poverina, non disponeva più di grandi mezzi vocali. Però, che cantante di scuola e che possesso di scena!... Ella s’affrettava a soggiungere ciò, premurosamente, indugiandosi a mettere in rilievo il talento artistico della sua compagna d’arte, lasciando intendere, in mezzo alle espressioni laudative, ch’era la sola risorsa che le restasse. Successe quindi nella conversazione una pausa imbarazzante. La cantante s’aspettava forse a questo punto che l’altro le agitasse sotto le narici il turibolo dell’incenso a cui era abituata, le dicesse del bel nome fattosi nel mondo lirico, del successo che l’attendeva, dell’impazienza sua d’udirla. Invece Filippo restava a guardarla e taceva, non sapendo che dire, come se la vena della bella eloquenza ch’era così ricca in lui si fosse inaridita. Per la prima volta egli, già per natura ed abito di vita tanto schivo da contatti femminili in genere, si trovava di fronte ad una donna di teatro. Ne avea vedute soltanto dalla platea, attraverso l’illusione scenica e il melodrammatico convenzionalismo lirico; il fondo ingenuo di provinciale che restava in lui malgrado l’acclimatamento cittadino gliele faceva apparire come delle creature quasi di un altro mondo, al quale si sentiva completamente estraneo. Aveva quindi, in quel momento, il sentimento di subire una specie di iniziazione e ne rimaneva naturalmente un po’ sorpreso e interdetto. Ma non era ciò soltanto: lo paralizzava pure in certo modo l’impressione che la cantante gli avea prodotto entrando. Sorpreso improvvisamente dalla sua comparsa, in mezzo all’uggia dell’attesa che già degenerava in un principio di malumore per essersi lasciato determinare da un momento d’irrequieta gaiezza giovanile ad una tale visita troppo al difuori del suo sistema d’esistenza, egli s’era come sentito trasportare in una sala d’opera, avea quasi provato la rapida emozione che desta nel pubblico, in certe scene capitali del dramma, l’apparire in iscena della protagonista o di un altro importante personaggio muliebre, se l’artista che ne rappresenta la parte ha quelle particolari attitudini fisiche che il palcoscenico di preferenza richiede. Ora Alice Rossati possedeva una figura meravigliosamente fatta per la scena. Grandiosa, ma ben proporzionata di linee, ella aveva un busto e delle braccia superbe; i tratti del viso non peccavano per soverchia finezza, si potevano anzi dire comuni, sopratutto considerando la curva del naso pronunziata oltre misura, la larga bocca dalle labbra grosse, ma pallide, e il mento troppo forte. Ma per compenso, la sua testa, così modellata, era piena di carattere, aveva un’energia di contorno che s’imponeva all’occhio di chi la guardava. Ciò che però colpiva dippiù in lei erano gli occhi, degli occhi straordinariamente grandi e neri che avevano una singolare intensità d’espressione, una fissità esaltante, e che parevano covare perpetuamente il fuoco lirico della scena, riverberare la melodrammatica luce della ribalta. Ora, perchè gli occhi le splendessero a quel modo, perchè il suo sguardo facesse pensare a questo, necessariamente ella doveva mantenersi sempre nell’illusione e nell’attitudine di avere dinanzi a sè il pubblico, di non calpestare che delle tavole di palcoscenico. Così era appunto; anche fuori del teatro, anche nell’ambiente meno propizio, nel campo limitato d’una conversazione senza intimità, ella non lasciava di essere _la prima donna_. E sotto la particolare suggestione dei suoi occhi, della sua figura, di certi atteggiamenti, di certi gesti, davanti al suo incedere lento e in cadenza, tutta una folla di vaghi fantasmi lirici si levava confusamente nell’immaginazione così colpita: ella era _Norma_, ella era Valentina degli _Ugonotti_, Eleonora del _Trovatore_, la _Gioconda, Lucrezia Borgia_ — tutta la galleria di creature appassionate e patetiche che formavano il suo esteso repertorio di soprano drammatico.... Tale era l’impressione che Filippo Torreforte aveva provato e che lo faceva restare tuttavia assorto, senza troppo saper che dire. Ma poichè il silenzio diventava imbarazzante alla lunga, la cantante riprese a fare le spese della conversazione, avviandola sopra un terreno positivo e sottomettendo l’altro ad un breve interrogatorio. — Dunque, lei è tra i redattori della _Sera_? — gli domandò. Torreforte, poichè non gli pareva il caso di diffondersi in particolari a proposito della parte limitatissima e personale ch’egli avea nel giornale, disse di sì senz’altro. Alice Rossati domandò ancora: — Ed è molto intimo col suo collega della parte teatrale? — Abbastanza. — Egli rispose, indugiandosi a fare il ritratto del collega in questione, il quale era un giovane gran signore che faceva del giornalismo per puro e passeggero dilettantesimo, così com’era passato successivamente attraverso la scienza, la politica, lo sport. Allora, la cantante gli confidò le sue pene. Le aveano riferito che Luca di Santo Stefano, il critico teatrale appunto della _Sera_, era stato l’amante della prima donna che avea cantato prima di lei al Massimo, e che in seguito al fiasco e allo scioglimento dalla scrittura di costei, il suo protettore avea giurato di far la guerra senza quartiere nel proprio giornale a qualunque altra fosse venuta a prenderne il posto e la parte. Questa minaccia la preoccupava seriamente, sopratutto data l’importanza del giornale ch’era tra i più letti e autorevoli, la rivoltava, la metteva addirittura in orgasmo. Ella protestava di voler essere giudicata per il poco che valeva in arte, ma giudicata ad ogni modo onestamente, senza preconcetti ostili. Torreforte allora si credette in dovere di assicurarle che il suo amico era assolutamente incapace di un partito preso così odioso, che dovevano averle riportate dalle malignità senza fondamento, che poteva vivere tranquilla da quel lato. Ma la cantante insisteva sullo stesso tono di allarme e di toccante risentimento, pur non mettendo in forse nel critico tutte le qualità di un galantuomo, scagliandosi invece sulla protetta di lui, perchè, si sa, certe donne possiedono la maligna potenza di far deviare e di accecare anche i migliori! — così che Filippo Torreforte non potè fare a meno di dirle che ne avrebbe parlato a Santo Stefano e che stesse tranquilla. Ella parve sorpresa e commossa dei buoni uffici offertile; disse, stendendogli la mano con slancio: — Non so come ringraziarla! Il nostro buon amico di Milano non poteva farmi un regalo più caro e prezioso indirizzandomi a lei! — E comentava le parole col sorriso, arrovesciando leggermente il capo, socchiudendo un poco i grandi occhi neri, così come dovea sorridere sulla ribalta in certe scene col tenore. Il momento d’accomiatarsi parve infine venuto al giovane. Ma prima di lasciarlo andare, ella volle le promettesse che sarebbe tornato da lei presto e spesso. — Nel nostro mondo, un buon amico affabile e gentile, senza secondi fini, è come l’araba fenice! Io vi conosco appena — gli disse, saltando con una certa brusca grazia il fossatello di riserbo che separa il _voi_ dal _lei_ — ma mi pare che voi sarete per me quest’araba fenice!... III. Filippo Torreforte, in fondo, avrebbe rinunziato volentieri al suo ideale rango ornitologico d’araba fenice per prendere anche lui le penne di un brutto uccello di rapina, come tutti coloro che volavano continuamente attorno alla cantante insidiandone la virtù. Gli pareva inutile di nascondere a sè stesso la viva impressione ch’ella gli avea prodotto, che la trovava in particolar modo seducente, che pensava a lei infine come ad un frutto assai tentante, d’un sapore ignorato ma certo acutissimo, su cui sarebbe stato ben felice di allungare la mano. Ma egli avea tutt’altro da fare che dimenticarsi nel giardino del piacere, dietro a dei frutti non abbastanza alla sua portata; troppo grave era la missione impostasi, troppo bello e ancora lontano l’ideale al quale voleva arrivare, perchè la prima tentazione capitatagli potesse metterlo fuori via o semplicemente fargli rallentate la sua marcia forzata verso la mèta prefissa. E contro ogni seduzione, più forte di qualunque stimolo, gli sorrideva il pensiero luminoso di sua madre, della cara persona adorata che egli avea giurato di riscattare dalla rovina e dalla tristezza! Così, Torreforte si contentava modestamente della sua parte di amico senza _secondi fini_, e ancora non gli avanzava tempo nè libertà di spirito per disimpegnarsene con abbastanza zelo, tanto che ella doveva raccomandargli di non abbandonarla troppo, e certe volte veniva persino a fare appello alla memoria di lui con qualche bigliettino sollecitativo — quei suoi biglietti fortemente odoranti di _corylopsis_ che lo turbavano un poco, poichè tal profumo l’avea anche sentito addosso a lei e gli svegliava delle imagini carnali. E la prima sera in cui dopo un’infinita serie di contrattempi e di ritardi imprevisti la cantante si presentò al pubblico nella _Gioconda_, gli parve quasi di farle un sacrificio andando a teatro, poichè giusto in quei giorni l’occupava un importantissimo ricorso da discutere. Ma come ne fu largamente compensato, come ella gli fece dimenticare per un momento il suo ricorso, il Tribunale, ogni cosa! Rare volte gli pareva di aver sentito una voce tanto calda e vibrante una tale potenza d’accento! L’appassionato personaggio del dramma non poteva vivere più intensamente in lei: la sua azione efficacissima, spesso trascinante, secondava mirabilmente le preziose qualità della voce; la sua figura statuaria che dominava la scena, il volto pieno d’anima e d’espressione, i suoi occhi — quegli occhi che narravano da soli tutto un poema d’amore, di gelosia, di sacrificio e di disperazione — secondavano la commovente efficacia dell’azione. Non era stato un entusiasmo solitario il suo! In certi momenti culminanti nella parte di lei, egli aveva sentito un sussurro levarsi nella sala, come un fremito d’ammirazione che agitava tutto quel campo di teste nella platea. E quando ella era andata a soffiare nell’orecchio del baritono la sua fatale promessa: “_Se lo salvi e adduci al lido_....„ — nell’angosciosa invocazione al suicidio, nell’improvviso scatto di funebre gaiezza all’ultimo, allorchè Gioconda dice a Barnaba: “_Vo’ farmi più bella, più fulgida ancor!_„ — erano scoppiati degli applausi senza fine, dei veri uragani d’applausi che l’obbligavano ogni volta ad interrompere la scena per venire innanzi alla ribalta, ringraziando il pubblico con un certo stanco sorriso tutto suo, e gli occhi vaghi, quasi trasognati, che dicevano lo sforzo penoso per uscire dall’illusione del personaggio rappresentato. Egli la rivedeva ancora, mentre cercava di conciliar sonno nel suo letto senza riuscirci, ritrovava nell’orecchio certi accenti d’una tale drammatica potenza che ne avea sussultato. Gli riappariva nel suo pittoresco costume del prim’atto, con quella veste cupamente nera rialzata sopra la gonna cupamente rossa che dava un risalto più energico alle linee grandiose del corpo e del volto, e poi, all’ultimo, tutta chiusa, come l’imagine della disperazione, nel manto scuro in cui s’avvolgeva per non vedere le carezze che il tenore e il mezzo soprano, coll’egoismo della gente felice, si prodigavano proprio sotto agli occhi di lei. Dal costume di _Gioconda_ a quelle vestaglie ch’ella usava indossare per riceverlo a casa sua, con dei lunghi strascichi, con delle amplissime maniche di velluto, degli abiti d’un gusto teatrale e più che vivace, il salto non era difficile. Egli la rivedeva dunque seduta accanto a lui nel salottino dell’albergo, molto vicino, sottolineando col languido sorriso che le era particolare un mondo di piccole cose ingegnosamente lusinghevoli per lui.... Gli sembrava di risentire il forte profumo di _corylopsis_ che emanava da lei, dalla sua pelle, lo aspirava avidamente.... Poi, come la sua fantasia s’eccitava, s’accendeva nella smania dell’insonnia, nel calduccio del letto, egli passava a levarle d’addosso il costume del teatro e la vestaglia di casa, la spogliava tutta cupidamente, si metteva a sezionare col desiderio il suo nudo, salendo dalle gambe, delle quali s’indovinava bene il contorno robusto e perfetto attraverso la veste, al seno colmo e poderoso di cui aveva seguìto tutta la sera l’ansare scomposto e turbante per la simulata violenza della passione, e che s’imaginava di serrare contro il suo petto, contro il suo viso.... Gli pareva sentire attorno al collo la stretta di quelle braccia muscolose, bianchissime, voluttuosamente tornite, che gli avevano fatto provare un brivido lungo la schiena allorchè ella le avea agitate ebbramente, selvaggiamente in aria, durante il duetto con Laura, alla frase: “_L’amo come il fulgor del creato...!_„ Infine, una notte bianca, passata a rigirarsi smaniosamente da un fianco sull’altro, quasi avesse la febbre, piena di visioni lascive!... Ma tutto si ridusse a questo, all’agitazione di una notte d’insonnia provocata dall’emozione dello spettacolo e alimentata poi dal suo sangue troppo giovane e troppo contenuto, come non di rado gli accadeva nella sua casta esistenza di studioso e di lavoratore. E all’indomani, recandosi a congratularsi con lei del clamoroso successo, egli era ritornato perfettamente l’ideale amico di prima, l’araba fenice degli amici. Chi invece si trovava addirittura fuori delle proprie abituali condizioni d’animo, era la prima donna. Torreforte la sorprese in uno stato straordinario d’eccitamento e di collera: una jena addirittura, una vera Eumenide, come amabilmente l’avea chiamata la sera avanti _Enzo_ nell’ultim’atto di _Gioconda_! Il giornale ch’ella avea brandito furiosamente vedendolo entrare e che gli mise sotto gli occhi senz’altro, con la muta eloquenza del suo furore, gli avea tosto spiegato ogni cosa: era la _Sera_, uscita con un articolo ostilissimo di Santo Stefano dove le si rimproverava di forzare la voce negli acuti uscendo sempre orribilmente di tono, di cantare con pessima scuola, di rendere grottesca la parte a furia di esagerare e di strafare — una demolizione feroce infine! Egli le rese il giornale in silenzio, sinceramente afflitto ed umiliato, cercando le parole per consolarla. Ella invece non badava a cercarle, le parole, se le lasciava uscire di bocca così come le venivano nell’impeto del suo sdegno, scagliandosi ingiuriosamente contro il critico, con tanta maggiore veemenza che qualcuno dei suoi appunti era tecnicamente giusto. Dal nemico passava quindi all’amico, al quale rimproverava duramente l’esito dei buoni ufficî promessi e interposti, la leggerezza con cui doveva essersi occupato della cosa dopo averla rassicurata nel modo più assoluto! Torreforte infatti ne avea parlato una volta a Santo Stefano, con cui del resto non avea che dei rapporti d’ufficio di redazione, e poichè questi gli avea vagamente risposto che non esisteva in lui alcun preconcetto ostile, che avea troppo rispetto di sè per dire nel giornale qualche cosa all’infuori della verità, egli se n’era stimato pago e non aveva insistito altro. Così lasciava adesso la bufera imperversare sul suo capo senza neppure sorprendersi di quel cambiamento troppo repentino e radicale d’umore a suo riguardo; anzi conveniva umilmente tra sè che meritava di essere rimproverato anche dippiù. Ella era stata per lui d’una affabilità particolare e cattivante, lo avea trattato come un vero amico, piena di stima e di confidenza; oltre a ciò, l’incarico di disarmare il critico era stato lui ad assumerselo, spontaneamente. E dopo che ella, persuasa, s’era affidata a lui, egli avea dimenticato che chi prende un impegno ha il dovere di adempierlo coscienziosamente, sino in fondo. Eppoi la malafede e l’ingiustizia di Santo Stefano lo indignavano, sollevavano la sua coscienza di galantuomo; il proprio facile entusiasmo, urtandosi contro la fredda e voluta ostilità del critico, lo irritava profondamente, lo faceva rivoltare. Uscì di là eccitatissimo, dirigendosi alla redazione della _Sera_ dove contava trovare Santo Stefano e sfogarsi contro di lui dicendogli il fatto suo senz’altro. Ve lo trovò infatti, e non mancò di alleggerirsi il cuore, mentre l’altro lo lasciava dire con un sorriso altero ed ironico sulle labbra. Quando egli ebbe finito, Santo Stefano rispose insolentemente che non accettava lezioni da alcuno, e come Torreforte ribatteva, inasprito, quegli gli diede del provinciale, e poi ancora del villano, cosicchè l’altro sentì annebbiarglisi il cervello e gli si slanciò contro.... Delle persone presenti alla scena si frapposero riuscendo ad evitare a tempo l’estremo delle vie di fatto — il che, naturalmente, non impedì a Santo Stefano di credersi in diritto e in dovere di mandare una sfida, ciò che fece sul luogo, incaricandone due amici ch’erano con lui, mentr’egli se ne andava zufolando tranquillamente. E come ricevette i padrini, nella stanzuccia del proto dove se l’erano condotto via, Torreforte uscì a cercare i proprî. Tutto questo era avvenuto con una rapidità trascinante, in mezzo ad una febbre d’eccitazione tale che non avea lasciato a Filippo Torreforte nè il tempo nè il modo di riflettere. Ma appena rientrato a casa sua, dopo aver trovati i propri padrini e presi i necessarî accordi con loro, appena rimasto solo e con gli occhi ben aperti in faccia alla situazione creatasi, alla prospettiva di quel duello, la sua esaltazione cadde d’un tratto, egli ebbe uno di quei risvegli pieni di amarezza e di smarrimento che conoscono i giocatori dopo una notte disastrosa passata alla tavola verde. All’eccitazione che se ne andava, un senso di profondo stupore succedeva. Egli dunque si sarebbe battuto, forse all’indomani?! Perchè?... Per chi?... Per quella donna!... Ma che era quella donna per lui?... Che cosa rappresentava nella sua esistenza perchè si esponesse per essa al pericolo più grave?... Egli se lo ripeteva duramente, con una sicurezza di coscienza che gli aumentava la sorpresa: Nulla, nulla!... assolutamente nulla! Non aveva neppure ambìto al suo possesso, non si era nemmeno schierato tra coloro che pretendevano ai suoi favori, per non averle a sacrificare il tempo e la relativa libertà di spirito che un tale atteggiamento gli avrebbe necessariamente preso! E nonostante la sua completa indipendenza da ogni attaccamento di qualunque specie, malgrado ch’ella gli fosse perfettamente estranea e indifferente, doveva mettere in giuoco adesso per lei la sua vita?... Un grande sbigottimento lo vinse a quest’idea. Egli non si sentiva vile, non avrebbe esitato dinanzi al pericolo, se il dovere, se un risentimento proporzionato e legittimo ve l’avessero chiamato. Ma corrervi incontro così, senza ch’egli riuscisse a spiegare a sè stesso come e perchè?!... I suoi pensieri prendevano una corrente paurosa e lugubre.... Santo Stefano passava per una delle migliori lame tra gli amatori di scherma, era anche assai forte al tiro, come in qualunque altro genere di _sport_ — ed egli non avea mai messo piede in una sala d’armi, non sapeva neppure tenere in mano la sciabola! V’erano dunque novanta probabilità contro cento che egli sarebbe rimasto ferito nello scontro, gravemente, mortalmente forse, anzi certo mortalmente, lo sentiva!... E sua madre, le sue sorelle? Come avrebbero potuto sopportare quel colpo? che sarebbe avvenuto di loro, s’egli moriva?... Sua madre che l’adorava, ch’egli adorava, di cui era l’orgoglio, la speranza, la dolcezza! Ella certo non avrebbe resistito al colpo!... E forse, nel caso funesto, era meglio che fosse così, ch’ella pure se ne andasse dietro a lui!... Perchè non soltanto ella avrebbe sentito strapparsi l’anima, non soltanto sarebbe impazzita dal dolore, ne avrebbe agonizzato tutta la vita, ma era ancora la rovina che si sarebbe abbattuta su di lei, sulle sue figlie, era la miseria, era Luciano Mascali che si sarebbe buttato avidamente addosso a loro come sopra una preda lungamente guatata, e le avrebbe spogliate, messe in mezzo alla via! Si sentiva fondere il cuore da un’immensa pietà pensando a ciò, da un delirio di pietà e di tenerezza filiale! E per reazione, una collera sorda, una rabbia crudele lo accanivano contro quella donna di cui s’era atteggiato a paladino!... Perchè dunque s’era fatto il paladino di colei, perchè?... Ma egli sarebbe corso senza il menomo sforzo da Santo Stefano per dirgli che scrivesse pure di lei quello che gli piaceva, che la demolisse a suo talento, magari peggio ancora di come avea fatto, perchè da parte sua non gliene importava nulla, ciò non lo riguardava nè da vicino nè da lontano.... E non poteva far più questo ora, e invece doveva battersi, mettere a repentaglio la sua vita, come se gli avessero insultato le sorelle o la madre! La collera cresceva in lui sotto l’azione esaltante della sua angoscia, lo armava di ostilità contro colei, gliela faceva considerare come una nemica. Improvvisamente, una luce sinistra si fece nel suo cervello smarrito e dolente a furia di pensare, la luce d’un presentimento funesto.... Quella donna di cui si era procurata la conoscenza non per altro che per occupare un’ora d’ozio, alla quale non s’era per prudenza voluto legare più che tanto malgrado i suoi sorrisi e le sue amabilità promettenti (_ciò che non aveva impedito ch’egli stesse ora per esporre la vita per lei!_) gli sarebbe stata _fatale_!... Egli ne avea la lucida, la inesorabile prescienza in quel momento!... La sua fatalità l’aspettava lì, secondo ogni probabilità, al varco di quel duello inevitabile e così diseguale; ma anche se ne fosse uscito vivo, anche se fosse rimasto illeso, egli sentiva ad ogni modo che non si sarebbe salvato lo stesso, che quella donna doveva essere la sua rovina, la sua fine! Allora lo invase una furia di rivolta, un istinto cieco di sottrarsi alla sua sorte, che gli faceva accarezzare delle pazze idee di fuga, di viltà. Ma tornò presto alla coscienza della sua situazione e del suo dovere.... Eppoi, se era davvero la fatalità che l’avea fatto incontrare con colei e aveva decretato ciò ch’era succeduto, ciò che succederebbe dopo, a che pro ribellarsi, dibattersi, tentar di sfuggire?... E per tutto il resto di quella notte — una notte bianca come la precedente, ma popolata di ben altri pensieri e di ben altre visioni — egli rimase cupo e accasciato sotto l’oppressione del suo sinistro presentimento, come se proprio il peso della fatalità lo schiacciasse.... IV. L’abboccamento dei rispettivi padrini era fissato per le prime ore pomeridiane del giorno di poi. Torreforte adunque aspettava i suoi per sapere le condizioni concordate per lo scontro, quando, non senza sorpresa, li vide giungere insieme al commendator Corradi, il direttore della _Sera_. Come avevano tutti e tre delle faccie gaiamente composte al sorriso, egli pensò con una punta di profonda amarezza: “_Ecco il valore che ha la mia vita per questa gente!_...„ Ma invece la sua vita doveva avere un valore grande agli occhi loro, poichè a sua insaputa avevano lavorato con tanto zelo e col miglior successo a mettergliela al sicuro evitando il duello. La cosa non pareva neppure possibile a Torreforte! Una sfida era corsa; lo sfidato l’avea subito accettata e aveva inviato senz’altro i proprii secondi per regolare le condizioni dello scontro, con l’esplicito mandato di andare il più alla lesta possibile.... Ebbene, dopo tutto ciò, malgrado l’andamento brusco e decisivo preso, la vertenza stava per essere composta sopra un terreno assolutamente pacifico, Santo Stefano era pronto a ritirare la sfida e si sarebbe quel giorno medesimo formulato un verbale di conciliazione onorevolissimo per tutte e due le parti, a meno che — soggiungevano quei signori — egli non s’ostinasse a volere ad ogni costo il duello. Torreforte non si ostinava punto; tutt’altro! Anzi gli toccava imporsi uno sforzo per non dare spettacolo dell’esplosione di gioia che avveniva dentro di lui sentendo l’incubo penosissimo svanire e la tragedia paventata mutarsi in farsa. Ma intanto era naturalmente pieno di curiosità, aveva fretta di sapere prima di tutto come tale scioglimento imprevisto si fosse determinato, e assediava di domande il commendator direttore al quale attribuiva il merito della felice composizione. — No, — questi rispose — bisogna dare a Cesare quel ch’è di Cesare!... Sono stato io, è vero, a piegare Santo Stefano alla conciliazione, ma il merito dell’iniziativa non mi spetta. Anzi, — soggiunse ridendo, con l’aria di superiorità di un uomo che s’è trovato troppo spesso in tali circostanze per dar loro soverchio peso — io vi avrei lasciato tranquillamente battere, se non ci si fosse intromessa una certa gentile persona che mi ha pregato caldissimamente di evitare a qualunque costo uno scontro. — E questa persona chi è? — domandò vivamente Torreforte. — La signora Alice Rossati. — Lei?!... Allora il commendatore spiegò che la mattina, mentre era in redazione, gli era capitata la visita della prima donna la quale, avendo saputo della sfida mandata e accettata la sera stessa del fatto, veniva a scongiurarlo di mettere in mezzo tutta la sua autorità di direttore per impedire il duello, perchè ella non avrebbe mai saputo tollerare l’idea che per causa sua e per una sciocchezza i due giovani si fossero battuti! Un fatto simile le avrebbe amaramente avvelenato le lusinghiere feste prodigatele dal pubblico e, se una disgrazia fosse accaduta, non se lo sarebbe perdonato mai, ne sarebbe ammalata, avrebbe certo dovuto sciogliere la scrittura! Davanti alla minaccia di un tale disastro e dinanzi all’irresistibile eloquenza di tanta interceditrice, a quella sopratutto delle sue linee superbe — concludeva il commendatore facendo un comico gesto di golosa ammirazione — egli non aveva saputo rifiutarsi, era corso da Santo Stefano, e l’eccellente ragazzo che aveva la bontà di ascoltarlo con deferenza s’era lasciato persuadere. Torreforte passava di sorpresa in sorpresa e di emozione in emozione. Così, a quella donna contro cui s’era accanito tutta la notte col cervello sconvolto dall’imprevedibile avventura capitatagli, a quella donna egli doveva il lieto scioglimento mercè il quale veniva liberato come per incanto da ogni noia e da ogni pericolo? Ed egli aveva potuto essere così stupidamente ingiusto verso di lei, attribuirle con la fantasia malsanamente accesa non sapeva più che maligno potere, che funesta influenza sulla sua vita? Bisognava bene ammettere — egli ne conveniva umilmente tra sè — che l’eccitazione della scena avuta con Santo Stefano e la prospettiva del duello imminente gli avessero dato seriamente al cervello, per aver potuto costruire tutto quel risibile edificio di sciocchezze e di fanciullaggini! Non riusciva più neppure a comprendere adesso come tale stato singolare d’animo e di spirito si fosse potuto determinare in lui. E la sorpresa di sè stesso, mista al piacere dell’insperata soluzione, era tanta ch’egli finiva per dimenticarsi degli altri i quali stavano ad aspettare da lui l’ultima parola. — E così? — domandò uno dei padrini. — Ma! — rispose Torreforte — se Santo Stefano oltre alla sfida ritira le sue parole offensive!... — Questa è appunto la base dell’amichevole composizione ottenuta da me, — intervenne il commendatore. — Santo Stefano si dichiara dolente delle parole sfuggitegli nel calore della discussione e le ritira, mentre voi dichiarerete di esservi lasciato trasportare da un movimento istintivo di collera, ma senza nessuna determinata intenzione di offenderlo e di venire a delle vie di fatto.... Così sarà concepito il verbale. — Sta bene, allora! — disse semplicemente Torreforte, mentre avrebbe voluto invece gridare con entusiasmo ch’era felice, che non domandava di meglio che di finirla così. — Alla buon’ora! — concluse il commendatore. — Ecco del sangue troppo prezioso pel paese che non sarà versato!.... E adesso — soggiunse sul punto d’andarsene — non mi resta che a pregarvi a nome della signora Alice Rossati di andarla a trovare stasera al suo _hôtel_ dove, profittando del riposo concessole da un abbassamento di voce del tenore, ci invita tutti a pranzo, noi, Santo Stefano e i suoi secondi. È un’amabile idea di donna superiore, venutale allorchè sono passato da lei a riferirle il buon risultato della mia missione presso Santo Stefano e nella sicurezza che non sarebbero venute da voi altre difficoltà fuori proposito. Ci rivedremo dunque là stasera; io mi sono incaricato di condurre e presentare gli altri tre, mentre questi buoni amici verranno insieme a voi. Si ritrovarono tutti infatti la sera alla tavola della cantante, dopo che i due avversari si erano già stretta la mano negli uffici della _Sera_ e dopo aver disteso e firmato il verbale. Santo Stefano non aveva per nulla l’aria imbarazzata nel subire l’ostentata lezione di superiorità che la _prima donna_, mostrando di dimenticare il torto fattole, gl’infliggeva sotto la forma dell’invito cortese. Il suo agile spirito gli rendeva facile la prova spinosa per un altro; egli conservava tranquillamente la sua perfetta libertà di contegno, come se non fosse stato lui a comporre per essa la più severa ed ostile critica il giorno innanzi. Quanto a Filippo Torreforte, egli navigava nella più beata disposizione d’animo. L’idea che quell’agitante episodio era ben chiuso, che avrebbe potuto ritornarsene sin dall’indomani ai suoi affari, alla sua tranquilla vita di lavoratore, lo rendeva leggero e contento come un fanciullo. Tale propizio atteggiamento interiore determinava in lui un particolare impulso di simpatia verso la cantante, una forte corrente di ammirazione sentimentale che s’allargava via via, per reazione, come più in presenza di lei lo pungevano la vergogna ed il rimorso di essere stato così ingiusto e stupidamente cattivo a suo riguardo. Ella, appena le riuscì d’appartarsi un momento dagli altri, gli disse attirandolo nel vano d’una finestra: — Perchè volevate darmi la pena e il rimorso di essere stata io a spingervi a un tal passo? E Torreforte rispose, con un calore assolutamente sincero poichè in quel momento egli sarebbe tornato deliberatamente a fare ciò che aveva fatto la sera innanzi, e senza pentirsene dopo: — Perchè le ingiustizie mi rivoltano in generale, e se poi toccano una persona che mi è cara come voi, mi mettono addirittura fuori di me! A tavola, ella lo fece sedere alla propria destra e si voltava tutti i momenti dalla sua parte, trovando sempre qualche cosa da dirgli, guardandolo lungamente, sorridendogli.... Col buon vento in poppa di quegli sguardi e di quei sorrisi, Torreforte navigava sempre più a gonfie vele nella dolcezza dello speciale momento psicologico che attraversava. Il vedersi apertamente l’oggetto dell’attenzione e del favore di lei sotto gli occhi di quegli uomini che erano tutti, più o meno, dei don Giovanni di professione e chissà che cosa avrebbero dato per trovarsi al posto di lui, solleticava piacevolissimamente il suo amor proprio, disarmava la sua rigidezza. Pensava che ci sarebbe stato tempo poi a riprendersi, a rientrare nella sua prudente attitudine di riserbo, e intanto s’abbandonava adagio adagio, quasi insensibilmente, sul pendìo fiorito del sentimento. Era come una leggera ubriacatura di cui egli si rendeva ben conto, senza allarmarsene però, sicuro che all’indomani sarebbe sfumata, e attraverso la quale ella gli appariva più seducente e desiderabile che mai. Ma v’era dippiù. Adesso egli sentiva che non soltanto quella donna era fatta per essere desiderata, ma anche per essere molto amata. L’interesse ch’ella avea preso per lui, l’impegno con cui s’era adoperata per evitargli di battersi a cagion di lei, anche a costo di tirarsi dietro dei commenti calunniosi, non potevano deporre meglio in favore della sua sensibilità, della delicata bontà dell’anima sua. Perchè non convenirne con sè stesso dal momento che non concepiva la possibilità di qualsiasi transazione? Se le loro strade non fossero state così diversamente tracciate, se fosse stato possibile a lui deviare dalla propria, non sentirsi spinto irresistibilmente innanzi dalla coscienza del suo sacro dovere e della responsabilità che gl’incombeva, certo egli avrebbe potuto innamorarsi seriamente di quella donna! Appunto perchè si stimava troppo corazzato contro qualunque tentazione e qualunque pericolo, egli smetteva di vigilarsi per un poco in quell’eccezionale quarto d’ora di abbandono, e si spingeva volentieri fino a secondare il delicato armeggio sentimentale della cantante, ricambiando i suoi lunghi sguardi, i suoi sorrisi eloquenti, tutte le classiche tradizioni infine di un _flirt_ bene avviato. Gli altri prendevano la loro parte di spettatori come meglio potevano, ma chi se ne disimpegnava con maggior successo era ancora Santo Stefano il quale aveva indovinato nell’attitudine della prima donna un’intenzione di fare particolarmente dispetto a lui. Egli si salvava sostenendo inesauribilmente le spese della conversazione, obbligando all’attenzione, alle risposte, al riso, coloro che volevano appartarsene. Poi, alle frutta, come se obbedisse all’ispirazione d’un capriccio improvviso, annunziò che sarebbe partito il giorno appresso per l’estero e che sarebbe stato assente due o tre mesi. Fu un coro di esclamazioni e di inchieste; ognuno voleva sapere come mai quella determinazione fosse stata presa così da un momento all’altro, e perchè partisse, e dove andasse. Allora Santo Stefano spiegò, inchinandosi davanti alla cantante con una grazia cavalleresca di cui l’ironia sottile non isfuggì a lei. — Vado in pellegrinaggio a fare espiazione dei miei peccati di critico! La verità era ch’egli aveva già precedentemente ed in silenzio disposto tale viaggio per raggiungere a Parigi una signora forestiera della quale era molto preso e da cui s’era appena diviso con l’intesa di ritrovarsi all’estero; per ciò appunto aveva facilmente acconsentito alla pacifica composizione della vertenza capitatagli così di traverso sul punto di partire. — E adesso chi mi scriverà le riviste teatrali? — domandava con aria desolata il commendator Corradi. In realtà, per quanto egli poco si curasse di ciò nel suo giornale, affogato com’era sino al collo nel _mare magnum_ della politica e della finanza, pure la successione di Santo Stefano nella rubrica _teatri_ lo imbarazzava molto. Questo giornalista era un abile uomo che avea saputo sfruttare largamente il proprio giornale, facendone l’organo ascoltato ed autorevole delle combinazioni politiche e bancarie meglio destinate al successo. E poichè aveva capito che il valore commerciabile del suo giornale stava in proporzione del credito e dell’autorità che godeva presso il pubblico, nessuno era più vigile di lui nella scelta dei singoli redattori, nell’impedire che, all’infuori del traffico in grande di sua privativa, il menomo mercimonio venisse praticato nelle sue colonne. Perciò faceva posto assai volentieri a dei giornalisti dilettanti, di valore però, al di sopra di ogni sospetto come Santo Stefano; perciò l’abbandono da parte di costui di una rubrica che la prodigalità degli artisti, pur di soddisfare la loro sete di lodi, rendeva assai delicata, lo mise in quel momento in imbarazzo e gli fece venire in fine l’ispirazione di offrire a Torreforte la successione del critico in partenza. Torreforte dapprima rise a quella proposta; ma, come l’altro insisteva con la migliore serietà del mondo, egli mise avanti candidamente il _non possumus_ della propria incompetenza in materia. Ma non servì a nulla! Il commendatore teneva alla sua idea e ci s’era ostinato; gli altri s’univano a lui, approvando la scelta, incitandolo ad accettare — Santo Stefano più di tutti, con la sua aria finemente ironica che non lasciava capire mai quando parlasse sul serio o quando dicesse per burla. Più Torreforte si schermiva, più gli altri insistevano. Gli avea detto il commendatore: — Col vostro talento nulla vi può riuscire difficile! Gli avea detto Santo Stefano, guardando la cantante con intenzione: — Andiamo, vedrai come ti ci farai