The Project Gutenberg eBook of Reliquie - Le masse cristiane This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Reliquie - Le masse cristiane Author: Edoardo Calandra Release date: August 9, 2023 [eBook #71373] Language: Italian Original publication: Torino: Casanova Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RELIQUIE - LE MASSE CRISTIANE *** VECCHIO PIEMONTE RELIQUIE LE MASSE CRISTIANE _NOVELLE_ DI EDOARDO CALANDRA _Seconda Edizione_ TORINO F. CASANOVA, Editore 1889 PROPRIETÀ LETTERARIA Torino — VINCENZO BONA, Tip. di S. M. RELIQUIE La ghiaia del viale scricchiolò sotto le ruote, la nostra vettura passò lenta sotto l’androne, svoltò nel cortile e andò a fermarsi davanti alla porta del fabbricato civile. I due custodi, marito e moglie, sbucarono fuori dalla casetta rustica; l’uno si diede attorno a scaricar le nostre robe, l’altra andò per le chiavi, aprì larga la porta, salì le scale e comparve a spalancar successivamente ciascuna delle finestre per rinnovare l’aria, disperdere l’odore di rinchiuso, rinfrescare e spazzar dappertutto. Il domani s’apriva la caccia. Appena entrati in casa, Mario ed io, pensammo prima ai fucili, ai pacchi di cartuccie, alle munizioni, che furono collocate in un armadio al sicuro, fuori dell’umidità; poi alle nostre persone. Furono tratti dalle valigie gli abiti di tela chiari e leggieri e sostituiti sui nostri individui agli abiti di panno scuri e pesanti, i cappelli di feltro furono cambiati in cappelli di paglia e si terminò l’operazione con uno scrollamento generale di tutta la persona ed un sospiro profondo di beatitudine, quasichè fossimo rimasti chiusi fino a quel momento nell’arnese di acciaio d’un uomo d’arme del 1500. Michelina cacciava giù per la scala a gran colpi di granata le mummie delle mosche, i cadaveri stecchiti dei topi morti di fame, i ragni malconci che agitavano le zampe nel pattume. La polvere s’alzava come una nube. Mario mi prese il braccio, mi tirò all’aperto in cortile, prima che il nembo ci cogliesse. Di fronte alla casa, sopra un tavolo in pietra all’ombra del grosso pino, il custode avea collocati una bottiglia, due bicchieri ed un canestro coperto di foglie. Mario vi andò e levò le foglie. Oh le belle pesche rubiconde! le Reines Claudes trasparenti come d’ambra! le grosse prugne color d’ametista! Ne fu incominciata immediatamente la distruzione mentre si guardava la casa. — In paese la chiamano il Palazzo — disse Mario, scegliendo nel canestro la quinta pesca. Non era un palazzo, ma una costruzione molto semplice invece: due piani ed una galleria ad arcate sotto il tetto. Era d’una tinta generale bigio caldo, aveva gli spigoli, le modanature, i contorni delle porte e delle finestre segnati da striscie bianche a stucco, lavorate a graffito. Lungo tutto il primo piano correva un balcone in legno ingombro di masserizie, di canestri lunghi e piatti, nei quali seccavano al sole funghi, prugne e pesche dimezzate. Quattro tralci di vite, che neri e contorti come serpenti, s’inerpicavano lungo la muraglia, lo coprivano tutto di pampini, dai quali usciva, in quell’ora, il ronzìo monotono, rabbioso, incessante delle vespe, delle api e dei calabroni collegati all’assedio di certi sacchetti di carta nei quali erano riparati i grappoli dell’uva. In mezzo alla facciata era dipinto un orologio solare, quasi per intero lavato via dalle pioggie, e sulla lunga sbarra in ferro destinata a segnar coll’ombra le ore, si riposavano in fila cinguettando alcune rondinelle. — Adesso poi basta, osservò Mario a un tratto, ti consiglio a smettere d’inghiottire e conservar l’appetito per la cena. Bastava certo, restavano nel canestro poche prugne a metà consumate dai calabroni. — Ora, seguitò, se credi, andiamo in paese a veder le rarità; e, spingendo un cancello che si apriva nel centro di un muricciuolo di mattoni disposti a graticcio, mi introdusse nel giardino. Un giardino qualunque: alberi nani da frutta, viali delineati da siepi basse di mortella dominate a tratti da gran cespugli tagliati un tempo a seggioloni, a confessionali, ora cresciuti ineguali e scarmigliati. Lungo le siepi dalie, girasoli, begliomini; nel centro del giardino una vasca piena di melma e d’erbaccie, un vero _club_ di rospi e di salamandre. Per una porticella praticata nel muro di cinta, mi fece uscir sul sagrato. Nella Chiesa parrocchiale, mi obbligò a veder tutto: organo, pulpito, coro, sagrestia, un calice gotico, i frammenti d’antico affresco, trasportati dietro suo consiglio da un’antica cappella demolita. Mi fece scendere e guardare lungo la via Maestra, che il sole tramontando avvolgeva in un pulvisculo luminoso ed abbagliante; le montagne in fondo si perdevano sfumate nella nebbia d’oro, gli spigoli delle finestre, dei balconi, i vetri dei lampioni mandavano fulgori accecanti, come riflettori di luce elettrica, il ruscello che scendeva nel mezzo della via, pareva la lama sfolgorante d’uno spadone colossale. Le ombre serie e maestose del parroco e del sindaco, l’ombra magra del maestro, avviati alla loro passeggiata di tutte le sere nel viale degli Olmi, si allungavano smisuratamente sul selciato. — Quella casa a destra color di rosa, colle persiane azzurre, è il palazzo comunale; ti farò veder l’archivio, proseguì Mario, vi sono tre o quattro documenti curiosi e sopratutto poi gli statuti del Comune, anno Domini 1471, manoscritti su pergamena con iniziali in rosso; bel margine, buona legatura in assicelle di legno e borchie di bronzo. Non bisogna lasciar che Mario entri nè col pensiero, nè col discorso, nell’antichità o nell’archeologia: se v’entra col discorso, parla troppo, se col pensiero, non parla più affatto. Quando si cade sull’argomento antichità, d’un salto egli è nelle nubi, rapito in estasi dalla poesia delle cose passate, e senza far preferenze, s’interessa tanto all’antichità romana, quanto al medioevo, all’epoca preistorica come al milleottocentotrenta. Dotato d’una memoria di ferro e d’una curiosità insaziabile, vuol imparar tutto, tutto vedere, toccare, acquistare. Entra nelle botteghe, si ficca nelle case, nei corridoi, nelle sacrestie, caccia la testa nelle finestre a pian terreno, s’arrampica per le scale, copia le iscrizioni, le date, disegna gli stemmi, si procura i calchi delle pitture, cerca di comprar i mobili, le stoviglie, le lanterne, le campanelle degli usci, e mette in tutte queste operazioni tanta insistenza, e diciamolo pure, tanta indiscrezione, che più di una volta ebbi a veder male interpretati certi suoi atti, sguardi od apprezzamenti innocentissimi e mi toccò soffrir, per amor suo, in sua compagnia, rimbrotti, impertinenze ed anche peggio. Nessuno al mondo saprà mai quello che capitò a lui ed a me per soverchio interesse dimostrato ai fregi in terra cotta di una certa finestrina nel villaggio di... Lasciamo stare, è un segreto che deve scendere nella tomba con noi. Intanto rifiutai recisamente di veder l’archivio. — Allora andiamo al castello, — mi disse Mario. — Peccato poi che è tardi, se no, dopo t’avrei condotto a due miglia di qui, ad una certa torre detta della Rea. Un marito vi tenne chiusa non so quanto tempo la moglie. Su quel tema un parroco qui del paese ha scritto un dramma: Un piccolo dramma, diceva lui, uso Shakspeare! Si dice che sotto terra vi sia la solita strada che comunica col castello. Una favola: qui c’è l’acqua ad ottanta centimetri di profondità; altro che strade! Al castello mi fece osservare, alla luce dubbia del crepuscolo, la perfetta conservazione della torre, la coda di _rondine_ dei _merli_ (fenomeno che può parer strano ad un ornitologo, ma naturalissimo ad un archeologo). Sopratutto poi: alcuni colpi di scure sulla porta e la data 1618. — Ecco una data che si riferisce ad una tradizione locale. Nei villaggi vicini quei di Murello son detti i _testardi_. — Poteva immaginarlo, — gli dissi. — Non sono del paese, amico mio, sono nato a Torino. Nel 1618, dunque, alcuni spagnuoli sbandati capitarono qui all’improvviso, e cominciarono a dare il sacco. Era d’estate; in paese: vecchi, vecchie e bambini, tutti gli altri alla campagna. Vi fu tuttavia qualcuno che corse al campanile e cominciò a suonare a stormo. I terrazzani così avvertiti accorsero a furia, piombarono sugli spagnuoli, li cacciarono malconci, e quelli che lavoravano qui di scure dovettero naturalmente lasciar l’impresa e ritirarsi cogli altri. Un contadino, che aveva il campo lontano, arrivava tardi, tutto trafelato, quando ad uno svolto della strada si trovò dinanzi uno di quei ladroni che se ne andava col manicotto di sua madre. Egli lo accostò pianamente, gli posò le mani sulle spalle e gli diede con sì bel garbo del capo nel petto, che lo fece ruzzolar morto nel fossato. Fu così luminosamente provato che i Murellesi avevano la testa dura: di qui il soprannome glorioso di _testardi_. — Del resto, come vedi, il paese e una miniera di tradizioni, e la sua storia non sarebbe forse priva d’interesse se fosse conosciuta a fondo. Allora entrò a gonfie vele nel mare della storia locale. Cominciò proprio dalle origini, e seguitò; visitando la sua cascina, davanti ai buoi premiati all’esposizione di Cuneo, al cospetto del majale la cui dimensione era proverbiale nel circondario, nel vasto pollaio, ove mi sentivo invader la persona dai pollini microscopici, seguitò dissertando a provarmi che nella divisione legale dei beni di Bonifacio marchese di Savona e del Vasto e Signore di Saluzzo tra i suoi sette figli, nell’anno 1142, Murello fu compreso nella parte assegnata al secondogenito Guglielmo, marchese di Busca, il quale, istituita una Commenda, la godette pacificamente colla famiglia per molto tempo e finì poi col venderla ai Templarii. Quando finalmente, a notte, rientrammo in casa per la cena, i Templari erano bensì soppressi, ma, Dio mio! la Commenda di Murello veniva solamente allora aggiudicata ai cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme! Si finiva di cenare; Mario accendeva il sigaro alla fiamma della candela. Fu urtato all’uscio. — Avanti! Entrò il vecchio Rocco, l’affittaiuolo, l’uomo di confidenza, il Griso di Mario che veniva a prendere gli ordini pel domani. Aveva fama in paese e nei dintorni di cacciatore abilissimo ed ardentissimo, si narravano di lui colpi straordinarii, si diceva dormisse, durante la stagione della caccia, col carniere e col fucile ad armacollo. Alto, magro, come disseccato dai continui sudori, Rocco aveva il viso tutto grinze a forza di stare al sole, il naso da Calmucco, la bocca come un gran taglio, — coi suoi occhi piccoli, grifagni, dotati di gran potenza scorgeva un lepre appiattato nel solco ad una distanza veramente straordinaria. Se poi è vero che gli animali vestono il colore del luogo in cui sogliono dimorare, egli era tutto color di terra, fuorchè il bavero della giubba, di velluto verde, che pareva fatto col muschio dei boschi. — Buona sera, signor Mario e la compagnia. — Buona sera Rocco, — e così la salute c’è? — e Mario gli colmò un bicchiere di vino. — Grazie, alla sua, e vuotatolo si passò la mano sul muso, e scosse subito melanconicamente il capo prevedendo la domanda di Mario. — Come stiamo a selvaggina? — Oh santo Dio! poco bene, — male anzi..... si va perdendo la razza di tutto... Se il Governo non piglia le misure, se la seguita ad andar così, fra un paio d’anni quando si vorrà tirare una schioppettata, la sarà per le cavallette, le lumache o gli scarafaggi. — Potevi scrivere, e non si veniva. — Eh! via, hanno fatto bene a venire, dico per dire, un giro si può sempre fare con profitto; vi sono qua e là nel territorio, dei campi freschi, nei quali le quaglie non possono mancare... poi lascino fare a me che ho sempre in serbo qualche novità, oggi nei grani turchi, domani nella macchia, saranno pernici, saranno fagiani... Gli altri in paese non trovano perchè non san cercare. Infine se ce ne sarà per gli altri, ce ne sarà anche per noi. Poi entrò a discutere con Mario, se ci tornava di più fare il giro di qua o di là dal fiume, per arrivar prima dei cacciatori di questo o di quel villaggio ecc., e durante quella pioggia di frasi caratteristiche, di vocaboli cinegetici, di nomi barbari di regioni note a me quanto l’interno dell’Africa, mi addormentai senz’altro. Mario mi svegliò che erano le dieci: — Vedo che la tua conversazione con noi langue. Se invece di dormir male sul tavolo, preferisci dormir bene nel letto, puoi quando tu voglia, salir in camera..... Io esco in paese con Rocco, così, per sentir dove vanno gli altri domani. — Ti sono proprio riconoscente. — Bisognerà uscir per tempo, sai, essere i primi in campagna se è possibile. Però mi rincresce vederti così assonnato, speravo farti ancora gustare una piccola sorpresa storica, archeologica. — Ti ringrazio di cuore. Rimettiamola a domani, anzi a doman l’altro. — No, no, ne godrai ugualmente stassera, ma non avrai la sensazione così netta. Pensa che t’ho fatto apparecchiare la camera gialla, nella quale nessuno ha più dormito dal... dal... ora ti faccio il conto... Lo guardai subito di traverso. — Senti, gli dissi, se per caso si tratta della solita camera gialla, rossa, verde o pavonazza, nella quale nessuno vuol dormire, credo bene di prevenirti che quando non dormo di notte, ho inesorabilmente mal di capo al domani; perciò avrai tutta la mia riconoscenza se ti vorrai risparmiare il disagio d’alzarti a mezzanotte più o meno precisa, e venir avvolto in un lenzuolo bianco di bucato, a far lo spettro, a scuoter le catene del pozzo, a cacciar urli, empir la camera col fumo di colofonia, che puzza, e malsano e sciuperebbe i tuoi mobili... siamo intesi. Mettimi a dormir dove vuoi, ma non seccarmi. Mario scosse le spalle, inarcò le ciglia, accese un lume, s’avviò precedendomi su per la scala, e giunto alla camera gialla sollevò alto il candelliere acciocchè potessi in un sol colpo d’occhio abbracciarne l’insieme. — Vedi!... è o non è interessante anche senza spettri la camera gialla? — Guarda, osserva, esamina, — dormi tranquillo, come farò anch’io, e fa d’essere in piedi piuttosto prima che dopo le tre. Mi trovai solo col cuore leggermente serrato da quel senso vago d’ansietà, che accompagna ogni cambiamento un po’ importante nelle nostre abitudini. Guardai intorno sollevando in alto il lume e cercando, nella luce un po’ dubbia, di farmi un’idea netta di tutta la camera. L’aspetto n’era singolare; non ispiravano melanconia nè letizia; trasportava, senza sforzo d’immaginazione, indietro di molti anni; e l’ambiente del principio di questo secolo era così ben definito, che si provava l’intuizione, direi quasi retrospettiva, d’avervi vissuto. I mobili di maggior mole ed importanza, come i più piccoli arredi, avevano tra loro come un’aria di famiglia. Erano tutti fabbricati nello stesso carattere, involti e coperti d’una medesima patina, e dormivano nell’ordine, nel luogo a loro destinato da chi aveva abitato un tempo quella stanza; ordine e sonno rispettato poi dai successori, che, vuoi per venerazione, vuoi per combinazione di speciali circostanze, non avevano più portato in quel sito il movimento e l’agitazione della vita. Nel soffitto erano dipinte a chiaroscuro le quattro stagioni. V’era un vecchio coperto d’una pelle di volpe, che raffigurava l’inverno. La primavera era una giovinetta dalle forme sviluppate e le mani piene di rose. Un giovane nudo con un covone al fianco ed una falce in mano, una venditrice d’uva e di pomi, rappresentavano l’uno l’estate, l’altra l’autunno. Un gran letto di legno scolpito, ornato di piastre e trofei in bronzo, s’avanzava fino nel mezzo della stanza. Un canapè, due seggioloni ed alcune seggiole collocate lungo le pareti, tese d’una tappezzeria gialla a mazzolini di rose, avevano, nel dorso rigido e rettangolare, scolpita una lira colle sue corde. Sul caminetto, v’era un orologio a pendolo a foggia di tempietto d’alabastro e sotto al quadrante di questo, tra le colonnine, due colombe posate sul margine d’una piccola vasca si dissetavano in un pezzetto di specchio, che rappresentava l’onda cristallina. Accompagnavano l’orologio, due vasi sottovetro, pieni di fiori di carta scolorita. Di fianco al letto, appiccata al muro, una rastrelliera reggeva un fucile, due pistole a pietra, un gran carniere a reticella verde ed una mazza il cui pomo tornito con una certa combinazione di giri, rappresentava il profilo di Napoleone I. Non sentivo più d’aver sonno: andavo e venivo lungo le pareti, me ne scostavo ad un tratto, e fermo nel mezzo della camera, alzavo il lume dirigendolo a destra, a sinistra, in alto, in basso per scoprir nuove cose; poi mi avvicinavo ad osservar minutamente gli oggetti, attirato, spinto a proseguir il mio inventario da fremito intenso di curiosità rispettosa. Al disopra del canapè era appeso un ritratto d’uomo. Salii sul mobile ed attirandomi sulla persona un nuvolo di polvere e di ragnatele, lo staccai per esaminarlo da vicino. Era mediocremente dipinto, ma ben disegnato, in linguaggio accademico: una bella _testa di espressione_. I capelli tirati sulla fronte ed i pizzi corti che inquadravano le guancie, interamente bianchi, contrastavano in modo singolare coi lineamenti d’un viso giovane ancora. Le fattezze tutte del volto erano pure, regolari, delicate e l’assenza completa di pelo alle labbra ed al mento comunicava loro una apparenza alquanto femminile. Nei suoi occhi traspariva poi un sentimento di così profonda mestizia, che vi fermava lo sguardo, v’obbligava a pensarvi, v’interessava per modo che avreste voluto aver lui vivo d’innanzi, saperne i casi, la vita, ricevere le sue confidenze. Incominciai a spogliarmi per pormi a letto. Avendo l’abitudine di leggere prima di prender sonno, tolsi alla biblioteca, appesa accanto al caminetto, alcuni piccoli volumi, tutti insieme così per vederne i titoli. Fatta la mia scelta volli riporre a luogo gli altri, ma pel vano aperto mi apparve al di dietro, dove avrebbe potuto essere una seconda serie di libri, una scatola rettangolare, che liberata e spolverata, venne in luce sotto la forma d’un vecchio cofanetto in lacca del Giappone. Inutile dire che pensai subito ad aprirlo, vi sentivo ballar dentro degli oggetti, che dalla varietà dello strepito, giudicavo di diversa natura. La chiave mancava, non la trovai nel vano lasciato nella biblioteca nè fra i libri rimasti. Provai tutte quelle che aveva nel taschino; non entravano nella toppa o giravano a vuoto. Non potendolo aprire in via naturale, non volendo ricorrere alla violenza, posai il mobiletto sull’ottomana e seguitai a spogliarmi non senza volger lo sguardo di tanto in tanto, a quel bucolino scuro della serratura che, col suo piccolo punto brillante nel centro, pareva un occhio piccino piccino che mi guardasse insistente per eccitare la mia curiosità. Ero in letto, e tenevo fra le mani il libro scelto: _L’Abrégé portatif de la chasse du cerf tiré des meilleurs auteurs qui ont traité de cette matière et d’après la méthode pratiquée à la cour du roi de Sardaigne — Turin 1782_. No. Non potevo tardare a pigliar sonno. Un cordoncino in seta rossa pendeva tra i fogli come un segno. Aprii a quel punto per vedere a che quel segno si riferisse, un oggetto racchiuso frusciò scorrendo tra i fogli, luccicò sfuggendone... cercai fra le pieghe del lenzuolo... a capo del cordoncino rosso pendeva una piccola chiave dorata. Un momento dopo ero seduto in camicia sul canapè: dal cofanetto aperto sulle ginocchia un profumo soave, sottile, sconosciuto, mi penetrava per le nari nel cervello, maneggiavo adagio, con riverenza, un piccolo portafoglio legato in avorio, un guanto lunghissimo ed una scatola circolare. Il guanto era di donna senza dubbio e contemporaneo dell’imperatrice Giuseppina. Nelle taschine di raso rosato del portafoglio vi erano su pagine di carta velina, alcune note insignificanti; alcune massime: Souvenez vous de la faiblesse humaine, il est de notre nature de tomber et de faire des fautes. En avez vous commis? — ne craignez pas de les reparer. Votre âme est elle malade? Cherchez à la guérir. La vie est courte; ne portons pas trop loin nos espérances. Erano d’una scrittura femminile finissima. V’erano dei versi d’un altro carattere più probabilmente maschile: Mes yeux ont contemplé ce portrait enchanteur, Que me donna sa main dans mes jours de bonheur! Cet aspect consolant soutenait mon courage: Avec recueillement j’adorais son image. J’y retrouvais ce front, si noble sans fierté Trône de la pudeur et de la vérité; Cette bouche où souvent (oserai-je le dire?) Je vis, à mon approche, errer un doux sourire; Et cet œil qui, sévère et tendre tour-à-tour Imprimait