The Project Gutenberg eBook of Che cosa è l'arte? This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Che cosa è l'arte? Author: graf Leo Tolstoy Contributor: Enrico Panzacchi Release date: March 3, 2022 [eBook #67556] Most recently updated: October 18, 2024 Language: Italian Original publication: Italy: Fratelli Treves Editori Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK CHE COSA È L'ARTE? *** LEONE TOLSTOI Che cosa è l’arte? _Traduzione autorizzata dall’autore_ PRECEDUTO DA UN SAGGIO DI Enrico Panzacchi: _Tolstoi e Manzoni nell’idea morale dell’Arte_ MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1904 — =Quinto Migliaio.= PROPRIETÀ LETTERARIA Tip. Fratelli Treves. TOLSTOI E MANZONI NELL’IDEA MORALE DELL’ARTE SAGGIO DI ENRICO PANZACCHI[1] I. Il libro di Tolstoi: Che cosa è l’Arte? È un libro che meriterebbe di essere confutato da Ernesto Rénan. Quanto a idee generali, esso non ci apporta grandi novità circa la mente dell’autore sull’arte e il suo ufficio nel mondo. Leggendolo si pensa alla _Sonata a Kreuzer_ e si trovano cose già dette nel volume _Zola, Dumas et Guy de Maupassant_. Ma lo svolgimento della tesi è molto più largo e profondo; e ne esce più fortemente ribadita la condanna dell’arte contemporanea. “Un giorno„ raccontava l’autore nel suo volume tradotto nel 1896, “mi venne mostrato da un pittore celebre un suo quadro rappresentante una processione. Ogni cosa vi era mirabilmente rappresentata; ma non appariva dal dipinto alcun sentimento dell’autore verso il proprio soggetto. Gli domandai: “— Dunque voi considerate le processioni come utili? “— Il pittore, avendo l’aria di compatire alla mia ingenuità, mi rispose che di questo non s’era occupato mai. Egli badava unicamente a _dipingere la vita_. “— Ma voi avrete almeno l’idea del vostro soggetto? “— Non ne so niente! “— Allora voi odiate queste cerimonie religiose? “— Nè le amo nè le odio.... “E la risposta fu accompagnata da un vero sorriso di compassione. Io facevo semplicemente la figura di uno sciocco, davanti a questo artista moderno di alta fama, che _dipinge la vita_ senza intendere, senza amare e senza odiare le manifestazioni della vita che trasceglie per il suo lavoro.„ E Leone Tolstoi ne concludeva che questa è la grande colpa da cui derivano le grandi miserie dell’arte del nostro tempo. Gli artisti tutti: pittori, scultori, poeti lirici, poeti drammatici, romanzieri, non trattano un argomento perchè la loro anima sia portata verso di esso da amore o da odio; ossia da un’interna ragione d’indole morale. Chi li muove adunque? Il solo fine di produrre nei loro simili un senso di stupore mediante la rappresentazione della vita; oppure un senso di piacere mediante la rappresentazione della bellezza. La maggior parte degli uomini, nella nostra società borghese, si contenta dello stupore artistico e delle grosse e violenti sensazioni che sono generate da lui. Un numero più ristretto, i delicati, gli estetici, par che vadano un po’ più in su col loro desiderio, domandando ai pittori, ai poeti e ai musici di essere dilettati con le rappresentazioni di forme belle. Ma anche questa distinzione di pubblico volgare e d’amatori fini, che il Guy de Maupassant scolpiva abbastanza bene nella prefazione al suo romanzo _Pierre et Jean_, in sostanza si riduce a ben poca cosa! “Nel mondo frequentato da Maupassant, quel Bello, al cui servizio l’arte deve trovarsi vera, ed è ancora rappresentata sopratutto dalla donna giovane e bella, per la più parte poco vestita; il Bello è d’averci con essa relazioni carnali....„ Avevo ragione di dire che qui ci vorrebbe Ernesto Rénan; anche perchè nessuno dinanzi al giudizio di Tolstoi è forse più in causa dell’autore delle _Origini del Cristianesimo_. Sono noti i suoi filosofici entusiasmi per la bellezza; i quali non si fermavano all’Acropoli e alla ideale perfezione delle figure scolpite nel pario e nel pentelico. Per la bellezza della donna viva pochi poeti ebbero, io credo, parole di più squisita e di più calda ammirazione. Nel suo libro su Marco Aurelio egli giunse fino a dare al Cristianesimo una colpa grave per la diffidenza rigida e paurosa che sempre dimostrò verso la bellezza della donna. Tutto il medio evo risuonò della minaccia scritturale: _per speciem mulieris multi perierunt_! Ebbene, il Cristianesimo, secondo Rénan, ebbe torto. “Agli occhi d’una filosofia completa, la bellezza, tutt’altro che essere un vantaggio superficiale, un pericolo, un inconveniente, è un dono di Dio come la virtù. _Essa vale la virtù_; la donna bella esprime una faccia dello scopo divino, uno dei fini di Dio, come lo esprime l’uomo di genio e la donna virtuosa.... La donna, ornandosi, compie un dovere; essa pratica un arte, arte squisita in un senso, la più graziosa delle arti„. E prosegue dimostrando che la dottrina cristiana non potè vivere e armonizzare dentro un quadro di società completa, se non quando, per opera di spiriti illuminati e disinvolti, potè spezzare questo duro giogo, voluto imporre alla natura umana da un pietismo esaltato. Gli spiriti illuminati e disinvolti crearono il Rinascimento, il quale rimise in onore la bellezza; e con essa vinse per modo i rigori dell’ascetismo inumano che la stessa Chiesa dovette arrendersi; anzi gli ecclesiastici e i Papi diedero l’esempio, aprendo alla bellezza femminile le porte delle chiese e collocandola sugli altari.... Ma qui appunto, secondo Tolstoi, cominciò il male maggiore! E come Girolamo Savonarola si vantava dal pulpito d’aver stracciati i volumi platonici e intimava ai Fiorentini “l’incendio delle vanità„, così il filosofo russo, nel suo singolare ascetismo, impreca alla Chiesa Latina per quel grande impulso di corruzione estetica che venne dato da lei a tutta la Cristianità occidentale. * * * Il nuovo libro di Tolstoi è dunque una nuova e più terribile accusa contro l’arte del nostro tempo. Arrivato all’ultima pagina, io mi sono vista sorgere dinanzi alla fantasia una di quelle fiere figure di antichi solitari e di profeti, che dannavano al fuoco una città perchè le abominazioni sue avevano stancata la pazienza di Dio. Anche i giusti dovevano perire per le colpe dei malvagi. Ma dove sono i giusti per Tolstoi? La sua condanna scende inesorabile su tutto. Ognuna delle forme artistiche in cui lo spirito nostro si compiace, vien dimostrata perniciosa e frivola: il dramma, il melodramma, la lirica, la pittura, il romanzo. Gli artisti, che una specie di consenso generale ha messo fra i grandi e fra i gloriosi, sono condannati e quasi messi a fascio coi guastamestieri. Wagner, Ibsen, Baudelaire stanno accanto a nomi di mediocri e di infimi. Questo per i contemporanei. Quando poi l’autore spazia nel vasto orizzonte della storia, lo vediamo fermarsi con devota ammirazione davanti a Omero, ai Profeti, ai racconti evangelici, a san Francesco d’Assisi; ma in tutto il resto egli è di una disinvoltura che confina con la irriverenza. Certo i nomi grandi e anche grandissimi non lo intimidiscono. I tragici greci, Aristofane, Virgilio, Dante, Shakespeare, Raffaello, Michelangelo, Goethe, Bach, Beethoven, sono degnamente esteti di alta fama e hanno fatto di gran belle cose; ma sul complesso della loro produzione Leone Tolstoi si riserva una grande libertà di giudizio e rigore di scelta. A stringere molto in poco, egli fa questo calcolo: su diecimila lavori d’ogni genere — poesie, drammi, musiche, statue, quadri — che siamo abituati, noi, _hommes de la société_, a chiamare opere d’arte, una appena meriterà davvero questo nome! E vien naturale la domanda: ma che cosa è dunque l’arte per Leone Tolstoi? E che domanda egli da essa? A maggior chiarezza, piuttosto che rispondere subito a queste interrogazioni, vediamo quali sono, secondo lo scrittore russo, le gravi colpe dell’arte contemporanea. Da prima egli osserva che l’arte fra noi costa troppo; e non solo in denaro, ma in ogni maniera di faticosi sforzi e di umiliazioni per la dignità della natura umana. Una sera Tolstoi volle vedere, stando ad osservare sul palco scenico, la prova di una grand’opera musicale sul tipo deìl’_Affricana_ o del _Fernando Cortes_; e uscì di là profondamente impietosito, disgustato, irritato. Quante bestialità, quante sofferenze e miserie in tutti quei comandi accompagnati d’ingiurie e di bestemmie, in tutte quelle cadenze di piedi e movenze di braccia e modulazioni di gole, ripetute automaticamente, senza fine, da una folla di esseri abbrutiti! E tutto questo per mettere insieme un macchinoso spettacolo, che dinanzi alla verità è un non senso, dinanzi all’arte un ibridismo, una fatica e una noia per tutti. L’autore passa poi in esame le altre discipline artistiche e scuopre che ogni prodotto di esse va accompagnato da spese, perditempo, dolori e colpe d’uomini. La così detta opera d’arte che ne vien fuori, al solito, non vale di gran lunga quello che è costata. * * * Vediamo adesso quali e quanti sono, secondo il libro, i maggiori peccati nelle opere dell’arte contemporanea. Leone Tolstoi lascia enumerare ad un autore francese[2] i caratteri dominanti nelle nuove produzioni, massime letterarie. Essi sono: _la lassitude de vivre_, _le mépris de l’époque présente_, _le regret d’un autre temp aperçu à travers l’illusion de l’art_, _le goût du paradoxe_, _le besoin de se singulariser_, _une aspiration de raffinés vers la simplicité_, _l’adoration enfantine du merveilleux_, _la séduction maladive de la rêverie_, _l’ébranlement des nerfs_, _surtout l’appel exaspéré de la sensualité_. Soprattutto dunque la letteratura contemporanea (e le altre arti per consenso) è dominata e potrebbe dirsi tutta impregnata di un enorme spirito di lussuria. Gli scrittori parigini, per la vita che conducono e per le idee che professano, sono tutti, più o meno, malati di erotomania; ed è fra essi una continua gara a chi sa meglio trasmetterla nella fantasia e nel sangue dei lettori. I modi variano. Nei libri dei così detti naturalisti (Zola, De Goncourt e compagni) la erotomania somiglia a una volgare cortigiana che si dà sfacciatamente; in quelli dei così detti simbolisti e nei mistici è anche peggio, poichè si tratta (come nei romanzi del Peladan e del Bourget) di una lussuria più abilmente sofisticata e più sottilmente infusa attraverso un velario ondeggiante di immagini spirituali. Ma il fine massimo dei racconti è sempre uno solo; disporre la trama e i personaggi in modo da giungere, prima o poi, a una scena capitale di lussuria; prepararla bene, farla desiderare e, al momento, spingerla fin dove si può, senza pregiudicare la vendita del romanzo, il quale, si sa, deve entrare in tutte le famiglie oneste. Ecco dunque il “grande affare„ di questi scrittori: esibire, muovere, agitare, scuoprire e denudare con maestria il corpo delle donne, a incremento di desiderio nei maschi. Da ultimo sono venuti anche i romanzieri _femministi_; e questi si occupano più specialmente delle signore.... Dal suo gran centro di Parigi la scuola si è diffusa e domina in tutto il mondo cristiano, specie in Inghilterra e in America, ove gli allievi oramai non hanno più nulla da imparare. Alle esposizioni di arti grafiche, trionfa il nudo pornografico; nei teatri padroneggia, inesauribile tema, l’adulterio; la poesia lirica sceglie i motivi che in passato furono proprietà riservata dell’allegra novellistica boccaccesca e rabelesiana, li fa suoi, li innalza di tono, li circonda di pietà e di melanconie sentimentali, canta le mistiche glorie del senso e i _divini spasimi_ della carne.... Oh come è naturale e come è giusto, conclude Tolstoi, che la sana e grande anima popolare viva straniera a tutta questa arte, la quale altro non può destare in lei se non _la surprise, le mépris, ou l’indignation_! Questo abbiettamento profondo, per Tolstoi non è che l’ultimo gradino di una scala per la quale l’arte è discesa, movendo da un punto sbagliato: che l’arte avesse per fine di allettare e divertire gli uomini col piacere della bellezza. Principio falso, tratto da un falso ideale della vita, che venne proclamato, in periodo di decadenza, dai dotti di un piccolo popolo semibarbaro (!) il quale fondava lo Stato sulla schiavitù. Questo popolo imitava mirabilmente il corpo umano e innalzava delle fabbriche gradevoli all’occhio. — Dopo diciannove secoli la teoria greca potè ricomparire in mezzo alla Cristianità e vi trionfava scandalosamente, per opera di umanisti e di preti paganeggianti, che egualmente si allontanavano dall’anima del popolo e dalla verità dell’Evangelo. Furono sempre _les hommes de la société_ che guastarono i disegni della natura. Il primo guasto lo abbiamo già visto; fu l’erotomania, che era già entrata, come un germe morboso, nell’opera d’arte e che doveva, di mano in mano svolgersi e slargarsi e finalmente cuoprire della sua velenosa e immonda fioritura tutta la produzione artistica, come al tempo nostro. Perchè meravigliarsene? Il piacere ha una legge inesorabile e una forza d’invasione a cui nessuna diga può essere contrapposta. Il campo delle idee (nota acutamente il Tolstoi) è inesauribile tanto per la sua immensità che per la sua varietà; e lo spirito umano vi procede sempre a scoperte nuove. Le sensazioni del piacere invece sono numerate dalle nostre condizioni biologiche e presto si fiaccano e si ottundono con l’uso. Una volta quindi che del piacere ci siamo fatta una legge e ci mettiamo sulla sua via, è necessario che noi troviamo, a ogni costo, la novità nella raffinatezza della esibizione e nell’incremento delle dosi. Così comincia la corsa sfrenata e la concorrenza pazza che conduce ad eccessi inevitabili. Ai tempi della decadenza pagana saranno le favole milesie; nel Cinquecento le opere in collaborazione dell’Aretino e di Giulio Romano; al tempo nostro i racconti di Pietro Louys e di Catullo Mendès. Se c’è una differenza, è tutta a nostro danno; poichè presso gli antichi una certa distinzione tra il lecito e l’illecito era ammessa pur sempre, mentre da noi un sofisma immenso ha avviluppati gl’intelletti e ha preso forma di dottrina. Di più i nostri artisti erotomaniaci credono di rappresentare le “condizioni normali„ della società in cui vivono. “Passano la vita ad amplificare le abominazioni sessuali che hanno provate; e sono persuasi che tutti siano colpiti della stessa affezione morbida....„ * * * Una parte considerevole del libro è dedicata a dimostrare quello che è per Tolstoi il più grande pervertimento dell’arte contemporanea: cioè il suo genio antipopolare; la sua tendenza a rinchiudersi in circoli sempre più ristretti e a occultarsi dietro forme sempre meno facilmente comunicabili. È la così detta aristocrazia dell’arte. Nè anche di questa aristocrazia dobbiamo maravigliarci; poichè essa discende in linea retta dalle false idee che fine dell’arte sia il piacere estetico. Il piacere è per natura sua egoistico e quindi restrittivo. L’egoismo poi si manifesta in più modi. Fuori dell’artista, ossia nelle classi privilegiate e poco numerose, che al poeta, al pittore, al musico chieggono dilettazioni artistiche _fatte a posta per loro_, senza che vi partecipi la vile moltitudine e, scemandone le rarità, le faccia scemare di pregio. Dentro l’animo dell’artista l’egoismo prende altre forme. Egli si profonda e si dimentica volentieri nelle intimità del proprio artificio; ama di farsene uno spettacolo riservato, una delizia gelosa; e si persuade che, più si allontana per le sottigliezze de’ suoi procedimenti dalla intelligenza comune, più egli si elevi e si glorifichi nell’opera sua. Ma qui sorge un ostacolo. Compiacersi della propria bellezza come Narciso, va bene, ma non basta. Il fiore della lode ha i suoi profumi attraenti, e vi sono troppi altri motivi che invitano e obbligano l’artista a mettere sè e il proprio lavoro in comunicazione col pubblico.... Egli è da questo contrasto che, a guisa di compromessi, vennero formandosi via via parecchie tra le forme esoteriche del mondo artistico e contemporaneo: i gruppi, le sétte, le chiesuole, i cenacoli, de’ quali i nomi sono così strani e il numero così grande e la vita così effimera. In mezzo a tutto quel brulichio di comparse e di larve si levavano sempre le medesime voci: — “Noi siamo i nuovissimi jerofanti della forma nuovissima! Pochi possono intendere, pochi possono gustare, poichè la grande arte è dono privilegiato! Non gettiamo ai porci le nostre margherite! Lungi i profani!„ — Inutile avvertire che anche in questo campo, secondo Tolstoi, è quasi sempre Parigi che inventa e dà le mosse: l’Europa e l’America si rassegnano a imitare. Così, fin che le arti si mantennero fedeli al loro ufficio ideale, che è quello di essere un nobilissimo vincolo di fraternità in mezzo agli uomini, tutte le forme artistiche si mantennero in un lucido contatto con la intelligenza e con la coscienza popolare. Da quando invece vennero volte al piacere estetico, la coscienza popolare, che domanda ben altro, si allontanò da esse, perchè più non comprese il loro linguaggio. Ed esse accolte, protette e adulate in mille modi dai ricchi e dai gaudenti del mondo, si diedero a soddisfare ai loro gusti, sempre più usati e stanchi, con procedimenti sempre più artificiali e complicati. Chiusa la limpida fonte delle idee nuove, che stanno nella coscienza universale come un deposito inesauribile, l’arte cessò di essere _inventiva_ e divenne _professionale_; ossia, sostituì al criterio interiore di creare quello tutto esteriore di contraffare. Le vecchie mitologie, i vecchi modelli letterari e artistici, i vecchi pregiudizi e i costumi e i capricci e i tedî delle classi ristrette e cupide di adulazioni e di svago, divennero la materia unica e obbligata dell’arte. Astretti a rimaneggiare di continuo quei loro gloriosi vecchiumi, i poeti per i primi, onde conseguire una qualche apparenza di novità, dovettero appigliarsi ad espedienti meschini, ossia ai furti più o meno abilmente mascherati, allo sfoggio insolente e barocco dell’ornamentazione, al lezioso, all’inaspettato, allo strambo; tutta roba ammannita ai clienti con una legge di progressione fatale e inesorabile.... Finalmente, quando ogni altra salsa parve insipida ai palati ristucchi, si arrivò all’“occultismo„ letterario e artistico. Stefano Mallarmé, capo dei poeti decadenti, ha posato questo canone: la chiarezza è capitale difetto nella poesia. Che gusto può esserci a sentir dire pane al pane e sole al sole? E che arte è quella che sciorina là un oggetto o un concetto davanti agli occhi dei lettori come fa il merciaio una pezza di drappo sul banco? Questo fu il fatale errore dei poeti Parnassiani. Il sommo dell’arte moderna risiede invece nel porgere le cose avvolte in una squisita ambiguità di immagini e di eufemismi; e in quel lavoro di indagine, in quella perplessità e magari in quello stento che ci vuole ad afferrarle, sta appunto il sapore e il valore della dilettazione estetica, accresciuti dal pensiero che pochi sono gli eletti a dividerlo con noi. Lo stesso dicasi delle qualità ritmiche nel verso e nelle strofe. La metrica dei classici usata fin qui, è troppo regolare, troppo geometrica, e dà all’orecchio troppo facili armonie. Abbisogna anche qui introdurre del nuovo, del ricercato, del recondito, delle strofe, per esempio, per le quali sia necessario adoperare più la vista che l’udito; o dei versi che non paiano versi e che sia necessario accentuare laboriosamente perchè tornino. Se i più non li gustano, buon segno anche questo. Lo stesso Mallarmè ha dichiarato che quando una sua lirica si imbatterà in più che cinquanta lettori che la trovino bella, vorrà dire che non è riuscita. All’occultismo sistematico della poesia lirica fa concorrenza l’occultismo d’ogni altra forma artistica. Tutta questa arte aristocratica, col suo manto di simbolismo e col suo misticismo ateo, nel dramma, nella musica, nella pittura, non è quasi altro che uno sforzo immane per nascondere la sua grande povertà di potenza inventiva: e Wagner, Brahms, Riccardo Strauss, Boecklin, Burne-Jones, Puvis de Chevannes, Ibsen, Maeterlinck e compagni, hanno tutti una lontana parentela col marchese De Sade! La malattia è gravissima poichè non viene da cause accidentali, ma è l’effetto di un turbamento profondo e antico. E a peggiorarla s’aggiunge la critica divenuta al tempo nostro una vera maledizione. Secondo Tolstoi, quando comincia a cessare la sincerità dell’arte, la critica entra in campo; anzi i critici si sforzano a sollecitare questa mancanza di sincerità, perchè hanno tutti bisogno di pescare nel torbido. Così si avvera il loro grande sogno egoistico: nel regno dell’arte una moltitudine d’iloti e pochissimi gli eletti. Essi sono naturalmente del numero. Un rapido cenno d’intesa fra di loro: un altro cenno con gli autori; un altro coi compari della galleria; poi giù le grande sentenze e in tondo la frusta e in alto i turibuli! Il sofisma di cui più abilmente si serve la critica ai nostri giorni è questo: più un artista s’incammina verso lo strano e verso il recondito, più s’accosta alle altissime cime dell’arte. Che meraviglia se solo pochi possono seguirlo? Guardate, dice Tolstoi, quale è stato il giuoco della critica verso Puschkin e verso Beethoven. Fin che il primo scriveva versi e novelle, di valore vario ma secondo l’animo suo e perciò vere opere d’arte, la critica lo trattò con freddo sussiego. Si mette a scimiottare lo Shakespeare, a forzare la propria vena, a dare nello strano; e la critica lo leva alle stelle. Il caso di Beethoven è anche più significativo. Dopo aver composto moltissima musica, il grande maestro diventa sordo. La malattia gli limita naturalmente le facoltà musicali, e incomincia a scrivere dei pezzi d’invenzione tutta cerebrale, incompiuti, nebulosi.... Potevano mai i critici nostri lasciarsi scappare una così bella occasione? Eccoli, con Wagner alla testa, levarsi tutti in coro e gridare che proprio d’allora ebbe principio la sublimità di Beethoven! * * * Da quanto ho fin qui riferito del nuovo libro di Leone Tolstoi, ognuno può comprendere che accusatore egli sia dell’arte come è generalmente intesa e professata ai nostri giorni. Accusa non tutta nuova certamente. Chi, per esempio, ricorda la _Lettre sur les spectacles_ di Gian Giacomo Rousseau, si avvede che, alla distanza di più di un secolo, i due spiriti solitari s’incontrarono in più d’un argomento, trattando il medesimo soggetto. Anche alle idee di Max Nordau è impossibile non pensare; e in particolar modo a molti giudizi d’autori e di opere che si trovano nei due volumi di _Degenerazione_. Ma qui la somiglianza è piuttosto nelle conseguenze pratiche; anzi solamente in queste; poichè lo scrittore russo e l’ungherese muovono da principî profondamente diversi. A ogni modo accuse gravissime. È curioso notare che, al principio di questo secolo, il conte Giuseppe De Maistre, il filosofo della Santa Alleanza, sentenziava: _Le beau est ce qui plaît au patricien éclairé_; e di qui si dedusse tutta una teoria intorno all’arte; e tutti, uomini di parte popolare e di parte patrizia, la vollero considerata del pari come una espressione aristocratica della vita. Al chiudersi del secolo, ecco che un altro patrizio, dal cuore della Santa Russia, si leva a predicare tutto il contrario; e anzi sostiene che _les hommes de la société_, i Papi, i principi, i nobili e in generale la gente istruita e ricca, sono proprio essi che l’arte hanno snaturata e sviata dal suo nobile fine, considerandola _per ciò che procura la più grande somma di godimenti ad una categoria limitata d’uomini_. La grande umanità sta fuori dall’arte nostra; o non la capisce o la disprezza. Un intero capitolo del libro è dedicato ad un rapido esame delle dottrine degli studiosi sull’essenza e sul fine dell’arte. La rassegna va dai Greci al Baumgarten e da questo a Carlo Darwin, allo Spencer, al Kerd, al Knight, agli ultimissimi filosofi, sociologi ed esteti. L’autore non si mostra punto edificato di tante definizioni, confusioni, contraddizioni. E, lo dico di passaggio, nemmeno io per verità. Ma c’è forse da meravigliarne? Ripeta egli il medesimo processo a qualunque idea categorica: Dio, il tempo, lo spazio, l’amore, il bene, il riso, il dolore, eco. Vedrà che, ogni volta che gli uomini tentano di avvicinarsi molto a quello che Galileo Galilei chiamava le _essenze oscure_ e si cimentano a definirle, il trovare due soli cervelli che proprio si accordino, è tutt’altro che facile.... Leone Tolstoi non ha certo paura di dire tutto il suo pensiero: egli domanda semplicemente a tutti gli uomini, che hanno proposito di bene, di adoperarsi con lui _alla soppressione dell’arte moderna come il male più terribile dell’umanità_. Chi crederà che questo terribile nichilista possa ritrovare qualche cosa di lodevole nella produzione artistica del nostro tempo? Eppure ne trova. Anche la Pentapoli ebbe qualche giusto. Mentre partecipa al sentimento di quel povero diavolo che venne a trovarlo a piedi da Saratov, e poi proseguì mendicando fino a Mosca, sempre domandando: — Perchè innalzano una statua al signor Puschkine? — Tolstoi riconosce che parecchi nostri artisti si elevano sulla comune viltà professionale e lavorano al caldo raggio dell’arte buona e vera, a cui preparano un lento ma sicuro trionfo nell’avvenire. Fra i pittori cita Bastien Lepage, Giulio Breton, Millet, Lhermitte, ecc.; fra gli scrittori Dickens, Vittor Ugo, Dostojevsky. Ma infine che cosa domanda il Tolstoi agli artisti e all’arte per non meritare l’universale condanna? All’artista, oltre la potenza di creare, egli domanda che sia _al livello della concezione più alta della vita del suo tempo_; — all’arte, che tutte le opere sue sieno sempre la espressione abile e sincera di sentimenti rivolti ad unire e a migliorare gli uomini. Egli vuole che nella società moderna e cristiana l’arte cessi d’essere mediatrice e mezzana del piacere; e sia degna di chiamarsi moderna e torni ad essere cristiana. Vuole quindi abolita quella grande eresia che è _l’arte per l’arte_; e perchè non gli si rimproveri di mancare di logica, vuole abolire anche quell’altra grande eresia che è _la scienza per la scienza_. Ogni attività umana deve essere legittima e nobilitata da un alto fine sociale. Questa la sostanza e il fine del libro che Leone Tolstoi dice di avere meditato e lavorato per quindici anni. Un libro serio e sintomatico al più alto grado, e che, piaccia o non piaccia, si impone all’esame. Ma avendo io avuto appena il tempo di riassumerlo, sono obbligato a rimettere l’esame a miglior tempo, se non dispiacerà ai lettori della _Nuova Antologia_. E mi lusingo che non tornerà inopportuno un confronto tra quello che afferma oggi il Tolstoi con le idee che furono espresse sullo stesso argomento, circa settant’anni fa, da un grande italiano, Alessandro Manzoni. II. Manzoni e Tolstoi nell’idea morale dell’arte. L’unione di questi due nomi, che, a primo tratto, può parere arbitraria e anche bizzarra, ha invece, io credo, la sua ragion d’essere in paralleli curiosi e in analogie profonde. I due uomini stanno veramente a così gran distanza l’uno dall’altro e tanto si diversificano in molti aspetti della vita reale e spirituale, da formare un vero contrapposto. Eppure tra il latino e lo slavo, tra il solitario di Brusuglio e il romito di Isnaia-Poljana, corrono, a guardarli attento, come dei cenni di intelligenza e di consenso; e in certi momenti direste che le due grandi figure (sempre così diverse di tipo e di contegno) si avvicinino e si tendano la mano. Si tratta insomma di una di quelle somiglianze, che è facile esagerare trascorrendo nell’assurdo e nel ridicolo, ma che non sono per questo meno vere; e che anzi sono, per quello stesso pericolo, tanto più degne d’essere studiate. Basterebbe, a convincersene, considerare la risoluta franchezza con la quale tanto il Manzoni che il Tolstoi mutarono completamente d’avviso intorno alla loro vita e alle loro dottrine, ogni volta che vi furono indotti o dal sentimento o dalla ragione, e nessuno dei due mostrò di badare agli effetti pratici e personali del proprio mutamento. Il Manzoni si mutò di incredulo in cattolico fervente, di classico in romantico indipendente. Poco sappiamo in particolare della sua conversione religiosa; e ignoriamo se e come affrontasse fiere battaglie di spirito o andasse incontro per essa a rinuncie gravi; ma che non fosse uomo da sbigottirsene potremo, io credo, argomentarlo con bastante sicurezza anche osservando il modo con cui egli accettò tutte le conseguenze della sua conversione letteraria. Quando, in appresso, ebbe raggiunta la sua grande fama coi _Promessi Sposi_ e fu questione per lui ben più seria che di sconfessare canoni pseudo-aristotelici e ripudiare poemetti giovanili (per quanto questi ultimi a lui fossero caramente diletti nel ricordo delle prime vittorie), noi troviamo sempre lo stesso uomo risoluto e tranquillo nel seguire i precetti della propria ragione. Censore infaticabile di sè stesso, egli da prima si convince d’avere, scrivendo il romanzo, errato nel criterio della lingua; e subito mette mano a rifare il romanzo e a professare la sua nuova dottrina della lingua. Si pone quindi ad esaminare il romanzo storico; e rinvenuto in quella mescolanza di invenzione e di verità un principio dissolvente e un motivo di biasimo, non esita a prendere il suo partito e pronuncia una condanna che ferisce in pieno petto il più insigne documento della sua anima d’artista, la parte più preziosa del suo viatico verso la posterità e la gloria. Un biografo di Manzoni ci ha lasciato un toccante ricordo dell’ultimo tempo della sua vita. Il venerando uomo, avvertiti gli effetti disastrosi che la tarda età andava producendo nelle sue facoltà percettive, volle riassumerli in questo distico: Bocca, naso, occhi, orecchi e, ahimè!, pensiero, Non ho più nulla che mi dica il vero. Un ricordo toccante ho detto; e avrei anche potuto dirlo ricordo lugubre, quasi tragico. Non è forse a noi argomento d’infinita pietà questo sorprendere un uomo, che per tutta una lunga esistenza aveva saputo scrutare con sì forte acume i segreti dello spirito e che aveva osservato con penetrazione così sottile la grande scena dal mondo, sorprenderlo, dico, mentre egli assiste al tramontare, allo spegnersi della sua intellettualità, rimanendogliene però sempre abbastanza per avvertire il fatto, descriverlo e quasi scherzarvi sopra con rassegnazione malinconica? Eppure io mi compiaccio molto che quell’umile documento dello spirito senile di Alessandro Manzoni non sia rimasto sconosciuto. Mi pare che quei due versi non suonino male nella pia sera della sua grande giornata; poichè ce lo presentano fino all’ultimo quale egli fu veramente in tutta la vita: osservatore rigido e vigilante d’ogni suo atto e pronto sempre a giudicare sè stesso con una illimitata e quasi eroica sincerità. Non c’è bisogno di un lungo esame per vedere la grande somiglianza che, sotto questo aspetto, ha con la vita del Manzoni quella di Leone Tolstoi. Anche s’egli non si fosse incaricato d’informarcene distesamente in un libro basterebbe confrontare i suoi primi romanzi con la _Sonata a Kreuzer_; e pensare come viveva quarant’anni fa e come vive oggi lo scrittore moscovita, per misurare d’un tratto la immensa trasformazione avvenuta in lui e da lui voluta. Al Manzoni come al Tolstoi vennero mosse le facili accuse di incoerenza. Ma chi potrebbe (e questo è l’essenziale) accusarli di bassi calcoli o di leggerezza? E che è mai il passare e il succedersi di opinioni nel cervello di singoli uomini, di fronte alla non mai terminata conquista del vero e del bene? Noi saremmo ancora nel più fitto dell’ignoranza e nella ferocia primitiva, se gli uomini migliori, a un certo momento della loro vita, non avessero cambiato di idee e di propositi. Una cosa certo dispiace; ed è vedere tanti sciocchi, tanti furbi e tanti farabutti ripararsi dietro quei nobili esempi. Ma v’è anche modo di consolarsi pensando che, fatti i conti, ogni uomo rimane poi sempre col proprio valore! * * * È evidente che Manzoni e Tolstoi si assomigliano nell’avere delle lettere, e dell’arte in genere, un concetto alto e austero e nell’attribuire ad essa un grande ufficio educativo e sociale. Il Manzoni spiegò per tempo la sua bandiera. “Tutto ciò che ha relazione con l’arte della parola, e coi diversi modi d’influire sulle idee e sugli atti degli uomini, è legato di sua natura a oggetti gravissimi„[3]. Veramente questa, a quel tempo, era una massima comune. L’Alfieri e il Parini avevano infuso nelle lettere un forte spirito di educazione morale e civile; il Foscolo dalla cattedra di Pavia aveva parlato un linguaggio somigliante. Se vi erano dissensi, questi potevano toccar solo il modo di intendere e di applicare la massima. Gli stessi difensori dell’uso della mitologia pagana, con a capo Vincenzo Monti, adducevano le alte moralità rinchiuse nei vecchi miti e rese più insinuanti attraverso i veli della finzione poetica. Questo, su per giù, era anche il sentimento di Giacomo Leopardi, confidato a parecchi dei suoi canti ed espresso di frequente nei _Dialoghi_, nei _Pensieri_, nell’_Epistolario_ e dovunque egli insiste sulla necessità di certe umane illusioni. Chi allora avesse affermato il contrario, non avrebbe potuto difendersi dalla taccia di pazzo o almeno di stravagante. Ma il Manzoni mirava a un effetto più esteso, movendo da una idea più fondamentale. Egli voleva far trionfare un principio che cominciava già ad essere accetto ai giovani; un principio, che fuori d’Italia scrittori di grande autorità, come la Staël, i fratelli Schegel, il Chateaubriand, avevano già gridato alto, e che in Italia parecchi valorosi amici suoi, come l’Hermes Visconti, il Berchet, il Pellico, cominciavano ad accogliere e a divulgare. Ad Alessandro Manzoni dispiaceva che questo principio andasse sotto il nome di Romanticismo, parola, a suo gusto, antipatica e piena di equivoci. A ogni modo, il romanticismo esprimeva per lui un movimento serio e salutare, a patto che si dissipassero le fantasie paurose e bizzarre di cui l’avevano circondato, e cessassero d’essere materia sua costante certi vani pettegolezzi di scuola; a patto infine che la disputa non si fermasse alle tre unità classiche e alla mitologia, anzi non si fermasse alla pura forma letteraria. Discorrendone col marchese Cesare D’Azeglio nel 1823, il Manzoni esprime tutta la sua viva compiacenza perchè le nuove idee si diffondevano non solo ai diversi modi di poesia, ma occupavano di mano in mano _tutte le teorie dell’estetica_[4]. Era dunque un pieno e universale rinnovamento dell’arte quello che egli aveva concepito e domandava e aspettava, come la unica razionale conseguenza del moto romantico. Gli intendimenti del Manzoni appaiono con forma anche più viva dalle lettere che egli scrisse al Fauriel tra il 1807 e il 1823, in quello che fu veramente il periodo della sua grande creazione artistica, perchè vi compose gli Inni sacri, le Tragedie, il Romanzo; e perchè è anche rinchiusa in esso la sua conversione religiosa. Montesquieu aveva scritto: “Se non fossi cristiano, vorrei essere stoico„. Manzoni dopo aver professato una specie di stoicismo moderno col Fauriel, con Giorgio Cabanis e con madame Condorcet, volle, prima d’uscire dalla giovinezza, rendersi cristiano. Ebbe per catechista l’abate Degola, che a Roma, non a torto, avevano in opinione di giansenista; ed ebbe per compagna, forse per ispiratrice di conversione, la moglie Enrichetta Blondel, che era nata e cresciuta nella fiera dogmatica di Calvino. Per quanto la tradizionale bonomia lombarda e la vivacità ironica e l’indole critica dell’ingegno dovessero temperare in lui tutta quella austerità religiosa, è fuor di dubbio che essa sempre lo signoreggiò e lo diresse nella vita: e quindi anche nell’arte. A tacere degl’Inni sacri, che si vollero considerare quasi un corollario immediato della sua conversione, in ogni componimento a cui il Manzoni volge l’animo è impossibile non riconoscere subito il preconcetto di un’alta finalità etica e religiosa. Anche quando non teorizza su questo punto, lo dà per supposto. Ha egli bisogno un galantuomo di professare ogni momento la sua onestà? E uno scrittore deve essere galantuomo due volte: come uomo e come scrittore. Inseparabili quindi nella scelta di un soggetto le sue qualità prettamente artistiche dalla dignità e dalla utilità spirituale. L’argomento d’una tragedia non è buono solo perchè gli dà materia a vestire di bei versi e a mettere sulla scena un contrasto di caratteri e di passioni commoventi. Questo potè bastare, forse, a Guglielmo Shakespeare; a Manzoni non bastò. Vedete per che motivi lo fermano e lo innamorano, fra tante, le figure del Carmagnola e dell’Adelchi. Egli ha prima scoperti e studiati tutti gli elementi che abbisognano per far sì che splenda intorno a quelle due figure una grande moralità storica, civile e patriottica, che il poeta esprimerà poi liricamente nelle strofe del Coro. E quando la voce del Coro tacerà e il nodo tragico sarà sciolto, il poeta muterassi in narratore e continuerà ad illustrare e a diffondere quella moralità con altra forma e altri argomenti. * * * E il Manzoni va anche più oltre. Non si contenta di questa, che potremmo chiamare una buona fratellanza del principio estetico col principio etico. Egli spinge questa fratellanza agli ultimi limiti di una perfetta intimità; anzi, a parlar più preciso, non dubita di condizionare e sottomettere il primo al secondo. Tra le sue mani una questione letteraria si riduce sempre ai minimi termini di un vero caso di coscienza. — Perchè debbono i poeti proscrivere l’uso della mitologia pagana? I perchè sono molti e il Manzoni non tralascia di enumerarli, deducendoli da quelli che egli crede i buoni canoni della poetica moderna. Poi soggiunge, scrivendone al D’Azeglio: “Ma la ragione, per la quale io credo detestabile l’uso della mitologia, e utile quel sistema che tende ad escluderla, non la direi certamente a chiunque, per non provocare delle risa.... Tale ragione per me è, _che l’uso della favola è idolatria_[5]„. E passa a dimostrarlo. Lo stesso accade nel giudizio che egli reca sul romanzo storico. Sotto quell’acervo mirabilmente ingegnoso e sottile di osservazioni e di esempi onde sono formate le due parti del _Discorso_, che cosa troviamo in sostanza? Che, stando al convincimento del Manzoni, l’invenzione e la storia, con cui si vuol comporre e fondere il romanzo, riescono a formare un’unità solo “verbale e apparente„, mentre ben diversa era la promessa fatta al lettore; onde il suo spirito s’inquieta e la sua mente è tratta in inganno[6]. E non bisogna mai ingannare nessuno! Eccoci dunque a un altro caso di coscienza e a un altro precetto del Decalogo. Che nel sottomettere le invenzioni della letteratura e dell’arte in genere alle strette discipline di un principio morale e religioso, il pensiero del Manzoni e quello del Tolstoi s’incontrino e sostanzialmente si identifichino, mi pare cosa tanto chiara da non avere bisogno di altra dimostrazione. Chi lo credesse necessario, potrebbe con facilità mettere a confronto ragionamenti e sentenze tratte dall’uno e dall’altro. Ma ciò che meglio persuade è il considerare, in complesso, le loro fisonomie di scrittori e cogliere, per così dire, il sentimento profondo e continuo da cui quelle loro fisonomie sono animate. Inutile quasi aggiungere che, parlando del Tolstoi, io intendo specialmente alludere ai suoi ultimi libri; e che affermando la loro somigliante orientazione nel mondo dell’arte, non dimentico le molte dissomiglianze d’indole e di idee, massime religiose e sociali, che intercedono fra i due. E anche ai tempi diversi bisogna guardare. Quando il Manzoni scriveva e polemizzava intorno all’ufficio delle lettere, certe teorie o non erano nate o non avevano ancora autorità e seguito; onde non ebbe bisogno di scaldarsi e d’inveire (se pur l’animo suo l’avesse comportato) contro dei nemici lontani e ancora invisibili. Il Tolstoi invece, arrivato quando, dalla letteratura del Trenta in poi, tanti cattivi germi avevano avuto campo di svilupparsi, trovò tutta l’Europa già inondata dai peggiori prodotti dell’arte francese mercantile e pornografica; e sentì gridare sui tetti le più strambe teorie e celebrare per grandi e per sommi certi poeti, romanzieri, autori drammatici e musicisti, che a lui parevano la negazione dell’arte seria, sana e benefica. Aggiungansi la sua originale professione di mistico, il suo fervore d’apostolo, i suoi istinti di lottatore agguerrito. Così il suo ultimo libro sull’arte rimarrà meglio spiegato; e meglio sarà inteso il modo con cui ha posto certe questioni, la preferenza che ha dato ad alcune di esse, le grandi verità che ha saputo dire, le esagerazioni e le violenze da cui non ha potuto astenersi. E sopratutto non dobbiamo mai scordarci che Leone Tolstoi è uno slavo; anzi che egli, come uomo e come scrittore, è uno degli spiriti meglio rappresentativi di ciò che la razza slava può avere di conforme e disforme da noi. _Quanto a me_ (scriveva di lui lo Zola), _col mio cervello latino, non posso comprendere quelle speculazioni metafisiche._ Ora se tale incomunicabilità dell’ingegno latino e dell’ingegno slavo, affermata in senso così assoluto, è una esagerazione, non può negarsi nemmeno che tal volta dinanzi ai giudizi e ai sentimenti e alle configurazioni fantastiche di quei bravi iperborei, noi ci sentiamo attratti insieme e respinti, come dinanzi a delle grandi porte, socchiuse ma impenetrabili. * * * Quando vediamo che due forti intelletti si accordano sovra una tesi d’importanza capitale, collegata a un sistema generale di speculazioni, noi possiamo indurne con molta probabilità che la loro concordanza dovrà, più o meno, estendersi a tutto il sistema. E questo parmi il caso di Manzoni e di Tolstoi nella tesi dell’amore, quale argomento di rappresentazioni artistiche. Quando il Bonghi, commemorando il Manzoni alla Biblioteca di Brera, ebbe fatto conoscere alcuni passi inediti tolti dal manoscritto dei _Promessi Sposi_, ove l’autore espone così argutamente le sue idee in proposito, lo stupore fu grande e i pareri molti; ma l’idea era troppo chiaramente espressa per ammettere dubbi e interpretazioni diverse. Confessa il Manzoni che nella prima formazione del suo romanzo abbondavano le vive descrizioni di scene d’amore fra i due promessi, e che anzi n’erano “la parte più studiata„. Ma nel trascriverlo e nel rifarlo, egli si decise ad escludere tutto ciò, riducendo il racconto dell’amore di Renzo e Lucia all’attuale sobrietà e freddezza e castità di forme, che parve a molti eccessiva. Il Settembrini, infatti, domandava stizzito di che colore fossero gli occhi di Lucia. E se tanta era la ritenutezza del romanziere nel descrivere un amore “che doveva essere comandato e chiamarsi santo„, immaginarsi tutte le sue cautele a proposito della tresca fra Egidio e la Monaca! Per verità, quella figura di Geltrude, così bella, così misteriosa, così degna di tanta pietà anche nella colpa, deve avere lungamente, pericolosamente assediata e quasi sedotta la fantasia dell’autore. Lo si capisce dalla pagina calda e quasi fremente con cui ce la descrive al suo primo entrare nel romanzo, dietro la ferriata del parlatorio. Dunque in guardia, don Alessandro! E nel primo e anche nel secondo manoscritto del romanzo (quello che si conserva alla Braidense) fu levata via con mano rigorosa ogni descrizione che potesse contenere il più piccolo allettamento erotico, salvo, forse, la descrizione della sfiorita ma sempre attraente bellezza della suora; e tutto il seguito della sacrilega avventura tra essa e il libertino, venne troncata di botto con la celebre frase: “la sventurata rispose„. Di questo suo inesorabile procedere il Manzoni espone molto nettamente il motivo. “Io sono di quelli che dicono che non si deve scrivere d’amore _in modo da far consentire l’animo di chi legge a questa passione_.... Concludo che l’amore è necessario a questo mondo; ma ve n’ha quanto basta e non fa mestieri che altri si dia la briga di coltivarlo; e che col coltivarlo non si fa altro che farlo nascere dove non fa bisogno. Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno e che uno scrittore, secondo le sue forze, può diffondere un po’ più negli animi,... ma dell’amore ve n’ha, facendo un calcolo moderato, seicento volte più di quello che sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie. Io stimo dunque imprudente andarlo fomentando cogli scritti; e ne son tanto persuaso che se un bel giorno, per prodigio, mi venissero inspirate le pagine più eloquenti d’amore che un uomo abbia mai scritte, non piglierei la penna per metterne una linea sulla carta, tanto son certo che mi pentirei„. Antonio Fogazzaro osserva a ragione[7] che, con tale sentimento Alessandro Manzoni non avrebbe voluto essere l’autore del quinto Canto dell’_Inferno_; nè forse (aggiungo io) aver dipinti gli occhi della Madonna di San Sisto. Quale sia la metafisica attualmente preferita da Leone Tolstoi intorno all’amore, io non starò qui ad esporre; nè indagherò come egli intenda ed applichi un famoso passo del Vangelo di san Matteo, che egli ha messo in fronte al suo ultimo romanzo. E fuori di dubbio che egli professa, in fatto d’amore, una opinione di pessimismo che può ben dirsi ultra-schopenauriano. Nè certo le conseguenze lo sbigottiscono. Quando il protagonista del tristissimo racconto _La sonata a Kreuzer_ è arrivato a un certo punto nello svolgimento della teoria tolstoiana sulle relazioni sessuali fra i coniugi, il suo interlocutore si crede in dovere di interromperlo: — Ma voi così spegnerete il genere umano! — E l’altro risponde senza scomporsi: — E che bisogno c’è che il genere umano continui? — Il Manzoni, che ammette invece essere _l’amore necessario a questo mondo_, pure pensando che ce ne sia tanto più del bisogno, è dunque un moderato e quasi un timido nella sua dottrina, a petto del romanziere moscovita. Ma l’importante da notare qui è questo: che i due consentono perfettamente nell’idea di proscrivere dall’opera d’arte ogni rappresentazione d’amore che “faccia consentire l’animo a questa passione„. Il Manzoni è convinto che il peccato d’amore (per un carattere tutto suo particolare collegato alle condizioni della nostra sensibilità) tragga un grande impulso dalla viva evocazione, in genere, delle immagini amorose; quindi o le esclude del tutto, applicando il _nec nominetur_ di san Paolo, o le vuol ridotte a proporzioni minime e a forme castigatissime. Il Tolstoi, logico anch’egli, va ben più oltre; e vagheggia e invoca una letteratura la quale includa bensì l’amore, ma solo per insinuare contro di lui il disgusto e l’abborrimento degli uomini. Per questo, fra i romanzieri francesi contemporanei, Tolstoi salva e cuopre della sua simpatia il Guy de Maupassant. Ed è curioso vedere come lo giudica. Anch’egli il povero autore di _Bel-Ami_, come Dumas, come Zola e tutti gli altri, è inquinato di erotomania dai capelli alla punta dei piedi; ma dal fondo stesso del proprio abisso egli ha saputo trarre un principio di salvezza. “Non havvi forse uno scrittore che sia stato così sinceramente persuaso come Maupassant, che tutta la felicità, che persino il senso della vita risiede nella donna, nell’amore, e che abbia descritto con tanta forza di passione, la donna e il suo amore sotto tutti gli aspetti. E non vi fu mai, forse, uno scrittore che abbia mostrato, con una chiarezza e una precisione incomparabili, tutti i lati umili di questo fenomeno che gli sembrava il mezzo più elevato per ottenere la maggior felicità possibile della vita. Quanto più egli ne approfondiva lo studio, tanto più questo fenomeno si spogliava di ogni velo ai suoi occhi e non ne rimanevano più che le conseguenze terribili„. È accaduto insomma a Guy de Maupassant come al profeta Balaam; ma in senso inverso: “Egli voleva esaltare l’amore, ma quanto più lo conobbe, tanto più lo maledì„[8]. E da tutta l’opera sua pare che prorompa l’amara imprecazione di quell’altro grande lussurioso che fu Alfredo De Musset: Amour, fléau du monde, execrable folie, Toi qu’un lien si frêle à la volupté lie, Quand par tant d’autres nœuds tu tiens à la douleur!...[9] Contro dunque le stesse sue intenzioni, il Maupassant c’insegna co’ suoi libri a fuggire le donne e a detestare il sentimento d’amore che vorrebbero inspirarci. E questo sarà notato a grande merito suo, nella giornata del giudizio finale! * * * In un altro punto i due scrittori s’incontrano; ed è il valore relativo e subordinato che essi dànno, nell’opere d’arte, all’elemento della bellezza. È degno di nota che Manzoni non pensa neppure a nominarla quando esprime le qualità capitali che dee avere un lavoro artistico, perchè corrisponda al suo debito ufficio. Vuole che abbia “il vero per soggetto, l’utile per fine, l’insinuante per mezzo„. Sembra indubitato che a quella virtù d’_insinuarsi_ negli animi, debba concorrere la bellezza; ma non è detto in quale misura; e appare escluso, anche per questa significante preterizione, che essa vi domini sovrana. Quanto al Tolstoi, abbiamo visto nell’articolo precedente che, per lui, la grande eresia estetica consiste appunto in questo dominio; ossia nell’aver posto come fine supremo dell’opera d’arte la contemplazione dilettosa del bello. Tutti i traviamenti e tutte le corruttele sono derivate da questa fonte. La civiltà del genere umano, che nella letteratura e nella cultura artistica avrebbe dovuto trovare un sì potente aiuto, vi ha invece trovato un inciampo e un impulso funesto. I Greci diedero il cattivo esempio, i Latini lo seguirono, il Rinascimento italiano ne rimase tutto inquinato; e oggi la società d’Europa e d’America vede tutti i suoi vizi più abominevoli fomentati, abbelliti e quasi deificati nei canti dei poeti, nelle descrizioni dei novellieri, nei quadri e nelle statue, nei drammi, nelle commedie, nelle opere in musica. E quale meraviglia? Il piacere ha una logica inesorabile; e per quanto sieno scelte, peregrine e delicate le sue prime forme, una volta che esso è posto nelle cose della vita come fine, con la forza di quella logica esso tirerà a sè i sensi dell’uomo giù per tutti i gradi della cecità e del peccato. E non sperate di mitigare la condanna del Tolstoi, parlandogli di una categoria di bellezza artistica superiore, dalla quale non dovrebbero piovere che influssi salutari, ispirazioni nobili, affetti casti. Egli respinge ogni distinzione che possa aver l’aria di una concessione, perchè pensa che il male risiede nella falsità del principio estetico. Quindi una grande solidarietà di colpa involge nel suo giudizio opere e autori di epoche lontane e di culture diverse; nè troppo noi dobbiamo stupirci quando lo vediamo comprendere nella sua fiera condanna, parziale o totale, artisti grandissimi e di genio austero, non salvando nemmeno Dante, Michelangelo, Beethoven.... Che ne sappiamo noi? Quel _San Giovannino_ di fra’ Bartolomeo della Porta, che, stando al Vasari, i frati del convento di San Marco dovettero levar via dall’altare perchè induceva in tentazione le donne di Firenze, forse non era che un discendente legittimo, in linea d’arte, da Giotto e da Taddeo Gaddi, che troppo avevano cercata, per sè medesima, la bellezza della figura umana; forse le rime licenziose del Parny e del Casti non furono altro che una lontana ma naturale derivazione dell’“amoroso foco„ che arse nella lirica dei castelli di Provenza e del Trecento italiano.... Io ho paura che Leone Tolstoi sia loico come il diavolo. Ma insomma che vuole egli? Che dobbiamo fare? Dovremo noi, per contentare questo terribile russo, ritornare le arti al mistero del medio evo e alle iconi della Chiesa moscovita? Questo terribile russo, per verità, non bandisce la bellezza dall’opera d’arte. L’ama invece e la vuole. Solamente egli chiede che essa non venga più considerata come una suprema entità e fine a sè stessa, secondo che pensano gli esteti contemporanei, i quali ne hanno fatto una idea _idolatra_, quindi inorganica e incivile. Pretende che essa trovi la sua forza e la sua gloria in una doverosa servitù, ossia che vada sempre subordinata e coordinata al trionfo del bene morale. E siccome poi Tolstoi non comprende la moralità disgiunta dal cristianesimo, anzi non v’ha per lui altra morale fuori della cristiana[10], così egli domanda che l’arte si faccia cristiana per davvero, nella sostanza e nella forma. È innegabile che, posto il principio, tante applicazioni e affermazioni del Tolstoi nell’argomento perdono molto della loro singolarità e anche della loro audacia. Potranno parere eccessive e lo sono anche, ma non mancano di costrutto logico. L’arte dunque, egli dice, deve essere evangelicamente demofila. “Il concetto cristiano consiste nell’essere tutti gli uomini figli di Dio: deve dunque esistere un’unione fra loro e con Dio, come dice il Vangelo (S. Giovanni, XVII, 21). Gli è per ciò che i sentimenti che giovano all’unione degli uomini con Dio e fra di loro devono essere il fondo dell’arte cristiana.... L’arte per sè stessa ha il pregio d’unire gli uomini. Essa unisce coloro che sono impressionati dal sentimento dell’artista, anzitutto a questi, e poi a tutti gli uomini che subirono la stessa impressione. L’arte non cristiana che riunisce una sola categoria d’uomini, la separa, per ciò stesso, da tutte le altre; questa unione parziale produce dunque non solo la disunione, ma anche l’animosità.... L’arte cristiana, detta altrimenti l’arte dell’epoca nostra, dev’esser _cattolica_ nel senso proprio di questa parola: universale, e, di conseguenza, deve unire tutti gli uomini„. A questo modo un improvviso lume par che rischiari tutto il sistema estetico di Leone Tolstoi; e un criterio molto semplice di classificazione e di valutazione ci soccorre nel qualificare, alla sua maniera, le opere dell’ingegno artistico. E così anche si spiegano certe sue esaltazioni e certe sue condanne di autori, le quali formano veramente la parte più inaspettata e più ostica del suo nuovo libro. Quando egli si trova al cospetto di un poema, di un quadro, di un dramma, di un romanzo, prima di giudicarli ne’ loro pregi estetici, subito si domanda se l’opera corrisponda al grave fine per cui tutte le opere dovrebbero essere fatte; se cioè per la somma delle idee, dei sentimenti, delle simpatie, delle suggestioni (per dire la parola in uso) che ne vien fuori, essa si accordi col principio cristiano, sociale e umanitario, oppure se vi contradica; in altri termini, usando ancora la frase del Manzoni, se essa _induca_ gli uomini a _consentire_ a quel principio oppure ad allontanarsi da esso. Con tale pietra del paragone fra le mani, il Tolstoi giudica, assolve e condanna senza esitare. Per questo egli accetta e ama fra i pittori Millet, Berton, Lhermitte, non accetta e non ama Delacroix, Vernet, Makart e Burne Jones; accetta e ama fra i romanzieri Victor Hugo, Dumas padre, Dickens, Gogol, Dostojewski, Giorgio Elliot, e perfino Guy de Maupassant; non accetta o non ama Balzac, Zola, Flaubert, De Goncourt, Paolo Bourget. In sostanza, che v’ha egli di veramente nuovo in tutto questo? Non ha avuto forse l’arte, in tutti i tempi di civiltà, due ben distinte categorie di giudici, cioè fuori o dentro il principio etico e religioso? Non ci ricordiamo più che l’idea di Stato suggerì al divino Platone giudizi così aspri intorno al divino Omero? Se poi ci piacciono esempi meno lontani, non abbiamo che a ricordarci che lo stesso metodo giudicativo fu, _mutatis mutandis_, già adottato dal Bousset, dall’Arnaud, dal Pascal e da tutti gli scrittori appartenenti, in Francia e fuori, a quel periodo che fu detto del rigore giansenista, e che alle manifestazioni dell’arte faceva un viso così diffidente e così austero. Di quel rigore giansenista il nostro Manzoni, il buon allievo dell’abate Degola, fu, io credo, artisticamente parlando, un mitigato ma logico seguitatore; e oggi, nella massima fondamentale, lo troviamo d’accordo con Leone Tolstoi, il quale, alla sua volta, ci fa tornare con la mente alle idee di Gian Giacomo Rousseau. * * * Ma se il libro di Tolstoi, a guardarlo nella sua essenza, è tutt’altro che un seguito di affermazioni strambe e di teorie incoerenti e barbariche, come a qualche giornalista piacque, con la solita autorità, di definirlo, questo non vuole già dire che esso risolva il problema in modo del tutto soddisfacente. Dirò qui molto brevemente la mia opinione. Questa dell’ufficio e del fine dell’arte, è questione che troppo agevolmente si presta alle esagerazioni ed agli equivoci; troppo di frequente si mescolano ad essa elementi eterogenei, e abiti e gusti viziosi, e simpatie e antipatie interessate. Aggiungete che i criteri teologici, ossia quelli che concernono i fini delle cose, sono sempre difficilissimi ad essere adoperati con accorgimento e con perfetta misura. E una mancanza appunto di misura io veggo nella dottrina del Tolstoi, come in quella del Manzoni, come in tutti coloro che dinanzi a ogni nuova creazione di poeta e d’altro artista, piglino subito un atteggiamento da censore di classe e le domandano: — Ohe cosa provi tu? Che effetto produci tu tra gli uomini? Sei tu venuto per accrescere o per diminuire la dose della loro moralità? — Questa casuistica trita e minuta, tirata ogni momento nel campo dell’arte, a me è parsa sempre uggiosa e incomoda come tutto quello che è fuori di posto. E penso che la risposta migliore sarebbe sempre quella della fioraia di Corinto allo stoico indiscreto: — I fiori sono belli e odorano. L’antico buon senso dei popoli civili ha sempre distinto due categorie di atti umani: quelli obbligatori e quelli leciti. A questi secondi non ha fatto mai torto l’essere niente più che dilettevoli; e non si è mai preteso di dedurre per questo che fine ultimo o massimo della vita fosse il piacere. Ora, se vi ha gente che in questa regione del puro dilettevole abbia diritto di muoversi e anche di vagabondare con una certa onesta libertà, senza troppo inquietarsi d’altro, io dico che sono i poeti e gli artisti. Affermare che il piacere soggettivo generato dalla bellezza sia fine d’un’opera artistica, è proprio una così grande eresia? Il Tolstoi non ne dubita. — Tanto varrebbe, egli dice, affermare che fine dell’alimentazione sia il piacere del palato. — E perchè no? domando io. Non sarà il fine unico e assoluto, ma che sia anch’esso un fine ragionevole nessuno potrebbe negarlo; tanto è vero che un celebre fisiologo disse argutamente potersi definire l’uomo un animale che mangia anche senza lo stimolo della fame. E nemmeno si dovrebbe negare che la bellezza possa contenere, in sè stessa e per sè stessa, una salutare potenza di elevamento e di purificazione umana, quando davvero un’arte “alta, gentile e pura„ la faccia splendere dinanzi ai nostri occhi. Onde _bellezza educatrice_ non esitò a dire Niccolò Tommaseo; e molto prima di lui Marco Tullio potè delineare un bellissimo quadro in cui le umane lettere, liberamente professate, conferiscono insieme alla felicità e alla nobiltà della vita.[11] “Quando l’arte non divertirà più, essa non corromperà più, assorbendo a questo scopo le forze migliori....„ Questo afferma con la sua solita audacia il Tolstoi. Ma ha egli ben pensato anche a tutte le “migliori forze„ che l’arte perderà quando venisse il giorno, da lui invocato, in cui essa non fosse più nè amabile, nè divertente? Crede egli che l’alimentazione umana si avvantaggerebbe il giorno in cui i cibi cessassero di essere gustosi al nostro palato? Però, a malgrado della nota esagerata e violenta che vi domina, non dubito di ripetere quello che dissi nel mio primo articolo: quest’ultimo di Leone Tolstoi è un libro poderosamente concepito, ricco d’accenni profondi, di investigazioni acute e di verità utili e umanamente accettabili anche da chi non si sente di salire a tutte le premesse del suo spirito mistico. Libro sopratutto opportuno oggi per noi. Poichè è stata veramente meravigliosa la leggerezza con la quale molti in Italia credettero di poter escludere dal mondo dell’arte nientemeno che la idea morale e di poter fabbricare (in questa vita contemporanea, ove tutto fortemente si intreccia, si coordina e si corrisponde) per comodo della sola arte, una specie di solitudine puerilmente orgogliosa e vana; ed è stata quasi incredibile la facilità con cui si lasciarono menare dalla novissima retorichetta francese fino a parafrasare molto seriamente le facezie di Teofilo Gautier e a convertire in canoni d’arte i suggerimenti mercantili di qualche romanziere molto positivo ed esperto in calcoli editoriali. Pareva che questo dovesse bastare; ma ci fu dato uno spettacolo anche più curioso. Venne innanzi una schiera di giovani scrittori dallo stile molto fiorito e fosforescente, dicendo: — Siamo qua noi con la colonna di fuoco! Il vuoto innegabile che si è fatto nell’arte per il divorzio dalla vecchia morale e dalla vecchia fede, noi lo riempiamo assai abbondantemente, poichè dal grembo della nostra nuova poetica, ecco che noi facciamo uscire la formula di una Vita e di una Umanità superiore! — Per tal modo, noi vedemmo nuovamente avverarsi l’antica massima che spesso gli uomini, proprio per dove peccarono, vengono castigati..... ENRICO PANZACCHI. CHE COSA È L’ARTE? INTRODUZIONE. Prendete in mano un giornale qualunque; ci troverete senza fallo una o due colonne dedicate al teatro e alla musica. Due volte su tre ci troverete pure la rassegna di qualche esposizione d’arte, la descrizione di qualche quadro, di qualche statua, e per giunta l’analisi dei romanzi, dei racconti, dei versi usciti di fresco. Il vostro giornale, con uno zelo ammirevole e con gran copia di particolari, vi esporrà come questa o quest’altra attrice abbia sostenuto la sua parte in una determinata produzione; e così potrete comprendere di botto anche il valore del lavoro, sia dramma, sia commedia od opera, e l’importanza dell’esecuzione. Sarete informati a dovere anche dei concerti; saprete quali pezzi certi artisti abbiano sonati o cantati, e in che modo. D’altro lato in tutte le grandi città siete sicuri di trovare, se non due o tre, almeno una esposizione di quadri, che coi loro meriti e coi loro difetti offrono ai critici d’arte argomento di studi minuziosi. Quanto ai romanzi e alle poesie, non passa giorno che non ne sbocci una fioritura, e i giornali si credono in dovere di presentarne un’analisi accurata ai loro lettori. In Russia, dove per l’educazione del popolo, a dir molto, si spende la centesima parte di quello che si dovrebbe, il governo sorregge l’arte dispensando milioni di rubli sotto forma di sovvenzioni ai teatri, alle accademie, ai conservatorj. In Francia l’arte costa allo Stato venti milioni di lire; e altrettanto costerà in Germania e in Inghilterra. In tutte le città grandi sorgono edifizi colossali destinati ai musei, alle accademie, ai conservatorj, alle sale di teatro e di concerto. Migliaia e migliaia d’operai — carpentieri, muratori, pittori, falegnami, tappezzieri, sarti, parrucchieri, gioiellieri, stampatori — s’affaticano per tutta la vita in lavori molesti per soddisfare il pubblico assetato d’arte, talchè si può dire, che, eccettuate le armi, nessun altro ramo dell’operosità umana assorbisca un contingente così largo della forza nazionale. E passi per il lavoro che si consuma a soddisfare codeste esigenze artistiche; il peggio si è che vi si sacrificano giornalmente innumerevoli vite d’uomini. Si contano a centinaia di migliaia le persone che sin dall’infanzia non fanno se non apprendere a sgambettare con agilità, a toccare rapidamente i tasti d’un pianoforte o le corde d’un violino, a riprodurre col pennello l’aspetto e il colore del mondo sensibile, a storpiare l’ordine naturale delle frasi, e ad accoppiare le parole nella rima. E tutti costoro, mentre sono di spesso onesti e di buon ingegno e naturalmente atti a mille occupazioni utili, s’abbrutiscono nelle angustie di quella loro professione speciale; diventano, come si suol dire, specialisti, cioè creature di mente ristretta, e piene di vanità, che ignorano tutte le serie manifestazioni della vita, e non sanno più fare altro se non muovere con rapidità le gambe, le dita e la lingua. Ma la peggiore conseguenza della nostra civiltà artistica non consiste in codesta depressione della vita umana. Mi rammento d’aver un giorno assistito alla prova d’un’opera in musica, d’una di quelle opere nuove, grossolane e volgari, che s’allestiscono a gara su tutti i teatri d’Europa e d’America, salvo poi a seppellirle al più presto e per sempre nella dimenticanza più perfetta. Giunsi al teatro che era appena cominciato il primo atto. Per arrivare al mio posto dovetti passare dietro il palcoscenico. Per certi corridoi oscuri fui introdotto dapprima in un vano spazioso, dove si trovavano delle macchine destinate ai cambiamenti di scena e all’illuminazione. Colà, al buio e tra la polvere, avvertii degli operai che lavoravano senza posa. Uno d’essi, pallido, inselvatichito, coperto d’una guarnacca sporca, colle mani del pari sporche e incallite dal lavoro, evidentemente un infelice affranto dalla stanchezza, ringhioso e inacerbito, rampognava irosamente (come udii passando) qualcuno de’ suoi compagni. Poscia per una scaletta mi si fece salire nello spazio angusto che girava intorno alle quinte. Attraverso a un garbuglio di corde, d’anelli, di tavole, di tende e di tela dipinta, vidi formicolare intorno a me delle decine, fors’anco delle centinaia d’uomini pitturati e truccati in vesti bizzarre, senza contar le donne, naturalmente vestite il meno possibile. Tutta quella folla erano i cantanti, i coristi, i ballerini e le ballerine, che aspettavano d’esser chiamati. Finalmente la mia guida mi fece traversare il palcoscenico, e giunsi al posto riservato per me, passando sopra un ponte di tavole gettato sopra l’orchestra, dove osservai una grossa schiera di sonatori seduti presso i loro strumenti, di violinisti, di flautisti, di arpisti, di cembalisti, e chi più n’ha più ne metta. Su di un palchetto situato in mezzo a loro, tra due lampade a riflettori, con un leggìo dinnanzi, se ne stava seduto colla sua bacchetta in mano il direttore d’orchestra, dirigendo non solo i sonatori, ma eziandio i cantanti che erano sulla scena. E appunto sulla scena vidi un corteo d’Indiani che avevano accompagnato una sposa. Era un nugolo d’uomini e di donne in foggie esotiche; ma notai pure due persone in abito ordinario che s’arrapinavano e correvano da una parte all’altra del palcoscenico. Uno era il direttore della parte drammatica, vale a dire il direttore di scena; e l’altro, il quale, calzato di scarpette, volava qua e là con una prestezza maravigliosa, era il direttore di ballo. Seppi dipoi che costui in un mese guadagnava di più che non dieci operai in un anno. Godesti tre direttori s’ingegnavano di ordinare il buon andamento della sfilata, che, secondo il solito, si faceva a due a due. Una quantità di persone, recando sulle spalle delle alabarde coperte di stagnola, si spiccava a un tratto, faceva parecchi giri sul palcoscenico, e si fermava di nuovo. E ce ne volle a regolar bene la processione; la prima volta gl’Indiani e le alabarde si mossero troppo tardi, la seconda troppo presto, la terza partirono al momento giusto, ma confusero le file per istrada; un’altra volta non seppero fermarsi al punto prefisso; e in ciascuno di questi casi si riprendeva da capo tutta la cerimonia. Il principio era costituito da un recitativo, nel quale un personaggio camuffato da turco, sgangherando la bocca in modo singolare, cantava “Accompagno la spo-o-sa!„ Cantava così, e gesticolava colle braccia, naturalmente nude. Poi s’avviava la sfilata; ma eccoti un cornetto dell’orchestra a sgarrare una nota; e il direttore d’orchestra a fremere come se rovinasse il mondo, e a martellare sul leggìo colla bacchetta. S’arrestò di nuovo ogni cosa, e il direttore volgendosi verso i sonatori, se la pigliò col cornetto, rimproverandolo per la nota stonata con certe villanie come non ne usano bisticciandosi tra di loro nemmeno i fiaccherai. E si ritornò da capo: gl’Indiani e le loro alabarde si rimisero in moto; il cantante riaprì la bocca sbraitando “Accompagno la spo-o-sa„. Ma questa volta le coppie procedevano troppo serrate. Altri colpi di bacchetta sul leggìo, altra ripresa della scena. Gli eroi avanzavano colle alabarde alcuni tristi e seri in viso, altri sorridendo e chiacchierando. Eccoli che si fermano in cerchio, e cominciano a cantare. Ma la bacchetta riprende a picchiare sul leggìo; e il direttore di scena con accento disperato e furibondo, colma d’insolenze i miseri Indiani. I poveracci, a quanto pareva, s’erano scordati di alzar le braccia di tempo in tempo in segno d’entusiasmo. “Siete infrolliti, brutte marmotte, siete di legno, che ve ne restate così impalati?„ E più e più volte vidi ricominciare il corteo, intesi i colpi secchi della bacchetta, e il torrente d’ingiurie che teneva loro dietro, “asini, stupidi, idioti, porci,„ più di quaranta volte questi bei titoli saranno stati ripetuti all’indirizzo dei coristi e dei sonatori. Costoro, depressi moralmente e fisicamente, accettavano quegl’insulti senza la menoma protesta. E i due direttori d’orchestra e di scena, sapevano benissimo che quei disgraziati oramai erano troppo abbrutiti per poter far altro che soffiare in una tromba, o camminare colle scarpette gialle e colle alabarde di stagno; li sapevano avvezzi a una vita comoda e larga, pronti a soffrir tutto pur di non rinunziare ai loro agi, e perciò non si facevano scrupolo di dar la stura alla loro grossolanità naturale, senza dire che avevano osservato a Vienna e a Parigi lo stesso costume, e così s’imaginavano di seguire le buone tradizioni dei grandi teatri. Sul serio non credo che al mondo si possa trovare uno spettacolo più ripugnante. Ho veduto parecchie volte un lavorante insultarne un altro perchè piegava sotto il peso d’un carico, o, durante la falciatura, il capo del villaggio rampognare un contadino per qualche svarione, e gli uomini così bistrattati sottomettersi in silenzio; ma per quanto siffatte scene mi tornassero spiacevoli, la mia ripugnanza era attenuata dal pensiero che in quei casi si trattava di lavori importanti e necessari, nei quali il più piccolo fallo poteva dar luogo a tristi conseguenze. Là invece, in quel teatro, che si faceva? Per che cosa e per chi si lavorava? Capivo perfettamente che il direttore d’orchestra non ne poteva più, come quell’operaio che avevo incontrato dietro il palcoscenico; ma a benefizio di chi s’era egli ridotto in quello stato? L’opera, di cui si faceva la prova, era, come ho detto, tra le più volgari; adesso aggiungerò che in assurdità sorpassava quel che di peggio si può imaginare. Un re indiano aveva il ruzzo di prender moglie; gli si conduceva una sposa; il re si travestiva da menestrello; la sposa s’invaghiva del menestrello, e se ne disperava, ma poi si veniva a scoprire che il menestrello e il re suo fidanzato erano una persona sola; e tutti cominciavano a delirare dalla gioia. Indiani di codesta sorta non ve n’ebbero mai, nè ce ne saranno mai. Ed era certo del pari che i loro fatti e le loro parole non solo non avevan nulla da fare coi costumi dell’India, ma nemmeno con alcun costume d’uomini, salvo che quelli delle opere. Infatti grazie al cielo gli uomini reali non parlano in recitativi, nè volendo esprimere la loro commozione, si collocano a distanze regolari agitando le braccia in cadenza; non camminano mai a due a due, in babbuccie, con alabarde di stagnola, nessuno nella vita s’adira o si dispera, ride o piange, come si vedeva fare in quella rappresentazione. E che nessuno mai abbia potuto commoversi per una produzione di quel genere, anche questo era fuori d’ogni dubbio. Quindi era naturale chiedersi: a chi poteva giovare tutta quella faccenda? A chi poteva piacere? Se in quell’opera ci fosse stata per miracolo della musica graziosa, non bastava eseguire la musica sola, senza tutti quei vestiti grotteschi, quelle processioni, quel dimenar le braccia? Perchè tutti i giorni, in tutte le città, da un capo all’altro del mondo civile, si ripetono codeste sciocchezze? C’è anche il ballo, il quale non è che una esposizione di donne seminude che eseguiscono movimenti voluttuosi, allacciandosi in pose sensuali, spettacolo che provoca non altro che sensazioni di lussuria. Ancora una volta, chi questi divertimenti possono interessare? Le persone colte è forza che ne siano stomacate; l’operaio è forza che non ne capisca nulla. Potrà compiacersene al più qualche giovine lacchè, qualche operaio pervertito, che abbia contratto i bisogni delle classi superiori senza potersi sollevare al loro buon gusto naturale. Eppure ci si dice che tutte queste cose si fanno a benefizio dell’arte, e che l’arte importa moltissimo. Ma sarà vero che l’arte abbia tanta importanza da richiedere siffatti sacrifizi? Codesta questione si fa tanto più incalzante in quanto il concetto di codesta arte, a cui si sacrificano il lavoro di migliaia d’uomini, migliaia di esistenze, e sopratutto l’amore reciproco dell’umanità, va diventando sempre più vago e indeterminato. Infatti i critici, ai quali si solevano appellare gli amatori dell’arte per trovar appoggio alle loro opinioni, in questi ultimi tempi hanno preso a contendere così fortemente tra di loro che, se dal dominio dell’arte escludiamo quanto ne hanno escluso le diverse scuole, in codesto vantato dominio non resta pressochè più nulla. Le scuole degli artisti, come le scuole dei teologi, s’escludono e si rinnegano a vicenda. Studiateli e vedrete che non fanno se non combattere le sétte rivali. Nella poesia, ad esempio, i vecchi romantici sconfessano i parnassiani e i decadenti; i parnassiani sconfessano i romantici e i decadenti; i decadenti sconfessano tutti i predecessori, e per giunta i simbolisti; i simbolisti sconfessano tutti i predecessori, e per giunta i magi, e questi sconfessano semplicemente tutti gli altri. Tra i romanzieri si parla di naturalisti, di psicologi, di _naturisti_, e tutti pretendono di meritar essi soli il nome d’artisti. Lo stesso accade nella drammatica, nella pittura, nella musica. Pertanto codesta arte, che richiede tanta fatica, che abbrutisce molte esistenze, che costringe la gente a peccare contro l’amor del prossimo, non solo non è cosa definita chiaramente e nettamente, ma persino i suoi fidi, i suoi iniziati la intendono in tante e così diverse maniere che oramai quasi non si sa più che si voglia dire colla parola “arte„, e in particolare, quale sia l’arte buona, utile, preziosa, l’arte che merita le siano offerti in omaggio tali e tanti sacrifizi. CAPITOLO PRIMO. Il problema dell’arte. Per produrre il menomo ballo, opera seria o buffa, quadro, sonata o romanzo, migliaia di persone sono costrette ad un lavoro spesso umiliante e penoso. Il male non sarebbe tanto grande se gli artisti compiessero essi stessi la somma di lavoro richiesta dalle loro opere; mentre invece occorre loro la prestazione d’innumerevoli operai. La quale prestazione essi ottengono in uno od altro modo, ora sotto forma di contribuzione offerta dai ricchi, ora di sovvenzione dello Stato; e in quest’ultimo caso il denaro proviene dal popolo, costretto in gran parte a privarsi del bisognevole per pagare i balzelli, senza potere poi partecipare ai godimenti dell’arte. Il fatto parrebbe naturale, trattandosi d’un artista greco o romano, oppur anche d’un artista russo della prima metà del nostro secolo, quando cioè v’erano ancora degli schiavi; poichè costoro potevano credersi in diritto di farsi servire dal popolo. Ma ora che tutti gli uomini hanno, se non altro, un vago sentore dell’uguaglianza nei diritti, non si può più ammettere che il popolo lavori a contraggenio per vantaggio dell’arte, se prima non si riesca a mettere in sodo fino a qual segno l’arte sia utile e importante, sì da compensare largamente i mali di cui è cagione. Quindi in una società cultrice delle arti fa d’uopo ricercare se si possa veramente chiamare arte tutto ciò che si crede esser tale, e se, giusta il presupposto che vige nella nostra società, tutto ciò che rientra nell’arte sia buono per questo solo fatto, e degno dei sacrifizi che per essa si richiedono. Del resto codesta questione deve premere anche agli artisti, trattandosi per loro di sapere se ciò che fanno abbia veramente tutta l’importanza che si crede, e se non rimangono nella falsa convinzione di lavorare utilmente solo per i pregiudizi della chiesuola in cui vivono, e se d’altro lato quanto prendono agli altri per i bisogni dell’arte e della loro vita individuale, trovi qualche compenso nel valore dei loro prodotti. Che cos’è adunque l’arte, questa entità ritenuta così preziosa e indispensabile per il genere umano? “Bella domanda! L’arte è l’architettura, la scultura, la pittura, la musica, e la poesia in tutte le loro forme.