subito la mano! Quanto alla sua amica, ella non gli avea detto nulla in proposito, essendo troppo interessata nella quistione perchè le fosse permesso d’interloquire, ma lo avea guardato con tali occhi, con tale persuasivo sorriso, che in verità non avrebbe potuto essere più eloquente. Infine, egli stesso non avrebbe saputo dir bene come si fosse lasciato determinare, ma s’era sentito così circuito e incalzato e, nel momento particolare d’abbandono che attraversava, si era trovato talmente disarmato di fronte a sè stesso, ch’egli avea finito con l’accettare quella proposta di cui un momento avanti avea sorriso, come si sorride di certe assurde ed inammissibili cose. Alice Rossati stentava a nascondere la propria gioia. E quando Santo Stefano la salutò per andarsene, ella non seppe resistere al piacere di scoccargli una frecciata, felice di scuotersi dalle spalle, alla fine, il grave manto di dignità che la sua faticosa parte di donna superiore le avea imposto. In fondo, se il duello fosse avvenuto, se Torreforte avesse allungato al suo avversario una buona sciabolata, non sarebbe certo stata lei a piangerne! Ma poichè avrebbe potuto benissimo accadere il contrario e poichè in ogni caso non ne sarebbero venuti a lei che noie, rancori, ostilità di partiti, ella s’era invece adoperata col massimo zelo ad ottenere una riconciliazione, ciò che non poteva guadagnarle che del favore e delle simpatie nel pubblico. — Così — ella dunque disse a Santo Stefano — il vostro articolo era il canto del cigno?! — No! — rispose il giovanotto con una trasparentissima insolenza che le fece mordere le labbra, tanto la colpiva giusto. — Non era che una brutta rana la quale gracidava per l’ultima volta, avanti di cedere il posto ad un piccolo passero delizioso!... V. Sin dalla sera appresso, nella sua doppia qualità di critico teatrale e di amico della prima donna, Filippo Torreforte incominciò a frequentare il palcoscenico. Ella gli avea detto: — Venite a trovarmi in camerino.... E Torreforte era andato, senza farselo dire due volte, senza adombrarsi di fronte a sè stesso per tale novità pericolosa. Insensibilmente, passando attraverso una serie graduale di piccole transazioni interiori, un certo rilassamento di coscienza e di volontà avveniva in lui. Egli non cessava un minuto di fissare la mèta vagheggiata, ma si sorvegliava meno, allentava un poco le cinghie di ferro tra le quali costringeva la sua giovinezza a languire, per respirare più liberamente. Cominciava a trovarsi eccessivo, a sentirsi un tantino ridicolo anche nel tiranneggiarsi in tal modo, nell’essere così rigido verso sè stesso. L’esempio di tanta gente che in mezzo alla febbre del lavoro più assiduo e assorbente trovava pure il tempo di godere, di vivere, era lì per provargli come la difficile e bella impresa ch’egli s’era assunta si potesse conciliare con qualche distrazione e con un po’ di esperienza del mondo. E, mano mano che la sua vigile coscienza si assopiva, degli appetiti lungamente repressi si svegliavano in lui e un’ardente curiosità, un bisogno tormentoso di penetrare quel mondo nuovo e seducente che la cantante avea schiuso all’imaginazione e al desiderio di lui. Il palcoscenico gli appariva come un luogo favoloso, pieno d’eccitante mistero e di malsana attrazione; egli v’era salito col cuore che gli batteva, la fantasia in tumulto e una vaga sensazione di sgomento. Dapprima fu una delusione; tutto il lavorio della sua imaginazione cadeva davanti allo spettacolo che gli offriva, tra un atto e l’altro, il vasto e freddo ambiente attraversato dagli operai affaccendati che attendevano a disporre la scena, popolato di coristi, di comparse, di impiegati. Ma un segreto istinto gli diceva che la sua iniziazione incominciava appena, che presto i suoi occhi, maggiormente abituati all’ambiente, avrebbero veduto dippiù e di meglio! Quando si trovò nel largo corridoio che mette in comunicazione tra loro i camerini delle prime parti, una grande timidezza lo vinse. Degli artisti stavano là seduti, in costume, degli altri finivano di vestirsi e di _truccarsi_ per la scena, senza preoccuparsi d’esser veduti attraverso la cortina mal tirata, chiacchierando con qualche amico in visita o provando la voce con dei vocalizzi. Sul suo passaggio, tutti gli sguardi gli si posavano addosso curiosamente, squadrandolo in un modo imbarazzante, e gli ci volle tutto il proprio coraggio per farsi indicare l’uscio della prima donna. Picchiò debolmente; _Gioconda_ disse: avanti! Sì, era _Gioconda_ che gli stava dinanzi adesso, non l’amabile amica alla cui tavola avea pranzato la sera prima. Il distacco pareva grande e reale a lui, trovandosele accanto ora dopo averla ammirata dalla platea per due atti consecutivi, dopo aver diviso col pubblico per lei la commozione e l’entusiasmo, dopo essersi tanto interessato al personaggio ch’ella rappresentava. _La cantatrice errante_ era pronta per andare alla festa di _Alvise Badoero_, dove ella avrebbe fatto tranquillamente il suo ingresso insieme a qualche figlia di doge. Ella era superba nel suo fastoso costume di raso e di velluto azzurro; le magnifiche braccia uscivano dalle ampie maniche aperte come da una guaina; la ricchezza del seno era messa sontuosamente in evidenza dal larghissimo taglio dell’abito sul petto. Aveva degli occhi più grandi ancora del solito, degli occhi enormi, cupi e fantastici a guardarli così davvicino, per via della larga striscia di bistro che li contornava al di sotto e del rosso messo senza risparmio sulle palpebre. Tutti i tratti del viso, posti sapientemente in luce e in ombra con del rosso o del bianco, prendevano un rilievo straordinario, e le grosse labbra, coperte di carminio, si aprivano sulla composta maschera del volto come un ardente e mostruoso fiore. In luogo di rompere il suo incanto, come avviene guardando da presso una decorazione scenografica, la cantante conservava così agli occhi di lui il proprio fascino strano fatto d’illusione: ella era più che mai l’appassionata e pietosa amante di Enzo, veduta così davvicino. Quel viso acceso e pallidissimo ad un tempo, come se la febbre della passione lo consumasse, quegli occhi di fantasma, quelle labbra sanguinanti, le davano il melodrammatico suggello del personaggio rappresentato, erano l’imagine parlante dei sublimi trasporti di amore, di gelosia, di sacrificio dai quali era agitata sulla scena!... Ma ella lo riconduceva alla realtà, parlandogli della sera avanti, di Santo Stefano, del giornale, ritornava per lui la buona amica, la signora Alice Rossati.... Poi ancora, fra qualche minuto, all’avviso del _buttafuori_ di rientrare in iscena, ella si sarebbe trasformata agli occhi suoi, sarebbe ridiventata la _Gioconda_, l’eroica fanciulla che si votava alla salvezza di Laura e di Enzo, che faceva fremere d’orrore e di pietà tutta la sala allorchè andava a mormorare all’orecchio del baritono la sua fatale promessa!... Era un singolare innesto del fittizio sul reale che produceva una doppia personalità di cui l’una si sovrapponeva all’altra alternativamente, procurando l’illusione di una metamorfosi a vista. Tale appunto era la sensazione che Torreforte provava in quel momento e che gli faceva pregustare tutto il sapore acuto e particolare con cui quella donna avrebbe deliziato il palato d’un amante. Mai la sazietà — egli pensava — sarebbe stata possibile con lei poichè ella era così varia, così mutabile, poichè ella incarnava in sè ad un tempo tante diverse imagini ed anime di donne! E mai il suo possesso avrebbe ingenerato la stanchezza perchè mai possesso sarebbe stato meno pieno e durevole, perchè ad ogni momento ella si sarebbe ripresa per trasformarsi in un’altra creatura ch’era ancora lei e che non era più lei, che apparteneva tutta al pubblico e punto all’amante.... Vennero ad avvisarla che toccava a lei d’entrare in iscena; ella si diede un rapido sguardo allo specchio, ingoiò un sorso di camomilla, mise in bocca una pastiglia di liquirizia, e si salvò stringendo in fretta e distrattamente la mano a Torreforte. Questi rientrò nella propria parte anonima di spettatore, riprendendo il proprio posto in platea. Ma le sue idee ripigliavano insensibilmente il corso incominciato nel camerino della cantante. Gli applausi che il pubblico le prodigava freneticamente gli mettevano un curioso brivido addosso, come s’ella gli appartenesse e il successo di lei fosse pure il suo. Pensava all’ebbrezza che doveva dare all’uomo del quale ella fosse l’amante, lo spettacolo di quella folla in delirio, presa per lei da un tal furore d’entusiasmo!... Che orgoglio doveva gonfiare il cuore di colui che potesse dire tra sè: “Questa donna che solleva così la commozione, l’entusiasmo, gli applausi di forse duemila persone, è mia, mi appartiene anima e corpo, io la terrò nelle mie braccia mentre ancora durerà l’eco delle ovazioni suscitate!...„ E di nuovo, il rimpianto già altre volte vagamente provato all’idea che l’indeviabile cammino tracciatosi non gli consentisse di dedicarsi anche per poco alla cantante, lo pungeva, ma più acutamente, più a lungo, facendogli sentire per la prima volta la gravezza del fardello che s’era addossato sulle spalle. A poco a poco, diventò uno degli assidui del palcoscenico che incominciava a non avere più segreti per lui e ad inoculargli nel sangue il sottile veleno di lussuria che vi si respira. Per un nuovo iniziato come egli era, lo spettacolo dentro le quinte prendeva in certi momenti qualche cosa di veramente fantastico. Ad ogni passo, s’incontravano delle coppie intente a parlottare a bassa voce, con degli occhi animati e dei languidi sorrisi. Dietro una quinta, un elegante in marsina poneva l’assedio al contralto che aspettava le toccasse d’entrare in iscena; più in là era un giornalista che domandava al mezzo soprano la meritata ricompensa del suo articolo immeritamente laudativo; poi un tale che approfittava del _bis_ che il pubblico domandava dell’aria del baritono — il quale aveva una moglie assai carina e la stupidaggine d’esserne gelosissimo — per ripetere all’orecchio di costei la propria aria; — e la serie continuava ancora, sino al corista in vena di galanteria con qualche compagna del coro, sino all’umile comparsa in intimo colloquio con qualche dama o contadina di parata, arruolata come lui in mezzo alla strada. E l’allegro battaglione leggero delle ballerine, sparso di qua e di là in attesa della _battuta_ del coreografo, animava e completava il quadro, raccogliendo e ricambiando sul passaggio delle frasi e delle amenità da corpo di ballo, senza curarsi del direttore del palcoscenico e delle multe della commissione teatrale che erano roba da ridere per la maggior parte di loro.... Torreforte aveva finito col non mancar mai di fare la sua regolare comparsa nel camerino di Alice Rossati tutte le sere ch’ella cantava. Il giovane era più che mai nelle grazie della prima donna dopo gli articoli entusiastici seguìti nella Sera all’acerba critica di Santo Stefano; ella non gli avea prodigato mai quanto allora tanti sorrisi luminosi, tante occhiate eloquenti, rendendolo oggetto dell’invidia e della gelosia di coloro che frequentavano assiduamente come lui il suo camerino. La cantante amava molto di tenere circolo in quell’angusta e nuda stanzina dove non c’era neppure modo di sedersi in più di due o tre per volta, sopratutto quando non le toccava di mutare costume da un atto all’altro e non era di prima scena. Ella era là come nel proprio regno, come in soglio, e i suoi ammiratori venivano devotamente a metterle sotto il naso l’incenso del loro desiderio velato di galanteria, dell’adulazione e della maldicenza. Sentirsi desiderata, essere adulata e fare della maldicenza alle spalle delle altre: ella aveva bisogno di queste tre cose per vivere! Torreforte non poteva meglio nè più rapidamente compiere altrove il suo nuovo tirocinio come nel camerino di Alice Rossati. Tutto il bagaglio delle idee generalmente professate in fatto di doverosa cavalleria con le donne, di riserbo, di discrezione, era stimato vieto e stupido colà. Vi convenivano sopratutto alcuni consumati don Giovanni di palcoscenico che erano per lui il più sorprendente modello di cinica disinvoltura. Non aveva egli udito l’irresistibile Valdora rispondere tranquillamente, davanti a tutti, alla prima donna che gli domandava sorridendo, con intenzione, notizie del mezzo soprano — un’alta e magra bionda, molto elegante, ma già sul tramonto, la quale passava per essere l’amante di lui: — Ah, non me ne parlate! Quella lì è un terribile _crampon_, e non sogno che di trovare chi me ne liberi!... Alice Rossati fingeva di non volere ascoltare simili orrori sulle sue compagne, si spingeva sino a recitare la commedia dell’indignazione e della severità, ma in fondo non si compiaceva d’altro. I suoi amici lo sapevano e non risparmiavano nè le insolenti indiscrezioni, nè i frizzi, nè le malignità più sanguinose davanti a lei, anche all’indirizzo di donne molto desiderate e corteggiate da loro, presso le quali assai probabilmente ripetevano il medesimo giuoco a spese sue. Torreforte osservava curiosamente tutto ciò e cercava di apprendere meglio che poteva. Ma egli sentiva che la sua era ancora un’educazione interamente da fare e che mai, forse, sarebbe giunto all’altezza dei meno abili. Se ne accorgeva, per esempio, dinanzi alla ripugnanza, anzi all’impossibilità di lasciar credere a proposito di lui ciò che i più pensavano in presenza della significante ed ostentata preferenza che la prima donna gli accordava su tutti gli altri. La cosa aveva delle apparenze tali che, quando egli negava di essere in intimi rapporti con la cantante, gli altri stimavano che si tenesse chiuso per discrezione e lo trovavano stupido per avere di simili delicatezze. Egli pure si trovava stupido all’eccesso con quel suo spirito di cavalleria così mal collocato, ma sopratutto a cagione delle irrisorie apparenze di un fatto a cui non dipendeva che da lui il dare tutta la inebriante consistenza della realtà. Perchè dunque non era ancora l’amante di quella donna che pareva non desiderasse di meglio, che sin dal primo giorno gli aveva fatto chiaramente capire quanto egli le piacesse, che non s’era stancata di fare tanti passi verso di lui, mentr’egli era sempre rimasto scioccamente inchiodato al suo posto?... Le sue paure e i suoi scrupoli di prima gli parevano adesso puerili ed assurdi, sia per la progressiva evoluzione compiutasi in lui sotto la sapiente opera di seduzione della cantante, sotto la dissolvente influenza dell’ambiente, e sia perchè l’esempio di facilità e di leggerezza negli amori di palcoscenico che gli veniva da tutte le parti, lo rassicurava sulla possibilità di ogni pericolo pel suo avvenire. Che cosa poteva rimetterci? Un po’ di tempo e di attività rubati ai suoi affari, alla sua professione, di cui si sarebbe rifatto dopo raddoppiando di zelo! Perchè dunque tardava ancora a prendersi quella donna?... Il desiderio lungamente covato del possesso, diventato ora bisogno violento, s’imponeva a lui come una necessità improrogabile, non lo faceva più per nulla esitare davanti alle probabilità maggiori o minori di successo ch’egli avrebbe avuto uscendo ad un tratto dal suo riserbo per osare un colpo d’audacia. È vero ch’ella gli aveva spesso ripetuto, a proposito di passioni ispirate e non corrisposte da lei, di assedî postile e vittoriosamente respinti: “_Con me, o matrimonio, o nulla!_„ Ma non era che un ritornello conosciuto certo da tutti gli amanti ch’ella aveva avuto, la parola d’ordine della sua virtù avanti di capitolare!... Che avrebbero fatto Valdora, l’onorevole Ascani, i vecchi topi di palcoscenico infine, s’ella avesse messo loro dinanzi un tal dilemma? Certo ne avrebbero riso e sarebbero divenuti più intraprendenti di prima. Ora egli si credeva abbastanza formato alla loro scuola, e non voleva più apparire sciocco agli occhi loro!... Così una sera, dopo un’ora di deliziosa intimità nel salottino di lei, seduti sul medesimo divano, con le ginocchia che quasi si toccavano, sentendo il sangue montargli al capo e ingorgargli il cervello, egli le afferrò ad un tratto le mani cingendosene la vita e le avventò un lungo bacio sulla bocca.... La cantante si svincolò, balzò in piedi con uno scatto di dignità oltraggiata e in rivolta, additandogli la porta con un gesto solenne della mano e stendendo l’altra verso il bottone della soneria elettrica. S’ella avesse serrato un pugnale in quel momento, avrebbe fatto certamente pensare, tanto drammatica era la sua posa, ad Elvira dell’_Ernani_ nell’atto di respingere il suo reale aggressore — benchè in verità Torreforte, tra la sorpresa, la vergogna e lo sconvolgimento della sua esaltazione bruscamente rientrata, non avesse nulla di maestoso in tal frangente, ma piuttosto l’aria dimessa di un cane frustato. — Vi credevo migliore degli altri.... — gli disse mentre egli, dopo aver balbettato qualche scusa, si disponeva ad andarsene non sapendo che fare di meglio. — Mi sono ingannata! VI. Fu un amaro e crudele risveglio per Filippo Torreforte. La brusca scena inattesa lo aveva lasciato tutto stordito, senza forza di rialzare il capo sotto il peso dell’umiliazione patita. Una voce insistente dentro di lui gli diceva di profittare della dura prova attraversata per lasciare la pericolosa e malsana strada in cui s’era cacciato, per rimettersi sulla via maestra tracciatagli dal dovere, ritornando alla sua vita di lavoro e di fortificante solitudine, ai propri affari che lo reclamavano e che già egli avea incominciato a trascurare in modo allarmante. Gli pareva che fosse la cara voce di sua madre a parlargli così internamente, di sua madre che già aveva intuito, col vigile istinto della maternità, l’alterazione avvenuta in lui, che non osava lagnarsi delle sue lettere meno frequenti e distratte, ma se ne inquietava, e voleva sapere ogni volta se stesse perfettamente bene in salute, se non avesse qualche preoccupazione per il capo.... Egli sentiva che là, su quella strada dove s’era trovato spinto innanzi quasi di sorpresa, non avrebbe incontrato che amarezze e dolori. L’esperienza fattane con la cantante era lì per provarglielo; troppo il fondo del suo carattere era semplice e schietto, troppo egli era ingenuo ed inesperto per navigare con successo in quel pelago di falsità, di malizia, di perfida astuzia. Eppoi, quand’anche così non fosse, dato pure che il palcoscenico non gli avesse procurato che ebbrezze di piacere e di vanità, non doveva egli egualmente fuggirlo? La sua fibra non era abbastanza forte per permettergli di dividersi tra il dovere e il piacere, non gli consentiva di praticare l’uno senza escludere l’altro. Egli non disponeva che di una energia morale limitata, della quale il segreto stava nella sua solitaria ed austera vita di lavoratore, al di fuori d’ogni distrazione pericolosa e d’ogni tentazione. In tal modo avea potuto percorrere tanto cammino in pochissimo tempo e trovarsi non troppo lontano dalla mèta sospirata. Ma rotto l’equilibrio, alterata la severa regola impostasi, la sua forza lo abbandonava, si disperdeva, non riusciva più a lui di ritrovare la propria ammirabile attività e di concentrarsi nel lavoro. Se non gli era bastato che di affacciarsi appena alle porte di quel mondo, così seducente e così pieno di pericoli ad un tempo, per rimanerne già turbato e scosso, che avverrebbe se vi si inoltrasse ancora, se vi si ingolfasse del tutto?... Egli prevedeva tutto: la caduta delle sue ambizioni, l’impossibilità di fare più un passo avanti se non pure la possibilità di perdere tutto il terreno guadagnato, la povertà per sua madre, per le sue sorelle, per lui!... Il solo pensiero di sua madre, l’idea di rendersi spergiuro dinanzi a lei mancando al voto fatto, non dovevano bastare a corazzarlo contro ogni tentazione, a dargli la forza di voltare sdegnosamente le spalle se anche gli si aprissero dinanzi gl’incanti di un eden?... Eppure no, non bastavano più adesso ad allontanarlo dal palcoscenico, a strapparlo dal malsano ambiente di cui i suoi polmoni avevano già assorbito l’aria viziata! Egli non si rivoltava ancora contro sè stesso, non pensava alla possibilità di abiurare alla propria religione, ma rimandava ancora il ritorno definitivo alla sua raccolta e feconda esistenza di prima, si lasciava scivolare sempre più per la via delle transazioni e degli accomodamenti di coscienza. Poichè ce n’andava di mezzo tutto il suo avvenire egli contava bene di allontanarsi dal teatro, di seppellirsi un’altra volta, come sino a due mesi avanti, tra i processi ed i classici del Diritto.... Sì, ma _dopo_! Dopo, voleva dire per Torreforte non prima di aver messo anche lui le labbra alla coppa del piacere a cui tutti bevevano avidamente, largamente lassù, sul palcoscenico, non prima di avere preso egli pure la sua parte, per quanto modesta, al grandioso festino di lussuria che si svolgeva ogni sera sotto i suoi occhi affatto esperti adesso. Non invano aveva avuto la rivelazione di quel mondo ignorato e seducente al di là della sua imaginazione, non impunemente s’era sentito accendere nel sangue la febbre di desiderio che lo spettacolo di tanti amori annodati liberamente, quasi ridendo, di tutte le tentazioni offerte e le concupiscenze destate produceva su lui, perchè potesse andarsene così com’era venuto, senza avere appagata ed estinta la smania di godimento che gli era entrata nel cervello. Ma non era questo soltanto. L’umiliazione inflittagli da Alice Rossati gli scottava le carni; l’indegnità della condotta di lei a suo riguardo l’avea furiosamente irritato, mettendogli addosso un pungente bisogno di ostilità e di rappresaglie. Il giuoco di lei gli appariva adesso lucidamente: l’avea attirato, lusingato, sedotto sin dal primo giorno per servirsene secondo il proprio interesse, per sfruttarlo con sapiente calcolo. La sua collera era tanto più violenta in quanto egli sentiva di desiderarla ancora, più di prima anzi! Voleva farle dispetto ad ogni costo, porre l’assedio, e con successo, ad un’altra sotto i suoi occhi per mostrarle che non si curava di lei, che piaceva ed era desiderato altrove! Per ciò solo, Torreforte si volse dalla parte di Regina Morelli, il biondo e tramontante astro lirico in chiave di mezzo soprano di cui il folgore passato dava tanto fastidio agli occhi della prima donna. Ne fu accolto nel modo più incoraggiante; ella era furiosa contro Valdora che la trascurava sempre più indegnamente, e peggio d’una vipera verso la Rossati che ne godeva e glielo portava via accettando la sua corte. Ignorando ciò ch’era passato tra Torreforte e la propria rivale, non avendo avuto il tempo di accorgersi del cambiamento sopravvenuto nelle loro relazioni tanto manifestamente cordiali che i più parlavano di rapporti intimissimi, ella credette di regalarsi l’acuta gioia di rubarlo all’altra, di prendersi una solenne rivincita. Perciò fu felice, e se l’ebbe come un omaggio offertole in prova d’amore, allorchè, durante un breve periodo di malattia attraversato dalla prima donna, Torreforte il quale avea conservato delle apparenze d’amicizia con lei ma non metteva più piede nel suo appartamento, s’era astenuto all’incontro di tutti gli altri, dal farle una sola visita. Di ciò ella avea potuto benissimo assicurarsi poichè dimorava nel medesimo albergo della prima donna, e grazie al reciproco sistema di spionaggio stabilito tra loro per mezzo dei camerieri. E un giorno che Torreforte si trovava da lei e la convalescente era scesa a prendere per la prima volta l’aria e il sole liberamente nel giardinetto sottostante dell’albergo, ella avea voluto che il giovane s’affacciasse pure al balcone, perchè l’altra li vedesse insieme, a due passi da lei, e sentisse di più l’affronto della condotta del giovane a suo riguardo in quella circostanza.... Torreforte non si piegò al maligno capriccio, vergognoso in fondo di prestarsi passivamente a tal giuoco. Invece la obbligò a rientrare dal balcone, le sedette vicino vicino, dicendole ch’era una sciocca a crederlo capace di occuparsi ancora di colei, di averla presa mai sul serio — e la ebbe così, ripetendole che l’altra era una donna volgare come era una volgare cantante, che sapeva solo abbaiare, che stonava maledettamente!... Con sua grande sorpresa, Torreforte si ritrovò, dopo il possesso della sua nuova amica, senza nè ardore nè entusiasmo. Il fatto non poteva non sorprenderlo e non turbarlo, perchè Regina Morelli era una donna assai seducente ancora, d’una eleganza difficile ad incontrarsi in palcoscenico, e nell’oscura esistenza di lui, simile a quella di un povero studente di provincia, rappresentava la più luminosa e inebriante conquista, forse l’unica. Quanto alla donna, ella non si era data a lui che per il piacere di sentirlo parlar male della nemica.... Ma la loro relazione non dovea avere che un’effimera durata. Poco dopo, la diva sul tramonto si presentò al pubblico nella _Favorita_, uno dei suoi ex-cavalli di battaglia.... Fu un fiasco enorme, umiliante, e all’indomani ella ottenne, molto facilmente del resto, lo scioglimento dalla scrittura, e partì per Milano, non volendo restare neppure ventiquattr’ore ancora nella città odiata alla quale avrebbe appiccato volentieri il fuoco, se avesse potuto. Torreforte si ritrovò dunque libero quasi all’indomani. Il poco sapore trovato in questa prima avventura non era bastato a guarirlo dalla febbre che si era impadronita di lui, gliel’accendeva di più anzi, sopratutto davanti all’esasperante indifferenza di colei ch’egli aveva sperato d’irritare e di offendere. Una seconda avventura seguì presto alla prima, e senza che egli neppure l’avesse cercata; Torreforte era alla redazione della _Sera_, allorchè gli capitò la visita d’una nuova scritturata al Massimo, una polacca che cantava da soprano leggero e che tornava da un insuccesso clamoroso al teatro San Carlo di Napoli. Questa cantante, senza voce nè scuola, era la vittima d’un disonesto speculatore che aveva saputo accendere e alimentare in lei le più folli speranze e le avea fatto abbandonare la famiglia, sciupare tra maestri e impresari a Milano il suo modesto, ma sicuro patrimonio. Era una bionda alta e forte, quasi fulva, assai desiderabile, ciò che faceva dire con un cinico sorriso ai frequentatori di palcoscenico ch’ella avea sbagliato carriera. Ma la polacca invece si credeva sicuramente destinata a diventare una stella di prima grandezza nel firmamento lirico, malgrado che i pubblici da lei affrontati sin allora, raramente si fossero astenuti dal dimostrarle il contrario. Tra la paura del fiasco e la manìa del successo, ella viveva in una specie di continua febbre; per un’ovazione in teatro, per un articolo laudativo sopra un giornale importante, sarebbe passata persino sul corpo di sua madre! Tutti i giornali avevano avuto la sua visita o una carta di lei, subito dopo arrivata, ma al critico della _Sera_ che contava tra i giornali più letti ed autorevoli d’Italia e avea trenta mila copie di tiratura, era riserbata una visita speciale. Torreforte dovette ascoltare per mezz’ora il racconto degli imaginari trionfi artistici riportati da lei nella sua breve carriera, delle feste straordinarie prodigatele per le sue beneficiate: un volo di fantasia che non s’arrestava più. Ma poichè era una piacente creatura, egli stava ad ascoltarla volentieri e glielo lasciava naturalmente vedere.... Allora la cantante si mise a parlare del suo recente insuccesso al teatro San Carlo, protestando d’esser caduta vittima di un’odiosa congiura di palcoscenico, dell’impresario che aveva voluto sbarazzarsi di lei per dare la sua parte ad una esordiente la quale non gli costava nulla, ma anzi lo pagava perchè la facesse cantare.... Ricordando l’infame cabala che diceva esserle stata ordita, ella si eccitava, si commuoveva, la voce le s’affiochiva, il petto le ballava con ansare convulso.... Improvvisamente gettò un debole grido e si abbandonò sopra una poltrona del salotto di redazione, colle braccia inerti e gli occhi chiusi, côlta da uno svenimento. Torreforte, imbarazzato, le avea spruzzato un po’ d’acqua sul viso, le avea sbottonato il colletto dell’abito, l’avea scossa.... Ma ella era presto ritornata in sè, guardando il giovane con dei languidi occhi, dicendogli nel suo bastardo italiano: — Ah, signore, perdonarmi!... Io così, troppo sensibile! Nostra arte grandi gioie, ma anche grandi dolori! Mia testa gira tanto! Volete avere bontà accompagnarmi in mia casa?... E Torreforte l’aveva aiutata a scendere le scale, l’aveva ricondotta in carrozza a casa, ed era corso da un farmacista per un cordiale.... Al suo ritorno, l’aveva trovata in letto, un pochino meglio diceva lei, in un delizioso disordine del quale ella pretendeva anche doversi scusare. Allora, egli s’era costituito suo infermiere, le avea somministrato la mistura calmante, s’era installato al suo capezzale.... e il resto! In capo a due settimane, Torreforte s’era trovato già stanco della polacca. E poichè aveva odorato nell’aria che il suo successore era pronto nella persona dell’impresario, a cui la cantante, nella speranza di una riconferma, riserbava forse qualcuno dei suoi improvvisi svenimenti, egli ruppe senz’altro, prendendo la cosa in ridere, come avrebbe fatto uno che avesse avuto dieci anni d’esperienza più di lui con le donne in genere, e con le donne di teatro in ispecie. Di giorno in giorno, Torreforte diventava agli occhi proprii un soggetto di crescente sorpresa. Donde veniva a lui, vissuto sempre in astinenza e a distanza dalle donne, tale profondo distacco, tale mancanza d’appetito e di vanità che gli faceva prendere, di fronte a delle conquiste ch’egli non avrebbe neppure osato vagheggiare un poco innanzi, l’atteggiamento di stanchezza e di sazietà di chi ha avuto troppe avventure nella propria vita?... Egli lo sapeva, donde veniva lo strano e inquietante fenomeno! Ma si rifiutava, per orgoglio e per paura insieme ad accettarne l’evidenza, non voleva confessare a sè stesso che se era rimasto freddo e indifferente in cospetto delle amorose fortune capitategli, era perchè lo perseguitava l’imagine e il desiderio di un’altra donna, perchè la sferzata che Alice Rossati gli avea applicata al viso, respingendolo in quel modo inaspettato e avvilente, avea invelenito in lui più che mai la febbre del possesso! E per non pensare a ciò, per stordirsi e per dimenticare, egli si abbandonava sempre più al disordine entrato nella sua esistenza, cullandosi nell’illusione di riprendersi presto, di attraversare soltanto una crisi passeggiera e senza conseguenze. Non solamente trascurava i suoi affari adesso e si alienava a poco a poco la propria clientela, ma, peggio, per soddisfare ai bisogni della sua nuova maniera di vivere, alle istintive velleità d’eleganza, alle mille piccole spese a cui l’obbligavano i suoi doveri di galanteria, egli s’era trovato squilibrato e avea preso a contrarre dei debiti. Sua madre, ora, cominciava timidamente a levare la voce, a rimproverarlo dolcemente, con certe lettere piene di tenera e inquieta sollecitudine che gli mettevano il cuore in tumulto, ma lo spingevano sempre più, per reazione, sulla via in cui s’era ingolfato, perchè egli voleva finirla, perchè voleva estinguere in lui, a furia di ubbriacarsi altrove, la sete di quella donna! Sospinto innanzi così, irritato invece che calmato dall’inefficacia dei diversivi trovati, egli avea cercato persino di abbrutirsi nel piacere più facile e volgare, dietro ai succinti gonnellini del corpo di ballo.... Il risultato ottenuto era stato unicamente di trovarsi più che mai indebitato e bisognoso di danaro, in modo da non sapere come andare avanti. A questo punto, Luciano Mascali, il cattivo genio della sua famiglia, era intervenuto, aveva ripreso a tessere attorno a lui la terribile tela di ragno dove suo padre s’era perduto, dove tutta la proprietà dei Torreforte doveva finire, prestando qualche migliaio di lire e allargando in cambio la cerchia divoratrice delle sue ipoteche. Torreforte, naturalmente, non avea lasciato costituire il nuovo vincolo che sulla propria quota ereditaria. Ma egli non sapeva essere ipocrita con sè stesso, non si dissimulava che più la loro comune proprietà sarebbe lapidata a furia di iscrizioni, e meno sarebbe possibile contrastarne la rapina finale a colui che stava a spiarne il momento. Così egli, da protettore, da redentore della sua famiglia, come avea sognato di essere, diventava il complice di Luciano Mascali, cooperava anche lui all’opera odiosa di spogliazione! E non c’erano voluti che pochi mesi, appena il tempo di abituarsi all’ambiente dove la sua maligna stella lo avea fatto capitare, perchè la mostruosa evoluzione fosse stata possibile in lui! Dove sarebbe andato ancora?!... Allora, egli si sentì preso da una folle paura e da una folle angoscia; il sentimento della salvezza gli s’impose! Ma in luogo di cercarla nel ritorno alla sua esistenza d’una volta, parve a lui che l’avrebbe trovata col riavvicinarsi ad Alice Rossati, ottenendo da lei la fine di quello stato di tensione e di sorda ostilità tra loro che, per reazione, lo spingeva verso la propria rovina. E una sera che la cantante attraversava il palcoscenico alla fine dell’atto per rientrare in camerino, egli la fermò, nell’angolo più oscuro e deserto della scena, risolutamente, ma col cuore che gli batteva con violenza spasmodica. — Non dimenticherete e non mi perdonerete mai, dunque, un momento di debolezza e di vertigine? — le domandò con la voce che gli tremava. Ella tacque un istante; poi disse: — Io non domando di meglio che dimenticare! E gli sorrise dolcemente nell’ombra. VII. Per un momento, l’illusione di aver ricuperato la calma e la serenità dello spirito sorrise a Torreforte. La torbida febbre che gli avea tenuto acceso il cervello tutto quel tempo, gli dava tregua per un poco nell’espansione e nel sollievo insperato del cordiale ravvicinamento seguìto tra loro. Ella era stata piena d’intelligente bontà per lui, aveva avuto un’arte delicata di allontanare da loro la memoria della critica sera, di liberarlo da ogni sentimento d’imbarazzo, come se nulla avesse turbato mai la perfetta intesa reciproca di prima. La resa a discrezione di Torreforte la rendeva felice perchè realizzava appieno le sue previsioni e solleticava dolcemente il suo orgoglio. L’orgoglio era la corda più facile a vibrare in lei: uno strano orgoglio che avea esso pure, come tutti gli altri suoi sentimenti, alcunchè di teatrale, e s’attaccava più alla esteriorità che al fondo delle cose. Era un po’ la fierezza, l’attitudine melodrammaticamente altera dei personaggi del proprio repertorio, trasfusasi in lei a furia di recitarne le parti; ella richiamava per tale riguardo il singolare spettacolo che offrono alla sera in palcoscenico certe comparse alle quali tocca di rappresentare la muta, ma superba parte di imperatore od altro eccelso personaggio, e che se ne stanno solitari e sdegnosi tra le quinte, con l’aria di non voler derogare alla propria dignità, portando in giro fieramente i loro falsi ermellini, le luccicanti armature di latta, le corone tempestate di cristalli multicolori. Torreforte, col suo brutale attacco, con quell’aria di trattarla come la più facile delle conquiste, l’aveva ferita nel lato più sensibile, avea sollevato la sua indignazione di donna abituata a sentirsi sospirare ogni sera le più infiammate e deliranti frasi d’amore negli appassionati duetti dove non le si domandava spesso altro che un bacio. Sopratutto venendo da lui ch’ella sapeva già a mente, di cui aveva benissimo penetrato il fondo d’ingenuità e d’inesperienza, quel brusco attacco a tamburo battente l’avea fatta rivoltare perchè vi avea veduto un partito preso di facile conquista, una lezione imparata a memoria e mal digerita di libertina spigliatezza. Ma non era stato ciò solo a farle prendere quella sera la superba posa di sdegno e di