le respect, en inspirant l’amour: Un jour, ce souvenir, m’occupera sans cesse, Parcourant ce portrait, si cher à ma tendresse, Au feu de mes regards il parut s’animer: Ce que je ressentais, il parut l’exprimer. Un voile de douleurs, s’étendit sur ses charmes; Il semblait me parler, frémir, verser des larmes, Et je crûs un moment, satisfait et trompé, Qu’il répandait les pleurs, dont je l’avais trempé. _Tiré de la lettre du comte de Comminges._ La scatola era in tartaruga cerchiata d’oro, tutta seminata di stelle dello stesso metallo. L’aprii era vuota. Trovai strano lo spessore del coperchio in proporzione del fondo. Girando e rigirando, provai a torcere con forza, sentii che si svitava e lo ebbi fra mani diviso ancora in due. Due occhi neri, pieni d’una straordinaria intensità di vita vennero, se osassi dirlo, ad incontrare i miei. Mi trovai davanti un viso di donna dai lineamenti così perfettamente regolari che, di primo tratto, pensai fosse creazione d’una meravigliosa fantasia d’artista, e non mi persuasi ch’era un ritratto se non dopo lungo esame, a certi dettagli della bocca e degli occhi, appena percettibili ma assolutamente personali. Quegli occhi, brillanti d’amore, d’intelligenza, di comando, avviluppati nell’ombra leggiera e misteriosa delle ciglia lunghe e scurissime, il disegno puro delle sopracciglia e del naso, capriccioso delle labbra, i capelli scendenti folti sulla fronte e sulle spalle bianchissime, formavano un insieme di figura fantastico e delizioso che inquietava ed affascinava. Nella miniatura, come lavoro d’arte pregevolissima, non era raffigurata che mezza la persona, ma colla mia fantasia eccitata dall’oscurità, dal silenzio, da una certa disposizione particolarmente tenera dell’animo, io scorgevo al di là dei confini di quel cerchiolino d’oro che serviva di cornice e vedevo tutta la figura snella, altera, elegantissima. Una di quelle donne che la natura si compiace di formar completamente belle, che non possono passar nella via senza attirarsi uno sguardo d’ammirazione anche dall’uomo più rozzo o più distratto; che hanno un modo loro proprio di volgere il capo, di piegar la vita flessibile, di levare in faccia il lampo splendido dei loro occhi. Una di quelle donne infine, le quali trovate sul cammino della vostra vita, al teatro, a passeggio, in viaggio, dovunque, senza aver scambiata una parola, senza averne incontrata la pupilla, sentite che colla perfezione delle forme, colla calma indolente, colla severa misura del gesto, della parola, dello sguardo, si portano via nella loro apparizione, forse fugacissima, una parte dell’anima vostra, vi fanno anelare che la logica del caso vi rimetta alla loro presenza, vi spiegano come un uomo possa in certe circostanze abbandonar per loro le ricchezze, i parenti, la patria, la vita. Provavo davanti a quel piccolo dipinto di sette centimetri, un’impressione strana, come un senso di soggezione, quasichè avessi commessa una grave indiscrezione a turbarne il riposo, e presentarmi a lei così nell’aspetto sconveniente d’un uomo un po’ meno che in maniche di camicia. Fui sgradevolmente interrotto nel mio _tête à tête_ e richiamato alla prosa. Un gran pipistrello entrato in camera non so come, cominciò, radendo la terra, rimontando al soffitto, a dar di cozzo nei mobili, ad agitar la fiamma della candela, ad avvolgermi nei suoi giri cabalistici, gettandomi l’aria delle sue ali nel viso. Ho ribrezzo dei pipistrelli; se poi sono leggermente vestito, mi par di sentirli appiccicarsi in un punto qualunque della persona, coi dentini bianchi ed affilati e suggermi quel po’ di sangue che posso aver nelle vene. Posai tosto il ritratto, impugnai la canna dal profilo dell’_Uomo fatale_, e dopo aspro combattimento, colto in aria il mostro alato, lo vidi ai miei piedi sul pavimento con un’ala distesa e l’altra chiusa, le fauci aperte e gli occhiolini neri, maligni, scintillanti. Gettato il vinto fuor della finestra, mi toccò ancora scostare il letto dalla muraglia per evitare che un grosso ragno che scendeva gravemente dal soffitto, attraversasse nel suo viaggio il mio viso. Poi entrai in letto, e stanco delle mie scoperte, meditazioni e battaglie, noiato dalle mosche del soffitto che svegliate dal lume si aggiravano ronzando e finivano per piover sui fogli del mio libro coll’ali bruciate, soffiai la fiammella, e m’addormentai. Ho domandato ad un sapientissimo amico che cosa siano le allucinazioni. Mi rispose che le allucinazioni sono false sensazioni, spontaneamente percepite dal sensorio, senza il concorso d’agenti esteriori, senza partecipazione dei sensi; fenomeni cerebrali, che non dipendono da una lesione propria di questi, non da associazione viziosa d’idee, non da vizio dell’immaginazione, ma bensì da un turbamento encefalico d’ignota natura. Le allucinazioni, seguitò egli, nei loro effetti non differiscono dalle sensazioni reali, se non per l’assenza di attuali impressioni. Così si può ascoltare una voce che non venne emessa, udire una parola non pronunciata, vedere un aggressore, un demonio, una donna bella, un angelo, avvertire un profumo gradevole, un odor disgustoso, gustar sapori fantastici, prender cibo, bevanda, ghermire un nemico, brandire un’arma, tutto per allucinazione. L’amico poi voleva dividere le allucinazioni in olfattiche, acustiche, gustative e tattili, suddividere queste in viscerali e sensoriali, ma mi dichiarai soddisfatto, lo ringraziai della lezione e preferii pensare che nella notte dal 14 al 15 agosto ho semplicemente sognato. Non potrei dire qual ora fosse della notte... sul canapè batteva un raggio di luna, un raggio pallido che illuminava un piccolo disco lucente: il ritratto in miniatura. Io lo guardavo, e ne venivo raffigurando distintamente le linee come se lo avessi nelle mani, sott’occhio. A poco poco, per un lavorìo inesplicabile che certo si veniva compiendo nella mia mente, i contorni divennero più fermi, presero proporzioni maggiori, ed infine lentamente, insensibilmente, senza sforzo, la figura si sviluppò al naturale e me la vidi dinanzi seduta sul canapè. Era immobile nella posa del ritratto, pallida, lo sguardo fisso, le braccia nude bianchissime, le mani raccolte l’una nell’altra, abbandonate sulla veste chiara e sottile che disegnava le linee purissime d’un corpo meraviglioso. Ad un tratto venne come un soffio che le infuse la vita: il seno cominciò a sollevarsi palpitante, il capo si piegò soavemente sulla spalla, le pupille si mossero sotto le ciglia... l’occhio si aperse limpido... si rivolse sfavillante d’una tenerezza indicibile al ritratto dell’uomo appeso sul di lei capo. Allora vidi balenar come in un lampo la cornice dorata che si staccò dal muro, che scivolò senza strepito lungo la parete e l’uomo mi apparve tutto, alto, elegante, nobilissimo, al fianco di lei, vivo e palpitante. Lo vidi cingerle col braccio la vita, baciarne a più riprese la mano lunga e sottile e le sue labbra aprirsi e chiudersi come se parlasse un linguaggio tenero, ardente, appassionato, accompagnato da gesti vivaci ed eloquenti. Ella si era scossa tutta in un tremito nervoso, poi aveva appoggiato, come stanca, il capo sulla spalla di lui, ed ora, ad una parola di fuoco mormoratale nell’orecchio gli aveva cinto il collo colle braccia, come d’una candida sciarpa, ed avvicinando lentamente il viso al suo, cercava colle pupille smarrite... — Ohè!... sono le tre e cinque minuti... alzati marmotta! Ero seduto sul letto ansante, sudato, col cuore che palpitava rabbioso, nulla discernendo nella camera oscurissima. — E così, rispondi o non rispondi? — gridava Mario fuor dell’uscio. Sei sveglio? — Bene alzati e fa presto... non hai zolfanelli? Ed entrato in camera accese col suo il mio lume. — Sai che sei pallido come uno spettro! — Hai avuto male? Perchè non hai chiamato? — Te lo voleva dire, ieri sera, di non mangiar tante pesche. — Ma no... grazie, sto bene sai, ho dormito benissimo. — Quando è così, spicciati, non basta arrivar presto, bisogna arrivar primi. E sparve, impaziente ed affaccendato, giù per la scala. Non potevo staccar gli occhi da quel punto. Sogno, allucinazione, illusione dei sensi, fantasia;... siano pure... le linee squisite di quel gruppo trepidante d’un amore sconfinato e soprannaturale, mi sono incise nel cervello e ci andrà del tempo prima ch’io le senta affievolirsi e confondersi. M’avvicinai al lungo mobile. La piccola miniatura posava sui cuscini accanto al ritratto d’uomo, appoggiato al bracciuolo; la muraglia in alto era leggermente scalcinata, il chiodo giaceva sotto il canapè. Eppure avrei giurato d’averlo la sera riappiccato al muro, quel ritratto! Eravamo armati ed in ordine. Mario aprì l’uscio verso il cortile, i cani si precipitarono in casa e vedendo brillare i fucili, cominciarono a latrare festosi: era venuto il tempo d’empire le nari, diguazzando nella rugiada, cogli effluvii grassi della selvaggina, venuto il tempo di piantar i denti nelle carni ancor vive e palpitanti degli animali feriti, e sfogar l’istinto feroce assaporando tra le fauci il sangue caldo e fumante, cogli occhi chiusi ed il corpo accosciato sotto i ceffoni ed i calci largiti dai padroni troppo frettolosi di ritirar la preda. Un lampo abbagliante seguito immediatamente da fortissimo tuono, ci arrestò sulla soglia; i goccioloni caddero larghi e violenti, si fecero fitti, i lampi ed i rombi si succedettero, e così cominciò un bell’acquazzone con tutti i sintomi di durata più dichiarati. Rinunzio a descrivere l’ira di Mario. — Io guardavo alla finestra volendo anche persuadere me, mentre cercavo persuadere lui: — Non può durare, caro mio un temporale, più è violento meno dura; fra mezz’ora, un’ora al più, saremo fuori. L’acquazzone prolungandosi diminuì di violenza, si cambiò in una pioggia fitta, cheta, perfettamente verticale. Il cielo si rischiarò solo quanto bastava per provare che il giorno era venuto, vestì una tinta unita color del piombo e parve disporsi a restar così tutta la giornata. Salii alla camera gialla. Volevo rivedere i due ritratti che si volevano tanto bene. Due fisonomie animate e pensanti, piene di rilievo e d’espressione mi si disegnavano nella fantasia; i loro lineamenti si spiegavano, si illuminavano a vicenda, il sogno m’aveva lasciata quasi l’impressione d’un fatto reale. Presi da una mano il ritratto grande, nell’altra il piccolo e scesi. Mario saliva alla galleria per esaminar l’orizzonte. Veniva su svogliato, dondolandosi ad ogni scalino, aveva le ciglia alte, inarcate, teneva in mano un tozzo di pane, e vi mordeva tanto per sfogarsi, quanto per far colazione. — E così, disse fermandosi a guardar quel che portavo, non ti resta a far di meglio che turbare il riposo ai miei avi? — Tuoi avi? — Sicuro, questo è il padre di mio padre, mio nonno Maurizio. — E questa? Mario mi tolse di mano la miniatura, la guardò, fece un atto di ammirazione e di meraviglia, poi entrò nella camera gialla e andò difilato alla finestra per osservarla in una luce chiara e decisa. — È tua nonna, forse? gli domandai. — Mia nonna no certo, questa signora non l’ho vista mai, non so niente, non so chi sia... Ma, per Dio, è una splendida creatura!... Dove diavolo sei andato a snidarla? — Sono stato indiscreto? — No... perchè forse non l’avrei trovata mai. Allora gli dissi minutamente dove e come aveva scoperto la miniatura. Egli mi ascoltò cogli occhi fissi sul ritratto. Mentre parlavo vedendo che si mangiava cogli occhi quella figurina, provavo un senso strano di gelosia e due o tre volte, stesi le mani quasi cercando ritorgliela. Infine scorgendolo serio ed attento, mi arrischiai a dirgli del sogno. Or bene, non m’interruppe con impazienza, non rise, non l’attribuì come mi aspettavo alle uova sode mangiate coll’insalata, all’essere andato a letto subito dopo cena. Abbozzava probabilmente in quel punto un idillio con quella donna vissuta settant’anni addietro. Andò poi lentamente nell’altra stanza, tornò con un martello ed un chiodo e rimise il ritratto del nonno a sito; quindi scostato, nella parete in faccia, l’orologio sul caminetto, collocò la miniatura di fronte, in modo che i due personaggi si potessero guardare. Aperto infine il cofanetto giapponese fiutò, esaminò il guanto, lesse le note e le massime contenute nel piccolo portafoglio. Ho detto che, oltre alle massime scritte da mano certamente femminile, vi erano alcuni versi di pugno più probabilmente maschile. Mario li osservò attentamente, poi uscito, tornò tosto tenendo fra le mani alcuni fogli manoscritti, confrontò i caratteri delle due scritture e parve soddisfatto di trovarle identiche. — Ecco, mi disse porgendomi quei fogli, qui c’è il romanzo, il protagonista lo conoscevo, poichè ne avevo il ritratto, restava a _chercher la femme_, e tu l’hai trovata. Tu sai, seguitò, che in questi tempi si sono rinvenute, inventate, pubblicate lettere, memorie, note senza fine. La scoperta più o meno vera d’un manoscritto, in cui è narrata per filo e per segno tutta una storia, è un vecchio artificio sul quale non abbiamo più molte illusioni; l’abbiamo accettato dai romanzieri e novellieri vecchi, l’accettiamo dai moderni, l’accetteremo, non potendone fare a meno, dai futuri. Eppure, eccoti qui alcuni fogli, che nessuno certo si divertì ad inventare ed a cacciar poi nel vecchio baule dove li ho trovati io. L’anno scorso, quando in una dolorosa circostanza ho dovuto mettere mano al baule tarlato, ai sacchi sdrusciti delle vecchie carte di famiglia, e frugar a fondo nei testamenti, negli atti di lite, nei vecchi titoli di proprietà, questi fogli sbucarono fuori all’improvviso, pagine chiare e colorite, perdute fra i documenti serii e tediosi, come fiori in un sacco di patate. Il carattere è quello di mio nonno Maurizio, l’ho confrontato con altri documenti che di lui mi rimangono. Come vedi sono fogli staccati, diversi di dimensione e di colore, e contengono la storia un po’ sconnessa, d’una sua violentissima passione per una donna che gli involò il cuore per modo che non lo riebbe mai più. Nessuna data, nessuna cifra, salvo nell’ultimo, nel quale il carattere è come invecchiato, e si capisce scritto dalla medesima persona ed unito agli altri, molti anni dopo. Vedrai leggendo, al modo scucito, incompleto e disordinato di scrivere che l’autore non era uomo di lettere nè scrittore di professione, ma prendeva la penna così per scrivere senza preoccupazione di forma o di dettato al momento in cui gliene veniva la volontà, o l’idea. In molti punti le lettere tradiscono l’emozione della mano che le ha tracciate; insomma queste sono pagine di vita vissuta, evidentemente non scritte per essere conservate, per formare un così detto giornale, ma buttate là per sfogo, per calmare la febbre del cervello e dell’anima... cominciate, interrotte, riprese, testimonii forse di molti sospiri, di lagrime amare, di lotte tremende tra la ragione ed il cuore. Quanto al personaggio, sono poco informato. So però che egli nacque in Torino nel 1782, da parenti che non erano nobili, appartenevano all’alta borghesia ma frequentavano la nobiltà, ne avevano presi i modi e le opinioni, tantochè furono poi classificati fra i così detti _aristocrates_. Da giovanissimo egli era stato destinato alla carriera delle armi, e tutti i suoi studi erano volti a questo scopo; ma poi uno zio, tornato di non so dove, aveva voluto farlo entrar nel commercio. Così inviato in Isvizzera ed in Francia, prima aveva imparato a volar sul ghiaccio coi pattini, a traversar laghi e fiumi a nuoto; poi s’era perfezionato nell’equitazione, nella scherma e nel tiro alla pistola. Tornato a Torino, non aveva fatto il negoziante, e soldato lo diventò solo più tardi, quando si guadagnò il titolo di barone dell’impero, benchè semplice luogotenente, e la stella della Legion d’Onore. Al tempo in cui probabilmente scrisse i primi di questi fogli, avendo fama di elegante fra gli eleganti, lavorava ad accrescerla e mantenerla, e lo immagino giovane, allegro, matto, disinvolto: in quell’età in cui certi vapori offuscano il cervello, in cui si sogna come felicità unica, intensa, suprema, essere pazzamente amato da una donna altera e bellissima con tutto il raffinamento della eleganza, della passione, della colpa. Quanto al fisico, non so se fosse l’Antinoo coi muscoli d’Ercole, se avesse _le torse d’airain, le poignet de fer, les muscles d’acier_. Mai davanti agli occhi il ritratto a mezza figura, puoi immaginarti tutta la persona: prolungar l’abito azzurro chiaro, veder le gambe fine e nervose serrate nei calzoni color camoscio, ed i piedi aristocratici da _ci-devant_, finamente calzati da stivali neri a ghiandina d’oro. Oltre al ritratto, ci sono io suo discendente diretto, guardaci; e formati da questi due documenti umani un ideale poetico quanto vuoi. Ecco quei fogli in tutta la loro integrità: _(Iº)_ . . . . . . . Che non ci sia proprio modo di pigliar sonno stanotte?.... Ho provati tutti i mezzi citati come infallibili: contati i numeri dall’uno al mille, poi ricominciato... Ho cercato di fermar la mente su cose noiose, sul libro di commercio che mi mandò ier sera lo zio... le idee scappano a divertirsi altrove e non riesco a seccarmi tanto da far venir il sonno. Non potendo leggere, voglio provare a scrivere. È una occupazione quasi nuova per me. Scrivere a chi? A nessuno. Scrivere per metter fuori in qualche modo tutto quel trambusto che ho nel cervello stanotte, poichè non ho sonno, non posso leggere, non so che fare, ho bisogno di star solo, di sfogarmi da solo; tantochè se avessi qui un amico, non gli direi quello che penso, lo pregherei di andarsene perchè mi disturberebbe e mi riescirebbe assolutamente importuno. Sento che sfuggirei la più piacevole compagnia per potermi abbandonar liberamente ai miei pensieri. E poi, ho questi bei fogli bianchi sul tavolo, mi sorride l’idea di farci scorrere sopra la penna... di appoggiarne di tanto in tanto il capo piumoso alla fronte, e quando mi par bene imbevuto, bene inzuppato d’idee, lasciar colar giù tutto, i pensieri insieme coll’inchiostro. Se mi annoierò verrà il sonno, nel caso contrario vuol dire che mi divertirò, e non domando di meglio. Anche dodici ore or sono mi annoiavo. Un sole di fuoco nelle vie, e nessuna energia per ritrarmi all’ombra. Visitati tutti gli antiquari senza trovar nulla[1]. Non una forma femminile interessante, nella strada, alle finestre, ai balconi. Nessun dolce pensiero da canticchiare fra i denti... La noia è il gran male della mia vita; talvolta giungo a divertirmi anche solo colle immagini appassionate o bizzarre che nascono nella fantasia; ma oggi no, oggi avevo la mente intorpidita. Se non fossi entrato nel cortile delle diligenze, forse avrei continuato ad annoiarmi fino a sera. In certi giorni tutto è distrazione. Quando mi accade di veder arrivare una di quelle grandi macchine che fanno traballar mobili e vetri con tutto quel fracasso di cavalli, ruote, sonagli, colpi di frusta, mi assale una gran curiosità, un desiderio irrequieto di sapere chi vi sta dentro. Niente poi mi diverte quanto il trambusto della partenza, quando vi assisto come spettatore: i viaggiatori che vanno e vengono, i facchini che smuovono, portano, caricano sacchi, il conduttore, sempre tal quale, col suo berretto di pelliccia, il foglio coi nomi dei passeggieri in mano, rosso come un dindo, affannato a scalmanarsi bestemmiando attorno alle ruote, ai finimenti, ai bagagli male allogati. Che sfilar di tipi. Quante figure curiose. _gotiche_ e strane che non s’incontrano altrove! — Quel tale che oggi andava,... fino, a Vercelli forse,... con un gran canestro di provvigioni, in una tasca una bottiglia, nell’altra una gran pistola che gli tirava il pastrano fino a terra. Quei due poveri giovani cogli occhi fissi e rossi che non potevano nè piangere, nè parlare, nè separarsi... A quante scene da romanzo, da tragedia o da commedia non assisterebbe in un mese chi frequentasse tutti i giorni il cortile della gran posta. Quando arrivò la diligenza di Lione, se m’avessero proposto d’indovinare chi vi era dentro... Elena! Proprio lei, dopo tanti anni, qui in Torino! Ed il caso che mi fa trovare presente all’arrivo, come incaricato di riceverla, di farle gli onori! Così avessi potuto avvicinarmi e parlarle! Come ho presente tutto quello che mi accadde da quel momento fino a ieri sera, quando sono rientrato in casa! Tutti i pensieri di prima, tutte le cose passate, affari, amori, piaceri antecedenti alla giornata di ieri, si fondono ora in una sola circostanza, in una sola persona, in un solo finale,... e non ho più potuto far altro stanotte che riandar colla mente