„ Così risponderanno senza dubbio i profani, gli amatori d’arte, e gli artisti stessi, tutti ben persuasi che l’oggetto della loro risposta sia chiarissimo e inteso da tutti a un modo. E allora noi domanderemo; rispetto all’architettura, ci sono o non ci sono degli edifizi, che non contano come opere d’arte, ed altri ancora, che con tutte le loro pretensioni artistiche, sono brutti e sgradevoli a vedersi, e perciò non si possono considerare come opere artistiche? E non si può dire lo stesso della scultura, della musica, della poesia? In tal caso in che cosa risiede la nota caratteristica d’un’opera d’arte? L’arte in tutte le sue forme da una parte è limitata dall’utilità pratica, dall’altra dal brutto, dall’incapacità a produrre l’arte. Ma come la potremo distinguere da questi due termini che la limitano? Per quest’altro quesito le semplici persone cosidette colte, e l’artista medesimo, supposto che non sia infarinato d’estetica, crederanno d’aver pronta la risposta, e che sia già trovata da un pezzo, e ovvia ad ognuno. “L’arte, vi diranno, è l’attività che produce il bello„. Ma se l’arte, chiederete, consiste in questo, un ballo, oppure un’operetta saranno prodotti artistici? E le persone colte e l’artista torneranno a rispondervi, sebbene con qualche esitazione: “Sì, un buon ballo, una graziosa operetta, in quanto siano una manifestazione del bello appartengono all’arte„. Se vorrete poi sapere dai vostri interlocutori in che cosa si distinguono dai loro contrari un buon ballo, una graziosa operetta, non troveranno facilmente la risposta. E a chi domandasse loro, se l’opera dei disegnatori di costumi e dei parrucchieri, così importanti per i balli e per le operette, quella dei sarti, dei profumieri, dei cuochi sia da considerare come opera d’arte, probabilmente risponderebbero di no. Ma qui s’ingannerebbero, appunto perchè sono della gente solita, e non specialisti, non esperti nelle questioni estetiche. Se avessero messo il naso in tali questioni avrebbero letto, per esempio, nell’opera del grande Renan, _Marc Aurèle_, una dissertazione che prova l’opera del sarto essere un’opera d’arte, e che coloro i quali non ritengono le acconciature femminili essere la più alta manifestazione artistica, sono esseri inintelligenti e spiriti volgari. “Quella è la grande arte„ afferma il Renan. I vostri interlocutori dovrebbero puranco sapere che nella maggior parte dei moderni sistemi estetici gli abiti, i profumi, la gastronomia sono considerate come arti speciali. Così particolarmente la pensa il dotto professore Kralik, nella sua _Beauté Universelle, essai d’une esthétique générale_; tale è il parere del Guyau nei suoi _Problèmes de l’esthétique contemporaine_. “Esiste, dice il Kralik, un pentacolo delle arti fondato sui cinque sensi dell’uomo„; e perciò distingue le arti che si riferiscono al gusto, all’odorato, al tatto, all’udito, alla vista. Della prima di codeste arti egli discorre così: “Ci siamo troppo avvezzi a non voler riconoscere se non per due o tre sensi il privilegio di fornire il materiale all’arte. Ma non si vorrà negare che, quando l’opera del cuoco riesce a trasformare per l’uomo il cadavere d’un animale in una fonte di svariati piaceri, ci troviamo dinanzi a una vera produzione estetica„. La stessa opinione ricorre nell’opera citata del francese Guyau che molti tra gli scrittori più recenti onorano d’una stima eccezionale. Esso parla con tutta serietà del tatto, del gusto, e dell’olfatto, come di sensi idonei a somministrarci delle impressioni estetiche. “Se il tatto, egli dice, è estraneo alla sensazione del colore, ci fornisce in cambio una nozione, a cui non basta l’occhio di per sè stesso, e che non è di piccola importanza estetica, la nozione cioè del fino, del morbido, del liscio. La bellezza del velluto riceve la sua impronta, oltrechè dal suo aspetto brillante, anche dalla sua morbidezza. Nel concetto che ci formiamo della bellezza femminile entra come elemento essenziale anche la finezza della pelle. Tutti probabilmente, a pensarci alquanto, ricorderanno soddisfazioni tali del palato da potersi chiamare veri godimenti estetici„. E qui l’autore, in via d’esempio, racconta d’una tazza di latte bevuta in montagna, che gli procurò un vero godimento estetico. Da tutto ciò si ricava che il concetto dell’arte considerata come la manifestazione del bello, non è tanto semplice quanto si crederebbe a prima vista. Ma la gente solita o ignora codeste questioni, o vi si ribella, e persiste nella persuasione che tutti i problemi concernenti l’arte si risolvano nettamente col riconoscere che la bellezza è l’oggetto dell’arte. Trova cosa pienamente intelligibile e lampante, che la funzione dell’arte sia quella di manifestare la bellezza. La bellezza le pare sufficiente a risolvere tutte le questioni relative all’arte. Ma che cos’è poi codesto bello che è oggetto dell’arte? Come lo si può definire? In che cosa consiste? Secondo il solito, quanto più le idee che una parola ci suggerisce riescono nebulose e confuse, la parola stessa è adoperata con tanta maggiore sicumera, e si sostiene che il senso ne è troppo semplice e troppo chiaro, perchè valga la pena di determinarlo meglio. È la solita magagna delle questioni religiose; e si riscontra altresì in codesto concetto della bellezza. Si crede accordato che tutti sappiano e intendano il significato della parola _bellezza_. Ora la verità è questa; non solo è falso che tutti lo intendano, ma per di più, sebbene negli ultimi centocinquant’anni (dopochè Baumgarten ebbe fondato l’estetica nel 1750) dal pensatori più dotti e più profondi si siano scritti monti di libri intorno a questo argomento, resta pur sempre insoluto il quesito che verte intorno all’essenza del bello, e ogni nuova trattazione d’estetica vi risponde in modo diverso. Una delle ultime scritture lette da me in proposito è un libriccino tedesco di Giulio Mithalter, intitolato _l’Enigma del bello_. E codesto titolo esprime egregiamente la vera posizione del problema. Dopo che migliaia di dotti si sono scervellati per centocinquant’anni intorno al senso della parola _bellezza_, codesto senso rimane sempre enigmatico. I tedeschi lo definiscono a loro modo in cento guise differenti. La scuola fisiologica a cui appartengono gl’inglesi Spencer, Grant Allen e altri, risponde a suo modo; lo stesso vale per gli eclettici francesi, e il Taine, e il Guyau, e i loro successori; e tutti costoro trovano, esaminandole, insufficienti tutte le definizioni già date dal Baumgarten, dal Kant, dallo Schiller, dal Fichte, dal Winckelmann, dal Lessing, dall’Hegel, dallo Schopenauer, dall’Hartmann, dal Cousin, e da mille altri. Ora, che sarà mai codesta singolare nozione del bello, che sembra tanto ovvia a quelli che ne parlano a caso, ma da centocinquant’anni a questa parte è refrattaria a tutte le definizioni; la qual cosa tuttavia non trattiene gli estetici dal fondare su quella nozione tutte le loro dottrine intorno all’arte? Nel nostro russo, la parola _krasota_ (bellezza) significa semplicemente ciò che piace alla vista. E sebbene da qualche tempo ci si parli anche in russo d’una “brutta azione„ o d’una “bella musica,„ si offende con quelle frasi la proprietà della nostra lingua. Un popolano russo, ignaro delle lingue straniere, se gli direte che un uomo, che regala tutto il suo, ha fatto una “bella„ azione, oppure che una certa canzone costituisce della “bella„ musica, non vi capirà affatto. Nella lingua russa un’azione può essere buona e caritatevole, oppur malvagia e cattiva. La musica può essere gradevole e buona, oppure spiacevole e cattiva. Ma i russi non sanno che cosa sia una “bella„ azione o una “bella„ musica. L’aggettivo “bello„ può solo riferirsi a un uomo, a un cavallo, a una casa, a un luogo, a un moto. Quindi la parola e la nozione del “buono„ per noi, in un certo ordine di cose, implicano la nozione del “bello„ mentre quest’ultima nozione non implica necessariamente il concetto del “buono„. Allorchè d’un oggetto tenuto in pregio per la sua apparenza visibile diciamo che è “buono,„ intendiamo dire che quest’oggetto è “bello„: se invece lo affermiamo “bello,„ non ne deriva di necessità che lo crediamo “buono„. Nelle altre lingue d’Europa, appartenenti cioè alle nazioni tra le quali prese piede la dottrina che considera la bellezza come la cosa essenziale in arte, le parole “beau„, “schön,„ “beautiful,„ “bello„ ecc., pur conservando il loro senso originario, vennero altresì a esprimere la bontà, potendo così sostituire la parola “buono„. Oramai in siffatte lingue sono correnti e naturali le espressioni di questo genere; “bell’anima„, “bel pensiero„, “bell’azione„. Siffatte lingue sono giunte al segno di non posseder più alcun vocabolo proprio per designare la bellezza della forma; quindi a quell’uopo ricorrono a combinazioni di parole, quali sarebbero “beau de forme,„ “beau à voir„, ecc. Ma, dunque, che cos’è precisamente codesta “bellezza„, che muta senso a seconda dei popoli e dei tempi? Per rispondere a questa domanda, per determinare che cosa intendano oggidì per “bellezza„ le nazioni Europee, dovrò addurre almeno un piccolo saggio delle definizioni più largamente accettate nei sistemi estetici moderni. Ma innanzi tratto mi fa d’uopo scongiurare il lettore di non infastidirsi troppo della noia che risulterà dalle citazioni, e di rassegnarsi a leggerle, o, meglio, a leggere alcuno degli autori, dei quali andrò citando i passi opportuni. Per non discorrere che di opere semplici e spicciative, si prendano, per esempio, il libro tedesco del Kralik, quello inglese del Knight, o quello francese del Lévêque. È indispensabile aver letto un trattato d’estetica per formarsi un concetto della divergenza d’opinioni e dell’oscurità spaventosa tuttora dominante in questo ramo del sapere filosofico. Eccovi per esempio che cosa dice l’estetico tedesco Schasler nella prefazione della sua celebre, voluminosa, e minuziosa opera sull’estetica: “In nessun’altra parte del dominio filosofico la divergenza d’idee è grande quanto è nell’estetica. Nè in alcun’altra disciplina filosofica si trova maggior copia di vana fraseologia, di parole vuote di senso, o mal determinate, un’erudizione più pedantesca, e a un tempo più superficiale„. E in realtà basta leggere l’opera dello Schasler medesimo per intendere quanto sia giusta la sua osservazione. Sul medesimo argomento il francese Véron, nella prefazione del suo libro notevole intorno all’estetica, scrive: “Non c’è scienza, la quale sia stata abbandonata alle fantasticherie dei metafisici più dell’estetica. Da Platone sino alle dottrine ufficiali dei nostri giorni, si è fatto dell’arte non so qual miscela di fantasie sublimate e di misteri trascendentali, che trovano la loro suprema espressione nel concetto assoluto del bello ideale, prototipo immutabile e divino delle cose reali„. Voglia compiacersi il lettore di scorrere le poche definizioni della bellezza, che seguono, e sono tolte solo agli estetici di gran fama; e potrà giudicare da sè quanto sia giustificata questa critica del Véron. Non citerò, come per lo più fanno tutti, le definizioni del bello attribuite agli autori antichi, Socrate, Platone, Aristotele, e gli altri sino a Plotino, poichè realmente, come dirò più tardi, gli antichi avevano dell’arte un concetto affatto diverso da quello che è il fondamento e l’oggetto dell’estetica moderna. Ravvicinando alla nostra presente concezione del bello i giudizi che essi ne facevano, s’attribuisce alle loro parole un significato del tutto alieno da esse. CAPITOLO II. La bellezza. Cominciamo dal fondatore dell’estetica, da Baumgarten (1714-1762). A suo parere, la conoscenza logica ha per oggetto la _verità_, e la conoscenza estetica, vale a dire che tocca i sensi, ha per oggetto la _bellezza_. La _bellezza_ è il perfetto, o l’assoluto riconosciuto dai sensi; la _verità_ è il perfetto percepito dalla ragione. E la _bontà_ dal suo canto è il perfetto raggiunto dalla volontà morale. Il Baumgarten definisce la bellezza come una “armonia„ cioè un ordine tra certe parti, nelle loro mutue relazioni e nel loro rapporto col tutto. Il fine poi della bellezza è quello “di piacere e d’eccitare un desiderio„. Tra parentesi, abbiamo qui esattamente l’opposto della definizione kantiana. Quanto alle manifestazioni del bello, l’autore in questione crede che la suprema incarnazione del bello si trovi nella natura, e che perciò l’ideale dell’arte consista nel copiare la natura; altra sentenza questa che fa a pugni colle opinioni degli estetici successivi. Ci sia concesso lasciar da parte gl’immediati successori del Baumgarten, cioè il Maier, l’Eschenburg e l’Eberhard, che solo ritoccarono leggermente la dottrina del maestro, distinguendo dal bello il gradevole. Ma non dobbiamo tacere le definizioni dovute ad altri contemporanei del Baumgarten, per esempio allo Sulzer, a Mosè Mendelssohn, al Moritz, che contraddicono apertamente alle dottrine di quello, considerando come oggetto dell’arte la bontà, non la bellezza. Secondo il Sulzer (1720-1779) non si può ritenere per bello se non ciò che partecipi in qualche modo del buono; quindi la bellezza è ciò che desta e svolge il sentimento morale. Mendelssohn (1729-1786) ravvisa nella perfezione morale il solo scopo dell’arte. Codesti estetici distruggono totalmente la distinzione che il Baumgarten stabiliva tra le tre forme del perfetto, cioè il vero, il bello e il buono; e rannodano il bello al vero e al buono. Codesto concetto non solo non è conservato dagli estetici del periodo seguente, ma è anche contraddetto nella sua sostanza dai famoso Winckelmann (1717-1768), che disgiunge la funzione dell’arte da ogni fine di moralità, e attribuisce all’arte come suo oggetto la bellezza esteriore, ristretta alla sola bellezza visibile. Secondo il Winckelmann la bellezza è di tre sorta: 1.º la bellezza della forma; 2.º la bellezza dell’idea, che risulta dall’atteggiamento delle figure; 3.º la bellezza dell’espressione che scaturisce dalla fusione delle altre due. La bellezza dell’espressione è il fine supremo dell’arte, e si trova effettuata nell’arte antica; perciò l’arte moderna deve tendere ad imitare l’antica. Analogo concetto della bellezza si mostra nel Lessing, nell’Herder, nel Goethe e nei più degli altri estetici tedeschi, finchè non venne il Kant ad abbatterlo sostituendovene un altro affatto diverso. Nel medesimo periodo in Inghilterra, in Francia, in Italia e in Olanda sorge uno sciame di teorie estetiche, le quali, benchè indipendenti dalle tedesche, stanno loro a paro per l’oscurità e la confusione. A detta dello Shaftesbury (1690-1713); “ciò che è bello, è armonico e ben proporzionato; ciò che è armonico e ben proporzionato è vero; e ciò che è a un tempo bello e vero, è necessariamente gradevole e buono„. Dio è il fondamento d’ogni bellezza; la bellezza e la bontà procedono da lui. Così per codesto inglese la bellezza si distingue dalla bontà, e pur tuttavia si confonde con essa. Secondo l’Hutcheson (1694-1747) l’oggetto dell’arte è la bellezza, l’essenza della quale sta nell’evocare in noi la percezione dell’uniformità nella varietà. Noi possediamo “un senso„ interno che ci permette di riconoscere che cosa sia l’arte, ma può tuttavia essere in contraddizione col senso estetico. Per dippiù, secondo l’idea dell’Hutcheson la bellezza non corrisponde sempre alla bontà, ma se ne distingue, e in certi casi le è contraria. Secondo l’Home (1696-1782) la bellezza è ciò che piace. Non c’è per essa altra determinazione che il godimento. L’ideale del godimento sta in questo che il massimo di ricchezza, di pienezza, di forza e di varietà d’impressioni si trovi condensato entro i limiti più ristretti. Codesto è pure l’ideale d’una perfetta opera d’arte. Secondo il Burke (1729-1797) il sublime e il bello, che sono gli oggetti dell’arte, trovano la loro origine nel nostro istinto di conservazione e nell’istinto di socievolezza. La difesa dell’individuo e la guerra, che ne scaturisce, sono le fonti del sublime; la socievolezza e l’istinto sessuale che ne deriva, sono la fonte del bello. Se i pensatori inglesi nelle loro definizioni del bello e dell’arte si contraddicevano a vicenda, nemmeno gli estetici francesi riuscivano ad accordarsi meglio. Secondo il padre André (_Essai sur le Beau_, 1741) ci sono tre specie di bellezza: la bellezza divina, la bellezza naturale e la bellezza artificiale. Secondo Batteaux (1713-1780), l’arte consiste nell’imitare la bellezza della natura, e il suo scopo dev’essere di piacere. Questa a un dipresso è pure la definizione del Diderot. Il Voltaire e il D’Alembert pensano che le sole leggi del buon gusto possano decidere del bello; ma che alla loro volta codeste leggi sfuggano a ogni definizione. Secondo il Pagano, fiorito in Italia nel medesimo periodo, l’arte consisterebbe nel raccogliere in uno le bellezze disseminate nella natura. L’attitudine a percepire codeste bellezze costituisce il buon gusto, la facoltà di raccoglierle in un tutto s’identifica coll’ingegno artistico. La bellezza, per lui, si confonde colla bontà; la bellezza è la bontà resa visibile, e la bontà è la bellezza resa interiore. Secondo altri italiani, ad esempio il Muratori (1672-1750) e lo Spaletti (Saggio sopra la Bellezza, 1765), l’arte va ricondotta a una sensazione egoistica fondata sul nostro istinto di conservazione e di socievolezza. Degli estetici Olandesi il più notevole è Hemsterhuis (1720-1790) il quale influì realmente sugli estetici tedeschi, sul Goethe medesimo. Per lui la bellezza è ciò che procura il maggior piacere, e desta in noi il massimo numero d’idee nella minima durata di tempo. Quindi a suo parere il godimento del bello è il più alto di tutto, come quello che ci procura nel più piccolo spazio di tempo la più grande quantità di percezioni. Tali erano all’incirca in Europa, le principali dottrine estetiche, allorchè sorse quella del Kant (1724-1804) che rimase poi, come sappiamo, tra le più celebrate. La teoria estetica del Kant si può riassumere nel modo seguente: — L’uomo ha la conoscenza della natura esteriore e ad un tempo di sè stesso entro la natura. Nella natura esso cerca il vero; in sè stesso cerca la bontà. La prima ricerca risguarda la _ragione pura_, la seconda la _ragione pratica_. Ma oltre a quei due mezzi di percezione havvi ancora la capacità di giudicare, atta a produrre dei “giudizi senza concetti, e dei piaceri senza desideri„. Codesta capacità è la base del sentimento estetico. Secondo il Kant la bellezza considerata soggettivamente è quello che piace in modo generale e necessario, senza concetto alcuno (Begriff) e senza utilità pratica. Oggettivamente considerata, la bellezza è la forma d’un oggetto piacente, in quanto ci piaccia senza alcun riguardo alla sua utilità. Definizioni della bellezza poco diverse da questa del Kant furono date dai suoi successori, tra i quali meritano menzione lo Schiller (1759-1805) e Guglielmo di Humboldt. Oltre ai filosofi di second’ordine, dopo il Kant s’occuparono d’estetica anche il Fichte, lo Schelling, l’Hegel, e i loro discepoli. Il Fichte (1762-1814) sostiene che il mondo per noi ha due aspetti, costituiti per una parte dalla somma delle nostre limitazioni, per l’altra da quella della nostra libera attività ideale. Sotto il primo aspetto ogni cosa è sfigurata, rimpicciolita, mutilata, e scorgiamo così la bruttezza; sotto l’altro aspetto percepiamo gli oggetti nella loro pienezza, nella loro vita intima, vale a dire ravvisiamo la bellezza. Perciò la bellezza e la bruttezza delle cose dipendono dal punto di vista di chi le osserva, e la bellezza non ha radice nel mondo, ma nell’“anima bella„. L’arte è la manifestazione di siffatta “anima bella„, e ha per fine l’educazione della mente, del cuore, anzi dell’uomo intiero. Per la qual cosa i caratteri della bellezza non risiedono nelle cose o sensazioni esteriori, ma nella presenza di un’anima bella, nell’artista. Senza diffonderci intorno alle teorie di Federico Schlegel (1772-1829) e di Adamo Müller (1779-1829) tocchiamo di quella celebre dello Schelling (1775-1854). Secondo questo filosofo l’arte defluisce da una concezione delle cose nella quale il soggetto diventa oggetto a sè stesso, e l’oggetto diventa per sè soggetto. La bellezza è la percezione dell’infinito nel finito. L’arte è l’unione del soggettivo e dell’oggettivo, della natura e della ragione, del cosciente e dell’incosciente. E la bellezza del pari è la contemplazione delle cose in sè, quali cioè esistono nei loro prototipi. La bellezza non è prodotta dal sapere o dall’abilità dell’artista, ma dall’idea della bellezza che lo governa. Dopo lo Schelling e la sua scuola, come a dire il Solger, il Krause, ecc., viene innanzi la famosa dottrina estetica dell’Hegel, la quale, in fondo, è pur sempre la base delle opinioni correnti intorno all’arte e alla bellezza. Del resto nemmeno questa teoria è più chiara o più precisa delle precedenti, chè anzi le supera in astrusità e nebulosità. Secondo l’Hegel (1770-1831), Dio si manifesta nella natura e nell’arte sotto la forma della bellezza. La bellezza è il riflesso dell’idea nella materia. L’anima sola è veramente bella; ma lo spirito si palesa a noi sotto la forma sensibile, e in questa apparenza sensibile dello spirito risiede l’unica realtà della bellezza. Nel sistema hegeliano bellezza e verità sono tutt’uno; poichè la bellezza non è altro che la manifestazione sensibile della verità. Questa dottrina fu ripresa, svolta, arricchita di molte nuove formole dai discepoli dell’Hegel, Weisse, Ruge, Rosenkrantz, Vischer, e altri. Ma non si creda che l’hegeinismo avesse il monopolio delle teorie estetiche in Germania! Al suo fianco comparivano altri sistemi in gran numero, i quali, ben lungi dall’ammettere coll’Hegel che la bellezza fosse il riflesso dell’idea, impugnavano quella definizione, confutandola e deridendola. Ci contentiamo di addurre le dottrine dell’Herbart e dello Schopenhauer. Secondo Herbart (1776-1841) non c’è e non può esserci bellezza esistente di per sè stessa. Non esiste nient’altro che la nostra opinione, e questa è fondata sulle nostre impressioni personali. Ci sono certe relazioni che noi chiamiamo bello, e l’arte sta nello scoprirle, tanto nella pittura, quanto nella musica e nella poesia. Secondo lo Schopenhauer (1788-1860) la volontà si oggettiva nel mondo su piani diversi, ciascuno dei quali ha la sua bellezza propria, e il più elevato è il più bello. La rinuncia alla nostra individualità, permettendoci di contemplare codeste manifestazioni della Volontà, ci dà una percezione della bellezza. Tutti gli uomini hanno la facoltà di oggettivare l’idea in disegni differenti; ma il genio dell’artista la possiede in più alto grado, e può quindi produrre una bellezza superiore. Dopo questi scrittori famosi ne sorsero in Germania degli altri meno originali e meno autorevoli, ma pur sempre accaniti a sradicare le dottrine dei loro confratelli passati e presenti: tali sono l’Hartmann, il Kirchmann, lo Schnasse, il fisico Helmholtz, il Bergmann, il Jungmann, ecc. Secondo Hartmann (nato nel 1842) la bellezza non risiede nè nel mondo esterno, nè nella “cosa in sè stessa„, nè nell’anima nostra, ma nell’_apparenza_ (Schein) prodotta dall’artista. La “cosa in sè„ non è punto bella, ma ci sembra tale quando è trasformata dall’artista. Secondo Schnasse (1798-1875), non c’è nel mondo bellezza perfetta; la natura non fa che accostarvisi soltanto; l’arte ci dà quel che la natura non può darci. Secondo Kirchmann (1802-1884) ci sono sei regni della storia: i regni della scienza, della ricchezza, della morale, della fede, della politica, e della bellezza. L’arte è l’attività che s’esercita in quest’ultimo regno. Secondo Helmholtz (1821-1896) il quale non s’occupò che dell’estetica musicale, la bellezza in musica non s’ottiene se non coll’osservazione di certe leggi invariabili, leggi che l’artista ignora, ma a cui obbedisce incoscientemente. Secondo Bergmann (_Ueber das Schöne_, 1887) è impossibile definire oggettivamente la bellezza. Essa non si può percepire che soggettivamente, quindi il problema dell’estetica sta nel determinare quello che piace a ciascuno. Secondo Jungmann (morto nel 1885): 1.º la bellezza è una qualità soprasensibile delle cose; 2.º il piacere artistico è prodotto in noi dalla semplice contemplazione della bellezza; 3.º la bellezza è il fondamento dell’amore. Credete voi che mentre la Germania partoriva tante dottrine, gli estetici di Francia ed Inghilterra scioperassero? In Francia, c’era Cousin (1792-1867), un eclettico che s’ispirava alle dottrine degl’idealisti tedeschi. Secondo lui la bellezza posa sempre sopra un fondamento morale. Diceva inoltre che la bellezza può esser definita oggettivamente, e ch’essa è, per essenza, la varietà nell’unità. Il Jouffroy, suo scolaro (1796-1842) scorgeva nella bellezza l’invisibile reso per mezzo di segni sensibili. Il metafisico Ravaisson considerava la bellezza come termine e fine supremo dell’Universo. “La beauté la plus divine et principalement la plus parfaite contient le secret.„ E appresso: “Le monde entier est l’œuvre d’une beauté absolue, qui n’est la cause des choses que par l’amour qu’elle met en elles.„ M’astengo a bello studio dal tradurre in russo codeste espressioni metafisiche, perchè i francesi quando prendono a imitare i tedeschi li superano d’assai nell’arruffio delle idee eterogenee. Il metafisico Renouvier alla sua volta diceva: “Ne craignons pas d’affirmer qu’une vérité qui ne serait pas belle ne serait qu’un jeu logique de notre esprit, et que la seule vérité solide, et digne de ce nom, c’est la beauté.„ Tutti questi pensatori si riferivano colle loro dottrine all’estetica tedesca; altri loro contemporanei si sforzarono d’esser più originali, come il Taine, il Guyau, lo Cherbuliez, il Véron, ecc. Secondo Taine (1828-1893) c’è la bellezza quando il carattere essenziale d’una idea importante si manifesta più completamente che non nella realtà. Secondo Guyau (1854-1888) la bellezza non è cosa esteriore all’oggetto, ma è il fiore stesso dell’oggetto. L’arte è l’espressione d’una vita ragionevole e cosciente, evocando in noi a un tempo la più profonda consapevolezza nella nostra esistenza e i sentimenti più elevati e i pensieri più nobili. L’arte, secondo lui, trasporta l’uomo dalla vita individuale nella vita universale per mezzo della comunione dei sentimenti e delle idee. Secondo Cherbuliez l’arte è un’attività che: 1.º soddisfa il nostro amore innato delle apparenze; 2.º incarna in queste apparenze delle idee; 3.º procura a un tempo godimento ai sensi, al cuore, alla ragione. Presentiamo ancora, per esser completi, il parere di alcuni autori francesi più recenti. La _Psicologia del bello e dell’arte_ scritta da Mario Pilo[12] (1895) afferma che la bellezza è un prodotto delle nostre impressioni fisiche. Fine dell’arte è il piacere; ma l’autore pensa che questo piacere è di necessità eminentemente morale. Il _Saggio sull’arte contemporanea_ di Fierens-Gevaert (1897) dice che l’arte consiste nell’equilibrio tra la conservazione delle tradizioni del passato, e l’espressione dell’ideale del presente. Infine il Sâr Péladan afferma che la bellezza è una delle manifestazioni di Dio. “Non c’è altra Realtà che Dio, non c’è altra Verità che Dio, non c’è altra Bellezza che Dio.„ L’_Estetica_ di Véron (1878) si distingue dalle opere affini se non altro per maggiore chiarezza e facilità. Senza dare una definizione esatta dell’arte, l’autore ha il merito di sbarazzare l’estetica da tutte le vaghe nozioni del bello assoluto. Secondo il Véron l’arte è la manifestazione d’un’emozione estrinsecata per mezzo di qualche combinazione di linee, di forme, di colori, o con una successione di movimenti, di ritmi, di suoni. Quanto agli Inglesi, in massima parte s’accordano in questo, che definiscono la bellezza non per le sue qualità proprie, ma seguendo le impressioni e i gusti individuali. Così fecero già il Reid (1704-1796), l’Alison ed Erasmo Darwin (1731-1802). Ma le teorie dei loro successori sono assai più notevoli. Secondo Carlo Darwin (1805-1882) la bellezza è un sentimento naturale, non soltanto dell’uomo, ma eziandio degli animali. Gli uccelli adornano i loro nidi, e tengono conto della bellezza nei rapporti sessuali. Del resto la bellezza è la risultante di varie nozioni e di vari sentimenti. L’origine della musica si deve rintracciare nelle chiamate che il maschio rivolge alla femmina. Secondo Erberto Spencer (nato nel 1820) l’origine dell’arte dev’essere cercata nel giuoco. Negli animali inferiori l’energia vitale è rivolta per intiero alla conservazione della vita individuale e della specie; nell’uomo invece, soddisfatti i primi istinti, rimane un dippiù d’energia, che si consuma nel giuoco, e poscia è trasformata in arte. E l’autore continua a discorrere delle varie sorgenti del piacere estetico, cioè della facoltà d’esercitare qualche senso nella sua maggiore interezza e col minore dispendio di forza, della massima varietà delle sensazioni, ecc. Grant Allen nei suoi _Physiological Esthetics_ (1877) assegna alla bellezza un’origine fisica. I piaceri estetici derivano dalla contemplazione della bellezza, ma il concetto della bellezza è il risultato di un processo fisiologico. Il bello è ciò che procura il maximum di stimoli col minimum di spesa. Le varie opinioni ora addotte intorno all’arte e alla bellezza, senza dire di quelle degl’inglesi Todhunter, Morley, Kerd, Knight, ecc., non esauriscono di certo quanto s’è scritto intorno al nostro argomento. Non passa giorno senza che sorgano dei nuovi estetici, nella dottrina dei quali si trovano, invariabilmente, lo stesso vago e le stesse contraddizioni. Alcuni per inerzia si contentano di adottare con qualche variante l’estetica mistica dei Baumgarten e dei Hegel; altri trasportano la questione nel campo soggettivo, riconnettendo la bellezza al gusto; altri, gli estetici delle ultime generazioni, ricercano l’origine della bellezza nelle leggi della fisiologia; altri infine affrontano risoluti il problema dell’arte indipendentemente dal concetto di bellezza. Così il Sully, in _Sensation and Intuition_, elimina per intero la nozione di bellezza. Nella sua definizione l’arte non è che un prodotto idoneo a procurare al produttore un godimento attivo, e a suscitare un’impressione gradevole in un certo numero di spettatori o d’uditori, astraendo da ogni considerazione d’utilità pratica. CAPITOLO III. Distinzione tra l’arte e la bellezza. Che cosa si ricava da tutte codeste definizioni della bellezza? Astraendo da quelle evidentemente fallaci, che non rispondono al concetto dell’arte, e ripongono la bellezza o nell’adattamento a un fine, o nella simmetria, o nell’ordine, o nell’armonia delle parti o nell’unità sotto la varietà, o in diverse combinazioni di tutti questi elementi, astraendo da questi tentativi infelici di determinazioni oggettive, tutte le definizioni della bellezza proposte dagli estetici fanno capo a due principii opposti. Il primo è che la bellezza è cosa esistente di per sè, una manifestazione dell’Assoluto, del Perfetto, dell’Idea, dello Spirito, della Volontà, di Dio; l’altro è, che la bellezza consiste in un piacere particolare provato da noi, e nel quale non entra punto il sentimento dell’utile. Di questi due principii il primo fu ammesso da Fichte, Schelling, Hegel, Schopenhauer e dai metafisici francesi; è ancor oggi molto molto diffuso tra le persone colte, specie della vecchia generazione. Il secondo principio, che riduce la bellezza a un’impressione individuale di piacere, è caldeggiato particolarmente dagli estetici inglesi, ed è accolto con favore crescente dalle generazioni nuove della nostra società. Perciò, secondochè era inevitabile, non sono possibili se non due definizioni della bellezza; una oggettiva, mistica, per cui la nozione del bello s’annega in quella della perfezione o di Dio, — definizione fantastica e senza fondamento reale; l’altra invece semplicissima e chiarissima, ma affatto soggettiva, quella per cui la bellezza s’identifica con tutto ciò che piace. Da un lato la bellezza apparisce come qualche cosa di sublime, di soprannaturale, ma, nel medesimo tempo d’indefinito; dall’altro, apparisce come una specie di piacere disinteressato provato da noi. Infatti questo secondo concetto della bellezza è chiarissimo, ma, pur troppo, è molto inesatto, in quanto esagera nel senso opposto, implicando così la bellezza anche dei piaceri provenienti dai cibi, dalle bevande, dal vestire, dal tatto, ecc. È ben vero che seguendo l’estetica nelle fasi successive del suo svolgimento dobbiamo riconoscere che le dottrine metafisiche e idealiste vanno perdendo terreno a petto di quelle sperimentali e positive, sicchè vediamo degli estetici come Véron e Sully sforzarsi a escludere intieramente la nozione del bello. Ma gli estetici di codesta scuola sinora hanno pochi seguaci, e la gran maggioranza del pubblico, non esclusi i dotti e gli artisti, si attiene all’una o all’altra delle due definizioni classiche dell’arte, che le assegnano per fondamento la bellezza, considerata o come una entità mistica e metafisica, o come una forma speciale di piacere. Cerchiamo pertanto alla nostra volta d’esaminare questo famoso concetto della bellezza artistica. Soggettivamente, ciò che chiamiamo bellezza è senza dubbio tutto quello che ci fornisce un piacere particolare. Oggettivamente parlando, diamo il nome di bellezza a una certa perfezione; ma è chiaro che facciamo così perchè il contatto con questa perfezione ci procura un determinato piacere; talchè la definizione oggettiva si riduce a essere solo una nuova forma della definizione soggettiva. Realmente il concetto della bellezza risulta per noi dal godimento d’un piacere _sui generis_. Così essendo sarebbe naturale che l’estetica rinunciasse alla definizione dell’arte fondata sul bello, cioè sul piacere individuale, e si mettesse in cerca di una definizione più comprensiva, applicabile a tutte le produzioni artistiche, e tale da farci distinguere quanto appartiene o non appartiene al dominio dell’arte. Ma, come si sarà convinto il lettore dal nostro riassunto delle diverse dottrine estetiche, non incontrammo alcuna definizione di quella sorta. Tutti i tentativi fatti per definire il bello assoluto, o non definiscono nulla o definiscono solo alcuni caratteri di alcuni prodotti artistici, e non abbracciano tutto quello che tutti hanno sempre considerato come appartenente al dominio dell’arte. Non c’è una sola definizione veramente oggettiva della bellezza. Le definizioni esistenti, sia metafisiche sia sperimentali, riescono tutte in fondo a quell’unica definizione soggettiva, che pretende l’arte essere l’estrinsecazione della bellezza, e la bellezza essere ciò che piace senza eccitare il desiderio. Molti estetici intesero l’insufficienza e l’instabilità d’una definizione siffatta, e, per darle una base solida, studiarono le origini del piacere artistico. Così trasformarono la questione della bellezza in una questione di gusto. Ma in ultima analisi si scoperse che il gusto non è più facile a definirsi che la bellezza. Perchè non c’è, nè ci può essere alcuna spiegazione compiuta e seria del motivo per cui una cosa piace a uno e dispiace a un altro, e viceversa. Quindi l’estetica intiera, dalla sua fondazione sino ai nostri tempi, fallisce in quello che ci potevamo attendere da essa nella sua qualità di pretesa scienza; non avendoci saputo determinare nè le proprietà e le leggi dell’arte, nè il bello, nè l’essenza del gusto. Tutta codesta famosa scienza dell’estetica consiste, in fondo, a non riconoscere come artistiche se non certe opere, per l’unico motivo che ci piacciono, e poi ad architettare una teorica dell’arte adattabile per l’appunto a cotali opere. Si comincia dallo stabilire un canone artistico, secondo cui si designano come opere d’arte certe produzioni che hanno la fortuna di piacere a certe classi sociali, le opere di Fidia, di Raffaello, del Tiziano, di Bach, di Beethoven, d’Omero, di Sofocle, di Dante, di Shakespeare, di Goethe, ecc.; dopo ciò le leggi dell’estetica sono aggiustate in modo che abbraccino la totalità di quelle opere. Un estetico tedesco che io leggevo giorni sono, Folgeldt, discutendo i problemi dell’arte e della morale afferma di netto essere pura follia il voler cercare la morale nell’arte. E sapete su quale argomento, solo e soletto, fondi la sua dimostrazione? Dice che, se l’arte dovesse essere morale, non sarebbero opere d’arte nè il _Romeo e Giulietta_ di Shakespeare nè il _Wilhelm Meister_ di Goethe; ora quelle opere essendo con piena evidenza opere d’arte, crollerebbe tutta la dottrina della moralità nell’arte. Onde, il signor Folgeldt si mette in cerca di una definizione dell’arte che lasci passare quei due lavori; e si decide a proporre come fondamento dell’arte “il significato„. Orbene, è su questo modello che sono fabbricate tutte le estetiche. In luogo di cominciare da una definizione dell’arte vera e poi decidere che cosa appartenga o non appartenga all’arte, si gabellano a priori come opere d’arte un certo numero di lavori che per certe ragioni piacciono a una certa parte del pubblico; di poi s’inventa una definizione dell’arte che possa estendersi a tutti quei lavori. Per esempio l’estetico tedesco Muther nella sua _Storia dell’arte nel secolo XIX_ mentre si guarda bene dal disapprovare le tendenze dei preraffaellisti, dei decadenti, e dei simbolisti, s’adopera da senno ad allargare la sua definizione dell’arte in modo da potervi includere codeste nuove tendenze. Qualunque aberrazione nuova si faccia strada nell’arte, purchè sia stata accolta dalle classi più elevate della società, ecco s’inventa subito una teoria per spiegarla e sanzionarla, come se la storia non ci offrisse dei periodi, in cui certi gruppi sociali reputavano arte di buona lega un’arte falsa, contorta, priva di senso, che in seguito sprofondò nell’oblìo senza lasciare traccia di sè. Pertanto la teoria dell’arte fondata sulla bellezza, quale ce la presenta l’estetica, si riduce all’ammissione, tra le cose “buone„ di qualche cosa che ci sia piaciuto, o che ci piaccia ancora. Per definire una forma particolare dell’attività umana occorre comprenderne innanzi tutto il significato e il valore. E per giungere a que sta nozione fa d’uopo esaminar codesta attività, prima in sè stessa, poi ne’ suoi rapporti colle sue cause e co’ suoi effetti, e non solo rispetto al piacere personale che possiamo ricavarne. Se diciamo che l’unico fine di una certa forma della nostra attività è il nostro piacere, e la definiamo secondo il piacere che ci cagiona, la nostra definizione sarà certamente errata. Ma ciò è per l’appunto quanto accade nelle solite definizioni dell’arte. Nella questione del nutrimento a nessuno verrà in mente d’affermare che l’importanza d’alimento si misuri dalla somma di piacere che ne ricaviamo. Ciascuno ammette e comprende che sulla soddisfazione del palato non si può fondare una definizione del valore d’un dato alimento, e che perciò non abbiano il diritto d’argomentare che il pepe di Caienna, il cacio di Limbourg, l’alcool, ecc., a cui siamo avvezzi e che ci piacciono, formino il migliore degli alimenti. Ora nella questione dell’arte abbiamo un caso analogo. La bellezza, ossia quello che ci piace, non può in alcun modo servirci di fondamento a definir l’arte, nè la schiera degli oggetti che ci procurano piacere può esser considerata come il modello dell’arte. Cercare l’oggetto e il fine dell’arte nel godimento che se ne ricava, è imaginare, come sogliono i selvaggi, che l’oggetto e il fine dell’alimentazione stiano nel piacere che ne proviene. In entrambi i casi il piacere non è che un elemento accessorio. E come non si giunge a conoscere il vero fine dell’alimentazione, che è il mantenimento del corpo, se non si tralascia di cercarlo nel piacere di mangiare, così non si capisce il vero significato dell’arte se non si smette di riporre il fine dell’arte nella bellezza, cioè nel piacere. E a quel modo che il discutere intorno al perchè ad uno piacciano le frutta, e un altro preferisca la carne, non ci aiuta a scoprire quello che è utile ed essenziale nel nutrimento, così lo studiare le questioni del gusto in arte, non che aiutarci a intendere quella forma particolare dell’umana attività che chiamiamo arte, ce ne rende affatto impossibile l’intelligenza. Al quesito “che cosa è l’arte?„, abbiamo sciorinato molte risposte riportate da diverse opere d’estetica. E tutte, o pressochè tutte codeste risposte, mentre nel resto sono tra di loro agli antipodi, s’accordano nel proclamare che fine dell’arte è la bellezza, che la bellezza si riconosce dal piacere che essa procura, e che alla sua volta codesto piacere è importante, semplicemente perchè è un piacere. A questo modo queste svariate definizioni dell’arte non riescono vere definizioni, ma semplici conati per giustificare l’arte odierna. Per quanto la cosa possa parere strana, nonostante la farragine di libri scritti intorno all’arte, non s’è tentata ancora nessuna vera definizione dell’arte, per questo solo motivo: che si volle sempre fondare il concetto dell’arte su quello della bellezza. CAPITOLO IV. La funzione dell’arte. Che cos’è adunque l’arte, se eliminiamo il concetto della bellezza, fatto solo per ingarbugliare inutilmente il problema? Le sole definizioni dell’arte che attestino l’intenzione di lasciar da banda il concetto del bello, sono, le seguenti: 1.º secondo Schiller, Darwin, Spencer, l’arte è un’attività che si riscontra anche tra gli animali, e nasce dall’istinto sessuale e dall’istinto del giuoco; e Grant Allen aggiunge che siffatta attività s’accoppia a un gradevole eccitamento del sistema nervoso; 2.º secondo Véron, l’arte è la manifestazione esteriore di commovimenti interiori, ottenuta per mezzo di linee, di colori, di moti, di suoni, di parole; 3.