rivolta che Lucrezia le avrebbe invidiato. Resistendo a Torreforte, la cantante avea anche agito secondo un vago progetto accarezzato sin da quando lo aveva sentito abbandonarsi a lei con sincero trasporto, dopo il duello evitato: ella avea veduto in lui un possibile marito! Il matrimonio era la sua mèta, ma un matrimonio all’infuori del teatro, che le permettesse di lasciare le scene anzi, malgrado le soddisfazioni e le ebrezze trovatevi, che le facesse in società il posto ambìto di signora della buona borghesia, stimata, rispettata, con delle visite da ricevere e da restituire, un salotto aperto a un dato giorno della settimana dove ella dovrebbe subire ogni volta la ressa degli amici e delle amiche per cantare qualche cosa, e dove ritrovare i trionfi del teatro. Torreforte le pareva possedere tutte le qualità per effettuare un tale bel sogno ch’ella vagheggiava come la maggior parte delle sue compagne d’arte, non escluse le _dive_, salvo a sentirsi riprese furiosamente dalla inguaribile nostalgia del palcoscenico appena abbandonatolo. Per tutto il tempo ch’era durato il ghiaccio tra loro, la cantante era rimasta tranquilla ed ironica spettatrice delle galanti imprese di Torreforte, o piuttosto dei suoi disordini a freddo: ella sapeva bene di esserne la tormentosa causa, e appunto per ciò l’avevano lasciata freddamente serena, senza accenderle una sola scintilla di risentimento e di gelosia — l’esca più facile a prendere fuoco in lei! Invece avea aspettato pazientemente ch’egli tornasse a lei, e quando alla fine ciò accadde, ella sentì le sue aspirazioni matrimoniali toccare la realtà! Torreforte provava un senso d’ineffabile sollievo, sentendosi arrestare dalla forza soave del sorriso con cui ella l’aveva accolto, sulla china rovinosa dove s’era lasciato a poco a poco scivolare. S’era arreso soltanto per stanchezza e paura, senza troppo contare sulla clemenza del vincitore; l’insperata generosità di cui era stato colmato al contrario, lo avea talmente sorpreso e commosso che tutto il suo rancore e le sue prevenzioni ostili se n’erano andati via ad un tratto. Anzi, era lui che si stimava condannevole adesso! Perchè ella gli aveva resistito, mentre provava per lui una visibilissima inclinazione?... Perchè apparteneva ad un’altra specie di donne che la polacca e Regina Morelli, perchè era una creatura onesta! Ed egli aveva potuto volergliene e farle una colpa d’essere onesta?!... Così, il suo malanimo si mutava ora in un sentimento delicato e profondo d’ammirazione e di stima che gli svegliava il più pungente rimorso per l’attitudine ostile serbata ingiustamente tutto quel tempo di fronte a lei, e il più vivo desiderio di farsela perdonare a furia di devozione e di rispetto. Per la seconda volta, ella gli dava la prova di una bontà tanto fuori del comune e toccante che il cuore di lui non poteva restare chiuso ancora allo slancio di riconoscenza appassionata che lo invadeva per lei. Da un giorno all’altro, Torreforte era ritornato l’amico privilegiato e carezzato dei bei tempi; egli riprendeva il suo posto con una gioia di fanciullo rientrato nel favore materno dopo un castigo meritato, senza più alcun determinato partito di conquista, abbandonandosi ad occhi chiusi alla corrente che lo trasportava. Come il suo desiderio esasperato e il superficiale sentimento provato sin’allora prendevano adesso, attraverso il lume del sorriso di lei, quella sera, e per la soave magìa dell’accoglienza sapientemente amorevole, il carattere di una vera passione, egli si spogliava del suo scetticismo di seconda mano, degli insegnamenti di strategìa dongiovannesca male appresi in palcoscenico, diventava sincero e timido come un collegiale. Era il suo temperamento sentimentale che si rivelava schiettamente in tal modo e gli suggeriva certe fanciullesche fantasie di cui avrebbe riso egli medesimo prima. Per esempio, egli amava di mandarle sul palcoscenico, o a casa, dei fiori tra i più belli e costosi, serbando l’anonimo del dono, sorridendo al pensiero ch’ella forse avrebbe indovinato lo stesso che venivano da lui. Una fanciullaggine di tal genere anzi, gli avea procurato la più grottesca sorpresa, un giorno che s’era trovato insieme al deputato Ascani nel salotto della cantante, dinanzi ad un magnifico cestello di orchidee inviate da lui la sera avanti, per l’ultima rappresentazione di _Gioconda_. La prima donna s’estasiava nel mostrare i fiori e raccontava, guardando fissamente Torreforte, in modo da farlo arrossire sino alla radice dei capelli, come non fosse riuscita a sapere da chi venissero — mentre Ascani s’accarezzava sorridendo con intenzione la barbetta già grigia e ripeteva: — Hum?... chi può averli mandati?... Hum!... chi lo sa?!... Poi, intanto che scendevano insieme le scale, Ascani aveva infilato il braccio di lui, con un’aria di confidenza e di bonaria intimità da camerati, dicendogli con lo stesso sorriso che avea finito di sopra per scuotere la convinzione della cantante sulla provenienza degli anonimi fiori: — Dunque hanno avuto un successo quelle orchidee?... Andiamo, voi non indovinate chi ha potuto mandarle?... Capirete, mio caro, che nella mia posizione, avendo famiglia, mi tocca fare le cose con riserbo ed evitare le chiacchiere!... L’umoristico caso, non solo avea avuto per Torreforte il gustoso sapore di comicità di cui era pieno, ma avea anche esercitato su di lui un contraccolpo morale, spingendolo più che mai sulla via del sentimento per reazione, per l’intimo orgoglio di sentirsi ben diverso dagli Ascani, dai Valdora, da coloro che egli avea potuto per un momento prendere a maestri e che muovevano alle loro conquiste con certe armi della cui lealtà e dignità l’elegante deputato gli avea fornito un luminoso saggio! Da parte sua, la cantante non era mai stata con lui più seducente nè più graziosa d’abbandono, sopratutto perchè anche lei incominciava a scaldarsi le ali alla stessa fiamma di Torreforte, e ve l’avrebbe volentieri lasciate se non fosse stato per la speranza che accarezzava. La sua natura di comediante, foderata di vanità e di egoismo, non era troppo fatta per amare, ma infine, poichè Torreforte le piaceva tanto ogni giorno dippiù, ella gli offriva tutto il modesto capitale di sentimento di cui poteva disporre. Se l’offerta era povera, in compenso ella aveva un’arte profonda e delle preziose risorse per farla valere cento volte dippiù agli occhi di lui. A poco a poco, ella finì col creargli l’illusione di non cantare, di non stare sulla scena che per lui, per lui solo. Qualunque posto del teatro egli occupasse, gli occhi di lei lo cercavano dal palcoscenico, lo raggiungevano sempre in mezzo alla folla, come se fosse la calamita ad attirarli. Era sempre così, trovando modo di volgere e di fissare lo sguardo verso di lui, ch’ella cantava le più appassionate romanze, le frasi più deliranti d’amore. Torreforte allora, si sentiva prendere da un’esaltazione dolcissima che gli faceva battere il cuore tumultuosamente e quasi mancare il respiro: la sala più non esisteva per lui, abolita come per incanto dall’illusione di diretta ed appassionata corrispondenza che la corrente magnetica di quegli sguardi creava tra loro. Le parole d’amore che ella scandiva quasi per lui, la potente suggestione della musica, l’elettricità dell’ambiente dove la più intensa attenzione e l’entusiasmo regnavano, la finzione della scena, tutto infine contribuiva ad ubbriacarlo, a farlo vibrare sino allo spasimo sotto la carezza di quei fantastici occhi che lo raggiungevano dappertutto, attraverso la folla. Poi, vedendo dei binoccoli che s’appuntavano su di lui, indovinando d’occupare di sè coloro ai quali l’appassionata corrispondenza non isfuggiva, egli si scuoteva, usciva dall’illusione formatasi.... Ma era un’ebrezza che svaniva per lasciare il posto ad un’altra; il cuore gli si gonfiava di dolce orgoglio sentendosi l’oggetto della curiosità e certo dell’invidia svegliata nel pubblico dallo spettacolo della propria felicità. Se ancora non gli apparteneva, egli però poteva dire di lei adesso alla folla, come glien’era venuta la sete una sera lontana: “Questa donna che solleva così la vostra commozione, il vostro entusiasmo, i vostri applausi frenetici, non pensa che a me, non vede che me, non canta che per me in questo momento!„ Egli, in ricambio, non avea più occhi per alcuna in palcoscenico: le altre non esistevano nemmeno per lui. Aveva a poco a poco, anzi, rotto tutte le amicizie annodate lassù e nelle quali il partito preso di dispetto da cui era stato animato un tempo gli aveva fatto mettere ogni possibile ostentazione d’intimità e di calore. Solo gli era rimasta dell’amicizia per il contralto, una buona ed onesta fanciulla che egli aveva preso a proteggere nelle colonne della _Sera_, senza alcun secondo fine, e che in ricompensa gli avea dato questo consiglio, una volta, con un accento di affettuoso interesse e di tristezza che l’avevano turbato e commosso profondamente: — Fuggite il palcoscenico, amico mio!... Le tavole del palcoscenico sono troppo pericolose per i semplici ed i buoni come voi! Era una povera e fiera creatura che s’era data al teatro per vivere lei e la madre, ma che ci si trovava insopportabilmente a disagio, senza potere aspirare ad una carriera fortunata e lucrosa perchè disponeva di assai limitati mezzi vocali e senza sapersi abbassare alle degradanti arti alle quali ricorrevano le altre nella sua situazione. Mentre vedeva delle compagne, senza più voce di lei, ma con meno talento e scuola, applaudite dagli amici, ben trattate dalla stampa, ella, che non accarezzava giornalisti, che non accettava protettori e teneva la sua casa chiusa a tutti, incontrava soltanto freddezza e ostilità. Ciò non impediva che in palcoscenico circolassero su di lei le voci più oltraggiose, e Torreforte aveva udito la prima donna affibbiarle persino per amante il cameriere dell’albergo. E poichè non avea saputo trattenersi dal protestare ch’erano calunnie, la sua amica l’aveva investito duramente, domandandogli se avesse qualche debole per quella gesuita, come lei la qualificava — cosicchè egli avea pensato con un sussulto di gioia: “_Dio, com’è gelosa!_„ e subito era diventato vile, mettendosi a ridere anche lui delle piccanti storielle ricamate sulla pura esistenza della fanciulla. In luogo d’imitare l’esempio di lui però, la cantante non pensava punto a sacrificargli i propri amici. Valdora, Ascani, il direttore d’orchestra, tutta la sua corte infine, continuavano a starle attorno, ognuno più o meno con delle evidenti velleità di conquista, senza lasciarsi scoraggiare per nulla dal terreno guadagnato su di loro da Torreforte. Questi s’era dapprima consolato pensando che ella non poteva mutar condotta da un giorno all’altro verso della gente ammessa già alla sua intimità, e sperava che a poco a poco se ne sbarazzerebbe. Ma rimase amaramente deluso!... Ella non gli lesinava, è vero, il piacere di sentirgliene dir male, di regalarne a lui delle crudeli caricature, di mostrarsi, appena aveano voltate le spalle, annoiata e irritata della loro assiduità importuna che non permetteva ad essi di starsene un po’ soli e tranquilli, però in realtà non faceva nulla per allontanarli; tutto il contrario anzi. Al giovane sfuggiva in gran parte il consumato machiavellismo di civetteria con cui ella sapeva tenerseli tutti attaccati malgrado la troppo evidente preferenza accordata a lui, i piccoli, intimi compensi di un’occhiata eloquente scambiata con uno, di certe lunghe strette di mano prodigate ad un altro.... Constatava però, soffrendone acutamente, ch’ella non avea l’aria di respingere la corte che le facevano, e al fuoco sottile di tale tortura il sentimento che lo possedeva — di cui non era più possibile negare a sè stesso la natura — si maturava, cresceva d’intensità e d’ardore. Chi alimentava più degli altri la sua vaga, eppure mordente gelosia, era l’intraprendente Valdora, un elegante che passava la vita tra le quinte dove le sue avventure non si contavano più, e che disponeva spesso, per via della propria autorità di giudice competente nei clubs, nel pubblico speciale di turno dispari, del successo o dell’insuccesso degli artisti. Torreforte se n’era trovato affatto liberato, con suo profondo sollievo, all’arrivo di una nuova scritturata che passava per essere una rara bellezza. Ma n’era seguìta una sofferenza più acuta per lui davanti al geloso furore che s’era impadronito della cantante vedendosi abbandonata così per l’altra. Era più forte di lei: malgrado il calcolo prudente di non dispiacere al suo amico, malgrado il desiderio sincero di non farlo soffrire, allorchè incontrava Valdora tutto pieno di premure e di galanteria attorno all’altra, nè più nè meno come avea fatto con lei sino al giorno prima, ella impallidiva, diventava cattiva, non li perdeva più di vista un momento. E Torreforte si struggeva accanto a lei pensando ch’ella doveva pure amare colui per soffrirne così, domandandosi che cosa poteva esserci stato tra loro, durante il tempo ch’egli s’era tenuto lontano! Più tardi, aveva acquistato per caso, vedendola restare del tutto fredda e indifferente alla improvvisa notizia di un disgraziato accidente capitato a Valdora, la certezza che questi non contava nulla per lei. Ma ai suoi occhi già offuscati dalla passione tale evidenza, invece di servire a rivelargli il carattere di lei, avea preso il valore di una grande prova d’amore, gli avea messo nell’anima il dolce orgoglio d’esser riuscito a toglierle Valdora dal cuore, per regnarvi solo! Gli altri però s’incaricavano di avvelenargli simile gioia, specialmente Masselli, il direttore d’orchestra, ch’era nelle migliori grazie di lei perchè la sosteneva presso l’impresario e lavorava adesso per farle assegnare la parte di Margherita nel _Faust_ — parte ch’ella teneva a portar via alla prima donna dell’altra compagnia per un puntiglio di vanità, malgrado non si adattasse punto ai propri mezzi artistici. Tutti i sorrisi, le dolci parole, l’ebrezza degli sguardi appassionati indirizzatigli dal palcoscenico, le cento piccole attenzioni delicate ed esaltanti ch’ella gli prodigava, non bastavano a neutralizzare in lui il morso velenoso della gelosia, così come le amarezze di cui soffriva non erano sufficienti a fargli perdere la fede nell’amore di lei. Ma ne risultava un penoso contrasto, un’altalena continua di gioia e di tristezza, di esaltazione e di accasciamento, in cui la facoltà di ragionare, il possesso della propria volontà, gli sfuggivano, e l’impero della passione si affermava e si estendeva col suo seguito d’agitazione, di smanie, di debolezze, di transazioni. L’illusione della calma ricuperata, della possibilità di non pensare più al possesso di lei come ad un bisogno improrogabile, era presto svanita tra le alternative d’animo nelle quali si dibatteva e la sete di desiderio che lo riprendeva più ardente di prima. Il desiderio forse costituiva in lui il vero focolare della febbre la quale gli accendeva il cervello ed il sangue, ch’era della passione ma che non era l’amore, per quanto attraverso la sua esaltazione ed il suo accecamento paresse a lui il contrario. Come ella aveva saputo inocularglielo gradatamente nelle vene, come avea saputo alimentarglielo a furia di sapiente seduzione! E quando la riconciliazione era seguìta, con tutte le sue dolcezze, gli abbandoni di tenerezza, le deliziose intimità nel salottino di lei, quel veleno gli s’era mutato in fiamma viva nel sangue, sopratutto perchè ella adesso obbediva, oltre che ad un calcolo, ad un sincero trasporto e si abbandonava volentieri, però sino al limite dopo il quale l’avvenire del suo sogno le imponeva di non andare. Un solo reagente poteva trionfare della sua febbre e salvarlo: il possesso! Ma ella non si sarebbe data mai, lo sentiva; il crudele dilemma: _O matrimonio, o nulla!_ non lo faceva più sorridere, dopo averne sperimentato a proprie spese la dura verità. Ciò nonostante, egli aveva ritentata ancora la prova, si era spinto altre volte ad osare delle appassionate violenze: ella non s’era più indignata, non l’avea duramente scacciato come allora, ma invece s’era messa a piangere, supplicandolo di esser buono, rimproverandolo di non avere stima per lei. Non le lacrime, non la retorica sentimentale delle solite frasi l’aveano disarmato (gli avevano frustato dippiù il desiderio anzi) ma la certezza che dietro a quei luoghi comuni della virtù alle prese con la tentazione di capitolare, ella serbava la più risoluta volontà di non cedere. E spezzandosi inesorabilmente contro la muraglia di granito della resistenza di lei, il bisogno di averla alla fine, che lo vessava senza dargli più tregua da quattro mesi, diventava furore, diventava pazzia! Egli non osava più adesso volgersi indietro, a guardare ciò che per lui diventava quasi _il passato_, la serena e feconda esistenza d’una volta, la calma gioia in cui lo cullavano il pensiero di sua madre e la dolce certezza di prepararle un avvenire di benessere e di agiatezza!... Non gli riusciva più d’occuparsi di nulla; i suoi affari andavano a male, la clientela l’abbandonava: bastava quel soffio di vertigine a disperdere le pazienti conquiste di parecchi anni di febbrile lavoro! Non poteva più pensare a sua madre senza sentirsi agghiacciare l’anima dal rimorso; le lettere di lei, le povere lettere soavi sempre più inquiete, sempre più angosciate — come il vigile istinto l’avvertiva della dolorosa tempesta ch’egli attraversava e le giungeva vagamente la voce dei suoi disordini — si portavano via tutto il suo coraggio, tutta la sua energia, lo gettavano in uno sconforto disperato e senza fine, quasi che avesse dinanzi a sè l’irreparabile. Egli si sentiva affatto in balìa della sua passione, contro la quale non era più possibile rivoltarsi e per la cui soddisfazione bisognava calpestare il cuore di sua madre, tradirla, condannarla a languire nella povertà e nella tristezza, rinunziare per sempre al suo sorriso, alle sue carezze, alla sua benedizione! Come mai quella passione, a cui erano bastati pochi mesi per svilupparsi e dominarlo, aveva potuto snaturarlo così, soffocare in lui a tal segno la voce di un affetto succhiato col latte, regnato sin’allora su tutto, divenuto il culto, lo scopo della sua vita? Egli non lo sapeva, non sapeva nulla, avea solo la coscienza d’essere mostruosamente colpevole, eppure senza responsabilità, d’essere vittima della propria sorte. La _sorte_ era per lui tutto il complesso di circostanze apparentemente accidentali che l’avevano ridotto a tanta miseria: la lettera commendatizia dell’amico di Milano, la vertenza con Santo Stefano e la sua entrata al giornale che n’era seguìta, sopratutto lo straordinario concorso di feste — esposizioni, inaugurazioni di monumenti, congressi — che aveva tenuto aperti per circa dieci mesi consecutivi i battenti del teatro, dalla primavera all’inverno successivo, tutto il tempo che c’era voluto per alienare dalla cara adorata il suo cuore traboccante di amore filiale, per fondere la sua energia, per destargli quell’incendio nel sangue e nel cervello, perchè infine la propria rovina potesse compiersi! I continui motivi di gelosa amarezza ch’ella gli procurava, in luogo di calmare la sua febbre e di guarirnelo, agivano su lui nel senso opposto, facevano salire ancora dippiù il termometro della sua esaltazione. Anzi, la fine della lotta che lo consumava, la fase decisiva, erano state provocate appunto da una crisi più acuta di gelosia. Ella s’era fatta accompagnare da lui una sera a teatro per assistere così, da spettatori, alla prova di un’opera a cui non prendeva parte. Mentre cercavano l’uscio di un palchetto di terz’ordine di cui aveano domandato la chiave per starsene più appartati, Torreforte, il quale teneva un fiammifero tra le dita che gli tremavano per l’emozione di sentirsela così da presso e senza difesa nel buio fitto del corridoio deserto, avea lasciato ad un tratto la debole fiammella morire e se l’era attirata sul petto, cingendole con le braccia la testa, cercando con le sue labbra avide la bocca, gli occhi, il collo di lei.... Ella avea lasciato fare senza reagire, poichè la sicurezza del luogo le permetteva di abbandonarsi senza pericolo all’ebbrezza che si sentiva lei pure circolare nel sangue, mormorando solo con un filo di voce: — Filippo.... Filippo!... Barcollando, tenendosi per mano, aveano trovato infine l’uscio cercato, e s’erano installati nella discreta penombra del palchetto, vicini vicini, con le ginocchia unite, le braccia a contatto, vibrando all’unisono sotto la mutua carezza degli occhi gravati dal desiderio come dal sonno, senza vedere nè ascoltare gli artisti che provavano sul palcoscenico appena illuminato.... Entrambi cadevano in una specie d’intorpidimento dolcissimo, d’ineffabile ebetudine che faceva loro smarrire la coerenza del luogo, del tempo.... E quando finì l’atto in prova, essi non se n’erano accorti neppure; e quando, improvvisamente, dei colpetti picchiati all’uscio risuonarono al loro orecchio, il risveglio era stato così brusco e doloroso che Torreforte s’era persino sentito male al cuore e aveva dovuto lasciar passare un istante prima che gli fosse stato possibile di levarsi ed aprire. Era Masselli, il direttore d’orchestra.... Come mai aveva potuto snidarli sin lassù, col buio fitto che avvolgeva la sala? — si domandava egli, investendo con un’occhiata furiosa l’importuno, talmente nervoso e contrariato che per poco non si metteva a piangere come un bambino. Il fatto sta che Masselli li avea veduti ed era venuto a mettere al corrente la prima donna sulla fase acuta in cui la questione della parte da lei pretesa era entrata. La contesa s’era fieramente invelenita perchè l’impresario aveva preso a sostenere il buon diritto della rivale, perchè la commissione teatrale minacciava d’intervenire pure in questo senso; ma il maestro teneva duro, dichiarando che l’altra non era idonea alle difficoltà della parte, che con quella egli non avrebbe mai provato l’opera. Epperò, sentiva il bisogno, come un torneante del buon tempo antico, di attingere dagli occhi e dal sorriso di lei l’ardore e la forza per uscire vittorioso dalla difficile lotta impegnata, motivo pel quale era salito a farle una breve visita, tra un intervallo e l’altro. Ella comprendeva bene ciò: così non gli lesinava nè le occhiate, nè il sorriso!... E Torreforte l’avea veduta, mentre ancora doveva certo vibrare per la tempesta di desiderio che li avea sollevati insieme, distaccarsi affatto da lui, con lo spirito come col corpo, dimenticarsene, non occuparsi più che dell’altro, parlandogli a bassa voce, sorridendogli con gli occhi che nuotavano ancora nel languore infusole da lui nel sangue, lasciandoselo venire vicino.... Egli s’era sentito soffocare dall’angoscia, aveva quasi creduto, nello stato d’esaurimento nervoso determinato dall’eccesso delle sensazioni provate di attraversare un momento di allucinazione; l’aveva chiamata, supplicata con gli sguardi smarriti e imploranti!... Ma ella non se n’era accorta neppure e aveva continuato a parlottare, a sorridere, a civettare tranquillamente con colui.... Ebbene, Torreforte ne avea orribilmente sofferto, ma non s’era più sorpreso. L’enigma del carattere di lei non gli restava più oscuro adesso. Egli sentiva che quella donna non sarebbe stata mai veramente sua, non gli sarebbe mai appartenuta nel senso intero della parola, anche se gli si fosse data, malgrado che gli volesse realmente del bene, l’avesse pure ella amato cento volte più di così! Ella era del pubblico, della folla, non aveva che una sola, una vera passione in fondo: l’applauso, il successo! — e per conquistare tale ebbrezza che le era necessaria come l’aria, come il sole, ella doveva darsi un po’ a tutti, far commercio del suo sorriso, della sua grazia, delle sue familiarità. Ed era questo l’insostenibile tormento di Torreforte, la ragione del suo delirio, perchè non solo egli la voleva, ma la voleva affatto per sè, perchè era geloso di tutti, del pubblico, della folla per cui ella viveva! E poichè non gli si offriva che una sola via per realizzare un simile esclusivo e troppo necessario possesso: il matrimonio e l’abbandono del teatro — egli si decideva finalmente a prendere tale partito, senza più indugio, sentendosi giunto all’estremo delle sue forze, abbandonandosi alla propria sorte. Un’ora bastava a decidere l’esito della lotta durata dei lunghi mesi, accettata con superba sicurezza, combattuta fieramente sino alla vigilia. La vanità di ogni sforzo per resistere ancora gli appariva improvvisamente, portandosi via tutta la sua energia morale, rendendolo accomodante ed ipocrita dinanzi a sè stesso. Mille argomenti in difesa della sua caduta gli venivano suggeriti dalla coscienza divenuta compiacente. Che cosa infine si opponeva a che egli sposasse quella donna?!... Il non saper nulla della vita, del passato di lei?.... Ma la fermezza e la dignità con cui gli avea costantemente resistito, pure desiderandolo ed amandolo, non erano la miglior garanzia dell’irreprensibilità del passato?!... Quanto a sua madre, certo ella avrebbe sofferto di quel matrimonio così al difuori delle idee e dei pregiudizî di provincia, nato senza l’aggradimento della famiglia, ma poi si sarebbe consolata, avrebbe goduto di vederlo felice a modo proprio. Egli si sarebbe rimesso a lavorare come prima, più di prima, per la conquista del seducente avvenire promessole, avrebbe avuto anzi una ragione e uno stimolo dippiù per riuscire nell’opera di riedificazione della loro distrutta fortuna.... Fu appunto ciò che scrisse, che spiegò lungamente con l’eloquenza della propria passione a sua madre, annunziandole che sarebbe andato egli stesso subito dopo a domandarle il suo consenso e la sua benedizione. Ma invece fu lei, la povera vecchia minacciata nella parte più sensibile dell’anima, che accorse disperatamente, come se si fosse trattato di disputare suo figlio alla morte, lusingandosi ancora di salvarlo.... Il dibattito durò a lungo tra loro, supremamente doloroso ed inutile; quando alla fine ella riconobbe l’irrimediabilità della sua sciagura, si diede per vinta!.... E fece ritorno alla sua casa lontana dove le due figlie l’aspettavano ansiosamente, tremando per la sorte delle loro eterne speranze matrimoniali che dipendevano dal fratello; andò a seppellirvisi nel proprio dolore, sotto il crollo delle care speranze accarezzate per la sua creatura diletta. Però, prima gli avea detto, rialzando duramente la dolce testa divenuta tutta bianca in quei pochi mesi di agitazione e di angoscie, da grigia ch’era avanti: — Sta bene, sposala pure _quella donna_, ma pensa ch’io non vorrò rivederti mai più, che la mia collera ti peserà sul capo come una maledizione!... Ma dove mai ella avrebbe trovato la forza di tenersi a lungo in tale attitudine contro di lui?... Egli l’avea assediata di lettere disperate, piene di devota obbedienza, è vero, ma dove si sentiva la volontà di finirla in qualunque modo, con qualche follìa se non fosse riuscito a piegarla. E la madre s’era piegata alla fine, gli avea mandato il suo consenso in una lettera che avea la desolata tristezza di un distacco estremo.... Torreforte s’era messo a singhiozzare come un bambino, leggendola, s’era sentito fondere il cuore.... Ma non avea tardato un minuto per ciò a correre dalla cantante, a dirle con la voce tremante le supreme parole che dovevano decidere di tutta la sua vita, s’ella volesse accettare la mano di lui, s’ella volesse sacrificargli il teatro.... Uno scoppio di gioia, di gratitudine, di tenerezza fu la risposta! Mai ella era stata così sincera, così buona, tanto piena di profondo abbandono, come adesso che la felicità la trasformava. Ma Torreforte, mentr’ella gli prodigava le più appassionate carezze, si sentiva bruciare il cuore dalla lettera di sua madre: “_Figlio mio, sia fatta la santa volontà di Dio, sposala: io mi rassegno! Perdonami le bestemmie che mi uscirono dalla bocca quel giorno, così come io ti perdono il colpo che mi dài e dal quale sento che non mi rileverò mai più!_...„ Quanto a lei, non avea avuto che un pensiero, appena passato il primo stordimento della felicità: annunziare al mondo lirico, attraverso tutti i giornali teatrali, il suo addio alle scene, malgrado i trionfi riportativi e che ve l’aspettavano ancora, per unirsi in matrimonio col barone Filippo Torreforte! Allorchè questi lesse la notizia così concepita che le trombe della pubblicità dovevano spargere in pochi giorni per tutto il regno dell’arte, non mancò di protestare, le ripetè come tante altre volte di non aver diritto a quel titolo poichè egli apparteneva al ramo cadetto della famiglia.... Ma ella trovava che erano delle sciocche sottigliezze dal momento che il titolo esisteva bene in famiglia, e non avea voluto rinunziare per nulla a ciò che più l’ubbriacava di vanità nel partecipare il suo matrimonio. — Anzi — gli disse col più seducente dei suoi sorrisi — se vorrai essere gentile, non dimenticherai di mettere in fondo alla _corbeille_ di nozze una piccola corona baronale da appuntare qui, sul petto.... VIII. Tutto il periodo iniziale del loro matrimonio passò per Torreforte in una continua e violenta ubbriacatura di sensi. Egli si tuffava nell’ebrezza del possesso avidamente, con una specie di cupo accanimento, di furia rabbiosa che rasentava il delirio. Troppo egli l’avea desiderata, troppo le avea sacrificato per averla alla fine!... E voleva almeno ch’ella gli rendesse ora tanto di godimento, quanto gli era costata di dolori; poichè s’era buttato ciecamente tra le sue braccia, perdendovi tutto, voleva, non foss’altro, trovarvi un’ora di oblio, di voluttoso abbandono! Così, egli cercava di stordirsi per non pensare a ciò che avea fatto, nè a sua madre, nè all’avvenire, nè più a nulla.... Ma non vi riusciva che a brevi intervalli e, dopo, l’angoscia a cui voleva sfuggire lo riprendeva più forte di prima, come avviene a coloro che s’alimentano di morfina. Anzi, era la stessa scomposta furia dei suoi trasporti che recava la luce nella coscienza di lui; s’egli l’avesse amata, se le avesse assegnato nel cuore il posto che doveva tenervi la donna eletta a compagna della sua esistenza, l’avrebbe dunque investita con tal brutale smania di piacere, quasi aggressivamente, e senza abbandono d’anima, senz’ombra di vera tenerezza?... No, egli non l’amava, non l’aveva mai amata! Improvvisamente, in un crudo lampo di coscienza, la verità gli appariva: egli aveva fatto di lei l’eletta, la compagna di tutta la vita sua, solo perchè ella avea saputo abilmente resistergli, perchè non gli s’era offerto altro mezzo per giungerne al possesso, quel possesso che un accesso delirante, ma passeggiero di febbre, gli aveva reso necessario. L’amante mancata di cui in capo a qualche mese di ardore si sarebbe saziato, era divenuta la _sposa_, s’era insediata per sempre, sino alla morte, nell’esistenza di lui, al posto di colei che solo dal più puro amore e dalla più intima stima avrebbe dovuto esservi chiamata.... La benda gli cadeva inesorabilmente dagli occhi, in un momento, dopo aver loro fatto velo per tanto tempo, dopo avergli creato un’assurda illusione d’amore e di felicità che il primo raggio di luce bastava a distruggere! Ma egli voleva illudersi ancora, o almeno non pensare a niente, perchè la certezza della propria irreparabile sciagura gli faceva paura troppo. E s’abbandonava sempre più per ciò alla febbre dei sensi, a quella malsana avidità di godimento in cui voleva trovare l’oblio completo di sè. Quanto a lei, non gli lesinava le carezze e non si tratteneva dal secondare il suo ardore. Poichè l’assorbente preoccupazione della sua voce, del pubblico, del successo, dominata sin’allora incontrastatamente, s’addormentava in lei, la sua fibra robusta di superbo animale ricco di sangue ed esuberante di vitalità prendeva la rivincita. Nel vederlo preso di lei così, fino al midollo delle ossa, tanto follemente cupido delle sue carezze, ella poteva inoltre misurare tutta la propria forza, l’esaltante potenza d’attrazione fisica che esercitava; questo la faceva orgogliosamente sorridere di segreta compiacenza, la rendeva facile all’abbandono con lui, per l’intima soddisfazione che gliene veniva. E non sospettava neppure quanto di oltraggioso per lei ci fosse nei trasporti del marito, che torbida feccia di amarezza, di disistima, quasi di ostilità gli restasse sul cuore dopo quelle ubbriacature!... Avevano passato i primi mesi della loro unione in un albergo di campagna, presso la città; Torreforte sembrava si fosse dimenticato di aver quivi la sua professione da esercitare, degli affari, dei clienti rimastigli fedeli che l’aspettavano.... Finalmente, un giorno, parve ricordarsene, e tornarono in città. Allora, la triste evidenza della sua situazione gli s’impose nettamente. Davanti alle rovine del recente e lieto passato — la numerosa clientela in gran parte dispersa, il buon ordine con tanto stento rimesso nell’amministrazione della propria casa distrutto in un momento — davanti alla muta, ma desolante tristezza dei suoi cari lontani, alle difficoltà materiali della vita, i fumi dell’ebrezza voluttuosa che gli annebbiava il cervello, a poco a poco si diradavano. La sua energia, lungamente sopita, ebbe un risveglio; egli sentì ch’era in tempo ancora per dominare la situazione, per salvare sè ed i suoi dall’avvilimento in cui cadevano. Non voleva esaurire il suo coraggio nella contemplazione delle proprie miserie, non voleva pensare che a sua madre, vivere solo per riscattarla dall’angoscia in cui la sentiva consumarsi, per la conquista del suo dolce perdono. Anelava di rituffarsi nell’attività più febbrile e feconda, di riprendere il suo ascendente cammino verso la prosperità ed il sicuro avvenire promessi alla famiglia.... Ma egli non s’era peranco messo all’opera, che un inatteso ed allarmante avvenimento venne a distogliernelo: sua madre era gravemente ammalata, sua madre lo chiamava presso di sè, senza indugio! Torreforte accorse, in preda alla più crudele agitazione, conducendo con sè la moglie. Quando si trovò dinanzi alla malata, quando vide l’adorata testina soave così trasformata dal male, col viso gonfio e terreo, gli occhi torbidi, le labbra come di cera sporca, egli si sentì morire d’angoscia e l’orribile presentimento della prossima fine gli agghiacciò l’anima. La malattia — una ipertrofia cardiaca — era assai innanzi, e i primi attacchi risalivano al giorno in cui ella avea fatto ritorno a casa dopo l’inutile e doloroso viaggio per persuadere la sua creatura a rinunziare a colei, a non compiere la propria rovina. E sempre, sino al punto in cui la malata, sentendosi perduta, non aveva più saputo soffocare il bisogno furioso di vederlo, gliene aveano fatto mistero per espressa volontà di lei, non volendolo affliggere e mettere in allarme — mentre egli si abbrutiva di piacere tra le braccia di chi lo aveva indotto a portarle quel colpo mortale!... Egli credeva di ammattire pensando a questo; e per non perdere tutto il suo coraggio quando più era necessario averne, gli occorreva mentire a sè stesso, farsi illusione ad ogni costo, ad onta della troppo palese gravità del male. Pure, nei primi giorni del suo arrivo, la malata sembrò sensibilmente migliorare, per quanto l’emozione seguìtane, le lunghe crisi di pianto senza dire una parola, accarezzando instancabilmente la testa del benamato, pareva dovessero sfinirla dippiù. Ed il figliuolo quasi incominciava a trarne, trepidando, sincero conforto di speranza.... Contro ogni sua aspettativa, la novella sposa era stata assai benevolmente accolta nella casa materna. Le due ragazze anzi, ancora all’età delle sentimentali amicizie femminili, troppo solitariamente e oscuramente vissute in quel recondito angolo di provincia per non subire il fascino ch’ella, forestiera ed artista, esercitava naturalmente su loro, le s’erano