tutti i minuti particolari di quel che mi avvenne, raccontarli, ripeterli, commentarli a me stesso. Ecco perchè ho lo spirito tanto irritato, ecco perchè non mi è possibile dormire. Ricomincio sempre daccapo: rivedo la diligenza che si ferma, le portiere fra le due ruote che si spalancano; incominciano a venir fuori prima le _houppelandes_ ed i _bonnets à poils_ degli ufficiali, poi quell’individuo grasso, col panciotto color fuoco a frangie verdi, il più pacifico fra gli orologiai di ginevra, senza dubbio, poi quel calvo alto, dalla _rédingote_ a sei pellegrine; poi ho visto quella manina finamente inguantata uscir dallo sportello del coupè e posarsi sul braccio dell’uomo già sceso prima e non ho più guardato altro. Saltò a terra svelta e leggiera e non la conobbi, ma mi parve che il cortile, la diligenza, le case, la gente intorno, tutto si illuminasse, come quando il cielo è grigio e scuro, e sbuca fuori all’improvviso un raggio di sole. L’ho riconosciuta poi nella sala dell’amministrazione, allorchè sentendosi guardata, si volse verso di me si fece tutta rossa ed andò a passare il braccio in quello del marito senza rendersi, io credo, ragione dell’atto. Aveva, mi pare, le ciglia un po’ serrate, l’insistenza di quell’individuo quasi nascosto in un angolo scuro, a divorarla cogli occhi, le dovette parere una bella e buona indiscrezione. Ma Dio mio! non mi saziavo di guardarla. Era così bella in quella _douillette_ dall’orlo di pelliccia, vista così di profilo, mentre batteva col piede leggermente il pavimento... aspettando che colui,... il marito, avesse finito coi bagagli. Non m’ero ancor riavuto dalla sorpresa di riconoscerla, ero ancora intento a confermar la scoperta, che già sentivo nel cervello brulicare migliaia di ricordi. Scappavano fuori dagli angoli in cui erano sopiti, svegliandosi tutti ad un tempo come tanti freschi profumi, come avessi odorato un mazzo composto di fiori svariati. E anche adesso, in questo momento... quante cose a cui non ho pensato più! Tutta quella splendida primavera, per esempio, passata nell’Astigiano, alla campagna della cugina Irene, Elena ed io eravamo sempre insieme. Credo abbiamo tutti nel passato cotesti amori di fanciullo, vagiti del cuore che si sveglia, l’alba che precede il sole. Che bei momenti in quelle passeggiate verso sera cogli altri villeggianti; le mamme indietro parlavano delle faccende di casa, e i nonni, i papà e gli zii, si fermavano di tanto in tanto, perduti in lunghi e interminabili discussioni, segnavano colle mazze, linee intricate nella polvere gialla della strada; tanti piani di battaglie. Non capivo nulla di quel che dicevano i grandi; noi, fanciulli e bimbi, ci facevano camminare avanti. Elena ed io serii e composti ci davamo la mano camminando, gli altri strillavano, scorrazzavano nell’erba, entravano nei fossi a pigliar le rane; ricordo i pugni che facevo piovere sul dorso del piccolo Luciano, sgarbato come un carrettiere, quando buttava il fango sulla vestina di lei. Quella veste di mussolina, all’_enfant_, la vedo ancora! Quante memorie, quante memorie! Quando le scrissi: _Cara ti voglio tanto bene e sono il tuo Maurizio_. E posi la lettera nel cavo del melo, in giardino, dicendole d’andarla a prendere e di farmi una risposta. E quando andando a porre nel cavo un bigliettino, Elena fu punta da una vespa nascosta. La sentii piangere, accorsi tutto sconvolto e piansi anch’io, senza accorgermi che le lagrime lavavano via il fango fresco che le applicavo sul ditino per calmare il dolore. E la lettera perduta nel viale, e trovata dal giardiniere che per fortuna non sapeva leggere, e non scoprì la trafila tenebrosa del nostro intrigo. Quanti anelli di perle infilate dati in cambio dei fiori che le portavo, e come era divenuto gonfio il suo libro da messa col fermaglio che non mordeva più, e i fiori che scappavano via da tutte le parti! Come pianse quando ci separammo. Io volevo far l’uomo. Sicuro! Bisognava essere calmi, forti, era questione di tempo, sarei tornato di Svizzera, l’avrei sposata senz’altro. Ed invece!... Un famoso biglietto di _faire part_, a Lione, anni dopo, colla sua brava vignetta: due cuori che ardevano sull’ara, una colomba che vi teneva col becco sospesa sopra una corona, l’arco e la faretra, un cane simbolo di fedeltà ed il motto: _L’Amour nous unit!_ Annunzio di nozze del cittadino Giacomo Miniuti colla cittadina Elena Moreni. Quanti discorsi a quei giorni cogli amici sull’incostanza delle donne, sui loro tradimenti, sulle illusioni perdute per sempre. La sapevo col marito a Parigi... m’ero fatto all’idea di non vederla più, ed oggi, d’un tratto, dopo tanti anni, me la trovo davanti e per tutta una sera il destino ci colloca in presenza l’uno dell’altro, con ostinazione incredibile... e benedetta sia l’ostinazione del destino! Ero persuaso quando la vidi all’angolo della Place Impériale[2] svoltare nella rue des Garde-Enfants[3] e scomparire nel portone dell’Hôtel de la Bonne Femme, che stanca dal viaggio non sarebbe più uscita nella giornata, ed invece, mentre al caffè del Rondeau parlavo cogli amici, eccola, fresca come una rosa, a braccia del marito, entrar nel viale di sinistra[4] e seguire al Po l’onda dei Torinesi, che vanno ogni giorno a vedere, ai lavori del Ponte, i prigionieri spagnuoli che fabbricano la palafitta. Era bella quest’oggi la città; Ella deve averne riportato buona impressione; molte donnine eleganti, nei viali pieni d’ombra, molti bimbi che cercavano scarafaggi, empivano di ghiaia i carretti, facevano galloria nell’erba. Un’allegria di sole meravigliosa sui prati, sulla collina in fondo, enorme mosaico di verdi variati, di seni tranquilli, di ville bianche e splendenti. La vidi ritornar per l’altro viale, rimontar la via di Po, entrar a riposare nel gabinetto letterario di Carlo Bocca, la rividi al ristorante Dufour... al teatro Carignano. È strano il fascino che esercita la donna bella ed onesta anche sui più indiavolati. Stassera si faceva un baccano d’inferno da Dufour. La conversazione era quasi generale; un parlar alto, risate piene e sonore, frastuono di bicchieri, di piatti, di forchette. Quei quattro ufficiali del 7º corazzieri colla loro Volpianina, cominciavano anche a passare il segno. Quando comparve sulla soglia Elena col marito, ecco farsi la calma, l’ordine, la modestia, il silenzio. Mi ricordò la scuola, l’entrata del professore in mezzo al tafferuglio della scolaresca. Li vidi rimaner ambedue come imbarazzati da quel silenzio improvviso. Ella poi si fece di fuoco in volto quando non trovando tavoli liberi in nessuna delle sale, si videro soli ritti fra gente seduta, bersaglio a tutti gli sguardi, nella situazione leggermente umiliante di chi non ha potuto conseguire quel che bramava. Ho fatto presto ad alzarmi ed offrire il mio posto... temevo che qualcuno mi prevenisse. Ella s’inchinò senza guardarmi... e Miniuti: — Merci, monsieur, ecc. ecc...... Me ne andai a seguitar il pranzo col mio vecchio amico dal dorso convesso. Come era elegante stassera; i capelli all’_oiseau royal_, l’abito _bleu céleste_ coi bottoni _histoire naturelle_, il cappello all’_écuyère_, cravatta _en couleur_, occhialino, brillante nel dito, e catenelle lunghe fino alle ginocchia. Bel tipo costui. Pensavo ai tipi che si incontrano nel cortile delle diligenze; anche da Dufour, bisogna dire, ve n’è ogni sera bella collezione. Quel signore, per esempio, seduto sempre al tavolo d’angolo in fondo, vestito come sotto Luigi XVI, coll’abito di _bourracan_, calzoni corti, calze _chinés_, scarpe a fibbia, e capelli incipriati. Egli è stato in tutte le grandi capitali, conosce tutti i gran personaggi, non nomina mai Roma senza far di cappello, ed ha scritto un libro misterioso sulle rivoluzioni del Kamtschatka, pieno, a quel che si dice, d’allusioni finissime alla nostra situazione politica. Quell’altro che ci saluta tutte le sere, perchè il domani parte in missione diplomatica e la sera dopo è ancor là, fresco al suo tavolo, colla sua _julienne_ davanti e la metà di pollo al riso. E il conte S...[5] non si lascia scappar proprio una parola. Ma come originalità il mio gobbetto la vince su tutti[6], sempre cerimonioso fino all’esagerazione. Stassera, sedendomi, gli ho pestato maledettamente un piede. Sono certo d’avergli dato un dolore atroce: Niente, prego!... colpa mia, tutta mia, ho l’orribile abitudine di cacciar troppo avanti i piedi. Poi subito un aneddoto di circostanza: La signorina Alessi, che, danzando davanti a Napoleone, nel ballo dato al Teatro dell’Opera, in occasione della sua venuta a Torino, posò un piede su quello dell’Imperatore: _Eh! mademoiselle_, sclamò l’imperatore, _vous me faites reculer_. E lei di scatto: _C’est donc la première fois._ Come sa raccontar con brio ed ascoltar con garbo. Approva col capo, leva gli occhi al cielo, prende una faccia grave, ridente, addolorata a seconda del racconto... poi a discorso finito, se è una signora che ha parlato, le bacia la mano, se è un uomo, glie la stringe calorosamente. Conosce tutto il mondo. L’ho fatto parlare su Miniuti, sul marito di Elena. Lo ha conosciuto, anni addietro, prima del matrimonio, lo ha praticato pochissimo, tuttavia, se a Parigi non s’è cambiato, può assicurare che è uomo educato, ma freddo ed impassibile. Geloso poi senza fallo. — Non di quelli certo che scherzano col pericolo e godono delle adorazioni pioventi sulle mani, sul collo, sul seno, della loro moglie quando la conducono in società. Lo crede insensibile e violento, uno di quei certi caratteri pieni di contraddizioni, capace di battersi con chi sparla d’un loro amico, e non trovar poi nè una parola di compianto, nè una consolazione per questo medesimo amico caduto nella sventura. Aggressivo e duellista ha un famoso colpo dritto, rapido come una pistolettata, nessuno con lui arriva alla parata. A Torino, aveva riputazione di un vero _bretteur_, anzi si diceva scherzando di lui che aveva avuti tre duelli in un giorno, il primo con un francese che l’aveva guardato in faccia, l’altro con un russo che l’aveva guardato nel dorso, il terzo con un inglese che non l’aveva guardato! E la rividi ancora al Teatro Carignano, alla: _Donna soldato_. Ecco alla metà del 1º atto aprirsi l’uscio del palco, proprio di faccia al mio e comparir lei ancora. Sciolta dallo sciallo di cachemire; elegantissima nella sua semplice veste di _levantine_ azzurrina, coi capelli rilevati dal pettine di corallo, ed il suo solito giro di perle al collo... eccola posare, con grazia tutta sua, il braccio tondo e bianchissimo sul davanzale di velluto rosso del palco e rimaner subito tutta attenta, assorta dallo spettacolo. Non ci fu modo di trovarne gli occhi in tutta la sera; ho maledetta anche la musica di Pavesi e la voce della Gafforini! Si fermerà Essa in Torino? Lunedì ballo dal Principe, la vedrò?... potrò parlarle? _(2º)_ Rientrando dopo tante ore passate in mezzo al frastuono della festa, sento nel silenzio profondo di questa camera i palpiti frequenti del cuore, il sangue che scorre nelle arterie, tutto il congegno, il meccanismo della vita. Nello stesso tempo mi vibra ancora nelle orecchie il ritmo insistente della musica, ed ho negli occhi tante immagini, in varia situazione, in momenti diversi, d’una sola persona, circonfusa dall’atmosfera calda della gran sala piena di raggi e di riflessi. Provo un sentimento d’oppressione, d’ebbrezza al cervello,... lo direi un magnetismo indefinibile e snervante. Sono triste ed affaticato, e penso che se finora ai balli mi ero in realtà raramente divertito, stanotte ho proprio sofferto. Mi struggevo di vederla,... poi quando m’apparve tanto bella, là nel cerchio delle signore, avrei voluto non vi fosse venuta. Tutti quegli uomini, ritti in piedi dietro le dame, col cappello sotto al braccio, lo spadino al fianco, tanti bruchi in un’assemblea di farfalle,.. mi pareva guardassero tutti lei,... parlassero tutti di lei, che colla sua veste color ortensia, i capelli alla greca e la croce alla Jeannette sul petto, era la più bella. La più semplicemente abbigliata, ma la più singolarmente bella! Non saprei, come esprimermi, ma mi pare che quella forza occulta e misteriosa dell’anima che imprime alle forme, ai movimenti del corpo, un carattere speciale, che plasma e colorisce tutto quello che entra nel circolo della nostra vita, debba agire, appiccicarsi anche alle cose materiali, come il profumo all’ampolla che lo contiene; le vesti per conseguenza devono, più d’ogni altra cosa, subirne l’impronta e diventare come lo specchio dell’indole, dello spirito, delle abitudini di chi le porta. Invece no, l’abbigliamento d’Elena è stranamente e meravigliosamente impersonale. In questi tempi nei quali una donna non può far un passo senza rivelar tutte le grazie della sua persona, la sua bellezza basta a se stessa. Ella respinge ogni inutile ornamento, veste colla massima semplicità, tantochè il suo vestire si direbbe dover essere quello delle donne di tutti i tempi, di tutti i paesi, il vestimento femminino, logico ed umano per eccellenza, in armonia con tutte le bellezze dell’arte statuaria. Copiata così da un artista non ne risulterebbe un ritratto, ma la creazione d’un tipo. Nelle altre dame invece, che sfarzo di vesti di seta, di raso, di mussolina, guernite di nastri smaglianti, che busti a colori vivacissimi, largamente aperti sul petto, orlati di merletti, passamani, piuma di cigno! Che profusione di larghe cinture a striscioline d’oro, a laminette d’argento! Che esuberanza di fermagli e spilloni d’oro, d’orecchini in brillanti, di braccialetti, di pettini, d’ornamenti ricchissimi! Non ricordo d’aver assistito ad altro ballo in cui lo spettacolo fosse più completo, così meraviglioso, così affascinante. Tutta quella luce che pioveva sulle capigliature bionde, brune, nerissime, disposte alla greca, alla Cornelia, all’olandese... tutte quelle testine che s’inchinavano le une verso le altre, che scattavano a destra e a sinistra con parole pronunziate sottovoce, con sussulti leggerissimi di riso... tutte quelle spalle che ondeggiavano, quelle braccia tonde, quelle piccole mani continuamente occupate a battere una piega gualcita, a fissare una ciocca ribelle, a ristabilire un fermaglio spostato, un pettine di traverso... E tutti quei piedini in giro come una ghirlanda di fiori sul pavimento lucidissimo e pieno di riflessi, quella varietà di scarpine rosee, bianche, dorate, ricamate, brillantissime, allacciate con nastri, serrate con fibbie, legate alle gambe con cordoncini come i coturni delle statue antiche... Speravo d’avvicinarmi ad Elena subito dopo l’arrivo del Principe[7], ed appena egli avesse aperto il ballo. Egli entrò alle nove come al solito... e non parlai ad Elena che dopo le due. Quanto lavoro, quanta fatica per arrivare fino a lei! E come sono noiosi gli amici in certe circostanze! Ferdinando Balbo, e Luigi Ornato, che volevano persuadermi ad entrar nell’Accademia Letteraria dei Concordi[8] mi avrebbero chiamato l’Indorato!.. Li ringraziai di cuore. E M.me Constant, che mi fermò per annunziarmi l’arrivo da Parigi d’un gruppo in cotto di porcellana: _Une Patrouille d’amours_... mi trattenne per descrivermelo,.. a me, secondo lei tanto intelligente di cose d’arte e mi aspetta per farmelo ammirare domani, dalle tre alle cinque a casa sua! Domani, cioè oggi, dalle tre alle cinque farò invece di vedere Elena alla passeggiata. Le giunsi vicino, proprio mentre entrava a far parte d’una contraddanza. Poi il ballerino la lasciò alla parte opposta del salone e bisognava ricominciare a scivolar tra i gruppi, prima una spalla e poi l’altra, pianamente, con garbo;.. mentre avrei voluto rovesciarli tutti o saltarli a piè pari! Poi venne la _gavotte_, la _monferrina_... persino l’antica _périgourdine_, dei tempi di mia nonna, le hanno fatto ballare stanotte! Però tanto mi aiutai, che anche la fortuna, mi aiutò! M’ingegnai di essere vicino alla porta d’uno dei saloni quadrati quando s’aprì per la cena, e potei entrar subito dietro lei e trovarmi in piedi dietro la sedia. Quando l’ebbi davanti, e sentii la fragranza sottile dei suoi capelli, scorsi l’orecchio piccino, roseo, delicato, le spalle non magre, non opulenti, bellissime, le braccia bianche, tonde, nascenti nella trasparenza finissima delle trine,... provai come una vertigine, avrei voluto posar le labbra sulla nuca bianchissima e... morire. Come la sentivano bella anche le signore vicine come la esaminavano, sott’occhio! Teneva lo sguardo fisso sulla tavola, pareva abbagliata da tutto quel scintillar di cristalli, di vasi d’argento.... e ne era forse col pensiero molto lontana. Non avrei osato parlarle per certo, se non l’avessi veduta allungar lentamente la mano verso la gran coppa delle fragole e portar alle labbra così rosse, un frutto rossissimo. Sentii un ricordo sbocciar come un profumo nel cervello, un’ondata calda di sangue avvolgermi il cuore. Mi rividi solo con lei nei boschi di Costaombrata, ambedue fanciulli. Eravamo arrampicati sul fianco della collina, un usignuolo cantava, ed Elena voleva vederlo ad ogni costo:... non ne aveva veduti mai degli usignuoli; erano piccoli augellini, non è vero?... color di rosa? azzurri? gialli forse come i canarini? Si sentivano diminuire le voci dei nostri parenti che camminavano nella valle e si saliva pian piano, i piedi nell’erba, passando leggieri tra le fronde; ma ad un punto ecco un tappeto di foglioline compatte, tutto smaltato di globetti rossi. Non si pensò più all’usignuolo... ella cominciò a spigolare... io cercavo le più mature, le più rosse,... e godevo tanto nel vederle sparir tra i bianchi dentini! Se n’erano mangiate delle fragole quel giorno! Ho cercata la frase un’eternità, poi mi sono chinato e le ho detto: Non erano così belle, signora, le fragole di Costaombrata? E lei con voce ferma, tranquilla, senza voltar il capo: No, non così belle,... ma avevano maggior profumo. Dunque anche lei si ricordava!... Che gioia, intensa, squisita, trepidante,.. un istante che fu un secolo di voluttà. Poi volevo proseguire, dire tante cose: Sapete ancora il mio nome? Vi ricordate la nostra buona amicizia? Devo star lontano o vicino? Siete per me ritrovata o perduta per sempre? E non potevo parlare,... il cuore martellava, guardavo l’orecchio di lei che si era fatto più roseo, il seno sollevato da un palpitare forte e frequente. Poi apparve tra la folla un abito color pulce... un bavero violetto, due occhi grigi, freddi, penetranti. Quando penso che ora ella è moglie di colui, un rivale legittimo, munito d’ogni diritto e d’ogni autorità... e se mi accadesse d’amarla, una gelosia di tutti i giorni, di tutte le ore, di tutti i minuti... _(3º)_ Ecco, questo foglio vorrei porlo sotto i suoi occhi, se per un miracolo potessi farlo pervenire nelle sue mani. Ero ben persuaso che le grandi felicità sono procurate dall’amore, e lo cercavo in tutte le avventure possibili, ma ero scettico, volevo le prove autentiche della sensazione;... ridevo dell’amor puro, dell’amor platonico. Ora più nulla cangierà l’idea che ha colpito l’anima: fortunata o sventurata questa passione che aumenta ad ogni ora, che mi domina, riempirà tutto il mio avvenire. Ilo voluto nei giorni addietro ancora, rigettarmi nella vita... ho trovato ogni piacere svanito; da quel lato l’orizzonte è chiuso. Poi ho voluto analizzare le nuove sensazioni, ho spiato me stesso, frugato a fondo nel cuore, esasperato di non trovarmi più quello di prima. Ho combattuto, mi sono avvinghiato colla passione invadente, cercando vincerla, tenerla palpitante sotto al ginocchio, dominarla e non venirne dominato... ma i miei nervi sono rimasti scossi e vibranti, il cervello si è infiammato, ogni sensibilità esacerbata, ed ecco a furia arrivar le insonnie, le inquietudini allucinate e bizzarre, i capricci morbosi, le pazze energie, le prostrazioni snervate, le mille sofferenze indefinibili. Ella vede la mia vita di tutti i giorni... al mattino quando passeggio in Piazza Imperiale, quando li seguo alla lontana nella via Nuova, quando mi fermo sull’angolo di via Santa Teresa ad aspettare che abbiano presa la loro tazza di cioccolatte nella bottega d’Imoda Dalmazzo; sa, ne son certo, che ritorno dietro loro, mentre il marito l’accompagna all’albergo. Non mi vede mancar mai al dopo pranzo, alla passeggiata sotto gli Olmi della Cittadella, al viale dei Platani, al giardino Imperiale. Alla sera al teatro Carignano, al Sutera o al D’Angennes! Ma ella non può indovinare la febbre incessante del cuore, questo intenerimento ostinato che mi rende impossibile ogni occupazione. Ella non può sapere che ho