º secondo Sully, l’arte è la produzione d’un oggetto durevole o d’un’azione passeggera tale da generare nel produttore un godimento attivo, e suscitare in un dato numero di spettatori o d’uditori un’impressione piacevole, esclusa ogni considerazione d’utilità pratica. Queste tre definizioni, pur essendo superiori di molto a quelle definizioni metafisiche le quali fondano l’arte sulla bellezza, restano a ogni modo inesatte. La prima è inesatta, perchè, invece di considerare unicamente l’attività artistica, che è sola in questione, non contempla che l’origine di codesta attività. Ed è inesatta del pari anche l’aggiunta proposta dal Grant Allen, attesochè l’eccitamento nervoso di cui parla può accompagnarsi, oltrechè coll’azione artistica, con molte altre forme dell’attività umana; e di qui è scaturito l’errore delle nuove teorie estetiche per le quali s’innalza alla dignità dell’arte la preparazione di belle vesti, di gradevoli profumi, e perfino di pietanze. La definizione del Véron che fa consistere l’arte nell’esprimere certe emozioni è inesatta, perchè si possono esprimere le proprie emozioni per mezzo di linee, di colori, di parole, di suoni, senza che cosiffatta espressione agisca sugli altri; nel qual caso non si può trattare d’espressione artistica. Da ultimo è inesatta anche la definizione del Sully, come quella che si può applicare tanto ai giuochi di prestigio e all’acrobatica, quanto all’arte; mentre d’altro lato s’incontrano dei prodotti appartenenti all’arte senza che procurino sensazioni gradevoli a chi li produce nè al suo pubblico; come sarebbero le scene dolorose o patetiche, in una poesia o in un dramma. La deficienza di tutte queste definizioni proviene dal fatto che tutte quante, come le definizioni metafisiche, si fondano soltanto sul piacere che l’arte può procurare, e non sulla funzione che può e deve esercitare nella vita dell’uomo e del genere umano. Per definire più correttamente l’arte fa d’uopo che si rinunzi a riconoscere in essa soltanto una sorgente di piacere, e la si consideri piuttosto come una delle condizioni essenziali della vita umana. Sotto quest’aspetto l’arte ci si presenterà immediatamente come un mezzo di comunicazione tra gli uomini. Ogni opera artistica ottiene l’effetto di porre chi ne prova il fascino in comunicazione con colui che ne è stato l’autore, e con tutti coloro che prima o poi ne furono o ne saranno partecipi. L’arte opera come la parola, che serve di legame tra gli uomini trasmettendo il pensiero, laddove per mezzo dell’arte si comunicano i sentimenti e le emozioni. E siffatta trasmissione avviene così. Ogni uomo è capace di provare tutti i sentimenti umani, mentre non ogni uomo sa esprimerli tutti quanti. Ma se uno per mezzo dell’udito o della vista percepisce i sentimenti d’un altro espressi a dovere, può provarli in sè stesso, anche trattandosi di sentimenti nuovi per lui. Per prendere l’esempio più semplice: se un uomo ride, chi lo sente ridere, diventerà più o meno allegro; se qualcuno piange, quelli che lo vedono piangere si rattristano. Un tale è eccitato, oppur esasperato; i presenti risentono il contagio di quelle disposizioni. Un altro esprime coi gesti o col tuono della voce il coraggio, la rassegnazione, la tristezza, e il suo sentimento si comunicherà a quelli che lo vedono o l’ascoltano. O esprime il suo dolore coi gemiti e coi sospiri; e il dolore passerà nell’anima di chi lo intende. E lo stesso si dica di mille altre emozioni. Ora, quella forma d’attività che si chiama arte, si fonda sopra codesta attitudine dell’uomo a provare i sentimenti che agitano gli altri. Se alcuno agisce sul sentimento altrui col suo aspetto o colle sue parole mentre egli stesso è in preda al sentimento che manifesta; se induce un altro a sbadigliare quando è costretto a sbadigliare egli stesso, a ridere o a piangere, quando prova egli il bisogno di ridere o di piangere; codesti effetti di contagio non sono ancora il risultato d’una creazione artistica. L’arte comincia quando l’uomo rievoca in sè, ed esprime con segni esteriori i sentimenti già provati altra volta col fine di farli provare altrui. Prendiamo anche questa volta un esempio elementare. Un ragazzo atterrito dall’incontro con un lupo, racconta l’avventura; e per destare negli uditori l’emozione provata da lui, descrive il suo stato d’allora, gli oggetti che lo circondavano, il suo perfetto abbandono, poi l’improvviso apparire del lupo, le sue mosse, la distanza a cui s’accostò, ecc. In codesto racconto avremo un fatto d’arte, se il ragazzo, narrando il suo caso, risuscita in sè i sentimenti già provati, e i suoi gesti, il tuono della sua voce, le sue imagini forzano gli uditori a provare essi stessi dei sentimenti analoghi. E quand’anche il ragazzo non avesse mai visto un lupo, ma si fosse solo spaventato all’idea di incontrarne uno, e volendo comunicare agli altri codesto suo spavento, inventasse un incontro con un lupo e lo raccontasse in modo da far rabbrividire i suoi uditori, anche in questo caso s’avrebbe un fatto d’arte. Così pure c’è arte, quando alcuno, avendo provato o in realtà o in imaginazione il timore di soffrire o il desiderio di godere, esprime sulla tela o nel marmo i proprii sentimenti in modo da comunicarli agli altri. C’è arte allorchè un uomo prova o s’imagina di provare sentimenti di gioia, di tristezza, di disperazione, di coraggio, di accasciamento, e le transizioni dall’uno all’altro di questi sentimenti, ed esprime tutto ciò con suoni che mettono gli altri in grado di riprovare le stesse commozioni. I sentimenti che l’artista comunica agli altri possono essere di varie sorta, forti o deboli, importanti o insignificanti, buoni o cattivi; possono essere sentimenti di patriottismo, di rassegnazione, di pietà, di voluttà; possono esser resi con un dramma, con un romanzo, con una pittura, con una marcia, con una danza, un paesaggio, una favola; qualunque opera che esprime, ciò soltanto, è opera d’arte. Allorchè gli spettatori o gli uditori provano i sentimenti espressi dall’autore, c’è opera d’arte. Risuscitare in sè stessi un sentimento già provato per trasfonderlo negli altri col soccorso di moti, di linee, di colori, di suoni, d’imagini orali: ecco il vero oggetto dell’arte. L’arte è una forma dell’attività umana che ci consente di suscitare negli altri coscientemente e volontariamente i nostri sentimenti per mezzo di certi segni esteriori. S’ingannano i metafisici che vedono nell’arte l’estrinsecazione d’un’idea misteriosa della bellezza o di Dio; nemmeno l’arte è, come vogliono gli estetici fisiologi, un giuoco in cui l’uomo spende il suo eccedente d’energia; non è la produzione d’oggetti piacevoli; sovrattutto non è un piacere: è un mezzo di riunire gli uomini raccogliendoli a unità di sentimenti, e perciò indispensabile alla vita dell’umanità, e al suo progresso nella via della felicità. In fatti a quel modo che in virtù della nostra facoltà di esprimere con parole i pensieri, ognuno di noi può conoscere quanto s’è fatto prima di noi nel dominio delle idee e prender parte all’attività mentale dei contemporanei, e trasmettere a questi e ai posteri i pensieri raccolti dagli altri e quelli aggiunti del proprio; così in virtù del nostro potere di trasfondere negli altri i nostri sentimenti per mezzo dell’arte, ci diventano accessibili tutti i sentimenti che s’agitano intorno a noi, come pure certi sentimenti provati mille anni prima di noi. Se non godessimo della facoltà di accogliere le idee concepite dai nostri predecessori, e di trasmettere altrui le nostre, saremmo animali selvatici, oppure come Gaspare Hauser, l’orfano di Norimberga, il quale, per essere stato allevato nella solitudine, a sedici anni aveva l’intelligenza d’un bambino. E se ci mancasse l’attitudine a ricevere la impressione dei sentimenti altrui resi dall’arte, saremmo quasi ancora più selvatici, più divisi gli uni dagli altri, più ostili a vicenda. Donde risulta che l’arte è cosa importantissima, non meno importante del linguaggio stesso. Siamo stati abituati a non comprendere nella denominazione d’arte se non quanto udiamo e vediamo nei teatri, nei concerti, nelle esposizioni, o quello che leggiamo nelle poesie e nei romanzi. Ora tutto ciò non è che l’infima parte dell’arte vera, colla quale palesiamo agli altri la nostra vita interiore, o intendiamo la loro. Tutta l’esistenza umana ribocca d’arte, dalle ninnananne, dalle danze, dalla mimica, dalle cantilene, agli uffizi religiosi e alle cerimonie pubbliche. Tutto ciò appartiene all’arte. Come la parola non opera su di noi solo per l’eloquenza e per i libri, ma pure nelle conversazioni famigliari, del pari l’arte, intesa nel sue più largo significato, invade tutta la nostra vita, e la cosidetta arte in senso stretto è ben lontana dal rappresentare l’insieme dell’arte vera. Ma per molti secoli il genere umano riconobbe solo una parte di codesta enorme e diversa attività artistica, quella cioè che si proponeva di perpetuare i sentimenti religiosi. A tutte le altre manifestazioni artistiche, cioè canzoni, danze, novelle di fate, ecc., gli uomini per un pezzo non diedero alcuna importanza, e solo occasionalmente i grandi educatori del genere umano si soffermarono a censurare certi prodotti di codesta arte profana, qualora li giudicassero opposti ai concetti religiosi del tempo. Così fu intesa l’arte dai savii antichi, da Socrate, da Platone, da Aristotele, dai profeti ebrei e dai primi cristiani; così la intendono oggi ancora i maomettani; e così l’intende il popolo nei nostri villaggi russi. Ci furono persino degli educatori di popoli come Platone, e delle nazioni intiere, come i maomettani o i buddisti, che negarono all’arte il diritto di esistere. Certo avevano torto quegli uomini e quelle nazioni di condannare l’arte in genere, cioè di voler sopprimere cosa che non si può sopprimere, uno dei mezzi più indispensabili di comunicazione tra gli uomini. Ma il loro errore era meno grande di quello che commettono ora gli Europei civili col favorire tutte le arti al solo patto che producano il bello, ovverosia che generino il piacere. Una volta si temeva che tra le varie opere d’arte ce ne fossero di quelle atte a guastar la gente, e si condannavano tutte per timore di queste ultime; oggigiorno invece la paura di privarci di qualche minimo piacere basta a farci accettare tutte le arti col rischio di ammetterne di molto pericolose. Errore questo assai più grossolano dell’altro, e tale da produrre conseguenze molto più disastrose! CAPITOLO V. L’arte vera. Ma come avvenne che l’arte non religiosa, un tempo appena tollerata, nella nostra età sia stata favorita a condizione che ci procurasse piacere? Ecco in breve come si può spiegare il fatto. La stima dell’arte, cioè di quanto valgono i sentimenti che essa propaga, dipende dal concetto che ci formiamo della vita e del suo significato, e di quello che in essa ci par buono o cattivo. E la scienza che distingue il buono dal cattivo porta il nome di religione. Il genere umano avanza nel progresso innalzandosi da un concetto inferiore, parziale e oscuro della vita, ad altri più elevati, più comprensivi, più chiari. In codesto movimento del progresso, come in tutti i movimenti, gli uomini sono guidati da certi loro capi, che intendono meglio degli altri il significato della vita; e tra codesti precursori ce n’è sempre qualcuno, che ha espresso il suo concetto personale più chiaramente, o più fortemente degli altri, tanto a parole quanto coll’esempio. La determinazione impressa al significato della vita da qualche uomo simile, accompagnata dalle tradizioni, dalle superstizioni, dalle cerimonie, che circondano sempre la figura dei grandi, è il costitutivo essenziale delle religioni. Esse rispecchiano il concetto che si formano della vita gli uomini migliori e più intelligenti d’una data età e d’una data società, il quale finisce per essere irresistibilmente adottato dalla società intiera. Perciò in tutti i tempi le religioni valsero a darci la misura dei sentimenti umani. Quelli, per cui l’uomo s’accosta all’ideale proposto dalla religione, e che armonizzano con esso, vengono ritenuti buoni, e cattivi quegli altri che allontanano l’uomo dall’ideale della sua religione. Laonde se, come presso gli antichi Ebrei, la religione fa consistere il fondo della vita nell’adorare un Dio solo e sottomettersi alla sua volontà, i sentimenti di obbedienza alla legge divina son riputati buoni, e danno luogo all’arte buona, rappresentata dalle profezie, dai salmi, dall’epopea della Genesi. E si considera come arte cattiva tutto ciò che si oppone a quell’ideale, come a dire l’espressione d’un culto verso divinità straniere, e gli altri sentimenti incompatibili colla legge di Dio. Invece nel caso dei Greci, quando la religione spiega il significato della vita riponendolo nella felicità terrena, nella forza e nella bellezza, si considera arte buona quella che esprime l’allegrezza e l’operosità della vita, e cattiva quella che ispira sentimenti di mollezza o d’avvilimento. Il significato della vita essendo riposto, come presso i Romani, nel collaborare alla grandezza della nazione, o, come presso i Cinesi, nel rendere onore ai maggiori, e perpetuare il loro genere di vita, si reputerà naturalmente arte buona quella che esprime la gioia del sacrifizio personale per il bene della nazione, oppure il rispetto verso gli antenati e il desiderio d’imitarli; e cattiva ogni arte che bandisca sentimenti opposti. Quando poi il significato della vita sta, come presso i buddisti, nel liberare l’uomo dal giogo dell’animalità, sarà buona l’arte che innalza l’anima deprimendo la carne, e cattiva quella che preconizza sentimenti atti a favorire le cupidigie materiali. In ogni età e in ogni società vige un senso religioso, comune a tutti, del buono e del cattivo, e serve di stregua a giudicar del valore dei sentimenti espressi dall’arte. Così avveniva presso gli Ebrei, i Greci, i Romani, i Cinesi, gli Egiziani, gl’Indiani; e così fu anche tra i primi cristiani. Il Cristianesimo dei primi secoli non riconosceva per arte buona che le leggende, le vite dei santi, i sermoni, le preghiere, gl’inni, tutto quello che esprimeva l’amore per Cristo, l’ammirazione per la sua vita, il desiderio d’imitarlo, la rinunzia ai piaceri del mondo, l’umiltà, la carità; e tutte le opere artistiche ispirate a sentimenti di godimento individuale erano ritenute cattive e perciò condannate; sovrattutto la plastica non era ammessa che col valore di simbolo, ed era condannata tutta l’arte pagana. Così facevano i primi cristiani, che concepivano la dottrina di Cristo, se non del tutto nel suo vero senso, almeno sotto una forma diversa da quella corrotta e paganizzata, che rivestì più tardi la medesima dottrina. Ma a lato di quel Cristianesimo a poco a poco se ne formò un altro, dipendente dalla Chiesa e più prossimo al paganesimo che non alla dottrina di Cristo. E codesto Cristianesimo di Chiesa conseguentemente alle sue dottrine cominciò a stimare ben altrimenti le opere d’arte. Poichè, ai principii essenziali dei vero cristianesimo, che sono lo stretto rapporto di tutti gli uomini con Dio, la perfetta uguaglianza e fraternità di tutti gli uomini, l’umiltà e l’amore in luogo della violenza, avendo sostituito una gerarchia celeste analoga alla mitologia pagana, avendo introdotto nella religione il culto di Cristo, della Vergine, degli Angeli, degli Apostoli, dei Santi, anzi anche delle loro imagini, diede vita a un’arte che esprimeva alla meglio questo nuovo ideale. Codesto Cristianesimo era di certo lontanissimo dalle dottrine di Cristo, e inferiore persino al concetto che avevano della vita certi Romani, quali furono gli Stoici, o l’imperatore Giuliano; ciò nondimeno fra i barbari che raccoglievano, rappresentava sempre alcunchè di superiore al loro antico culto di dei ed eroi nazionali, di spiriti buoni e cattivi. E l’arte rampollata da questa religione esprimeva l’amore per la Vergine, per Gesù, per i Santi e gli Angeli, la cieca obbedienza ai dogmi, la paura delle pene d’inferno, e la speranza dei gaudii celesti; e ogni arte in opposizione con quella era creduta cattiva. Quell’arte, sebbene fondata sopra un tralignamento del Cristianesimo, era arte vera, poichè corrispondeva al concetto religioso degli uomini tra i quali fioriva. Gli artisti del medio evo attingendo i loro sentimenti alla sorgente popolare, e rendendoli coll’architettura, colla pittura, colla musica, colla poesia o col dramma, erano veri artisti, e le loro opere, secondo l’ufficio delle opere d’arte, trasfondevano i loro sentimenti in tutta la comunità che li circondava. Così procedettero le cose, finchè le classi nobili, ricche e colte della società europea cominciarono a dubitare che non fosse vero il concetto della vita espresso nel Cristianesimo ufficiale. Allorchè dopo le crociate e il culmine della potenza dei Papi, quelle classi poterono attingere al senno degli autori classici, e riconobbero, da una parte il buon senso e la chiarezza degl’insegnamenti greci, dall’altra l’incompatibilità della dottrina ecclesiastica colle massime di Cristo, trovarono impossibile continuare a credere nella dottrina della Chiesa. Tuttavia rimasero in apparenza ligie alle forme ecclesiastiche, ma solo per inerzia o per conservare la loro influenza sul popolo, che nulla aveva perduto dell’antica fede e obbedienza. In realtà il Cristianesimo ecclesiastico aveva cessato d’essere la dottrina religiosa comune a tutti i cristiani. E le classi più colte si trovarono nella condizione dei Romani colti prima del Cristianesimo; non ammettevano più la religione delle turbe, senza essere in possesso di alcun’altra fede, che potesse sostituire per loro la dottrina della Chiesa, che avevano abbandonata. Il solo divario era che i Romani, perduta ogni fede nei loro imperatori divinizzati, non potevano rifarsi alle mitologie ingarbugliate che avevano preceduto la loro, e furono costretti a crearsi un concetto nuovo della vita, mentre gli uomini del Rinascimento, dubitando del Cristianesimo ecclesiastico, non avevano da cercar lontano per trovare una dottrina migliore. Bastava che sfrondassero dalla dottrina di Cristo le alterazioni che la Chiesa aveva prodotto in essa. E così per l’appunto fecero parecchi, non solo i riformatori, Wiclef, Huss, Lutero e Calvino, ma eziandio i seguaci del Cristianesimo non ufficiale, i Paoliniani, i Bogomili, i Valdesi e altri. Però codesto ritorno al Cristianesimo primitivo non avvenne che da parte di gente umile e priva d’ogni potere temporale. Ci furono sì dei ricchi che, come Francesco d’Assisi, ammisero la dottrina di Cristo nel suo pieno significato e con tutte le sue conseguenze, e le sacrificarono i loro privilegi sociali. Ma la maggior parte delle persone appartenenti alle classi più elevate, sebbene alienate alle dottrine della Chiesa, non vollero nè poterono seguire quell’esempio, perchè l’essenza del vero Cristianesimo consisteva nell’ammettere la fratellanza e quindi anche l’uguaglianza di tutti gli uomini, cosa che avrebbe distrutto i privilegi che erano avvezzi a godere. E questi membri delle classi superiori, papi, re, duchi, e tutti i grandi della terra, rimasero così senza vera religione, e si contentarono di conservare le forme esteriori d’una religione, le cui dottrine giustificavano i privilegi cari a loro. E furono precisamente costoro, che essendo dotati di potere e di ricchezza pagavano e dirigevano gli artisti. E tra costoro appunto, si noti bene, sorse un’arte novella, che si misurava non più secondo la sua capacità a esprimere i sentimenti religiosi del tempo, ma secondo la bellezza, cioè il piacere che poteva procurare. Codesti ricchi e potenti, essendo oramai nell’impossibilità di credere a una religione riconosciuta falsa, come pure di ammettere il vero Cristianesimo che condannava il loro modo di vivere, furono senza volerlo ricondotti al concetto pagano che riponeva nel piacere personale il significato della vita. Allora tra le classi più elevate sorse quello che è chiamato il Rinascimento delle lettere e delle arti. Infatti l’età del Rinascimento rappresenta un periodo di scetticismo completo nelle classi superiori. Privi com’erano di fede religiosa, e di ogni norma per distinguere l’arte buona dalla cattiva, gli uomini di quelle classi adottarono la stregua del piacere personale. E una volta ammesso che il piacere, in altri termini la bellezza, fosse il criterio, si trovarono contenti d’aggrapparsi al concetto artistico — in fondo grossolano — dei Greci antichi. La loro nuova teorica dell’arte defluì direttamente dal loro nuovo modo d’intendere la vita. CAPITOLO VI. L’arte falsa. Dacchè le classi più elevate della società europea ebbero smarrita ogni fede nel Cristianesimo papale, la bellezza, ovverosia il godimento artistico, diventò per essa il criterio dell’arte buona o cattiva. E, secondo tale nozione, nacque tra di loro una nuova dottrina estetica per giustificarla; quella cioè che assegna all’arte l’unico fine di produrre la bellezza. I seguaci di questa teoria per renderla più accettabile sostennero che non era già stata inventata da loro, ma che sgorgava senz’altro dalla natura delle cose, e che anzi l’avevano già formulata i Greci antichi. La quale affermazione è assolutamente arbitraria e inesatta; poichè, se i Greci in realtà non distinguevano nettamente il buono dal bello, ciò dipendeva dal loro concetto morale della vita. Non avevano alcuna idea chiara di quella somma perfezione morale distinta dalla bellezza artistica, spesso in opposizione con essa, che, già presentita da certi profeti ebrei, fu poi pienamente tratteggiata nella dottrina di Cristo. Essi imaginavano che il bello dovesse necessariamente anche essere il buono. Soltanto i loro più grandi pensatori, come Socrate, Platone, Aristotele, sentirono che la bontà non coincide sempre colla bellezza. Socrate subordinava di proposito la bellezza alla bontà; Platone, per unire i due concetti, discorreva d’una bellezza spirituale; Aristotele esigeva che l’arte esercitasse colla _catharsis_ (purificazione) un’influenza morale. Ma all’infuori di codesti savii, gli altri ammettevano la concordanza intiera del bello e del buono, e così si spiega che nella lingua dei Grecianti chi un composto, _kalokagathon_ (cioè _bello e buono_), abbia servito a designare quella concordanza. Ciò non era che il risultato d’una cultura incompiuta, la semplice confusione di due concetti ben distinti. Ora gli estetici del Rinascimento vollero elevare codesta confusione a dignità di legge. Pretesero dimostrare che il sovrapporsi della bellezza e della bontà dipende dalla natura delle cose ed è necessario, e che il senso della voce _kalokagathon_ (che, se valeva per i Greci, non poteva valere per i cristiani) rappresenta l’ideale più alto del genere umano. Tutta la nuova estetica s’aggira sopra questo equivoco; e la sua pretensione di rifarsi all’estetica dei Greci è tutt’altro che giustificata. “A guardar bene — dice il Bénard nel suo libro intorno all’estetica d’Aristotele — si trova che in Aristotele, come anche in Platone e ne’ suoi successori le dottrine del bello e dell’arte sono affatte disgiunte.„ I Greci come gli altri popoli, ritenevano buona l’arte quando era al servizio della bontà, vale a dire di ciò che credevano buono. Ma in loro il senso morale era così poco svolto, che bontà e bellezza pareva loro che coincidessero. Del resto non ebbero mai neppure l’ombra d’una dottrina estetica sul fare di quella che si attribuisce loro. L’estetica è un’invenzione dei tempi moderni, e non prese forma scientifica se non dal Baumgarten in poi, come appare dalla storia di codesta disciplina filosofica, che tralasciamo per amore di brevità. Da buon tedesco il Baumgarten, con una cura assai pedantesca della simmetria e dall’esattezza esteriore, e un disdegno assoluto d’ogni osservazione di fatto, fabbricò ed espose la sua teoria singolare. Ed essa, a dispetto della sua assurdità, si divulgò nella cerchia della gente colta, ed è ripetuta tuttora da dotti e ignoranti come se fosse un vero incrollabile e d’assoluta evidenza. _Habent sua fata libelli pro capite lectoris_; e ancor più giustamente si può dire che _habent sua fata_, le teorie, secondo il grado di errore in cui si trova immersa la società nella quale queste teorie sono inventate. Se qualche teoria serve a giustificare la falsa posizione in cui vive una classe della società, per quanto si mostri infondata e apertamente falsa, è accolta da quella tal classe della società come articolo di fede. Questa sorte ebbe, per esempio, la celebre e assurda dottrina del Malthus, colla quale si sosteneva che la popolazione della terra s’accresce in proporzione geometrica, e i mezzi di sussistenza crescono solo in proporzione aritmetica; quindi essere inevitabile un affollamento eccessivo della terra. Lo stesso è avvenuto della teoria (derivata dalla Malthusiana), che scorge il fondamento del progresso nella selezione e nella lotta per la vita; ed è ciò che succede ancora della dottrina del Marx che ci rappresenta come legge fatale e inevitabile la distruzione graduale della piccola industria privata per opera della grande industria capitalista. Queste dottrine possono ben mancare d’ogni fondamento, opporsi a tutte le certezze, a tutte le speranze del genere umano, essere scioccamente e bruttamente immorali; tuttavia s’accolgono senza sforzo, s’insegnano senza discussione, talvolta per parecchi secoli, finchè non siano scomparse le condizioni sociali che esse valevano in certo modo a giustificare. Del medesimo stampo è la singolare dottrina del Baumgarten che ravvisa nel buono, nel bello, nel vero tre manifestazioni d’un essere unico e perfetto. Invano si cercano degli argomenti per puntellare siffatta teoria. La bontà è realmente il concetto fondamentale su cui riposa la nostra coscienza nella sua essenza: è un concetto che la ragione non sa definire, che nulla può definire, ma che serve esso stesso a definire tutto il resto; è il fine supremo, eterno della nostra vita. La bontà è tutt’uno con quello che chiamiamo Dio. In questo ebbe ragione il Baumgarten. Ma la bellezza, se non vogliamo contentarci di parole, non è se non quello che ci fa piacere, e quindi il suo concetto non s’agguaglia con quello della bontà, anzi più presto vi si oppone, stantechè la bontà coincide spesso con una vittoria sulle passioni, mentre la bellezza è quasi radice di tutte le nostre passioni. So che si parla sempre d’una bellezza morale o spirituale, ma con questo giochetto di parole non si fa poi altro che designare la bontà stessa. Quanto a ciò che chiamiamo il vero, esso consiste semplicemente in questo che la definizione o spiegazione d’un oggetto s’accordi colla realtà, o con una nozione di quell’oggetto comune a tutte le menti; in conseguenza possiamo dire che la verità è uno dei mezzi per produrre la bontà, ma è ben lontana dal confondersi con essa. Per esempio, Socrate e il Pascal, e altri savii, pensavano che non s’accordasse colla bontà la conoscenza del vero intorno a soggetti inutili, e che ci fossero delle verità malefiche, cioè cattive. D’altra parte la verità non è in nessun rapporto colla bellezza, e spesso le si oppone, poichè la verità in generale ci disinganna distruggendo l’illusione, cioè una delle condizioni principali della bellezza. Non è egli un fatto stupefacente che l’accozzamento arbitrario di tre nozioni così estranee l’una all’altra abbia potuto offrire un appiglio ad una teoria, nel cui nome una delle più basse manifestazioni dell’arte fu battezzata per arte elevatissima, quella estrinsecazione d’arte che ha il piacere per unico oggetto, quella contro di cui tutti gli educatori del genere umano hanno sollevato obbiezioni? E nessuno protesta contro assurdità simili! I dotti scrivono delle opere voluminose e incomprensibili, nelle quali la bellezza è insediata come uno dei termini d’una trinità estetica. Queste parole, il Bello, il Vero, il Bene, colle iniziali maiuscole, sono ripetute dai filosofi e dagli artisti, dai poeti e dai critici che pronunziandole pensano tutti di dire alcunchè di concreto e di determinato, su cui possano riposare le loro opinioni! Ora la verità è questa, che non solo siffatte parole non hanno alcun senso determinato, ma c’impediscono pure di intendere un’arte qualunque in qualche senso plausibile, come quelle che furono foggiate solo per giustificare la falsa importanza attribuita alla forma più bassa dell’arte; a quella che non ha altro fine che di procurarci un godimento. CAPITOLO VII. L’arte degli eletti. Ma, se l’arte è un’attività intesa a propagare tra gli uomini i sentimenti migliori e più elevati della nostra anima, come si spiega che il genere umano durante tutto il periodo moderno abbia rinunziato a codesta attività, sostituendovi una funzione artistica inferiore, indirizzata unicamente al piacere? Per rispondere a tale quesito, occorre prima sfatare l’errore solito per cui all’arte nostra si attribuisce il valore d’arte universale. Siamo tanto avvezzi a considerare ingenuamente la nostra razza come la migliore di tutte, che, parlando dell’arte nostra, siamo perfettamente convinti che sia l’arte vera, cioè la più vera e la migliore di tutte. Invece la realtà c’insegna che la nostra arte, nonchè essere la sola, non è accessibile che a una minima parte delle nostre razze civili. S’ha il diritto di parlare d’un’arte nazionale ebrea, greca, egiziana, e, se si vuole, anche cinese e indiana. Un’arte di questo genere, comune a tutto un popolo, esistette anche in Russia sino a Pietro il Grande, e nel resto d’Europa sino al secolo XIII o XIV. Ma dacchè le classi più elevate della società perdettero ogni fede nella Chiesa, e restarono prive di credenze religiose, non c’è più nulla che meriti il nome d’arte europea o nazionale. A partire da quello scetticismo religioso l’arte delle classi colte si separò da quella del resto del popolo; e si ebbero due arti; una per il popolo, e l’altra per i raffinati. Perciò a chi chieda come il genere umano abbia, nei tempi moderni, potuto far a meno dell’arte vera, si risponde che quella privazione non fu nè di tutto il genere umano nè d’una parte considerevole di esso, ma solo delle classi più elevate della nostra società europea e cristiana. E gli effetti di questa mancanza d’arte si sono palesati a sufficienza nella corruzione delle classi che ne furono sprovviste. Tutte le teorie nebulose e incomprensibili intorno all’arte, tutti i giudizi falsi e contradditorii intorno ai suoi prodotti, e in particolare la persistenza della nostra arte a impantanarsi nella sua cattiva strada, tutto ciò derivò da quest’affermazione generalmente ammessa, nonostante la sua assurdità, che l’arte delle nostre classi elevate è tutta l’arte, l’arte vera, la sola arte, l’arte universale. Mentre noi sosteniamo che ha solamente valore l’arte che ci appartiene, i due terzi del genere umano vivono e muoiono senza sospettare nulla di quest’arte unica e suprema. E anche in questa nostra società cristiana ne godrà forse un uomo su cento; gli altri novantanove vivono e muoiono di generazione in generazione, oppressi dal lavoro, senza fruire mai della nostra arte; essa del resto è tale, che, quand’anche potessero accedervi, non la intenderebbero. Si potrà rispondere che se al presente non fruiscono tutti dell’arte esistente, ciò non dipende da questa, ma dal cattivo organismo della nostra società, e che il futuro ci permette di sperare uno stato di cose, in cui il lavoro materiale sia in parte compiuto dalle macchine, in parte alleggerito da una distribuzione più equa. Allora nessuno sarà più costretto a rimaner tutta la vita dietro le quinte per muovere i scenari, o a sonare il corno nell’orchestra, o a stampare dei libri; le persone addette a tali servizi non ci lavoreranno che poche ore al giorno, e durante i riposi si potranno godere le benedizioni dell’arte. Così parlano i difensori dell’arte presente. Ma io sono convinto che non credono neppure essi a quello che dicono. Non possono ignorare che l’arte, quale è intesa da loro, richiede per condizione necessaria l’oppressione delle moltitudini, e senza tale oppressione non si reggerebbe. È indispensabile che una folla d’operai si fiacchi al lavoro, perchè i nostri artisti, scrittori, musicisti, ballerini e pittori tocchino quel grado di perfezione che li rende atti a farci godere. Liberate gli schiavi del capitale, e diventerà tanto impossibile produrre un’arte simile, quanto è ora impossibile ammettere questi schiavi a goderne. Ma supponendo pure possibile ciò che è impossibile, cioè che si trovi un mezzo di rendere l’arte attuale accessibile al popolo, sorge un’altra considerazione a dimostrarci che un’arte siffatta non può essere universale; ed è questa: che essa è del tutto inintelligibile per il popolo. Nei tempi andati certi poeti scrivevano in latino; ora i prodotti artistici dei nostri poeti sono impenetrabili alla comune degli uomini, come se fossero scritti in sanscrito. Si vorrà dire che il fatto sia imputabile alla mancanza di cultura nel popolo, e che quando tutti saranno istruiti a sufficienza, tutti potranno capire la nostra arte? Sarebbe un’altra risposta insulsa; poichè sappiamo che sempre l’arte delle classi più elevate fu un mero passatempo per queste senza che il resto della gente ci capisse nulla. Le classi inferiori poterono dirozzarsi a loro talento; l’arte in origine non fatta per loro è sempre rimasta loro inaccessibile. Ed è e rimarrà sempre estranea ad esse per natura, in quanto esprime e propaga dei sentimenti proprii a una certa classe ed estranei al restante degli uomini. Così, per esempio, quei sentimenti che formano l’argomento capitale dell’arte contemporanea, come a dire il punto d’onore, il patriottismo, la galanteria e la sensualità, non possono suscitare nei popolani che stupore, oppur disprezzo e indegnazione. Se anche alle classi operaie è concessa la possibilità di vedere, di leggere, di udire, nelle ore di libertà, ciò che forma il fiore dell’arte contemporanea (e sino a un certo grado ciò torna loro possibile nelle città, a cagione dei musei, dei concerti popolari, delle biblioteche), l’uomo di queste classi, se non è pervertito, e conserva il sentire proprio del suo stato, non potrà ricavare alcun profitto dalla nostra arte, e non l’intenderà punto; e ciò che gli riuscirà intelligibile non sarà tale da innalzare il suo animo, ma sì da guastarlo. Per uno che pensi, e voglia essere sincero, non v’ha dubbio che l’arte delle classi più elevate non può diventar quella di tutta la nazione. Ora se l’arte ha l’importanza che le si attribuisce, se come si compiacciono di dire i suoi divoti, uguaglia in importanza la religione, dovrebbe essere accessibile a tutti. E poichè oggi non è tale, è forza dire che o l’arte non ha l’importanza che si pretende, o che la nostra così detta arte non è l’arte vera. Codesto dilemma è inevitabile, epperò taluni, scaltri e immorali a un tempo, cercano di eluderlo negando formalmente che il volgo abbia diritto a fruire dell’arte. Costoro con perfetta impudenza proclamano, che ad assaporare le gioie dell’arte sono ammessi solo i _begl’ingegni_, gli _eletti_, anzi i _superuomini_, per dirla col Nietzsche; e tutti gli altri uomini, gregge abbietto e incapace di gustare quelle gioie, devono contentarsi di prepararle per quegli esseri supremi. Questa affermazione offre, se non altro, il vantaggio di non voler conciliare l’inconciliabile, e di ammettere apertamente che la nostra arte è fatta solo per una classe di privilegiati. Ed è tale per l’appunto; nè lo ignorano in fondo tutti coloro che vi si accostano, dichiarando pur sempre con insistenza che codesta arte delle classi elevate è l’arte vera, la sola che il genere umano debba riconoscere per tale. CAPITOLO VIII. Gli effetti dell’arte pervertita; l’impoverimento della materia artistica. Lo scetticismo delle classi superiori ebbe questo effetto: che invece d’un’arte rivolta a propagare i sentimenti più elevati, quelli che sgorgano da un concetto religioso della vita, se n’ebbe un’arte col solo intento di procurare a una certa classe della società la massima somma di piacere. E dell’immenso dominio dell’arte non si coltivò se non quella parte che meglio rispondesse a quest’ultimo uffizio. Per tacere degli effetti morali derivati alla società europea da un cotale pervertimento nel concetto dell’arte, diremo solo che questo pervertimento ha indebolito l’arte stessa, e in certo modo, l’ha uccisa. In primo luogo fece sì che l’arte, proponendosi il piacere come suo unico oggetto, si privasse di quella sorgente d’argomenti così varia e profonda, che avrebbero potuto essere per lei i concetti religiosi della vita. In secondo luogo per esso avvenne, che l’arte, rivolgendosi a una cerchia ristretta di persone, perdesse la sua bellezza formale, e diventasse oscura e affettata. In terzo luogo l’arte cessò d’essere spontanea e sincera, e divenne artifiziata e ricercata. Il primo di codesti tre effetti, cioè l’impoverimento delle sorgenti d’ispirazione, si sentì fatalmente, non appena l’arte si fu staccata dalle nozioni religiose. Il merito degli argomenti nelle opere artistiche dipende dal nuovo; e i prodotti dell’arte valgono essenzialmente in quanto diffondono sentimenti nuovi. Come nell’ordine dell’intelletto un’idea non vale, quando non sia nuova e si limiti a ripetere ciò che già sappiamo, così non vale un’opera d’arte se non quando infonde nella corrente della vita umana un sentimento nuovo, grande o piccolo. Ora l’arte s’è privata della fonte da cui potevano scaturire nuovi sentimenti, quando cominciò a fare stima dei sentimenti non più secondo il concetto religioso che esprimono, ma secondo il grado di piacere che procurano. Invero non c’è cosa meno variabile e più costante del piacere, e nulla di più vario che i sentimenti germogliati dalla coscienza religiosa delle varie età. Nè potrebbe essere diversamente: il piacere ha dei limiti segnati dalla natura; invece il progresso del genere umano non ha limiti. Ad ogni passo che fa nel progresso il genere umano, vogliam dire nel vero progresso, derivante da un nuovo sviluppo della coscienza religiosa, gli uomini provano dei nuovi sentimenti. Solo dalla coscienza religiosa possono scaturire nuove emozioni, non ancora mai provate. Dalla coscienza religiosa dei greci defluirono i sentimenti così nuovi, importanti e vari, che troviamo espressi in Omero e nei grandi tragici. Analogo è il caso degli Ebrei giunti al concetto d’un Dio unico; dal qual concetto scaturiscono gli affetti così freschi e gagliardi che furono resi dai profeti. La stessa cosa si può ripetere per i poeti del medio evo, e sarebbe lo stesso anche oggi per chi si rifacesse al concetto religioso del vero Cristianesimo. La varietà dei sentimenti generati dalle concezioni religiose è grandissima; e codesti sentimenti riescono sempre nuovi, perchè i concetti religiosi sono sempre l’indice del futuro, cioè di nuovi rapporti dell’uomo col mondo esterno. Per contro, quelli dovuti alla caccia del piacere sono ristretti, e, inoltre, provati e arciprovati da un pezzo. Perciò lo scetticismo delle classi superiori condannò l’arte a nutrirsi dell’alimento più magro e più povero di tutti. Codesto impoverimento delle sorgenti dell’ispirazione s’accrebbe anche per questo: che codesta arte, cessando d’essere religiosa, cessò pure d’essere popolare, e restrinse la gamma dei sentimenti che poteva trasfondere. Infatti il numero dei sentimenti che provano i ricchi e i potenti, ignari dell’importanza del lavoro, è molto più ristretto e insignificante che non sia quello dei sentimenti naturali dei lavoratori. So che nelle riunioni dei nostri raffinati si sostiene precisamente il contrario. Mi ricordo che il romanziere Gontciarof, uomo istruito e intelligentissimo ma dato alla vita di città, un giorno mi disse che dopo il Turghenief non restava più nulla a scrivere intorno alla vita delle classi inferiori, come se quell’argomento fosse esaurito. La vita dei contadini gli sembrava così miserabile, che i racconti villerecci del Turghenief l’avevano sviscerata per intiero; all’incontro la vita dei ricchi, colla loro galanteria e il loro malcontento di tutto, gli pareva un soggetto inesauribile. Un gentiluomo, poniamo, dava un bacio alla sua dama sulla mano, un altro sulla spalla, un terzo sulla nuca. Uno era annoiato per il non far nulla, un altro perchè sentiva di non esser amato. E Gontciarof era convinto che quella sfera offriva all’artista un’infinita varietà di soggetti. Quanti non la pensano come lui! Quanti credono, come lui, che la vita dei lavoratori sia povera di soggetti artistici, e quella di noi oziosi ne sia riboccante! La vita del lavoratore coll’infinita varietà delle forme di lavoro e del pericolo che le accompagna, le migrazioni dell’operaio stesso, i suoi rapporti verso i padroni, i sorveglianti, i compagni, verso uomini d’altre religioni e d’altre nazioni, le sue lotte contro la natura e gli animali, le sue occupazioni nella selva, nella steppa, nei campi, nei giardini, i suoi rapporti colla moglie e coi figli, i suoi piaceri e i suoi dolori, tutto questo ci sembra monotono a petto delle piccole gioie e delle cure meschine della nostra vita, che non è vita di lavoro e di produzione, ma di consumo e di distruzione di quanto altri ha prodotto per noi. Noi c’imaginiamo che i sentimenti provati dalle persone della nostra classe e del nostro tempo siano molto importanti e svariati; ma in realtà è vero l’opposto, e si può ben dire che tutti i sentimenti della nostra classe si riducono a tre categorie semplici e mediocri: 1.º il sentimento della vanità, al quale si rannodano l’ambizione e il dispregio per gli altri; 2.º il sentimento del desiderio sessuale, rivelantesi in forme diverse, partendo dalla galanteria divinizzata dai poeti per giungere alla sensualità più grossolana e più ignobile; 3.