subito affezionate. Ma ciò che oltremodo sorprese Torreforte fu il buon viso fatto a lei da sua madre, mentr’egli la riteneva armata d’inestinguibile ostilità contro la nuora. Invece, la malata s’intratteneva spesso con lei, le prendeva anche qualche volta una mano tenendola tra le sue, si raccomandava alle figlie perchè non le facessero mancare nulla. Era una grande ed insperata consolazione per lui, e già egli non dubitava più del mutamento avvenuto nel cuore di sua madre, quando, ad un tratto, una scoperta procurata dal caso gli diede la certezza contraria.... A guardia dell’inferma era rimasta per un momento soltanto sua moglie, intenta a leggere presso alla finestra; egli s’era allontanato, sentendosi soffocare da un gruppo di lacrime, poichè constatava che il miglioramento dei primi giorni proveniva solo dall’eccitamento dell’emozione sui nervi e che la malattia tornava a trionfare.... Ma dalla stanza contigua, dov’era passato, poteva osservare ancora sua madre, e allora aveva veduto che ella, credendosi non guardata, si lasciava cadere dal viso la consueta maschera di dolcezza verso la nuora e le fissava addosso gli occhi con tale espressione di durezza, di disperato accanimento, da farlo rabbrividire! Quell’apparenza di cordialità non era dunque che tutta una pietosa commedia, una simulazione impostasi chissà a costo di quale dolorosa violenza, per amore di lui, perchè egli non se ne crucciasse, così come prima gli avea dato ad intendere d’essersi di buon grado rassegnata, così come gli avea nascosto per lungo tempo la sua malattia!... Egli ne provò uno stringimento ineffabile di cuore, ma nessuna reazione di tenerezza verso l’altra. Tutta la sua tenerezza, tutta la sua pietà erano per la madre; all’idea dello sforzo eroico ch’ella si imponeva nelle stato di esaurimento e di sofferenza in cui languiva, si sentiva anzi agitare anche lui da una sorda ostilità contro la moglie. Un tale stato di cose sfuggiva interamente all’occhio ed all’intuito della giovane donna. In fondo, ella trovava troppo naturale d’essere ricevuta a braccia aperte, per non ritenere affatto sincera l’accoglienza avuta. Si lasciava voler bene e vezzeggiare dalle due cognate quasi passivamente, con un fare bonario di graziosa protezione. Per distrarsi, per mostrarsi alla mano, ella teneva loro compagnia mentre accudivano alle mille faccende di casa, le seguiva dappertutto, dalla cucina all’orto. Le pareva di scoprire un mondo nuovo e così curioso per lei, vissuta sempre di pensione in pensione, di albergo in albergo, senz’alcuna nozione delle abitudini e del meccanismo d’un interno di casa borghese. Passava dalla cucina ampia e linda, coi fornelli continuamente accesi, provvista d’una luccicante batteria di utensili, spesso d’incomprensibile uso per lei, alla dispensa piena di cento cose, al lavatojo, alla stanza da stirare, sgranando gli occhi, con un’aria attonita che incantava le ragazze. Si divertiva a vederle andare attorno infaticabilmente per la casa disimpegnando con prontezza e abilità le loro doppie mansioni, di massaje e di infermiere; stava ad osservarle in cucina, tutte intente ai loro estratti di carne, alle loro _gelées_ per la malata, con la religiosa gravità d’un alchimista in mezzo alle sue storte.... Ma non riusciva neppure a prestar loro qualche aiuto, sentiva che mai sarebbe stata capace di fare altrettanto. Da bambina, da quando viaggiava con sua madre — artista lirica anche lei — ella s’era abituata, per via della sua vita zingaresca sempre tra un albergo e l’altro, a non darsi il menomo pensiero d’ogni cura domestica, a lasciar perire in lei quello spirito d’intima operosità femminile, quelle istintive attitudini casalinghe con cui le donne nascono, e che più o meno coltivano, anche se allevate fra gli agi e le raffinatezze. Si sentiva stranamente fuor di posto colà, e infatti non avrebbe potuto mettere una nota più falsa e più stridente di contrasto nell’onesto ambiente così laborioso, modesto e raccolto di quella famiglia di provinciali, su cui la sventura tristemente incombeva, e dove ella strascinava con pigro abbandono i suoi abbigliamenti vistosi e teatrali, le sue abitudini d’ozio, la sua inutilità, la caratteristica d’egoismo e di vanità particolare della propria natura! Qualche volta, per puro passatempo, ella si provava a dare una mano alle cognate nelle loro faccende, e questo era sempre un soggetto di grandi risate per le ragazze, poichè allora tutto andava incredibilmente male. Ma accadde che un giorno le due fanciulle si trovarono entrambe costrette al letto per un’indisposizione capitata loro pressochè ad un tempo. Obbligata dal marito a sostituirle nella loro opera di infermiere, ella non veniva a capo di nulla, e la malata languiva penosamente mancando ad un tratto di tutto, e Torreforte diventava esigente e duro, quasi fosse giusto di pretendere da lei ciò che non sapeva fare, ciò che non aveva mai fatto in vita sua! A quelle proteste, un fiotto amaro di acerbissime risposte gli veniva alle labbra.... Era vero: che giustizia c’era a pretendere ciò da lei?... Come s’ella fosse stata una donna eguale a tutte le altre, come se avesse avuto mai senso e culto di famiglia, idea d’affetti e di cure domestiche, come se fosse mai vissuta per null’altro all’infuori della sua arte istrionesca, della sua morbosa vanità di cantante!... Ma taceva, per evitare alla madre il menomo motivo di agitazione, e si contentava di covare internamente il fuoco della sua crescente ostilità. Intanto il male della vecchia signora faceva terribili passi. Due volte Torreforte avea creduto di vederla morire; egli s’era ridotto a non dormire quasi più, ad alimentarsi appena. A misura che la malata si sentiva finire, cresceva in lei il rancore contro la nuora, contro colei ch’ella considerava come la rovina sua e del figlio. Non le importava troppo di vivere, no, ma si rodeva il cuore al pensiero della propria creatura, del suo avvenire spezzato, legato alla catena di quella donna, la quale non avrebbe saputo che renderlo infelice, immensamente infelice. E non le riusciva più di simulare, talchè l’odio che l’animava le luceva adesso cupamente nei torbidi occhi, metteva un tremito violento in tutta la sua povera carne gonfia e livida, appena la giovane donna le si accostava. Torreforte seguiva con un senso indicibile d’angoscia il progresso di quel cieco odio, che divampando nel petto d’una moribonda aveva qualche cosa di cupamente tragico, e constatava con pari orrore come dentro di lui il sentimento materno trovasse eco ogni giorno dippiù. Una furia quasi criminosa l’invadeva a momenti contro la moglie. Per far piacere all’inferma, per calmare la sete di rancore da cui la sentiva divorata, egli l’avrebbe buttata ai piedi di lei, gliel’avrebbe percossa e torturata dinanzi. Non essendo possibile questo, cercava ogni pretesto per umiliarla e maltrattarla a parole in presenza della madre, l’esiliava più che poteva dagli occhi di lei, finiva per proibirle senz’altro di entrare in camera sua. L’esclusa se ne consolava facilmente, contenta di sfuggire all’orribile tristezza dello spettacolo che la malata offriva, alle nausee che le procuravano le piaghe fetide onde erano coperte le povere gambe di lei. Una volta che avea mostrato la sua ripugnanza con una smorfia troppo energica di disgusto, suo marito era stato sul punto di batterla. Ella metteva tutto ciò in conto della sua disperazione; le pareva, non adontandosene, di abbondare in generosità, di pagare ad usura il suo tributo al dolore di lui. Se un fondo di risentimento le restava sul cuore, se ne rifaceva sulle due ragazze, sempre espansive e premurose attorno a lei malgrado la collera in cui questo faceva andare adesso la madre, malgrado ch’ella costituisse una grande minaccia per le loro eterne speranze matrimoniali. Via, ella avea troppo viaggiato, troppo vissuto, fra continue emozioni ed ebrezze, per non trovare alla lunga insopportabilmente noiose e ridicole quelle due piccole provinciali!... Così, respingeva con mala grazia le espansioni e le amorevolezze delle cognate e finiva per segregarsi completamente in camera sua. Allora, cavava fuori i grossi _albums_ dove avea raccolto tutti i giudizii dei giornali su lei, i gloriosi bollettini delle battaglie vinte di palcoscenico in palcoscenico, e si assorbiva in quella lettura, si dimenticava tutta nel proprio passato risonante d’applausi, mentre suo marito agonizzava di dolore presso la morente. La catastrofe si avvicinava con spaventosa rapidità. La paziente a volte l’invocava con ardore, per finirla con le sue atroci sofferenze, a volte s’attaccava disperatamente alla vita, non volendo lasciare così sola ed infelice la creatura sua diletta. Giorno e notte, ella, per non soffocare, restava su d’una sedia, addossata a una pila di cuscini, guardando il letto candido e soffice di fronte a lei cogli occhi dilatati d’orrore, pensando che soltanto dopo l’ultimo respiro sarebbero tornati ad adagiarvela. L’idrope le si estendeva per tutto il corpo gonfiandola come un otre, le piaghe le divoravano interamente le gambe, la circolazione del sangue non si compiva quasi più.... E Torreforte assisteva senza una lacrima a tale sfacelo, col raccapriccio muto d’un assassino dinanzi all’agonia della sua vittima. L’ultima notte, un’insperata tregua di calma parve apportare un reale sollievo alla malata, che s’assopì quasi serenamente. Torreforte la considerava col cuore sospeso; nel suo cervello turbato ed esausto delle puerili illusioni germogliavano a un tratto in quell’estremo momento.... Forse un prodigio poteva compiersi ancora, forse l’ultima crisi era stata superata e segnava il principio d’una miracolosa guarigione!... Sognava ad occhi aperti, col viso inondato di lacrime.... Sua madre sarebbe guarita, sì, e dopo aver riconquistata la salute, egli avrebbe saputo ridarle anche la felicità, a qualunque costo.... Egli avrebbe riedificato per lei l’edificio distrutto, l’avrebbe a furia di pietose menzogne convertita riguardo a sua moglie, portando con rassegnata dolcezza la propria croce, nascondendogliela eroicamente perchè ella non avesse a crederlo infelice ed a crucciarsene!.... Un rantolo cupo venne a scuoterlo, mentre sognava così; gli occhi della moribonda lo fissavano con disperata intensità, la sua mano si levava su lui, tutta oscillante, tracciando in aria, appena intelligibilmente il segno della croce.... E fu tutto; sua madre era morta, morta di crepacuore, uccisa da lui ch’ella idolatrava, ch’ella era spirata benedicendo.... IX. Ciò che più di tutto Filippo Torreforte temeva, uscendo dalla terribile crisi di dolore seguìta per lui alla morte di sua madre, era di ritrovarsi animato da un vero sentimento d’odio contro la moglie. Se il fiero malanimo che avea covato verso di lei nel petto, per amore della malata, fosse durato, se fra loro due si fosse insediata la morta, separandoli per sempre, rammentandogli a tutte le ore donde il colpo mortale l’era venuto, come avrebbe potuto sopportare ancora l’intima comunione della vita conjugale?... Ma di quella vampata d’odio non restavano più che le ceneri spente nel cuore di lui; una calma apatica vi subentrava, un profondo distacco di tutto. La considerava adesso con indifferente filosofia, diceva a sè stesso che poichè ella era così, bisognava prenderla com’era. Con la sventura subìta, qualche cosa s’era spezzata dentro di lui irrimediabilmente: la molla del suo affetto di figlio, la sola che avesse potuto agire ancora su di lui nel naufragio di tutte le proprie risorse morali. Si lasciava vivere passivamente, abbandonandosi senza resistenza alla china della sua sorte, incapace di qualunque sforzo per opporsi alla corrente. I suoi antichi propositi di lavoro, di lotta, di conquista, gli facevano adesso levare le spalle con suprema indifferenza, gli davano quasi delle nausee fisiche, tanto l’idea d’agire, di scuotere la sua triste ignavia, lo trovava repellente. Tutto ciò che avea saputo fare nel campo dell’azione era stato di liquidare definitivamente la successione della eredità paterna, accettando senz’altro le condizioni imposte dal feroce creditore della sua famiglia. Poichè con la morte della madre la loro casa gli pareva finita, l’ambizione di ricostituirla in tutta la sua antica e solida integrità non avea più senso per lui. Assicurata una modesta ma certa dote alle sorelle, realizzato per sè tanto da poter vivere senz’alcun pensiero per qualche anno, stimava di avere esaurito il suo compito di capo della famiglia. Avea preso dimora, malgrado tutte le proteste della moglie, nella casa paterna, e vi lasciava scorrere stupidamente i suoi giorni uno dopo l’altro, senza interesse nè mèta, allorchè, un avvenimento capitale venne bruscamente a scuoterlo: egli stava per essere padre! Fu un rimescolio immenso nelle loro esistenze, ma di natura assolutamente diversa. Per Torreforte era un soffio nuovo e divino di vita che ad un tratto lo sollevava di peso dal fondo del suo avvilimento e lo faceva rinascere, mentre per lei era la rivolta di tutta sè stessa contro l’opera della natura, un motivo d’incredibile angoscia, di continui lamenti. Ella non si sentiva fatta per essere madre, aveva orrore del lungo travaglio della gestazione, di tutte le nausee, le sconce sofferenze da attraversare, e sopratutto una paura incessante, folle, del momento del parto, dei cento terribili pericoli ai quali era facile soccombere. E non era tutto; vi s’aggiungeva ancora lo spasimo insostenibile di poterci rimettere pure la voce, la sua bella voce calda e robusta di soprano drammatico, il suo tesoro, il suo orgoglio! Dal giorno in cui non l’era riuscito possibile di dubitare oltre del suo stato, ella non aveva avuto più un minuto di calma, non avea fatto che piangere, disperarsi, maledire la sua sorte.... Due volte, suo marito la sorprese mentre attentava alla propria maternità coll’aiuto dei soliti rimedi empirici e criminosi, mettendo così a grave rischio la vita pur di sottrarsi al cómpito sacro assegnatole dalla natura. A tale scoperta, lo avea invaso una collera violenta, una reazione fremente di stupore e di sdegno.... Ella non era sensibile neppure alla voce delle sue viscere, a quell’istinto che è innato persino nella più infima specie del regno animale?!... Ella dunque non sapeva essere madre, come non sapeva essere moglie, nè altro, fuorchè una mostruosa macchina da cantare, da divertire la folla, la quale solo poteva coi suoi applausi farne agire il congegno! La sua collera però cadde presto, nel tumulto ineffabile di tenerezza che gli sconvolgeva l’anima. Dinanzi alla sua paternità imminente si sentiva rivivere, diventava un altr’uomo.... Ah, per la sua creatura egli si sarebbe rialzato, si sarebbe rimesso energicamente al timone della propria casa, avrebbe riamata la vita attraverso il suo sorriso e le sue fragili grazie infantili!... Ella pure, ella pure si sarebbe trasformata; la maternità l’avrebbe elevata, purificata, cambiando la donna di teatro così a disagio nell’onesta ed angusta cornice della famiglia, in una degna madre, in una degna compagna!... In fondo, gli inspirava una grande e pungente pietà. Certo, ella portava in sè, come la comune degli esseri umani, un’egual somma di qualità buone e cattive; quale colpa era mai la sua se l’eredità, l’educazione ricevuta, l’atmosfera viziata del palcoscenico che i suoi polmoni aveano respirato dall’età prima, avevano sviluppato in lei le cattive qualità a discapito delle buone? Toccava a lui di rifarne l’educazione morale, di restaurare in essa l’impero dei sentimenti migliori, e più che il suo, questo era il còmpito soave ed infallibile della fragile creaturina che avrebbe allietato tra poco la loro casa.... Adesso Torreforte, non solo perdonava ogni cosa a sua moglie, ma diventava dolce e buono con lei come non era mai stato. Sentiva di volerle proprio bene in quel momento, si struggeva di tenerezza vedendola soffrire. Ella pure, sotto l’incubo smanioso della sua folle paura, si rifugiava in lui come in un porto di salvezza, gli si attaccava disperatamente, con un abbandono quasi infantile. Si faceva di continuo promettere che non l’avrebbe abbandonata neanche per un secondo, nel momento terribile, e che, se ella fosse morta, non avrebbe permesso di seppellirla prima di quarantotto ore dalla constatazione di decesso, per paura di esser solo sopita, di svegliarsi poi là, tra quelle quattro assi, murata viva sotto una montagna di pietre e di terra.... Egli allora la sgridava con la voce dolcemente burbera, la trattava da bambina cattiva, le diceva che non si sarebbe accorta neppure d’attraversare il passo paventato, e che poi sarebbero stati tanto, tanto felici insieme, con la loro sospirata creaturina.... Il parto, invece, si presentò difficile e laborioso assai; i dolori erano incominciati presto, acutissimi e infruttuosi. Quando ella li avea sentiti venire, malgrado la grande prostrazione dei primi formidabili attacchi s’era levata con uno sforzo dal letto, e s’era trascinata sino alla specchiera per acconciarvisi un poco, forse l’ultima volta, perchè non avesse messo orrore a guardarla, nel caso funesto. Così Torreforte, rientrando in camera, l’avea trovata coi capelli ben ravviati, i denti nitidissimi, e un dito di _rouge-théatre_ sul viso smunto e contratto atrocemente dai dolori. Ma tale povera civetteria, in luogo di suggerirgli alcuna amara riflessione come certo gli sarebbe avvenuto in un diverso momento, allora lo fece piangere di tenerezza e di pietà. Non sapeva che cosa avrebbe dato per non vederla soffrire a quel modo, per alleviarle gli spasimi insopportabili che la facevano torcere come un serpe sul letto! Venne un ostetrico: l’operazione fu dichiarata necessaria, vitale. Torreforte s’era trovato spinto fuor dalla camera a forza, ed era rimasto ad aspettare dietro l’uscio, colle gambe vacillanti, il cuore in convulsione, ed un orribile ronzio nelle orecchie.... Finalmente, dopo un’attesa che a lui era parsa di secoli, il dottore spalancò l’uscio annunziando che la puerpera era salva. Egli non osò domandare altro lì per lì, soffocando la sua estrema ansia per potersi cullare ancora in un resto d’illusione.... Tutto il suo avvenire, tutta la sua vita reggevano solo ad un fragile, sottilissimo filo.... E quel filo — glielo dissero poco dopo, brutalmente, non sospettando tanta violenza di dolore in lui per la sua paternità mancata — s’era spezzato, lo lasciava miseramente piombare nel vuoto.... Era un maschio!... Sarebbe stato il continuatore della sua famiglia, l’erede del nome antico ed onorato.... Ah, come egli si sarebbe ammazzato a lavorare, come avrebbe ritrovata tutta la sua energia, la sua dignità d’uomo per lui, per dargli una fine educazione, un’onesta agiatezza.... Invece!... Non sapeva staccarsi dalla minuscola bara in cui aveva voluto comporlo prima che glielo portassero via, coi ceri ardenti ai piedi e una valanga di rose per lenzuolo.... E davanti a quel cadaverino sformato dal forcipe con cui gli aveano attenagliata la testa, mostruoso a vedersi alla livida luce dei ceri, egli s’era lasciato cadere sotto il peso della sua croce, per non tentare mai più di rialzarsi. X. Passata l’esaltazione violenta del nuovo dolore, Torreforte tornò a chiudersi più di prima nella sua desolata attitudine di passività e d’indifferenza a tutto. Soltanto, avea ceduto all’assedio senza tregua postogli dalla moglie, e avea abbandonato la casa paterna, l’oscuro angolo di provincia ov’era nato. Così, dopo un’assenza di quasi due anni aveano fatto ritorno nella grande e rumorosa città, ma egli avea continuato a vivervi come nella sua muta bicocca natale, inattivo e segregato da ogni consorzio. Questo contrariava moltissimo l’_ex_-prima donna, e costituiva un soggetto continuo d’irritazione e di dispute fra loro. Rimessasi a poco a poco, e non senza stento, dalle conseguenze del suo parto disastroso, ella sentiva operarsi dentro di lei una rifioritura turbolenta di salute, un rinnovamento oscuro di vita. Le pareva di soffocare, così chiusa nell’angusto ed opprimente cerchio della sua casa, tra il marito sempre silenzioso, sempre cupo, ripugnante a tutto, e la serva ebete, sudicia, brontolona. Provava un’irrequietezza tormentosa, uno stimolo esaltante di vaghe aspirazioni verso una mèta ignota a lei medesima. Come mai suo marito poteva ridursi ad un tal grado di stupida apatia, d’inerzia bruta?... Dove se n’era andata dunque la vantata energia del suo carattere, la sua forte tempra di lavoratore, di uomo destinato ad un grande avvenire, di cui avea fatto tanta pompa con lei prima del loro matrimonio?!... Perchè si abbandonava a quel modo in braccio all’ozio ed all’avvilimento più profondo, e avea rinunziato affatto alla sua lucrosa professione? E dove mai si sarebbero trovati di lì a qualche tempo, dopo aver dato fondo al capitale riscosso dalla sua parte d’eredità?... Ella lo sentiva calare ogni giorno dippiù nella sua stima, gli faceva continuamente il processo con la severità d’un giudice, senza intendere nulla di ciò che avveniva in lui, senza coscienza d’essere il principio e la fine del pietoso dramma interiore di cui egli era la vittima. Non lo comprendeva, nè gli aveva compassione, ma si rivoltava. Non avea abbandonato le scene, dato addio alla sua lieta e luminosa vita di successi morali e materiali per finire nel modo più oscuro ed umile, privandosi di tutto, soffocando ogni desiderio, ogni giusta ambizione!... Egli poteva pure segregarsi completamente dal mondo, ridursi a vegetare come un bruto, ma per suo conto non si sentiva proprio d’imitarlo, era troppo giovane e bella, troppo ricca di vitalità per questo. Sopratutto, non sapeva adattarsi a perdere affatto il gusto della sua arte, a viverne addirittura al di fuori. E vessava dalla mattina alla sera Torreforte perchè buttasse il suo danaro dietro a tutti gli abbonamenti di giornali artistici, perchè la conducesse al teatro, ai concerti. Quando al _Massimo_ tornarono a rappresentare la _Gioconda_, per la prima volta dopo che tale opera stata eseguita da lei su quelle scene quasi tre anni innanzi, suo marito dovette rassegnarsi ad accompagnarvela, tanto la cosa l’avea messa in orgasmo e le avea suscitato una voglia acutissima di intervenire allo spettacolo. La nuova edizione dell’opera con una cantante ancora ignota al pubblico, destava molta curiosità fra gli assidui e gli amatori di teatro. I più, ricordando la forte impressione lasciata dalla _Gioconda_ precedente, non dubitavano che la nuova restasse schiacciata dai confronti inevitabili: era appunto ciò che l’ex-prima donna aspettava e desiderava ardentissimamente, e per cui ad ogni costo non aveva voluto mancare a quella rappresentazione, sicura di assistere per via indiretta al proprio trionfo. Durante i primi tre atti, ella potè infatti gustare la più deliziosa soddisfazione d’amor proprio; la sua rivale lasciava il pubblico freddo e scontento, non aveva saputo strappargli un solo vero applauso con la sua voce corta, poco squillante, affiochita dal panico che la dominava. Nella sala, piena di spettatori e di animazione, si sentiva quasi gravare la musoneria del pubblico deluso, che faceva prevedere una sommaria giustizia a sipario definitivamente calato; molti, avendo scorto nell’ombra del suo palchetto la indimenticabile artista così presto ritiratasi dalle scene, se l’additavano tra loro con certe scrollatine assai significative del capo, attirandole così, a poco a poco, gli sguardi dell’intera platea, che salivano a lei come delle ondate voluttuose d’incenso. Ella assaporava l’inesprimibile gioia estaticamente, col cuore in dolce tumulto, tutta ridente di piacere. Ed attendeva con impazienza l’apoteosi finale che i fischi del pubblico, seppellendo all’ultimo l’opera così eseguita e la sua protagonista, avrebbero decretata a lei.... Invece, contro l’unanime aspettativa, il successo mutò radicalmente di faccia all’atto quarto: la cantante già condannata vi rivelò ad un tratto una tale rara potenza d’arte, di talento, e d’efficacia drammatica da farsi in un momento perdonare la sua voce non bella e la debole esecuzione degli atti precedenti. Alla fine del suo monologo, il pubblico vinto, vibrante d’entusiasmo e di commozione le avea battuto le mani per dieci minuti, e da quel punto ad ogni aria, ad ogni frase principale, gli applausi erano echeggiati fragorosi, scoppiando all’ultimo come un vero uragano, interminabilmente. Allora, Torreforte aveva veduto sua moglie diventare incredibilmente pallida, quasi convulsa, col labbro serrato a sangue tra i denti, gli occhi pieni di lagrime, e una fretta smaniosa di andarsene, di sottrarsi a quel supplizio.... Ah, il pubblico! Com’era incostante ed ingrato, come rassomigliava ad un amante perfido e fatale, tanto più volubile quanto più adorato!... Un giorno avea posto lei sugli altari, dichiarandola insuperabile: ora le preferiva un’altra, l’acclamava sotto i suoi stessi occhi, con un calore d’entusiasmo ch’ella non era riuscita a suscitare mai, neppure nelle sue serate migliori!... Ella avrebbe dato dieci anni della sua esistenza in quel momento per poter prendere il posto dell’altra sul palcoscenico e ripetere la sua parte, in una gara suprema. E per vincere la rivale, per strappare al pubblico un applauso più nutrito, un urlo più assordante d’approvazione, ella si sentiva capace di concentrare e di consumare nel canto tutta la sua vita, come certi rosignuoli si rompono il petto a furia di gareggiare tra loro, ed esalano gorgheggiando l’anima canora.... A lenire tale ferita, di cui il dolore tardava a calmarsi, le venne tra le mani in quei giorni un giornale teatrale dove, a proposito dell’annunziata rappresentazione di _Lucrezia Borgia_ — uno dei suoi cavalli di battaglia — al Regio di Torino, vi si affermava che difficilmente la protagonista dell’opera avrebbe potuto lottare con gl’incancellabili ricordi lasciati da lei colà, nella medesima parte. E altrove, un altro giornale, all’indomani dell’andata in scena di _Norma_ con una cantante preceduta da gran fama, usciva in un vero inno in memoria della esecuzione fattane da lei sulle stesse scene qualche anno prima, concludendo col dire che la pretesa diva aveva fatto rimpiangere amaramente al pubblico unanime la grande artista allontanatasi troppo per tempo dal teatro. Così, non peranco era spenta l’eco del suo nome nel mondo lirico!... A più di due anni di distanza dalla sua scomparsa dal palcoscenico, si continuava a parlare di lei, la si rimpiangeva malinconicamente, quasi che ella fosse del tutto morta per l’arte, mentre si sentiva tuttavia capace di sollevare l’entusiasmo di cento platee, di aggiungere al suo passato artistico ancora dieci anni di carriera e di successi. Invece era finita!... Ella dovea contentarsi di assistere al trionfo delle altre, lasciare impassibilmente che le nuove venute occupassero il bel posto conquistato da lei in arte con tanta fatica! L’unica consolazione sua nell’eccesso della tristezza che l’invadeva pensando a ciò, era di raccogliersi tutto il tempo nel passato, riandandolo attraverso i mille documenti che stavano ad attestarne imperituramente lo splendore. Gli _albums_ nei quali avea collezionato tutti i giudizii dei giornali su di lei, i sonetti d’occasione nella ricorrenza delle serate d’onore o d’addio, erano divenuti la esclusiva e costante lettura di lei; nel suo salottino da lavoro ci si poteva a stento muovere, tanta era la folla di corone, di ricchi nastri e d’ogni genere di regali ricevuti sul palcoscenico e disposti colò come trofei di guerra gloriosamente conquistati. Ma ci voleva ben altro, per appagare la sete ond’era arsa!... Ella voleva trarre dalla lunga inerzia la sua ugola preziosa e rimetterne in circolazione i tesori; voleva avere degli ascoltatori almeno nel cerchio ristretto d’un salotto, in casa propria o altrove, pur di cantare per qualcuno, di essere ammirata, di riprovare l’ineffabile ebrezza d’un applauso.... E suo marito la contrariava anche in questo, non voleva vedere nessuno, nè condurla in alcun luogo! Per vendicarsi, ella non gli lasciava più un minuto di riposo, gli assordava dalla mattina alla sera le orecchie ripassando tutto il suo repertorio, esercitando la gola ad una sfrenata ginnastica di vocalizzi e di scale. Un momento, aveva tremato di paura: le era parso di non ritrovare più la sua voce, di averne perduta la freschezza e la forza, dopo il grave travaglio del parto. Ma poi, si convinse che si trattava soltanto d’un fenomeno passeggiero prodotto dal troppo lungo riposo dell’organo vocale, e per ridargli la primitiva elasticità e robustezza, s’abbandonava più che mai a quella sua pazza ginnastica d’ugola. Cantare significava già godere per lei, ma così, era un piacere sterile, di cui non poteva contentarsi, che anzi le inacerbiva dippiù la tormentosa voglia della quale languiva.... E non potendo soddisfarla altrimenti, nel parossismo della sua febbre malsana, ella s’era ridotta ad offrirsi persino in accademia alla propria serva, a cantare per esclusivo piacere di colei. Spesso, magari andava ella medesima a trovarla in cucina; la megera lasciava di occuparsi dei suoi fornelli o del suo bucato, e si raccoglieva ad ascoltare, a bocca aperta, colle braccia conserte sul ventre sudicio ed enorme. Quindi, ogni volta, alla fine si metteva a battere furiosamente le manacce nere, accompagnando l’applauso con rauche grida di _brava, bene, bis_, facendo quanto più chiasso le riusciva, poichè sapeva di procurarle tanto più piacere.... Allora, ella restava a sentire col cuore sospeso, gli occhi brillanti, e una fiamma viva di sangue sulle guancie.... Non aveva più la coscienza d’essere in quel luogo e in quella compagnia degradanti; si ritrovava come per incanto altrove, in una vasta sala scintillante di lumi e piena di gente.... E per un analogo fenomeno d’allucinazione, lo sconcio assolo d’applausi della serva si trasformava alle sue orecchie nell’ovazione strepitosa, esaltante di centinaia di persone, di un intero pubblico trascinato dall’entusiasmo! In seguito, sempre più incalzata dal crescendo morboso della sua manìa, s’era spinta anche in là, sino a cavare dalle grandi casse relegate nel solajo i costumi delle sue opere favorite ed a vestirsene, acconciandosi in tutto come per la scena. _Gioconda, Norma, Aida_, rivivevano in lei; ella si metteva ad illustrarne per la sua unica ed ignobile spettatrice, col canto e con l’azione insieme, i patetici casi, animandosi quasi che calpestasse davvero le tavole del palcoscenico, e la serva ebete e sudicia spalancava allora tanto d’occhi, senza troppo capirci, presa spesso da irresistibile ilarità come davanti ad una mascherata carnevalesca, con le nere manacce pronte a sollevare l’indiavolato rumore di applausi per cui la sua padrona andava pazza.... Ora, ella non ignorava più quale fosse la mèta delle sue vaghe aspirazioni, il tarlo segreto che le avea roso sordamente l’anima e lo spirito tutto quel tempo! Era la nostalgia del teatro che la riprendeva furiosamente e non le dava più tregua; ella s’era sbagliata di troppo immaginandosi di potervi rinunziare sul serio, di poter vivere per sempre senza le sue febbri e le sue gioie! L’imperdonabile errore commesso abbandonando le scene per maritarsi, le appariva adesso in tutta la sua enormità, pur non tenendo calcolo delle condizioni particolarmente tristi della propria esistenza conjugale. E nel tempo medesimo, nettamente s’imponeva al suo spirito l’ineluttabile necessità di annullare l’errore fatto, avesse dovuto per questo spezzare qualunque ostacolo, perchè ella aveva bisogno del palcoscenico come dell’aria per respirare, e non poteva starne più a lungo lontana! Suo marito però non si sarebbe piegato mai senza vivissima lotta ad acconsentire al ritorno di lei sulle scene, n’era sicura. Pure, cominciò ad insinuargli la cosa delicatamente, con ogni tatto e dolcezza, cercando di riuscire così. E gli dipingeva l’avvenire coi più lieti colori, sempre tra viaggi, emozioni gradite e nuovi successi; gli mostrava i numerosi esempî di cantanti ritornate all’arte dopo aver contratto matrimonio, anche nelle più alte sfere sociali, e col _placet_ del marito. I testi da citare non mancavano: Siglinda Wederlson — l’usignuolo norvegese, come la chiamavano — che aveva sposato un gran signore russo e poi s’era rimessa a girare insieme a costui di teatro in teatro; Dora Neuman, la più bella voce di contralto dell’arte, tornata al palcoscenico dopo due anni di matrimonio con un milionario napoletano — e via, via così, sino al caso classico di Adelina Patti e del marchese di Caux.... Ma Torreforte aveva troncato subito, senz’altro, ogni tentativo di persuasione, con un reciso rifiuto. All’idea di ciò che la moglie pretendeva da lui, egli si rialzava bruscamente dal suo avvilimento per difendere la sua dignità dal minacciato ludibrio. Avea vissuto abbastanza in palcoscenico per non sapere quale sarebbe stata inevitabilmente la propria parte accanto a lei, se avesse ceduto alla sua volontà; _mariti di prime donne_ ne aveva conosciuti parecchi — quello di Regina Morelli fra gli altri — e al solo pensiero della vergogna riserbatagli si sentiva avvampare di rossore il viso! Allora, ella lo prese di fronte con brutale audacia, mise da parte le moine per piantargli crudamente dinanzi il problema dell’avvenire. Poichè egli aveva abbandonato affatto la professione e non voleva occuparsi di nulla, poichè non si decideva nè si sarebbe mai deciso ad uscire da quello stato di triste ignavia, come pensava di provvedere all’esistenza di lei, quando, in un giorno non lontano, a furia di sbocconcellare il capitale di cui vivevano, senza produrre nulla, si sarebbero ritrovati fatalmente sulla paglia?!... Ah, egli non si preoccupava punto di ciò, restava senza risposta davanti al quesito propostogli?! Ebbene, toccava a lei di pensarci allora, mentre era giovane ancora ed a tempo per farlo, e non sapeva con che diritto ed a qual titolo egli potesse impedirle di provvedere ai casi suoi, dopo averla abbandonata a sè stessa per l’avvenire!... Sapientemente, con perfido intuito, ella avea posto il dito giusto sul punto vulnerabile; affrontato così, Torreforte perdeva ad un tratto ogni energia di resistenza, restava disarmato dinanzi a lei. Sì, era giusto: che diritto aveva di sbarrarle la via dell’avvenire, quando egli non era stato e non era capace di assicurargliene alcuno, malgrado che in faccia a lei ed alla società gliene incombesse l’obbligo più rigoroso?... Per assumere onestamente ed a cuor sereno la responsabilità a cui ella lo aveva richiamato con l’imperiosa esigenza d’un creditore brutale, egli doveva imporsi uno sforzo eroico, riattaccarsi con ardore e fede alla vita, ridiventare un _uomo_ infine, in tutta la dignità e la nobile energia della parola. E non sapeva, non poteva galvanizzare a tal segno la propria volontà ed il proprio spirito, schiacciato com’era dalla coscienza della sua infelicità, della sua vita sbagliata, col cuore tuttavia sanguinante per la morte della madre ch’egli addebitava a sè stesso, e per l’ultimo e atroce colpo ricevuto in pieno petto davanti al cadaverino della sua creatura nata morta, del povero piccolo Messia, tanto atteso e sognato, da cui doveva venirgli la salvezza!... Così, ella lo avea sentito cedere a poco, a poco, e da quel momento, era ritornata dolce e insinuante come prima, aveva preparato abilmente la vittoria finale. Una volta, gli aveva mostrato la lettera d’un agente teatrale che le proponeva delle condizioni superbe se avesse voluto accettare una scrittura, eppoi il telegramma di un impresario famoso, concepito nei medesimi sensi, senza ch’ella avesse fatto nulla per provocare simili offerte, diceva, tal quale come a Sant’Antonio sorgevano da ogni parte le irresistibili tentazioni. Ed infine, un bel giorno, comparve in iscena l’impresario del Massimo, pregandola