perduta ogni speranza di vivere tranquillo oramai, che passo i giorni coll’orecchio e l’occhio all’erta, che vorrei sapere, vedere, scoprir tante cose... Non sa come le mie notti scorrano agitate, nel dubbio, nell’inquietudine, occupato continuamente a rendermi miserabile, ed a persuadermi d’esser tale. La seguo umile, triste, rassegnato da tanti giorni, ed in tutto questo tempo, mi parve d’essere stato due o tre volte da lei salutato con un sorriso impercettibile... Se è un’illusione, il Cielo me la conservi! L’altra sera a teatro la vidi contrarre le ciglia, forse m’era spinto troppo avanti per vederla. Mi sentivo morir dalla smania e volevo trovarne lo sguardo. Eppure darei la vita piuttostochè venirle a fastidio. A certe ore mi pare d’avere un istrumento di tortura nel cervello... Se potessi riposare, di tanto in tanto e cessar di pensare! Elena è con me dovunque io vada. Le parlo a lungo, combinando col pensiero mille incidenti, mille incontri, e lavoro... lavoro continuamente a fabbricar chimere, che alimento, accarezzo; che poi di scatto si rivoltano e mi straziano l’anima con unghie di ferro. _(4º)_ Sono due giorni che non la vedo. Così volessero precipitare queste poche ore che mi separano dall’alba! Fu il demonio che mi fece entrar da Dufour l’altra sera, che mi suggerì d’immischiarmi nella questione insorta fra quei capi scarichi che cenavano vicino alla mia tavola. Ma nello stato d’animo in cui sono, compiango tutti coloro che amano e che soffrono... E il povero Giorgio soffriva davvero ai motteggi dei compagni sul suo amore per la contessa. Detesto tutti coloro che scherzano sui sentimenti altrui, quando questi siano serii e sinceri. Pochi individui singolarmente privilegiati o profondamente imbecilli, possono vantarsi di non aver attraversate mai certe crisi. Quel rosso dal mal pelo, maresciallo d’alloggio della guardia del Principe, appartiene certo alla categoria degli imbecilli malvagi... fu lui che con pessimi scherzi avvelenò la questione. Sentivo una gran smania di gettargli il mio piatto in faccia, ancorchè la cosa non mi riguardasse,.... mi sarebbe toccata così la prima parte nella tragedia, invece m’ebbi solo la seconda. Intanto ho provato ancora una volta l’atroce emozione di veder un uomo che respira, pensa, agisce nella pienezza delle facoltà fisiche e morali e che può fra un momento non essere più che un cadavere. La ferita di Giorgio non è grave.... ma non potevo abbandonarlo nelle mani dei suoi che avevano perduta affatto la testa; più ci penso, più sento d’aver agito bene continuandogli la mia assistenza anche nella notte... Stamane, quando lasciato il letto del ferito, invece di ritrarmi a casa, corsi alla Place Impériale, proprio mi pareva di ritornare da un lungo viaggio. Era ancor così presto. Ma a casa, già, non sarei rimasto. Non sapevo che il sole che si alzava lassù sopra le colline, mi riportava ancora una brutta giornata. Per due lunghe ore, ho spinto il tempo innanzi, come se avessi potuto fargli violenza. L’ho rotto, sminuzzato in piccoli periodi, analizzato per farlo riuscire più breve; così ho passeggiato or lentamente, or concitato, ho letto i bandi, gli avvisi, appiccicati sui canti, ascoltato i discorsi di chi passava, studiato il cielo polveroso, le montagne violacee, annebbiate, le pozzanghere lasciate dal temporale di ieri che seccavano al sole, osservate le rondini attorno al castello, luccicanti sotto i raggi, il loro numero che pareva duplicato dalle ombre guizzanti sulle muraglie... Poi i loro trilli festosi m’infastidirono. Sentii arrivare quel tedio che dà sensazione come d’un peso che poggia sulla nuca e preme ed opprime. Poi l’inquietudine mi morse al cuore ed andai rapidamente all’angolo della piccola via. Le finestre da loro occupate nell’albergo erano spalancate, vuote, guardavano come occhi morti... Erano già usciti dunque? Mi allontanai per via Nuova, girai nella via Santa Teresa, tornai sui miei passi, ripassai sotto le finestre... Stassera, alla passeggiata l’aria era tepida, impregnata dell’odore del fieno tagliato di fresco ed ammucchiato nei prati vicini. Una sera stupenda per andare in giro sotto gli alberi. Perchè dunque non è venuta? Eppure l’ho cercata tanto fra la gente a piedi,... ho visto sfilar tutte le carrozze... finchè migliaia di punti luminosi mi danzarono davanti agli occhi e mi offuscarono la vista. Eppoi il cuore che legge, sente, indovina, mi gridò tutto il giorno nei suoi battiti furiosi che mi rimbalzavano nelle orecchie, che ella non c’era, non c’era, non c’era... ch’era inutile cercarla. Così volessero precipitare queste ore ed appena sarà giorno mi presenterò senz’altro all’albergo. _(5º)_ Ecco quindici orribili giorni... la Dio mercè sono passati!... Rivedrò Elena. Quando all’albergo mi sentii rispondere: — Partiti... non so come ebbi la forza di domandar ancora: per dove? — Per la campagna... e fu tutto, nessuno sapeva di più. Non so che cosa io abbia fatto quel giorno, ma al mattino di poi, allo svegliarmi dopo una notte di sonno febbrile, quando sentii le idee schiarirsi e divenir nette, pensando ch’ella non era più in città e che non sapevo dove rintracciarla, mi sentii come una gran voglia di urlare, ricaddi sul letto mordendo l’origliere... dopo mi sentii tutto intronato come avessi toccata una sassata al capo... e mi si formò in gola un gruppo maledetto che non si sciolse più. Mi aggirai, sfuggendo quanti conoscevo, per le vie, nei viali, nei giardini, a capo chino, quasi cercando un’orma che pur sapevo di non trovare... provando ad ogni passo come in certe condizioni dell’animo, un sito, un atto, una parola, che so io, il mutar d’un raggio, d’una nube, l’odor d’un fiore... possano risvegliar nella memoria la reminiscenza viva di giorni che furono, la soavità d’un incontro, d’uno sguardo, la speranza d’un amor lungo, lo spasimo acuto d’una perdita dolorosa, un mondo d’impressioni violente, lancinanti, tristi da morirne. Mi sentii tante volte rimescolar il sangue all’apparir d’una forma lontana... che inseguivo affrettando il passo, urtando i passanti, come un pazzo od un ubbriaco, ed avvicinandola, nell’atto di raggiungerla mi avvedevo, sentivo che non era lei, eppur mi piantavo davanti a guardar stralunato quella figura sconosciuta. Nelle ore terribili della sera... quando il cuore si turba col diminuir della luce, si rattrista e si affonda nel pelago dei rimpianti, dei lunghi struggimenti dolorosi, rifugge davanti all’incertezza dell’avvenire, e si abbandona ai ricordi, troppo ineffabilmente dolci, o troppo in quell’ora atrocemente pungenti, mi parve più volte d’aver a perdere la ragione. Un mattino mi svegliai col desiderio imperioso, cocente, irresistibile di rivederla, invasato dalla frenesia del movimento, e subito mi gettai alla campagna, percorrendo a piedi, a cavallo, in vettura, le ville, ed i villaggi dei dintorni, senza ordine, senza norma, senza precauzione. Rientravo affranto, colle membra rotte, coll’impazienza del domani sconosciuto, e ripartivo all’alba quasi senza riposare, parendomi ora che se avessi dovuto rimaner un giorno neghittoso, sarei morto od impazzito. Finalmente... ora lo so dove essa è andata!... Ho bisogno di ripetermelo per respirare... per persuadermi che la rivedrò ad ogni costo, contro qualunque pericolo. Stamane non avrei saputo più dove andare, avevo percorsa a cavallo, via Tilsitt...[9], via d’Arcole[10], la via San Filippo a capo chino senza saper prendere una decisione. Passando davanti alla chiesa avevo sentita una spina acutissima al cuore; in un momento d’angoscia disperata m’ero ricordato di tutte le domeniche di questa primavera, quando alla messa di mezzogiorno, in piedi vicino alla porta, sentivo, avvertito da un brivido, ch’ella s’avvicinava; indovinavo, senza voltarmi, il momento preciso in cui sollevata la tenda, entrava, e passandomi vicina con un lieve fruscio andava a prender posto nella serie dei banchi a destra. Stamane l’interno della chiesa era buio come un sepolcro, il vano della porta nel quale vedevo apparire all’uscita, tra le faccie volgari, indifferenti o sconosciute, il suo volto adorato, era freddo e deserto. Sui gradini ch’ella sfiorava col piede stava raggomitolata una cenciosa vecchiaccia. Esitai un momento, quasi mi sentivo spinto a por piede a terra ed entrarvi, trascinato da un’amarissima avidità di soffrire. In piazza Napoleone[11] non sapevo dove rivolgermi, il cavallo attraversava la piazza a caso, abbandonato a sè... giunto nel mezzo, raccolsi le redini e lo fermai per non urtar di traverso un calesse che andava a precipizio. Non so perchè in quel lampo guardai sotto il mantice. Fu come un tuffo nel sangue!... V’era Miniuti. L’ho lasciato entrar nella Rue Pauline[12] poi mi son mosso, ho piantato gli occhi sul mantice, sulla cassa verde e non li ho distolti più. Avevo il faro che mi guidava al porto. _(6º)_ Eccomi presso al nido in cui ella è nascosta. Eccomi a due miglia, nel villaggio più vicino a quello abitato da lei... sotto il medesimo cielo... nel medesimo ambiente, s’ella si affaccia in questo momento alla finestra, deve vedere, come la vedo io, quella nuvola d’oro così bizzarramente rotta, travagliata dal vento....... Durante il temporale di ieri sera, quando rimbombò quel terribile scoppio di tuono, pensai che anche lei doveva averlo udito. L’aria mi pare piena di profumi soavi e delicati; mi sorprendo di tanto in tanto ad aspirarla avidamente cogli occhi socchiusi, come se avesse lambite le labbra di Elena. Fanciullaggini coteste, che mi fanno così bene!... Dovendo star nascosto di giorno, non potendo fissare il pensiero sui libri, scriverò. Non ricordo come mi sia venuta l’idea di scrivere... non mi raccapezzo con che scopo; comunque sia, e stata un’idea buona che mi aiuterà a far passare i giorni, ed attendere con calma le sere, e sopratutto gioverà forse a calmar la fantasia irritata del pensar sempre ad una cosa sola. Stassera poi mi avvicinerò arditamente a lei, quanto mi sarà possibile. Oggi ho percorso la strada che da Polonghera mette a Murello, per impararla bene. La strada è orribile, stretta, tortuosa, piena di rigagnoli, di pozzanghere, corre per lunghi tratti fra i boschi che sorgono sulle rive della Varaita. Fin dove può spingersi lo sguardo, il terreno è paludoso, pieno di melma, di giunchi alti e flessuosi, di cannuccie sottili a foglie taglienti, di alte erbe acquatiche affilate come lame di Toledo; ne spuntano fuori i tronchi gibbosi e contorti dei salici dalle grandi chiome grigie e scapigliate: un paradiso per le rane, le gallinelle, le anitre, i beccaccini. Nei tratti ombrosi della strada il fango è perenne come la neve sulle alte cime. _(7º)_ Che strana vita è la mia. Tutto l’avvenire è avvolto nella nebbia, nulla di certo, di positivo; vorrei sapere, movermi, agire, ed invece devo aspettare. Le facoltà attive, l’energia, il coraggio, mi sono inutili, bisogna che io abbia _pazienza_, una virtù questa che ho sempre sdegnato conoscere. Mi freno pensando alla mutabilità delle cose. S’ella sapesse che io son qui durante queste tremende giornate di luglio, soffocanti, monotone, noiosissime... Ogni mattina prima che albeggi, l’ostiere, raccolti gli stivali davanti alla mia porta, rientra in camera, e sento attraverso l’assito che incomincia, nettandoli, una lunga diatriba colla moglie... contro il _muscadin_, che sta tutto il giorno a legicchiar sul letto, per darsi il gusto d’andare all’ora dei pipistrelli a scambiettare nel fango Dio sa dove! — Meno male che paga — è la sua conclusione. Lo sento quando nella scuderia attacca l’asino e parte col carretto per Racconigi, dove va a vendere i legumi e far le provviste. Poi la sua donna si alza, veste i piccini che precipitano la scala con un gran martellar di zoccoli, e dopo un momento, ecco nel cortile le voci ingrate delle oche, delle anitre e delle galline, cui viene aperto l’uscio del pollaio. Nel pomeriggio, l’afa ed il silenzio, rotto a tratti dal ronzar pesante delle mosche, dal chiocciar d’un pollo, dalla voce rauca d’un carrettiere, che fermato il carro, entra sotto, nella sala a pian terreno, a domandar del vino. Ma quando il sole è tramontato, quando le donne smettono di filar sulla soglia ed entrano in casa, e gli uomini, tornati dai campi, accendono le pipe che brillano come lucciole nell’aria scura; esco per una porticella di dietro dell’osteria, e giunto fuor del paese, percorro rapidamente le due miglia che mi separano da Murello, giro intorno al villaggio penetrando fra le siepi degli orti, di soppiatto come un malvivente, finchè trovato un certo muro di cinta, una ben nota scalcinatura fra i mattoni, v’introduco il piede, mi aggrappo colla sinistra alla cresta del muro, e d’un balzo eccomi al di là, sull’erba del giardino. Ed allora, coll’orecchio teso, la pupilla dilatata, tutti i sensi eccitati dalla brama di vedere, striscio sotto gli alberi, camminando sull’erba con cautele infinite, fino al punto nel quale m’appare la casa. Carpone nell’erba molle, colla fronte ardente tuffata nelle foglie stillanti rugiada, coi grilli che trillano vicinissimi e le lucciole che mi danzano sul capo, pianto gli occhi su quelle muraglie, seguito le striscie di luce che passano dietro i vetri, che penetrano fra le assicelle delle persiane, raccolgo avidamente ogni lieve rumor di passo, ogni soffio percettibile di voce, ogni strepito indeciso, ogni brivido di vita, che trapelando fra le salde pareti, pervenga fino a me: È là... a pochi passi, potrebbe udir la mia voce!... Fermo nella strozza un grido che proromperebbe violentissimo, e m’arriva al petto uno stringimento nervoso, amaro come un singulto... _(8º)_ Stassera ho dovuto tornare indietro... a quest’ora sarei nel giardino, ne vedrei l’ombra sulle tende bianche della finestra e ne udrei forse come ieri sera, per un momento, la voce; se stassera mi fossi abbandonato al primo slancio mi sarei senza dubbio perduto. Or dunque Miniuti s’allontana ogni tanto dalla sua villa? Vedendo due lumi brillare nell’oscurità della strada, apparire e sparire fra gli alberi, indovinai ch’era la sua vettura. Tornava, ne son certo, da Torino, come la prima volta che l’ho incontrato in Piazza Napoleone. Saltai nel campo per non essere scoperto, e lo vidi passare, col domestico a cassetta, che guidava. Non lo vedo mai senza emozione, provo nel guardarlo come un piacer pungente, un brivido furioso che mi serpeggia nelle vene, due sentimenti opposti che si intrecciano, si accavallano nei labirinti del cuore: egli mi interessa perchè le vive vicino, perchè la vede, le parla, è compreso nel circolo della sua vita... e nello stesso tempo... Ritornato alla strada, seguivo coll’occhio l’andatura a sbalzi di quel legno, che s’inchinava or sull’uno or sull’altro fianco, sprofondando nelle rotaie fangose. E sparita poi ad un punto la luna nelle masse opache dei nuvoloni, non discernevo più che i lumi agitati, tremolanti, lontani,... li accompagnavo coll’anima, sapendo dove si sarebbero fermati... uno sciame d’idee strane mi volteggiava pel cervello... Di scatto li vidi dar un balzo improvviso; l’uno sparir verso terra, l’altro sollevato in alto, immobile, illuminar di sotto in su le fronde vicine. Udii tosto alcune parole tronche di lamento, d’imprecazione, poi una voce elevarsi alta e chieder soccorso. La vettura era ribaltata. (Che io abbia per Miniuti il malocchio?). Mi lanciai a quella volta con ottime intenzioni, poi m’arrestai... Perdio!... Come avrei giustificato la mia presenza a quell’ora, su quella strada? Eppure mi sapeva male lasciar così due cristiani a guazzar come tinche nel pantano, mi pareva sentirli divincolare e far forza per uscir di sotto al legno. Mentre esitavo tuttavia, udii rispondere dalla cascina a destra, nei campi, poi vidi dei lumi che si agitavano ed alcuni contadini uscir correndo sulla strada, con sbarre e con funi. Mi avvicinai quanto fu possibile senza essere scoperto. Volevo almeno sapere se Miniuti s’era o no rotto il collo. La vettura, non troppo fracassata, fu presto rimessa sulla strada. Miniuti ed il servo alla luce delle lanterne, luccicavano, il tuffo l’avevano fatto senza dubbio nell’acqua del fossato, ma parevano goder l’uso completo e libero delle loro membra. Il servo era già a cassetta, i contadini si allontanavano, quando lo vidi frugar sotto i cuscini, richiamarli indietro e cercar a lungo con loro tra le ruote, in terra, nel fossato. Che cosa può aver egli perduto d’importante? _(9º)_ Guardavo il sole che scendeva verso i monti lento, troppo lento, — avrei voluto all’opposto di Giosuè, affrettarne il tramonto. — L’oste bussò alla mia porta e mi annunziò che c’era chi voleva parlare col signor ingegnere (non so perchè mi si chiami così). Rimasi molto perplesso e sconcertato... non sapevo chi potesse cercar di me... Entrò un villanello esile, pallido... età: dodici, come diciotto anni, sucido, seminudo. Un cane fulvo, dal muso di volpe come il padrone, entrò con lui e si mise a fiutar dappertutto. — Ebbene che cosa vuoi? Si guardò intorno, chiuse l’uscio, cercò in seno e tirò fuori una pistola lorda di fango e me la porse. È montata in argento cesellato, calcio lavorato a squame molto ripiegato, fabbrica francese. È un’arma fina, di prezzo, eccellente senza dubbio, e deve avere una compagna. — Dove l’hai tolta? — gli domandai subito. — L’ho trovata, non tolta... — rispose il monello, e prese subito un tono piagnucoloso — trovata, proprio trovata andando al pascolo. — Così, si trovano delle pistole da queste parti, andando al pascolo? — Non sempre, nossignore, anzi mai, ma questa che è qui l’ho proprio raccolta colle mie mani. Ero giù da quella parte di là, a Robella alta, in faccia alla cascina e mentre le bestie mangiavano, cercavo i gamberi nel rio, sotto le pietre... poi sono entrato sotto al ponte che è in traverso alla strada... Era scuro, scuro,... ho pensato di levar via un asse già smosso per aver luce lì sotto, ed ho visto la pistola. E tutto questo poi vero, come è vero che c’è la Madonna. — E perchè non l’hai restituita subito a chi l’ha perduta? — So io chi l’abbia perduta? — Perchè non hai fatte ricerche, prese informazioni, in questo e nei villaggi vicini? a Murello per esempio? — Non vado a Murello... Hanno fatto le sassate domenica con noi di Polonghera... e adesso stiamo tutti all’erta,... loro come noi, se qualcuno passa il fosso di Robella, che è il confine, badi alle fionde! Lei che è ricco, è _buono_ a comprarla lei la mia pistola, lei se ne intende, sa quanto vale... Ed aspettava, girando tra le mani il berretto e lanciando di sottocchio, sguardi cupidissimi sulla borsa che io avevo estratta. Ghermì la moneta, la chiuse nel pugno, salutò con un rapido cenno del capo, e sparì volando giù per la scala. Avendogli data una moneta d’oro, temeva forse mi fossi sbagliato. Cominciai, rimasto solo, a nettar la canna della pistola dalle chiazze rosse di ruggine che l’appannavano, poi con la pelle d’un guanto presi a fregar gli ornamenti d’argento offuscati dall’umidità. Sulla piastrella del calcio, sono incise due iniziali intrecciate, una _J_ ed un _M_...: Jacques Miniuti;.... ho nelle mani l’oggetto da lui perduto ieri sera. _(10º)_ Finalmente ho trovato il modo di penetrare nell’antro dell’orso. L’idea è certo arrischiata, ma voglio uscire dal mondo dei sogni ed entrar nel campo dell’azione... la mia vita intera è diventata un desiderio sconfinato, potente, insaziabile: vorrei gettare tutta la mia gioventù, la mia forza, la mia intelligenza ai piedi d’Elena per averne un sorriso, una parola, una speranza. Una scintilla mi ha accennata una via; quel povero merciaio entrato stamane nel cortile dell’osteria mi ha innocentemente posto fra le mani un filo, che varrà a guidarmi... forse... L’avevo già fatto venire in camera, l’avevo davanti col bicchiere colmo di vino, e non sapevo ancora come entrar nell’argomento. L’ho fatto ciarlare e bere, e mentre beveva e ciarlava, ho maturato il progetto e studiato i suoi gesti, gli atti, i suoi modi di dire, per sapermi immedesimar nel personaggio, senza tradir poi le mentite spoglie. Povero diavolo, se mi va bene ogni cosa, voglio farlo contento. Caporale nell’88.mo, ha servito Napoleone fino al passato autunno, ed è ritornato di Spagna con un _régiment d’écloppés_[13]. Conta otto ferite e ne avrebbe ricevute delle altre se _le brutal_[14] non gli avesse rotto una gamba e la carriera. Strana esistenza d’uomini che vanno ove li conducono, senza ragionare, attraversando paesi nuovi e lontani senza guardarsi intorno, senza osservare, senza stupire. Accolgono disagi, privazioni, pericoli, come le bestie da soma, senza accettarli nè respingerli. Marciando quando li fan marciare, digiunando quando non dànno loro di che sfamarsi, si battono perchè li fanno battere, si ricordano delle giornate più fredde, di quelle più calde, del compagno di destra, di quel di sinistra nel dormitorio come nella battaglia. Soldato, mi pare che non sarei così. Infine lo vidi cogli occhi teneri di riconoscenza e lucidi per la beatitudine del vino bevuto, entrar nel periodo d’intimità, gli lanciai la proposta, l’accettò senza discutere. Era tutto quel che desideravo da lui. Dio me la mandi buona! _(11º)_ Giorno da segnarsi con bianca pietra. Tutto andò bene. Ma Dio Santo, quando mi guardai nello specchio al ritorno! Quando penso che le sono andato davanti con quella giubba che non avrei osato, in altri tempi, sollevar pur colle molle, con quei calzoni rattoppati in tanti punti, coi capelli nascosti in quel berretto unto, sotto quel cappellaccio di paglia sfilacciato, coi piedi in quegli scarponi aperti a bocca di pesce. Eppure Miniuti mi conosce, ne sono certo, di nome ed anche d’aspetto... Guai se non mi fossi perfettamente camuffato. Quando entrai nel cortile, che momento! Col volto, il collo e le mani annerite, sudate, impolverate, la cassa che mi schiacciava le scapule, le cinghie che mi rodevano le spalle, i due cavalletti infilati nel braccio che mi battevano sulle gambe; e dover alzar la voce e gridar forte le parole imparate ieri a memoria. — Chi vuol veder l’immagine miracolosa della Santissima Madonna degli Orti!... bisogno di nulla dal _marsé_?..