º il sentimento di tedio per la vita. Questi tre sentimenti, e i loro derivati, formano all’incirca l’unica materia dell’arte per le classi agiate. Subito al primo separarsi di quest’arte nuova dedicata al piacere dall’arte del popolo, vediamo predominare nel nuovo genere il sentimento della vanità, dell’ambizione e del disprezzo per gli altri. Nel Rinascimento, e per molto tempo appresso, soggetto principale delle opere d’arte è l’elogio dei potenti, papi, re e duchi; si scrivono odi e madrigali in loro onore, essi vengono celebrati nei cori e negl’inni, sono riprodotti sulle tele e nei marmi. In seguito cominciò a penetrare sempre più nell’arte l’elemento del desiderio sessuale; ed esso oramai, salvo rare eccezioni, costituisce il nocciolo dei prodotti d’arte destinati alle classi ricche, particolarmente dei romanzi. Dal Boccaccio a Marcello Prévost, i romanzi, i racconti, le poesie esprimono il sentimento dell’amore sessuale nelle varie sue forme. L’adulterio è il tema favorito, per non dire l’unico, di tutti i romanzi. Ogni spettacolo di teatro soggiace alla condizione indispensabile che, con un pretesto qualunque, compaiano sulla scena delle donne col petto e le gambe denudate. Le opere e le canzonette sono consacrate a idealizzare la lussuria. La maggior parte dei quadri francesi rappresenta il nudo femminile. Nella recente letteratura francese è molto se s’incontra una pagina, in cui non ricorra l’aggettivo “nudo„. Un certo Rémy de Gourmont trova chi lo stampa, e passa per autore d’ingegno; per formarmi un concetto di questi recentissimi scrittori, lessi il suo romanzo _les chevaux de Diomède_. È un rendiconto particolareggiato delle relazioni sessuali di alcuni signori con alcune signore. Lo stesso si dica dell’_Aphrodite_ di Pierre Louys, che ha avuto un successo enorme. Evidentemente questi autori sono persuasi che, come essi passano la vita a imaginare diverse abbominazioni sessuali, così il mondo intiero non debba far altro che imaginarne esso pure. E costoro trovano infiniti imitatori tra tutti gli artisti d’Europa e d’America. Il terzo dei grandi sentimenti espressi dall’arte dei ricchi, quello del malcontento universale, manifestatosi più tardi che non gli altri due, non assunse tutta la sua importanza che nel nostro secolo, e trovò i suoi rappresentanti più efficaci nel Byron e nel Leopardi, e dipoi nell’Heine. Oggi s’è fatto generale, e lo si ravvisa ripetuto nelle varie opere d’arte, ma sovrattutto nelle poesie. Gli uomini vivono di una vita sciocca e cattiva, e ne danno la colpa all’ordine dell’universo. Ecco del resto con quanta verità il critico francese Doumic tratteggia il carattere delle opere della nuova scuola: “È la stanchezza della vita, il disprezzo dell’età presente, il rimpianto di altri tempi, intravisti attraverso il prisma dell’arte, l’amore del paradossale, il bisogno di mostrarsi originali, uno spasimare di raffinati verso il semplice, l’adorazione puerile del maraviglioso, la seduzione morbosa del fantasticare, l’alterazione dei nervi, — sovrattutto lo stimolo furibondo della sensualità.„ A questo modo la miscredenza delle classi ricche e la loro vita eccezionale produssero il primo effetto d’immiserire la materia dell’arte loro propria, che s’è abbassata a non esprimere più altro se non i tre sentimenti della vanità, dello stimolo sessuale, e del tedio per la vita. CAPITOLO IX. Gli effetti dell’arte pervertita; la ricerca dell’oscurità. Il primo effetto della mancanza di fede nelle classi più elevate fu per l’arte loro l’impoverimento della materia. Un secondo malanno fu questo, che codesta arte, facendosi sempre più esclusiva, veniva diventando di pari passo più artificiosa, più inceppata e più oscura. Nelle età di arte universale un artista, per esempio uno scultore greco o un profeta ebreo, nelle sue creazioni si sforzava naturalmente di dire ciò che voleva in modo tale che tutti potessero capire l’opera sua. Allorchè invece gli artisti non lavorarono più che per un numero ristretto di persone favorite da condizioni eccezionali, vale a dire per papi, cardinali, re, duchi, o, non foss’altro, per le ganze dei principi, naturalmente s’ingegnavano solo di far colpo su quelle persone delle quali conoscevano bene i costumi e il gusto. E quel genere di lavoro essendo più facile, l’artista si trovava adescato senza saperlo a esprimersi con allusioni, chiare per gl’iniziati, ma oscure per tutti gli altri. A quel modo era facile amplificare; e poi anche agl’iniziati il vago e l’indefinito presentava una cotale attrattiva. Siffatta tendenza, che si rivelava nelle allusioni mitologiche e storiche e negli eufemismi, proseguì ad accentuarsi fino all’età presente, nella quale pare abbia toccato il suo limite estremo coll’arte dei moderni decadenti. In ultima analisi essa è giunta a segno, che nelle opere artistiche non solo furono elevate a pregi, — anzi a condizioni di poesia, — l’affettazione, la confusione, l’oscurità, il sottrarsi all’intelligenza della moltitudine, ma sono avviate a diventare meriti artistici anche le scorrezioni, le incertezze, le mende tecniche d’ogni guisa. Teofilo Gautier, nella sua prefazione al celebre libro del Baudelaire _Fleurs du mal_, dice che il Baudelaire sbandiva più che potesse dalla poesia “l’eleganza, la passione, e la verità riprodotta con troppa esattezza„. Il poeta Verlaine venuto dopo il Baudelaire, e riputato anch’esso uno dei grandi, lasciò un’_Arte poetica_ in cui raccomanda di scrivere così: De la musique avant toute chose, Et, pour cela, préfère l’Impair, Plus vague et plus soluble dans l’air, Sans rien en lui qui pèse ou qui pose. Il faut aussi que tu n’ailles point Choisir tes mots sans quelque méprise, Rien de plus cher que la chanson grise; Où l’Indécis au Précis se joint. . . . . . . . . . . . . . . . . . . E più sotto: De la musique encor et toujours! Que ton vers soit la chose envolée Qu’on sent qui fuit d’une âme en allée Vers d’autres cieux à d’autres amours! Que ton vers soit la bonne aventure Éparse au vent crispé du matin, Qui va fleurant la menthe et le thym.... Et tout le reste est littérature. Il poeta Mallarmé che, dopo i due predetti, è ritenuto dai giovani come il più ragguardevole, dichiara apertamente che l’attrattiva della poesia sta nel doverne indovinare il significato, e che ogni composizione poetica deve sempre contenere un enigma: “Io penso che occorre non ci sia altro che allusione. La contemplazione degli oggetti, l’imagine liberantesi dalle fantasticherie suscitate per essi, sono il canto. I Parnassiani, loro, prendono la cosa intieramente, e la mostrano; con ciò, essi mancano di mistero; tolgono alle menti quella gioia deliziosa che proviene dal credere di creare. Nominare un oggetto è sopprimere i tre quarti del godimento della poesia, che è fatta della felicità d’indovinare a poco a poco; suggerirlo, ecco l’ideale. È il perfetto uso di questo mistero che costituisce il simbolo; evocare a poco a poco un oggetto per palesare uno stato d’anima, o, a rovescio, scegliere un oggetto e svilupparne uno stato d’anima con una serie d’interpretazioni.... Se un essere d’intelligenza media e d’una preparazione letteraria insufficiente apre a caso un libro così fatto, e pretende di poterne godere, c’è malinteso, bisogna dissiparlo. Nella poesia ci deve sempre essere dell’enigma; ed il fine della letteratura, l’unico, è quello di evocare gli oggetti.„ (Risposta di MALLARMÉ a J. HURET nell’_Enquête sur l’évolution littéraire_). Come vede ognuno, si tratta dell’oscurità eretta a dogma artistico. E il critico francese Doumic, al quale codesto dogma non va ancora a sangue, dice con ragione: “Sarebbe ora di farla finita con questa famosa dottrina dell’oscurità, che la nuova scuola ha realmente elevata all’altezza d’un dogma„. A pensare così non sono soltanto i giovani artisti francesi. Dappertutto i poeti pensano e fanno il medesimo, in Germania, nella Scandinavia, in Italia, in Russia, in Inghilterra. Gli stessi principii ritornano pure fra i cultori di altre ramificazioni dell’arte, fra i pittori, gli scultori, i musicisti. Appoggiandosi alle dottrine del Nietzsche e all’esempio del Wagner gli artisti delle nuove generazioni credono inutile per loro di farsi intendere dalla moltitudine; si contentano di evocare il sentimento poetico in una schiera eletta di raffinati. Affinchè non si creda che le mie affermazioni sieno esagerate, citerò alcuni passi dei poeti francesi che si posero alla testa del movimento decadente. Questi poeti si chiamano legione. Se poi cito soltanto dei Francesi, egli è perchè ora sono essi i corifei del nuovo movimento artistico, mentre il resto d’Europa si contenta d’imitarli. Oltre a quelli già ritenuti celebri, come il Baudelaire e il Verlaine, eccovi i nomi di alcuni altri: Jean Moréas, Charles Morice, Henri de Régnier, Charles Vignier, Adrien Remacle, René Ghil, Maurice Maeterlinck, Rémy de Goumont, Saint-Pol-Roux-le-Magnifique, Georges Rodenbach, il conte Robert de Montesquiou-Fezenzac. Questi sono i _simbolisti_ e i _decadenti_; ma ci sono altresì i _magi_: il Sâr Peladan, Paul Adam, Jules Bois, Papus, e altri. E potreste leggere altri cento quarantun nomi, mentovati dal Doumic nel suo libro _Les jeunes_. Ecco pertanto alcuni saggi di coloro che sono ritenuti fra i migliori, cominciando da quel celebre Baudelaire, che fu giudicato degno dell’onore d’una statua. Udite questa poesia appartenente ai suoi _Fleurs du mal_: Je t’adore à l’egal de la voûte nocturne, O vase de tristesse, ô grande taciturne, Et t’aime d’autant plus, belle, que tu me fuis, Et que tu me parais, ornement de mes nuits, Plus ironiquement accumuler les lieues Qui séparent mes bras des immensités bleues. Je m’avance à l’attaque, et je grimpe aux assauts, Comme après un cadavre un chœur de vermisseaux, Et je chéris, ô bête implacable et cruelle, Jusqu’à cette froideur par où tu m’es plus belle! Trascriviamo un sonetto dello stesso autore: DUELLUM. Deux guerriers ont couru l’un sur l’autre; leurs armes Ont éclaboussé l’air de lueurs et de sang. Ces jeux, ces cliquetis du fer, sont les vacarmes D’une jeunesse en proie à l’amour vagissant. Les glaives sont brisés! comme notre jeunesse, Ma chère! Mais les dents, les ongles acérés Vengent bientôt l’épée et la dague traîtresse; O fureur des cœurs mûrs par l’amours ulcérés! Dans le ravin hanté des chats-pards et des onces Nos héros, s’étreignant méchamment, ont roulé, Et leur peau fleurira l’aridité des ronces. Ce gouffre, c’est l’enfer, de nos amis peuplé! Roulons-y sans remords, amazone inhumaine, Afin d’éterniser l’ardeur de notre haine! Per la sincerità debbo aggiungere che nella raccolta citata (_Fleurs du mal_) ci sono altresì delle poesie meno difficili a capirsi, ma nessuna è così semplice che si possa intendere senza sforzo; e di solito lo sforzo non è compensato, poichè i sentimenti espressi dal poeta non sono belli, e in genere appartengono a un ordine assai basso. Inoltre sono esposti a bello studio con eccentricità, e senza alcun riguardo per il buon senso. La ricerca dell’oscurità riesce ancora più evidente nella sua prosa, in cui, se volesse, gli sarebbe più facile parlar chiaramente. Eccovi, tradotto letteralmente, il primo numero dei suoi _Petits poèmes en prose_: LO STRANIERO. Chi ami di più, uomo enigmatico, dimmi, tuo padre, tua madre, tua sorella, o tuo fratello? Non ho nè padre, nè madre, nè sorella, nè fratello. I tuoi amici? Voi vi servite d’una parola il senso della quale m’è rimasto ignoto sino a oggi. La tua patria? Ignoro sotto che latitudine si trovi. La bellezza? L’amerei volontieri, dea e immortale. L’oro? Lo detesto, come voi detestate Dio. Che cos’ami allora, singolarissimo straniero? Amo le nubi.... le nubi che passano.... laggiù.... le nubi meravigliose! La composizione intitolata _La Soupe et les Nuages_, secondo ogni apparenza fu fatta per dimostrare che il poeta sa restare incomprensibile persino alla donna amata. Eccola: La mia cara pazzerella mi dava da desinare, e, attraverso la finestra spalancata della sala da pranzo, io contemplavo le mobili architetture che Dio fabbrica coi vapori, le costruzioni meravigliose dell’impalpabile. E dicevo a me stesso durante la mia contemplazione: “Tutte queste fantasmagorie sono belle quasi come gli occhi della mia bella dama, la pazzerella mostruosa dagli occhi verdi.„ A un tratto ricevetti un forte pugno nella schiena e udii una voce roca e graziosa, una voce isterica e come velata per l’acquavite, la voce della mia cara piccola adorata, che mi diceva: “Volete o non volete mangiare la minestra, sudic.... d’un mercante di nuvoli?„ Per quanto sia ricercato lo stile di questo frammento con un po’ di buona volontà si può ancora indovinare ciò che volle esprimere l’autore; ma ve n’ha di quelli che sono assolutamente incomprensibili, almeno per me. Adduco per esempio il _Galant tireur_, del quale mi sfugge affatto il senso: Mentre la carrozza traversava il bosco, egli la fece fermare presso a un tiro a segno, dicendo che aveva gusto di tirare qualche palla per ammazzare il tempo. Ammazzare quel mostro, non è forse l’occupazione più comune e più legittima di ciascuno? E da buon cavaliere offerse la mano alla sua cara, deliziosa, esecrabile moglie, alla quale è debitore di tanti piaceri, di tanti dolori e fors’anco d’una gran parte del suo talento. Parecchie palle fallirono il segno; anzi una andò a ficcarsi nel soffitto; e poichè quella graziosa creatura rideva pazzamente dell’incapacità di suo marito, questi si voltò bruscamente verso di lei, e le disse: “Guardate laggiù a destra quella bambola che ha il naso per aria, e una cera così orgogliosa. Ebbene, angelo caro, mi figuro che siate voi„. E chiuse gli occhi, e fece scattare il grilletto. La bambola fu decapitata di netto. Allora egli facendo un inchino alla sua cara, deliziosa, esecrabile moglie, alla sua Musa inevitabile e inesorabile, e baciandole rispettosamente la mano, soggiunse: “Angelo caro, quanto vi ringrazio della mia abilità!„ I parti poetici dell’altro (grande poeta), il Verlaine, non sono meno affettati e incomprensibili. Udite la prima poesia della raccolta intitolata _Ariettes oubliées_: C’est l’extase langoureuse, C’est la fatigue amoureuse, C’est tous les frissons des bois Parmi l’étreinte des brises, C’est, vers les ramures grises, Le chœur des petites voix. O le frêle ot frais murmure! Cela gazouille et susurre, Cela ressemble au cri doux Que l’herbe agitée expire.... Tu dirais, sous l’eau qui vire, Le roulis sourd des cailloux. Cette âme qui se lamente En cette plainte dormante C’est la nôtre, n’est-ce pas? La mienne, dis, et la tienne, Dont s’exhale l’humble antienne Par ce tiède soir, tout bas? Che cosa sia codesto _chœur des petites voix, e quel cri doux que l’herbe agitée expire_, e che voglia dire tutta la poesia, confesso che non sono riuscito a capirlo. Eccovi un’altra ariette: Dans l’interminable Ennui de la plaine, La neige incertaine Luit comme du sable. Le ciel est de cuivre, Sans lueur aucune On croirait voir vivre Et mourir la lune. Comme des nuées, Flottent gris les chênes Des forêts prochaines Parmi les buées. Le ciel est de cuivre, Sans lueur aucune. On croirait voir vivre Et mourir la lune. Corneille poussive, Et vous, les loups maigres, Par ces bises aigres Quoi donc vous arrive? Dans l’interminable Ennui de la plaine, La neige incertaine Luit comme du sable. Come mai può sembrare che la luna viva e muoia in un _ciel de cuivre, sans lueur aucune_? E come mai la neve può _luire comme du sable_? Tutto ciò non è soltanto incomprensibile, ma colla scusa della suggestione d’impressioni, è un tessuto di metafore scorrette e di parole senza senso. Del resto nel Verlaine come nel Baudelaire insieme a codeste poesie ricercate e incomprensibili, ce ne sono delle altre facili a capirsi; ma in cambio mi paiono misere di sostanza e di forma. Per esempio, le poesie che formano la raccolta intitolata _Sagesse_, sono dedicate principalmente all’espressione mediocrissima dei più volgari sentimenti cattolici e patriottici. Vi s’incontrano delle strofe come la seguente; Je ne veux plus penser qu’à ma mère Marie, Siège de la sagesse et source de pardons, Mère de France aussi, de qui nous attendons Inébranlablement l’honneur de la patrie. Prima di addurre dei saggi di altri poeti, non posso trattenermi dall’insistere sulla gloria straordinaria di questi due autori, Baudelaire e Verlaine, oggi riconosciuti in tutta l’Europa come i più grandi ingegni della poesia moderna. Perchè mai i Francesi, che ebbero Chénier, Lamartine, Musset, e soprattutto Vittor Hugo, che recentemente ancora hanno avuti i Parnassiani, Lecomte de Lisle, Sully Prudhomme, perchè mai hanno potuto dare un’importanza così smisurata e decretare una gloria così alta a questi due poeti, così imperfetti di forma, e così volgari e bassi nella sostanza degli argomenti? Il concetto che il Baudelaire aveva della vita consisteva nell’erigere in teoria l’egoismo più grossolano, e nel sostituire alla moralità un ideale discretamente nebuloso della bellezza, e d’una bellezza affatto artificiale. Il Baudelaire sosteneva di preferire un viso di donna imbellettato al medesimo viso col colorito naturale; gli alberi metallici e l’imitazione dell’acqua sulla scena gli piacevano di più che non i veri alberi e la vera acqua. La filosofia dell’altro poeta, del Verlaine, consisteva nella più abbietta dissolutezza, nel confessare la propria impotenza morale, e nella più grossolana idolatria cattolica presa come antidoto di quella impotenza. Avevano poi entrambi in comune la mancanza assoluta di sincerità, di freschezza e di semplicità, ed erano pieni d’affettazione, di pretensioni e di smania per l’eccentricità. Nei loro scritti migliori troviamo sempre il signor Baudelaire o il signor Verlaine piuttostochè l’argomento di cui sembrano occuparsi. E dire che quei due cattivi poeti hanno fatto scuola, e si trascinano dietro delle centinaia d’imitatori! È un fatto veramente strano: e non ne vedo altra spiegazione che questa: cioè che l’arte di quella società nella quale nascono produzioni simili, non è cosa seria, importante per la vita, ma un semplice spasso. Ora ogni spasso troppo ripetuto finisce coll’annoiare. Quindi per rendere di nuovo sopportabile un passatempo che ci annoia, occorre rinfrescarlo. Quando si è sazi del _boston_, si gioca a _whist_; se il _whist_ ci ha ristucchi, ci volgiamo al _picchetto_, e dopo questo all’_écarté_, e via dicendo. La sostanza del trastullo rimane la stessa; cambia soltanto la forma. Così avviene per codest’arte; la materia che le appartiene s’è ristretta a segno, che oramai agli artisti delle classi superiori sembra che tutto sia rifritto, e non ci sia più nulla da dire. Quindi il bisogno di cercar sempre delle forme nuove per rinfrescare l’arte loro. Il Baudelaire e il Verlaine inventarono per l’appunto delle forme nuove, le condirono di particolari pornografici ai quali prima di loro nessuno s’era degnato di abbassarsi; tanto bastò perchè fossero salutati grandi scrittori dai critici e dal pubblico delle classi colte. Il successo non solo del Baudelaire e del Verlaine, ma di tutta la scuola decadente, non si spiega altrimenti. Ci sono in particolar modo delle poesie del Mallarmé e del Maeterlinck che, a leggerle, sono prive di senso, e nonostante questa graziosa loro proprietà, anzi forse per questa, si stampano a decine d’edizioni, e vengono inserite nelle antologie delle migliori produzioni appartenenti ai giovani poeti. Si legga per esempio questo sonetto del Mallarmé: A la nue accablante tu, Basse de basalte et de laves, A même les échos esclaves, Par une trompe sans vertu, Quel sépulcral naufrage (tu Le sais, écume, mais y baves), Suprême une entre les épaves, Abolit le mât dévêtu; Ou cela que furibond faute De quelque perdition haute Tout l’abîme vain éployé Dans le si blanc cheveu qui traîne Avarement aura noyé Le flanc enfant d’une sirène. Questa poesia non è più incomprensibile di altri scritti, anche di prosa, dello stesso autore. Citiamo per esempio: IL FENOMENO FUTURO. Un cielo pallido, sul mondo che basisce di decrepitezza, pare voglia farla finita in un colle nuvole; i brandelli della porpora logora dei tramonti si stingono in un fiume, che dorme all’orizzonte sommerso nei raggi e nell’acqua. Gli alberi s’annoiano, e sotto il loro fogliame imbiancato (più dalla polvere del tempo, che non da quella della strada) s’innalza la casa di tela del Mostratore delle Cose Passate. Molti fanali attendono il crepuscolo e ravvivano i visi d’una folla disgraziata, vinta dalla malattia immortale e dal peccato dei secoli; d’uomini accanto alle loro gracili complici, incinte dei frutti miserabili coi quali perirà la terra. Nel silenzio inquieto di tutti gli occhi supplicanti laggiù il sole, che, sott’acqua, si sprofonda colla disperazione d’un grido, ecco il semplice avviso: “Nessuna insegna vi fa dono dello spettacolo interiore, poichè ora non c’è alcun pittore capace di darne un’ombra triste. Io vi reco viva (e conservata attraverso gli anni dalla scienza sovrana) una Donna d’altri tempi. Una certa follia, originale e ingenua, un’estasi d’oro — non so che! — detta da essa la sua capigliatura, si piega col garbo delle stoffe intorno a un viso illuminato dalla nudità sanguigna delle sue labbra. Invece del vestito vano ella ha un corpo; e gli occhi — simili alle pietre preziose! non offuscano lo sguardo che esce dalla sua carne felice; le mammelle alzate, come se fossero piene d’un latte perpetuo, la punta verso il cielo, le gambe liscie che conservano il sale del mare primitivo.„ Rammentando le loro povere spose, calve, frolle, e piene d’orrore, i mariti s’accalcano; anch’esse per curiosità, malinconiche, vogliono vedere. Quando tutti avranno contemplata la nobile creatura, vestigio di qualche epoca già maledetta, gli uni indifferenti perchè non avranno avuto la forza di capire; ma altri, angosciati e le palpebre umide di lacrime rassegnate, si guarderanno; mentre i poeti di questi tempi, sentendosi ravvivare gli occhi spenti, s’avvieranno verso la loro lampada, col cervello ebbro per un istante d’una gloria confusa, assediati dal Ritmo, e dimentichi d’esistere in un’età che sopravvive alla bellezza. Ed ecco una canzone di Maeterlinck, altro scrittore celebre della giornata: “Quand il est sorti (J’entendis la porte) Quand il est sorti Elle avait souri.... “Mais quand il entra (J’entendis la lampe) Mais quand il entra Un autre était là.... “Et j’ai vu la mort (J’entendis son âme) Et j’ai vu la mort Qui l’attend encore.... “On est venu dire (Mon enfant, j’ai peur) On est venu dire Qu’il allait partir.... “Ma lampe allumée (Mon enfant, j’ai peur) Ma lampe allumée Me suis approchée.... “A la première porte (Mon enfant, j’ai peur) A la première porte La flamme a tremblé.... “A la seconde porte (Mon enfant, j’ai peur) A la seconde porte La flamme a parlé.... “A la troisième porte (Mon enfant, j’ai peur) A la troisième porte La lumière est morte.... “Et s’il venait un jour Que faut-il lui dire? — Dites-lui qu’on l’attendit Jusqu’à s’en mourir.... “Et s’il demande où vous êtes Que faut-il répondre? — Donnez-lui mon anneau d’or Sans rien lui répondre.... “Et s’il m’interroge alors Sur la dernière heure? Dites-lui que j’ai souri De peur qu’il ne pleure.... “Et s’il m’interroge encore Sans me reconnaître? — Parlez-lui comme une sœur, Il souffre peut-être.... “Et s’il veut savoir pourquoi La salle est déserte? — Montrez-lui la lampe éteinte Et la porte ouverte....„ Chi “è uscito?„ Chi “entrò?„ Chi “parla?„ Chi “ha sorriso?„ Per evitare il rimprovero di aver scelto i versi più cattivi, ho copiato, in ciascun volume, la poesia che si trova alla pagina 28. Gli altri versi di questi poeti non sono più comprensibili; qualche volta si riesce, dopo un grande sforzo, a capirne qualche cosa. In Francia Si contano a centinaia i poeti che producono delle opere congeneri. E delle altre consimili si stampano in Germania, nella Svezia, in Italia, e da noi in Russia. E per comporre, stampare, impaginare, e rilegare opere siffatte si spendono milioni e milioni di giornate laboriose; tante almeno quante ce ne vollero per innalzare la Piramide maggiore. Lo stesso poi accade in tutte le altri arti, nella pittura, nella musica, nella drammatica; si sciupa un lavoro infinito per rendere possibile la produzione di opere del pari enigmatiche. La pittura, per esempio, in codesta via va ancora più oltre della poesia. Presento qui alcune linee estratte dal taccuino d’un amatore di pittura, che si trovava a Parigi nel 1894: Oggi sono stato a tre esposizioni; dei simbolisti, degli impressionisti, e dei neo impressionisti. Ho contemplato con accuratezza e coscienza tutti i quadri, e tutti mi hanno cagionato lo stesso stupore. La più intelligibile delle tre esposizioni mi è parsa quella degl’impressionisti. Pure ci ho veduti i lavori d’un certo Camillo Pissaro, così confusi nel disegno che non riuscivo a capire da che parte fosse voltata una testa, oppure una mano. Gli argomenti erano di solito “effetti„: _Effetto di nebbia, Effetto di sera, Tramonto del sole_. Nei colori predominavano l’azzurro e il verde stridente. Ogni quadro aveva il suo colore speciale, di cui era in certo modo tutto inondato. Per esempio nella _Guardiana delle oche_ il colore particolare era il verdegrigio, e si avvertivano, sparse un po’ dappertutto, delle chiazze di codesto colore sul volto della figura, sui capelli, sulle mani, sulle vesti. Nella stessa galleria c’erano altri dipinti di Puvis de Chavannes, Manet, Monet, Renoir, Sisley, tutti impressionisti. Uno di essi, che aveva un nome sul fare di _Redon_, aveva dipinto di profilo una faccia interamente turchina. Ho pur veduto un acquerello del Pissaro tutto fatto di puntolini di diversi colori. Impossibile distinguere il colore generale, tanto avvicinandosi al quadro quanto scostandosene. Di poi sono passato ai simbolisti. Dapprima mi sono sforzato di esaminare i loro lavori senza chiedere spiegazioni a nessuno, desiderando di comprenderne il senso da me; ma quei lavori sfidano ogni acume d’intelligenza. Il mio sguardo fu subito attratto da un altorilievo intagliato nel legno, eseguito con una grossolanità inconcepibile, e rappresentante una donna nuda, che, premendolo colle mani, si faceva uscire dal seno un fiotto di sangue. Il sangue scorreva e diventava a poco a poco del colore delle glicinie. I capelli prima scendevano, poi risalivano e si trasformavano in un albero. La figura era tutta colorita di giallo, eccetto i capelli, che erano neri. Lì vicino c’era un quadro; un mare giallo sul quale nuotava un certo arnese che s’assomigliava parte a un battello e parte a un cuore; all’orizzonte s’elevava un profilo con un’aureola e certi capelli gialli, che si andavano a confondere col mare. Alcuni degli espositori stemperano sulla tela uno strato così spesso di colore che l’effetto dei loro lavori tramezza tra la pittura e la scultura. Altro quadro, ancora più strano; un profilo d’uomo con una fiamma davanti, e dei raggi neri — rappresentanti, a quanto mi si disse di poi, delle sanguisughe. Alla fine ho dovuto chiedere a uno dei presenti il significato di quegl’indovinelli. Mi chiarì che l’altorilievo era simbolico, e rappresentava la _Terra_. Il cuore che navigava sul mar giallo era l’_Illusione_, e l’uomo delle sanguisughe raffigurava il _Male_. Ciò si faceva nel 1894. Codesta tendenza s’accentuò dipoi sempre maggiormente. Adesso in pittura primeggiano Boecklin, Stuck, Klinger e altrettali. Lo stesso succede nel dramma. Gli scrittori teatrali ora ci presentano un architetto che per qualche motivo misterioso, non ha effettuato i suoi disegni primitivi e sublimi, e perciò s’arrampica sul tetto d’una casa costrutta da lui, e si precipita abbasso a capofitto.[13] Ora sarà una vecchia enigmatica, dedita al mestiere di sterminare i topi, che, senza alcun motivo concepibile, conduce un ragazzetto al mare, e ve lo annega. Oppure saranno dei ciechi i quali, sedendo sulla riva dell’acqua, ripetono all’infinito le stesse parole.[14] Oppure una campana che si slancia in un lago, e là sotto comincia a scampanare.[15] Lo stesso fenomeno riscontrasi nella musica, in un’arte che pareva dovesse rimanere costantemente accessibile a tutti. Qualcuno dei musicisti riputati siede al pianoforte in vostra presenza ed eseguisce ciò che egli dirà essere una composizione nuova, o sua, o di qualche altro musicista moderno. Lo udite produrre dei suoni strani e rumorosi, ammirate la ginnastica delle sue dita, e per dippiù capite che egli vuol farvi credere che i suoni così ottenuti esprimono varj sentimenti poetici dell’anima. La sua intenzione è chiara; ma in noi non si trasfonde altro sentimento che non sia quello d’una noia mortale. L’esecuzione dura a lungo, o almeno a voi pare così, in quanto non riuscite a ricevere alcuna nettezza d’impressioni. E v’imaginate che forse tutto quell’armeggìo non è che una mistificazione, che forse l’artista vuol mettervi alla prova e getta a caso le dita sui tasti, sperando di cogliervi, e di potervi poi dar la baia. Tutt’altro. Quando il pezzo di musica è finito, e il musicista, scalmanato e sudato, s’alza dal piano, aspettandosi manifestamente le vostre lodi, dovete riconoscere che egli faceva da senno. E ciò avviene in tutti i concerti nei quali si suonano dei pezzi di Liszt, Wagner, Berlioz, Brahms, Riccardo Strauss e dei compositori innumerevoli appartenenti alla scuola nuova. La medesima tendenza ha invaso il dominio dei romanzi e dei racconti, dove parrebbe impossibile che altri non si voglia far capire. Leggete _Laggiù!_ del Huysmans, o qualche novella di Kipling, o l’_Annonciateur_ del Villiers de l’Isle-Adam; tali lavori vi parranno non soltanto _abscons_ (reconditi), per servirci d’un termine della nuova scuola, ma pressochè incomprensibili, sia per la forma, sia per la sostanza. Nello stesso caso è un romanzo di E. Morel, uscito testè nella _Revue Blanche_, come la maggior parte dei nuovi romanzi. Lo stile vi è sommamente enfatico, i sentimenti paiono arcielevati; ma è impossibile decifrare che cosa avvenga, dove avvenga, e a chi avvenga. E tale è tutta l’arte della gioventù dei nostri tempi. Gli uomini della prima metà del nostro secolo, ammiratori del Goethe, dello Schiller, del Musset, dell’Hugo, del Dickens, del Beethoven, dello Chopin, di Raffaello, di Leonardo, di Michelangelo, del Delaroche, non intendendo nulla dell’arte nuova, s’adattano di buon grado a considerarla come una mera follìa, o come uno scherzo di cattivo gusto, e si volgono via da essa scrollando le spalle. Ma codesto è un atteggiamento ingiusto rispetto a quest’arte; perchè in primo luogo essa è avviata a estendersi sempre più, e s’è già conquistato nel mondo un posto uguale a quello che vi occupava il romanticismo nel 1830; e poi, perchè se condanniamo le opere dell’arte decadente solo perchè non le comprendiamo, dobbiamo pur pensare che c’è un gran numero di persone, tutti i lavoratori, e anche una gran parte delle classi più elevate, che non comprendono meglio le opere d’arte ritenute da noi le più belle, cioè le poesie del Goethe, dello Schiller, dell’Hugo, i romanzi del Dickens, la musica del Beethoven e dello Chopin, i quadri di Raffaello e di Leonardo da Vinci, le statue di Michelangelo, ecc. Se ho il diritto di credere che la gran maggioranza degli uomini non capisce nè gusta codeste opere, per me così perfette, a cagione di scarso sviluppo intellettuale, non ho poi il diritto di negare che io possa non intendere e non gustare i prodotti dell’arte nuova unicamente a cagione della mia cultura insufficiente. Se io ho il diritto di dire che la mia impossibilità a comprendere le opere delle nuove scuole proviene dal non esservi nulla di comprensibile, altri potrà dire con lo stesso diritto, che tutto ciò che io considero capolavori dell’arte, non è che arte cattiva, e incomprensibile, perchè l’enorme massa del popolo non è in grado di comprenderci nulla. Mi sono un giorno capacitato di quanto v’è d’ingiusto in questo mondo di condannare l’arte delle nuove scuole. E fu un giorno che udii un poeta, autore di versi incomprensibili, tempestare di sarcasmi la musica incomprensibile; e subito dopo incontrai un musicista, autore di sinfonie incomprensibili, che non rifiniva di sbeffeggiare i poeti incomprensibili. Non è giusto che condanniamo l’arte nuova fondandoci sul fatto che noi, uomini della prima metà del secolo, non l’intendiamo. Abbiamo solo diritto di dire che quest’arte è incomprensibile per noi. L’unica superiorità dell’arte che noi ammiriamo sull’arte dei decadenti sta in questo, che l’arte caldeggiata da noi è accessibile a un maggior numero di persone che non sia l’arte d’oggidì. Da questo fatto che io mi trovo nell’impossibilità di comprendere un genere d’arte, perchè sono avvezzo a un altro genere, non ho alcun diritto di conchiudere che il genere ammirato da me sia il solo vero, e che quello che io non intendo, sia falso e pervertito. Da un fatto simile, solo questo io posso argomentare: che l’arte, facendosi sempre più esclusiva, è diventata sempre meno accessibile, e nel suo cammino verso l’inintelligibile, ha oltrepassato quel punto in cui mi trovavo io stesso. Dacchè l’arte delle classi superiori s’è staccata dall’arte popolare, sorse il convincimento che l’arte potesse restare sempre arte senza essere più intesa dalla moltitudine. E una volta ammesso quel principio, era prevedibile che a poco a poco l’arte non sarebbe più stata accessibile che a una piccola cerchia d’iniziati, e da ultimo solo a due o tre persone, anzi a una sola, all’artista creatore. E così parlano per l’appunto gli artisti moderni: “Io creo, e intendo me stesso; se qualcuno è inetto a capirmi, peggio per lui.„ Ma questa affermazione che l’arte può essere vera, e rimanere inaccessibile a un gran numero di persone, è perfettamente assurda, e le sue conseguenze sono disastrose per l’arte stessa; tuttavia è così comune e predominante tra di noi, che non s’insisterà mai di troppo sulla sua assurdità. Il dire che un’opera d’arte è buona e cionondimeno incomprensibile alla maggior parte degli uomini, equivale a dire che un qualche alimento sia buono, ma che i più non possono mangiarlo. La maggior parte degli uomini può rifuggire dal cacio putrido, o dalla selvaggina verminosa, che sono leccornìe per la gente di gusto pervertito, ma il pane e le frutta non sono buoni, se non quando piacciono alla maggioranza. In arte è la stessa cosa. L’arte pervertita può non piacere alla maggioranza, ma l’arte buona deve piacere di necessità a tutti. Dicono che per intendere le più eccelse opere d’arte occorra una preparazione speciale. Ebbene, se non si possono intendere naturalmente, ci saranno delle cognizioni atte a render l’uomo capace d’intenderle, suscettibili d’essere insegnate e spiegate. Ma in realtà non c’è nessuna cognizione di tal sorta, e ognuno sa che il valore delle opere d’arte non si può spiegare. Ci si ricanta bensì che per intendere quei capolavori occorre rileggerli, rivederli, riudirli senza stancarsi. Ma ciò non è spiegare, è solamente avvezzare. E gli uomini s’avvezzano a tutto, anche alle cose peggiori. Se sanno abituarsi alla carne putrida, all’acquavite, al tabacco, all’oppio, possono parimente abituarsi all’arte guasta; ed è quello che per l’appunto succede. D’altra parte non si può affermare che la maggioranza degli uomini non abbia il gusto necessario per comprendere le manifestazioni più elevate dell’arte. La moltitudine ha sempre inteso, e continua a intendere ciò che anche noi riconosciamo per ottimo, per es., l’epopea della Genesi, le parabole del Vangelo, i racconti delle fate, le leggende e le canzoni popolari. Perchè dunque la moltitudine avrebbe perduto a un tratto questa attitudine naturale, e non saprebbe più intendere l’arte del tempo nostro? Trattandosi d’una parlata, anche stupenda, possiamo ammettere che sia incomprensibile per quelli che ignorano la lingua in cui essa è pronunziata. Un discorso in cinese potrà essere splendido; ma se non conosco il cinese, non lo capirò di certo. Per contro un’opera d’arte si distingue da tutte le altre manifestazioni dello spirito in quanto il suo linguaggio è inteso da tutti, e tocca tutti indistintamente. Le lacrime e il riso d’un Cinese mi commuovono nè più nè meno che il pianto e il ridere d’un Russo; lo stesso vale per la pittura, per la musica, per la poesia, purchè quest’ultima sia tradotta in una lingua per me comprensibile. I canti d’un Kirghiso o d’un Giapponese faranno minore impressione su di me che non sopra un Kirghiso o un Giapponese, ma a ogni modo mi commuovono. Son tocco parimente dalla pittura giapponese, dall’architettura indiana, dalle novelle arabe. E se mi trovo meno sensibile d’un Giapponese o d’un Cinese alle loro canzoni e ai loro romanzi, ciò avviene non già perchè io non capisca l’arte loro, come troppo eccelsa, ma perchè conosco delle altre forme d’arte più elevate. I capolavori artistici non sono tali se non perchè sono intelligibili a ciascuno. La storia di Giuseppe voltata in cinese, commuove i Cinesi. Così noi siamo tocchi dal racconto della vita di Sakya-Muni. Perciò si conchiude che, se una forma d’arte non riesce a commuovere, ciò si deve imputare non a mancanza di gusto o d’intelletto nella gente, ma piuttosto al non essere quella arte vera, arte buona. L’arte differisce dalle altre forme dell’attività mentale in questo: che può agire sugli uomini indipendentemente dal loro stato di sviluppo e di cultura, adescandoli con l’incanto dei colori, dei suoni, delle imagini. Anzi, ufficio essenziale dell’arte è di far sentire e capire ciò che sotto forma di ragionamento resterebbe inaccessibile ai più. Chi riceve una vera impressione artistica s’imagina d’aver già saputo quanto l’arte gli rivela, pur essendo incapace ad esprimerlo. E tale fu sempre l’indole dell’arte buona e vera. L’Iliade, l’Odissea, le storie d’Isacco, di Giacobbe, di Giuseppe, i canti dei profeti ebrei, i Salmi, le parabole del Vangelo, la vita di Sakya-Muni (Budda), gl’inni vedici, esprimono sentimenti elevati, e ci sono pur tuttavia intelligibili, come lo furono molti secoli addietro a uomini meno civili ancora dei nostri contadini. Le chiese, e le imagini ch’esse contengono, non sono mai state incomprese da nessuno. L’ostacolo a capire i sentimenti più alti non risiede nella deficienza di svolgimento o di sapere, ma ben piuttosto in un falso progresso, e una scienza falsa. Un’opera d’arte buona ed elevata può riuscire anch’essa incomprensibile, ma non per il contadino, semplice e non ancora pervertito; quella sorta di persone intende tutto ciò che v’è di più alto; rischierà piuttosto di non essere intesa dalle menti che si pretendono affinate, e io dico pervertite, cioè prive d’ogni concetto serio della vita. Conosco delle persone che si credono coltissime, e dicono di non intendere la poesia della carità, o dell’abnegazione, o della castità. Pertanto se l’arte del nostro tempo non è intesa dalla moltitudine non è già perchè sia troppo elevata, secondo l’affermazione prediletta degli artisti odierni. Diremo più a ragione che non è intesa perchè è arte cattiva, o non è arte affatto. Attesochè il fine della opera d’arte sia quello d’esprimere dei sentimenti, chi può parlare in tal caso d’incomprensibilità? Un popolano, mettiamo, legge un libro, guarda un quadro, attende ad ascoltare un dramma o una sinfonia, e non prova nessun commovimento. Gli si dice che egli non può capire. Gli si promette uno spettacolo; egli entra e non vede nulla che valga. E allora gli si spiega che la sua vista non è ancora educata per gli spettacoli di quella fatta. Ma il nostro popolano sa di vederci molto bene; e se non vede quello che gli hanno promesso di mostrargli, argomenta con ragione che la promessa che gli fu fatta, non è stata mantenuta. E il dire che un’arte determinata non produce alcun effetto sulle persone, perchè sono troppo ottuse, oltre a essere un grave eccesso di vanità, è un invertimento di parti, come se un malato invitasse un sano a mettersi a letto. Voltaire diceva: “Sono buoni tutti i generi, eccetto il genere noioso.„ Più a ragione noi possiamo dire: “Sono buoni tutti i generi, eccetto quelli che non si capiscono, e non agiscono sul nostro animo.„ Infatti che cosa mai può valere una cosa che fallisce nel generare quell’effetto per il quale fu prodotta? Badate bene: se ammettete che l’arte possa esser arte e riuscire incomprensibile a uomini sani di mente, dovrete pure ammettere che nulla impedisce a un’accolta di persone pervertite di comporre delle opere esprimenti il loro sentire depravato, e intelligibili a loro soli, e di chiamarle arte, come fanno ora gli artisti decadenti. L’evoluzione dell’arte nei tempi moderni si può paragonare a quello che avviene quando sopra un primo cerchio collocate dei cerchietti sempre più piccoli sinchè ne risulta un cono, la cui cima non è più un cerchio. Il paragone calza perfettamente all’arte moderna. CAPITOLO X. Le conseguenze della perversione nell’arte; la contraffazione dell’arte. Per il progressivo impoverirsi della sostanza, e il crescere dall’oscurità nella forma, l’arte delle classi superiori è giunta a spogliarsi dei caratteri elementari dell’arte, e a non essere più che una contraffazione o falsificazione dell’arte. Era una conseguenza facile a prevedersi. L’arte universale sorge soltanto allorchè un uomo, tocco da una forte emozione, sente il bisogno di trasmetterla agli altri. Ora l’arte professionale delle classi superiori non sorge da un intimo impulso dell’artista; nasce sovrattutto perchè le classi agiate vogliono dei divertimenti e li pagano a dovere. Esse non domandano altro all’arte che di eccitare in loro dei sentimenti piacevoli, e gli artisti s’ingegnano di rispondere a tale richiesta. Ma non è cosa tanto facile, poichè i ricchi che trascorrono la vita nell’ozio e nel lusso, pretendono dei divertimenti sempre rinnovellati; e l’arte, anche del genere inferiore, non si produce a piacere, ma richiede l’ispirazione. Quindi gli artisti si trovarono forzati d’inventare metodi particolari per ottenere certe imitazioni o contraffazioni dell’arte, e così soddisfare indefinitamente alle esigenze delle classi sociali che davan loro di che campare. I metodi escogitati a quell’intento si riducono a quattro: 1.