in nome di tutti gli amatori di teatro di cantare per poche recite straordinarie di _Aida_, offrendo magnifici patti.... Un’occasione veramente eccezionale: nessun disturbo, nessun’apparenza di ritornare per forza maggiore al teatro, ma avendo quasi l’aria invece di accondiscendere per cortesia, come certi celebri artisti ritiratisi dalle scene da un pezzo, si piegano qualche volta al desiderio dei loro ammiratori. Ricusare sarebbe stata una vera follia; un volerla danneggiare a qualunque costo, per puro capriccio! Che fare?... Egli si sentiva stanco di lottare, incapace di resistere alla corrente che lo travolgeva: cedette. Almeno, pensava — chi sa? — che sarebbe riuscito a togliersi bene o male d’addosso la camicia di forza della sua desolata apatia, che avrebbe ritrovato la malsana febbre di desiderio d’una volta, davanti all’entusiasmo rumoroso della folla per lei!... Le indicibili amarezze alle quali aveva preveduto di andare incontro lasciandosi trascinare da sua moglie, non si fecero attendere per Torreforte. Sin dal primo giorno che ella aveva rimesso piede in teatro per le prove dell’opera, tutti i suoi antichi corteggiatori, i vecchi topi di palcoscenico, con Valdora e l’onorevole Ascani alla testa, erano ritornati al loro posto di combattimento, aveano ripreso l’assedio di un tempo, nè più nè meno come se nulla fosse mutato d’allora, come se l’uomo che le aveva dato il suo nome e consacrato l’esistenza fosse ancora il timido aspirante di prima, inscritto insieme a loro in quello _steeple-chase_ galante, e di cui non s’erano mai dati troppo pensiero. Ed ella pure ritornava tal quale la consumata civetta che sapevasi armeggiare fra cento adoratori senza alienarsene alcuno, alimentando sapientemente le speranze e la vanità di tutti e prendendo da ognuno quello che le tornava utile! Ma Torreforte non aveva perduto ancora del tutto il sentimento della sua dignità; se non era più geloso di lei, lo era sempre del proprio onore, del rispetto di sè stesso, ed intendeva mostrare con i fatti che non avrebbe mai permesso ad alcuno di attentarvi, in nessun modo.... Allora, sua moglie gli si rivoltò come una furia. Al vedergli prendere un tale energico e fiero atteggiamento che le avrebbe inevitabilmente inimicato i suoi influenti amici, gli autorevoli critici che aveva saputo accaparrarsi, ella si sentì minacciata nel suo successo, e questo le dava una violenza estrema di reazione, la rendeva capace di tutto.... Quindi, per paura di qualche scandalo, per evitare guai peggiori, Torreforte dovette sopportare ancora e tacere. Ma alla prima donna ciò non era giovato a nulla; il lungo travaglio del parto era stato realmente disastroso per lei e le avea addirittura devastato la voce. Talchè la sera che ella riapparve sul palcoscenico del _Massimo_, dopo tanta attesa, fu una enorme delusione pel pubblico e quasi un _fiasco_ per lei, tanto più umiliante, quanto meglio gli spettatori aveano mostrato di esser disposti in suo favore, applaudendola interminabilmente al primo vederla in iscena. Ella pareva quasi sul punto d’impazzirne! Però, non pensava neppure lontanamente ad arrendersi; credeva in buona fede d’essere stata vittima di un improvviso abbassamento di voce, fors’anche delle solite cabale di palcoscenico, e non anelava che ad una rivincita solenne, strepitosa. Un agente teatrale che formava una grande compagnia lirica per l’estero, le offerse di scritturarla: ella accettò con gioia. A Torreforte, che rimaneva a fare?... Lasciarla andar via sola, abbandonando il suo nome in balìa di lei, perchè ella ne facesse qualunque scempio?... Si decise dunque a seguirla! D’allora, la sua esistenza, non era stata che una corsa ininterrotta, vertiginosa verso la rovina finale. Era come se un vortice lo trascinasse, senza resistenza possibile, nella caduta; egli aveva talmente questa sensazione spaventevole, che se avesse dovuto ritessere per raccontarla ad altri tutta la triste trama del suo povero dramma, mentre si sarebbe a lungo indugiato per illustrarne il corso dal principio sin’allora, da quel punto in poi non avrebbe saputo trovare che poche, sintetiche frasi per dire il resto. S’era messo a seguire la moglie rassegnatamente, di teatro in teatro. Il termometro del successo calava ogni giorno dippiù, e quindi era incominciata per loro la parabola umiliante attraverso i piccoli teatri di provincia, la vergognosa caccia all’applauso, la corte ai giornalisti, le lunghe ed inutili attese nelle anticamere delle agenzie — un supplizio senza nome per Torreforte, tutto il rosario di miserie della sua degradante parte di _marito della prima donna_!... Quand’anche avesse trovato in sè la forza d’energia necessaria per arrestarsi su quella china, egli non si sarebbe sentito il coraggio di usarla contro di lei, tanto ella gli faceva pietà in fondo, trascinata com’era da un vero soffio di follìa, invasa ad ogni nuovo insuccesso da un delirio di disperazione e di furore. Per tal modo, si abbandonava passivamente alla sua sorte, lasciando ad ogni stazione del crudele calvario gli ultimi resti di forza volitiva e di fierezza.... Finalmente, quel martirio aveva dovuto trovar termine, perch’ella era stata costretta a riconoscere, malgrado ogni disperata illusione in contrario, che bisognava abbandonare il teatro. Però, non voleva e non poteva rinunziare del tutto all’arte sua: forzata ad uscirne dalla porta, aveva imaginato di rientrarci per la finestra adoperando i propri talenti musicali nell’aprire una scuola di canto. Un nuovo avvilimento, anche peggiore, era incominciato per Torreforte. Degli estranei aveano invaso la sua casa, vi portavano in giro a tutti i momenti le loro faccie sconosciute ed insolenti per lui; qualche giovanotto elegante s’era sentito nascere, per via delle forme giunoniche dell’_ex_-prima donna, delle improvvise disposizioni pel canto, e s’era inscritto alla nuova scuola. Tra gli altri, Santo Stefano, ricomparso ad un tratto sull’orizzonte, figurava in prima linea. Egli s’era fatto cordialmente perdonare i propri torti con un apologetico medaglione della _diva_ in ritiro, pubblicato su di un giornale a proposito della sua scuola, solleticando la vanità di lei in tutti i modi, ed era divenuto uno degli allievi più assidui.... E Torreforte aveva accettato anche questo, non sapendo opporsi più a nulla, adagiandosi supinamente nell’abisso scavatosi.... Tutto, tutto egli avea subìto, impotente a ribellarsi, come un ebete; aveva vuotato l’orribile calice della sua miseria sino alla feccia, sino a quel giorno in cui aveva sentito di toccarne l’ultimo fondo!... Egli era rientrato a casa sua improvvisamente. Attraversando l’anticamera, avea riconosciuto il cappello e la mazza di Santo Stefano, ma dalla stanza del pianoforte nessuna voce, nessun suono veniva: la porta n’era chiusa di dentro, e ai suoi picchi nessuno rispondeva.... Allora, una collera cieca, spaventevole, l’avea invaso, un bisogno imperioso, delirante, di travolgere anche loro nella catastrofe che lo atterrava, ed era corso di là, ad armarsi di una rivoltella!... Ma non era stata che una vampata; un immenso abbandono, una disperata calma, lo aveano vinto a poco, a poco, gli aveano mostrato l’inutilità di un delitto che solo sarebbe servito a renderlo più miserabile di prima, aumentando l’orrore ch’egli ispirava a sè stesso. Perchè poi — egli pensava — l’avrebbe uccisa?... Era assurdo pretendere ch’ella fosse diversa di così, più stimabile oggi di ieri, del giorno in cui, non riuscendogli per la calcolata resistenza di lei di farsene un’amante, l’avea innalzata al grado di moglie!... No, meglio valeva finirla altrimenti, sotto le ruote del primo treno incontrato lungo un binario di ferrovia!... E se n’era andato chetamente, lentamente, con le spalle curve, senza badare ad asciugarsi le lacrime che gli inondavano il viso.... TEMPESTA STORNATA. I. Ella gliel’avea detto, una volta, alzando minacciosamente la mano, con la testina eretta e gli occhi che le scintillavano di collera e d’audacia: — Bada!... Sono stanca di vivere così! Non è permesso togliere una ragazza dalla quiete della propria famiglia dove è adorata, attaccarla a sè per tutta l’esistenza, e poi dimenticarsene, vivere come se lei non ci fosse, non rilevarne neppure la presenza!... Il commendatore Marelli l’aveva guardata un momento, sorpreso di vederla a quel modo, lei così mite, così timida, che non levava mai la voce, che si contentava per tutta protesta di starsene sempre muta e di portare attorno per la casa un viso lungo e triste, quasi le fosse morta la madre il giorno avanti. Ma poi, aveva scrollato un pochino le spalle, senza risponderle.... Gli avanzava proprio tempo per badare a sua moglie, adesso che la lotta al Municipio era nel più bello e l’amministrazione cominciava a tentennare sotto i colpi vigorosi dell’opposizione di cui egli era l’anima!... Infine, qual’era la sua colpa, poichè s’erano sbagliati reciprocamente sul conto loro e non si erano compresi bene in principio, mentre erano ancora a tempo per non fare il passo che adesso rimpiangevano tutti e due? Ella, nel sentirlo tanto giovane ed ardente, malgrado non fosse più un ragazzo, con quella voce calda e la testa piena d’espressione e d’energia, con qualche cosa d’appassionato e d’irruento in ogni suo gesto, in ogni sua parola, aveva creduto che sarebbe stato lo stesso con lei anche dopo, che le avrebbe recitata eternamente alle gonnelle la parte, affatto d’occasione, d’innamorato geloso e cocente, come se non avesse avuto mai da far altro. Quanto a lui, vedendola tanto docile, semplice e quasi sottomessa, s’era illuso di prendersi in casa una compagna seria e discreta, capace di comprendere dove egli voleva arrivare e di secondarlo all’occorrenza.... E invece, s’era trovato accanto una donnina romantica, tutta malinconie e sentimentalismi, ch’era scoppiata a piangere dirottamente, dopo un mese di matrimonio, un giorno in cui, dovendo uscire di fretta, egli avea dimenticato di baciarla!... La colpa era del destino che li avea voluti legare l’uno all’altra, mentre non erano fatti per intendersi e per vivere insieme. Ma egli non sapeva che farci!... Non era un ambizioso volgare, uno di quelli che agiscono isolatamente, per raggiungere uno scopo personale: le ambizioni di questo genere, grandi o piccine, si possono sacrificare per amore di una persona cara, quando ne va di mezzo il benessere e la pace della propria famiglia. Ma in lui c’era invece il temperamento di un uomo politico nel senso più elevato della parola, di un uomo dì partito, con delle idee da far trionfare, creato apposta per la lotta, e che, una volta impegnatovi, non può più uscirne: un vero _leader_!... Non era stato torse Marco Minghetti in persona a dirglielo, quel giorno che Marelli era andato a visitarlo in seguito alla crisi che avea condotto per la prima volta la Sinistra al potere, dopo una lunga conversazione, trattenendolo ancora per dieci minuti sul pianerottolo della scala?... — Mio caro, bisogna riunire tutte le sparse forze conservatrici e opporre una resistenza energica!... Da voi, credetemi, c’è molto da fare, ma occorre l’uomo che sappia prima creare un movimento generale a forza di attiva e intelligente propaganda, e poi mettersene alla testa.... Perchè non sareste voi quest’uomo, dal momento che ne possedete tutti i requisiti?... E d’allora, egli non aveva vissuto più che per questo, trascurando affatto sua moglie, disertando la casa, sempre in moto tra le elezioni, il Municipio, il giornalismo, le associazioni politiche, le commissioni d’ogni genere, trovando modo d’agitarsi persino in quei momenti di profondo ristagno in cui la vita pubblica sembra assopita. Per tutta risposta, allorchè sua moglie abbandonava un momento la sua muta e desolata aria di salice piangente per rivoltarsi e protestare, egli si stringeva nelle spalle, con un sorriso bonario e fine alla Depretis.... Però, una volta non aveva sorriso e s’era fatto invece terribilmente scuro in viso, togliendo d’un tratto alla mite creatura tutto il coraggio con cui gli avea ripetuto d’essere stanca di quella vita, di sentirsi giunta all’estremo limite della sua rassegnazione, e gli avea soggiunto, drizzandosi sulla vita sottile, sottile, appuntando verso di lui il dolce profilo divenuto in quel momento duro, tagliente, viperino: — Bada!... Un giorno o l’altro, mi farai perdere la testa, e allora commetterò forse qualche follìa!... In verità, la povera signora ne moriva dalla voglia e l’avrebbe voluta commettere già da un pezzo la grossa follìa minacciata, senza però avvertirne prima suo marito, perchè non ne poteva più di una simile esistenza, di quell’uomo egoista e brutale che non si curava punto di lei per correre dietro ai suoi sogni ambiziosi, a delle assurde chimere di potere, perchè ella aveva venticinque anni, del cuore, dei nervi, del sangue e un bisogno prepotente, quanto più soffocato, di tenerezza, di affetto e di carezze!... Ma la paura del marito era più forte di tutto ciò e la paralizzava sempre; il carattere autoritario e violento di lui la faceva fremere all’idea di metterglisi in guerra aperta, dominava troppo la sua fibra delicata e poco resistente. Sentiva bene che all’occorrenza, egli che non mostrava neppure d’accorgersi di lei, avrebbe aperto tutti e due gli occhi — quei grandi occhi neri e cupi che avevano una mobilità da maniaco e le mettevano ora dei brividi addosso, quasi che il tempo in cui la facevano languire di passione non fosse mai stato. E una volta acquistata la certezza, guai; egli non si sarebbe arrestato davanti ad alcun eccesso! Era meglio dunque vivere ancora così, macerandosi solitariamente, anzichè compromettere ogni cosa con un colpo di testa: l’onore, la pace, fors’anche la vita!... Tutte riflessioni belle e buone, eccellenti consigli dettati dalla ragione e dalla prudenza, i quali avevano avuto il loro grave peso fino a che le aspirazioni di lei erano vagate astrattamente nel vuoto, ma che aveano cessato di contare il giorno in cui _don Giovanni_ era apparso sull’orizzonte conjugale. Quando il diavolo vuole, addio prudenza! E il diavolo, nel caso presente, s’era servito del marito in persona, il quale adesso, stanco di lavorare e di agitarsi per gli altri, trovava giunto alla fine il momento di mettere avanti la propria candidatura al Parlamento e teneva a tale scopo quasi tutte le sere delle riunioni preparatorie a casa sua, presiedute dal marchese Toralta. Questo marchese Toralta, senatore del Regno, un pezzo grosso del partito moderato, era vecchio, mezzo cieco, e si faceva accompagnare ogni volta da suo figlio. Ora, Stefano Toralta non s’era permesso mai il lusso di un’opinione politica qualunque, e preferiva, mentre gli altri discutevano, mettersi a chiacchierare in un cantuccio con la signora Marelli, presente anche lei a tali riunioni per espressa volontà di suo marito, il quale accarezzava fra gli altri sogni anche quello di un gran salotto politico. Delle amiche aveano parlato spesso a lei di Stefano Toralta come di un seduttore pericolosissimo che avea parecchie vittime sulla coscienza, bello, elegante, intraprendente, pieno di spirito e d’audacia.... Per quel che riguardava l’eleganza e la bellezza, ella non diceva di no, tutt’altro, ma quanto al resto, lo avea trovato invece così semplice, gentile, per nulla amante di sfoggiare dello spirito, con un’arte tutta sua di mettere nella conversazione una nota di delicata intimità, e rispettoso, discreto poi, senz’alcuna pretesa, con un’aria di buon ragazzo che non sa di piacere e di possedere delle attrattive irresistibili: una cosa deliziosa!... Dapprima, ella s’era abbandonata alla simpatia che già le si destava vivissima per lui, ingenuamente, con una spensieratezza da collegiale; ma poi s’era accorta dell’abisso verso cui s’avviava di galoppo e avea voluto fermarsi a tempo, tentare tutto quanto era in lei per evitarlo.... Ma sì, come se suo marito le avesse permesso di condursi a proprio talento, come se non avesse giurato di farle perdere la testa a tutti i costi!... Ella accusava delle emicranie, voleva mettersi a letto per tempo, ed allora erano delle scene violente, persino delle minaccie, per istanarla da quella camera al buio dove andava a rifugiarsi coi suoi tormentosi e seducenti fantasmi; si trincerava nel proprio salottino, dandosi un gran da fare attorno ad un ricamo, ad un lavoro di tappezzeria qualunque, retto da un meccanismo complicatissimo di telai e di trespoli, apposta per avere il pretesto di non muoversi di là, e allora suo marito s’affacciava all’uscio, parlando forte per essere udito dal salotto contiguo e forzarla in tal modo: — Questo povero Stefano che si annoia da morirne!... Vieni un momento di qua con noi.... E se ella si figgeva le unghie nella carne per non cedere a quella tentazione, mettendo avanti un pretesto dopo l’altro, Marelli glielo conduceva fin lì, gettandole per soprappiù delle occhiate di traverso e prendendo un’aria giovialmente paterna per dire al giovanotto, che voleva divertire ad ogni costo per riguardo di suo padre: — State a guardare la fatica di Penelope.... Tutto lavoro che verrà lasciato in aria domani, o magari sarà disfatto! Insomma, era una vera congiura contro i fermi propositi, le paure, gli scrupoli, di lei, quasi che tutti si fossero dati l’intesa per farla cadere: suo marito che aveva smarrito addirittura il cervello con quella elezione e pareva ci godesse a vedersi il lupo girare per la casa attorno all’agnellina spaventata; il marchese senatore che aveva ad ogni momento delle cose di grande importanza da comunicare e mandava sempre suo figlio, spesso mentre Marelli era fuori.... Il giovanotto non le faceva una corte dichiarata, non aveva l’aria di porle l’assedio, anzi si manteneva in attitudine di delicato riserbo. Ma era assai peggio. In fondo, ella era una donnina seria e giudiziosa: se avesse compreso di trovarsi dinanzi un seduttore di mestiere, non si sarebbe scaldata la testa nè il cuore, e avrebbe indovinato subito il giuoco, sventandolo sin dal bel principio. Invece, Toralta non si mostrava con lei nè intraprendente, nè ardito, si contentava di circondarla a poco a poco, con un crescendo appassionato di tenerezza, di affetto, di muta e soave adorazione — una rete fitta, resistente, intricatissima di seduzione, nella quale ella cominciava a non potersi dibattere più, ma dove lui pel primo restava impigliato, preso sul serio, sino alla punta dei capelli, di quella creatura fine e sottile come la stessa fragilità fatta persona, e così sincera, così appassionata, così diversa da tutte le altre!... E il loro idillio filava, filava, con una rapidità vertiginosa, sotto gli occhi stessi del marito che sembrava impaziente di affrettarne la catastrofe, tanto moltiplicava loro, nel suo accecamento, le occasioni di stare insieme e di bruciarsi reciprocamente le ali alla fiamma che li struggeva l’uno per l’altra, poveri ragazzi!... La catastrofe giunse infine, una sera, proprio la sera in cui Marelli posava ufficialmente la sua candidatura in seno all’_Associazione Costituzionale_. Il commendatore faceva anzi il suo ingresso solenne tra una folla imponente di elettori, in compagnia dei marchese Toralta padre, giusto nel momento stesso in cui Toralta figlio entrava nel salottino di sua moglie. La grande sala illuminata senza risparmio, dove le voci si levavano da ogni parte confusamente, avrebbe fatto un curioso contrasto col silenzio dell’angusto salotto di casa Marelli, di cui la seducente penombra avvolgeva i due giovani seduti sul medesimo divano, vicini vicini, senza dirsi nulla, vibrando sotto la muta carezza degli occhi desiosi, e con le mani che si cercavano e s’allacciavano strettamente, per sciogliersi, per unirsi ancora.... Frattanto, all’_Associazione Costituzionale_ Marelli cominciava a parlare dal banco della presidenza, trinciando l’aria col gesto largo e rapido che gli era particolare: “_Quando a Roma, Marco Minghetti mi diceva_....„ — E come se lo avesse udito e avesse atteso da lui la battuta, Stefano Toralta usciva nel medesimo momento da quel suo mutismo che durava da un pezzo e metteva fuori anche lui la propria eloquenza, la terribile eloquenza di certe frasi spezzate e senza nesso, un profluvio di parole che gli salivano alle labbra impetuosamente e spesso vi morivano, soffocate dal desiderio, soffocate dall’emozione.... — Il candidato levava ad un dato punto la voce, salendo gradatamente di tono come vedeva l’attenzione con cui l’ascoltavano e l’effetto che il suo discorso produceva. Nei passi più salienti, l’eco sonora della sala si svegliava sussultando.... “_Il paese ne è stanco oramai, ed è a noi che domanda di liberarlo da un tale giogo!_...„ — Con proporzione inversa, il giovanotto invece smorzava la sua voce, nella turbante penombra del salottino, mentre s’impossessava di tutte e due le braccia della Marelli, cingendosene la vita, mormorandole proprio sulla bocca delle cose che si sentivano appena: “_Virginia.... Adorata mia!_„... Il discorso del commendatore finiva; degli applausi scoppiavano fragorosamente, delle grida di bene, di evviva; delle mani si tendevano a lui da ogni parte: un vero trionfo, che egli assaporava colla bocca schiusa e gli occhi umidi, rifinito dall’emozione, beato.... E intanto, a casa sua, l’altro trionfava anche lui!... II. La dolce amica, mentre si godevano in pace la loro parte di paradiso, aveva sentito mordersi il cuore dal presentimento di qualche brutta sorpresa che doveva capitare loro addosso, una volta o l’altra, perchè si volevano troppo bene, perchè erano troppo felici così, e la felicità non dura mai a lungo! Stefano Toralta non credeva ai presentimenti delle donne, e rideva.... Invece, era proprio il cuore che le parlava, povera creatura! Un giorno, Marelli era partito di buon’ora per un giro elettorale nelle campagne, e sua moglie non avea mancato di avvisarne _l’altro_. Senonchè, il commendatore, per un impedimento sorto improvvisamente, aveva dovuto rimandare il giro incominciato ed avea preso il primo treno di ritorno, rientrando a casa sua mentre non era punto atteso.... Nel solito salotto, Toralta se ne stava sdraiato sul tappeto, col capo abbandonato sopra le ginocchia dell’amica, portandosi ogni momento le mani di lei alle labbra e dicendole tante piccole cose inconcludenti e soavissime..... Ad un tratto, ella era balzata in piedi spaventata, accennandogli di tacere con un gesto di terrore, e tendendo avidamente l’orecchio.... S’era udito un rumore di passi dietro l’uscio che comunicava con lo studio del marito, e l’imposta avea scricchiolato un poco, come per una lieve pressione dal di dentro; poi, silenzio! Allora, ella avea preso il suo coraggio a due mani, avea aperto l’uscio ed era passata nello studio.... Marelli era là, pallidissimo, con degli occhi stralunati e le mani tremanti, ma calmo in apparenza, che consultava delle carte e si sforzava, di sorridere.... Come avea trovato ella la forza per domandargli da quanto tempo fosse rientrato, e perchè fosse ritornato così presto in luogo dell’ora tarda annunziata prima?... Egli avea spiegato il contrattempo capitatogli a metà strada, e poi avea chiesto, con semplicità, ma evitando di guardarla: — Hai gente di là?... Ah, Stefano!... Adesso vengo a salutarlo. Ed erano entrati assieme nel salotto, lei dietro, trascinandosi a stento, pazza di terrore, Marelli colla solita cierai, il passo sicuro, tendendo da lontano la mano al giovinotto che s’aggiustava nervosamente con la sua il colletto della camicia. Quindi, poichè nessuno parlava, egli s’era messo a raccontare di nuovo, profusamente, il caso occorsogli, terminando col dire che degli affari lo chiamavano fuori e proponendo a Stefano Toralta di accompagnarlo. Questi s’era levato senz’altro, col viso serio, credendo di comprendere, pronto ad una spiegazione.... Invece nulla, nè una volta fuori del salotto, nè già in istrada, nè per tutto il tempo che camminarono insieme, sino al palazzo della Prefettura dove Marelli era salito, lasciandolo con una forte stretta di mano!... La sera, Toralta avea trovato modo d’aver notizie dell’amica: nulla neppure con lei, il solito contegno di prima, con la semplice variante che adesso le rivolgeva la parola il meno possibile. E così, tra l’estrema sorpresa e lo stupore d’entrambi, era stato il giorno appresso e gli altri giorni seguenti, come se proprio egli ignorasse tutto, mentre, al contrario, era facile accorgersi da cento segni che avea scoperto ogni cosa, che non voleva mostrarlo e credeva in buona fede di riuscirci. Per prudenza, Stefano Toralta aveva diradato, ma non interrotto affatto le proprie visite, limitandosi ad andare in casa Marelli soltanto in compagnia di suo padre. In compenso, cercavano adesso d’incontrarsi fuori più spesso, e aveano stabilito tra loro un’assidua corrispondenza. Ella, nelle sue lettere, si accaniva contro il marito che era divenuto un vero soggetto di odio per lei, poichè era costretta a temerlo nel tempo stesso che lo disprezzava. “_È un vigliacco_ — gli scriveva — _un vigliacco che finge d’ignorare, perchè ha paura di te!_„ — Allora, egli prendeva le difese di Marelli; le rispondeva: “_No, povero amore, tu gli fai torto ingiustamente accusando di vigliaccheria un uomo che s’è battuto parecchie volte per motivi di nessun valore, che ha passato degli anni in sala d’armi ed esercitandosi al bersaglio, mentre sa, comprendi? — sa dalla mia bocca medesima come io sia appena capace di tenere in mano la spada o la sciabola, e punto poi la pistola. Se tace per ora, è che più forte del suo risentimento, più forte della sua collera, la quale in altro momento sarebbe scoppiata subito, con una violenza spaventevole, più forte di tutto è adesso in lui la sua folle ambizione politica, il pensiero di quest’elezione che rappresenta il sogno di tutta la sua vita! Un duello, uno scandalo nel momento attuale, coi giornaletti — libelli che pullulano e vanno facendo bassamente arma di tutto, potrebbe essergli fatale e compromettere ogni cosa. È perciò ch’egli trova adesso la forza di frenarsi: c’è dell’eroismo in questo, dato il suo carattere. Ma ad elezione compiuta, qualunque sia il risultato, sta’ pur sicura che si ricorderà e vorrà regolare la partita, rifacendosi ad usura del tempo lasciato trascorrere così!_„ — E soggiungeva malinconicamente: “_Di me non mi preoccupo; non sono un eroe; però, allorchè mi trovo nel giuoco ho del sangue freddo quanto ce ne vuole, e non guardo mai a quel che rischio. Ma è per te, anima mia, che ho paura, è per te, cara creatura adorata, che mi struggo adesso nell’ansia!_...„ L’amico della moglie si mostrava più giusto verso il marito, che non la moglie stessa. Lo sforzo che, infatti, Marelli avea imposto a sè stesso, aveva addirittura qualche cosa d’eroico. Era un uomo orgogliosissimo, violento, incapace di sopportare in silenzio la più piccola offesa: eppure, la passione che lo dominava avea trionfato anche della sua stessa natura! Le conseguenze di uno scandalo alla vigilia dell’elezione lo facevano tremare, non soltanto per l’effetto morale che potevano produrre, ma ancora per un altro calcolo, la cui bassezza sfuggiva a lui medesimo, invaso com’era dall’idea di non appartenere più a sè stesso, ma bensì al partito ed ai principii che rappresentava. Delle violenze, un duello con Toralta, significavano in quel momento, date la forza e l’autorità di suo padre nel partito, alienarsi l’appoggio più solido e sicuro!... Così, egli non rinunziava alla vendetta, ma la rimandava a più tardi, consolandosi nell’attesa coll’immaginarla più completa e raffinata. Ciò che gli era costato orribilmente era stato il frenarsi subito; poi, una volta dominato il primo impeto, impostasi quella linea di condotta, l’avea seguita coraggiosamente, sostenuto dalla convinzione che nè l’uno nè l’altra sospettassero d’essere stati scoperti, deciso di andare così sino all’ultimo, a qualunque prezzo! Data una simile singolarissima situazione, ne veniva che i due ripigliavano audacia, tornavano ad abbandonarsi come prima alla passione che li dominava. L’idea della fuga, messa avanti da Toralta per scrupolo di gentiluomo che non vuol sottrarsi alla propria responsabilità, non era stata accettata dall’amica, troppo timida e debole per prendere un tal partito. Quindi, entrambi stavano ad aspettare con stoico animo la catastrofe, e intanto s’affrettavano a cogliere avidamente, febbrilmente, l’attimo che fuggiva, col cupo ardore di quelli che non vedono il domani innanzi a loro. III. La data fatale, così attesa e così temuta, giunse alla fine! La giornata elettorale era incominciata con buoni auspicî per Marelli, ma poi, le sorti della battaglia erano mutate ad un tratto, e in ultimo, la votazione in città era riuscita disastrosa per lui. Però, s’aspettavano nella serata i risultati dei circondarî, i quali potevano spostare ogni cosa. Stefano Toralta era rimasto vicino al candidato quasi tutto il giorno, e quando alla sera Marelli, non reggendo più allo sforzo di nascondere agli altri l’emozione che lo vinceva, l’ansia divorante e scomposta che lo rodeva, aveva voluto lasciar tutti e andarsene a casa ad aspettare i risultati della votazione fuori città, il giovanotto aveva dichiarato bravamente di tenergli compagnia, per essere vicino all’amata in quei momenti terribili. L’altro l’avea lasciato fare, quasi passivamente, e s’erano installati nel consueto salotto, tanto pieno di ricordi, dove stava per isvolgersi l’ultima scena del dramma.... I dispacci dai circondarî giungevano uno dopo l’altro, aggravando, in luogo di migliorarla, la posizione del candidato, portandosi via, a brano a brano, il suo coraggio e le sue speranze, gettandolo in preda ad un avvilimento profondo e schiacciante. La lugubre sfilata era durata sin oltre la mezzanotte: alla fine, il computo totale s’era chiuso con una differenza di trecentoquaranta voti tra Marelli e l’eletto della minoranza!... Allora, egli si lasciò cadere sopra una sedia come instupidito, col capo nascosto tra le braccia.... Rimase così un pezzo; poi, si scosse e cominciò a girare lentamente per la stanza lo sguardo spento e trasognato.... Improvvisamente, gli occhi di lui si fermarono, lampeggiando, sopra sua moglie e Toralta, che attendevano seduti accanto, muti, immobili, col cuore in sussulto.... Adesso, gli leggevano chiaramente sul volto i segni dell’uragano che si levava in lui, ricordando, la marea del furore che montava, intorbidandogli lo sguardo, facendogli serrare le mascelle.... E ad un tratto, avevano osservato una fiamma viva che gli passava negli occhi, e quindi lo avevano visto scattare in piedi, avviarsi verso di loro, cupo, risoluto, coi pugni contratti.... Un minuto orribile!... Toralta s’era levato egli pure, pallidissimo, ma calmo e pronto a tutto!... Però, l’altro, al momento in cui si trovavano quasi faccia a faccia, gli aveva voltato le spalle e s’era messo a passeggiare concitatamente per la stanza.... Si capiva che la riflessione era sopraggiunta, temperando il primo bollore del sangue, e che egli voleva ora risolvere tra sè quale fosse il miglior partito da prendere, se avesse dovuto rimandare all’indomani una spiegazione con lui e principiare intanto dalla moglie, appena fossero rimasti soli.... La situazione diveniva penosissimamente difficile per Toralta; per darsi un contegno, egli aveva preso il giornale della sera, uscito tardissimo coi risultati approssimativi delle elezioni, e avea fatto mostra di leggere, guardando invece di sottecchi la sua povera amica, ridotta all’estremo delle proprie forze, che incominciava ad abbandonarsi adagio sul divano, cogli occhi semispenti e il respiro affannoso.... Per infonderle del coraggio, per confortarla col suo esempio, si mise a leggere davvero, con voce forte e sicura.... Gli occhi, così a caso, gli erano capitati sopra un telegramma dalla provincia, che diceva: “_Mentre gli elettori votano quasi unanimemente per l’onorevole Sinibaldi, i medici dichiarano disperato il suo stato. Prevedesi con dolorosa certezza che domani l’illustre uomo sarà proclamato primo eletto e che, a poche ore di distanza, il seggio da lui occupato resterà vacante._„ Aveva appena letto le ultime parole, che Marelli s’era accostato a lui rapidamente, strappandogli quasi di mano il giornale.... Credendo ad uno scoppio di collera, ad una brusca provocazione, che risolvesse alla fine quella situazione insostenibile, Stefano Toralta era balzato in piedi.... Marelli, viceversa, si metteva a sedere, cercando avidamente sul giornale la notizia di cui aveva ascoltato la lettura, divenuto ad un tratto tutt’altro uomo, cogli occhi scintillanti, ma di un diverso fuoco, le labbra tremanti, ma non più di collera, ripreso nuovamente dalla sua terribile febbre, dalla sua malsana ambizione, distratto ancora una volta, dinanzi alla prospettiva d’una rivincita sotto mano e quasi certa, dalla cura del proprio onore, dal bisogno furioso di vendicarlo che lo avea assalito un istante prima! E come Toralta lo fissava attonitamente, non riuscendo a comprendere sul momento, egli s’impossessò del braccio di lui, agitandogli davanti il giornale spiegato: — Ma io mi ripresento nel terzo collegio, capite?... E questa volta sono certo della vittoria, perchè è quello il mio collegio naturale, è là che ho una vera e solida base! Però, bisogna muoversi, trovarsi pronto a raccogliere l’eredità prima d’ogni altro.... Vado a telegrafare che domani sarò tra loro!... — Quindi, ripigliando la propria parte nella mostruosa commedia che recitava da un mese e mezzo: — Mi aspettate un minuto, caro Stefano?... Mi vesto in un baleno, e andremo insieme. Toralta e l’amica, rimasti soli, s’erano guardati allora un momento negli occhi attoniti, tuttavia sotto l’emozione violenta di quella scena, non rinvenendo ancora dallo stupore senza misura che la inaspettata soluzione avea loro procurato. Poi, egli se l’era presa tra le braccia, stringendosi forte contro il petto la piccola testa soave ch’ella gli abbandonava con una grazia di bambina spaventata, cercando con le sue le povere labbra fredde e smorte di lei, e accarezzandole adagio i capelli, con infinita tenerezza: — È una dilazione insperata; ma di cui ci farà pagare gl’interessi alla scadenza. Lo conosco, io!... Ogni giorno che passa, è tanto odio che gli si accumula nel cuore contro di me.... Che importa?... Intanto, abbiamo ancora due o tre mesi di dolcezze avanti a noi!... LA FINE DI DON GIOVANNI. I. Se qualcuno si congratulava col barone Zarchi per la bella ciera che mostrava, il barone rispondeva invariabilmente, con la voce lamentosa: — Lasciatemi stare! Non vedete come sono andato giù, maledetti i reumi! Invece, quando lo compiangevano e gli consigliavano di curarsi perchè lo trovavano assai malandato in salute, don Rocco Zarchi interrompeva, rizzando la testa e battendo per terra il bastone: — Io?... Perdio!... Io mi sento un leone!... La verità era che con tutti i suoi malanni, reali o imaginari, il barone Zarchi era ancora il _don Giovanni_ di Vallestretta, e le donne gli correvano sempre dietro. Anzi, lo chiamavano appunto così, da quando, molti anni avanti, gli era venuta la brutta idea di porre l’assedio alla moglie del comandante l’esigua guarnigione locale e questi, una sera, era andato a cercarlo al _Casino dei civili_ — mentre l’altro, avvertito a tempo, s’era andato a chiudere in casa — gridando furioso che voleva prendere a schiaffi quel _don Giovanni_ di villaggio. D’allora in poi, questo era stato come il suo secondo nome, e persino i contadini delle sue terre lo chiamavano in tal modo, senza poi troppo capire perchè ad un donnaiuolo dovesse toccare quel battesimo, in luogo d’un altro qualunque. Ma siffatta aureola di seduttore pericoloso avea cominciato a circondarlo sin da ragazzo, e suo padre, buon’anima, si torceva dal gran ridere allorchè le donne della sua casa venivano a reclamare presso di lui perchè il baronello non si dilettava di pizzicare la chitarra soltanto.... — Una stampa come voi, quel ragazzo! — gli dicevano i suoi fittaiuoli, se volevano disarmare il rigore di lui quando andava per le proprie terre a fare le riscossioni. Allora, il barone scordava il suo danaro e si metteva a ripassare le storie della propria giovinezza. — Vi ricordate quella lì, eh?... Vi ricordate quell’altra?... — e cominciava a snocciolare la minuta di tutti i bocconi da re che aveano ornato la mensa della sua lussuria. E gli altri astutamente incalzavano, vantandone la malizia, la consumata abilità ed il tatto con cui aveva sempre saputo accomodare ogni pasticcio, soffocare ogni scandalo, seminando, a seconda dei casi, il danaro, le vane promesse o le minaccie — senza contare i canonicati a spese del Comune per quei padri o quei mariti che masticavano in modo inquietante il _Vostra Eccellenza_, incontrandolo vicino alle loro case!... — Questo no, questo no!... — gridava allora il barone che voleva essere rieletto sindaco. — I miei affari li ho sempre accomodati coi miei danari!... Però, la gaia indulgenza paterna cadde a un tratto, allorchè si seppe che il baronello se n’era scappato a Palermo con l’amorosa d’una compagnia di comici capitata di passaggio a Vallestretta. Il barone non faceva che bestemmiare, urlava che l’avrebbe fatto tornare in mezzo ai carabinieri, che avrebbe saputo metterlo a dovere!... Ma era scritto che Rocco Zarchi non dovesse mai sperimentare la severità di suo padre, perchè egli era ancora a Palermo con la sua _amorosa_, quando il barone si mise a letto con una perniciosa che avrebbe ammazzato un cavallo, cosicchè il figlio giunse appena in tempo per chiudergli gli occhi. Come scorse l’anno del lutto di rigore, don Rocco, che avea passato tutto quel tempo in giro per le sue terre, annunziò che partiva. — Andate a Palermo? — gli domandavano. Egli rideva e alzava le spalle.... — A Messina?... A Napoli?... Egli continuava a ridere e ad accennare con un gesto vago della mano, con un’espressione misteriosa del volto, che sarebbe andato più lontano, più lontano assai!... Fu un vero avvenimento per quella povera cittadina di montagna deve nessuno si muoveva mai, abitualmente, oltre il limite della provincia, oltre Palermo al massimo, e solo pochissimi privilegiati potevano vantarsi d’essersi spinti sino a Napoli o d’aver toccato le colonne d’Ercole della Capitale. Per tre mesi giunsero a Vallestretta lettere di lui, e tutte da provenienze diverse e lontane, ora da Roma, ora da Firenze, da Venezia, da Milano, e persino una col francobollo verde e un’aquila a due teste, da Trieste, e un’altra col francobollo della Repubblica, da Nizza! Queste lettere erano portate subito al _Casino dei civili_, lette, rilette, comentate; ma lasciavano la curiosità che trovavano. Su per giù, il loro tenore era sempre il medesimo: “_Vi faccio sentire che mi trovo a Genova_ — per esempio — _e che ho visto delle meraviglie che non si possono descrivere! Quando sarò tornato, vi racconterò._„ Da Venezia, tra l’altro, avea scritto: “_Voi imaginerete che Venezia sia come Vallestretta, che c’è il paese in mezzo ai giardini e si cammina sulle strade.... Ma che!... A Venezia si cammina sul mare!