[15]. Aghi, spille, stringhe, ditali, forbici, specchi, pettini, bottoni, lino, lana, stoffe, filo. E quella faccia rossa, tonda, stupida del servo, che comparve all’inferriata della cucina: — No, no, bisogno di niente, andate, andate via. — Domandate alla signora se nulla le occorre, vi prego! Lo vidi rientrare, e senza darsi la pena di restar il tempo necessario per far l’imbasciata, soggiungere: la signora non vuol niente... andate in santa pace. Come? avrei dovuto dunque ritirarmi così, dopo tanta fatica, davanti alla volontà stupida e brutale d’un domestico! — E il signore, non c’è il signore?... ho qualcosa di fino, di _soigné_, da fargli vedere. — È andato a caccia. — Starà molto a tornare? — Oh! Santo Dio... volete andare colle buone o vi faccio andar colle brusche!... L’avete capita che il signore non vuol veder gente in cortile. Come sentii le orecchie diventar calde!... Mi domando ora come sarebbe finita se egli si fosse avanzato e mi avesse toccato. Poi lo vidi ritrarsi mormorando e guardar verso la porticella della strada. Mi volsi; un cane da caccia era entrato tutto bagnato, e col pelo aggrommato dal fango. Poi entrò Miniuti tutto elegante nel suo abito di velluto verde, colle uose fin sopra il ginocchio; gran carniere, ricco fucile. Il servo mi gettò ancora uno sguardo di sbieco, poi prese una faccia tutta sorridente, ritirò il carniere dalle mani di Miniuti, fece le viste di trovarlo pesante, palpò per di fuori l’ammasso confuso di peli fulvi e di piume scure chiuso fra le maglie, e disse: Ah! il signore ha fatto buona giornata... oggi..., come sempre. — Asciuga il cane, Lafleur, e dagli subito la zuppa... Udii un fruscio leggiero in alto... una bella testina si era affacciata tra le foglie che coprono tutto il balcone. Una ninfa tra i pampini. Poi si ritrasse sorridendo e ricomparve nella penombra della scala interna. Un momento dopo era sulla soglia. Certo, mi sentivo orribilmente pallido sotto il nerume artificiale. Miniuti mi vide, e disse a mezza voce al servo: — Cosa vuole colui? — È un merciaio, signore. — Mi par d’aver detto che voglio la porta sempre chiusa. — Sissignore... non sono stato io che l’ho lasciata aperta è stata Fanchette, che è uscita per conto della signora, colui non voleva andar via, stavo per gettarlo fuori, quando il signore è entrato. Del resto dice che ha non so che cosa da farle vedere. — A me?... — Sissignore. Elena di sulla soglia mi guardava. Miniuti mi si avvicinò e disse, squadrandomi con quei suoi occhi grigi indiavolati: — Dunque... cosa hai detto di avere nel tuo tesoro che mi convenga? Gli mostrai la pistola. — Ma, perbacco, sclamò egli togliendomela, questa è mia! Finsi, come meglio potei, d’essere sorpreso. — Mia certo, e come! ho la compagna in casa. L’ho fatta cercar tanto, promesso mancie, fatto mettere il ponte sottosopra, mandati tutti i monelli del paese a sguazzar nel fango del rio di Robella. Come diavolo hai fatto a trovarla? — L’ho comperata da chi l’ha rinvenuta. — Quanto debbo darvi? Avrei voluto dire, alla presenza d’Elena: se è vostra, signor mio, tenetevela senz’altro. Ma bisognava star nei panni. — Lei ha giudizio... faccia lei quello che crede. Mi diede un napoleone e gridò a Lafleur di portarmi da bere. Gli avrei stiacciato il bicchiere sul viso, a Lafleur, invece dovetti tracannarmelo tutto, lì sotto gli occhi di Elena che si era avvicinata. Ella voleva veder la cassa. Aprii i cavalletti, vi posai la bottega, e spalancai gli sportelli, ingegnandomi di rimaner al coperto da chi fosse comparso all’improvviso sulla soglia. Il servo era rientrato in casa. Si sentiva la voce di Miniuti che canterellava riponendo nella rastrelliera il fucile, la fiasca della polvere, le tasche del piombo. Mentre ella s’inchinava a guardare, le presentai un biglietto... l’ultimo dei cento scritti e stracciati stamane. Mi guardò fissamente negli occhi, mutata e fatta di fiamma in viso... poi mi conobbe e diventò eccessivamente pallida. — Elena ne va la vita... lo giuro. Dovette vedermi l’anima negli occhi in quel momento. Miniuti tornava all’uscio. Il biglietto mi sparì dalle mani in un lampo. S’egli mi avesse ucciso colla pistola che teneva fra le mani, sarei morto contento. Egli aveva ripulita l’arma e la stava caricando. Era in un momento di buon umore e forse per lui di espansione, mostrava sorridendo i denti bianchi ed acuti sotto le labbra pallide. Alzò la pistola e mi disse: — Questa, vedi, e l’altra sua compagna, sono sempre con me, sul tavolo in casa, in vettura se viaggio,.. perciò fa di non venirmi tra i piedi in un cattivo momento, che saresti un uomo morto e mi tolse, così scherzando, di mira. Vidi trasalir Elena. Egli se ne accorse, rise e le disse: — Oh! non temere che lo ammazzi, non potrei sparare, vedi manca la selce al cane. — A proposito, non avresti per caso selci da pistola in bottega? — Oggi no, signore, ne farò ricerca subito, e quando tornerò a portar la lana grigia per la signora, porterò anche le selci. M’aprivo così una via a tornare. — Cosa vuoi fare della lana grigia? — La signora vuol far calze pei bimbi poveri del paese. — Quanta filantropia! — Dà loro dei soldi ai bimbi, compreranno i dolci dello speziale, avranno dolor di ventre, ma si divertiranno di più. Ora vieni in casa, che l’aria è umida. E le cinse la vita col braccio per farle salire i tre gradini, che mettevano alla soglia. La gelosia mi morse al cuore, piegai le robe, serrai la cassa colle mani che tremavano. — Chiudi l’uscio, galantuomo, mi gridò dietro, chiudi l’uscio, chè non entrino altri vagabondi. _(12º)_ Sono ritornato a portar la lana grigia e le selci, ma non ho potuto scambiare con lei neppure una parola. La faccia ineffabilmente stupida di Lafleur non ha lasciato un momento l’inferriata della cucina, in tutto il tempo che io rimasi in cortile. Mi ricorderò di lui per una buona mancia, se verrà l’occasione. Le ho data però, nel viluppo di lana, una lettera. _(13º)_ Che mattino lungo, eterno! Sono agitato, nervoso, muoio d’impazienza, d’ansietà. Al diavolo la penna! Non posso fermare i miei pensieri... Ancor tre ore, tre mortali ore da far le volte del lione, poi mi metterò in cammino... S’ella poi non venisse? _(14º)_ Qual contrattempo cotesta pioggia! Oggi farei inutilmente la gita, Miniuti deve essere rimasto in casa, ella certo non può uscire. Ecco tre giorni trascorsi in Paradiso. Ora ci siamo di nuovo al dover scrivere per passare questo periodo di febbre. Penserò a lei, a questi tre giorni di ebbrezza nei quali l’ho veduta e le ho parlato. Miniuti esce a caccia il mattino, non rientra che a sera. Sono contento d’aver trovato modo d’evitar la strada, prendendo pel bosco di Vallombrosa, scendendo nella macchia, lungo il Rio caldo, arrivar così senza incontri fino al boschetto della Petriera e penetrarvi non veduto. Possa quel boschetto restare eternamente in piedi, possano i suoi pioppi e le sue quercie, risparmiate dalla scure, dai fulmini, dai venti, crescere secolari ed altri amanti dell’avvenire, dopo aver attraversate sotto i raggi ardenti del sole, nel tremolio dell’aria brulicante di vapori, le terre lavorate che lo circondano, ondulanti lontano come il mare, trovar nella sua ombra deliziosa, come ho trovato io, il refrigerio del corpo e quello dell’animo. I giorni di sofferenza, di amarezza, mi paiono lontani tanto... quasi impossibili nell’avvenire. Come il primo giorno ella venne in fretta, pallida, ansante. Volevo prenderle la mano, parlare. — Lo so,... mi disse, v’intendo,... se è così partite. Tutte le forze del mio essere erano sospese, le cercavo il cuore negli occhi; le parole che pronunziavano le labbra, non potevano aver importanza, il suo cuore volevo mi rispondesse. Piangeva insistendo. Non ricordo più quello ch’io dissi nè quello che poi mi rispose; so che ho parlato a lungo, detto tutto tutto quel che sentivo... siamo tornati indietro negli anni, abbiamo riandato insieme tante cose di quell’età in cui tutto era sorriso. Poi l’ho riveduta il domani, e so di rivederla e di parlarle ancora. E non è un sogno (perchè in certi momenti m’assale proprio il dubbio di aver sognato), così ieri ancora sono penetrato nel boschetto, ho appoggiato il fucile ad un tronco, mi sono curvato nell’erbe alte e selvatiche, fissato lo sguardo allo svolto del viale d’olmi, che dal suo giardino mette capo al boschetto, al nostro boschetto: all’ora consueta l’ho veduta comparire nella sua veste chiara a piccole rose, bella, elegante, coi piedi nelle margherite, spiccante sul fondo verde degli alberi, nella piena luce, nella pien’aria, tal quale l’ho ancora negli occhi, come l’avrò sempre, campassi cento anni. Ha promesso di ritornare. Non oggi, ma domani la vedrò ancora apparire così: avanzare prima lenta lenta, poi studiare il passo, affrettarlo, e sul volto chino, disegnarsi un sorriso e diffondersi un rossore di soavissima allegrezza ed io come ieri, come ierl’altro, come il primo giorno, non oserò muovermi, respirare, batter le ciglia, trepidante di vederla dileguar come un sogno... 6 marzo 1842. Ho trovato questi fogli stamane rimaneggiando le mie carte. Sono vecchio, vicino al fine... non vorrei lasciare indietro nulla d’inutile... Avevo già bruciate tante lettere, tante carte, quando ho trovato queste. Le ho gettate nel fuoco col resto,... mi è cresciuto subito in gola un singhiozzo e le ho riprese. Poi ho riletto attentamente. Da molti anni ritirato, non più attore, ma spettatore della vita, al riparo oramai da tutto ciò che inebbria e che illude, triste, misantropo come un vecchio moralista, non avrei creduto più che la lettura di poche frasi da tanto tempo sepolte, potessero suscitare in me tal tempesta. Ho rimosso le ceneri, cercato nel cuore tutti i ricordi sopiti, li ho evocati e mi sono gettato indietro con loro nel passato, ora da essi accarezzato, ora atrocemente ferito, sorridendo, piangendo, smaniando come un giovane. Ogni attività deve calmar l’anima; così mi parve di potermi sbarazzare di tutte queste idee, di tutti questi rimpianti scrivendoli... Trovare conforto ai pensieri dolorosi esprimendoli, aggiungendo invece di distrurre, compiendo ora quello che avevo incominciato a tanta distanza di tempo. È un’ultim’eco della gioventù lontana tanto, o non piuttosto un’idea di vecchio rimbambito? Vi è poco ad aggiungere a quei fatti, se non avrò la forza di finire, lascierò così queste pagine, come saranno, abbandonate al loro destino. Il mio esempio sarà forse utile a qualcuno. Il mio esempio?.... Mancano gli esempi nel passato, nel presente? Mancheranno nell’avvenire? Chi seguisse, per esempio, sol nei giornali la storia di certi amori, notasse le ferite, le morti... a capo d’un anno avrebbe, sommando, un campo di battaglia, un mare di lacrime e di sangue. Così vorrei gettare un grido lontanissimo nel futuro ed avvertire i figli di mio figlio, i miei lontani nipoti, di risparmiare alla loro vecchiaia certi terribili rimpianti. Esaminando freddamente la condotta di chi spia, osserva, attende l’ora per torre ad un altro la moglie; pensando a tutto quello ch’ei fa per trionfar del dovere, anche all’infuori delle leggi morali e religiose, nasce in cuore il disprezzo. Eppure la mia passione era come una religione che divinizzava l’essere amato; composta d’abnegazione e d’entusiasmo avrebbe accettato qualunque sacrificio... Mi pareva che l’anima mia si fosse scelta una compagna fin dalla fanciullezza,... che malgrado gli ostacoli Elena m’appartenesse per un diritto naturale, potente, superiore ad ogni legge, ad ogni umana convenzione. . . . . . . . L’ultima domenica del mese di agosto, Elena doveva venire al boschetto, alle tre, come nei giorni precedenti. Ero arrivato molto prima dell’ora fissata, il tempo mi pareva lungo nell’aspettare. Dal punto in cui mi trovavo potevo scorgere, oltre al viale, la porta del cortile che metteva nella piccola via verso il paese. Vidi aprirsi la porta ed uscire le persone di servizio di Miniuti, allegre, in frotta, vestite a festa. Mi ricordai, che ad una borgata vicina, al Verneto, si celebrava San Bartolomeo; costoro dovevano aver avuto licenza d’andarvi. Se Miniuti era uscito a caccia come al solito, Elena era certo sola in casa... Guardai l’orologio, segnava le due e mezzo appena. Aveva piovuto nei tre giorni innanzi, da tre giorni non l’avevo veduta, e mi frenavo a stento, impiegando tutte le forze della ragione, della prudenza, per non spingermi fino alla casa. Mi aggiravo pel bosco e sentivo nell’aria satura di elettricità l’avvicinarsi d’un temporale. Saliva dall’orizzonte, al di sopra degli alberi, un gruppo di nuvoloni cenerognoli, le foglie dei pioppi spiccavan tremolando, come piastrelle d’argento, sul fondo già scuro del cielo. Ritornai sempre più concitato al solito posto. Mentre scoccavano al campanile della parrocchia le tre, la vidi arrivare frettolosa, stesi le braccia allontanando il fogliame per aprirle il passo fino al mio petto,... poi lasciai le fronde, che si rinchiusero avvolgendoci. L’avevo finalmente tra le braccia, le mormoravo colle labbra nel collo, quanto sentivo in cuore da tre lunghi giorni. Un soffio minaccioso passò sibilando fra gli alberi, i nuvoloni grigi comparvero nell’alto, cacciando davanti uno sciame di nuvolette bianchiccie, disperse, scarmigliate come brani di cencio sfilacciati; poi guizzò un lampo, seguì subito uno scroscio di tuono, sentii sul viso una goccia, una sulla mano, altre mille crepitar sul fogliame. Elena si sciolse e si affrettò verso casa. Laggiù le imposte sbattevano, la banderuola del comignolo girava cigolando furiosa, gli alti alberi del giardino, disperatamente contorti, s’inchinavano sino sul tetto. Io seguitai Elena... non mi pareva di doverla lasciare... nessuno poteva essere tornato ancora. L’uragano, scoppiato quasi all’improvviso, doveva aver costretti quelli che erano fuor di casa a cercar ricovero nel riparo più vicino. La pioggia portata dal vento, cessò mentre si attraversava il viale, ma ricominciò quando giungemmo alla porta ed allora le goccie presero a scendere violente, filate come freccie d’acciaio. Elena aprì l’uscio ed entrò. Non ebbi tempo, a pensare, a riflettere, ad esitare, mi trovai travolto dall’uragano, curvato, spinto al di là della soglia, una folata rabbiosa, all’aprirsi della porta, scese rombando giù per la scala, e la rinchiuse su di noi con fracasso. Quando tornai verso Polonghera i nuvoloni neri sparivano all’orizzonte, il cielo in alto era terso, azzurro, con una sfumatura d’arco baleno. Il vento correva sui cespugli, sfiorando, inchinando le erbe e gli steli, rendeva ora cupo, ora chiaro e lucente il verde dei prati, staccava dai rami fronzuti le goccie d’acqua, che traversate dai raggi radenti, brillavano in aria come diamanti. Mi ricordo di tutto. Mi ricordo che affondavo nei solchi, sentivo l’acqua penetrarmi negli stivali, che l’aria freschissima e profumata mi accarezzava il viso, e la respiravo con ebbrezza... il passato con le sue amarezze era lontano, spariva indietro all’orizzonte coi biechi nuvoloni, l’avvenire era davanti come un gran velo color di rosa, ben teso, senza pieghe, e mi pareva di non aver che a stendere la mano e sollevarlo pian piano badando solo a non squarciarlo brutalmente. Quando giunsi all’albergo, le stelle si accendevano in alto, in fondo il Monviso spiccava ancora netto sulla tinta ranciata che andava morendo; una gran pace pioveva dal cielo e si allargava sul villaggio e sulla pianura, ad ora ad ora più sfumati, più perduti nell’aria che si andava oscurando. Montai alla cameretta, trovai imbandita la cena, accese sul tavolo due candele. Posato nell’angolo vicino al canterano il fucile, sedetti a tavola ed aprii per abitudine contratta un libro. Ma perduta tosto ogni coscienza dell’azione, cominciai a riandare la benedetta storia del cuore. Rivedevo così le vicende tutte della giornata: la partenza al mattino nel timore di non trovarla neppur quel giorno, le ore d’aspettativa angosciose, il momento ineffabile della sua apparizione... il temporale... poi la camera a pian terreno... la pioggia che scrosciava al di fuori, che si frangeva sui vetri in lucide lacrime, infine,... i ricordi ardenti che mi bruciavano il sangue. Aveva trovato sulla spalla un lungo filo lucente, un capello nerissimo, lo avevo avvolto al dito, e vi posavo con frenesia le labbra. In faccia, fuori della finestra aperta, i rami d’un pero poveri di foglie, staccavano sul cielo come zampe d’un ragno fantastico, colossale. All’improvviso là, di mezzo a quei rami uscì uno strido vicino, acuto, malaugurato, che mi scosse, mi ruppe brutalmente il filo delle idee, mi gettò un freddo nelle ossa. M’alzai, venni alla finestra e battei con forza le palme, credendo così di cacciar l’uccello di sinistro augurio. Vidi la civetta scuoter l’ali, camminar di fianco lungo il ramo, perdersi tra le foglie, e ripetere subito il grido maledetto. Allora andai all’angolo fra il muro ed il canterano e presi il fucile: toccando l’acciarino m’avvidi che era scarico, stesi nell’ombra la mano al chiodo ove solevo appendere il carniere, nel quale avevo polvere, piombo, tutto l’occorrente. Il carniere non v’era. Guardai sul letto, cercai sul canterano, sul tavolo, per le sedie, volli raccapezzarmi se l’avessi consegnato all’ostiere entrando con selvaggina uccisa nel giorno. No, quel giorno non avevo sparato... Scesi la scala per entrare a pianterreno. Sulla soglia una luce terribile mi abbagliò, mi rischiarò la mente. Lo vidi, Dio Eterno! in quel momento il mio carniere,... lo vidi a Murello, nella sala a pian terreno, nella casa del Miniuti! Mi parve che il cervello dovesse scoppiare sotto l’urto del sangue che vi affluì. Ebbi subito la visione chiara, netta, terribile della scena che doveva succedere in quel punto. Miniuti al suo ritorno aveva trovato il carniere... vi aveva frugato, letto il mio nome, i miei connotati sulla permissione di porto d’armi,... indovinava sull’atto, scopriva tutto, si avventava contro Elena ruggendo, e lei si smarriva, non poteva negare, schermirsi, non sapeva fuggire. Li vedevo, li sentivo, la visione diventava realtà fino all’allucinazione, alla pazzia. Saltai nel cortile, sfondai d’un urto l’uscio della scuderia, senza pensare ad aprirlo, gettai in fretta, in furia gli arnesi sul cavallo, e balzato in sella, lo lanciai di carriera sul viale che mette alla strada di Murello. Volavo come nel sogno, nell’incubo; non potevo ragionare, nè formar progetti. Arrivare... portarla via, salvarla... Mi pareva di sentir una voce lontana che mi chiamava là nell’oscurità, dalla parte di Murello, e allora volevo cacciar come un grido altissimo perchè si difendesse, fuggisse, mi aspettasse. Poi mi vedevo Elena davanti, pallida, straziata, morente, che mi tendeva le braccia perchè la prendessi, la salvassi, e stringevo rabbiosamente le ginocchia e mi curvavo in sella, scosso dal capo alle piante da un gran tremito, col sudore che mi gocciolava sulla fronte, mi rigava le gote, mi offuscava la vista. Ad un punto mi fermai di scatto, sentivo gorgogliar l’acqua a