º gl’imprestiti; 2.º gli ornamenti; 3.º gli effetti (drastici, o energici); 4.º l’eccitamento della curiosità. Il primo metodo consiste nel prender a prestito dalle opere d’arte anteriori o argomenti intieri, o elementi riconosciuti poetici, e a rimaneggiarli con qualche aggiunta in guisa da farli parer nuovi. Siffatti prodotti ridestano nell’animo d’una certa classe di persone la reminiscenza di sentimenti artistici già provati, vi lasciano un’impressione che s’assomiglia a quella dell’arte, e per poco che corrispondano ad alcune altre condizioni sono presi in buona fede per arte da coloro che nell’arte cercano soltanto il piacere. I soggetti presi a prestanza dalle opere antecedenti si chiamano, in generale, soggetti poetici. I personaggi e le cose così riprodotte son detti pure personaggi e cose poetiche. Tali sarebbero, ad esempio, leggende, saghe, antiche tradizioni d’ogni guisa. Nell’elenco dell’arsenale poetico sogliamo inchiudere le giovinette, i guerrieri, i pastori, i romiti, gli angeli, i diavoli, il chiaro di luna, il tuono, i monti, il mare, i burroni, i fiumi, le chiome lunghe, i leoni, gli agnelli, le colombe, gli usignoli. In termini generali si considera poetico ciò che fu rimestato più di spesso dagli artisti delle generazioni precedenti. Mi rammento che una quarantina d’anni fa una signora, che non è più al mondo, la quale era di mente molto ristretta, ma di grande cultura e _ayant beaucoup d’acquis_, mi pregò d’ascoltare la lettura d’un romanzo che essa aveva scritto. Il romanzo cominciava colla descrizione d’un’eroina, che, vestita poeticamente di bianco, sciolta poeticamente le lunghe chiome, leggeva dei versi presso una sorgente, in una foresta poetica. La scena era in Russia; ma ecco che all’improvviso di dietro i cespugli sbucava fuori l’eroe, adorno d’un cappello piumato alla Guglielmo Tell (secondo i precisi particolari del libro) e accompagnato da due cani bianchi, non meno poetico. Quella signora pensava d’aver trovato un motivo sommamente poetico; e in realtà quelle pagine potevano passare per il modello del genere se subito dopo l’eroe non avesse dovuto appiccar discorso con l’eroina. Appena il giovane col suo cappello alla Guglielmo Tell si fu messo a parlare colla giovine biancovestita, io intesi chiaramente che l’autrice non aveva nulla da far loro dire, che essa medesima non aveva nulla da dire, e che, tocca dalla reminiscenza poetica d’altre opere, s’era imaginata che bastasse cucire insieme alcuni brandelli di quelle opere per suscitare nel lettore un’impressione artistica. Ora in noi non può nascere alcuna impressione artistica, se non quando l’autore abbia provato egli stesso in un modo suo particolare i sentimenti che ci comunica, e non si contenti di rifriggerci i sentimenti che egli abbia accattato da altri. Questa sorta d’imprestiti non ci commuove come opera d’arte; al più serve a simularla, e anche solo per coloro che siano di gusto pervertito. La signora, di cui ho detto, essendo scioccherella e senza abilità, si capiva subito di che farina fosse la sua pasta; ma quando questo metodo è adoperato da artisti colti, e d’ingegno, e versati nella tecnica dell’arte loro, ci vengon fuori quelle ricopiature dal greco, dal classico in genere, dal cristianesimo, dalla mitologia, che ora sono così frequenti e dal pubblico sono ingenuamente riputate opera d’arte. Un esempio specifico di siffatte contraffazioni, di tali plagi artistici, vi sarà offerto in poesia dalla _Princesse Lointaine_ del Rostand, lavoro tutto rubacchiato, dove non c’è la minima particella d’arte o di poesia, cosa che non gl’impedisce di sembrar molto poetico a un mondo di gente, e forse all’autore stesso. Il secondo metodo adoperato a dar l’aspetto dell’arte a quello che non è arte consiste in ciò che si chiama ornamentazione. Esso si propone di ubbriacare i lettori, gli spettatori e gli uditori colle impressioni più gradevoli ingannandoli sul conto dell’arte. In letteratura, se si tratta di poesia il metodo sta nell’adoperare i ritmi più cadenzati, le rime più sonore e le espressioni più eleganti; se si tratta di prosa, risulta dall’aggiungere spicco alle descrizioni. Nelle produzioni teatrali vuole che si eccitino i sensi degli spettatori collo sfoggio degli attori, e sopratutto colla bellezza delle attrici, vestite di abiti ricchissimi, e collo splendore delle decorazioni di scena. In pittura, importa la scelta di modelli atti a eccitare i sensi, e l’esagerazione del colore. Nella musica il metodo consiste nel moltiplicare i _passaggi di tono_, e le _fioriture_, e le modulazioni, e nell’introdurre strumenti nell’orchestra, ecc. Tutti codesti ornamenti hanno raggiunto al presente un tal grado di perfezione, che le classi superiori sono arrivate a prenderli per l’arte stessa, aiutate in ciò anche dalla dottrina corrente che considera la bellezza come fine dell’arte. Un terzo metodo sta nell’agire sulla nostra sensibilità, di sovente con procedimenti affatto materiali fisici. In tal caso si dice che le opere d’arte sono _saisissantes_, o _pleines d’effet_. Gli effetti che esse producono in tutte le arti sono quasi unicamente di contrasto, in quanto si associa il terribile e il tenero, il brutto e il bello, la dolcezza e la forza, la luce e l’ombra, il comune e lo straordinario. Inoltre nella letteratura agli effetti d’antitesi se ne aggiungono degli altri ricavati dal descrivere cose non mai prima descritte. Saranno di solito dei particolari pornografici atti a stimolare l’istinto sessuale, o ragguagli minuziosi di sofferenze e di agonie rivolti a farci innorridire; per esempio, mentre si descrive un assassinio, ci si presenterà una vera perizia medica intorno ai tessuti lacerati, all’odore, alla quantità e al colore del sangue. Nella pittura e nella scultura un contrasto ora assai pregiato sta nel finire con gran cura qualche particolare, lasciando al resto l’aspetto sommario d’un abbozzo; senza contare l’abuso che si fa del chiaroscuro. In teatro, non vediamo quasi più che quadri di pazzia, d’omicidio, di morte; e non muore un personaggio senza che ci si faccia assistere a tutte le fasi della sua agonia. In musica, gli effetti più in voga sono: un _crescendo_ repentino per cui si passa dai suoni più leggeri ai più violenti; una ripetizione delle medesime note _arpeggiate_ in tutte le ottave e dai diversi strumenti; oppure anche una fuga d’armonie, di toni e di ritmi diversi affatto da quelli che dovrebbero naturalmente scaturire dall’idea musicale, e tali da colpirci colla sorpresa. Per giunta la musica moderna abusa di quell’effetto puramente fisico che consiste nel far sempre maggior fracasso di quanto abbisogni. Alla stessa categoria appartiene pure un altro effetto, oggi comune a tutte le arti; e sta nel voler forzare un’arte a esprimere quanto spetta a un’altra. Per esempio, si pretende (come vorrebbe fare la musica _descrittiva_ del Wagner e dei suoi successori) che la musica ci descriva azioni e anche _paesaggi_. Oppure, secondo la maniera dei decadenti, si costringono la pittura, il dramma, la poesia a evocare in noi per _suggestione_ certi pensieri. Il quarto metodo infine consiste nell’eccitare la curiosità sì da impedire alla nostra mente di accorgersi della mancanza dell’arte vera. Una volta si ricorreva per questo all’_intreccio_ ben complicato; ora codesto artifizio va fuori di moda, ed è sostituito dalla _documentazione_, cioè dalla pittura particolareggiata d’un periodo storico, o d’un ramo della vita contemporanea. Così per assorbire l’attenzione del lettore i romanzieri gli descrivono da cima a fondo la vita degli Egiziani o dei Romani, la vita dei minatori oppure dei commessi d’un gran magazzino. La curiosità si può solleticare anche solo colla scelta delle espressioni, e codesto mezzo acquista sempre più pregio. Versi e prose, drammi, quadri, sinfonie, tutto ciò è disposto in guisa che se ne debba indovinare il senso come nelle sciarade; il pubblico si scuote, cerca d’indovinare, si distrae, e prova l’illusione d’aver ricevuto un’impressione artistica. E voi udirete spesso ripetere che un’opera d’arte è eccellente, perchè è poetica, o bella, o sorprendente, o interessante; ma in realtà nessuno di quei quattro attributi serve a misurare l’eccellenza d’un’opera d’arte, e nemmeno ha da far nulla coll’arte vera. Il dire che un’opera è poetica equivale a dire ch’è presa a prestito. Tutti i prestiti ridestano nel pubblico vaghe reminiscenze d’impressioni artistiche prodotte da opere anteriori; ma non ci possono mai trasmettere i sentimenti dell’artista medesimo. Un’opera fondata sui prestiti, per esempio il _Fausto_ del Goethe, può essere bene eseguita, piena di brio e anche veramente bella; ma non può produrre una schietta impressione artistica, mancando essa del carattere principale d’un’opera d’arte, cioè dell’unità, di quell’armonia intima tra la forma e la sostanza che vale a trasmettere i sentimenti provati dall’artista. L’opera di seconda mano non fa che ridestare il sentimento infuso in essa dall’opera iniziale; perciò ogni imprestito di soggetti, di scene, di situazioni, di descrizioni non è che il riflesso dell’arte, la sua contraffazione, ma non l’arte. Pretendere che un’opera d’arte di questo genere sia buona perchè è poetica è come pretendere che una moneta di piombo sia buona solo perchè si assomiglia a una d’argento. Nemmeno gli ornamenti, vantati dai nostri estetici sotto il nome di bellezza, possono servire di misura per l’eccellenza d’un’opera d’arte. Infatti il carattere essenziale dell’arte consiste nel trasmettere agli altri la commozione provata dall’artista; e la commozione artistica non solo non coincide sempre colla bellezza, ma spesso le è in opposizione. La vista delle sofferenze più ributtanti ci può commuovere con un forte sentimento di compassione, di tenerezza e d’ammirazione per l’anima grande di chi soffre; come d’altro lato ci accade di non sentir nulla dinanzi a una statua di cera anche bellissima. Giudicare d’un’opera d’arte secondo la bellezza è assurdo quanto il fare stima della fecondità d’un terreno fondandosi sulla sua graziosa giacitura. Il terzo metodo di contraffazione consiste nell’accumulare gli effetti gagliardi, ed è anche esso estraneo all’arte vera; poichè l’effetto, sia esso poi di novità o di contrasto o d’orrore, non è mai l’espressione d’un sentimento, ma semplicemente un’azione sui nostri nervi. Quando un pittore rappresenta con esattezza perfetta una ferita che sanguina, la vista della ferita mi colpisce, ma non è arte. Una nota tenuta a lungo sopra un organo ci produce l’impressione di stringere il cuore e può giungere fino a farci piangere; ma in quel fatto non c’è musica, perchè non c’è l’espressione di alcun sentimento. Tuttavia tali effetti fisiologici vengono ogni giorno presi per dell’arte dalle persone della nostra società, e ciò non soltanto nella musica, ma nella poesia, nella pittura, nel dramma. Non c’è in verità nessuna facezia più amara di quella che consiste nel dire che l’arte del nostro tempo si “raffina.„ Al contrario l’arte non ha mai seguito tanto l’effettaccio volgare, non è mai stata più grossolana. L’Europa intera ammira e acclama un nuovo dramma, com’è per esempio la _Hannele_ di Gh. Hauptmann, in cui l’autore s’è proposto d’intenerirci a proposito d’una ragazza perseguitata. Per eccitare in noi questo sentimento col mezzo dell’arte, poteva o incaricare uno de’ suoi personaggi d’esprimere la sua pietà per la ragazza in un modo che ci commovesse, o descrivere con verità i sentimenti della ragazza. Invece egli, non potendo o non volendo servirsi di questo mezzo, ne ha scelto un altro più difficile per chi deve mettere in scena il lavoro, ma infinitamente più facile per l’autore. Ci ha fatto vedere la ragazza morente sulla scena; e per accentuar meglio l’effetto fisiologico di questa agonia sui nostri nervi, ha fatto spegnere l’illuminazione della sala, lasciando l’uditorio nelle tenebre. Tra le note d’una musica sinistra, ci ha fatto vedere la ragazza perseguitata e battuta dal padre ubbriacone. La fanciulla si lascia cadere, geme, sospira e muore. Compaiono degli angeli che la conducono via. E gli uditori, che durante tutta questa faccenda non hanno potuto far a meno di provare un certo eccitamento, se ne vanno convinti d’aver provato un vero sentimento artistico. Ora non c’è nulla d’artistico in un eccitamento di questo genere, ma solo il miscuglio d’una vaga pietà per altri, e del piacere di pensare che non s’ha noi stessi a soffrire di dolori simili. L’effetto che ci producono delle opere di questo genere è della stessa natura di quello che ci produce la vista d’un’esecuzione capitale, o di quello che producevano sui Romani i supplizi del circo. La sostituzione dell’_effetto_ ai sentimenti artistici si riconosce oggigiorno particolarmente nella musica, avendo quest’arte per la propria natura un’azione fisiologica immediata sui nervi. In luogo d’esprimere per mezzo di una melodia, rivestita d’armonie appropriate, i sentimenti che ha provato, il compositore della nuova scuola accumula e complica le sonorità; ora rinforzandole, ora di nuovo attenuandole; produce sull’uditorio un effetto particolare, d’eccitazione nervosa. E il pubblico prende quest’effetto fisiologico per un effetto artistico. Il quarto metodo, quello della curiosità, è pure di solito confuso coll’arte. Quante volte non udiamo noi dire non solo d’un poema, d’un romanzo, d’un quadro, ma anche d’un’opera musicale, che essa è “interessante?„ E ciò che cosa può significare? Dire che un’opera d’arte è interessante, è dire o che essa ci offre del nuovo, o che noi non ne indoviniamo il senso che a poco a poco, e che ci divertiamo a dover indovinare. Ora, nè in un caso nè nell’altro l’interesse ha nulla di comune coll’impressione artistica. L’oggetto dell’arte è di farci provare dei sentimenti provati dall’artista; ma lo sforzo d’intelligenza di cui abbisogniamo per assimilarci la nuova informazione che ci reca un lavoro, o per indovinare gli enigmi che esso contiene, questo sforzo distraendo la nostra mente dall’emozione espressa, c’impedisce di provarla; talchè non solo il fatto d’essere “interessante„ non contribuisce per nulla al valore artistico d’un’opera d’arte, ma anzi è piuttosto un ostacolo alla vera impressione artistica. Parecchie condizioni debbono convergere perchè un uomo possa produrre una vera opera d’arte. Quest’uomo deve, in primo luogo, trovarsi al livello dei più alti concetti religiosi del suo tempo; inoltre deve provare dei sentimenti e avere il desiderio e la capacità di trasmetterli ad altri; e deve finalmente avere, per una delle diverse forme dell’arte, quella capacità speciale che si chiama il talento. Ora è molto raro che un uomo riunisca in sè tutte queste condizioni. Ma per produrre senza posa quelle contraffazioni dell’arte, che passano al presente per arte vera e la produzione delle quali è pagata così bene, occorre semplicemente aver talento, cosa corrente e senza alcun valore. Intendo per “talento„ l’abilità; in letteratura, l’abilità a esprimer facilmente i propri pensieri e le proprie sensazioni, a notare e a ricordare i particolari tipici; in pittura, a discernere e a ricordare le linee, le forme e i colori; in musica a distinguere gl’intervalli, a capire e a ricordare la successione dei suoni. E basta che un uomo possegga oggi siffatto talento, e sappia scegliere qualche specialità, perchè con l’aiuto dei metodi di contraffazione che ho detti, possa indefinitamente fabbricare delle opere destinate a soddisfare al bisogno di divertimento delle nostre classi superiori. In tutti i rami dell’arte esistono delle regole o ricette definite che permettono di produrre delle opere di questo genere senza provare nessun sentimento. E così l’uomo di talento, essendosi assimilate le regole del suo mestiere, può ad ogni istante produrre a freddo delle opere che passeranno poi come arte. E oggi si produce una quantità così immensa di codeste opere, che si trovano degli uomini che conoscono centinaia e migliaia d’opere così dette artistiche, e non hanno mai veduta una sola opera d’arte vera, e non sanno neppure da che cosa si riconosca questa vera arte. CAPITOLO XI. L’arte professionale, la critica, l’insegnamento artistico: loro influenza sulla contraffazione dell’arte. Questa enorme e crescente diffusione delle contraffazioni dell’arte nella nostra società, è dovuta al concorso di tre condizioni, cioè: 1.º il profitto materiale che queste contraffazioni procurano agli artisti; 2.º la critica; 3.º l’insegnamento artistico. Quando l’arte era ancora universale, e soltanto l’arte religiosa era pregiata e compensata, non c’erano contraffazioni, o, se ce n’erano, non tardavano a scomparire, essendo esposte alla critica della nazione intiera. Ma tostochè si fu prodotta la distinzione fra l’arte aristocratica e l’arte del popolo, tostochè le classi superiori presero ad acclamare ogni forma d’arte, purchè procurasse loro del piacere, tostochè finalmente queste classi cominciarono a rimunerare la loro pretesa arte assai più che ogni altra attività sociale, subito un gran numero d’uomini si dedicarono a questo genere d’attività, e l’arte prese un carattere nuovo, e diventò una professione. E come ciò ebbe luogo, la qualità principale e più preziosa dell’arte, la sincerità, si trovò grandemente indebolita, e condannata in prevenzione a sparire prontamente. All’arte vera fu sostituita la contraffazione dell’arte. Infatti l’artista di professione è costretto a vivere dell’arte sua, cosa che l’obbliga a inventare indefinitamente, per le sue opere, numerosi soggetti. Vedete, per esempio, che differenza corre tra le opere prodotte, da uomini come i profeti ebrei, gli autori dei _Salmi_, Francesco d’Assisi, Fra Angelico, gli autori dell’_Iliade_ e dell’_Odissea_, quelli delle leggende e delle canzoni popolari, tutti codesti uomini d’altri tempi che non solo non erano pagati per le loro opere, ma nemmeno si curavano di unirvi il loro nome; e d’altra parte le opere prodotte dai poeti di corte, dai pittori o dai musici colmati d’onori e di denari! Ma ancora più grande è la differenza tra l’opera dei veri artisti, e quella dei professionisti dell’arte che ora empiono il mondo, vivendo tutti del loro commercio, vale a dire del denaro che ricevono dai direttori di giornali, editori, impresari e altri intermediarii incaricati di mettere gli artisti in rapporto coi consumatori d’arte. Il _professionismo_ è la prima causa della diffusione che ebbero tra di noi le contraffazioni dell’arte. La seconda causa è il nascimento, affatto recente, e lo sviluppo della critica, cioè della stima dell’arte fatta non più da tutti, non più da uomini semplici e sinceri, ma da eruditi, da esseri pervertiti di mente e pieni a un tempo di confidenza in sè stessi. Discorrendo del rapporto dei critici rispetto agli artisti, un mio amico diceva un po’ per burla: “I critici sono gli sciocchi che discutono i savi„. Quella era una definizione inesatta, ingiusta, e d’una durezza eccessiva; ma non manca di contenere una parte di verità; e in ogni caso è incomparabilmente più giusta di quella che considera i critici come aventi il diritto e i mezzi di spiegare le opere d’arte. Spiegare! Che cosa spiegano essi mai? L’artista, se è un vero artista, coll’opera sua ha trasmesso agli altri uomini i sentimenti che egli provava. E, in siffatte condizioni, che cosa resta da spiegare? Se un’opera è buona in quanto sia arte, il sentimento espresso dall’artista, morale o immorale, si trasmette da sè agli altri uomini. Se si trasmette loro, essi lo sentono, e tutte le spiegazioni sono superflue. Se non si trasmette loro, non ci rimedierà nessuna spiegazione. L’opera d’un artista non può essere spiegata. Se l’artista avesse potuto spiegare a parole ciò che desiderava di trasfondere in noi, si sarebbe espresso a parole. Se egli s’è espresso per la via dell’arte, è precisamente perchè le emozioni non potevano esserci trasmesse per un’altra via. Che si può dire intorno al riso o al pianto, che ci aiuti, anche menomamente, a provarne qualche commozione? Quando un uomo cerca d’interpretare delle opere d’arte con dei discorsi, ciò prova solo che è incapace egli stesso di sentire l’emozione artistica. E tale è il caso per l’appunto. Per quanto possa parere strano, i critici sono sempre stati degli uomini meno accessibili al contagio dell’arte che il resto degli uomini. Sono, per la maggior parte, degli scrittori capaci, istruiti e intelligenti, ma tali che in essi l’attitudine a essere commossi dall’arte è affatto pervertita o atrofizzata. E da ciò deriva che i loro scritti hanno sempre contribuito largamente e contribuiscono tuttora a pervertire il gusto del pubblico che li legge, e si fida di loro. La critica non esisteva, non poteva esistere, nelle società in cui l’arte s’indirizzava a tutti, e per conseguenza esprimeva un concetto religioso della vita, comune a un popolo intiero. Essa non s’è prodotta, non si poteva produrre che intorno all’arte delle classi superiori, la quale non aveva per base la coscienza religiosa del suo tempo. L’arte universale ha un criterio interno definito e indubitabile: la coscienza religiosa. L’arte delle classi superiori manca di questo criterio, ed è perciò che coloro che vogliono valutare quest’arte sono forzati ad aggrapparsi a qualche criterio esteriore. E tale criterio, lo trovano nei giudizî dell’_élite_, cioè nell’autorità d’uomini considerati come più istruiti degli altri, e non solo nella loro autorità, ma anche nella tradizione formata da un complesso d’autorità di questo genere. Ma questa tradizione è estremamente fallace, sia perchè l’_élite_ s’inganna molto di spesso, sia pure perchè certi giudizî che ebbero valore al loro tempo cessano d’averne in un altro tempo. Ora i critici mancando di base solida per i loro giudizî, s’aggrappano ostinatamente alle loro tradizioni. Le tragedie classiche un tempo furono considerate come buone; la critica continua a considerarle per tali. Dante è stato ritenuto un gran poeta, Raffaello un gran pittore, Bach un gran musicista; e i nostri critici, in mancanza d’un mezzo per distinguere l’arte buona dalla cattiva, proseguono non solo a ritenere grandi questi artisti ma giudicano per di più tutte le opere loro come ammirevoli e degne d’essere imitate. Nulla ha contribuito, o contribuisce tanto al pervertimento dell’arte quanto le autorità messe innanzi dalla critica. Un uomo produce un’opera d’arte in cui, da vero artista, esprime a modo suo un sentimento che egli ha provato. Il suo sentimento si trasmette ad altri uomini, e la sua opera attira l’attenzione. Ma allora la critica, impadronendosene, dichiara che, senza essere cattiva, non è tuttavia l’opera nè d’un Dante, nè d’un Shakespeare, nè d’un Goethe, nè d’un Raffaello, nè d’un Beethoven. E il giovine artista si rimette al lavoro per copiare i maestri che gli si consiglia d’imitare; e produce delle opere non solo deboli, ma false, delle contraffazioni dell’arte. Così, per esempio, il nostro Puschkin scrive dei poemetti, il suo _Oneghine_ o il suo _Zingaro_, opere d’un valore molto disuguale, ma che sono pur sempre tutte opere d’arte vera. Ma ecco, che sotto l’influenza d’una critica mendace che esalta Shakespeare, lo stesso Puschkin scrive il suo _Boris Godunof_, opera artificiosa e fredda; ed ecco che i critici esaltano codesta opera e la propongono a modello; ed ecco che la imitano tutti, Ostrowski nel suo _Minine_, Alexis Tolstoi nel suo _Tsar Boris_, ecc. Queste imitazioni d’imitazioni ingombrano tutte le letterature d’opere mediocri e assolutamente inutili. E questo è il male maggiore che fanno i critici; mancando essi stessi della capacità d’esser commossi dall’arte (e ne mancano per forza, poichè altrimenti non tenterebbero l’impossibile, cioè di interpretare le opere d’arte) non possono dare importanza o concedere delle lodi che ad opere artificiose e prodotte a sangue freddo. Gli è per questo che esaltano con tanta prosopopea, nelle lettere i tragici greci, Dante, Tasso, Milton, Goethe, e tra gli autori più recenti, Zola e Ibsen; nella musica il Beethoven dell’ultima maniera, e Wagner. Per giustificare l’elogio entusiasta che fanno di questi grandi uomini, essi costruiscono infaticabilmente delle vaste teorie; e così vediamo degli uomini d’ingegno occuparsi a comporre delle opere in conformità di quelle teorie; e spesso anche dei veri artisti far violenza al loro genio e sottomettersi ad esse. Ogni opera d’arte falsa che è levata a cielo dai critici costituisce come una porta attraverso la quale si precipitano le mediocrità. Se gl’Ibsen, i Maeterlinck, i Verlaine, i Mallarmè, i Puvis de Chavannes, i Klinger, i Boecklin, gli Stuck, i Liszt, i Berlioz, i Wagner, i Brahms, i Riccardo Strauss, ecc., sono divenuti possibili ai nostri giorni, del pari che la folla immensa dei mediocri imitatori di questi imitatori, lo dobbiamo sovrattutto ai nostri critici, che continuano ancora oggidì a lodare ciecamente le opere rudimentali, e spesso vuote di senso dei Greci antichi: Sofocle, Euripide, Aristofane, e così pure tutta l’opera di Dante, del Tasso, del Milton, dello Shakespeare, tutta l’opera di Michelangelo compreso il suo assurdo _Giudizio universale_, tutta l’opera di Bach, tutta l’opera di Beethoven, compreso il suo ultimo periodo. Nulla di più tipico, per questo rispetto, del caso di Beethoven. Tra le sue numerose produzioni si trovano, a dispetto d’una forma sempre artificiale, delle opere di arte vera. Ma egli diventa sordo, non può più sentir nulla, e comincia a scrivere delle opere bizzarre, morbose, il senso delle quali di sovente rimane oscuro. So che i musicisti possono imaginare dei suoni e che è loro quasi possibile udire ciò che leggono; ma dei suoni imaginari non potrebbero mai prendere il posto dei suoni reali, e un musicista deve udire le sue opere per dar loro una forma perfetta. Ora il Beethoven non poteva udir più nulla, e perciò era nell’impossibilità di condurre le sue opere alla perfezione. Ma la critica, avendo riconosciuto in lui un gran compositore, s’è per l’appunto impossessata delle sue opere imperfette e spesso anormali per rintracciarvi a ogni costo delle bellezze straordinarie. E per giustificare questi elogi, pervertendo il vero senso dell’arte musicale, attribuì alla musica la proprietà di dipingere ciò che essa non può dipingere. E subito comparvero degl’imitatori, una falange innumerevole d’imitatori, che si sono messi a copiare quelle opere morbose e incomplete, quelle opere che il Beethoven non potè finire a sufficienza per dar loro un pieno valore artistico. E tra di loro sorse il Wagner. Cominciò dal connettere, nei suoi scritti di critica, le ultime opere del Beethoven alla teoria mistica dello Schopenhauer, che faceva della musica l’espressione dell’essenza stessa della Volontà. In appresso si diede a comporre della musica ancora più strana, fondandosi su questa teoria, e sopra un sistema d’unione di tutte le arti. E dal Wagner è uscita una nuova schiera d’imitatori, che si scostano vieppiù ancora dall’arte vera. Tali sono i risultati della critica. Non meno disastrosa è la terza causa che contribuisce a pervertire l’arte del nostro tempo, voglio dire l’insegnamento artistico. Dal giorno in cui l’arte, cessando di rivolgersi a un popolo intiero, non si rivolse più che a una classe di ricchi, è divenuta una professione; dacchè è divenuta una professione, si sono inventati dei metodi per insegnarla; le persone che sceglievano codesta professione dell’arte si misero a imparare codesti metodi, e così si sono formate le scuole professionali: corsi di retorica o di lettere nelle scuole pubbliche, accademie di pittura, conservatorj di musica e d’arte drammatica. Queste scuole hanno per oggetto l’insegnamento dell’arte. Ma l’arte è la trasmissione ad altri uomini d’un sentimento personale provato da un artista. Come si potrebbe insegnare tal cosa nelle scuole? Non c’è scuola che possa provocare in un uomo il sentimento, e, tanto meno insegnargli come possa esprimere i suoi sentimenti nel modo particolare che gli è naturale. Eppure egli è in queste due cose, che risiede l’essenza dell’arte! Tutto ciò che le scuole possono insegnare è il modo d’esprimere dei sentimenti provati da altri artisti nella guisa in cui gli altri artisti li hanno espressi. Ed è precisamente quello che insegnano le scuole professionali; e il loro insegnamento, ben lungi dal contribuire a diffondere l’arte vera, contribuisce al contrario a moltiplicare le contraffazioni dell’arte, facendo così più di tutto il resto per distruggere negli uomini l’intelletto artistico. In letteratura s’insegna ai giovani come, senza aver nulla da dire, possono scrivere una composizione di più o meno pagine intorno a un argomento al quale non hanno mai pensato, e scriverla di tal maniera che rassomigli agli scritti di autori di fama riconosciuta. In pittura, s’insegna loro principalmente a disegnare e a dipingere seguendo delle copie e dei modelli, e a disegnare e a dipingere come hanno disegnato e dipinto i maestri precedenti, e a rappresentare il nudo, cioè quello che si vede meno nella realtà e che l’uomo occupato della realtà ha meno occasione di dipingere. Quanto alla composizione, la s’insegna ai giovani proponendo loro dei soggetti uguali a quelli che sono già stati trattati da maestri celebri. Parimenti nelle scuole d’arte drammatica s’insegna agli alunni a recitare dei monologhi esattamente come li recitavano gli attori famosi. Lo stesso si fa nella musica. Tutta la teoria della musica non è che una semplice ripetizione dei metodi, dei quali si sono valsi i musicisti celebri. Quanto all’esecuzione musicale, essa diventa sempre più meccanica, e pari a quella d’un automa. Un giorno il pittore russo Brulof, correggendo uno studio d’un suo allievo, vi fece un paio di ritocchi, e subito lo studio mediocre assunse l’espressione della vita. — “Come! ci avete appena dato un tocco, ed eccolo cambiato per intiero! — Egli è che l’arte comincia dove comincia questo tocco„, rispose Brulof. Nessun’arte dà tanto rilievo alla giustezza di questa idea quanto l’esecuzione musicale. Perchè siffatta esecuzione sia artistica, vale a dire ci trasmetta l’emozione dell’autore, si richiedono tre condizioni principali, per non parlare delle altre. L’esecuzione musicale non è artistica se non quando la nota è giusta, e dura esattamente il tempo richiesto, e rende esattamente l’intensità del suono richiesto. La più piccola alterazione della nota, il più piccolo mutamento nel ritmo, il più piccolo rinforzo o indebolimento del suono, distruggono la perfezione dell’opera, e perciò la sua facoltà di commuoverci. La trasmissione dell’emozione musicale che sembra una cosa tanto semplice e facile a ottenersi, è in realtà una cosa che s’ottiene solamente quando l’esecutore trova la sfumatura impercettibile che è necessaria alla perfezione. Ed è lo stesso in tutte le arti. Un uomo non può scoprire queste sfumature, che sentendo l’opera e mettendosi in diretto contatto con essa. Nessuna macchina può fare ciò che fa un buon ballerino che regola i suoi movimenti sul ritmo della musica, nessun organo a vapore può fare ciò che fa un pastorello che canti bene, nessun fotografo ciò che fa un pittore; nessun retore troverà la parola o la disposizione di parole che trova senza sforzo chi esprime quello che sente. Quindi le scuole possono ben insegnare ciò che occorra per produrre alcunchè di analogo all’arte, ma non insegneranno mai ciò che occorre a produrre l’arte stessa. L’insegnamento delle scuole s’arresta dove comincia il _tocco_, cioè dove comincia l’arte. E avvezzare gli uomini a qualche cosa di analogo all’arte equivale a disvezzarli dal comprendere l’arte vera. Così si spiega come non ci siano degli artisti peggiori di quelli che sono passati per le scuole e vi riportarono dei successi. Le scuole professionali producono un’ipocrisia dell’arte esattamente analoga all’ipocrisia della religione che producono i seminarii, le scuole di teologia, ecc. Come è impossibile in una scuola fare d’un uomo un educatore religioso, così è impossibile insegnargli a diventare artista. Le scuole d’arte esercitano un’influenza doppiamente funesta. In primo luogo distruggono la capacità di produrre dell’arte vera in quelli che hanno avuto la disgrazia d’entrarvi e di perdervi sette, otto o dieci anni della loro vita. In secondo luogo producono enormi quantità di quelle contraffazioni dell’arte che pervertiscono il gusto delle masse, e sono avviate a invadere tutto il mondo. Io non pretendo che i giovani d’ingegno non debbano conoscere i metodi delle varie arti, quali furono elaborati dai grandi artisti prima di loro. Ma per insegnarli loro, basterebbe che in tutte le scuole elementari si creassero dei corsi di disegno e di musica, uscendo dai quali i giovani di buona vocazione potrebbero perfezionarsi con piena indipendenza nella pratica della loro arte. E non resta meno assodato che queste tre cose: il _professionismo_ degli artisti, la critica, e l’insegnamento delle arti ebbero per risultato di rendere oramai la maggior parte degli uomini incapaci persino di capire che cosa sia l’arte, e li prepararono così ad accettare come arte le contraffazioni più grossolane. CAPITOLO XII. L’opera di Wagner, modello perfetto della contraffazione dell’arte. Se vogliamo vedere fino a che punto gli uomini del nostro tempo e della nostra società abbiano perduto la facoltà di sentire l’arte vera e si siano abituati ad accettare come arte cose che non hanno nulla da vedere coll’arte, nessun esempio potrà mostrarcelo meglio che l’opera di Riccardo Wagner, in cui non solo la Germania, ma eziandio la Francia e l’Inghilterra pretendono oggi di scoprire l’arte più elevata e la più ricca di nuovi orizzonti. Il pensiero fondamentale di Wagner fu questo, come tutti sanno, che la musica deve far corpo colla poesia, esprimere tutte le sfumature d’un’opera poetica. È un’idea, che egli ha pure sempre esagerato, ma che anche nel suo principio è assolutamente falsa, poichè ciascuna delle arti ha il suo territorio determinato, distinto dal territorio delle altre arti; e se la manifestazione di due arti differenti si trova riunita in un solo lavoro, come è il caso per l’opera in musica, una delle due deve di necessità essere sacrificata all’altra. L’unione del dramma e della musica, inventata nel secolo XVI da Italiani che pensavano di richiamar in vita l’antico dramma greco, non ha mai attecchito se non presso le classi superiori, e anche solo quando qualche musicista di talento, Mozart, Weber, Rossini, prendendo le mosse da un soggetto drammatico, s’abbandonò tuttavia liberamente alla sua inspirazione, e subordinò il testo alla musica. Nelle opere di questi maestri, la sola cosa importante per l’uditore era la musica scritta sopra un certo testo, non già il testo stesso; questo poteva spingersi fino all’assurdo, come, ad esempio, nel _Flauto magico_, senza impedire alla musica di produrre un’impressione artistica. È questo appunto che il Wagner sognò di correggere, unendo più intimamente la musica e la poesia. Ma l’arte musicale non saprebbe sottomettersi all’arte drammatica senza perdere il suo significato proprio, poichè ogni opera d’arte, se è buona, è l’espressione del sentimento intimo dell’artista, d’un sentimento affatto eccezionale, e che non trova la sua espressione se non in una forma speciale; dimodochè pretendere che una produzione d’una certa arte faccia corpo colla produzione d’un’altra è pretendere l’impossibile. Infatti è domandare che due opere di dominii artistici differenti siano, da un lato, eccezionali, senza rassomiglianza con chicchessia, e che ciononostante coincidano e possano unirsi a formare un tutto. Ciò è tanto impossibile, quanto è di trovare due uomini, o anche due foglie sopra un albero, che si rassomiglino perfettamente. E se due opere artistiche coincidono rispettivamente, egli avviene o perchè l’una è un’opera d’arte vera e l’altra una contraffazione, o perchè tutte e due sono contraffazioni. Due foglie naturali non possono essere esattamente simili, ma possono esser tali due foglie artificiali. Lo stesso è delle opere d’arte. Se la poesia e la musica possono trovarsi accoppiate, come avviene per gl’inni e le canzoni, il loro accoppiamento non è mai un’unione vera, e il centro di gravità si trova sempre nell’una delle due, talchè è soltanto l’una o l’altra che produce l’impressione artistica. Ma c’è di più. Una delle condizioni essenziali della creazione artistica è la libertà assoluta dell’artista, la sua indipendenza da ogni vincolo esteriore. E la necessità d’adattare un lavoro musicale a un lavoro d’un’altra arte costituisce un vincolo esteriore di tal fatta, bastante a sopprimere ogni possibilità di creazione artistica. In realtà è ciò che accade nella musica di Wagner. E la prova di ciò sta in questo, che la musica di Wagner manca del carattere essenziale d’ogni opera d’arte vera, cioè di quella unità e di quella _integralità_ per le quali avviene che il più piccolo cambiamento di forma basta ad alterare il significato dell’insieme. In un’opera di vera arte, poema, quadro, canto o sinfonia, è impossibile toglier via o mutar di posto una linea, una figura, una battuta, senza che ne sia compromesso il senso dell’opera intiera, come è impossibile, senza compromettere la vita d’un essere organizzato, mutar di posto un solo de’ suoi organi. Ma nelle ultime opere di Wagner, eccettuate alcune parti meno importanti che hanno un senso musicale indipendente, è possibile fare ogni sorta di trasposizioni, mettere davanti quello che era di dietro e viceversa, senza che ne sia modificato il significato musicale. E la ragione del fatto è questa, che nella musica di Wagner il senso sta nelle parole e non nella musica. La parte musicale di questi drammi di Wagner mi fa pensare al caso d’uno di que’ versificatori abili e vuoti, come ora n’abbiamo in abbondanza, che concepisse il progetto d’illustrare coi suoi versi una sinfonia o una sonata del Beethoven, o una ballata dello Chopin. Sulle prime battute, improntate d’un carattere speciale, egli scriverebbe dei versi corrispondenti, secondo lui, al carattere di quelle battute. Sulle battute seguenti di carattere diverso scriverebbe degli altri versi corrispondenti a queste. E codesta nuova serie di versi non avrebbe alcun intimo rapporto colla prima, e, inoltre, tutti i versi non avrebbero nè ritmo nè rime. Ora supponete che un poeta simile reciti, senza la musica, i versi così composti, avrete un’imagine esatta di ciò che è la musica delle opere di Wagner, allorchè la si ascolta senza le parole. Ma il Wagner non è solamente musicista, è anche poeta. Dunque, per giudicarlo, bisogna conoscere anche la sua poesia, quella poesia a cui egli pretende di subordinare la musica. Il principale dei suoi lavori poetici è _L’anello dei Nibelunghi_. Ho letto colla massima attenzione i quattro libretti che contengono questa creazione poetica, e vi raccomando di leggerli se volete avere un’idea d’un lavoro veramente _straordinario_; poichè è un modello della pseudo-poesia più grossolana e che tocca davvero il grottesco. Ma si dice che è impossibile giudicare le opere di Wagner se non le si vedono sulla scena. La seconda _giornata_ della _Tetralogia_ fu per l’appunto rappresentata a Mosca l’inverno scorso. Avendo sentito che è la parte migliore di tutto il lavoro, mi sono recato a vederla; ed ecco ciò che ho veduto. Quando giunsi, l’enorme sala era già affollata dal loggione sino alla platea. C’erano dei granduchi e tutto il fiore della nobiltà, del commercio, della scienza, dell’amministrazione e della media borghesia. La maggior parte degli uditori avevano in mano il libretto e si sforzavano di decifrarne il senso. Vidi pure molti musicisti — alcuni già vecchi, coi capelli grigi — che seguivano la musica sopra una partitura. Evidentemente quella rappresentazione costituiva un vero avvenimento. Arrivai un po’ in ritardo; ma mi si accertò che il breve preludio d’introduzione all’opera era poco importante e che non avevo perduto molto a non sentirlo. Comunque, allorchè fui entrato, un attore era seduto sulla scena in una decorazione destinata a rappresentare una grotta, e che, secondo il consueto, produceva tanto minore illusione, quanto più abilmente era architettata. L’attore era in maglia, con una pelle a bisdosso, una parrucca e una barba finta; e con certe mani bianche e fine, che rivelavano il commediante, martellava una spada inverisimile con un martello impossibile, d’una foggia quale non ebbe mai nessun martello maneggiato da uomini; e nello stesso tempo, sgangherando la bocca in un modo non meno strano, cantava qualche cosa d’incomprensibile. Intanto l’orchestra intiera si scalmanava ad accompagnare i suoni bizzarri che uscivano dalla bocca di lui. Il libretto mi fe’ sapere che quest’attore doveva rappresentare un gnomo potente, che viveva in una caverna e fabbricava una spada per Siegfried, il giovinetto che egli aveva allevato. E appunto avevo indovinato che esso rappresentava un gnomo, perchè, camminando, non mancava mai di piegar le ginocchia per rimpicciolirsi. Il gnomo, spalancando sempre la bocca nella medesima guisa stravagante, continuò per un pezzo a cantare, o a vociare. La musica per parte sua seguiva un andamento singolare; si otteneva l’impressione di principii che non continuavano, nè finivano. Il libretto mi chiarì che il gnomo raccontava a sè stesso la storia d’un anello, di cui un gigante s’era impossessato, e che il gnomo desiderava di procacciarsi coll’aiuto di Siegfried; ed ecco perchè gli foggiava una spada. Dopochè questo monologo fu durato un bel pezzo, intesi all’orchestra degli altri suoni affatto diversi dai primi; salvochè essi pure mi produssero l’impressione di cominciamenti che non finivano punto. E infatti non tardò a presentarsi un altro attore, che portava un corno sulla spalla ed era accompagnato da un uomo camuffato da orso, e che correva a quattro zampe. Quest’uomo si slanciava sul gnomo, che scappava, sempre piegando le gambe. L’attore che portava il corno rappresentava Siegfried, l’eroe del dramma. I suoni emessi dall’orchestra, prima del suo comparire, erano destinati a rappresentare il suo carattere. Sono detti il _leit-motiv_ di Siegfried; e vengono ripetuti ogni volta che Siegfried si presenta. C’è precisamente una combinazione fissa di suoni, o _leit-motiv_, per ciascuno dei personaggi; e ogni volta che il personaggio così designato entra in scena, l’orchestra ripete il suo _leit-motiv_, e ogni volta che si fa allusione a qualcuno dei personaggi, l’orchestra ripete il _leit-motiv_ di questo personaggio. Tutti gli oggetti hanno anch’essi il loro _leit-motiv_. C’è il _motivo dell’anello_, il _motivo dell’elmo_, il _motivo del fuoco_, della _lancia_, della _spada_, dell’_acqua_, ecc; e l’orchestra ripete codesti motivi non appena si fa menzione di questi diversi oggetti. Ma ritorno al racconto della rappresentazione. L’attore munito del corno apre la bocca in modo non più naturale di quello che facesse il gnomo, e continua per un pezzo, con una specie di canto, a gridare certe parole, e _Mime_, il gnomo, gli risponde nello stesso modo. Il senso di questa conversazione non si può indovinare che leggendo il libretto; vi apprendo che Siegfried è stato allevato dal gnomo, per la qual cosa egli lo detesta e cerca sempre d’accopparlo. Il gnomo ha fabbricato una spada per Siegfried, ma questi non ne è soddisfatto. Il dialogo dura una buona mezz’ora e occupa dieci pagine del libretto. Ci fa sapere che la madre di Siegfried lo ha messo al mondo in un bosco, che suo padre aveva una spada, quella di cui Mime tenta di ricomporre i pezzi, e che Mime vuol impedire al giovine di uscir dal bosco. Aggiungerò che, durante questa conversazione, al minimo cenno che si faccia del padre, della spada, ecc., la musica non manca mai di far sentire il _leit-motiv_ di queste persone e di questi oggetti. Finalmente il dialogo s’arresta; si sente una musica affatto differente — il _leit-motiv_ del dio Wotan; e comparisce un viaggiatore. Questo viaggiatore è il dio Wotan. Fornito anch’esso di parrucca e di maglia, il dio, ritto in una posa stupida con una lancia in mano, prende a raccontare una lunga storia, che Mime doveva di certo già conoscere a fondo, ma che l’autore ha creduto necessario di far conoscere ai suoi uditori. E si badi, che egli non racconta questa storia semplicemente, ma bensì sotto forma di enigmi ch’egli si fa rivolgere, assoggettandosi a perder la vita se mai non indovinasse la risposta. E tutte le volte che batte il suolo colla lancia, se ne vede uscir del fuoco, e nell’orchestra si sente il _leit-motiv_ della lancia e del fuoco. Del resto l’orchestra accompagna il dialogo con una musica in cui sono sempre abilmente frammischiati i _leit-motiv_ delle persone di cui si parla. Questi enigmi hanno il solo fine di farci sapere che cosa sono i gnomi, che cosa sono i giganti, che cosa sono gli déi, e ciò che è accaduto nelle opere precedenti. Per completare la spiegazione, Wotan propone alla sua volta tre enigmi; poscia se ne va, e ritorna Siegfried, e si trattiene di nuovo con Mime per tredici altre pagine del libretto. In tutto questo tempo non si sente una sola melodia svolta per intiero; non si sente che un intreccio perpetuo dei _leit-motiv_ delle persone e delle cose di cui si parla. Mime dice che vuole insegnare a Siegfried la paura, e Siegfried risponde che non sa che cosa sia la paura. Alla fine terminate le tredici pagine, Siegfried afferra uno dei pezzi di ciò che deve rappresentare la spada infranta, la pone sull’affare che deve rappresentare l’incudine, lo batte, e canta “Heaho, heaho, hoho! Hoho, hoho, hoho, hoho! Hoheo, haho, haheo, hoho!