_„ E poi?... Poi: “_Sentirete, quando ritornerò!_„ Così, quando alla fine don Rocco si decise a tornare, tutto il paese era a riceverlo, e se lo portarono quasi in trionfo! Giusto, in quei giorni, il sindaco s’era dovuto dimettere, vista l’ostilità del Consiglio contro di lui che non aveva mai messo il naso fuori della provincia, mentre c’era in paese chi avea girato mezzo mondo; e come coincidevano le elezioni, il nome di don Rocco era stato votato all’unanimità. Ma era l’ultima cosa che potesse solleticare la vanità del barone. La vera autorità non veniva a lui dalla sciarpa a tre colori e non andava ad esercitarla al Municipio, ma là, al _Casino dei civili_, dove ogni giorno, dopo pranzo, egli si metteva a parlare del suo viaggio, e le carte restavano abbandonate sui tavolini verdi, poichè nessuno aveva più voglia di giuocare a scopa o a tresettè. Bisognava prima pregarlo a lungo, quasi forzarlo, e ciò volta per volta, perchè don Rocco non andava mai in fondo alle sue descrizioni e sempre diceva di sentirsi stanco o di non aver più la mente lucida. Non voleva lasciarsi sfruttare troppo presto, ecco tutto! Eppoi, avea compreso ch’egli diventava tanto più interessante, quanto più era oscuro e vago, quanto più stimolava la loro curiosità senza appagarla. La sua astuzia era di richiamare a proposito di qualunque cosa, con una crollatina di spalle e un sorrisetto di compassione, il correlativo delle grandi città. Così, passeggiando alla Villa comunale, egli ricordava le Cascine; e quando vi furono le corse dei giannetti e molti impegnarono delle scommesse, egli sospirava: “Ah, le Capannelle!... I _bookmakers_!...„ Tutti i pretesti per lui erano buoni onde suscitare intorno a sè un tal fremito di curiosità, tale folla di vaghe, ma pungenti aspirazioni verso l’ignoto, il volo di quelle vergini fantasie esaltate dal sole e dall’astinenza d’ogni pascolo nuovo. Gli bastava, passando davanti alla Madre-Chiesa, per esempio, di mormorare come in sogno: _Ah, San Marco!_... E quando si parlava di bagni: _Ah, Pancaldi!_... E davanti alla collezione di cocci e di sferre del cavaliere Nardi, grande amatore di antichità: _Ah, Pompei!... Il museo egiziano di Torino!_... E via, via così, sempre con quel suo gesto vago della mano e quella compostezza mistica di oracolo. Ogni parola lasciata cadere in tal modo, era subito raccolta, ripetuta e comentata. Ciascuno diceva la sua, dava un’interpretazione propria; ma, come nessuno ne sapeva nulla, si andava a ricorrere alla fonte, e don Rocco spiegava, badando però di non uscire dalle sue solite mezze frasi, dagli accenni oscuri che stimolavano la curiosità senza appagarla. Appunto, era avvenuto ciò per quel parolone inglese a proposito delle corse dei giannetti: c’erano voluti parecchi giorni di discussione per sapere come si pronunziasse, altrettanti per comprenderne il significato, e infine dovettero ricorrere all’interpretazione autentica.... dopo di che ne capirono meno di prima. Ancora, don Rocco aveva addirittura sconvolto la moda del paese, nel taglio degli abiti, nella foggia dei cappelli, nella forma delle cravatte, nel modo di pettinarsi, di camminare. Ed era una gara a chi sapesse meglio imitarlo che li incitava tutti, giovani e vecchi, quasi fossero ammattiti. Però, l’imitazione doveva arrestarsi per forza davanti a talune specialità di cui egli conservava gelosamente la privativa, davanti a quel suo pastrano leggero, leggero, per esempio, attraverso il quale l’acqua non sarebbe penetrata nemmeno a buttarvela a secchie, oppure a certi solini duri, duri, su cui bastava passare la spazzolina bagnata per vederli tornar bianchi e lucidi come fossero di porcellana. Poi, quello spirito giacobino di novità era penetrato nelle case fugandone le vecchie carte da parato, i vecchi mobili comodi e pesanti, sostituendovi le imbiancature a tempera, le ventoline giapponesi disposte a trofeo con le daghe dell’ex-guardia nazionale, le piccole tavole traballanti su tre piedi e le sedie dove ci si poteva stare a pena. E don Rocco, allorchè gli dicevano che avea saputo mutare la faccia del paese, rispondeva modestamente: — Io?... Io non c’entro per nulla! Sono i tempi che cambiano, sono i nuovi gusti, le nuove esigenze del secolo che s’impongono! II. Questo aveva costituito inizialmente lo straordinario favore del barone Zarchi presso le donne. Tale specie di fascino esotico ch’egli aveva portato con sè dal suo viaggio, e che avea dato quasi al capo di tutti, esaltava di preferenza i cervelli femminili. Ma v’erano delle altre cause: prima di tutto, la fama di donnaïuolo che avea circondato lui sin da ragazzo, suo padre, suo nonno, e tutta la famiglia Zarchi; poi le sue qualità fisiche. Don Rocco non era bello, e non lo era stato nemmeno a vent’anni, così piccolo, angoloso, capelluto com’era. Ma avea negli occhietti mobilissimi qualche cosa che attirava come la calamita, e quell’insieme di bruttezza simpatica operava una seduzione strana che, unita al gaio cinismo che gli era particolare, lo rendeva assai pericoloso. Il vero segreto però della sua fortuna con le donne stava in quel sordo istinto di gelosia che le pungeva al pensiero di tutte le altre che egli aveva dovuto vedere e possedere nel suo lungo viaggio: toscane, piemontesi, romane, e persino francesi, e persino austriache! Le tormentava l’idea ch’egli dovesse inevitabilmente paragonarle a quelle altre, che dovesse sprezzarle, o per lo meno non curarsene. Il sentimento della loro inferiorità le rodeva senza posa, fiaccava le loro boriuzze di piccole provinciali e gliele rendeva umili e sottomesse come tante agnelle. Intorno a lui era una gara accanita a chi potesse attirarselo meglio per fargli scordare la loro inferiorità e compensarnelo a furia di sorrisi, di occhiate, di adulazioni — e spesso con qualche cosa dippiù. Gli dicevano, con la voce calda: — Ce le avete sempre negli occhi le vostre forestiere, che non guardate più le donne del vostro paese? Don Rocco rideva: — Lo conoscete il proverbio? Femmine e buoi dei paesi tuoi! — Ed era come se facesse la grazia!... Così, poco dopo il suo ritorno, col pretesto che voleva sentirgli raccontare i viaggi famosi, gli era caduta tra le braccia la moglie dell’ex-sindaco. Dopo, era stata la moglie del pretore, in seguito la moglie del medico, e quindi la sorella vedova del cavaliere Nardi, il collezionista di antichità: una vera strage! Ma quelle eleganti conquiste non bastavano ad alterare le sue tendenze e i suoi gusti in fatto di donne. In fondo, malgrado le sue raffinatezze di uomo che ha girato il mondo, o poco meno, egli riproduceva in amore gl’istinti di tutti i maschi della sua casa, dei minuscoli feudatari abituati a non uscir mai dalle loro terre, con degli appetiti solidi e facili, dediti alle libere e sane mescolanze nella libera e sana campagna. Per lui, anzi, la visione di eleganza e di lusso femminile che le grandi città gli aveano lasciato negli occhi, costituiva una ragione dippiù di fargli preferire, per reazione, alle goffe e pretensiose signore del paese, le schiette e semplici bellezze dei campi. Eppoi, ognuno ha il proprio destino, e il suo, certo, voleva così, ch’egli si fosse dopo un pezzo stancato dei successi cittadini per mettersi a rinnovare gli allori delle rustiche avventure paterne, e che alla fine posasse gli occhi sopra la moglie di massaro Nunzio Candioto, una stupenda creatura, bruna e forte, la quale giusto, un po’ per paura del marito, un po’ per amore del suo ragazzo, non voleva saperne. Don Rocco ci s’era messo di lena, perchè a simili resistenze egli non era abituato, e quella cristianuccia gli piaceva meglio di tutte le signorone di Vallestretta riunite insieme. Infine, colei cedette, e il barone ne parve preso talmente che si scordò della sua prudenza solita. Così, accadde che massaro Nunzio cominciò a sentirsi prudere qualche cosa in testa e, una notte che avea detto di restarsene alla masseria del padrone, se ne venne invece in paese e andò a bussare a casa sua.... Bussa, bussa, bussa!... Nessuno rispondeva! — Finalmente, dovettero aprirgli, visto che altrimenti avrebbe atterrato l’uscio, e come egli si cacciava in casa, con la carabina in mano e gli occhi spiritati che lucevano nel buio, il barone Zarchi cercava di sgattajolarsela non visto.... — Ah, cane! — e giù una fucilata addosso. Intanto, qualche finestra s’era aperta, qualche coraggioso s’era messo davanti alla porta, a rischio di buscarsi una palla per isbaglio. Don Rocco, che non era stato colpito, si mise a correre, sempre inseguito dall’altro, con la carabina spianata, che mirava alla nuca. Una seconda palla non lo colpì neppure; poi, appena vide l’uscio del suo barbiere ch’era aperto, vi si cacciò chiudendolo sul muso dell’inseguitore, il quale gridava come un dannato e pretendeva sul serio che il barone venisse fuori per dargli il gusto di lasciarsi scannare.... Le guardie se lo presero così, con la faccia contro l’uscio del barbiere, che levava i santi ad uno ad uno dalla croce perchè il barone non voleva uscire! E nemmeno alla moglie aveva potuto far la festa, per via di quelle maledette guardie sbucate all’improvviso non si sa di dove! Soltanto, mentre se lo conducevano via legato come un cristo, aveva potuto sferrarle un potente calcio nel ventre e gridare al ragazzo che si teneva aggrappato, piangendo, alle gonnelle di sua madre: — Se io non torno, pensaci tu! — E alzando le manette verso don Rocco, il quale s’affacciava alla finestra del barbiere adesso che il pericolo era cessato: — O io, o mio figlio; ma per mano di uno di noi finirai certo! Fu ciò che ripetè alle Assise, quando gli lessero la sentenza che lo condannava a quattro anni di reclusione per tentato omicidio con premeditazione, accordate la provocazione e le attenuanti: — Sta bene, a rivederci da qui a quattro anni! E se non torno io, resta mio figlio! Intanto, il barone si fece il calcolo che di lì a quattro anni poteva morire un papa ed eleggersene un altro, e quanto al ragazzo non era da pensarci neppure. La tragica notte avea prodotto una durissima scossa sul figlio di Nunzio Candioto, tanto da farlo ammalare gravissimamente di nervi. Poi, era guarito, ma il suo sistema nervoso n’era rimasto squilibrato per sempre. Egli era cresciuto deboluccio, con una estrema sensibilità che lo faceva cadere in convulsioni ad ogni minuto. Tutto il giorno, se ne stava cucito alle gonnelle di sua madre, vivendo con lei e per lei come quelle pianticelle che hanno bisogno di attaccarsi a un’altra pianta grande per vivere. Aveva per la madre un amore assoluto e selvaggio; quel ragazzo apatico, distrutto dall’epilessia, senza un impulso d’energia morale nè d’energia fisica, si sarebbe fatto ammazzare ad una parola di sua madre, e avrebbe anche all’occasione saputo ammazzare. Contro il barone Zarchi provava un odio profondo, una specie di ribrezzo istintivo; avea sempre stampata negli occhi la terribile visione della notte indimenticabile, suo padre stretto come un cristo, in mezzo alle guardie che se lo trascinavano a forza, mentr’egli urlava, si dibatteva e, prima d’andarsene, gli legava solennemente l’opera di sangue e di punizione non potuta compire: — Se io non torno, pensaci tu! Ma l’obbedienza e l’attaccamento alla madre dominavano tutto in lui. Sua madre voleva bene al barone, esigeva che gli portasse rispetto, ed egli andava a baciargli umilmente la mano appena lo vedeva entrare. Anche da quel lato, dunque, don Rocco poteva dormire tra due guanciali, e perciò tornava lo stesso di prima, allegro e spensierato come un giovanotto. Soltanto, lo pungeva la spina di quella poveretta a cui aveva tolto l’onore, la pace e la famiglia. Egli non le faceva mancare nulla e le voleva anche del bene, tanto più che si conservava sempre una stupenda bruna, ma l’altra non smetteva mai la tristezza e non faceva che piangere, come la Madonna dei sette dolori. — Che vuoi?! — le diceva don Rocco. — Se non ci fosse quel cappio da forca di tuo marito, io, per me, ti sposerei. E in seguito, poichè vedeva che a tali parole ella si rasserenava e sorrideva, solleticata dalla lieta prospettiva, egli continuava a ripeterle: — Ah, se non ci fosse quel cappio da forca di tuo marito!... Il guaio fu che un giorno giunse dal reclusorio di Palermo la notizia che Nunzio Candioto era morto davvero, quando gli restavano soltanto diciotto mesi di condanna da espiare! La vedova corse subito, vestita di nero, dal barone, e gli si buttò tra le braccia, col petto gonfio e gli occhi pieni di lacrime, ripetendo tra i singhiozzi: — Ora la potete compire la vostra opera santa! Don Rocco non si smarrì: — Va bene, va bene! Ho promesso e manterrò! Intanto, bisognava lasciar passare il lutto di rispetto, per salvare le convenienze. Ma scorso l’anno del lutto, non si parlava ancora di matrimonio. Don Rocco ogni tanto, senza che l’altra gli dicesse nulla, usciva a ripetere: — Va bene, va bene! Ho promesso e manterrò! Però, non manteneva mai; quindi cominciarono le prime proteste, i primi rimproveri, dapprima velati e deboli, poi mano mano, incalzanti ed aperti. Infine, poichè passava già il secondo anno dalla morte del marito e non si concludeva nulla, ella gli fece una scena violenta che andò a finire poi in un grande scoppio di pianto. Don Rocco se la prese tra le braccia, sorridendo ed asciugandole gli occhi con certi colpettini di fazzoletto che parevano buffetti: — Mi stimi dunque tanto poco?! — le diceva. — Sono un galantuomo e il mio dovere lo farò sino all’ultimo! Ma voglio godermi la mia bella libertà ancora un poco, prima d’incatenarmi per tutta la vita! Che male c’è?... Hai paura che ti scappi? In tal modo, egli incominciò ad allontanarsi da lei e a correre un’altra volta la cavallina, col pretesto che voleva divertirsi ancora un poco, prima d’abbandonare la bella vita di scapolo. La vedova lo lasciava fare, rassegnata, ma sicura che un giorno o l’altro si sarebbe deciso a finirla e a pagare il suo debito. — Mai vi stancate, cattivo soggetto?! — gli diceva tutte le volte che il barone andava a trovarla e le snocciolava le sue eterne promesse. Infatti, egli non si stancava mai, come se fosse fatto d’acciaio o il demonio della lussuria gli fustigasse continuamente le reni, e seguitava a correre dietro a questa ed a quella, senza un pensiero degli anni e dei figli sparsi di qua e di là, tutti che mangiavano il pane di lui lavorando nelle sue terre e gli davano del _vostra eccellenza_, quando s’imbattevano in lui. Soleva dire il mulattiere che stava di sotto al palazzo Zarchi, con un sospiro di comica invidia: — Ah, se avessi i suoi muli!... Sua moglie gli dava sulla voce, furiosamente, perchè appunto vagheggiava per la loro creatura uno di quei figli naturali di don Rocco; e sperava che il barone avrebbe messo fuori la dote. Ma il mulattiere non si stancava di ripetere la sua grossa facezia, mentre strigliava le proprie bestie sotto i balconi del barone, sopratutto pel gusto di vedersi chiudere la finestra in faccia dalla maestra che abitava dirimpetto. La maestra — una milanese mandata da poco ad insegnare a Vallestretta — era la nuova passione di don Rocco, una vera passione che gli faceva perdere persino il sonno e l’appetito. Ella lo trasportava al tempo felice della sua giovinezza, gli riaccendeva nello spirito la magica visione di quel mondo di eleganza, di bellezza e di seduzione femminili del quale gli occhi di lui s’erano avidamente pasciuti durante il suo pellegrinaggio per le più grandi città d’Italia, tanti anni avanti; gli ridestava i suoi desideri, il suo vecchio sogno di avere, tutta per sè però, essendone amato, una di quelle creature privilegiate di laggiù, così ricche di grazia e di attrattive nel vestirsi, nel muoversi, nel parlare, al confronto di cui le donne di Vallestretta lo facevano sorridere di pietà!... Ma quella era una donna fina e piena d’esperienza, che si sentiva tanto sale nel cervello da mettersi dieci Zarchi in tasca. Perciò, aveva tenuto sodo e avea dichiarato senz’altro: O matrimonio o niente! III. La vedova di Nunzio Candioto, allorchè vennero a dirle che il barone sposava la maestra, credette di sentirsi crollare il tetto sul capo. Giusto, don Rocco mandava da lei per vedere di accomodare le cose e sapere che prezzo ella metteva per non pensare più alla vagheggiata corona di baronessa. Ma ella scacciò il mediatore, e si chiuse in casa a piangere la propria sciagura. Suo figlio, vedendola consumarsi così, senza smettere un minuto di piangere, diventava scuro, e le convulsioni gli venivano una dopo l’altra. La supplicava: — Prendete un boccone, che non vi reggete più!... Dormite un poco, che così v’ammazzate!... Ma la poveretta non mangiava, non dormiva, e continuava a piangere con gli occhi gonfi e rossi che parevano divenuti due fontane. — Per carità, finitela! — le gridò un giorno suo figlio — se no, mi fate commettere uno sproposito! Ed ella avea risposto, senza pensare a ciò che faceva, nel furore scomposto della sua gelosia e del suo disinganno: — Ah, come bene gli starebbe, sciagurato! Poi, mentre affondava la testa nei guanciali del letto, mordendoli e bagnandoli di lacrime, non vide l’altro, col viso di cera, che staccava dal muro la carabina di suo padre e usciva zitto, zitto... Don Rocco tornava allora dalla sua passeggiata consueta fuori porta. Quando se lo vide davanti in quella straduccia solitaria, con quel volto e la carabina di suo padre sul braccio, ebbe paura. Ma si rimise subito, punto dalla vergogna di aver tremato davanti ad un ragazzaccio. — Che c’è? — domandò, aggrottando le ciglia. — È vero che voi sposate la maestra? — Tua madre non vuole ascoltare la ragione? Senti, dovresti dirglielo tu, dovresti persuaderla.... Ma l’altro ripeteva coi denti serrati: — È vero che voi sposate la maestra? — Ebbene sì, è vero! — Ah!... — e gli scaricò la carabina nel petto. * * * Appena si sparse la notizia che don Rocco era stato portato a casa sua in istato gravissimo, tutti gli amici e i conoscenti corsero da lui e s’installarono nel vecchio palazzo, aggirandovisi con la faccia solenne delle grandi occasioni. Però si sa, l’abitudine è tiranna, e qualcuno incominciava ad intavolare nel salotto la partita di tresette o di calabresella, mentre gli altri fumavano e leggevano i giornali, come se la casa del moribondo fosse diventata la succursale del Circolo. L’ultimo giorno, il cavaliere Nardi, prima di mettersi al tavolo di scopa, sollecitato dal pretore che lo tentava col mazzo nuovo delle carte in mano, si avvicinò al malato. — State meglio oggi, mi pare! Voi, come vi sentite?... — Eh!... come quelli che se ne vanno! Ma quando venne l’arciprete a domandargli se volesse somministrato il santissimo sacramento, poichè era tempo di pensare all’anima sua, don Rocco disse, puntellandosi penosamente sui cuscini: — Io?!.. Perdio!... Io mi sento un.... leo....ne!... NOVELLA SENTIMENTALE. I. Quasi tutti gli amici del pittore conoscevano un po’ la sua storia; le svelte colonnine del piccolo _patio_ così fresco in estate, col lamento sommesso dello zampillo nella conca d’alabastro, oppure gli stupendi arazzi dello studio nel suo villino moresco ai Monti Parioli, dovevano persino averla imparata a mente, tante volte egli l’aveva raccontata, mentre offriva del genuino _wisky_ d’Irlanda, il suo liquore preferito, o certe deliziose sigarette egiziane, con quella grazia signorile che gli era particolare. Vi era nella facilità con cui si lasciava andare a tali intime confidenze, spesso senza neppure esservi spinto, qualche cosa di _voluto_, la premura di chi abbia un grosso debito di riconoscenza da soddisfare, e lo sconti giorno per giorno, coscienziosamente, con una regolarità che alla lunga abbia finito per fare del culto un’abitudine. Comunque fosse, costituiva certo un soggetto di viva simpatia l’udire questo artista già sulla soglia della celebrità, circondato da un lusso raffinato, ricercatissimo dappertutto, riandare con tanta semplicità il suo lontano passato, e la triste miseria d’un tempo, la miseria dalla quale egli forse non sarebbe mai uscito senza la pia creatura ch’era apparsa inattesamente nell’esistenza di lui come la Provvidenza. Ed egli non si dava punto l’aria di un eroe alla Smiles, poichè metteva anzi tutto il suo impegno nel far rilevare che non soltanto gli era stata aperta, ma ancora spianata la via sino all’ultimo, sino al giorno in cui s’era trovato in grado di far da sè, come qualunque altro.... Eppoi, egli era un narratore così vivo, così efficace! Mentre raccontava, quelli che l’ascoltavano si vedevano quasi trasportati laggiù, in Sicilia, in quel ridente paesello a pochi chilometri da Palermo, fra il mare e la montagna, lungo la spiaggia brulla, arsa dal sole, dove vegetava soltanto qualche rara macchia di fichi d’India.... E come rapidamente, con pochi tocchi interessanti, sapeva ricostruire tutto il triste periodo della sua infanzia, della sua adolescenza, tanta parte preziosa di esistenza sepolta in un povero villaggio di pescatori, quasi alle porte della grande città rumorosa e piena di allettamenti, l’eden donde lo aveano cacciato i vizi di suo padre, la sfrenata passione del giuoco che lo aveva costretto un bel giorno a vendere ogni cosa e a ritirarsi per sempre con la moglie ed il bambino lontano da Palermo, in quella casetta di campagna salvata per miracolo dal naufragio di tutta la proprietà! Egli era cresciuto là come un piccolo selvaggio, triste, solitario, tra il padre mezzo rimbecillito dalla catastrofe, taciturno, intrattabile, e la mamma ammalata, sempre fra letto e lettuccio, abbandonato quindi a sè stesso, risentendo penosamente il contraccolpo di una simile esistenza tirata avanti a furia di espedienti, grazie alla carità ora di uno, ora di un altro parente. Il ricordo dei primi anni trascorsi nell’opulenza e nel fasto assediava senza posa il suo infantile cervello, s’ingrandiva a misura che diveniva più lontano, prendeva una luminosità fantastica. Erano la sua felicità e il suo tormento quelle interminabili corse attraverso il passato, quella tumultuosa sfilata d’immagini: la palazzina al Giardino Inglese, col grazioso parco dove lo portavano a passeggiare tutte le mattine dentro alla carrozzella tirata da due capre; la governante francese, una bionda fine, elegante, che tutti si voltavano a guardare allorchè uscivano a spasso insieme; il superbo tiro a quattro che suo padre guidava egli stesso, le giornate di corse; il _bal d’enfants_ in casa dello zio marchese, dov’egli era andato travestito da mandarino cinese, coi capelli intrecciati a coda, e certi balli lunghi, lunghi; i mercoledì sera di sua madre, nei quali faceva una breve comparsa, tirato di qua e di là, carezzato, baciucchiato, sino a che, ad un cenno della signora, _mademoiselle_ non lo conduceva a dormire; la cameriera che ogni mattina veniva a portargli il caffè-latte col panino burrato, mentr’era ancora a letto, annodandogli intorno al collo un enorme mantile bianco perchè non avesse ad insudiciare le coperte.... — mille particolari di un’esistenza viziata e di lusso, tutto il suo piccolo e povero paradiso perduto! Non c’erano voluti che pochi mesi di un tale improvviso e radicale mutamento di vita, per fare dell’adorabile _bébé_ roseo e grassoccio, sempre ridente, sempre buonino, un ragazzetto esile e pallido, con un’aria di generale malessere, e sensibile poi, pronto a rompere in pianto per nulla, altero e solitario come un minuscolo principe in esilio. Una volta non era così; anzi le sue famigliarità con la servitù, i suoi trasporti di simpatia per le bambine del portinaio oppure pel figliuolo del cocchiere, gli procacciavano ad ogni minuto la solita ramanzina di _mademoiselle_: — _Il faut se tenir à l’écart des gens comme ça, m’entendez-vous?_ Ma adesso, la sua povertà lo spingeva a rivoltarsi; la memoria del fasto trascorso, contrastando crudelmente con l’umiliante condizione succeduta, gli faceva rizzare la testina fieramente. Trascurato dai genitori che non se ne occupavano punto, allontanato per via della propria alterezza da tutti coloro i quali gli stavano attorno, il ragazzo cresceva in uno stato d’isolamento morale che favoriva eccessivamente lo sviluppo della sua sensibilità e della sua fantasia; egli se ne stava quasi sempre fuori di casa, errando di qua e di là per la spiaggia e per la montagna, come uno senza tetto. Gli anni passavano in tal modo, uno dopo l’altro, senza recare alcun cambiamento, senza lasciar intravedere alcuna speranza, trasformando lentamente, nella squallida uniformità di una simile esistenza, il fanciullo nell’adolescente, l’adolescente nel giovine. La sua fierezza se ne andava a poco a poco, e vi subentrava invece una profonda tristezza, uno scoraggiamento indicibile, un sentimento di completa rinunzia generato dalla coscienza della propria situazione, dall’insuccesso di ogni tentativo per uscirne, troppo incolto com’egli era per imprendere una carriera qualunque, troppo ben nato e fine per adattarsi ad un mestiere, abbandonato dai parenti di Palermo che avevano tutti una famiglia propria a cui pensare. Così, continuava a vivere solitario, vagabondando sempre per la campagna, vegetando malinconicamente, pascendosi lo spirito di fantasie e di lunghe contemplazioni. Piaceva a lui sopratutto di salire sulla collina, di arrampicarsi sopra un albero, sopra un muro, un punto d’elevazione insomma, e di là starsene a fissare il paesaggio sottostante, la marina che si stendeva a perdita d’occhio, cullando mollemente, se il tempo era bello, una variopinta flottiglia di barche peschereccie. Oppure, se ne andava di là dalla montagna, in mezzo ai campi, e si dimenticava per delle ore, sdraiato a terra, cogli occhi socchiusi, senza spiegarsi egli stesso il segreto fascino che lo faceva cadere in contemplazione colà, nell’aperta campagna, la campagna dove il contadino si spezzava la schiena all’acqua e al sole, ansimando forte ad ogni colpo di zappa, che il proprietario considerava con l’occhio cupido, badando ad ingrassare meglio la terra per spremerne più denaro, attraverso la quale ognuno andava e veniva pei propri affari, senza riguardarla altrimenti che dal punto di vista del profitto da trarne, come una cosa da sfruttare. V’erano dei posti ch’egli prediligeva particolarmente, certi luoghi quasi selvaggi, dove non si vedeva mai alcuno, e quasi di suo dominio — un possesso ideale ch’egli finiva col prendere sul serio e non amava punto dividere con altri. Fu appunto un tal puerile sentimento di gelosia che provò quella volta che si vide sorpreso in uno dei suoi posti favoriti dalla forestiera ch’era capitata un bel giorno a Porticello e aveva preso in affitto una villetta solitaria e lontana dal paese. Egli se n’era quasi scappato via, contrariatissimo, non senza risentire però un vago turbamento, un rimescolìo di curiosità. La scena si era ripetuta ancora, poichè l’amore ed il sentimento comune del pittoresco rendevano facili simili incontri, e la signora non aveva potuto fare a meno di notare l’atto di lui e di sorriderne con la vecchia governante che l’accompagnava. Questa forestiera — una russa — si chiamava la contessa Barbara Federowna, ed era una donna giovanissima, con una testa piccola e bionda, assai dolce, il volto fine, dal profilo quasi tagliente, coperto sempre da un cupo pallore, eccetto che verso i pomelli su cui si concentravano due macchie rosse, dagli occhi larghi, nerissimi, in fondo ai quali si leggeva chiaro un’espressione di stanchezza e di sfiducia, con una personcina alta e sottile da vespa, le spalle un po’ curve ed il petto depresso — un insieme che parlava di tisi cento miglia lontano. Non aveva che la compagnia della vecchia governante, la quale pareva le fosse assai devota; facevano una vita ritiratissima, ed era difficile vederle, a meno di passare vicino alla villetta di cui le finestre aperte lasciavano entrare liberamente l’aria ed il sole, o d’imbattersi in loro per la campagna, dove le due donne facevano delle frequenti escursioni. Alla lunga, egli aveva finito col non fuggire più, rimanendosi tranquillo a guardare, lasciandosi a poco a poco attirare dalla grazia sottile della dama, dal particolar profumo di grazia e di gentilezza che pareva emanare da lei. Una volta, l’avea veduta in mezzo ai campi che s’aggirava un po’ inquieta, non riuscendo più a trovare la strada per la quale era venuta; allora, egli s’era avvicinato, timidamente, indicando la via da prendere, cercando di spiegare con chiarezza l’itinerario da seguire. Ma come la russa mostrava di capirlo assai poco, gli venne l’ispirazione di metter fuori, per farsi intendere, quel po’ di francese che aveva imparato da bambino conversando con mademoiselle. Ella parve colpita e contenta di ciò e subito gli domandò il suo nome, e quando egli l’ebbe risposto di chiamarsi Vico Arganti, cento altre domande seguirono, in folla, nell’animazione del piacere che le procurava il sentirsi sollevata dalla pena di non comprendere e di non esser compresa. In tal modo Vico Arganti e la contessa Barbara Federowna s’erano conosciuti, e la loro dimestichezza era cresciuta, in seguito, al punto che un giorno egli s’era creduto non solo autorizzato, ma ancora in obbligo di portarle un taccuino indubbiamente smarrito da lei durante una delle sue passeggiate. Il cancello della villetta era aperto, e, appena entrato, egli s’era trovato in una stanza inondata di luce, dove se ne stava la contessa, seduta davanti ad un cavalletto di pittore, nell’atto di copiare dal vero un mazzo di rose. Non era stato che l’affare di pochi minuti, il tempo di consegnare l’oggettino e di riceverne dei ringraziamenti cordiali.... Ma tanto era bastato a lui per notare e fissare nella memoria l’attitudine in cui l’avea sorpresa, con la testa gettata indietro, considerando fra le palpebre socchiuse l’effetto della pennellata posata allora sulla tela, e ancora la scatola dei colori piena di tubetti di latta, bianchi, verdi, rossi, turchini, gialli, gettati alla rinfusa insieme ai pennelli, al carbone per disegnare, alla boccetta con l’acqua ragia, la tavolozza coperta da uno strato denso di colori impastati e fusi tra loro — e sopratutto il mazzo delle rose che rifioriva sulla tela in un trionfo di tôni rossi vellutati, di tôni bianchi lattei, di tôni gialli sulfurei, mentre le altre, le vere, languivano dentro al vaso di cristallo, ripiegandosi sui loro steli. D’allora, egli s’era messo a spiare ogni occasione di renderle qualche piccolo servigio, di avanzare nell’intimità di lei, per penetrare in quella larga stanza piena di luce, davanti al cavalletto dove la contessa dipingeva; e le occasioni non si lasciavano desiderare a lungo, poichè ella pareva tutta contenta di aver trovato un cicerone che la informasse di tutto mentre la guidava lungo la spiaggia o in mezzo alla campagna, e poichè amava tanto i fiori. Un giorno che il giovane gliene portò un fascio enorme, ella quasi sembrava diventata una bambina, tanto il piacere era vivo. E frattanto che la contessa affondava nelle rose il viso pallido e affilato, non sazia mai di contemplarle e di odorarle, egli fissava avidamente la tela esposta in quel momento sul cavalletto, un pezzo di paesaggio di cui erano noti a lui i menomi particolari e che gli riviveva adesso davanti agli occhi, come per incantesimo, con la collina bassa, di un azzurro tenero tenero, coronata da una folta macchia grigia di ulivi, col gran prato tutto verde dove qualche filo d’erba cominciava ad ingiallire sotto il calore del sole di maggio, col vecchio casolare smantellato nel mezzo, dentro a cui i cacciatori si venivano ad appostare per tendere le loro reti.... Tornando dalla villetta quel giorno, Vico Arganti aveva risentito una certa agitazione, il fermento della sua intelligenza la quale si destava dal lunghissimo torpore, il lavorìo interiore che suole manifestarsi quasi sempre all’alba di una vocazione che nasce. Tali sintomi si erano venuti accentuando dippiù, mano mano che egli, sempre maggiormente addentro nell’intimità della forestiera, trovava modo di introdursi più di frequente nello studio di lei, spesso mentre era intenta a dipingere, poichè ella si andava abituando alla sua presenza. Provava un senso di profondo e crescente stupore. Aveva tanto pieni gli occhi del paesaggio in cui aveva cominciato a dilettarsi fanciullo, ne aveva così luminosamente impressa nel cervello la visione!... Ed ecco che improvvisamente, gli si rivelava la tecnica di un’arte la quale riproduceva tutto ciò in modo meraviglioso!... Certo, egli aveva veduto tante volte delle pitture, ma l’opera compiuta, l’opera in sè stessa lo aveva sempre lasciato indifferente, perchè