sinistra, discernevo a destra un piccolo edificio chiaro. Avevo sbagliato strada! Al santuario di Polonghera invece di torre a destra verso Murello, avevo svoltato a sinistra, mi trovavo tra la capella di San Giacomo ed il ponte sulla Macra, ad un trar di schioppo da Racconigi. Mi serrai coi pugni le tempia, mi parve di impazzire. La strada da Racconigi a Murello mi si apriva davanti: erano tre nuove miglia; serrai tra le gambe il cavallo, come se avessi voluto soffocarlo, gli urlai all’orecchio le più strane e insensate parole, le più violenti imprecazioni, e ricominciai ad andar come il vento all’impazzata... Ad uno svolto fui per dar di cozzo in una vettura che arrivava, essa pure, precipitosa e senza lanterne. Il mio cavallo schivò da sè, e la oltrepassai. Sull’istante il scivolar rapidissimo di quel legno, a quell’ora, nell’oscurità, nel mistero, mi insospettì: Lei forse... trascinata lontano! bisognava saper chi vi era... Voltai bruscamente il cavallo, la luna liberandosi in quel punto dalle nubi che la velavano, batteva in pieno sulla strada: la vettura volava, diminuiva nella distanza. In un baleno le fui di fianco, mi curvai, cacciai il capo sotto il mantice... E non ricordo più; mi par d’aver udito in un ringhio di rabbia, pronunziato il mio nome, intravvisto un viso d’uomo sconvolto, un braccio agitarsi, stendersi furiosamente contro il mio petto, un tuono, un lampo poi più nulla. Seppi di poi che un carrettiere, alla luce livida dell’alba, mi vide steso in traverso alla strada. Costui mi portò ad una cascina, e corse in tutta fretta a cercar un vecchio chirurgo militare ritirato a Racconigi, molto abile nel curare le ferite prodotte dal piombo. Egli estrasse la palla che m’era scivolata sotto le carni del petto senza penetrar nella cavità, e dopo due mesi entrato in convalescenza, camminavo, parlavo, ma ero come un uomo che si sveglia da un lungo sonno, e stenta credere alla realtà degli oggetti che gli cadono sott’occhio. Poco si parlò a quei giorni dell’avvenimento, nessuno lo conobbe nei suoi particolari veri ed esatti; — il Journal de Turin et de la 27.me Division de l’Empire français, gazzetta ufficiale del Piemonte, non ne fece pur parola, — altri giornali parlarono d’un attacco di briganti, nel circondario di Savigliano, e aggiunsero che, sebbene il famoso Mayno, sedicente imperatore delle Alpi e re di Marengo, fosse stato ucciso fin dal 12 aprile 1806, e la sua banda distrutta, certi dipartimenti erano tuttavia infestati; insistevano perciò sulla necessità delle ricerche, l’aumento delle taglie, ecc. Ma in breve più nessuno s’occupò di quel fatto, le emozioni politiche ed avvenimenti di terribile e capitale importanza assorbivano in quei giorni l’attenzione del publico. Il sangue altrove scorreva a flutti. Tornai a Torino, ma l’animo non mi resse di restarvi; vagai nelle città vicine senza scopo, finchè un giorno trovandomi ad Ivrea, presi d’un tratto una vettura di posta per Aosta, traversai il San Bernardo, discesi a Martigny, e per Ginevra e Bourg andai a Parigi. Un mese dopo il mio arrivo presi servizio; speravo trovar potente distrazione nel terribile avvicendarsi degli avvenimenti, o eterno riposo nello spaventevole spreco di umane esistenze di quegli anni. Fui ferito in Ispagna e guarii: in Russia ove andai sottotenente in un reggimento di cacciatori a cavallo del corpo di Oudinot, lasciai due dita sulle nevi, e ritornai in Piemonte coi capelli che ne avevano preso il candore. Un giorno questa casa, la cui soglia avevo già varcata una volta,... divenne la mia. Vi abitai sempre ed ho disposto di chiudervi gli occhi. Nelle sue mura ancora per molti anni rapide apparizioni mi turbarono l’animo, gettandomi agli occhi una forma, alle labbra un nome, nel cuore un bisogno sconfinato, una smania terribile di riveder Elena, di amarla ancora. Per molto tempo cercai la notte, l’ombra, il silenzio, i sentieri, i luoghi solitarii, serrandomi ai muri, alle siepi, come un ladro, un mendicante. Poi la calma della campagna cangiò i rimpianti in una melanconia dolce e tranquilla, gli anni si aggiunsero agli anni; contrassi un debito di riconoscenza verso un’angelica creatura che mi curò in una malattia che doveva uccidermi, debito che mi fu dolce soddisfare, consacrai la mia vita a chi l’aveva salvata, e ringrazio Iddio della felicità che mi accordò in seguito. Ora non ho più nulla a domandare alla vita; essa non è più davanti, ma dietro di me; nessuna illusione mi nasconde la realtà, lasciandomi apparire ancora orizzonti lontani... il termine è vicino, posso contare i giorni che mi rimangono, un po’ di terra sul capo, _et en voila pour jamais_. Miniuti non l’ho rivisto più mai, d’Elena non ho forza scriver più. Avrei potuto bruciar quei fogli e sperdere fino l’ultimo atomo delle loro ceneri, ma non avrei potuto annientare che struggendo il cervello, il rimpianto angoscioso, il rimorso d’essere stato la causa diretta della fine atrocissima di una persona per la quale avrei data la vita senza esitare. Poichè tutto è lontano, tutto sparisce nel passato irrevocabile, sparirà con me anche quest’ultimo spaventoso ricordo... Il sole si alzò splendido il domani; Mario, Rocco ed io, entrammo in caccia senza contrattempi. I cani lavorarono a dovere, i colpi si succedettero fruttuosi. Alle otto si fece colazione appiè d’un gelso; pane, cacio, rhum nell’acqua. Poi si ricominciò sotto il sole in tutta la sua forza, un sole tremendo, che cadeva a piombo sul capo, e si nuotò così tutta la mattina, colle guancie aggrinzite e gli occhi serrati, in un mare di delizia. Bisognava pure divertirsi fino a sera. Infine quando i cani ebbero penzolante fuor delle fauci tutta la lingua di cui potevano disporre, quando si sdraiarono all’ombra, si allungarono nei fossi col ventre nel fango, ci accordammo anche noi, esseri ragionevoli ed indipendenti, la facoltà di stenderci al riparo dai raggi. Il calore ci assopì, il sole girando, penetrò tra le fronde, ornò i nostri abiti di cerchielli dorati, venne a bruciarci il viso, a colorarci sgradevolmente di rosso le palpebre chiuse. Le formiche, sagaci ed industriose, s’introdussero nei praticabili, si dispersero sulle nostre persone alla scoperta di nuovi mondi a loro sconosciuti. Infine a sera lontani da casa parecchie miglia, ci incamminammo per tornare, l’uno dietro all’altro nel sentiero fra le canape altissime ed i grani turchi rigogliosi. Io camminavo primo, poi Mario, poi il vecchio Rocco che cantava la sua vecchia _Complainte_ sulla diminuzione della selvaggina. — Quando c’era il distretto, cari signori, quando i boschi venivano fino al Rifreddo, Cr...o! che tempi! Lepri grosse come asinelli, con certe testaccie quadre, e orecchie di due palmi, frotte di fagiani grassi come capponi che passeggiavano nei sentieri, come tante confraternite di frati. Si veniva all’agguato tutte le sere, sul limite del distretto. Eravamo sei o sette, tutti lestofanti che non dico altro, ogni tanto pan... pan..., ed al chiudere dei conti erano, sei, sette, otto lepri di meno nei boschi di Sua Maestà. Ma non si dormiva. Allora i dragoni non scherzavano, c’era un rigore d’inferno, un lepre ferito al di qua, saltava il fosso a dar i tratti al di là e non si poteva pigliarlo. — Così, disse Mario, il confine non lo hai passato mai Rocco? — Cioè, ecco... io qualche volta... ma c’erano altri che passavano, anche tutte le sere. Pietro l’Ollaro, che è vivo ancora, sordo come le pentole che fabbrica, era già tal quale... Tutte le sere così, stava un po’ al di qua, gironzava, s’impazientava, poi, vlan... eccolo dall’altra e si perdeva nel folto. Passavano dieci minuti, pan...: si vedeva curvo, curvo, piccolo la metà, arrivar come il vento col fagiano od il lepre nel dorso della giubba. A correre non c’era chi lo cogliesse, neppure Beppo Gallo, che pure correva bene anche lui... Tutto detto, fu colto presso Racconigi, in pien distretto, sfuggì sotto al naso delle guardie che lo videro come vedo lor signori. Volò quei tre miglia, giunse in paese, si fece veder nella via maestra così presto che potè provar... Come si dice?... — Provar l’alibi. — Ecco precisamente, potè provar quello che dice lei. L’anticristo era Filipotto; le brache come due sacchi,..... vi nascondeva i fagiani uccisi, uno schioppo rugginoso, colla canna legata da due giri di spago; lo lasciava nei cespugli la notte..... Pigliava poi fuoco quando si ricordava. Ma tant’è, a casa senza aver fatto il suo colpo non tornava mai. Del resto lui il difetto dell’arma lo conosceva; tanto è vero che quando attaccata briga al gioco col Paschetta, volle freddarlo; andò a farsi prestare un altro fucile..... trovò quel cane che glielo imprestò, e così uccise in quella notte, buia come l’inferno, il suo miglior amico in cambio del Paschetta. Se avesse adoperato il suo fucile, chissà, forse non avrebbe sparato... — Mi ricordo, disse Mario, di quell’omicidio, io era piccino assai..... rammento di aver veduta la pozza di sangue davanti al caffè. — E Filipotto, non l’hanno arrestato? — Potevano arrestare il vento i carabinieri! era più facile... Egli passò in Francia nei zuavi o nei turcos... restò in Crimea alla presa di Malakoff. E si andava ascoltando quel vecchio tutto abbandonato ai ricordi, che accorgendosi della nostra attenzione, cercava nelle sue memorie quello che potesse, secondo lui, interessarci. La sera era scura, il cielo tutto coperto di nubi, la luna ne illuminava di tanto in tanto un lembo vivamente, poi appariva annebbiata, nuotante in un bagno di luce gialla, gettava un raggio pallido sulla terra e tornava a celarsi lungamente. Ad un punto il terreno dinanzi a noi sprofondava improvvisamente; il sentiero girava sul margine di una fossa, irregolarmente scavata. Vi giungemmo in un momento di fitta oscurità, io, che camminavo pel primo nel sentiero, non vidi il precipizio e rotolai con gran fracasso fino in fondo, trascinando meco una valanga di ghiaia e di terra smossa che m’entrò nelle tasche, nelle scarpe, nel collo. I miei compagni si precipitarono a rialzarmi, si accesero fiammiferi, si constatarono i danni. Il fucile era intatto, io leggermente contuso e graffiato. Più paura che male. Quando fummo di nuovo in cammino sulla buona via, domandai al vecchio qual fosse l’utilità di quel precipizio, e perchè si lasciasse sussistere. — La vede, quei del paese lo sanno che c’è; forestieri non ne passano mai... Ma è vero quello che dice lei, poichè non serve a nulla dovrebbe essere spianata da anni. Un tempo,... eh! ma andiamo indietro molto, era lo scavo d’una fornace. Si fermò, rinnovò il tabacco nella pipa, cangiò di spalla il fucile, si raccolse un momento e ripigliò: — Mi fa sempre un certo effetto a raccontarlo, eppure giacchè vedo che s’interessano alle cose vecchie, là successe un fatto da far rizzar i capelli. Mio padre, buon’anima, teneva questa fornace, molti, ma molti anni or sono, la bagatella forse di settantaquattro o settantacinque anni fa. Una sera che era solo sentì sul tardi fermarsi una carrozza sulla strada di Racconigi. (È là a duecento passi e vi saremo a momenti). Egli non ci pose mente, aveva la fornace che divampava come l’inferno, Dio ce ne scampi, e badava ai mattoni che cuocevano. Quand’ecco comparir sul sentiero un signore alto alto, vestito come un marchese, ma con un viso che metteva paura. Aveva con sè una donna, una signora che pareva, come si dice, una tortora negli artigli di un nibbio. Era giovane, la signora, giovane e bella, pallida che non pareva più di questo mondo, aveva gli occhi fissi ed andava, diceva mio padre, come una persona che dorma e vada in volta bell’e dormendo. Il signore disse brusco brusco a mio padre che portasse del vino, che alla signora era venuto male in carrozza. Mio padre entrò a cercar il vino, nella sua capanna, tutto rimescolato, chè quella poverina gli faceva pietà. Era al buio, non ci vedeva, badava a battere la pietra, che allora non c’erano i fiammiferi come adesso. Dalla porta aperta, sentiva che parlavano; lui ringhiava come un mastino, poi udì due parole di lei... una voce fioca come morisse. Non capiva quel che dicessero. Ad un tratto uno strillo... che gli fe’ cader di mano tutto l’ordigno. Saltò fuori. L’uomo spariva nell’ombra... solo; mio padre corse alla bocca infuocata... I capelli, cari signori, si rizzavano così quando raccontava... come se avesse ancor negli occhi quello che aveva veduto. Per terra c’era uno scialle da dama di alto rango. Mio padre lo portò a Racconigi, lo vendette e coi denari fece dir tante messe per l’anima di quella poveretta... Mario mi strinse fortemente il braccio, guardandomi fisso, io accennai di sì col capo, ero come lui convinto che Elena aveva finito così. LE MASSE CRISTIANE Nel novembre 1886 fui invitato dal conte Ruggiero Sauris a cacciare nella sua terra di Ripalta-Piemonte. Il mio amico abita un grande edifizio biancastro elevato sopra un terrapieno; che domina la piazza del villaggio. Gode una vista immensa su un’estesa di poggi guerniti di castelli, affollati di villaggi, di ville, di case campestri; digradanti con variati e graziosi contorni fino a certe colline più alte e grandiose, al di là delle quali si scorgono, nel vapore dei giorni sereni, le vette rigide e maestose dell’Alpi. Il castello di Ripalta è un quadrilatero più lungo per il verso della facciata che sui fianchi, munito all’angolo che guarda il villaggio d’un torrione quadrato, che di poco sovrasta al tetto. Nel centro è il cortile pieno d’erba, ricco di due bei cipressi alti e diritti e d’un pozzo dalle colonnette di pietra, coll’architravetto in traverso dal quale pende la carrucola. Le muraglie sono assolutamente spoglie d’ogni fregio, sia dipinto che in rilievo; nell’interno le sale e le stanze sono assai semplicemente arredate con la promiscuità di suppellettili che si osserva in molte vecchie ville piemontesi, ove l’occhio trova nei mobili, nelle tappezzerie nei quadri, le variazioni portate dalla moda e dallo stile nella seconda metà del secolo scorso e nella prima metà del presente. Osservai in un angolo della gran sala terrena una vecchia portantina sdruscita, un bell’orologio da muro a piè dello scalone; qua e là per le stanze mobili intarsiati o scolpiti con garbo, quadri di paese e ritratti di famiglia d’antica e più o meno simpatica maniera; e, nella camera che mi fu destinata, un gran panno d’arazzo di fabbrica fiamminga, teso su tutta una parete, rappresentante l’assalto dato ad una fortezza merlata da certi soldati tozzi e muscolosi, armati grottescamente alla Romana. Mi parve fresco e ben conservato. — Come figurerebbe nel mio studio! — dissi a Ruggiero — Sulla parete di fronte al finestrone... — Naturale! — sclamò ridendo l’amico. — Trovo però che non sta male dov’è. Ne vorrei un altro anzi, per far riscontro sulla parete di faccia e coprire quel coiame che casca a pezzi da ogni parte, ch’è una pietà; potrei cambiar parato, ma non ho quattrini. — Bello eh! — soggiunse poi riguardandolo con compiacenza, — non me n’intendo, ma mi par bello assai. Da bambino quei ceffi mi mettevan paura, non sarei rimasto qui solo per un carico di dolci. Ma sono sempre rimasti lì, boni e quieti; non mangiano, non bevono e non fan chiasso: abbi pazienza, possono starci ancora. S’andò a letto presto, e la mattina, armati ed in punto, scendemmo sulla piazza, dove, davanti all’osteria, ci aspettavano parecchi cacciatori del paese; v’era il sindaco, se ben ricordo, il sagrestano, l’albergatore e quattro o cinque cacciatori di mestiere. Alle ultime case s’unì a noi un vecchio lungo e smilzo, con certi occhi tutto brio nel volto ossuto, raso come quel d’un prete; mostrò, salutandoci, un testone arruffato, irto di capelli bianchi, una bella fronte, poco ampia, ma molto elevata, che s’increspava e si spianava senza posa. Ne chiesi il nome a Ruggiero. — Dottor Vercellis, — rispose l’amico. — Vecchio assai, ma un Ercole per forza, salute, potenza digestiva e vigor di polmoni. Va che manco una saetta l’arriva ed ha un braccio che non c’è il compagno. Ha istruzione, ingegno sottile; è mezzo letterato, poeta estemporaneo; sa novellare a meraviglia. Sarebbe, te lo dico io, riescito uno scrittore di polso, un romanziere come Ponson du Terrail o Montépin. Lo pregherò di venire a cena con noi, al ritorno, lo faremo mangiar e bere bene e ci dirà qualche storia. Ti parrà di sentire un romanzo, di quelli di una volta, perchè adesso sono tutti noiosi. Ruggiero non perde gli occhi sui libri; legge in città per pigliar sonno, in campagna quando piove. Vuole i romanzi di _cappa e spada_, con intreccio arrischiato, intricato e misterioso, dove si parli di donne, di caccia o di cavalli. Non conosce che tre o quattro autori. Quanto a tutti gli altri libri che il caso gli mette fra le mani, il domestico li raccatta al mattino contro la parete più lontana dal letto o appiè della finestra in giardino. Feci la conoscenza del dottore al momento in cui si entrava in caccia; scambiammo poche parole sulla fortuna probabile della giornata e ci separammo. Ruggiero ed io facevamo, come si suol dire, la parte dei principi. Camminavamo avanti, soffermandoci, ora al sommo d’una collina, or sull’orlo della macchia, nei biforcamenti delle viottole e delle stradicciuole. Gli altri cacciatori avanzavano in fila coi cani sguinzagliati, indugiando nel folto, parlando, vociando, strepitando per dar la fogata alle lepri ed alle beccaccie. Si correva così dall’una all’altra posta da un paio d’ore e non s’era ancora udito uno sparo, nè avuto un lampo d’emozione. Mi trovavo in un campo arato di fresco, scendente alla valle con dolce pendìo, fiancheggiato d’un bel bosco ceduo dal quale uscivano le voci lontane dei nostri compagni; vedevo le figurine brune apparire e sparire tra le fronde e balenare tratto tratto le canne dei fucili. Ero sfiduciato, cominciavo a sentir la noia: quella sensazione d’una mano ampia che si posa sulla nuca e grava ed opprime; i piedi mi dolevano, lo schioppo pesava. V’era un termine a pochi passi, v’andai a seder su. Presi a guardar distratto le colline coperte di macchie irrugginite dall’autunno, i vigneti deserti, l’erbe grigie dei prati nella valle dormenti nella gran pace, nella luce limpida che pioveva dal cielo pallido; abbassai gli occhi sulle zolle rotte e rivoltate del campo; poco a poco mi sfumarono davanti, mi sentii avvolto in una nube, molto lontano da quel sito e dallo scopo per il quale mi ci trovavo. Non so quanti minuti io rimanessi così, col fucile tra le gambe e gli occhi fissi fantasticando. Un nulla vi assorbe, un nulla vi richiama, mi riscossi osservando ai miei piedi certe scheggie bianchiccie frammiste alla terra giallastra: erano frammenti d’osso. Ne scorsi altri più precisi di forma nei solchi vicini; un capo del femore, una vertebra, una mascella che raccolsi per osservarne i denti confitti, saldi ancora negli alveoli. Non ebbi il campo a far riflessioni, scoppiò nel bosco uno scagnar furioso; alcune grida: — Attento! attento!... — In un attimo fui in piedi tutto occhi e palpitante; scorsero tre minuti, tre secoli, poi una lepre schizzò fuor dai cespugli nel campo. La povera bestia si avanzò prima nei solchi a gattonate, a gangherelli; s’arrestò un istante perplessa, inquieta, con le orecchie dritte, poi ripigliò trabalzando la sua corsa disperata. Veniva a me difilato senza vedermi; posi la mira a basso, fra le zampine anteriori e quando mi parve al punto, sparai... Fu l’unico capo di selvaggina ucciso quel giorno. * * * Tornati a casa, ci ritirammo a mutar abiti prima di cena. Deposta la cacciatora e frugando per le tasche a cercare i fiammiferi, mi trovai nelle mani il frammento d’osso raccolto il mattino. Come mai l’avevo serbato? Avevo obbedito probabilmente a quell’impulso incosciente, abituale ai cacciatori, che fa riporre in tasca la pezzuola, il pane, la pipa, al levarsi improvviso d’una selvaggina, invece di sbrigarsi col lasciarli cadere. Ruggiero ed il dottor Vercellis m’aspettavano in sala. Mostrai la mascella al dottore, che l’accostò alla lampada, mentre l’amico mormorava: — Quello è matto, anche le ossa di cane si porta a casa! — Non è di cane, — osservò il dottore, — è una mandibola umana. — Butti via quella porcheria! — esclamò Ruggiero. — Vuol lavarsi le mani? Or si va a tavola... Il dottore crollò il capo sorridendo, e pose l’osso sul camino. Si cenò adagio e lietamente; alle frutta Sauris andò in persona a cercare una bottiglia veneranda, che sturò con precauzione. — Questa, caro mio, — mi disse mescendo, — è antichità prelibata, simpatica, amabilissima. Darei per una cinquantina di queste... — Il tuo