„ E il primo atto è finito. Tutta questa roba era così irritante per me, che stentavo a tenermi fermo, e, non appena fu terminato l’atto, volli andarmene. Ma gli amici che m’accompagnavano mi pregarono di restare. Mi dissero che era impossibile giudicare dell’opera dal solo primo atto, e che il secondo, indubbiamente, mi sarebbe piaciuto di più. Tuttavia non avevo più nulla da imparare intorno alla questione per cui ero venuto in teatro. Quanto al valore artistico del dramma del Wagner ero oramai così sicuro del mio parere come ero stato rispetto al pregio del romanzo di quella signora, quando essa mi aveva letto la scena tra la donzella dalle chiome ondeggianti, e il cavaliere col cappello piumato alla Guglielmo Teli. Da un autore capace di comporre scene di quel genere, che offendono tutti i sentimenti estetici, non c’era da sperar nulla: si poteva esser certi, senza sentir altro, che qualunque cosa quell’autore avesse scritto, sarebbe stata arte cattiva, poi chè evidentemente egli non sapeva che cosa fosse una vera opera d’arte. Ma intorno a me notavo un’ammirazione, un’estasi generale; e per scoprire la causa di codesta estasi, risolvetti di sentir ancora il secondo atto. Atto II. — Notte; poi l’alba. Del resto in generale tutta la produzione è decorata di lampi, nubi, chiaro di luna, tenebre, fuochi di bengala, schianti di tuono, ecc. La scena rappresenta un bosco, e in fondo si scorge una caverna. All’ingresso della caverna è seduto un altro attore in maglia, che rappresenta un altro gnomo. Entra il dio Wotan, sempre colla sua lancia, e in abito di viandante. Di nuovo l’orchestra fa sentire il suo motivo, questa volta insieme con un altro motivo di tono più basso che sia possibile. Questo motivo di basso profondo designa il dragone. Wotan sveglia il dragone, gli stessi suoni bassi si ripetono ancora più profondi. Il dragone comincia a dire che vuol dormire; ma poi si decide a mostrarsi sulla soglia della caverna. Questo dragone è rappresentato da due uomini. È vestito d’una pelle verde, squamosa; da un capo dimena una gran coda di serpente, dall’altro spalanca una bocca di coccodrillo, nella quale guizzano delle fiamme. E questo dragone — che senza dubbio si volle rendere terribile, e che in realtà potrebbe spaventare dei bambini di cinque anni — per parlare ha una voce d’una profondità terribile. Tuttociò è così stupido, così simile a quello che si fa vedere nelle trabacche della fiera, che vien da domandare come mai delle persone che abbiano più di cinque anni possano assistervi con tutta serietà; cionondimeno migliaia di persone che si pretendono colte, ci assistono e guardano e ascoltano tutta la faccenda con una pia attenzione, e ammattiscono dal piacere. Si vede ricomparire Siegfried col suo corno, e anche Mime. L’orchestra naturalmente accenna i _leit-motiv_ che li riguardano; ed essi intanto si mettono a discutere su questo punto, se Siegfried sa o non sa che cosa sia la paura. Poi Mime se ne va, e comincia una scena che ha l’intenzione d’essere eminentemente poetica. Siegfried, sempre in maglia, si sdraia in una posa destinata a sembrarci bella; e alternativamente tace o parla con sè stesso. Egli fantastica, ascolta il canto degli uccelli, desidera imitarli. A quel fine taglia colla spada una cannuccia e se ne fa un flauto. L’alba divien più chiara, gli uccelli cantano; Siegfried tenta d’imitare gli uccelli. E la musica dell’orchestra imita il canto degli uccelli, ma non trascurando di farci udire i _leit-motiv_ delle persone e degli oggetti di cui si parla. E Siegfried, non riuscendo a sonar bene il flauto, si decide a sonare di preferenza il suo corno. Tutta questa scena è insoffribile. Di musica, cioè d’un’arte che ci trasmetta un sentimento provato dall’autore, in tuttociò non c’è la menoma traccia. E aggiungo che non s’è mai imaginato nulla di più antimusicale. Par di sentire, indefinitamente, una speranza di musica sempre seguita da una delusione. Centinaia di volte comincia alcunchè di musicale; ma questi cominciamenti sono così brevi, così ingombri di complicazioni d’armonia e di metallo, così carichi d’effetti di contrasto, così oscuri e troncati tanto bruscamente, e ciò che accade sulla scena è d’una falsità così inverosimile, che si stenta a percepire codesti embrioni musicali, e tanto meno a sentirsene commossi. E sopra tutto, dal principio alla fine, in ogni nota, è così, direi, palpabile l’intenzione dell’autore che non vediamo o udiamo nè Siegfried nè gli uccelli, ma solamente un tedesco dalle idee ristrette, un tedesco privo di gusto e di stile, che, essendosi formato un concetto grossolano della poesia, s’adopera a trasmetterci il suo concetto coi mezzi più grossolani e più primitivi. Si sa che sentimento di diffidenza e di resistenza soglia destarsi in presenza d’un lavoro che riveli con troppa evidenza un partito preso dall’autore. Basta che un novelliere ci dica prima: “preparatevi a piangere o a ridere!„ perchè siamo certi di non piangere e di non ridere. Ma quando vediamo che un autore ci impone di commuoverci per cosa che non è punto commovente, ma anzi ridicola o ripugnante, e quando vediamo per giunta che questo autore è pienamente convinto d’averci conquistati, proviamo una sensazione penosa analoga a quella che susciterebbe in noi una vecchia in abito da ballo, che facesse la civettuola con noi. Tale fu l’impressione che io provai durante quella scena, mentre vedevo intorno a me una folla di tremila persone, che non solo assistevano a quelle assurdità senza lagnarsi, ma che si credevano in dovere di esserne entusiaste. A ogni modo mi rassegnai ancora alla scena seguente, in cui compare il mostro, coll’accompagnamento delle sue note profonde mescolate col _leit-motiv_ di Siegfried; ma dopo il combattimento col mostro, e i muggiti, le vampe, i colpi di spada, ecc. non potei più resistere, e scappai dal teatro con un sentimento di ripugnanza, che anche adesso non posso dimenticare. E pensavo involontariamente a un contadino savio, istruito, rispettabile, uno di quegli uomini veramente religiosi che conosco tra i nostri contadini, mi raffiguravo la perplessità terribile che proverebbe un uomo siffatto se dovesse assistere allo spettacolo che io avevo veduto. Che direbbe venendo a sapere quanto lavoro s’era speso per quella rappresentazione, e vedendo quell’uditorio, vedendo quei grandi della terra — uomini attempati, calvi, dalla barba grigia, uomini che egli era avvezzo a rispettare — vedendoli sedere immobili a guardare e ad ascoltare, per sei ore di seguito, quel mucchio di assurdità? Eppure un uditorio enorme, il fiore delle classi colte, assiste per sei ore di seguito a codesta rappresentazione assurda: e tutta questa gente se ne va a casa colla convinzione che col rendere un tributo a quelle stravaganze s’è acquisito un nuovo diritto di credersi “illuminata„ e “progredita„. Io parlo del pubblico di Mosca, ma questo pubblico non è che una minima parte di quello che considerandosi come il fiore intellettuale del mondo, si fa un merito d’aver tanto smarrita la facoltà d’ogni emozione artistica da poter assistere senza ribellarsi a codesta stupida farsa, anzi prendervi un piacere estremo. A Bayreuth, dove si rappresentò per la prima volta quel lavoro, delle persone che si consideravano come la quintessenza del genere umano accorsero dai quattro punti cardinali, e spesero ciascuna delle migliaia di rubli per veder rappresentate delle cose simili; e quattro giorni di seguito, per sei ore al giorno hanno contemplato e ascoltato questa stupida farsa. Ma perchè queste persone si sono recate a Bayreuth, e perchè si continua ad andar a vedere queste opere, e perchè le si ammirano? È un quesito che s’impone fatalmente. Come si spiega il successo delle opere del Wagner? La spiegazione è molto semplice. Grazie a una condizione eccezionale, potendo disporre dei mezzi d’un re, il Wagner si trovò in grado di concentrare tutti i metodi inventati prima di lui per contraffare l’arte; e maneggiando tutti questi metodi con estrema abilità, produsse un modello perfetto della contraffazione dell’arte. Ed è appunto per questo che ho parlato così a lungo dell’opera sua; nessun’altra che io conosca mi fa vedere combinati con tanta accortezza ed efficacia tutti i metodi che valgono a contraffare l’arte, cioè i prestiti, i fronzoli, gli effetti, e l’appello alla curiosità. Cominciando dal soggetto, ricavato dalle vecchie leggende, per venire alle nubi, al sorgere del sole e della luna, il Wagner s’è valso di tutto ciò che è considerato come poetico. Nella sua opera troviamo la bella addormentata in mezzo al bosco, e le ninfe e i fuochi sotterranei, e i gnomi, e le battaglie, e le spade, e l’amore, e l’incesto, e un mostro, e degli uccelli canori; l’arsenale del _poetico_ ci si trova su tutta la linea. Aggiungete che lì dentro tutto è bello. Sono belle le scene, e le vesti, e le ninfe, e la valkiria. Anche i suoni sono belli. Poichè Wagner, che era tutt’altro che privo d’ingegno, ha inventato — alla lettera, inventato — per accompagnare il suo testo delle combinazioni di suoni belle non meno d’armonia che di metallo. Tutta codesta bellezza è d’un ordine piuttosto basso e d’un gusto deplorevole, come sono le belle donne che si vedono dipinte sugli affissi, o come dei begli ufficiali in grande uniforme; ma tutto ciò è incontestabilmente bello. In terzo luogo tutto vi è sbalorditivo in sommo grado e di grande effetto: i mostri, le fiamme miracolose, le scene che avvengono nell’acqua, l’oscurità della sala, l’orchestra invisibile, e poi delle combinazioni armoniche nuove, e perciò sorprendenti. Infine tutto è “interessante„. L’interesse non istà solo nella questione di sapere chi ammazzerà e chi sarà ammazzato, chi si sposerà, e ciò che avverrà in seguito; l’interesse risiede altresì nel rapporto tra la musica e il testo. Il moto delle onde del Reno; come lo renderà la musica? Compare sulla scena un gnomo sensuale; come mai la musica potrà esprimere un gnomo; come potrà colorire la sua sensualità? Come saranno rappresentati musicalmente il coraggio, o il fuoco, o un anello? Come farà l’autore a intrecciare il leit-motiv delle persone che parlano con quello delle persone e delle cose di cui egli parla? E l’interesse delle opere del Wagner non si ferma lì. La musica, anche di per sè è un appello costante alla nostra curiosità. S’allontana da tutte le leggi ammesse prima di essa e produce le modulazioni più inaspettate, delle modulazioni affatto nuove (cosa non solo possibile, ma anche facile a una musica che s’è liberata da ogni legge organica). Le dissonanze sono nuove e sono risolute in un modo affatto nuovo. Tuttociò è pure molto interessante. E sono questi elementi, l’apparato poetico, la bellezza, l’effetto, e l’interesse, che, grazie alle singolarità dell’ingegno del Wagner e a quello della sua condizione, si trovano nelle opere di lui portate al sommo della perfezione: di modo che ipnotizzano lo spettatore, come sareste ipnotizzati se ascoltaste per parecchie ore le divagazioni d’un pazzo declamate con grande potenza rettorica. Mi si dice: “Non potete giudicare di tutto ciò senza aver veduto le opere del Wagner a Bayreuth, nella sala oscura, coll’orchestra nascosta del tutto e un’esecuzione inappuntabile!„ Sono pronto ad ammetterlo; ma questo prova precisamente che non si tratta d’arte, ma d’ipnotismo. È appunto nello stesso modo che parlano gli spiriti. Per convincerci della realtà delle loro apparizioni, ci dicono infallibilmente: “Non potete giudicare a casa vostra, venite alle nostre sedute„. In altri termini: “Venite, e rimarrete seduti, per parecchie ore di seguito, al buio, con altre persone mezze matte, ripetete questa esperienza una decina di volte, e vedrete quello che vediamo noi„. E perchè non lo vedrei? Mettetevi solamente in siffatte condizioni, e vedrete tutto quello che volete vedere, sebbene possiate giungere più facilmente allo stesso risultato ubriacandovi di vino o d’oppio. Lo stesso avviene per l’audizione delle opere del Wagner. Rituffatevi per quattro giorni di seguito nell’oscurità in compagnia di persone che si trovano in uno stato di mente anormale, e per il veicolo dei vostri nervi acustici sottomettete il vostro cervello all’azione potente dei suoni fatti apposta per eccitarlo; dovrete per forza trovarvi in condizioni anormali sicchè le assurdità peggiori vi faranno piacere. Ma per arrivare a tanto non vi occorrono neppure quattro giorni; bastano le sei ore che dura la rappresentazione d’una delle giornate. Che dico mai? Un’ora basta per delle persone che non hanno alcuna idea chiara di quello che dovrebbe essere l’arte, e che hanno anticipatamente deciso che quanto vanno a vedere è eccellente, e sanno che mostrarsi indifferenti o malcontenti dinanzi a codesta opera sarebbe imputato loro come una prova d’inferiorità e di scarsa cultura. Ho osservato a Mosca l’uditorio del Siegfried. C’erano delle persone che dirigevano gli altri e davano loro l’imbeccata; ce n’erano di quelle che avevano già subito altre volte l’azione ipnotica del Wagner, e vi si abbandonavano di nuovo, essendovisi abituate. Coloro, trovandosi in uno stato anormale di mente, provavano un’estasi perfetta. Accanto ad essi c’erano i critici d’arte, uomini assolutamente privi della facoltà di provar commozione per l’arte, e che quindi sono sempre pronti a lodare delle opere come quelle del Wagner, in cui ogni cosa è affare d’intelligenza; perciò non mancavano di sfoggiare tutta la loro profondità nel lodare un’opera che forniva loro così ampia materia di raziocinii. Dietro a questi due gruppi camminava la turba dei cittadini, uomini indifferenti all’arte, o tali che la capacità d’esserne tocchi era in essi pervertita e in parte atrofizzata; e costoro si schieravano servilmente coll’opinione dei principi, dei caporioni della finanza e altri dilettanti, che alla loro volta abbracciano sempre le idee di coloro che esprimono il loro parere più forte e con maggior baldanza. — “Oh! che poesia! che meraviglia! principalmente gli uccelli! Ah sì! m’arrendo!„ Così esclama tutta quella folla ripetendo a gara ciò che ha or ora udito affermare dagli uomini di autorità riconosciuta. Ciononostante forse ci sono delle persone che si sentono urtate dall’assurdità e dalla volgarità di questa così detta arte nuova; ma tacciono timidamente, come un uomo digiuno rimane silenzioso e timido quando si vede circondato da ubbriachi. E così avviene che, grazie alla maestria prodigiosa con cui contraffà l’arte senza aver nulla di comune con essa, un’opera grossolana, bassa e vuota di senso si trova ammessa dal mondo intiero, costa per la rappresentazione migliaia di rubli, e contribuisce sempre più a pervertire il gusto delle classi superiori, allontanandole sempre più dall’arte vera. CAPITOLO XIII. Difficoltà di distinguere l’arte vera dalla sua contraffazione. So che la maggior parte degli uomini, anche i più intelligenti, stentano a riconoscere la verità anche più semplice e più evidente, se questa verità li costringe a ritener false delle idee che si son formati forse a fatica, delle idee di cui sono fieri, che hanno insegnate a degli altri, e sulle quali hanno fondato la loro vita. Quindi non ho molta speranza che quanto io dico intorno al pervertimento dell’arte e del gusto nella nostra società abbia ad essere ammesso dai miei lettori, o neppur preso seriamente in considerazione. Tuttavia non mi so trattenere dall’enunciare francamente la conclusione a cui inevitabilmente m’hanno condotto le mie ricerche intorno al problema dell’arte. Questa conclusione è che quanto la maggior parte della nostra società considera come arte, come arte buona, come essenza dell’arte, non è che una contraffazione dell’arte vera. Questa conclusione, lo so bene, sembrerà strana e paradossale; ma purchè ammettiamo che l’arte è un’attività umana per mezzo della quale certi uomini trasmettono i loro sentimenti a certi altri (e non già un culto della Bellezza, nè una manifestazione dell’Idea, nè nulla di simile), saremo costretti inevitabilmente ad ammettere questa conclusione come conseguenza naturale. Se l’arte è un’attività colla quale un uomo trasmette i suoi sentimenti ad altri uomini, dobbiamo confessare che di tutto ciò che chiamiamo arte nella nostra società, di tutti questi romanzi, racconti, drammi, quadri, opere, balli, ecc., è dir molto se la centomillesima parte procede da un’emozione sentita dall’autore, tutto il resto riducendosi a contraffazioni dell’arte, in cui gli imprestiti, gli ornamenti, gli effetti e l’interesse sostituiscono il contagio del sentimento. Ho letto, non so dove, che solo a Parigi il numero dei pittori oltrepassa i ventimila; probabilmente ce ne saranno altrettanti in Inghilterra, altrettanti in Germania, altrettanti negli altri paesi d’Europa. Quindi in Europa ci saranno circa centomila pittori, e senza dubbio vi si troveranno pure centomila musicisti e centomila letterati. Se codesti trecentomila individui producono ciascuno tre opere all’anno, si può calcolare ogni anno sopra un milione circa di così dette opere d’arte. Ora quanti sono gl’intenditori d’arte che siano colpiti da codesto milione di lavori? Per non parlare delle classi lavoratrici, che non hanno alcuna idea di quelle produzioni, sarà molto se anche gli uomini delle classi superiori conoscono una su mille di quelle opere, e possono ricordarne una su diecimila. Quindi possiamo dire che tutte queste opere non sono che simulacri d’arte, non producono che l’impressione d’un passatempo per la turba degli oziosi e dei ricchi, e sono destinate a scomparire non appena sono prodotte. La condizione d’un uomo della nostra società che voglia scoprire un’opera di arte vera nel gran numero delle opere che pretendono di essere arte, s’assomiglia a quella d’un uomo che fosse condotto per miglia e miglia lungo una strada lastricata d’un mosaico di pietre artificiali, e volesse riconoscere l’unico diamante o rubino o topazio vero che supponesse trovarsi in mezzo a quel milione d’imitazioni. Anzi la difficoltà dì distinguere le opere dell’arte vera oggigiorno si trova accresciuta dal fatto che la qualità esteriore del lavoro nelle false opere d’arte non solo non è peggiore, ma spesso è anche migliore che nelle vere; poichè la contraffazione produce spesso più effetto che l’arte vera, e i suoi soggetti sono più interessanti. Come riconoscere dunque l’arte vera dalla falsa? Come distinguere da un milione d’opere fatte apposta per imitare un’opera che non se ne distingue per la forma esteriore? Per un uomo il gusto del quale non fosse pervertito ciò sarebbe facile, come per un animale il cui olfatto non è pervertito è facile il seguire la traccia che segue in mezzo a cento altre nel bosco. L’animale trova infallibilmente la sua traccia. E l’uomo farebbe lo stesso se le sue qualità naturali non fossero state pervertite. Troverebbe infallibilmente, in mezzo a migliaia d’oggetti, la sola opera d’un’arte vera, cioè quella che gli comunica dei sentimenti particolari e nuovi. Ma ciò non vale per coloro il cui gusto è stato pervertito dall’educazione e dal genere di vita. In uomini siffatti il potere naturale d’essere commosso da un’opera d’arte è atrofizzato, e nel valore che danno alle opere d’arte sono costretti a lasciarsi guidare dalla discussione e dallo studio, che finiscono entrambi per fuorviarli. E così accade che la maggior parte degli uomini nella nostra società sono assolutamente incapaci di distinguere un’opera d’arte dalla sua contraffazione più grossolana. Costoro si condannano a rimaner seduti per delle ore intiere nei teatri a sentire i lavori di Ibsen, di Maeterlinck, di Hauptmann o di Wagner; si credono in dovere di leggere dalla prima riga all’ultima i romanzi dello Zola, del Huysmans, del Bourget o del Kipling, di guardar dei quadri rappresentanti o delle cose incomprensibili, o delle cose che possono vedere assai meglio nella vita reale; e sopratutto considerano come loro obbligo d’andar in estasi per tutta quella roba, pensando che sia dell’arte, mentre nel medesimo istante delle opere d’arte vera ispireranno loro un profondo disprezzo, perchè nei loro circoli quelle opere non sono messe sulla lista delle opere d’arte. E così, per quanto ciò possa parere strano, io sostengo che tra gli uomini della nostra società, alcuni dei quali scrivono dei versi, dei romanzi, delle opere, delle sinfonie, dipingono dei quadri e scolpiscono delle statue, e discutono, condannano, esaltano le loro produzioni a vicenda, sostengo che tra tutti costoro ce n’è appena uno su cento che conosca il sentimento prodotto da un’opera d’arte e distingua questo sentimento dalle diverse forme del divertimento e dell’eccitazione nervosa che ai nostri tempi passano per forme dell’arte. CAPITOLO XIV. Il contagio artistico, criterio dell’arte vera. Eppure c’è un segno certo e infallibile per distinguere l’arte vera dalle sue contraffazioni; ed è ciò che io chiamo il contagio artistico. Se un uomo senza alcun sforzo da parte sua dinanzi all’opera d’un altro uomo, prova un’emozione che lo unisce a questo e ad altri ancora ricevendo contemporaneamente la stessa impressione, ciò significa che l’opera dinanzi a cui si trova è un’opera d’arte. E un’opera può essere quanto vuole bella, poetica, ricca d’effetti e interessante, ma non è un’opera d’arte se non desta in noi quell’emozione tutta particolare, la gioia di sentirci in comunione d’arte coll’autore e cogli altri uomini in compagnia dei quali noi leggiamo, vediamo, sentiamo l’opera in questione. Certamente questo è un segno affatto interiore; e certamente le persone che non hanno mai provato l’impressione prodotta da un’opera d’arte potranno imaginarsi che il divertimento e l’eccitazione nervosa provocati in loro dalle contraffazioni dell’arte costituiscano delle impressioni artistiche. Ma queste persone sono come gli affetti da daltonismo, ai quali nulla può far credere che il verde non è il rosso. E all’infuori di esse per ogni persona che non sia di gusto pervertito e atrofizzato, il segno che ho detto conserva il suo pieno valore e permette di distinguere nettamente l’impressione artistica da tutte le altre. La particolarità principale di questa impressione sta in ciò, che l’uomo che la riceve si trova per così dire confuso coll’artista. Gli pare che i sentimenti che gli sono trasmessi non provengano da un’altra persona, ma da sè stesso, e che tutto ciò che l’artista esprime, egli stesso avrebbe voluto esprimerlo da un pezzo. La vera opera d’arte ha per effetto di sopprimere la distinzione tra la persona a cui è indirizzata e l’artista, come pure tra questa persona e tutte le altre a cui è indirizzata la stessa opera d’arte. Ed è appunto in questa soppressione d’ogni barriera tra gli uomini, in questa unione del pubblico coll’artista che sta la virtù principale dell’arte. Proviamo noi codesto sentimento in presenza d’un’opera? Vuol dire che l’opera è vera arte. Non lo proviamo, e non ci sentiamo uniti coll’autore e cogli altri uomini a cui l’opera è indirizzata? Vuol dire che in quest’opera non c’è arte. E non solo il potere del contagio è il segno infallibile dell’arte, ma il grado di questo contagio è l’unica misura dell’eccellenza artistica. Più è forte il contagio, e più l’arte è vera, in quanto sia arte, indipendentemente dal contenuto, cioè dal valore dei sentimenti che ci trasmette. E il grado del contagio dell’arte dipende da tre condizioni: 1.º dalla maggiore o minore singolarità, originalità e novità dei sentimenti espressi; 2.º dalla maggiore o minor chiarezza con cui sono espressi; 3.º finalmente dalla sincerità dell’artista, cioè dall’intensità più o meno grande colla quale prova egli stesso i sentimenti che esprime. Quanto più i sentimenti sono singolari e nuovi, tanto più agiscono su colui al quale si trasmettono. Costui riceve un’impressione tanto più viva, quanto è più singolare e nuovo lo stato d’animo in cui si trova trasportato. La chiarezza colla quale sono espressi i sentimenti determina in secondo luogo il contagio perchè nella nostra impressione d’essere uniti coll’autore, la nostra soddisfazione è tanto maggiore quanto sono espressi più chiaramente quei sentimenti, che ci sembra di provare già da un pezzo e di essere finalmente riusciti a esprimere. Ma sopra tutto è il grado di sincerità dell’artista che determina il grado del contagio artistico. Quando lo spettatore, l’uditore, il lettore indovinano che l’artista è commosso egli stesso dalla sua opera, che scrive, dipinge e suona per sè stesso, s’assimilano subito i sentimenti dell’artista; e al contrario quando lo spettatore, l’uditore, il lettore capiscono che l’autore non produce la sua opera per sè stesso, e non prova egli stesso ciò che vuole esprimere, tosto nasce in loro un desiderio di resistenza; in tal caso nè la novità del sentimento nè la semplicità dell’espressione riescono a dar loro l’emozione voluta. Io discorro di tre condizioni del contagio artistico; ma in realtà si riducono tutte e tre all’ultima che esige che l’artista provi per proprio conto i sentimenti che esprime. In fatti questa condizione implica la prima, poichè, se l’artista è sincero, esprimerà il suo sentimento come l’ha provato; e attesochè ognuno differisce dagli altri, i sentimenti dell’artista saranno tanto più nuovi per gli altri uomini quanto più profondamente li avrà attinti in sè stesso. E del pari quanto più l’artista è sincero, riesce a esprimere con tanta maggior chiarezza il sentimento che gli preme. Quindi la sincerità è la condizione essenziale dell’arte. Questa condizione è sempre presente nell’arte popolare, mentre è quasi del tutto assente nell’arte delle nostre classi superiori, in cui l’artista ha sempre dinanzi a sè delle considerazioni di guadagno, di convenienza o d’amor proprio personale. Ecco dunque per quale indizio certo si può distinguere l’arte vera dalla sua contraffazione e inoltre misurare il grado d’eccellenza dell’arte in quanto è arte, indipendentemente dal suo contenuto, cioè dalla questione di sapere se esprime dei sentimenti buoni o cattivi. Ma ora si presenta un altro problema: da qual segno si distinguerà nel contenuto dell’arte, ciò che è buono da ciò che è cattivo? CAPITOLO XV. L’arte buona e l’arte cattiva. L’arte è, insieme colla parola, uno degli stromenti dell’unione degli uomini e perciò del progresso, ovverosia dell’avanzare del genere umano verso la felicità. La parola concede agli uomini delle nuove generazioni di conoscere tuttociò che per mezzo dell’esperienza e della riflessione hanno imparato le generazioni precedenti, e i più sapienti tra i contemporanei; l’arte concede agli uomini delle nuove generazioni di provare tutti i sentimenti che hanno provato le generazioni anteriori, come pure i migliori dei contemporanei. E a quella guisa che procede l’evoluzione delle cognizioni, per la quale delle cognizioni più reali e più utili si sostituiscono sempre ad altre meno reali e meno utili, del pari procede l’evoluzione dei sentimenti per mezzo dell’arte. Ai sentimenti inferiori, meno buoni e meno utili per la felicità dell’uomo, si sostituiscono senza posa dei sentimenti migliori, più utili a questa felicità. Tale è la funzione dell’arte. In conseguenza l’arte, rispetto al suo contenuto, è tanto migliore, quanto meglio adempie questa funzione, ed è meno buona, se meno bene vi soddisfa. Ora la stima dei sentimenti, cioè la distinzione tra quelli che sono buoni da quelli meno buoni considerati rispetto alla felicità dell’uomo, codesta stima, ripeto, si fonda sulla coscienza religiosa d’un’età. In tutte le età storiche, e in tutte le società esiste un concetto superiore del significato della vita, proprio di ciascuna età; ed è esso appunto che determina l’ideale della felicità verso cui tendono quell’epoca e quella società. Questo concetto costituisce la coscienza religiosa. E tale coscienza si trova sempre espressa chiaramente da alcuni uomini eletti, mentre il resto dei loro contemporanei la sente con forza maggiore o minore. Talvolta ci pare che questa coscienza manchi in certe società; ma realmente non è già che essa manchi, siamo noi che non vogliamo vederla, sovratutto perchè non va d’accordo col nostro modo di vivere. In una società la coscienza religiosa è come la corrente d’un fiume. Se il fiume scorre gli è perchè c’è l’avviamento della corrente. E se la società vive gli è che c’è una coscienza religiosa la quale determina la corrente che seguono, più o meno a loro insaputa, gli uomini di questa società. Pertanto in ogni società c’è sempre stata e ci sarà sempre una coscienza religiosa. Ed è in conformità di questa coscienza religiosa che si sono sempre valutati i sentimenti espressi dall’arte. È solo sul fondamento di questa coscienza religiosa del tempo loro che gli uomini hanno potuto distinguere, nella varietà infinita del dominio dell’arte, i soggetti capaci di produrre dei sentimenti conformi all’ideale religioso del loro tempo. E l’arte che esprimesse tali sentimenti fu sempre grandemente stimata; mentre quella che traduceva dei sentimenti sgorganti dalla coscienza religiosa di epoche anteriori, dei sentimenti logori e vieti, fu sempre sdegnata e abbandonata. E quanto a tutta quell’arte che esprimeva la varietà infinita degli altri sentimenti d’ogni specie, quella non era ammessa e incoraggiata se non in quanto i sentimenti che essa esprimeva non fossero contrari alla coscienza religiosa. Così per esempio presso i Greci si distingueva, s’approvava e s’incoraggiava l’arte che esprimeva i sentimenti della bellezza, della forza, della virilità (Esiodo, Omero, Fidia), mentre si condannava e si sprezzava l’arte che traduceva dei sentimenti di sensualità grossolana, d’abbiezione, e di tristezza. Presso gli Ebrei si ammetteva e s’incoraggiava l’arte che esprimeva dei sentimenti di sommissione verso il Dio degli Ebrei, mentre si condannava e si disprezzava l’arte che esprimeva dei sentimenti d’idolatria; e tutto il resto dell’arte, racconti, canti, ornamenti delle case, vasellame, vesti, purchè non cozzasse colla coscienza religiosa, non era nè condannato nè incoraggiato. Così l’arte, sempre e dappertutto, era stimata secondo il suo contenuto; e così dovrebbe sempre essere stimata, poichè questo modo di considerar l’arte defluisce dall’essenza stessa della natura umana, e questa essenza è sempre invariabile. Non ignoro che secondo un’opinione ai nostri tempi diffusa, la religione è un pregiudizio di cui l’umanità s’è finalmente liberata; e da ciò risulterebbe che nel tempo nostro non c’è coscienza religiosa comune a tutti gli uomini, la quale quindi possa servir di base a una valutazione dell’arte. E so pure che questa opinione è ritenuta quella delle classi più colte della nostra società. Degli uomini, che non volendo riconoscere il vero senso del Cristianesimo, inventano ogni sorta di dottrine filosofiche ed estetiche per nascondere ai propri occhi l’irragionevolezza e la bassezza della loro vita, tali uomini non possono avere altra opinione. Sinceramente o no essi confondono l’idea d’un culto religioso con quella d’una coscienza religiosa; e respingendo il culto, s’imaginano di respingere colla medesima mossa la coscienza religiosa. Ma tutti questi assalti contro la religione, e questi tentativi di stabilire una filosofia contraria alla coscienza religiosa del nostro tempo, tuttociò prova abbastanza chiaramente che questa coscienza esiste, e che essa accusa la vita degli uomini che l’attaccano, e la contraddice. Se nell’umanità c’è un progresso, cioè un cammino per cui s’avanza, dev’esserci necessariamente qualche cosa che designi agli uomini la direzione da seguire in questo cammino. Ora questo è sempre stato il cómpito delle religioni. Tutta la storia ci mostra che il progresso dell’umanità è sempre avvenuto sotto la guida d’una religione. E poichè il progresso non s’arresta, poichè in conseguenza deve aver luogo anche nel nostro tempo, se ne conchiude che anche il nostro tempo ha una religione propria. E se la nostra età, come tutte le altre, ha la sua religione, egli è sul fondamento di questa religione che deve essere stimata l’arte nostra, e debbono essere stimate e incoraggiate quelle sole opere d’arte che sgorgano dalla religione del nostro tempo mentre tutte le opere contrarie a questa religione devono essere condannate, e tutto il resto dell’arte dev’essere trattato con indifferenza. Ora, la coscienza religiosa del nostro tempo in termini generali, consiste nel riconoscere che la nostra felicità materiale e spirituale, individuale e collettiva, momentanea e permanente, risiede nella fraternità di tutti gli uomini, nella nostra unione per una vita comune. Questa coscienza non solo si trova affermata sotto le forme più diverse, dagli uomini del nostro tempo, ma è dessa che serve di filo conduttore a tutto il lavoro dell’umanità, lavoro che ha per oggetto da una parte la soppressione di tutte le barriere fisiche e morali, che s’oppongono all’unione degli uomini, e dall’altra l’assodamento di principii comuni a tutti gli uomini che possano unirli tutti in una stessa fraternità universale. Egli è pertanto sul fondamento di questa coscienza religiosa che dobbiamo valutare tutte le manifestazioni della nostra vita, e tra queste, l’arte nostra; distinguendo tra tutto il resto nei prodotti di quest’arte quelli che esprimono dei sentimenti in accordo con questa coscienza religiosa, e respingendo e condannando tutti quelli che sono contrarii a questa coscienza. L’errore principale che commisero le classi superiori della società al tempo del così detto Rinascimento e che noi continuiamo a commettere dopo d’allora, non risiede tanto nell’aver l’uomo cessato di pregiare il senso dell’arte religiosa, quanto piuttosto nell’avere stabilito al posto dell’arte religiosa scomparsa un’arte indifferente che non ha per fine che il semplice divertimento e non merita punto d’essere tanto stimata e incoraggiata. Uno dei Padri della Chiesa diceva che la peggior disgrazia per gli uomini non è quella di non conoscere Dio ma di aver messo al posto di Dio ciò che non è Dio. Per l’arte siamo nello stesso caso. La peggior disgrazia delle classi superiori del nostro tempo non è il mancare d’un’arte religiosa, ma che al posto elevato dove non meritava d’essere collocata che questa sola arte, sola importante e degna d’essere incoraggiata, hanno innalzato un’arte indifferente, o anche più di sovente funesta, che obbedisce al fine di divertire alcuni uomini, ed è per ciò stesso contraria al principio cristiano dell’unione universale, che forma il fondo della coscienza religiosa del nostro tempo. Senza dubbio, l’arte che soddisferebbe alle aspirazioni religiose del nostro tempo non potrebbe aver nulla di comune colle qualità d’arte delle età passate; ma questa differenza non toglie che l’ideale dell’arte religiosa del nostro tempo sia perfettamente chiaro e definito per chiunque riflette e non s’allontana di proposito dalla verità. Nelle età anteriori, quando la coscienza religiosa non univa ancora che un gruppo solo d’uomini — i cittadini ebrei, ateniesi, o romani — i sentimenti espressi dall’arte di quei tempi scaturivano dal desiderio di potenza, di grandezza, di gloria propria di ciascuno di quei gruppi, e l’arte poteva anche assumere come eroi degli uomini che adoperavano per il bene del loro gruppo la violenza o l’astuzia (Ulisse, Ercole, e in generale gli eroi antichi). Al contrario la coscienza religiosa del nostro tempo non ammette dei gruppi separati tra gli uomini, ma esige l’unione di tutti gli uomini senza eccezione, e sopra tutte le altre virtù colloca l’amor fraterno dell’umanità intiera; perciò i sentimenti che deve esprimere l’arte del nostro tempo non solo non possono coincidere con quelli delle arti anteriori, ma si trovano per forza in opposizione con quelli. E se finora un’arte cristiana, ma veramente cristiana, non s’è mai potuta stabilire, ciò dipende per l’appunto da questo: che il concetto religioso cristiano non è stato uno di quei piccoli passi avanti, quali ne fa di continuo il genere umano, ma bensì una rivoluzione enorme, destinata a modificare da cima a fondo, presto o tardi, il modo di vivere degli uomini e i loro sentimenti. Il concetto cristiano ha dato una direzione differente e nuova a tutti i sentimenti dell’umanità; quindi doveva pure di necessità modificare totalmente la materia e il significato dell’arte. Ai Greci fu possibile trar partito dall’arte dei Persiani, e ai Romani da quella dei Greci, come pure agli Ebrei da quella degli Egiziani, essendo identica la base dei loro ideali. Infatti l’ideale dei Persiani era la grandezza e la prosperità dei Persiani; quello dei Greci la grandezza e la prosperità dei Greci. Così una stessa arte si poteva trasportare in un nuovo ambiente e adattarsi ad altre nazioni. Ma l’ideale cristiano al contrario ha modificato, anzi rovesciato tutti gli altri di modo che come si dice nel Vangelo: “Ciò che era grande nel cospetto degli uomini, è diventato piccolo nel cospetto di Dio.