non ne avea alcuna nozione, perchè era una cosa troppo al disopra della sua incolta intelligenza. Era appunto l’opera d’arte al momento dell’esecuzione, il processo tecnico veduto adoperare, la parte materiale infine, che svegliava in lui tale fermento e gli metteva addosso una curiosa febbre d’imitazione. E restava estatico davanti al cavalletto, covando con gli occhi la tavolozza e il mazzo dei pennelli, tormentato dalla voglia di fare altrettanto. Dal canto suo, la contessa cominciava a porre attenzione a quel grande fanciullo di ventitrè anni che aveva l’aria di trovarsi in un mondo incantato allorchè entrava nel suo studio, e pareva sentirsi attratto inconsciamente da una forte vocazione. E a poco, a poco, vagamente dapprima, poi gradatamente rafforzandosi, le nacque l’idea di trarre qualche frutto da un tale ardore, di sviluppare e coltivare l’apparente vocazione, mettendolo sulla via di divenire forse un vero artista. Le lezioni principiarono subito, occupando delle lunghe ore, senza stancare mai l’animoso scolaro. In qualche mese di assiduo e febbrile studio, egli già s’era fatta la mano al disegno, e cominciava ad adoperare i colori, copiando timidamente le impressioni che la sua maestra ritraeva dal vero. Adesso, allorchè egli se ne andava là, nell’aperta campagna, sulla riva del mare sconfinato, e si dimenticava in quelle sue contemplazioni favorite, il sentimento che la natura aveva destato in lui sin da fanciullo, il sentimento covato da tanti lunghissimi anni senza rendersene conto nè saperlo analizzare, lasciava ciò che d’incosciente e di nebuloso aveva avuto prima d’allora, prendeva corpo e si affinava nel tempo medesimo. Il paesaggio di cui s’erano pasciute la vergine fantasia e la malinconica anima di lui, cominciava ad apparirgli attraverso l’occhio specialmente sensibile dell’artista, come una sapiente ed armonica combinazione di linee e di ombre, di piani e di fondi, di colori e di luce. E contemporaneamente cresceva e maturava in lui il desiderio vessante di riprodurlo col mezzo dell’arte; la sensazione diretta principiava grado a grado a non andare più scompagnata dalla sensazione riflessa, dalle modificazioni subìte passando attraverso un temperamento particolare d’osservatore, e l’intima emozione che la contemplazione generava, nasceva già insieme alla ricerca inquieta del partito pittorico da trarne. Vi era una logica relazione di cause ed effetti fra quella specie di fascino che lo spettacolo della natura aveva sempre esercitato su lui, e la sua improvvisa vocazione per l’arte, una relazione così stretta, che forse tale vocazione non si sarebbe manifestata mai se, in luogo di fare della pittura di paese, la forestiera con cui la sua buona stella avea voluto che si fosse incontrato, avesse trattato la figura o altro. Poi, una volta compiuto questo processo evolutivo pel quale dal sentimento incosciente della natura, era generato il sentimento dell’arte, l’uno e l’altro avevano continuato ad agire insieme, come avviene nei veri artisti. I progressi si seguivano rapidamente, anticipando di moltissimo la meta che nelle scuole d’arte si raggiunge assai più tardi, e ciò grazie non soltanto alle disposizioni eccezionali delle quali Vico Arganti era animato, ma ancora alla sapiente ed amorosa direzione della sua maestra, la quale aveva un reale talento di artista. Quell’estate, e poi l’autunno e l’inverno successivi, erano passati per lui in una gaia febbre di lavoro, in una specie di completa rigenerazione, da cui egli usciva mutato, divenuto tutt’altro uomo, trasformato dal potente risveglio della sua intelligenza, della sua energia morale, della sua coscienza. Poi, come entrava di nuovo la primavera, egli pensò con uno stringimento grande di cuore che forse la russa, profittando della mite stagione, avrebbe fatto ritorno in patria, abbandonandolo nella solitudine oziosa ed amara in cui aveva languito un’eternità. Ma invece, la contessa diceva che l’aria di Porticello le recava un gran bene, e tutto quel resto d’anno passò ancora senza che ella parlasse di partire. In tal modo, i mesi se ne andavano uno appresso all’altro; Arganti progrediva sempre, con una rapidità incredibile, e cominciava magari a fare lui pochino da sè, dapprima timidamente, poi con coraggio e franchezza, grado a grado che vi si faceva la mano. Nonostante la brevità del tempo e il difetto di un insegnamento accademico, l’artista cominciava già a sbocciare nello scolare. I primi tentativi per emanciparsi dalle pastoie della copia, dopo non ancora due anni di studio accanito, indefesso, superarono ogni aspettativa della contessa: v’era in certi suoi studietti un gusto così felice nella scelta del paesaggio e degli effetti da trarne, e sopratutto un senso così profondo del colore! Non era difficile intuire, appena accennato adesso, il partito che da quelle felicissime attitudini si sarebbe potuto cavare in seguito. E già l’avvenire si cominciava a delineare nettamente davanti agli occhi di Vico Arganti, nella rosea luce dei progetti che la contessa faceva adesso per lui: ancora qualche po’ di tempo, gli diceva, e lo avrebbe mandato a Roma, allo studio di un grande paesista polacco, passandogli del proprio una pensione mensile.... Egli l’ascoltava in silenzio, cogli occhi brillanti d’entusiasmo, troppo riconoscente e felice per pensare solamente alla possibilità di un rifiuto, insensibile alle gonfie parole di suo padre che predicava pomposamente la dignità del nome, l’orgoglio nella miseria, il dovere di respingere un’elemosina insultante, irrigidendosi tutto per non lasciarsi smuovere dal viso lacrimoso della mamma, sempre ammalata, che l’idea di restare senza di lui atterriva. Gli pareva di sognare, dinanzi alla prospettiva di uscire da quello stato insopportabilmente triste, di trovarsi in grado di conquistare il proprio avvenire — un avvenire luminoso e pieno di lusinghe — di barattare la sua strana e primitiva vita di eterno fanciullo vegetante come i fiori, come gli alberi, come le erbe, insieme a loro, per l’esistenza di un uomo che ha delle passioni per cui soffrire e godere, degli ideali, delle ambizioni per le quali lottare. S’ammazzava a furia di studio e d’applicazione, avanzando ogni giorno dippiù dei passi prodigiosi, sopratutto perchè più della febbre che il pensiero dell’avvenire da conquistare gli metteva in corpo, lo sospingeva l’anima d’artista ch’era in lui, l’anima sbocciata come un fiore al cospetto della natura, cresciuta nella contemplazione di essa. E contava ansiosamente i giorni che gli restavano da aspettare ancora, secondo il progetto della contessa, prima di partire, di andarsene a Roma.... Senonchè, gli avvenimenti erano precipitati ad un tratto; un giorno che si era recato come al solito dalla forestiera, avea trovato la villa sossopra, e un’aria di tristezza e d’agitazione che stringeva il cuore. Ella era scoppiata a piangere appena egli entrò timidamente nello studio, e la vecchia governante allora se l’era presa fra le braccia, carezzandole i capelli, cercando di consolarla, mettendosi a cullarla sulle sue ginocchia come una bambina, poichè non voleva rasserenarsi e ripigliava a piangere convulsamente, col volto contro il petto di lei. Poi, al primo momento di calma, ella s’era messa a spiegargli perchè fosse così turbata, la lettera ch’era venuta il giorno avanti e che la richiamava in Russia subito, senza il menomo indugio!... Vico Arganti era rimasto là, sbalordito, non sapendo che dire, vedendo crollare improvvisamente il meraviglioso edificio innalzato per lui.... Invece, la partenza di lei non distruggeva nulla, ma veniva anzi a maturare il compimento dei suoi voti. La contessa aveva già disposto ogni cosa, la lettera pel pittore polacco di Roma e la somma per il viaggio, per affrontare le prime spese, sino al giorno che gli avrebbe fatto pervenire il primo assegno sulla pensione destinatagli.... La sera, Vico era tornato ancora alla villa, l’ultima volta, e vi era rimasto sino a ben tardi: una lunga serata, piena d’intimità, ch’ella aveva speso prodigandogli un mondo di affettuosi consigli, mille piccole istruzioni, parlandogli sommessamente, teneramente, come una mamma, con la voce debole e stanca, interrompendosi ogni tanto, soffocata dall’emozione... Ed all’alba del giorno dopo era partita, partita per sempre, per la Russia lontana e nevosa, triste, disfatta quasi che si portasse la morte nel cuore.... Quindici giorni dopo, era partito anche lui, direttamente per Roma; e qui, il racconto del pittore s’arrestava, poichè il ricordo dei suoi primi anni passati nella Capitale, dell’interesse e delle simpatie che s’era subito guadagnate, dello strepitoso successo suscitato col primo suo grande quadro alla Promotrice, della rapidità e fortuna con cui aveva conquistato in un tempo relativamente breve il proprio nome e la propria posizione, era troppo recente e troppo vivo nei suoi amici. II. Costantemente, giunti alla fine, coloro ai quali il pittore si compiaceva di fare tali confidenze, si mettevano ad interrogarlo intorno alla contessa Barbara Federowna, volevano sapere se l’avesse più riveduta, perchè ella avesse dovuto ritornare così precipitosamente in Russia, che donna fosse, quello che n’era divenuto. Vico Arganti rispondeva allora vagamente, un po’ imbarazzato da simili inchieste.... Egli aveva ricevuto due o tre lettere dalla russa, nei primi tempi della sua dimora a Roma, col timbro postale di Pietroburgo. Poi, più nulla, e quante lettere le aveva indirizzate, una dopo l’altra, in epoche diverse, altrettante erano rimaste senza alcuna risposta. Nemmeno il pittore polacco al cui studio s’era messo, e che aveva molto conosciuto la contessa in Russia, ne avea saputo più nulla. Però, egli aveva ricevuto ogni mese, puntualissimamente, il suo assegno per mezzo del consolato di Russia a cui ne faceva rimessa un banchiere di Mosca, sino a quando, vergognoso di accettare ancora un aiuto che non gli era più necessario, aveva fatto delle dichiarazioni e delle pratiche perchè gliene fosse sospeso l’invio. Più tardi, guadagnatasi insieme al nome l’agiatezza, aveva concepito il progetto di un viaggio in Russia per rintracciare la misteriosa benefattrice.... Ma poi, degli altri avvenimenti erano sopraggiunti a fargli dimenticare un tal proposito: la sua passione per una signora vedova della buona società romana, gli ostacoli da superare pel raggiungimento del suo sogno, infine il matrimonio, coronato dalla più pura felicità. Perciò ora, dopo tanti anni, egli provava un penoso imbarazzo nel rispondere a quelle domande, nel confessare con che facilità s’era rassegnato a non saper più nulla di colei alla quale doveva tutto e avea rinunziato ad ogni ricerca, distratto dal corso lieto della propria esistenza, nell’oblìo del suo egoismo. E come vedevano quasi un velo di tristezza calargli sulla fronte, gli ascoltatori non aggiungevano più nulla, persuasi e commossi di ciò che Vico Arganti diceva in ultimo: — Ho dei dati per credere ch’ella sia morta.... da un pezzo!... Invece, non possedeva alcun dato da cui fosse autorizzato a fare un’ipotesi qualsiasi, non sapeva punto ciò che fosse avvenuto della russa, come non sapeva, come non aveva saputo mai nulla di lei, nè della sua esistenza, nè dell’anima sua, nè di tutto il segreto e dolente romanzo d’amore che la povera creatura aveva covato per lui, accanto a lui, senza ch’egli l’avesse neanche vagamente intuito!... Egli era peranco un fanciullo allora, con tutta l’inesperienza della vita, con tutta l’ignoranza di certi sentimenti.... L’ardente vocazione svegliatasi in lui, l’aveva assorbito fin dall’inizio dei loro rapporti, e dipoi, una volta affermatasi e trionfante, se l’era preso tutto, rendendolo sordo ad ogni altro sentimento, impedendogli di accorgersi di nulla. Per questo ella s’era imposto, a prezzo di qualunque sforzo, di soffocare in lei la fiamma che la bruciava, di non lasciargli trapelare per niente il suo amore; le sarebbe parso di compiere una profanazione se così non avesse fatto, di sciupare un tesoro d’innocenza, l’intatta verginità del cuore e dei sensi di lui. Eppoi, ella avea sentito vergogna di confessare persino a sè medesima che amava quel ragazzo ingenuo e senza alcuna nozione quasi della vita reale, lei, una donna non più all’età dei sogni, così provata dal dolore, passata attraverso tante tristezze, tante miserie! Eppure come furiosamente l’aveva amato, malgrado ciò, nell’intimo dell’anima sua! Forse per questo anzi, perchè non aveva osato fissarla neppur lei, perchè s’era costretta a soffocarla nel fondo più recondito del suo cuore, la fiamma era divampata con tale veemenza. Che avrebbe potuto venirne a lei da tale amore?... Dei dolori, e null’altro. Ed ella pareva appunto nata per soffrire, sempre.... La sua fantasia era stata colpita, sin dai primi incontri, dall’aspetto interessante del giovanotto, dal contrasto fra l’abito mezzo contadinesco, le selvatiche maniere, e la finezza aristocratica nel profilo, in ogni tratto del viso, nelle mani, quell’aria di razza che non si perde mai. Ancora, avea destato il suo interesse la furia con cui Vico Arganti s’allontanava dapprima, appena la vedeva, la fanciullesca e trasparente irritazione del sognatore sorpreso nel mistero della sua solitudine, turbato nell’intimità delle proprie fantasie. E quando il giovane parve a poco a poco addomesticarsi, ella ne provò un visibile compiacimento; e quando in seguito egli le avea rivolto la parola adoperando una lingua che mai si sarebbe attesa di sentir parlare da lui, al compiacimento si era aggiunta una viva sorpresa, e quando infine avevano famigliarizzato fra loro, interesse, compiacimenti, sorpresa erano rapidamente cresciuti, fondendosi in un sentimento di simpatia così vivo e così franco, ch’ella doveva frenarsi in alcuni momenti per non prendersi il braccio di lui sotto il suo, per non venire a certe piccole intimità, oltrepassando la naturale distanza che l’età e la condizione diversa stabilivano fra loro. Come presto erano divenuti amici, come presto avevano imparato a conoscersi! Ella aveva appreso facilmente lo stato di Vico, la catastrofe che l’avea sbalestrato in quel paesello e lo costringeva a vivere così, tra la luminosa visione del passato e la squallida realtà del presente, nell’abbandono d’ogni speranza, nella mancanza d’ogni risorsa. Allora, una grande, un’acuta pietà le avea invaso il cuore, il cuore avido di maternità, fatto forse per le sue pure e non mai provate ebrezze. Ed era in tal modo infatti, con un senso di tenerezza materna ch’ella pensava a lui, allorchè si era sorpresa per la prima volta a pensarvi troppo a lungo.... L’aveva siffattamente conquistata con la sua grazia ingenua, con la sua aria di timida bontà, l’aveva così commossa col racconto rapido e semplice della sventura a cui soccombeva, delle proprie tristezze!... Ella avea subito, naturalmente, concepito il proposito di adoperarsi per lui, di riparare come meglio le sarebbe riuscito alla durezza e all’ingiustizia della sorte, e quel proposito appunto l’aveva animata allorchè si era posta a secondare la vocazione che sembrava destarsi in lui, dapprima così, a mo’ d’esperimento, poi, grado a grado, con convinzione, con fede. Ma un simile sentimento, germogliando nel cuore di una donna ancora assai giovane, non guasta dall’esistenza, al contrario, spiritualizzata dai dolori trascorsi, per un bel giovine che aveva dei capelli così neri e così fini, dei grandi occhi vellutati e pieni di dolcezza, la carnagione delicatissima, d’un pallore sano e denso, una freschezza ed un’esuberanza vitale di arbusto venuto su all’aperto, non poteva non degenerare, non mutar natura, dato sopratutto lo stato d’anima eccezionalmente propizio traversato da lei. Il semplice profumo di tenerezza quasi materna con cui era nato, era persistito ancora, ma combinato con degli altri più acuti, soffocato alla fine sotto un’esplosione di odori tropicali così ardenti, ch’ella ne aveva provato persino la vertigine! Barbara Federowna non aveva mai avuto delle romanticherie pel capo; ella avea sentito benissimo tutta la stranezza, l’anomalia del caso che l’avea fatta incontrare con Vico Arganti e l’aveva accesa per quel povero ragazzo confinato dalla propria rovina al di fuori d’ogni consorzio civile, cresciuto in uno stato d’incoltezza e di semplicità primitiva — lei, una forestiera, una gran signora nata nell’ambiente raffinato della miglior società di Pietroburgo — in un paese a lei quasi sconosciuto, avendo per sfondo un misero e pittoresco villaggio di pescatori. Troppo la sua natura era semplice, troppo ell’era sobria e triste, perchè l’imprevisto di un’avventura romanzesca potesse allettarla! Ma se la singolarità delle circostanze esteriori che aveano presieduto il sorgere della sua passione, non avea agito punto per sè medesima su di lei, non era bastata neppure a costituire un ostacolo contro il sentimento destatosi irresistibilmente, contro l’impulso del suo cuore. Ciò che l’avea resa accessibile ad un amore così fuori del comune, era stata l’estrema sensibilità che le veniva dall’aver tanto sofferto, era stata la sua dolente esistenza, sin da quando l’avevano sposata quasi per forza ad un vecchio egoista e tirannico, perchè questi era ricco ed occupava un’alta posizione a Corte; erano stati gli anni d’ineffabile martirio nel tetro palazzo Federowna, subendo tutto, dagli accessi furiosi di collera agli orribili trasporti di senile lascivia, rassegnatamente, poichè non era di quelle che sanno facilmente consolarsi in simili casi — fino al giorno in cui la liberazione, almeno temporanea, era venuta, avendo i medici fatto questione di vita o di morte per lei se non si fosse decisa ad un lungo soggiorno in un paese caldo e di marina, e poichè suo marito, trattenuto da un altissimo ufficio presso il Gran Cancellierato, era stato costretto a lasciarla andar sola.... Sopra ogni altra cosa però, era valso a renderle possibile il concepimento di quella passione l’intatta verginità del suo cuore, l’assoluta mancanza in lei d’ogni precedente sentimentale. Passata dal convento, quasi senza transazione, sotto all’esoso dominio di un vecchio, ella era restata casta d’anima e di sensi; suo marito aveva ben voluto di poi spingerla in società, farle un posto a Corte, sebbene perseguitandola continuamente con una sorveglianza opprimente, ma Barbara Federowna si era sentita sempre così malata di spirito e di corpo, così tetragona ad ogni istinto di vanità e di civetteria femminile, ch’ella aveva terminato col rimanersene solitaria, fuori degli attacchi dei don Giovanni di salotto, quasi estranea al mondo in cui viveva. Con tutto ciò però, la forte simpatia iniziale che il giovanotto aveva svegliato in lei difficilmente sarebbe andata oltre, sino a raggiungere il grado critico della passione, senza la cecità e l’incombustibilità di Vico, frutto dapprima della sua inesperienza, della sua timida ingenuità, poi di quell’amore per l’arte sviluppatosi in lui con tanto ardore, che l’avea assorbito affatto, rendendolo insensibile a tutto e corazzandolo d’egoismo. Forse, se egli avesse compreso quanto avveniva nella russa per lui, se alla sua volta avesse provato qualche cosa di simile, se avesse osato infine, il magico incanto da cui Barbara Federowna si era lasciata cullare, sarebbe svanito, provocando una salutare reazione, ed ella avrebbe trovato la forza d’irrigidirsi contro il suo amore, di svellerselo dal petto. Così, invece, ella avea potuto abbandonarsi interamente al soave suo sogno; l’idea che Vico non avea occhi per accorgersene, che non se ne sarebbe accorto mai, se da un lato avea lasciato ardere senza contrasto la fiamma, dall’altro l’avea alimentata terribilmente, facendole trovare nel suo amore, destinato a restare incompreso e indiviso, mistiche ebrezze, uno spasimo ineffabile, la penetrante voluttà dell’estasi solitaria. Certo, la sua fantasia sentimentale avea trovato pascolo e s’era accesa febbrilmente nel segreto patema di una simile situazione, ma il sentimento che l’avea dominata era ben lungi dall’appartenere alla categoria artificiale degli amori di testa: nella grande sinfonia che si era svolta dentro di lei, ogni parte del suo essere avea vibrato all’unisono, fondendo il proprio accordo nel pieno concerto comune, e la voce languida, sommessa, inquietante dei sensi che si erano destati forse appena allora, era stata come un molle accompagnamento in sordina alla larga frase melodica sviluppantesi dal povero cuore malato, mentre l’anima fremente scandiva il canto con degli arpeggi toccanti. Che cosa sarebbe mai ella stata per Vico Arganti?... Nulla, all’infuori di una benefattrice, di una buona dama disposta a proteggerlo. Ella s’era convinta troppo bene di ciò, eppure l’avea amato; l’avea amato perchè gli era piaciuto estremamente con quella massa fine di capelli neri, con quegli occhi vellutati, la bocca e tutta la carnagione d’una freschezza di frutto ancora acerbo; l’aveva amato per la grazia agile e forte del corpo appena formato, per la sua adorabile inesperienza del mondo, per la sua aria malinconica di eterno sognatore, per quell’impronta di signorile distinzione e d’innata eleganza ch’egli portava indelebilmente con sè sotto gli abiti sciupati e in disuso, sotto alla biancheria grossolana; l’avea amato infine perchè la sorte l’aveva tanto duramente colpito!... Eppoi, ancora, per quanto era in lui istintivamente, pel suo vergine talento, per certe naturali finezze del suo spirito, per una somma di qualità non acquisite, che gli costituivano una spiccata e incosciente personalità. Così, ella aveva ammirato, per esempio, il senso squisito di pudore ch’egli aveva della sua miseria, la paura persistente di apparire ridicolo e melodrammatico per via della sua rovina, di quell’aureola di aristocrazia decaduta, di nobiltà in liquidazione, ridotta a ritirarsi in campagna — la paura che gli aveva fatto dire, additandole con una certa compiacenza la rustica casetta di villeggiatura dove abitava, un giorno che erano passati di lì: — Vede?... Non ha punto l’aria di un vecchio castello in rovina!... I mesi passavano uno dopo l’altro senza ch’ella ne avesse quasi nozione: doveva aver dimenticato persino l’esistenza del marito, la sua casa, l’indomani che l’attendeva al ridestarsi da quel dolcissimo sogno. Non le restava più alcuna velleità di resistenza; ella s’abbandonava, si lasciava andare tutta in balìa del sentimento che le fioriva nell’anima, resa sicura ed ardita dalla passività di lui. Forse che Arganti offriva alcun pericolo per lei, con la sua continua e desolante attitudine di rispettoso riserbo, dal momento che non vedeva, non comprendeva, non sentiva nulla?... In ciò risiedeva il segreto della propria intima forza, di quel po’ di calma che le restava tuttavia, ma in ciò stava ancora e sopratutto il suo indicibile tormento, il suo disperato martirio. Ella diventava folle d’angoscia urtandosi inesoratamente contro la cecità e l’incombustibilità di Arganti!... Più s’accendeva in lui la sua straordinaria vocazione per l’arte, così rapidamente affermatasi e sviluppatasi, meno gli rimanevano occhi per avvedersi, senso per intuire la tempesta di passione che gli turbinava allato.... In certi momenti, lo spasimo diventava troppo grande, troppo al disopra delle sue deboli forze; ella si sarebbe messa a gridargli il suo segreto, se lo sarebbe preso furiosamente tra le braccia, stringendogli il capo con le mani deliranti, domandandogli come mai, in tanto tempo, non avesse saputo leggerle nel cuore, nel cuore che ardeva, che si fondeva per lui!... Come mai, come mai? Neppure all’ultimo egli avea finalmente compreso, quando l’ora del terribile risveglio era venuta con quell’ordine improvviso e perentorio di raggiungere tosto nell’interno della Russia suo marito gravissimamente ammalatosi ad un tratto, colpito da una paralisi senza rimedio.... Ah, Dio!, neppure allora!... Come mai?... Come mai?!... Ella avea singhiozzato, avea pianto, col viso d’un pallore mortale, col povero petto in tempesta, gli s’era fatta vicino vicino, covandolo con lo sguardo disperato, sfiorandolo con le mani tremanti, mettendogli sotto agli occhi l’atroce spettacolo della sua agonia — ed egli non avea compreso ancora, ed era rimasto là, distratto, nervoso, col pensiero lontano, correndo colla fantasia in tumulto dietro al luminoso avvenire che ora gli si schiudeva sicuramente dinanzi, ai suoi sogni di gloria, all’imminente viaggio, a Roma!... III. — Ho dei dati per credere ch’ella sia morta.... da un pezzo!... Vico Arganti non conchiudeva mai altrimenti, con un accento di dolorosa convinzione che arrestava ogni domanda sulle labbra degli ascoltatori. Ed egli non sapeva, non imaginava neppure, dicendo ciò — grazie alla dimenticanza di una cameriera — che la dolce benefattrice fosse stata a Roma, dopo il matrimonio di lui, e che fosse venuta a cercarlo in quel suo villino ai Monti Parioli.... Ella s’era partita dal cuore della Russia per rivederlo, dopo più di quattro anni dal suo richiamo presso il marito, quattro anni di insopportabile prigionia nelle terre dove il conte s’era confinato, languendo accanto a quel moribondo che avea durato un’eternità a finirla con le sue sofferenze. Tanto tempo trascorso non era bastato a guarirla dalla sua febbre; lungi dal consumarsi anzi, non solo la passione di lei aveva trionfato del tempo e della separazione, ma avea trovato ancora modo di afforzarsi maggiormente, grazie alle particolari condizioni di solitudine e di penetrante assorbimento interiore nelle quali s’era prolungata, grazie sopratutto alla natura particolare della sua anima, mistica anima slava. Durante quel lungo e desolato periodo, ella era sempre vissuta in ispirito col suo lontano amore, ed era una siffatta comunione ideale appunto che l’aveva aiutata a sopportare il sacrificio eroico a cui s’era votata dedicandosi assolutamente all’infermo. Se avea interrotto completamente ogni corrispondenza con Arganti, era perchè non aveva voluto tradirsi giusto all’ultimo, quando tutto le era parso finito, allorchè aveva creduto di potersi raffermare nel suo proposito di silenzio a qualunque costo, senza trovarsi a troppe dure prove. Si era contentata di seguire da lontano i passi di lui, di partecipare in tal modo ai suoi progressi, alle sue vittorie, dapprima dietro le indirette ma regolari informazioni del pittore polacco il quale l’avea preso al proprio studio, e in seguito su pei giornali, per le riviste d’arte che ella si procurava e che si occupavano dei quadri di lui, delle sue esposizioni annuali alla Promotrice, dei suoi invii all’estero, oppure attraverso la piccola cronaca dei giurì d’arte, delle feste al Circolo di via Margutta a cui egli prendeva parte.... Tutto ciò però non era riuscito ad ingannare il desiderio furioso di tornare a lui che non s’era acquetato un minuto, l’imperioso bisogno di rivederlo che l’avea posseduta costantemente ed era divenuto più tormentoso giorno per giorno. Nel terribile contrasto fra il suo amore che le gridava di abbandonare il marito, di andarsene a raggiungere l’altro, e il sentimento del dovere e della pietà che le imponevano di restare, quest’ultimo aveva trionfato; ma come ella era uscita esausta da una simile lotta, quale disastrosa vittoria per la propria salute era stata la sua!... La liberazione era giunta, alla fine!... Ella non l’aveva invocata, non l’aveva affrettata col pensiero, ma poichè era venuta non aveva potuto non respirare di sollievo, non esultarne nel fondo dell’anima sua. I medici, davanti al progetto di un così lungo viaggio, nello stato di salute in cui ella si trovava, s’erano fatti gravi, avevano lasciato travedere il pericolo di conseguenze fatali. Ma Barbara Federowna aveva sorriso ed era partita senz’altro!... Forse che i medici ci capivano per nulla nelle cose del cuore? Quel viaggio da cui essi cercavano di dissuaderla, era per lei, al contrario, la salute, era la vita, era il balsamo d’ogni male! Ella non sapeva bene ciò che sarebbe avvenuto, non aveva in mente alcun proposito determinato, ma le balenava vagamente allo spirito una radiosa visione di felicità, adesso ch’era libera e padrona di sè, adesso che egli non era più il povero ragazzo sognatore e spostato d’una volta, ma era divenuto un uomo in tutta la dignità della parola.... Ed era giunta a Roma, e s’era fatta condurre a casa di lui senza neppure avvertirlo prima, dominata da una febbre d’emozione tale, che ella aveva persino temuto di sentirsi abbandonare dalle sue forze all’ultimo momento.... Arganti si trovava giusto allora fuori di Roma, in un castello sul lago di Nemi dove l’aveano invitato a passare qualche tempo insieme alla sua famiglia. Però, la cameriera rimasta a custodia del villino, vedendo quella forestiera dall’aria tanto distinta, così pallida e sofferente, che per poco non era venuta meno udendo la sua risposta, l’aveva invitata ad ogni modo ad entrare, e poichè osservava l’interessamento strano da cui sembrava presa, gli sguardi ansiosi che andava gettando attorno, s’era messa a condurla in giro per le stanze, mostrandole ogni cosa colla compiacenza con cui la padrona o il signore usavan fare gli onori della loro ammirabile casa a coloro i quali, amici o stranieri, venivano a visitare lo studio. Così, Barbara Federowna aveva ascoltato anche lei la musica sommessa dello zampillo cadente nella conca d’alabastro del piccolo _patio_ moresco, era passata davanti ai magnifici arazzi dello studio, attraverso l’adorabile Louis XV del salotto, s’era trovata infine in mezzo alla camera nuziale col gran letto di quercia scolpita che si stendeva sotto l’ombra discreta del baldacchino di vecchio broccato celeste.... Ma ella era entrata colà disposta a ricevere l’orribile colpo; già, prima di metter piede nell’intima stanza che doveva rivelarle brutalmente l’atroce realtà, ella aveva intravisto la donna, ne aveva sentito la presenza in quella casa troppo ampia, troppo ordinata per essere l’abitazione di uno scapolo, e dove apparivano ad ogni passo le traccie d’una mano femminile. Ed ora restava annientata, sussultante, colla testa in tumulto e gli occhi che non sapevano staccarsi dal letto largo e profondo, di cui i morbidi cuscini, la candida rimboccatura del lenzuolo sopra la coltre imbottita di piume, raccontavano tutto un lascivo poema di carezze, gli amorosi anelli della catena dalla quale era avvinto per sempre l’uomo ch’ella furiosamente adorava, per cui aveva vissuto e spasimato tanti anni!... Poi, improvvisamente, l’energia nervosa che la teneva ancora ritta, le venne meno, e parve a lei che ogni cosa si fosse messa a turbinarle intorno e il terreno le sfuggisse sotto i piedi.... Quando riaprì gli occhi, si vide distesa sopra un divano, ben coperta dalla coltre che la cameriera, spaventata, non sapendo che fare, aveva strappato in furia dal letto gettandogliela addosso, mentre le faceva aspirare una boccetta di sali inglesi presa sulla specchiera della padrona. Allora, ella trovò la forza di respingere da sè con un gesto violento la coperta di damasco verde che la schiacciava, le scottava le carni, e si levò, cercando d’abbozzare un sorriso rassicurante, spiegando che non era nulla, che un po’ d’aria l’avrebbe aiutata a rimettersi. Ella andò infatti ad affacciarsi alla finestra di cui la cameriera aveva spalancato in fretta le imposte, e parve un momento dimenticarsi così.... I suoi sguardi vaghi e senza luce erravano intorno per la campagna sottostante, e si fermavamo paurosamente verso un punto lontano, lontano, dove ella indovinava essere piazza di Termini e la grande stazione che l’occupava da un lato. Di là era venuta, di là sarebbe ripartita fra breve, poichè più nulla la tratteneva ancora a Roma, poichè non le restava che andarsene a morire nel suo paese, vicino a qualcuno che almeno l’avrebbe pianta forse. Ma l’idea di rimettersi in viaggio, di riattraversare il fiero supplizio contro cui soltanto l’eroica fede dell’amor suo l’avea fatta resistere, quell’atroce sballottolamento per un’interminabile successione di chilometri, durante tre giorni di seguito, respirando l’aria viziata dal fumo della vaporiera, troppo grave pei suoi polmoni di tisica, dibattendosi tra le frequenti crisi di tosse, la rendeva folle d’angoscia.... E d’altra parte, la possibilità di vederlo adesso, se si fosse trattenuta ancora qualche giorno a Roma, d’incontrarlo forse a fianco di sua moglie, le appariva addirittura mostruosa!... Che fare dunque?... Che fare mai?... Forse che ella ne sapeva niente, forse che era più capace di formare un progetto qualunque, di avere un resto di volontà? Una sola cosa sapeva, una sola cosa sentiva: che bisognava uscir tosto, senza più un secondo d’indugio da quella casa dove ella non era che un’intrusa, donde _l’altra_ l’avrebbe duramente scacciata, se fosse sopraggiunta.... IL TRIONFO DELLA MALIZIA. I. Quel vespro che fu visto Bastiano Cancelosi, il sensale, con la carabina nascosta sotto il ferrajuolo e la faccia buia, montare la guardia in su e in giù dinanzi al palazzo del barone Spinosa nella Piazza Maggiore, qualcuno ebbe davvero paura che stesse per nascere un guaio.... Ma i più ridevano e se ne stavano tranquilli davanti agli usci delle loro case osservando la sua manovra, una vera farsa da cui soltanto gl’imbecilli si lasciavano ingannare ancora, e che era ormai tempo di smettere! A chi credeva di darla a bere con la sua carabina e tutte quelle buffonate da paladino di Francia, quando si sapeva che, rientrando a casa, trovava la tavola imbandita quasi fosse festino tutti i giorni, quando alla domenica gli si vedeva far la ruota accanto alla moglie parata ed in fronzoli come un giannetto da palio, ed era riuscito persino — nient’altro che col suo lucrosissimo mestiere, si capisce! — a comprarsi un pezzo di vigna dalle parti di Mascalucia, che schiudeva il cuore a guardarlo?... Le risate gli fiorivano attorno, sul suo passaggio; delle occhiate piene di comico terrore gli correvano dietro, cercando sotto il ferrajuolo la forma del fucile che si disegnava minacciosamente, adesso ch’era venuto fuori con quest’altra ridicola novità! Ma egli continuava imperturbabilmente la sua parte di sentinella fedele alla consegna impostasi, la consegna di non accorgersi di nulla — nè più nè meno come certe guardie del comune, armate sino ai denti, e militarmente piantate dinanzi alla barriera del dazio, mentre i compari passavano il contrabbando sotto i loro occhi miopi.... Sua moglie poteva uscire anche con le fanfare dal portone del palazzo Spinosa, portandosi via tutta la grazia di Dio che il barone le seminava nelle mani (perchè i vecchi non lesinano quando perdono il cervello rammollito dietro ad una gonnella, ed il barone poi, era così prodigo per sua natura) senza che egli s’avvedesse di niente!... Era uno spettacolo impagabile di cui nessuno avea goduto l’eguale, neppure quand’era capitata a Roccamarina quella compagnia di comici d’indimenticabile memoria, tanti anni avanti. Allorchè la _Ricciuta_ veniva fuori, cogli occhi a terra e il viso di fuoco per la vergogna di tanti sguardi addosso a lei, il sensale si trovava sempre ad avere le spalle volte dall’altra parte.... La donna s’allontanava in fretta; poi, facendo mostra di scorgerlo così per caso, ritornava sui propri passi e gli andava incontro adagio, come se davvero venisse dal punto opposto. L’altro aveva una mossa di felice sorpresa, le sorrideva con l’aria confusa e beata di chi ha potuto constatare l’inesistenza di un sospetto terribilmente doloroso, e se ne andavano insieme, tenendosi a braccetto. Ma la parte più interessante della commedia, quella che il pubblico non era ammesso a vedere, si svolgeva nell’intimità delle pareti domestiche. Come posava nell’angolo della stanza la carabina scarica, il sensale si metteva a passeggiare in silenzio.... Poi, si fermava a un tratto davanti alla moglie e le