vecchio arazzo? — esclamai io, sperando. — Quello no, ma cent’altre cianciafruscole che sono in casa. Gran collettore d’anticaglie l’amico — seguitò egli rivolto al dottore. — Spende i denari in certe bazzecole, che è una pietà. Da del tu a tutti i rigattieri, i ferravecchi, gl’imbroglioni della città e dei sobborghi. La sera era fresca: andammo a seder davanti alla fiamma scoppiettante. — Dove l’ha raccolta? — mi domandò il dottore, ripigliando la povera reliquia umana. — Nel campo arato, ove ho preso la lepre. — L’avrei scommesso! In Riva Calda, scavando poco sotto il fior di terra, è ossa per tutto. — Vi sarà stato un cimitero, — fece l’amico. — No, uno scontro piuttosto, al tempo dei Branda, nel Novantanove. — Dei Branda? — fece Ruggiero a cui quel nome riusciva nuovo affatto. — Dei Branda, — confermò Vercellis. — Era un partito chiamato così da Branda Lucioni, capobanda realista ai tempi della repubblica. Le sue bande furono sciolte quando gli Austro-Russi si resero padroni del Piemonte. Ma nei tempi che seguirono, quando tornarono i repubblicani, chi parteggiò o fu creduto parteggiare per il Governo regio fu detto Branda. Erano pur detti in dialetto: _Coui d’la smana ch’ven_ (quelli della settimana ventura), forse per la loro ferma fede nell’imminente ritorno del re. Ha letto: _I miei ricordi_, di Massimo d’Azeglio? — Ci ho dato un’occhiata — rispose Ruggiero. — Bene, d’Azeglio narra che i pochi vecchi e provati amici che venivano in casa di suo padre negli anni che seguirono il ritorno da Firenze, appartenevano a questo partito... — Dottore, una storia! — interruppe Sauris; e volgendosi a me, continuò per stimolarlo: — Il dottore sa tutto quello che accadde in paese da trecento anni a questa parte, giorno per giorno come se l’avesse visto e notato. Quello che non sa lo inventa. Ma come racconta bene! Sa farti ridere da perdere i denti e farti rabbrividire e spiritare da tener la pelle accapponata per tre giorni... Dottore da bravo, una storia? — Da ridere no, — mormorò Vercellis — con questa cosa davanti. Incrociò le braccia e stette assorto con gli occhi fissi sulla mandibola. — È finita, — soggiunse poi. — Non posso uscir dal Novantanove! — Ci stia, — gli dissi. — Ci dica dei Branda. — Peuh! non c’erano soltanto i Branda in quel tempo a mettere il Piemonte sossopra. Prima di tutto v’era la miseria spaventosa: il grano era aumentato smodatamente di prezzo nei mercati, non si poteva più aver moneta erosa per le spese indispensabili, i soldati francesi consumavano il foraggio, vuotavano i pollai e le cantine e, mentre i ladri pullulavano nelle campagne, bisognava lasciarsi disarmare per non essere fucilati. Era venuto anche il voto dell’unione alla Francia, si gridava che il culto cattolico sarebbe interdetto, i parroci cacciati fuor delle chiese, tutta la gioventù mandata a militare oltremonti, e cento altri guai. Si mormorò, si gridò, molti Comuni insorsero, il Piemonte si coprì di bande, le quali, sotto colore di battersi per la monarchia e per la religione s’occupavano di vendette e di rapine. Preti e frati dai pulpiti spargevano olio sul fuoco; si commisero atti da cannibali!... — Ma i Branda? — fece Ruggiero, già sdraiato sul canapè. — I Branda... erano facinorosi più degli altri — seguitò il dottore. — E il loro capo un furfante impostore di nefanda memoria. Era un lombardo; antico ufficiale austriaco, già risparmiato dai francesi nella sollevazione di Pavia. Il diavolo lo portò in Piemonte nel Novantanove; cominciò ad andare in giro, vantandosi inviato dall’imperatore a rimettere sul trono il legittimo sovrano, spacciando che gli compariva Gesù Cristo a promettergli di condurlo di vittoria in vittoria sino a spazzar la Francia dai repubblicani, niente meno. I contadini cominciarono a seguirlo sbravazzando, sbraitando minaccie e giuramenti che avrebbero fatto ridere i polli, se ve ne fossero rimasti in Piemonte. Ma i fatti che seguirono non facevano rider nessuno. Marciava fiancheggiato da due straccioni cappuccini, suoi luogotenenti e segretari, scortato da un branco di pretacci e di fratacci ribaldi a guisa di stato maggiore, seguito da una marmaglia sfrenata, in disordine, armata di randelli, di fionde, di forche, di tridenti, di schioppi o di tromboni. Ammazzavano quanti soldati francesi incontrassero viaggianti in piccol numero, e tutti i repubblicani che lor cadessero negli artigli. Capitando in un villaggio, mentre le campane sonavano a festa, Branda Lucioni sostituiva all’albero della Libertà, rovesciato a terra, una gran croce, e vi si buttava davanti a pregare, a picchiarsi il petto, con gli occhi al cielo. Poi correva lagrimoso e compunto a confessarsi e comunicarsi alla parrocchia, mentre i suoi taglieggiavano allegramente e trucidavano quanti erano in voce di essere giacobini, chè tali per loro erano i più ricchi d’ogni terra, quanti avevano lite od interesse avverso ai caporioni della _Massa cristiana_, che così aveva nome quella bell’accozzaglia; ingiuriavano le donne più onorevoli, sempre col pretesto delle opinioni repubblicane; commettevano, insomma, tutti i delitti che possono inspirare la rabbia politica, il fanatismo religioso, gli odii privati e l’ingordigia della rapina associati ed uniti. Da Biella e da Ivrea fino alle porte di Torino regnava lo scompiglio e lo spavento. I villaggi che rifiutavano di riconoscere Branda Lucioni come regio mandatario, minacciati di sentirsi leggere il documento al chiaror delle case incendiate, cedevano e si lasciavano taglieggiare. Così accadde a Ciriè, San Maurizio, Caselle e Leynì... Alcuni fanatici della banda involarono nella chiesa di Soperga tre calici ed un ostensorio... Bruscamente il dottore s’interruppe e si volse a guardar Ruggiero nella penombra: era disteso, aveva gli occhi chiusi, la respirazione regolare, non si poteva dire che russasse, ma l’aria passando per le narici produceva un leggier sibilo, molto espressivo. Vercellis ebbe un breve sorriso, la sua fronte si andò spianando e corrugando con continuo movimento mentre rifletteva; infine si rivolse tutto a me: — Mentre che il contino dorme — riprese egli a voce più bassa — le dirò un fatto capitato qui nel maggio del Novantanove... Mio padre ogni volta che tornava a raccontarlo rabbrividiva e si rimescolava tutto. Di casa Sauris erano vive allora due persone: il conte Amedeo e sua sorella Melania. Il conte sposò poi in tempi migliori la baronessa Laneri del Castellaro, dalla quale ebbe Massimo, padre del nostro Ruggiero. Allora, trovandosi giovane assai, forte di corpo, d’animo ardito ed appassionato, era andato a raggiungere il cavaliere di Vonzo, antico ufficiale piemontese, il quale, con un tal Cerigna chirurgo, s’era posto a capo dei campagnuoli nelle gole degli Appennini. La contessina Melania aveva sposato il cavaliere Boetti di San Giorgio, ammazzato subito, pochi giorni dopo le nozze, in non so qual fatto d’armi. Nel separarsi ella gli aveva dato il suo ritratto in miniatura; le fu riportato stiacciato dalla palla che aveva passato il cuore. Gli voleva un bene dell’anima, fu uno di quei dolori che ne va la vita o la ragione. Dopo giorni di pianto, di disperazione, di strazio mortale, venuta a rinchiudersi qui nel castello, aveva incominciata una vita monotona e regolare, come fosse circondata da una grande solitudine. Si diceva che non avesse più senso di nulla, che le si fosse travolto il cervello. Non scendeva mai nel villaggio, non riceveva che l’arciprete-parroco, il quale saliva a dir la messa per lei e per i servitori nel piccolo oratorio del torrione. Dalla piazza la scorgevano pallida, vestita a bruno, col gran _fichu_ di _linon_ alla Maria Antonietta, passeggiar sulla terrazza, o starsene immobile con la persona eretta, le mani sul parapetto, i begli occhi perduti in un punto lontano. Le donne dicevano che guardava le montagne ove era morto il marito. L’arciprete Don Barbero, uomo impetuoso, audace, gran cacciatore al cospetto di Dio, professava quasi apertamente massime anti-repubblicane. A costui non mancava che l’occasione per seguire l’esempio di altri ministri di pace del suo stampo. Vescovi, frati e preti, oltre all’aizzar la rabbia delle turbe, predicando che lo scannar francesi e patrioti era opera meritoria presso Dio, facevano comunella con gl’insorti, li aiutavano, li sostenevano, benedicevano loro le mani intrise di sangue. Il vescovo d’Asti di tepido repubblicano si trasformava in acerrimo persecutore dei patrioti; il vescovo d’Acqui si faceva condurre gli sciagurati caduti nelle mani dei campagnuoli e li cacciava al buio negli umidi sotterranei del Seminario; quello d’Alba diveniva capo delle sommosse popolari nella sua diocesi, col nome di _Comandante degli insorti_. Preti e frati, fanatici energumeni, si vedevano col crocifisso in mano e lo schioppo in spalla scorrazzare, trasmutati in capibanda, le strade e le campagne dando la caccia ai francesi ed ai patrioti. Così il curato di Bra, quel di Primeglio, di Castelalfèro ed altri assai. A Ripalta, Don Barbero si contentava di predicare e di riscaldare gli animi coi discorsi sovversivi; ma, quando nei primi giorni di maggio insorsero Vauda di Front, Airasca, Villafaletto, Villafranca e non so quanti altri paesi, i nostri villani più caldamente istigati gettarono anch’essi a basso l’albero della Libertà. * * * Poi ad una domenica tutta di tumulto successe un lunedì tranquillo; l’albero era a terra come un nemico morto, i monelli vi correvano sopra a piè scalzi, facendo a chi lo percorresse tutto senza sdrucciolarne; i contadini consideravano l’operato, i municipalisti — fra i quali era mio padre, flebotomo e speziale — non avevano saputo far niente prima e meno sapevano adesso. Tacevano le campane, erano cessati gli urli e lo schiamazzo e non si udiva che qualche grido rauco ed isolato: — Viva il re! Viva l’indipendenza! Viva noi! — Poveri echi delle furibonde acclamazioni del giorno prima. Quand’ecco, tutto in un momento, senza che nessuno si presentasse ad annunziarli, si videro comparire sulla strada maestra: _Les habits bleus par la victoire usés!_ Cioè i francesi che venivano a ristabilir l’ordine. Era una colonna di forse duecento uomini, comandata da un capitano e da ufficiali. Vennero difilato in piazza, senza trovar resistenza la occuparono, e, mentre il duce, abboccatosi coi municipalisti, mostrava col gesticolamento e col cipiglio di volerli ingoiar vivi; i soldati si sparsero per il villaggio. Si udirono subito strida e pianti di donne, strillar di bambini, bestemmie, minaccie, abbaiar di cani, il fracasso degli usci ed imposte che volavano in pezzi. Si videro comparire in piazza capi di bestiame grosso e minuto in povero stato, anitre e galline magre e consunte. Tornarono i soldati inviati ad arrestar l’arciprete come fomentatore principale dei disordini: non avevano trovato nessuno nella casetta, manco la serva. Un mendicante scemo, che sedeva sulla porta, interrogato e minacciato, assicurava di averlo visto scappare per una viottola che metteva alla macchia vicina. Avevano intanto spezzate le campane parrocchiali. Il capitano, giovane, piccoletto, ma saldo più dell’acciaio, coi capelli color di sabbia, piatti, separati in mezzo alla fronte e pioventi per le tempie fin sulle spalle — così lo dipingeva mio padre — stava seduto davanti alla piccola osteria aspettando il desinare. Sentito il rapporto del sergente, chiamò a sè un ufficiale e cominciava ad impartirgli ordini sottovoce, quando alla finestra d’una casupola di fronte si udì lo scoppio d’un’archibusata. L’ufficiale impallidì, stralunò gli occhi, e dando una giravolta, stramazzò colla faccia in terra. Il capitano, a cui forse era diretto il colpo, saltò in piedi tuonando ordini che si perdettero nel trambusto. I soldati si avventarono contro la casa, urtandosi, impacciandosi a vicenda; la porta fu sbatacchiata, irruppero dentro; tosto comparvero faccie scalmanate alle finestre urlando a quei di sotto che non trovavan nessuno; e poi s’udì dietro la casa lo schiamazzar di coloro che visto l’assassino saltare la siepe dell’orto e correr volando, attraverso i prati, alla macchia, cominciarono a sparargli addosso e a dargli la caccia. Intanto il capitano, che era andato correndo di qua e di là mordendosi le dita di rabbia, gridando e sagrando, era riuscito a raccozzar gli uomini, e subito con due ordini rapidi e precisi li aveva scagliati addosso ai contadini ad arrestarne quanti avessero potuto. Lo scalpore, gli strilli, le ingiurie andarono alle stelle: gli arrestati, a pugni, a pedate, a spintoni erano cacciati nella chiesetta di S. Rocco. Dopo un momento per la piazza non si videro più che uniformi, i contadini essendo tutti arrestati o scappati fuor del villaggio. Davanti all’osteria, i municipalisti in gruppo stavano immobili, intontiti, minacciati alla vita da una siepe luccicante di baionette in canna. Quando mio padre vide venire il capitano, trafelato, grondante di sudore, con gli occhi e la fronte in burrasca, pensò: — Son ito! Colui fece smettere con un gesto i soldati che si divertivano a torli di mira e quelli che li punzecchiavano nelle reni con le baionette; si piantò in faccia sulle gambe aperte e dettò con arroganza le sue condizioni. Ecco: — Imponeva una contribuzione di guerra di lire ventimila in moneta corrente di Piemonte, od in effetti d’oro e di argento equivalenti: rifiutava gli assegnati. La taglia doveva essere pagata dentro la settimana; in quel frattempo il villaggio avrebbe provvisto alla sussistenza dei soldati. Al sabato, o i danari o fuoco al villaggio senz’altro. Questi erano gli ordini del commissario francese. Come rappresaglia per la morte dell’ufficiale, si sarebbero fucilati subito sei contadini, tolti a caso fra i prigionieri; avrebbe poi seguitato così ogni giorno per obbligare la municipalità a spicciarsi. Non aveva ancor finito di parlare che già gli uomini erano allineati col fucile al braccio; sei disgraziati, i primi che vennero nelle mani furono trascinati fuori della chiesa e buttati contro la casa donde era uscito il colpo. Erano ansanti, esterrefatti; quando capirono fu uno strazio. Due di essi caddero sulle ginocchia, sfiniti, abbandonati, come si fosse reciso i loro nervi, un altro rimase impietrito con gli occhi e la bocca sbarrati e le mani per aria; i più giovani cacciando strida disperate, si divincolavano come serpi contro la muraglia, graffiando coll’unghie, puntando le braccia come per aprirla e fuggire. Un fragore empì la piazza... poi silenzio di morte, neppure un gemito. Il fumo s’alzò: mio padre aveva ancora negli occhi, dopo tanti anni, quei corpi a terra, gli uni sugli altri, come falciati. E mentre si rompevano le file e tornavano le voci e il rumore, la nuvola saliva al cielo densa, come per aiutare l’ombra della notte ad oscurarlo. * * * Naturalmente la taglia doveva essere ripartita fra tutti: nobili, preti, borghesi, campagnuoli. I municipalisti cominciarono a darsi attorno per raggranellare il valsente; toccò a mio padre rivolgersi alla contessa Melania. Era notte. Egli si presentò al portone che s’apre sul villaggio, picchiò e ripicchiò senza ottenere risposta. Andò lungo il muraglione del giardino fino al cancello che mette sui campi; appuntando lo sguardo fra i rami, scorse un abbaino illuminato nella casetta del giardiniere; chiamò forte, e quando vide l’uomo avanzare nell’ombra del viale si nominò e disse il motivo che lo conduceva. Il giardiniere non s’arrischiò ad aprire senz’ordine, corse al castello e ritornò subito per introdurlo. Gli disse che la contessa era nel salone terreno. Lei, vi avrà osservato due seggioloni antichi, coperti di cuoio, coll’impresa della casa stampata in oro?... Be’, quella sera i due seggioloni erano vicini alla tavola di mezzo: nell’uno sedeva la contessa, l’altro, vuoto, era situato in modo da far pensare a mio padre che una persona l’avesse poc’anzi occupato. V’era anche un libro sulla tavola aperto e girato in quel verso: gli parve un breviario. Mio padre si ricordò poi dopo di questa circostanza; in quel momento pensò a fare un bell’inchino, e ad esporre con garbo i fatti e le ragioni per cui era venuto. Non aveva rivisto da vicino donna Melania dopo la vedovanza, l’impressione di quella visita non gli uscì più dalla mente. Era pallida, accigliata, bellissima. Abbandonata la persona sulla spalliera, il viso un po’ chino sul petto, le mani a riposo sui bracciuoli, stava immobile ascoltando, pareva scolpita. Ma le palpebre battevano sugli occhi luccicanti, fissi sul pavimento, ove forse si disegnavano per lei, tramutandosi senza posa, lugubri e fantastiche visioni di sangue. Di tratto levò il capo e lo sguardo; diceva mio padre che uno sguardo così non l’aveva veduto più mai. Non era nemmeno naturale: ora brillava vivo, acuto, scintillante come la lama d’un pugnale sguainato di colpo; ora pareva spegnersi, errar smarrito sulle persone e sugli oggetti senza raffigurarli e passava via; tornava colla rapidità del lampo, acceso d’una fiamma scura, e si levava severo, imperioso, terribile come una minaccia... per ridiscendere blando e soave come un raggio od una carezza. Quando egli disse la miseranda fine dei sei contadini, le scorse balenar l’odio negli occhi per modo che n’ebbe un brivido e si sentì mozzar la favella. Vi fu un silenzio e finalmente udì pur la sua voce; una voce morbida che si sentiva spossata da un dolore mortale; velata, dolce, fioca così che pareva venisse da un punto lontano... ricordava quella d’una persona che parli in sogno. L’accento era grave, lento, modulato con un tono d’indifferenza molle, come se quanto veniva dicendo non avesse importanza o non fosse affar suo: — Aveva inteso; avrebbe voluto far tanto e poteva far poco, poichè le Case Sauris e Boetti avevano tutto donato al rompersi della guerra, come la Corte e tutta la nobiltà. — E non disse altro. Mio padre tornò correndo al villaggio; era sopraffatto da un gelido senso di paura, gli pareva che le anime invisibili dei trucidati di quel giorno, strappate in modo così fulmineo dai corpi, errassero nelle tenebre senza sapersi decidere a lasciar quei luoghi, quasi aspettando quelle che dovevano raggiungerle il domani. * * * Il giorno seguente arrivò a sera senza gravi mutazioni: i soldati continuavano a mettere sossopra il villaggio. Il capitano passeggiò per la piazza discorrendo con gli ufficiali, giocò davanti all’osteria e, a mezza giornata, fece subire a mio padre una specie d’interrogatorio a proposito dell’arciprete. Gli domandò dove lo credesse rifugiato. — Nella macchia, — rispose mio padre. — È grande la macchia? — Grandissima e folta. — Non supponete invece che si trovi nel castello? Mio padre rivide il seggiolone voltato alla tavola, il breviario aperto, immaginò il vero. Rispose fermo che essendo stato nel castello la sera innanzi aveva trovata la cittadina Boetti tutta sola. Pareva però che il capitano non volesse occuparsi del castello; era noncuranza o proposito? Forse non sperava d’entrarvi colle buone e le muraglie e le porte apparivano così salde che per varcarle di forza occorreva presso a poco un assalto. Forse non stimava che il bottino francasse la spesa, o riserbava la festa per l’ultimo giorno. Sul tardi, ad ogni municipalista che passasse, gli ufficiali gridavano di spicciarsi coi quattrini, trattandoli di maiali, cialtroni, infingardi ed altre finezze; poi di schianto un ordine volò per la piazza: in due minuti si formò il plotone e gli si cacciaron davanti sei disgraziati. I municipalisti accorsero angosciati, pregando, implorando si sospendesse l’esecuzione; speravano di consegnare nel domani gran parte della somma; nel caso contrario sarebbero stati dodici i fucilati invece di sei. Il capitano non li fece degni d’uno sguardo o d’una parola. Si caricavano i fucili; il portone del castello si aprì, n’uscì un vecchio con un sacchetto pesante; erano cinquemila lire di moneta corrente inviate dalla cittadina Boetti. — V’è il conto? — domandò il francese con arroganza ai taglieggiati. Gran Dio! erano lontani ancora, però il domani... Il capitano, di fianco al plotone, cacciò fuori la spada. — O tutto o nulla, carogne! La lama balenò: seguì fulmineo il tuonar dei fucili. * * * S’era al terzo giorno, stava per cadere il sole, il momento fatale s’avvicinava. I membri della Municipalità, agitatissimi, si sentivano sui carboni accesi; avendo fatto il possibile e l’impossibile, trovavano mancare tuttora una buona parte della somma, che non si lusingavano di veder condonata. Il capitano neppure si curò d’interrogarli; dalla tavola dove sedeva guardò il sole che bruciava il sommo del poggio in faccia e lanciò l’ordine di morte. Fra’ soldati, quelli a ciò deputati, si allinearono, altri si accomodarono a vedere; parecchi corsero alla chiesa a scegliere le vittime. Scoppiò là dentro un tafferuglio orrendo. Gli sciagurati che sapevano d’essere tolti nel mucchio, prima si facevano piccini, aggruppandosi, ficcandosi gli uni dietro gli altri, cercando sparire: poi, vedendosi addosso i soldati, si sbrancavano a furia, scappando di qua, di là per sfuggire, sgattaiolando per nascondersi. I francesi si divertivano un mondo a quella sorta di mosca cieca mortale: li inseguivano vociando, sghignazzando, lasciando l’uno per agguantar l’altro, dandosi il barbaro gusto di prolungare l’agonia di tutti, col palleggiarli dalla morte alla vita. Il capitano, colla spada sguainata, aspettava; ed ecco di nuovo aprirsi il portone. Si vide sulla soglia l’alta figura sottile della contessa Melania, con la sua veste nera, i grandi occhi inquieti, il volto più bianco che mai. Venne nobile e lenta al francese che la guardava colpito, e, a due passi da lui, con un tono freddo, lontano ugualmente dall’ordine come dalla preghiera, gli disse d’indugiar l’esecuzione. Sperava di giungere a completare la taglia, con quanto rimaneva di valsente in castello: invitava il capitano a salirvi, a verificare, a pagarsi. Piegò appena il capo, voltò le spalle e se ne tornò d’onde era venuta. Non si vedeva più da un pezzo, ed il giovinotto guardava ancora da quella parte immobile e muto. * * * Salì subito con un luogotenente, alcuni soldati e tre municipalisti, fra i quali mio padre. Non trovarono anima viva in cortile, un gran silenzio come se il castello fosse abbandonato; ma avanzando videro lume alle finestre del salone terreno e vi si diressero. La contessa era là, ritta presso alla tavola. Sotto la fiamma sanguigna e vacillante di una grossa lucerna senza paralume, brillavano gli arredi sacri dell’oratorio, le poche gioie d’uno scrignetto aperto e quanto forse restava dell’argenteria di casa Sauris. Il capitano ed il luogotenente aspettavano un cenno, un invito: donna Melania non pareva vederli, teneva gli occhi a terra come riposasse profondamente in un solo pensiero. Allora i due scambiarono un’occhiata inarcando le ciglia, e appressandosi non senza esitanza, cominciarono ad esaminare il tesoro. Per qualche minuto non si udì che il suono acuto dei metalli palpati e pesati, il bisbigliare dei francesi, e su tutto il singhiozzo lugubre di un gufo nei gran cipressi del cortile. Mio padre guardava palpitante, sentiva correre dei brividi per le spalle, come quando si dice che passa la morte. I due ufficiali si consultarono: sommando quanto aveva raggranellato la Municipalità, il danaro dato dalla cittadina la sera innanzi con ciò che offriva in quel punto, la cifra che si esigeva era quasi raggiunta; ad ogni modo si dichiaravano contenti. Il capitano levò il capo per annunziarlo alla contessa, e si trovò appuntati in viso i suoi occhi. Ritta così, con la fiamma che le rischiarava il viso di sotto in su, in pieno, togliendo ogni ombra, accrescendo il sinistro splendore delle pupille, al dir di mio padre, ella aveva l’apparenza di uno spettro. Soggiungeva che in quell’istante magnetizzava senza dubbio il francese facendolo con la magica virtù dell’occhio, docile e mansueto come un cagnolino. Non ne so niente, ma mio padre credeva a tante cose, al fascino, a mo’ d’esempio, degli uomini e degli animali. Per i primi citava questo fatto istesso; per i secondi raccontava di aver provato ad avvicinare un povero cardellino ad una vipera che gli avevano portato in bottega per trarne del brodo. Questa rivolgendosi a spire come per scattare; aveva fissato gli occhiolini accesi sull’augelletto, che si era messo a tremare convulsivamente nella mano, palpitando palpitando e rimanendo stecchito. In fine, mentre si cacciava in un sacco tutta quella roba, il giovane, come spinto da una muta forza, da un occulto voler superiore, si lanciò fuori sulla terrazza, e, protendendosi dal parapetto, gridò con voce tonante alla piazza l’ordine di mettere tosto in libertà tutti i prigionieri. S’udirono in seguito voci ed esclamazioni, scoppi di grida, un calpestìo affrettato seguito dalle sonore risate e dai motteggi clamorosi dei soldati che assistevano allo sbucare pazzo di quei poveracci fuor della chiesa e al loro frenetico scappar dalla piazza. Il capitano balzò in sala di nuovo a testa alta, impettito, tutto fiero della dimostrata premura. In quel momento il maestro di casa sollevava la portiera nel fondo e si vedeva una tavola apparecchiata a due posti. Donna Melania fece un rapido gesto di congedo a tutti e, figgendo sul giovane gli occhi veementi, si mosse verso la tavola come per invitarlo a seguirla. Non era più pallida, un lieve rossor febbrile le coloriva le guancie, un turbamento strano le fremeva nella persona, i suoi occhi potenti si dilatavano, brillavano come due diamanti. Il francese la guardava con stupore. Mio padre lo vide impallidire un momento, gli notò in viso un istantaneo e profondo sconvolgimento, le sue labbra si agitarono per trovar forse una parola di rifiuto. Dio sa da qual lucida, elettrica intuizione fu colpito in quel punto! Ma il turbamento durò poco, tornò imperterrito e petulante, sorrise e s’inchinò a ringraziare con un bel gesto da cavalier francese. * * * Il domani gli uomini erano in ordine di partenza, gli ufficiali aspettavano, scambiando sorrisi, osservazioni, motteggi sottovoce, levando spesso il viso a guardare il castello. Splendeva un così bel sole lassù, il venticello scherzava nelle fronde nuovissime, i passeri si rincorrevano sui tetti e sul terrazzo, s’udivano gli usignuoli nel giardino. Ma il capitano non compariva. Bruscamente una voce circolò nelle file, arrivò agli ufficiali, che fatto venire un soldato, lo interrogarono. Costui l’aveva veduto uscire dal portone verso il tocco. Esortato a rammemorar ben tutte le circostanze, affermava di non ingannarsi, solo gli era parso un po’ più corpulento: effetto forse, diceva lui, della cena gustata. Gli ufficiali, che non si raccapezzarono più, si consultarono e si risolsero. Mentre l’un d’essi andava con alcuni uomini al portone, l’altro si presentava, scortato pure, al cancello. Fu aperto ad entrambi. Nell’interno trovarono i servitori che andavano e venivano alle loro faccende; due muratori riparavano una tettoia in fondo al cortile, certe donne tendevano il bucato, e la cittadina Boetti, con le mani inguantate, dirigeva e consigliava il giardiniere occupato a mondare i rosai dietro la casa. Tutti, signora e servitori, interrogati, mostrarono di non saper niente del capitano, come non l’avessero visto mai. Certo era troppa la calma e l’indifferenza loro per non essere simulata, ma d’altra parte era evidente che nessuno avrebbe parlato, neppure con la morte alla gola. Gli ufficiali dal terrazzo chiamarono su altri soldati di rinforzo; e, mentre alcuni esploravano palmo a palmo il cortile ed il giardino per trovar traccie recenti di scavo o di terra smossa, gli altri facevano una minuziosa ispezione per tutto il castello, dalla soffitta alle cantine. Si frugò nelle scuderie, sul fienile, pei magazzini; si cercò nel pozzo, nel forno, nelle gole dei camini, e solo in uno di questi si trovarono le traccie di panni arsi da poco, ma senza bottoni o fregi metallici che tradissero indumenti militari. Gli ufficiali in disparte si perdevano in un ginepraio di supposizioni: lasciavan fare ai soldati che, avendo finito di frugare, ricominciavano. E poco a poco costoro si accaloravano, i loro animi s’inasprivano; presero a manomettere, poi a fracassare. Presto la casa parve pigliata d’assalto: correvano vociando e minacciando per gli appartamenti, forzando e sbatacchiando gli usci, scaricando le pistole nelle serrature, spostando e scassinando armadi e cassettoni, buttando per terra gli oggetti, le vesti, la biancheria alla rinfusa, strappando le cortine, lanciando i mobili con le gambe per aria o buttandoli dalle finestre. La maledetta febbre della distruzione faceva briachi i cervelli, metteva nelle mani e nelle braccia delle smanie furiose, suscitava in coloro la frenesia omicida: quel delirio di sangue che spinge l’uomo armato ed invelenito a voler adoprar l’arma sua ad ogni costo. Due di costoro andati incontro al maestro di casa e presolo per il petto, gli urlavano in faccia imprecazioni e minaccie; altri, fremendo coi denti stretti, venivan coi fucili spianati alla vita degli altri servitori. Un momento ancora e più nulla li avrebbe frenati... Nella macchia cupa, foltissima, che rivestiva la collina di fronte al villaggio, scoppiarono d’un tratto alcuni spari e si videro le nuvolette grigie ondeggiar sui cespugli. Gli ufficiali corsero alla terrazza, riparandosi gli occhi dai raggi, osservando, scrutando; poi l’un d’essi si precipitò alla scalinata, l’altro si diede attorno a riordinare gli uomini in fretta ed in furia. Subito il bosco parve animarsi e viver tutto: s’empì di guizzi di fiamma e di fumo; le palle grandinarono sul villaggio. Dalla terrazza del castello si cominciò a rispondere; al basso ufficiali e sergenti cacciavano correndo comandi brevi ed acuti, per disporre gli uomini ai loro posti di battaglia. Non n’ebbero il tempo; l’aria rintronò di grida forsennate; una turba fitta, disordinata, furibonda irruppe sulla piazza e piombò sui francesi. Camicie, farsetti, giacchette, tonache di preti e di frati si mescolarono furiosamente agli uniformi. La battaglia proseguì corpo a corpo: sciabole e baionette contro falci, coltelli, tridenti. Un gran Cristo di legno dominava la strage come un insegna; scoppiavano indistinte nell’urlìo orrendo le grida fanatiche di: — Viva il re! Viva noi! Morte ai giacobini!... I francesi, rotti in piazza, si sparpagliarono per le vie; la mischia seguitò spaventosa negli orti, fra le siepi, nelle aie, nei cortili, nelle stanze; si mutò in eccidio. Quelli che si trovavano in castello si ripiegarono nel giardino, uscirono pel cancello sui colli, ma raggiunti ed accerchiati nel sito detto poi Riva Calda, non ottennero a niun patto quartiere. Ci sono morti là pezzi di giovanotti!.. Ora questa mandibola, così ben fornita, — aggiunse il dottore, ripigliandola fra le mani, — potrebbe benissimo aver appartenuto a qualcun di coloro. E sa chi era fra i primi a scannar francesi?... Don Barbero, anima pia, con gli abiti del capitano. — E il capitano? — Ah! quello non fu rivisto mai. * * * Non rammento d’aver sognato quella notte la bella e fatal figura della contessa Melania; ma nei due o tre giorni ch’io rimasi ancora a Ripalta provai, aggirandomi per le stanze del castello o passeggiando in giardino, un senso inatteso di commozione che mi portava a fantasticare un mondo di cose indefinite. Tutto quanto si riferisce ai secoli morti, alle generazioni passate, per una speciale disposizione del mio spirito, si riveste per me di poesia. La conformazione delle strade di certi nostri villaggi, l’aspetto esterno ed interno delle chiese, delle case, anche un mobile, un quadro, un oggetto, bastano ad eccitare in me l’attività fantastica, a risvegliare sensazioni arcane, idee indeterminate, inafferrabili, che paiono rischiarare la mente come lampi, quasi occulte reminiscenze d’una vita anteriore. Le parole di Ruggiero: «quello che non sa il dottore lo inventa», mi tornavano spesso alla mente. Certo, ripensando al racconto molte cose mi riescivano sospette; i fatti, malgrado le minuzie e le realtà di certi particolari, mancavano di determinatezza. Un fondo di verità ci doveva pur essere, ma il dottore aveva senza dubbio elaborato, ampliato e fiorito il soggetto. La figura di Melania, Dio sa in qual romanzo era andato a pescarla! Se pur non era sgorgata fuor dell’immaginazione così tal e quale. Ma io stesso, in quell’ambiente, ero venuto in una sorta d’ebrietà intellettuale, creavo a me stesso visioni d’una realtà intensa e curiosa, passavo d’una in un’altra, internandomi in ognuna di esse fino a discernervi minutissimi particolari, con convinzione, con esaltazione. Quel fantasma di donna m’era visibile agli occhi, sentivo trasalire in fondo al cuore qualche cosa di lei penetratovi col racconto. La vedevo in lutto, con la sua carnagione d’un pallore di avorio, coi grandi occhi nerissimi che, animati da interni fulgori, sapevano fissare così intentamente da affascinare sull’atto. Immaginavo la pietosa storia di quella giovane sposa, vedova il domani delle nozze: i lunghi giorni vissuti nella glaciale solitudine di quel triste castello, giorni contati a goccie di sangue, per quel coltello che le aveva passato l’anima: covando in cuore un odio ineffabile, inestinguibile contro coloro che glielo avevan confitto... E la creatura della mia fantasia si andava facendo viva e reale, come l’avessi conosciuta, e m’ostinavo a cercare un riflesso, un’essenza eterea di lei che parlasse ancora, dopo tanti anni, della sua presenza in quei luoghi... — Ma che diavolo n’avean fatto del capitano? * * * Quattro mesi dopo, nei primi giorni di marzo 1887, Ruggero fu a trovarmi nello studio. Aveva la faccia di chi ha una grande novità da metter fuori; gettò il cappello e la mazza sul divano e cominciò a levarsi i guanti soffiando e brontolando: — Ah! mio caro, mio caro, mio caro... — Spero — gli dissi — che non sarai venuto per parlarmi del terremoto! — Ma sì, ma sì. — Eri in Liguria, forse? T’è capitato qualcosa? — A Torino ero ed in letto ancora, la mattina del 23 scorso! Immagina, avevo ballato al Circolo, cenato, bevuto... So assai, poi ero andato a casa. Accaddero le scosse, il fracasso, il finimondo... mi svegliai a mezzodì dalla parte che m’ero abbandonato. — Sei il re dei ghiri! — Anzi fu Michele che mi svegliò; l’ebbi da lui la scossa sussultoria, ondulatoria e convulsiva: c’era Jona, di là, con la cambiale; primo giorno di Quaresima, si sa... Adesso ti dirò: il domani poi, lettera di Aragno il fattore. Il crollo infernale aveva intronato tutte le case di Ripalta, ma gente non n’era perita. Il mio torrione, situato su terreno di trasporto, aveva barellato assai bene; s’erano fatte crepe importanti novissime, allargate le antiche. Ti puoi figurare! La mia povera bicocca avita, già tanto malandata, dove non oso tossire, nè sternutare e vo’ adagio in punta di piedi per non tirarmela in testa... V’andai subito, non trovai quel gran male che m’attendevo: torrione, castello e il resto tenevano ancora benissimo insieme, ma il capo mastro di Ripalta mi avvertì che ci andrebbe assai ferro a rilegarli. La spaccatura più pericolosa corrispondeva anche nell’interno, nella camera ove hai dormito, precisamente sotto il bel arazzo. Ordinai si schiodasse. Ti ricordi?... il parato della camera è un coiame antico lavorato a rabeschi, staccato in certi punti e pendenti a pezzi e bocconi rasente il muro. Naturalmente la parte che correva sotto l’arazzo era più conservata, ma in un certo tratto mancava lasciando la muraglia nuda per uno spazio alto e rettangolare, come vi fosse stata nel tempo un’apertura. Una porta non poteva essere; immaginammo un armadio a muro; percotendo col pugno sonava a vuoto. Il capomastro picchiò colla picozza, venne a terra un palmo d’intonaco, si spostò un mattone ed ecco un buco scuro. «Lavoro fatto in fretta e male!» brontolò l’uomo. Ma vedi, un’altra idea veniva già a lui, a me, ad Aragno, a Michele: «chi sa mai, in un castellaccio antico, con tante guerre da che mondo è mondo, e rivoluzioni, epidemie ed accidenti, cosa poteva aver nascosto lì dentro l’anima cara d’un bisarcavolo mio». — Scudi, fiorini, ducatoni, marenghi! Avanti, Dio superiore!... Il martello cominciò a lavorare. Si trovarono in alto i palchetti di legno vuoti, poi a basso un negozio lungo e massiccio intonacato di calce ingiallita; era duro e compatto, si cominciò a spezzare. Stai a sentire! Si mostrarono prima certi cenci corrosi e scoloriti che presero una forma... la forma d’una persona avvoltolata fra coperte, e, subito, capisci, subito venne in luce la testa, una faccia umana vera, con la pelle secca e gialla come pergamena, stirata qua, grinzosa là, con gli occhi affossati nelle orbite enormi, la bocca storta e contratta, i denti visibili, bianchi ed intatti... E poi i capelli, le ciglia, certi mustacchi rossicci ancora aderenti, come incollati... una mummia, ecco, una vera mummia, in una parola! Ti so dire che nessuno aveva faccia da ridere: pallidi, allibbiti, non si pronunciava sillaba, come non s’avesse più fiato... Ho voluto tener la cosa segreta... Storie! Tutto il paese volle vedere: il parroco ha detto subito non so quante messe in suffragio dell’anima sconosciuta, e le pagherò io. Il giornale della provincia: l’_Eco dei colli_, raccontò romanzescamente il fatto e concluse sperando che l’autorità, con perspicaci investigazioni, sarebbe riescita a stabilire l’identità degli avanzi e fare la luce. Sicuro! Ma, viva Dio, non pare anche a te una cosa curiosa, fantastica, incredibile, enorme: un fatto da romanzo!?... A proposito, il dottore Vercellis è accorso subito, è rimasto di stucco anche lui e mi ha tanto raccomandato di venirtelo a dire. Dello stesso Autore _LA CONTESSA IRENE_ ROMANZO Un vol. in-12º. 1889 — L. 3. _I LANCIA DI FALICETO_ Con Prefazione di G. GIACOSA Un vol. in-12º, con 30 illustrazioni — L. 4. _I PIFFERI DI MONTAGNA_ _UN PALADINO_ RACCONTI Seconda ediz. — Un vol. in-12º, 1889 — L. 2,50. _LA BELL’ALDA_ LEGGENDA Un elegante vol., con illustrazioni, in-8º, 1885 — L. 2. (_Legato alla Bodoniana_ L. 2,50). NOTE: [1] Une fantasie qui se propage parmi les jeunes gens, est celle de décorer leur chambre à coucher, et particulièrement le chevet de leur lit, d’armes de toutes les espèces; on se croirait dans le cabinet de don Quichotte. — _L’hermite de la Chaussée-d’Antin._ [2] Piazza Castello. [3] Via Barbaroux. [4] In capo alla via di Po, due bei viali si prolungavano sino al fiume ed ai lati, ove ora sorgono le case, si estendevano prati e campi. [5] M. de Jouy, nel suo «_Hermite en Italie_» fa così menzione di questo conte S... «Depuis dix ans, le comte de S... n’avait dit un mot à personne, il indiquait avec la pointe de son couteau ce qu’il voulait qu’on lui servit. Il montait souvent à cheval et fréquentait les théâtres et les promenades; mais rien ne lui faisait enfreindre la loi du silence éternel qu’il s’était imposé à l’âge de vingt ans, jouissant d’une assez belle fortune. Il avait eu le malheur à cet âge de commettre une indiscrétion, qui avait causé un duel dans le quel avait succombé son plus intime ami; il résolut dès lors de ne plus prononcer un seul mot, et aucune tentative, aucune séduction ne purent ébranler sa résolution». [6] È probabilmente il personaggio conosciuto dal signor Jouy che dice d’averlo incontrato al suo arrivo in Torino al caffè del Rondeau: dove entrando trovò: «Un petit bossu que j’avais connu à Paris au commencement de la révolution. Je tais son nom, mais toutes les personnes qui ont été à Turin le reconnaîtront sans doute. Rien de plus drôle, de plus gai, de plus spirituel que ce petit homme; il n’avait presque pas eu d’éducation, mais il était impossible d’avoir reçu de la nature un meilleur cœur et un sens plus droit. Sa difformité ne l’empêchait point d’être très-bien venu du beau sexe, et personne n’était plus galant que lui» etc. Ed altrove: «mon spirituel bossu, qui était bien la chronique vivante de toute la haute Italie». [7] Il principe Borghese, duca di Guastalla, cognato di Napoleone, governatore generale al di qua delle Alpi. [8] Società letteraria che si adunava in casa del conte Prospero Balbo, in via Bogino, col nome di Accademia dei Concordi. Ne facevano parte alcuni giovani che furono poi uomini chiarissimi. Erano tutti designati con un nome accademico, così Ferdinando Balbo era detto il _Travagliato_, Luigi Ornato, lo _Stringato_, Alessandro d’Angennes il _Patetico_, ecc. (_Curiosità e Ricerche di Storia Subalpina. Punt. III_). [9] Via Principe Amedeo. [10] Via San Francesco da Paola. [11] Piazza San Carlo. [12] Il tratto di via Roma che corre tra piazza San Carlo e piazza Carlo Felice. [13] Durante la guerra di Spagna, si riunivano ogni tanto in branco i soldati che non potevano più servire, malconci per gli strazi e le ferite, e si rinviavano alle loro famiglie. [14] Nome dato dai soldati alla palla del cannone. [15] Merciaio. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RELIQUIE - LE MASSE CRISTIANE *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate. While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. 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