piantava nel viso gli occhi divenuti cupi davvero, inquieti e penetranti, che pareva la frugassero sino in fondo all’anima. La _Ricciuta_, sotto il fuoco del suo sguardo crudelmente inquisitore, abbassava tristamente la bella testa su cui pareva gravasse la massa lucente di riccioli corvini donde l’era venuto quel nomignolo; il petto colmo e sodo diceva l’agitazione penosa che l’opprimeva, e gli occhi neri, larghi, dolcissimi, quasi a fior di testa, si velavano di lacrime. Sommessamente, timidamente, una domanda le veniva sulle grosse labbra carnose di mora, sempre la stessa: — Perchè mi ci mandi dunque?... Allora, il sensale mutava subito faccia, disarmato da quell’accento toccante d’innocenza, commosso e pentito dinanzi alla muta eloquenza dell’amore e della purità di lei. Il lungo volto scimmiesco, scintillante di furberia, s’illuminava d’un sorriso carezzevole che gli allargava smisuratamente la bocca sottile, ed egli si metteva tranquillamente a tavola, lasciando correre volentieri la mano a tradurre in atto la carezza del sorriso.... Ma ancora, alla fine del desinare grasso e copioso, o mentre aspettava che ella venisse a raggiungerlo nel calduccio delle lenzuola, dove egli la precedeva sempre, con la fretta di chi ama il buon letto subito dopo il buon pasto, la torbida ubbìa gli riappariva negli occhi istintivamente, suo malgrado! Era il veleno che gli attossicava quotidianamente la vita, la vita molle e beata da cui veniva eccitata la mordente invidia di tutti. E non riusciva a darsene pace, e si rivoltava rabbiosamente contro sè stesso, perchè sentiva sua moglie così interamente devota a lui, così incapace di fargli il menomo torto, perchè le credeva come alla Vergine Maria.... Ma il pensiero di saperla esposta alla libidine ed alle insidie di un vecchio libertino impenitente, lo spasimo di vedersela tornare, un giorno o l’altro, violentata e disonorata sul serio, gli rodevano il cervello! Quante volte ella l’avea rassicurato sul proposito con degli argomenti che sarebbero bastati a mettere in pace il cuore di chiunque altri! Bisognava vedere prima di tutto come il barone si riducesse dinanzi a lei, timido e sottomesso a mo’ di un bambino, tanto l’avea ubbriacato e rammollito col venire tutti i momenti — il vecchio non era riuscito mai a capirne in fondo il perchè — a mettergli sotto il muso il tesoro esaltante delle sue forme opulenti, senza punto permettergli di coglierne altro godimento all’infuori di quello degli occhi, così fiera ed onesta che non chiedeva e non accettava nulla. Eppoi, ella avea, per ogni evento, la forza e la difesa delle sue braccia superbamente modellate e robuste, che bastavano a respingere qualunque assalto, ed erano buone a spezzare in due quel vecchio pappagallo intisichito.... Pure tutto ciò non valeva a liberare il sensale dal sottile tormento. Forse era perchè la sua esistenza sarebbe stata troppo bella altrimenti e, come è scritto che ognuno deve sentire il peso della propria croce, il Signore gli avea dato per giustizia anche la sua da portare! Senza di questo infatti, un uomo più felice di lui, dove si sarebbe potuto trovare? La dolcezza di un’esistenza di agi e di beato far nulla accanto alla creatura per cui perdeva persino la pace — senza sua colpa, poverina, tanto grande era il bene che le voleva — lo trovava tanto più sensibile per quanto vi era pervenuto passando attraverso la più dura, la più avvilente miseria. Gli abiti di panno fine che adesso portava, non avevano ancora avuto il tempo di sciuparglisi addosso, in cambio di quelli luridi e cenciosi di prima. E la fame provata era stata ben poca cosa di fronte al tormento di veder languire nell’indigenza la moglie, che a lui pareva fatta per andare attorno carica di ori e di pietre preziose come la Madonna della Madre Chiesa, e che s’era tolta in casa senza saper bene in che modo avrebbe provveduto alla sua esistenza. Egli avea preso per lei una così violenta ubbriacatura, che non si riusciva quasi a spiegarla in un uomo del suo stampo, testa fine di contadino, prudente, astuto, calcolatore. Tale ubbriacatura non era punto sfumata all’indomani del matrimonio, e giusto perchè era durata, perchè era stata più resistente di tutto, gli avea procurato tante angoscie e lo spasimo del rimorso in fondo alla coscienza per la miseria che le faceva patire. Lei, poveretta, a quel tempo non diceva nulla, non si lamentava mai, ma gli faceva coraggio al contrario, lo consolava col sorriso dei suoi dolci occhi bovini, sempre amorosa e sottomessa malgrado la propria superiorità fisica, malgrado la coscienza del proprio ascendente, dello stato di esaltazione carnale in cui, senza volerlo, lo manteneva sempre. E l’inalterabile sua attitudine di bontà valeva a farlo struggere dippiù, gli rendeva la vita amara come il fiele, lo eccitava a stillarsi giorno e notte il cervello alla ricerca di una via qualunque per uscire da tali angoscie. Poi, v’era dell’altro ancora: suo padre che non finiva di volergliene e lo avviliva senza tregua perchè aveva lasciato la zappa, il pane sudato, ma sicuro di tutta la famiglia, di padre in figlio, per tradizione costante, e avea preso invece il bel mestiere di sensale di animali, una vera cuccagna in un povero paesello di marina, il modo più sicuro per morire di fame lui e quella buona a niente che s’era appiccicata alle costole!... Il sensale non osava rivoltarsi contro la collera del vecchio, ma la sentiva ingiusta, e con la moglie si sfogava amaramente. Che colpa ci aveva se era nato così debole e mingherlino, se non era capace di maneggiare la zappa, di starsi a spezzare la schiena all’acqua e al sole come suo nonno, come suo padre, come i suoi fratelli?... E del resto, egli aveva la coscienza di esser fatto per qualche cosa di meglio e di più elevato che il mestiere di contadino, sentiva dentro la propria testa l’irrequieto lavorio del cervello, il cervello fine che brillava del fosforo dell’intelligenza, che non stava mai queto sotto il sale della malizia. Ah, se egli fosse nato altrove!... Era il suo eterno e più acuto rimpianto.... A Roccamarina, uno che avesse avuto il genio più luminoso, il talento più inventivo, in che modo se ne sarebbe potuto servire, che risorse ne avrebbe potuto trarre?... E la miseria cresceva, diventava sempre più insopportabile!... Un bel giorno, il sensale si decise a lasciare la moglie, il paese, ed a raggiungere a Catania due suoi cugini, figli di contadini anche loro, i quali come lui non avevano voluto saperne della zappa e, venuti da piccini a cercar lavoro e fortuna nella grande città, ora si guadagnavano lucrosamente la vita, uno con l’arte d’incisore, l’altro con quella di litografo. Dei mesi erano passati, eppoi degli altri ancora, senza che si sapesse più nulla di lui. Alla fine, egli era tornato in paese, più affamato all’aspetto e più cencioso di prima, che faceva pietà a vederlo!... Ma d’allora la _Ricciuta_ s’era messa a frequentare il palazzo del barone Spinosa, ora per qualche piccolo servizio da rendere, ora col pretesto di certe uova ancora calde da portare, e tutt’a un tratto le cose avevano mutato radicalmente faccia, e la loro casa aveva cominciato a prosperare, a prosperare, di bene in meglio — sempre con l’aiuto di Dio, diceva qualche burlone. Il sensale lasciava dire, lasciava ridere, e badava a recitare con tutto il suo impegno, come un vero artista, la propria parte di marito compiacente ed interessato, ma convinto in buona fede di darla ad intendere alla gente a furia di arie gelose e di comiche spagnolate. Era per lui una segreta e profonda voluttà l’ingannare così anche i più furbi, ridendo allegramente di coloro che al contrario credevano di godersela alle sue spalle! L’intima soddisfazione di prendere in giro per tal modo il paese intero, il successo con cui vedeva riuscire la sua trovata di genio, lo facevano ringalluzzire d’orgoglio, gli rendevano anche più gradito il dolce pomo della bella esistenza a cui mordeva adesso avidamente. Chi invece soffriva crudelmente di quella commedia era la _Ricciuta_. Non pativa di eccessivo amor proprio, si adattava facilmente a tutto, ma il suo pudore di donna onesta non poteva non sollevarsi istintivamente sotto la vergogna che le toccava subire gratuitamente. Lo spettacolo che suo marito offriva al pubblico di lei, quasi ogni giorno, era un tale insopportabile supplizio, che avrebbe rinunziato con gioia alle agiatezze nelle quali nuotava ora e sarebbe ritornata alla miseria di prima, pur di sottrarvisi. Ma oltre ch’era troppo sottomessa e passiva per trovare l’energia di ribellarsi, ella _sapeva_, e comprendeva quindi tutta la terribile gravità della minaccia incombente loro sul capo e che il talento del sensale preveniva e parava con la sua inarrivabile astuzia. Eppoi, con qual cuore si sarebbe rifiutata a secondarlo, quando era per lei, per lei sola, che in fondo egli avea fatto ciò che avea fatto, rischiando tutto perchè fosse ben nutrita e ben vestita, per vederla andare intorno tutta parata di gioie, coi lembi delle orecchie che si stiravano sotto il peso di certi lunghi pendenti di oro massiccio, col collo circondato da un doppio giro di coralli grossi quanto le poste di un rosario, e le mani piene di corniole e di ametiste! così, non soltanto ella si prestava alla finzione del marito, ma faceva anche di tutto perchè non trapelasse punto a lui lo sforzo e lo spasimo che le costava. E si ingegnava di evitargli ogni motivo di amarezza, quella sciocca ed insensata gelosia sopratutto, e ancora la spina di suo padre, sempre più accanito contro di lui, magari adesso che non lavorava più e viveva beatamente alle spalle del figlio, passando tutta la giornata davanti all’uscio a parlarne male con chi capitava, a predicare ch’era il disonore della famiglia, che non voleva riconoscerlo più per sangue suo. Però, tutto sommato, il sensale sentiva d’essere un uomo invidiabile! Il suo fine buon senso gli faceva comprendere come la gelosia da cui era tormentato provenisse naturalmente dall’eccesso medesimo del bene che voleva alla moglie, che sarebbe stato in ogni caso così, perchè questa è la sorte degli uomini troppo innamorati. Quanto a suo padre ed alla bella ricompensa con la quale lo ripagava di tutti i benefizi suoi, infamandolo anche presso gli estranei, e senza che gli potesse chiudere la bocca col dirgli la verità perchè sarebbe stata una pazzia fidarsene, egli si consolava pensando che a lui toccava senz’altro di adempiere al proprio dovere di buon figliuolo, che la sua coscienza era assolutamente in pace per questo lato.... E continuava imperturbabilmente la sua parte di marito ben pasciuto alle spalle della moglie, e di rodomonte per burla. II. Allorquando, dopo tanto tempo, capitò la catastrofe, la scoperta cioè di un’associazione di falsi monetari a Catania, capitanata dai due cugini del sensale, e l’arresto di costui come indiziato complice, il primo sentimento istintivo ch’egli provò fu di viva compiacenza e di profonda ammirazione dinanzi a sè stesso per la prudenza con cui aveva preveduto il colpo, per la inaudita furberia con la quale l’aveva da lunga mano parato, preparandosi la più abile, la più infallibile difesa. Era la prova migliore del suo talento e della sua astuzia, il segno lampante delle grandi cose di cui sarebbe stato capace, ove la propria sorte non l’avesse fatto nascere a Roccamarina e in una famiglia di contadini! L’assaliva quasi la voglia di raccontare a tutto il paese la verità delle cose, una matta voglia ch’egli sarebbe stato felice di cavarsi se non ci fosse andata di mezzo la sua salvezza, pel gusto di godersi l’attonita sorpresa della gente così ingegnosamente ingannata, di assaporare la stima di rara finezza che gliene sarebbe venuta. A un certo punto però, come lo tradussero nel carcere di Catania, e non si vedeva principio di chiudere l’istruttoria in sezione d’accusa, egli cominciò a perdere la sua tranquilla sicurezza ed ebbe paura davvero! Ma fu una crisi passeggiera di scoraggiamento che durò poco. Il suo avvocato, che aveva studiato il processo alla Regia Procura di Palermo, lo assodava in quelle disposizioni di piena serenità d’animo, confermandogli quanto il sensale, senza sapere nè di diritto nè di legge, avea chiaramente compreso. Nessuna vera prova esisteva a suo carico; da parte degli imputati principali, malgrado le bastonate e le altre carezze del genere somministrate dalla Questura nel segreto delle camere di sicurezza, neppure la menoma rivelazione era stata fatta. Tutto si riduceva dunque contro di lui a dei semplici indizi, ai suoi legami di parentela coi capi della banda, alla dimora fatta a Catania nell’epoca in cui l’associazione aveva più attivamente funzionato — indizî questi di assai scarso valore — e sopratutto all’improvviso e, in apparenza, inesplicabile passaggio dalla miseria più dura ad uno stato d’invidiabile agiatezza. Ciò, infatti, avrebbe costituito un elemento di prova terribilmente grave, anzi addirittura schiacciante contro di lui, se... se — soggiungeva l’avvocato — non fosse risaputa _per urbem et orbem_, e non si potesse dimostrare con la testimonianza di tutta Roccamarina la vera e sola origine di un tal felice mutamento di fortuna. — Questa è la verità, signor avvocato.... Sono gl’invidiosi che mi vogliono perdere, sebbene io non abbia mai fatto male ad alcuno.... Ma la mia innocenza è sacrosanta e luminosa come il Vangelo di Dio! — rispondeva il sensale, con la faccia candidamente composta e un certo fine sorriso, appena visibile, che incantava l’uomo del fôro. La _Ricciuta_ veniva a visitarlo sempre che poteva, profittando spesso di qualche permesso straordinario di cui l’avvocato difensore la muniva, e si partiva ogni volta dal paese, perchè suo marito non voleva che restasse a Catania. Era triste e avvilita; nonostante le parole rassicuranti di lui, non sapeva difendersi da una forte paura, e si struggeva di vederlo languire in carcere. Eppoi, adesso che era rimasta sola a Roccamarina, la sua situazione era divenuta assai penosa, e le toccava subire ogni sorta di umiliazioni e di malignità! Il sensale le faceva coraggio e si sforzava di comunicarle la propria calma, la fede assoluta che egli, lasciandosi guidare dall’istinto e dal suo largo buon senso, aveva acquistato nella lieta soluzione del processo. Come sapeva regalar bene e con prudenza, le guardie carcerarie che assistevano a quei colloqui gli risparmiavano volentieri le angherie della loro consegna; così egli poteva ripeterle ogni volta gli argomenti usciti dalla bocca dell’avvocato, infiorandoli storpiatamente delle citazioni latine di cui questi non usava risparmio, persuadendola che non v’era nulla da temere. Anzi, andava più oltre, non esitava ad affermarle che c’era da felicitarsi, al contrario, di quanto avveniva, perchè una volta chiusa quella pagina cessava ogni motivo di pericolo, di ansie, ogni ragione di fingere e di dar conto al pubblico dei fatti proprî. La loro buona stella aveva voluto che il barone Spinosa morisse poco avanti l’arresto di lui, ciò che se da un lato formava la forza inoppugnabile della sua difesa, dall’altro metteva punto per l’avvenire al bisogno di recitare la trista commedia. Così, la vita si presentava loro, all’indomani del processo, tutta rose, senza neppure la più piccola spina, e avrebbero potuto godersela beatamente. Egli si trovava nel caso eguale di uno che — le spiegava — per liberarsi da una sofferenza e dalla minaccia di un gravissimo male a venire, dovesse subire un’operazione dolorosa, ma d’indubitabile esito. Bisognava essere una vera bestia per non sottomettervisi volentieri!... E i suoi occhietti grigi lucevano di sicurezza e di malizia dietro la grata a buchi del parlatorio, mentre esponeva alla moglie il sereno e promettente quadro della propria situazione. III. Il giorno del dibattimento venne, alla fine. L’angusta aula delle Assise da un pezzo non si era vista così affollata, tanta gente s’era partita apposta da Roccamarina, e tanta ne aveano attratto la curiosità e l’interesse locali. Il banco della stampa era interamente occupato; in quello degli avvocati non era possibile muoversi perchè, oltre al collegio numeroso della difesa, l’avea preso d’assalto un plotone di verdi speranze del fôro: apprendisti di studio che accompagnavano i loro maestri, laureati del giorno avanti che lasciavano leggere negli occhi animati e brillanti quanto fossero compresi della loro novella dignità. Era la parte più attenta e rumorosa del pubblico; si vedeva che quello spettacolo li interessava e li allettava come mai più alcun altro forse, e i comenti correvano sulle loro bocche, vivacissimi, pieni di sale, senza paura dei richiami del presidente, poichè la coscienza del prestigio e delle prerogative di cui godevano nella loro qualità di avvocati, li faceva ridere della severità presidenziale. Uno di essi, specialmente, faceva del chiasso per venti e dominava il gruppo, un piccoletto senza un pelo sulle labbra, che pure — come raccontava a tutti, facendoci su un sorrisetto di amor proprio soddisfatto — non più tardi di un’ora avanti avea riportato, da rappresentante di parte civile, un bel successo al Tribunale coll’ottenere il massimo della pena per un povero diavolo di contadino, mezzo ebete e pienamente confesso, il quale s’era lasciato sorprendere mentre faceva man bassa di notte in un pollaio. Il dibattimento procedeva lentamente perchè il numero dei testimoni era straordinario. Talchè, il Pubblico Ministero aveva l’aria di annoiarsi molto, e il sensale che dalla gabbia l’osservava attentamente, con l’occhio col quale si spiano le mosse di un nemico, gli notò sulla faccia quasi una espressione di sollievo quando il suo difensore venne a fare un briciolo di conversazione con lui, prima che si trovassero alle prese nel cimento oratorio. Capiva che parlavano di lui in quel momento, e poi di sua moglie.... Il procuratore del Re aveva certo dovuto domandare all’avvocato che gliela mostrasse, perchè l’altro s’era messo a indicargli in mezzo alla folla, per via di gesti, la _Ricciuta_. Allora, il rappresentante dell’accusa aveva strizzato gli occhi in segno d’ammirazioue e aveva fatto un atto del pollice sopra la spalla, evidentemente accennando al vecchio libertino che s’era serbato per la fine quel ghiotto boccone, sino a che ci aveva lasciato l’ultimo dente!... Tutti e due s’erano messi a ridere di vero cuore, cercando di frenarsi per rispetto alla Corte, ma senza riuscirci, e il Pubblico Ministero si torceva addirittura sul suo seggiolone di cuoio.... Il sensale non li perdeva di vista; vedendo colui che era pagato per fargli da boia abbandonarsi a così viva ilarità, e ne comprese il senso, sentì istintivamente che non c’era più nulla da temere e che poteva dire di aver già in tasca il verdetto d’assoluzione.... L’aspetto imponente della sala però lo inquietava, gli metteva una grande e penosa soggezione addosso. Era proprio davanti a tanta folla, a tutta quella gente sconosciuta ed ostile, che si doveva bandire e discutere la vergogna della sua povera creatura innocente? Ella gli faceva una pena insopportabile, talmente la vedeva pallida, disfatta e smarrita, sotto il fuoco incrociato di cento occhi pieni di volgare curiosità, d’insolente ammirazione, della lasciva compiacenza che destava l’attesa della storia di cui era l’eroina. I più maligni e i più odiosi erano i suoi compaesani: le facevano il vuoto attorno, le ridevano in faccia, la mostravano ai signori che volevano sapere quale fosse tra le donne degli imputati la moglie del sensale. Era un tormento che gli dava le smanie, che gli attossicava la gioia della imminente liberazione, ormai certa. Improvvisamente, davanti a quell’imagine di Addolorata, gli balenava alla mente l’idea delle sofferenze, dell’avvilimento patito da lei per tanto tempo, del supplizio continuo ed atroce che aveva dovuto costarle l’oscena finzione impostale. E mai un lamento, mai una protesta, al punto ch’egli non ne avea intuito veramente la dolorosa intensità mai prima d’ora, ed avea potuto lusingarsi che il recitare la parte assegnatale le riuscisse lieve! Ed era per amore di lui, per la paura di comprometterlo, di perderlo, che ella avea sempre taciuto, che s’era prestata così al crudele sacrificio!... Però, lo consolava l’idea che s’era alla fine, che fra poco quel purgatorio sarebbe cessato. Invece, non cominciava davvero che allora, con la sfilata dei testimoni citati a suo discarico, tutti chiamati apposta da Roccamarina per narrare e far fede ai giurati, alla Corte, ai giornalisti, al mondo intero infine, come la _Ricciuta_ fosse stata la ganza del barone Spinosa, il quale in compenso li avea tolti dalla miseria, lei ed il marito, e come avesse saputo cattivarsi ed ubbriacare il vecchio vizioso e rimbecillito in modo che nella loro casa era piovuta ad un tratto l’abbondanza e l’agiatezza.... La poverina doveva sentirsi snocciolare sul viso tutto un tal rosario di menzogne e d’infamie, lei a cui metteva schifo la sola idea di essere stata desiderata da quel libertino incartapecorito! Ella non aveva più nemmeno la sensibilità del rossore; si sentiva morire di vergogna fra le risate ed i grassi comenti che accompagnavano da ogni parte le esilaranti dichiarazioni dei testi. Quella del canonico Arabella poi, aveva messo in rivoluzione la sala intera, aveva fatto sussultare persino, nello scoppio irrefrenabile del riso, le calve e gravi teste della Corte. Il canonico era stato il Pilade del barone Spinosa, l’immancabile compagno suo nella quotidiana partita di scopa senza la quale questi non poteva dire di aver chiuso veramente la propria giornata. E raccontava, dimenando il ventre enorme e socchiudendo gli occhi, le confidenze che il barone gli avea fatto intorno ai suoi amori con la _Ricciuta_, l’entusiasmo di cui si accendeva nel descriverne le grazie nascoste.... Il sensale sudava freddo dentro la gabbia! Sapeva, e se n’era a suo tempo rallegrato, che il barone un po’ per vanità senile, un po’ perchè capiva che avrebbe fatto la più barbina figura confessando la verità, aveva sempre lasciato credere e confermato che le cose stessero davvero come pareva. Ma dannarsi l’anima a tal segno, inventare tante menzogne, tante odiose calunnie, esercitare la fantasia malata di libidine creando persino dei particolari lascivi!... Gli toccava voltarsi dall’altra parte perchè non sapeva reggere alla vista della _Ricciuta_, sopportare lo sguardo implorante e perduto dei suoi occhi gravidi di lacrime, dilatati nell’angoscia della barbara caccia che da ogni parte le davano, stringendola in quella rete inestricabile di accuse bugiarde e infamanti, infliggendole senza pietà la gogna delle più caustiche barzellette, delle risate oltraggiose. Sentiva la sua prudenza di vecchia volpe, la sua abilità e il suo sangue freddo di attore consumato, abbandonarlo via via; intuiva confusamente che, se un simile supplizio fosse durato ancora a lungo, egli avrebbe potuto commettere, malgrado sè stesso, chissà che pazzia!... Finalmente, venne l’ora delle arringhe. Il Pubblico Ministero apriva la serie con un assai gustato movimento oratorio, incitando a mettere in libertà, a fregiare anzi di qualche nobile decorazione gl’imputati, che durante il processo i loro difensori si erano ingegnati di dipingere come dei fior di galantuomini, delle vittime, al solito, di una macchina montata in Questura da un funzionario ambizioso di rapida promozione. Ma, giungendo al sensale, aveva dovuto lasciar da parte i fulmini della sua eloquenza e contentarsi, tanto per l’onor dell’armi, d’insinuare che, per quanto non ci fosse alcuna vera prova contro di lui, pure la moralità dell’individuo autorizzava l’ipotesi che anch’egli fosse stato della banda — ciò che significava il ritiro quasi dell’accusa, una battaglia vinta per la difesa, la malizia del sensale che trionfava e lo tirava incolume dal brutto passo!... Fra gli altri imputati, sulla sorte dei quali non era possibile alcuna illusione, vi fu un sordo movimento di collera, e delle occhiate bieche, delle imprecazioni corsero all’indirizzo del complice fortunato. Erano tutti dei tipi che si sarebbero lasciati tagliare a pezzi prima di dire una parola, ma ciò non impediva che facesse troppa rabbia, per Dio, mentre gli altri restavano presi come dei sorci inesperti nella trappola, vedere quello solo che riusciva a scamparsela, portandosi via anche il cacio! Ma il sensale sembrava restasse quasi insensibile al fremito d’invidia suscitato in mezzo ai suoi compagni, come non comprendendo quanto terreno avesse guadagnato dopo la requisitoria del Pubblico Ministero. Egli non vedeva che sua moglie, divenuta d’una pallidezza da far paura, con le mani tremanti sulle ginocchia e il corpo che sussultava tutto ad ogni tratto nello sforzo di rattenere le lacrime. Il pensiero della propria difesa, della propria salvezza, passava in seconda linea per lui in quel momento; prima di tutto, al disopra di tutto, egli voleva veder cessato il supplizio della poveretta da lui medesimo esposta sulla croce così, il supplizio che sarebbe stato già tanto fiero per una che avesse avuto davvero quella macchia addosso, figurarsi poi per lei!... Provava un bisogno furioso di finirla, si sarebbe levato per gridare al suo difensore, che incominciava allora a parlare, di tacere, di rinunziare alla parola!... Invece, l’avvocato pareva avesse tutt’altra voglia; dal giro che prendeva, si capiva come la sua arringa sarebbe durata un pezzo. Andava adagio, lasciando le frasi, sopratutto nell’esordio, cadere dalla sua bocca con una mollezza calcolata ed esasperante, passando con un crescendo sapiente dai piani quasi sussurrati, a certi _forti_ d’una sonorità, assordante — come allorchè aveva evocato l’ombra del barone Spinosa perchè fosse venuto a testimoniare la verità sulla fortuna del suo difeso! Veramente, quella macabra idea di citare il morto all’udienza, aveva messo un po’ di ghiaccio nel pubblico.... L’oratore l’avea sentito, però se ne consolava sapendo che il passo male accolto era un effetto sbagliato, ma solitario nella sua arringa. La nota dominante era ben altra; il successo doveva consistere nell’ilarità che avrebbe destato, nel sapore boccaccesco largamente profusovi. La sua difesa era il riepilogo e l’illustrazione delle testimonianze udite prima, il contrappelo alla fama già tanto lacerata della _Ricciuta_.... A un certo punto, la disgraziata non avea potuto reggerci più, e s’era messa a piangere forte, colle dita negli occhi come una bambina, mentre l’avvocato s’interrompeva, sorpreso e contrariato. Vi fu una pausa, durante la quale il giovinetto avvocato che faceva più chiasso di tutti avea esclamato forte, tra un coro di risate: — Guardate che commediante, questa.... buona serva di Dio!... A tale uscita il sensale, che non sapeva contenersi più, aveva sentito il sangue ingorgargli il cervello! Pallido, coi pugni contratti, sgranando minacciosamente gli occhietti grigi, era scattato in piedi e pareva schizzasse veleno contro la folla, mentre la donna continuava a piangere in mezzo agli zittii del pubblico infastidito. Ogni lacrima di lei gli cadeva sul cuore, lo faceva delirare di pietà.... E il suo strazio era diventato anche più acuto quando il presidente aveva ordinato che la conducessero via, e l’altra s’era messa a promettere, a furia di gesti, cacciandosi il fazzoletto in bocca e affondandovi i denti, che sarebbe stata tranquilla, avea supplicato che la lasciassero stare, perchè non voleva andarsene, perchè non voleva abbandonare suo marito nel momento decisivo! Intanto, l’avvocato continuava la sua difesa, condendola inesauribilmente di piacevoli tratti umoristici, destando quasi ad ogni frase nella sala le più allegre risate. E di nuovo la _Ricciuta_, non potendo frenarsi, aveva ricominciato a piangere con forza, facendo accorrere l’usciere che se l’era trascinata via, senza lasciarsi impietosire più, questa volta.... Allora, il sensale avea provato un momento di terribile vertigine, era balzato giù afferrandosi ai ferri della gabbia, scuotendoli forte.... Il grido irreparabile della verità gli saliva dal cuore, gli faceva ressa tumultuosamente alle labbra! Ancora un istante, ed egli sentiva che avrebbe smarrito il lume degli occhi, che si sarebbe condannato da sè, pur di strappare la sua creatura da quella croce d’infamia, pur di eruttare il proprio furioso rancore sul viso di colui che, per difenderlo, ve la inchiodava senza pietà, gridando forte: — Tutte menzogne, signor presidente!... Forse, l’avvocato intende parlare di sua madre o di sua sorella, ma quell’innocente là è pura e senza macchia come la nostra Santa protettrice!... La verità è che la fortuna me la son fatta a Catania, spacciando moneta falsa, e che io la costringevo a fingere apposta quella commedia per ingannare gli altri.... Questa è la verità, signor Presidente!... Ma già la poveretta non era più là col suo viso disfatto dal pianto, coi suoi occhi imploranti, con quell’inesprimibile attitudine di fanciullina martirizzata, che strappava l’anima.... E subitamente, come se l’avessero liberato da un incubo, egli tornò al dominio di sè, riacquistò la lucida coscienza dei suoi atti, la fredda calma ch’era abituale in lui e che avea potuto per un momento smarrire sino a quel segno estremo. Si ricompose, riprese umilmente il suo posto fra gl’imputati e rimase così fino all’ultimo, senza più muoversi nè parlare, con gli occhi a terra e l’aria compunta. IV. La _Ricciuta_, allorchè si ritrovarono insieme due giorni appresso nell’intimitè della loro casetta così gaia, linda e doviziosa, ripensando a tutte le ansie, i terrori, le angosce attraversate sino alla vigilia, quasi non osava abbandonarsi alla realtà. Gli girava a torno svelta e festosa come un buon fido cane restituito al padrone; attendeva a preparargli il desinare più ghiotto, il più soffice letto, ogni ristoro, ogni vezzeggiamento. Il sensale, invece, conservava in mezzo alla sua allegrezza una certa nobile misura, la composta dignità di colui che non agli uomini, non alla Fortuna, non al Cielo deve il trionfo della propria sorte, ma solo a sè stesso! Non aveva adunque avuto ragione di felicitarsene, quando la sorpresa terribilmente minacciosa di quel processo gli era piombata sul capo? Ora, dopo il verdetto assolutorio dei giurati, neppure il Diavolo poteva nuocergli ancora; era una partita definitivamente chiusa che nessuno aveva potere di riaprire più mai. Liquidato, così, felicemente il passato, non restava innanzi a loro che il roseo, luminoso orizzonte dell’avvenire, tutta una vita molle e beata di agiatezza, di piacere, di dolce far niente. Il suo genio trionfava! Quel giorno lieto che solennemente coronava l’ammirabile edificio del talento e della malizia di lui, era come la sua apoteosi, ed egli ne assaporava la gioia esaltante con una serenità piena di grandezza.... Ma traendo fuor dall’impenetrabile nascondiglio, dove prima di lasciarsi arrestare l’aveva sepolto, il suo non disprezzabile tesoro — due sacchetti ricolmi di buon oro sonante, accumulato a furia di spacciare l’altro, quello falso — la curiosa maschera di olimpica compostezza gli cadde a un tratto dal volto.... Si mise a versare il contenuto luccicante e sonoro di quelle due piccoli otri di ricchezza nel grembo della sua donna, affondandovi cupidamente una mano, mentre nel tempo stesso brancicava i fianchi ed il petto di lei, accarezzando con non minore avidità l’altro tesoro suo, l’opulento tesoro di rosee carni fragranti di giovinezza per cui egli si struggeva. Un’ebrezza d’indicibile orgoglio lo invadeva tutto, gli accendeva gli occhietti di scimmia ladra e lasciva, abbacinati dal riflesso giallo dell’oro, intorbidati dal brancicamento voluttuoso. La coscienza della propria forza lo esaltava ancora più che la vista di tutto quel denaro ed il contatto della carne amata.... A parte un momento passeggero di debolezza e d’oblio là, alle Assise, allorquando l’angoscia troppo crudele della poveretta l’avea ridotto quasi al punto di tradirsi e di perdersi, come egli era stato inarrivabilmente ingegnoso, abile, astuto dal principio alla fine! Come era riuscito — egli così miserevole all’aspetto, così umile di condizione, e rozzo, digiuno di qualunque studio, tenuto da ognuno in conto di un buono a nulla — a cacciarsi in tasca il mondo intero! Tutti, dai cinquemila abitanti di Roccamarina, ai giudici istruttori, al Pubblico Ministero, al Presidente, ai giurati, alla folla insolente che aveva assistito al processo, tutti s’erano lasciati prendere nella mirabile trappola della sua furberia, erano rimasti ingannati e beffati! La inesorabilità della giustizia punitrice a cui non sfugge alcun colpevole, costituiva ora un soggetto d’allegra incredulità per lui che avea saputo, con la sola risorsa del suo cervello fino, mettersi sotto i piedi il Diritto e la Legge, risolvere il problema di _rompere_ senza _pagare_.... Là, alle Assise, dopo il verdetto dei giurati, quando la Corte avea fatto il suo ultimo ingresso, suscitando una mortale ansia negli altri imputati, egli, dinanzi alla solennità quasi lugubre delle loro toghe in quel momento, dinanzi alla gravità imponente dell’apparato e del prestigio che circondava le persone loro, s’era sentito assalire da uno scoppio a stento frenato d’ilarità. Mentre i suoi compagni di gabbia concentravano l’anima ansiosa e perduta in ogni parola della sentenza, egli che non aveva più nulla a temere, lasciava interiormente fluire la ricca vena del suo umorismo plebeo, si abbandonava dentro di sè ad ogni sorta di comiche osservazioni sul naso del Presidente, enorme, purpureo, costellato di escrescenze — sulla barba del giudice di sinistra che a furia di tinture avea preso certi vaghi riflessi di legno mogano — sulla figura del giudice di destra, ridotto dagli anni, forse anche dall’abitudine del proprio ministero, ad uno scolorito e cartilaginoso stato di mummificazione, come se da secoli dormisse il suo solito profondo sonno all’udienza.... Ah, che sforzo aveva dovuto imporsi per contenersi e conservare sino all’ultimo la sua aria di compunzione e di umiltà!... Ma adesso, ricostruendo col pensiero la scena così terribilmente solenne per gli altri e così buffa per lui, non si tratteneva più, si cavava liberamente alla fine la prepotente voglia di riso che gli era venuta colà, nel tempio sacro della giustizia. E rideva, rideva inesauribilmente, d’un riso muto e fantastico che gli fendeva oltre ogni misura la bocca esangue e sottile, mentre continuava a rinvangare con una mano il mucchio d’oro versato nel grembo della donna, e a brancicare con l’altra il fiorente busto di lei.... FINE. INDICE. La prima donna Pag. 1 Tempesta stornata 161 La fine di Don Giovanni 191 Novella sentimentale 219 Il trionfo della malizia 267 DEL MEDESIMO AUTORE: _L’avvocato Danieli_, romanzo. _Anomalie_, novelle. Seconda edizione. _Gli aforismi di Claudio Larcher._ _La mèta_, commedia in tre atti (_sotto i torchi_). IN PREPARAZIONE: _Il tormento ineffabile_, romanzo. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA PRIMA DONNA *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. 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Except for the limited right of replacement or refund set forth in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE. 1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied warranties or the exclusion or limitation of certain types of damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement violates the law of the state applicable to this agreement, the agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or unenforceability of any provision of this agreement shall not void the remaining provisions. 1.F.6. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate. While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. 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