„ Quest’ideale non fu più riposto nella potenza, come era quello degli Egiziani, e nemmeno nella ricchezza, come quello dei Fenici, o nella bellezza, come quello dei Greci, ma nell’umiltà, nella rassegnazione, nell’amore. L’eroe, oramai, non fu più il ricco, ma Lazzaro il mendicante. Maria l’Egiziaca parve degna d’essere ammirata non all’epoca della sua bellezza, ma in quella del suo pentimento. Non si celebrò come virtù l’ammassare ricchezze, ma il rinunciare ad esse. E l’oggetto supremo dell’arte non fu più la glorificazione della riuscita, ma la rappresentazione d’un’anima umana, così riboccante d’amore che rendeva possibile al martire di compiangere e d’amare i suoi persecutori. E così si spiega perchè il mondo cristiano duri tanta fatica a svincolarsi dall’arte pagana a cui s’è avvezzo. Il contenuto dell’arte religiosa cristiana è per gli uomini cosa tanto nuova, tanto differente dal contenuto dell’arte anteriore, che essi provano di leggeri l’impressione che codest’arte cristiana sia la negazione dell’arte, e s’aggrappano disperatamente al loro antico ideale artistico. Ma d’altro lato codesto concetto critico, oramai non derivando più dalla nostra coscienza religiosa, ha perduto per noi ogni significato, talchè, per amore o per forza, siamo costretti a staccarcene. L’essenza della coscienza cristiana sta in ciò che ogni uomo riconosce la sua discendenza divina, e come corollario di questa discendenza l’unione di tutti gli uomini con Dio e tra di loro, secondochè è scritto nel Vangelo (S. Giov., XVII, 21), e ne risulta che la sola vera materia dell’arte cristiana debbono essere tutti i sentimenti atti a effettuare l’unione degli uomini con Dio e tra di loro. Queste parole _l’unione degli uomini con Dio e tra di loro_, per quanto possano sembrare oscure a menti offuscate da preconcetti, hanno un senso perfettamente chiaro. Significano che l’unione cristiana, contrariamente alla unione parziale e esclusiva di alcuni uomini, unisce tra di loro tutti gli uomini senza eccezione. Ora è proprietà essenziale dell’arte, di ogni arte, quella d’unire gli uomini tra loro. Ogni arte ha per effetto che gli uomini che ricevono il sentimento trasmesso dall’artista si trovano per questo fatto uniti, prima coll’artista stesso, e poi con tutti gli altri uomini che ricevono la medesima impressione. Ma l’arte non cristiana unendo tra di loro alcuni uomini, per ciò appunto isola codesti uomini dal resto dell’umanità, di modo che questa unione parziale è spesso causa d’allontanamento rispetto ad altri uomini. L’arte cristiana al contrario è quella che unisce tutti gli uomini senza eccezione. E può ottenere questo fine in due modi: o evocando in tutti gli uomini la coscienza della loro parentela con Dio e tra di loro; oppure anche evocando in tutti gli uomini uno stesso sentimento, per semplice che sia, purchè non sia contrario al Cristianesimo e possa estendersi a tutti gli uomini senza eccezioni. Solo questi due ordini di sentimenti possono formare al nostro tempo la materia dell’arte _buona_, quanto al contenuto. Pertanto oggigiorno ci possono essere due specie d’arte cristiana: 1.º l’arte che esprime dei sentimenti derivati dal nostro concetto religioso, cioè dal concetto della nostra parentela con Dio e cogli altri uomini; 2.º l’arte che esprime dei sentimenti accessibili a tutti gli uomini del mondo intero. La prima di queste due forme è quella dell’arte _religiosa_ nel senso stretto del vocabolo: la seconda quella dell’arte _universale_. L’arte religiosa poi si può dividere in due specie: un’arte superiore e un’arte inferiore. L’arte religiosa superiore è quella che esprime direttamente e immediatamente dei sentimenti derivati dall’amor di Dio e dall’amor del prossimo; l’arte religiosa inferiore è quella che esprime dei sentimenti di malcontento, di delusione, di disprezzo per tutto ciò che è contrario all’amor di Dio e del prossimo. E l’arte universale alla sua volta si può dividere in arte superiore accessibile a tutti gli uomini sempre e dappertutto, e in arte inferiore accessibile solamente a tutti gli uomini d’una certa nazione e d’una certa epoca. La prima delle due grandi forme dell’arte, quella dell’arte religiosa, superiore o inferiore, si manifesta sopratutto nelle lettere, e talvolta pure nella pittura e nella scultura; la seconda forma, quella dell’arte universale, esprimente sentimenti accessibili a tutti, può concretarsi nelle lettere, nella pittura, nella scultura, nella danza, nell’architettura, ma particolarmente nella musica. Chè se ora mi chiedeste di designare nell’arte moderna dei modelli di ciascuna di queste forme dell’arte, e in primo luogo dei modelli dell’arte religiosa, sia superiore sia inferiore, indicherò di preferenza tra i contemporanei Vittore Hugo coi suoi _Miserables_ e _Pauvres gens_; indicherò ancora tutti i romanzi e tutte le novelle di Carlo Dickens, le _Due Città_, le _Campane del Natale_, ecc.; indicherò la _Capanna dello zio Tom_, e le opere del Dostojevsky, sovratutto la sua _Casa dei morti_, e _Adam Bede_ di Giorgio Eliot. Nella pittura contemporanea, strano a dirsi, esistono appena opere d’arte di questa fatta, che rendano il sentimento cristiano dell’amor di Dio e del prossimo; o quelle che se ne trovano, appartengono in genere a pittori mediocri. Ci sono bensì in gran quantità dei quadri di scene del Vangelo; ma non sono che rappresentazioni storiche, ricostituite con più o meno di particolari; nessuna esprime, nè potrebbe esprimere, il sentimento religioso che manca ai loro autori. C’è pure un buon dato di quadri che rendono i sentimenti personali di certi pittori. Ma dei quadri che esaltino la rinunzia a sè stessi e la carità cristiana non ne conosco. È molto che di quando in quando si trovi nell’opera di qualche pittore secondario, un quadro che esprima sentimenti di bontà e di compassione. Altri quadri, d’un genere prossimo, ci rappresentano con simpatia e rispetto la vita dei lavoratori. Così per esempio l’_Angelus_ del Millet, o il suo _Homme à la houe_; tali ancora certi dipinti di Jules Breton, del Lhermitte, del Defregger, ecc. Potrei pure citare qualche quadro appartenente fino a un certo segno all’arte religiosa inferiore, vale a dire eccitante in noi l’odio per ciò che è contrario all’amor di Dio e del prossimo; per esempio il _Tribunale_ del pittore Gay. Ma anche questi quadri sono rarissimi. La cura della tecnica e della bellezza il più delle volte offusca nei pittori il sentimento. Per esempio il celebre quadro del Gérôme, _Pollice verso_, non esprime punto l’orrore del soggetto che rappresenta, ma piuttosto il piacere provato dall’artista nel dipingere un bello spettacolo. Ma stenterei ancora di più a designare nell’arte contemporanea dei modelli della seconda forma dell’arte, quella che esprime dei sentimenti accessibili a tutti gli uomini, o anche solo a un popolo intiero. Si trovano bene delle opere che, per la natura degli argomenti, potrebbero essere classificate in questa categoria: per esempio il _Don Chisciotte_, le commedie di Molière, il _Pickwick Club_ del Dickens, i racconti di Gogol, di Puschkin, alcuni del Maupassant, ed anche i romanzi di Dumas padre; ma tutte queste opere esprimono dei sentimenti così individuali, e lasciano tanto posto alle particolarità dei tempi e dei luoghi, e sopratutto hanno un fondo così povero, che non sono accessibili se non agli uomini d’un’epoca molto ristretta, e non possono sostenere il confronto coi capolavori dell’arte universale d’una volta. Prendete, per esempio, la storia di Giuseppe, figlio di Giacobbe. Dei fratelli di Giuseppe che lo vendono a mercatanti per gelosia del favore che egli gode presso il padre; la moglie di Putiphar che vuol sedurre Giuseppe; questi che perdona i fratelli e il resto: eccovi dei sentimenti accessibili al contadino russo, al chinese, all’africano, al bambino e al vegliardo, al letterato e all’illetterato; e tutto ciò è scritto con tanta sobrietà, senza particolari inutili, che potete trasportare il racconto in qualunque altro ambiente senza che perda nulla della sua chiarezza e del suo patetico. Come sono diversi i sentimenti di Don Chisciotte, o degli eroi di Molière, benchè Molière sia l’artista più universale, e perciò il più grande dell’arte moderna! E quanto sono ancora più diversi i sentimenti di Pickwic o degli eroi di Gogol! Essi sono d’uno stampo così speciale, che per dar loro tutto il risalto, gli autori dovettero sopraccaricarli di particolari di tempo e di luogo. E questa sovrabbondanza di particolari li rende inaccessibili a tutti coloro che vivono in un ambiente diverso da quello descritto dall’autore. L’autore della storia di Giuseppe non ha creduto necessario descriverci minutamente, come si farebbe ora, la veste insanguinata di Giuseppe, o il vestire di Giacobbe e la casa che egli abitava, o l’acconciatura della moglie di Putiphar. I sentimenti espressi in questo racconto sono così forti, che tutti i particolari di quel genere sembrerebbero superflui e nocerebbero alla loro espressione. L’autore non ha conservato che i tratti indispensabili, come per esempio quando ci dice che Giuseppe, trovando i suoi fratelli, andò in una camera vicina per piangere. Ed è in virtù di quest’assenza di particolari inutili che il racconto è accessibile a tutti gli uomini, che commuove gli uomini di tutte le nazioni, di tutte le età, di tutte le condizioni, che è giunto sino a noi attraverso ai secoli e sopravviverà a noi delle migliaia d’anni. Provatevi al contrario a spogliare dei particolari accessorii i migliori romanzi del nostro tempo e vedrete quello che ne resterà! Insomma nella letteratura moderna non è quasi possibile trovare qualche opera che soddisfi pienamente alle condizioni dell’universalità. E le poche opere che, per il loro contenuto, potrebbero soddisfare a questa condizione, per lo più sono guaste da quello che si chiama il _realismo_, e che si potrebbe piuttosto chiamare il _provincialismo_ dell’arte. Lo stesso avviene nella musica e per le stesse ragioni. In seguito all’impoverimento del fondo, cioè dei sentimenti, le melodie dei musicisti moderni presentano un vuoto desolante. Per rinforzare l’impressione di siffatte melodie così vuote, i musicisti s’ingegnano di sopraccaricarle con un mondo d’armonie e di modulazioni complicate, che sono intelligibili solo a una piccola cerchia d’iniziati, a una certa scuola musicale. La melodia, ogni melodia, è libera e può essere intesa da tutti; ma quando si trova vincolata con una certa armonia, non è più accessibile che agli uomini famigliarizzati con questa armonia; essa diventa estranea non solo agli uomini delle altre nazioni, ma anche a tutti quelli fra i compaesani dell’autore che non sono avvezzi come lui a certe forme dello svolgimento musicale. All’infuori delle marcie e delle danze, che esprimono dei sentimenti inferiori, ma veramente comuni alla massa degli uomini, il numero delle opere rispondenti alla nostra definizione dell’arte universale è grandemente ristretto. Citerò, per esempio, la celebre _Aria_ di Bach, il _Notturno in mi bemolle maggiore_ di Chopin, e una decina di passi scelti nelle opere di Haydn, di Mozart, di Weber, di Beethoven, e di Chopin.[16] Anche nella pittura si offre il medesimo fenomeno, e al pari dei letterati e dei musicisti, i pittori suppliscono alla povertà del sentimento colla profusione degli accessorii, restringendo così il significato delle loro opere. Tuttavia è molto maggiore nella pittura che nelle altre arti il numero delle opere che soddisfanno alle condizioni dell’universalità, cioè che esprimono dei sentimenti comuni a tutti gli uomini. Ritratti, paesaggi, pittura di genere, potrei addurre una quantità d’opere di pittori moderni, e anche contemporanei, che esprimono dei sentimenti tali che tutti gli uomini sono in grado di capirli. Riassumendo, non ci sono che due sorta d’arte cristiana, cioè d’arte che oggi si debba considerare come buona; e tutto il resto, tutte le opere che non entrano in queste due categorie, devono essere considerate come arte cattiva che non solo non merita d’essere incoraggiata, ma merita al contrario d’essere condannata e disprezzata, avendo per effetto non già di unire, ma di separare gli uomini. Nelle lettere questo è il caso dei drammi, dei romanzi, delle poesie che esprimono dei sentimenti esclusivi, proprii alla sola classe dei ricchi e degli oziosi, dei sentimenti d’onore aristocratico, di pessimismo, di corruzione e di pervertimento dell’anima risultante dall’amore sessuale. In pittura si dovrebbero tener per cattive tutte le opere che rappresentano i piaceri e i divertimenti della vita ricca e oziosa, e anche tutte le opere simboliste, nelle quali il significato del simbolo non è accessibile che a un piccolo numero di persone, e sovrattutto le opere rappresentanti dei soggetti voluttuosi, tutte quelle nudità scandalose che oggidì riempiono i musei e le esposizioni. E alla stessa categoria d’opere cattive e condannabili appartiene tutta la musica del nostro tempo, musica che non esprime se non dei sentimenti esclusivi, e non è accessibile che ad uomini di gusto depravato. Tutta la nostra musica d’opera e di camera, cominciando da Beethoven, la musica di Schumann, di Berlioz, di Liszt, di Wagner, tutta intesa a esprimere dei sentimenti che non possono capire se non quelli che coltivarono in sè stessi una sensibilità nervosa di genere morboso, tutta questa musica, salvo rare eccezioni, partecipa dell’arte che si deve considerare come cattiva. — Come!, si griderà, la nona sinfonia entra nella categoria dell’arte cattiva? — Certamente! risponderò io. Tutto ciò che ho scritto e che s’è finito di leggere, l’ho scritto solo per giungere a stabilire un criterio chiaro e ragionevole, che ci concedesse di giudicare il valore delle opere d’arte. E ora questo criterio mi prova nel modo più lampante che la nona sinfonia del Beethoven non è una buona opera d’arte. D’altro lato intendo che ciò paia strano e sorprendente ad uomini allevati nell’adorazione di certe opere e dei loro autori. Ma non dovrei io perciò inchinarmi alla verità, quale me l’indica la mia ragione? La nona sinfonia del Beethoven è riputata una delle più grandi opere d’arte. Per rendermi conto del come stia la cosa, mi propongo prima di tutto il seguente quesito: quest’opera esprime essa un sentimento religioso d’ordine superiore? E rispondo subito con una denegazione, perchè in nessun caso la musica saprebbe esprimere dei sentimenti simili. Mi domando di nuovo: quest’opera se non può appartenere alla categoria superiore dell’arte religiosa, possiede almeno la seconda qualità dell’arte vera del nostro tempo, cioè quella d’unire tutti gli uomini in un medesimo sentimento? E anche questa volta non posso rispondere che negativamente; perchè in primo luogo non vedo che i sentimenti espressi da questa sinfonia possano in alcuna guisa unire gli uomini che non siano stati specialmente educati e preparati a subire quell’_ipnotizzazione_ artificiale; e poi non giungo a rappresentarmi una folla d’uomini normalmente costituiti che possa capire qualche cosa in quest’opera enorme e complicata, salvo dei brevi passi annegati in un oceano d’incomprensibilità. E così, per amore o per forza, debbo conchiudere che questo lavoro appartiene a ciò che è per me l’arte cattiva. Per un caso singolare, la poesia dello Schiller introdotta nell’ultima parte della sinfonia, enuncia, se non chiaramente, almeno espressamente questo pensiero: che il sentimento (Schiller veramente non parla che del sentimento della gioia) unisce tutti gli uomini e genera in essi l’amore. Ma oltrechè questi versi non sono cantati che alla fine della sinfonia, la musica della sinfonia intiera non corrisponde affatto al pensiero espresso dallo Schiller, poichè è una musica affatto particolarista, che non contenta tutti gli uomini, ma solo alcuni uomini cui essa contribuisce così a isolare dal resto dell’umanità. Tale è, a mio giudizio, il modo in cui si deve procedere per sapere se un’opera che è creduta opera d’arte è veramente un’opera d’arte oppure ne è la semplice contraffazione; e per sapere in seguito se un’opera d’arte vera è buona o cattiva, quanto al suo contenuto, cioè merita d’essere incoraggiata, o non merita che d’essere disprezzata. Ed è solo procedendo così che avremo la possibilità di discernere, per entro la massa delle pretese opere d’arte del nostro tempo, le poche opere che costituiscono realmente per l’anima un alimento reale, importante, necessario, mentre tutto il resto non è che arte inutile o nociva, o anche una semplice contraffazione dell’arte. È solo procedendo così che saremo in grado di evitare le conseguenze perniciose dell’arte cattiva, e di godere di quegli effetti benefici, indispensabili per la nostra vita spirituale, che risultano dall’arte vera e buona e che costituiscono il suo fine. CAPITOLO XVI. Le conseguenze del cattivo funzionamento dell’arte. L’arte è uno dei due organi del progresso umano. Per mezzo della parola l’uomo scambia il suo pensiero, per mezzo dell’arte scambia i suoi sentimenti con tutti gli uomini non solo del suo tempo, ma pure delle generazioni passate e future. Ed è nella natura dell’uomo di servirsi di questi due organi, talchè il pervertimento dell’uno dei due non può mancare di recar con sè delle conseguenze funeste per la società in cui avviene. Le conseguenze di questo pervertimento possono essere di due sorta: cioè dapprima l’incapacità della società a compiere gli atti che si dovevano compiere per mezzo dell’organo pervertito; secondo, un cattivo funzionamento dell’organo pervertito. Ora entrambe queste conseguenze si sono prodotte nella nostra società. Essendo pervertito l’organo dell’arte, la società delle classi superiori fu privata di tutte le operazioni che quest’organo doveva compiere. Diffondendosi tra di noi in proporzioni enormi delle contraffazioni dell’arte destinate unicamente a divertire e a distrarre gli uomini, e insieme con esse, delle opere più artistiche, ma di un’arte particolare, esclusiva, inutile o nociva, — esse hanno atrofizzato o snaturato nella maggior parte degli uomini della nostra società la facoltà di sentire il contagio delle vere opere d’arte; e per conseguenza la nostra società s’è trovata impedita di provare quei sentimenti superiori, verso i quali sempre tendeva l’umanità, e che sola l’arte poteva trasmettere agli uomini. Tutto ciò che s’è fatto di buono nell’arte, tutto ciò resta estraneo a una società privata del mezzo di essere commossa dall’arte; e in luogo di ciò questa società ammira delle contraffazioni menzognere, oppure un’arte inutile e vana, che essa si compiace di credere molto importante. Gli uomini del nostro tempo e della nostra società ammirano nella poesia i Baudelaire, i Verlaine, i Moréas, gli Ibsen e i Maeterlinck; nella pittura i Manet, i Monet, i Puvis de Chavannes, i Burne-Jones, i Boecklin e gli Stück; nella musica i Wagner, i Liszt e i Riccardo Strauss; ma l’arte vera, non dico la più elevata, ma persino la più semplice, essi sono assolutamente incapaci di capirla. E ne risulta che nelle nostre classi superiori, private così della facoltà di subire il contagio delle opere d’arte, gli uomini crescono, sono allevati e vivono senza subire l’azione dell’arte atta a raddolcire e migliorare; e da ciò viene quest’altro risultato fatale che non solo essi non si avviano verso il bene e verso la perfezione, ma al contrario, con tutto lo sviluppo della loro pretesa civiltà, diventano sempre più selvaggi, più grossolani e più induriti di cuore. Tale è la conseguenza del mancare nella nostra società quella funzione che deve esser compiuta dall’arte, come organo indispensabile. Ma le conseguenze che derivano dal cattivo funzionare di quest’organo sono ancora più funeste; e sono molte. La prima di codeste conseguenze salta agli occhi. È l’enorme consumo di lavoro umano per opere non solo inutili, ma spesso anche dannose, un consumo di lavoro e di vite senza alcun vantaggio che lo compensi. Si freme al pensiero di tutte le fatiche e di tutte le privazioni che sopportano milioni d’uomini al solo scopo di stampare per dodici e anche quattordici ore al giorno dei libri così detti artistici, che non servono ad altro che a diffondere la depravazione tra gli uomini, o ancora allo scopo di diffondere codesta depravazione per mezzo dei teatri, dei concerti, delle esposizioni. Ma ciò che è ancora più spaventevole è di pensare che dei bambini belli, pieni di vita, dotati per il bene, sono sacrificati all’uscir dalla culla gli uni a sonare delle scale per sei, otto, dieci ore al giorno, gli altri a ballare in punta di piedi, altri a solfeggiare, altri a disegnare sull’antico, sul nudo, oppure a scrivere delle frasi vuote di senso secondo le regole d’una certa rettorica. D’anno in anno i disgraziati vanno perdendo, per questi esercizi funesti, tutte le loro forze fisiche e intellettuali, tutta la loro attitudine a intendere la vita. Si parla molto dell’orribile e lamentevole spettacolo che consiste nel vedere dei piccoli acrobati che si fanno passare le gambe dietro la nuca; ma non è uno spettacolo ancora più sinistro quello di vedere dei bambini di dieci anni che dànno dei concerti, e sopratutto di vedere dei collegiali di dieci anni che sanno a memoria le eccezioni della grammatica latina? In ciò essi perdono le loro forze fisiche e intellettuali e ad un tempo si depravano in ordine alla morale, diventano incapaci di qualunque opera utile per gli uomini. Assumendo nella società la parte di giocolieri dei ricchi, perdono ogni sentimento della dignità umana. Il bisogno di lodi si sviluppa in essi a un grado così mostruoso che soffrono per tutta la vita a cagione di questo eccesso e spendono tutto il loro essere morale nel voler saziare un bisogno insaziabile. E c’è una cosa ancora più tragica; ed è che questi uomini che sacrificano tutta la loro vita all’arte, che sono perduti per sempre per la vita vera a cagione dell’amore dell’arte, nonchè recare alcun vantaggio a codesta arte, le cagionano un danno immenso. Poichè nelle accademie, nei collegi, nei conservatorj imparano il modo di contraffare l’arte, e una volta che l’hanno appresa, ne sono tanto pervertiti, che diventano incapaci per sempre di concepire l’arte vera, e sono essi che contribuiscono a diffondere quest’arte contraffatta o snaturata di cui è pieno il mondo. Un’altra conseguenza non meno funesta del cattivo funzionare dell’arte è, che, producendo essa, in condizioni così spaventevoli, l’esercito degli artisti di professione, procura ai ricchi la possibilità di condurre la vita che conducono, e che non solo non è buona, ma è altresì contraria ai principî che professano. Vivere come vivono delle persone ricche e oziose del tempo nostro, sovratutto le donne, lontane dalla vita, in condizioni artificiali, coi muscoli atrofizzati o sformati dalla ginnastica, coll’energia vitale incurabilmente affievolita, ciò non sarebbe possibile senza quello che chiamano l’arte. Solo questa pretesa arte fornisce il divertimento e la distrazione che distolgono i nostri occhi dall’assurdità della nostra vita, e ci salvano dalla noia che risulta da una vita simile. Togliete ai ricchi oziosi i teatri, i concerti, le esposizioni, il pianoforte, i romanzi, di cui si occupano nella certezza che queste sono occupazioni raffinate ed estetiche; togliete ai mecenati che comprano i quadri, che incoraggiano i musicisti, che dànno pane ai letterati, togliete loro la possibilità di proteggere quest’arte che credono così importante; e — non saranno più in grado di continuare nella loro vita, e morranno tutti di tristezza e di noia, e tutti riconosceranno l’assurdità e l’immoralità del loro modo di vivere. Una terza conseguenza del cattivo funzionamento dell’arte, è la confusione e lo scompiglio che questo cattivo funzionamento genera nella mente dei ragazzi e dei popolani. Negli uomini che non sono stati pervertiti dalle teorie menzognere della nostra società, negli artigiani e nei ragazzi, la natura ha posto un concetto ben definito di ciò che merita d’essere biasimato o lodato. Secondo l’istinto del popolo e dei ragazzi la lode non compete di diritto che o alla forza fisica (Ercole, gli eroi, i conquistatori) o alla forza morale (Sakya Muni che rinuncia alla bellezza e al potere per salvare gli uomini, Cristo che muore sulla croce per il nostro bene, i santi, i martiri, ecc.). Queste sono nozioni d’una perfetta chiarezza. Le anime semplici e rette capiscono che è impossibile non rispettare la forza fisica, perchè s’impone da sè stessa al rispetto; e neppure possono far a meno di rispettare la forza morale dell’uomo che lavora per il bene sentendosi attratti verso di essa da tutto il loro essere interno. Ed ecco che queste anime semplici s’accorgono che oltre agli uomini rispettati per la loro forza fisica e morale, ce ne sono degli altri più rispettati, più ammirati, più ricompensati di tutti gli eroi della forza e del bene, e ciò semplicemente perchè sanno cantare, ballare, o scrivere dei versi. Esse vedono che i cantanti, i ballerini, i pittori, i letterati guadagnano dei milioni, che sono riveriti meglio dei santi; e queste anime semplici — i ragazzi e i popolani — sentono crescere in sè stessi la confusione delle idee. Quando, cinquant’anni dopo la morte di Puschkin, le sue opere furono divulgate tra il popolo, e gli s’innalzò una statua a Mosca, ricevetti più di dieci lettere di contadini che mi chiedevano perchè si esaltava codesto Puschkin. Pochi giorni fa un piccolo borghese di Saratof — del resto persona istruita — è venuto a Mosca per rimproverare il clero d’aver approvato l’innalzamento d’una statua al signor Puschkin. Infatti imaginiamoci solo lo stato mentale d’un popolano che legga nel suo giornale, o senta dire che il clero, il governo, tutti gli uomini migliori della Russia innalzano con entusiasmo un monumento a un grand’uomo, a un benefattore, a una gloria nazionale, Puschkin, di cui sin’allora non ha mai inteso parlare. Da ogni parte gli si discorre di Puschkin; ed egli suppone che, se si rendono tali omaggi a quest’uomo, bisogna che abbia fatto qualche cosa di straordinario, di molto forte, o dl molto buono. Procura perciò di sapere chi fosse Puschkin; e venendo a sapere che Puschkin non era un eroe, e nemmeno un generale d’armata, ma semplicemente uno scrittore, ne conchiude che certo Puschkin dovette essere un sant’uomo, un educatore benefico. Quindi s’affretta a leggere o a farsi leggere la sua vita e le sue opere. Imaginiamoci ora il suo sbalordimento quando scopre che il Puschkin fu un uomo di costumi più che leggeri, che morì in duello, cioè mentre tentava d’uccidere un altr’uomo e, che tutto il suo merito consiste nell’avere scritto dei versi intorno all’amore! Che gli eroi, che Alessandro il Grande, o Gengiskhan, o Napoleone siano stati uomini grandi, egli lo capisce perchè sente che tutti costoro avrebbero potuto annientarlo, lui e migliaia di suoi simili. Capisce pure che Budda, Socrate e Cristo siano stati grandi, perchè sente e sa che egli stesso e tutti gli uomini dovrebbero rassomigliare a quelli là. Ma come un uomo possa essere grande per aver scritto dei versi intorno all’amore delle donne, è cosa che egli non può assolutamente intendere. E lo stesso turbamento si deve produrre nel cervello d’un contadino bretone o provenzale, allorchè ode che si vuol innalzare un monumento, una statua, come se ne innalzano alla Vergine, e che s’innalzerà al Baudelaire, l’autore delle _Fleurs du mal_, o al Verlaine, uno scapestrato che scrisse dei versi incomprensibili. E che scompiglio deve nascere nel cervello dei popolani quando odono che la Patti o la Taglioni ricevono cento mila lire per una stagione, e che ci sono degli autori di romanzi che guadagnano la stessa somma perchè sanno descrivere delle scene d’amore! Lo stesso fenomeno si manifesta nel cervello dei ragazzi. Mi ricordo d’avere, in altri tempi, provato io stesso questo stupore e questo turbamento. È una conseguenza fatale del cattivo funzionamento dell’arte nella nostra società. Una quarta conseguenza del quale, sta in ciò che gli uomini delle classi superiori, vedendo riprodursi sempre più di spesso il contrasto tra la bellezza e il bene, giungono a considerare l’ideale della bellezza come il più elevato dei due e si svincolano così dai doveri della morale. Invertendo le parti, costoro, invece di riconoscere che l’arte ammirata da loro è una cosa inferiore, pretendono che per contro precisamente la moralità sia una cosa inferiore e spoglia di significato per esseri giunti al grado di sviluppo al quale pensano d’esser giunti essi stessi. Questa conseguenza del pervertimento dell’arte s’era già fatta sentire da un pezzo nella nostra società; ma al presente ha preso uno sviluppo straordinario, grazie agli scritti del celebre Nietzsche e ai paradossi dei decadenti e degli esteti inglesi, che, seguendo Oscar Wilde, prendono volontieri ad argomento dei loro scritti la sovversione d’ogni morale e l’apoteosi della perversità. Questo concetto dell’arte ha trovato il suo contraccolpo nell’insegnamento filosofico. Ho ricevuto ultimamente dall’America un libro intitolato _La Sopravvivenza del più adatto, o la Filosofia della Forza_, per Ragnar Redbeard (Chicago, 1897). L’idea fondamentale di questo libro, espressa fin dalla prefazione, è questa, che è assurdo valutare più oltre il bene secondo la filosofia mendace dei profeti ebrei e dei “messia lagrimosi„. Il diritto, per codesto autore, non si fonda che sulla forza. Tutte le leggi, tutti i precetti che c’insegnano a non fare agli altri quello che non vorremmo si facesse a noi, tutto ciò, per sè stesso, non ha senso, e non serve a dirigere gli uomini se non per il suo accompagnamento di bastonate, di sciabolate e di prigione. L’uomo veramente libero non deve obbedire ad alcuna legge, umana nè divina; ogni obbligo è indizio di degenerazione; la mancanza d’obblighi è il distintivo degli eroi. Gli uomini devono cessare di credersi vincolati da errori imaginati per nuocer loro. L’universo intiero non è che un campo di battaglia. La giustizia ideale sta in questo: che i vinti siano sfruttati, torturati, disprezzati. L’uomo libero e audace può conquistare il mondo. E, come conseguenza, gli uomini devono essere eternamente in guerra, per la vita, per il suolo, per l’amore, per la donna, per il potere, per l’oro. Tutta la terra coi suoi frutti, è “la preda del più ardito„. A vederle esposte così, sotto forma scientifica, queste idee non possono a meno di scandalizzare. Ma in realtà si trovano fatalmente e implicitamente contenute nei concetti che assegnano all’arte la bellezza per oggetto. È l’arte delle nostre classi superiori che ha prodotto e svolto in certi uomini questo ideale del _superuomo_ quantunque codesto ideale sia già stato quello di Nerone, di Stenka-Razine, di Gengiskhan, di Napoleone, di tutti i loro pari, avventurieri e sorti dal nulla. E c’è da sgomentarsi a pensare che cosa avverrebbe se un ideale simile, e l’arte che lo genera, si diffondessero nella massa del popolo. Ma per l’appunto cominciano a diffondersi anche là. Finalmente il cattivo funzionamento dell’arte adduce questa quinta conseguenza, che l’arte cattiva che fiorisce tra le nostre classi superiori le pervertisce direttamente col suo potere di contagio artistico, e rafforza in essa i sentimenti più detestabili per la felicità degli uomini, quelli della superstizione, del patriottismo, e della sensualità. È l’arte che, nel nostro tempo, contribuisce di più a pervertire gli uomini in ciò che riguarda la questione più importante della loro vita sociale, voglio dire la questione dei rapporti sessuali. Sappiamo tutti e da noi stessi e per i parenti, a quali terribili sofferenze morali e fisiche, a quale inutile sperpero di forze, s’espongono gli uomini per il solo eccesso del desiderio sessuale. Dacchè mondo è mondo, dai tempi della guerra di Troia, cagionata dalla passione sessuale, sino ai suicidii e ai delitti passionali di cui sono zeppe le nostre gazzette tutti i giorni, tutto ci prova l’azione nefasta di questa passione, che è senza fallo la sorgente principale delle disgrazie umane. Cionondimeno che cosa vediamo? Vediamo tutta l’arte, sia contraffatta, sia genuina, salvo rare eccezioni, consacrata unicamente a descrivere, a rappresentare, a stimolare le diverse forme dell’amore sessuale. Ci basti rammentare tutti i romanzi lussuriosi di cui è piena la nostra letteratura, tutti i quadri e tutte le statue in cui si mostra nudo il corpo della donna, e tutte le imagini oscene che s’incollano sui muri come affissi, e quella quantità innumerevole d’opere, d’operette, di canzoni, di romanze, da cui siamo circondati! L’arte contemporanea non ha davvero che un solo oggetto definito: eccitare e diffondere, più che si possa, la depravazione. Tali sono, se non tutte, almeno le più gravi conseguenze di questo pervertimento dell’arte che s’è compiuto nella nostra società. E così, ciò che ora chiamiamo arte, non solo non contribuisce al progresso del genere umano, ma piuttosto ha per effetto, più che tutto il resto, di distruggere la possibilità del bene nella nostra vita. E così la questione che s’offre fatalmente all’intelletto d’ognuno che pensi, quella che mi sono proposta al principio del mio libro, la questione di sapere se è giusto sacrificare a ciò che vien detto arte, il lavoro e la vita di milioni d’uomini, tale questione riceve una risposta formale; no, ciò non è giusto, ciò non dovrebbe essere. Questa è ad un tempo, la risposta della sana ragione e del senso morale non pervertito. E se si proponesse la questione di decidere se valga di più per il nostro mondo cristiano perdere tutto ciò che oggi si chiama arte, falsa e vera che sia, o perdere tutto il bene che esiste al mondo, credo che l’uomo ragionevole e morale non potrebbe far a meno di rispondere a questa questione, come vi rispose Platone nella sua _Repubblica_, e come vi risposero tutti gli educatori religiosi dell’umanità, cristiani e maomettani, cioè di proclamare che è meglio rinunziare a tutte le arti, che mantenere l’arte o la contraffazione dell’arte oggi esistente, la quale ha per effetto di depravare gli uomini. Del resto questa per fortuna è una questione superflua, perchè l’arte vera non ha da far nulla colla pretesa arte d’oggigiorno. Ma ciò che possiamo e dobbiamo fare noi che ci lusinghiamo d’essere uomini colti, noi che per la nostra condizione possiamo intendere il senso delle diverse manifestazioni della nostra vita, è di riconoscere l’errore in cui ci troviamo e di non soggiacervi, ma di cercare il mezzo di liberarcene. CAPITOLO XVII. Possibilità d’un rinnovamento artistico. Lo stato di menzogna, in cui è caduta l’arte della nostra società, deriva da questo: che gli uomini delle classi superiori si sono messi a vivere senza alcuna fede, sforzandosi di sostituire alla fede mancante, gli uni l’ipocrisia, al punto da dichiarare che credono ancora alle forme della loro religione, gli altri un’audace professione della loro incredulità, altri ancora uno scetticismo raffinato, altri un ritorno all’adorazione dei Greci per la bellezza. Ma con qualunque mezzo questi uomini si sforzino di mantenere e di giustificare i loro privilegi, cioè la separazione della loro classe delle altre, sono costretti per amore o per forza di riconoscere che da tutte le parti intorno a loro, consciamente e inconsciamente, la verità si fa strada, quella verità cristiana che consiste a non concepire la felicità degli uomini che nell’unione e nella fratellanza. Inconsciamente, questa verità si fa strada coll’aprirsi di nuove vie di comunicazione, il telegrafo, il telefono, la stampa, tutte invenzioni che tendono sempre più a stringere tra di loro tutti gli uomini; coscientemente, si manifesta collo scomparire delle superstizioni che separavano gli uomini, coll’espressione della fratellanza ideale, e anche con le poche opere d’arte del nostro tempo che sono buone e vere. L’arte è un organo morale della vita umana, e, come tale, non può essere intieramente distrutta. Quindi, nonostante tutti gli sforzi degli uomini delle classi superiori per nasconderci l’ideale religioso di cui vive l’umanità, questo ideale si fa sempre più chiaro per gli uomini, e trova sempre più spesso l’occasione d’esprimersi, anche in mezzo alla nostra società pervertita, tanto nella scienza quanto nell’arte. Infatti l’arte stessa comincia a distinguere il vero ideale del nostro tempo e a dirigersi verso di esso. Da una parte, le opere migliori degli artisti contemporanei esprimono dei sentimenti d’unione e di fraternità fra gli uomini (per esempio gli scritti di Carlo Dickens, di Vittor Hugo, di Dostoievsky, i quadri dei Millet, di Bastien-Lepage, di Jules Breton e di altri); d’altra parte ci sono oggidì degli artisti che cercano d’esprimere dei sentimenti più generali, più universali che sia possibile. Il numero di questi artisti è ancora ristretto, ma sembra che si cominci a intendere la loro utilità. Debbo aggiungere che, in questi ultimi tempi, si sono moltiplicati i tentativi d’imprese artistiche popolari, edizioni di libri, concerti, teatri, musei, ecc. Tutto ciò è ancora molto lontano da quello che dovrebbe essere; ma si può già discernere la direzione che prenderà l’arte per rimettersi nella via che le appartiene. La coscienza religiosa del nostro tempo s’è notevolmente rischiarata; e oramai basterebbe agli uomini ripudiare la falsa teoria della bellezza, che ravvisa nel piacere il solo oggetto dell’arte, perchè tosto questa coscienza religiosa possa prendere liberamente in mano la condotta dell’arte. E il giorno in cui la coscienza religiosa, che già comincia a dirigere inconsciamente la vita degli uomini, sarà riconosciuta da essi con tutta consapevolezza, si vedrà subito scomparire spontaneamente la separazione dell’arte in arte delle classi inferiori e delle classi superiori. Allora non ci sarà più che un’arte sola comune a tutti, fraterna, universale. E il giorno in cui l’arte sarà universale, — cessando d’essere ciò che è stata in questi ultimi tempi, un mezzo di abbrutimento e di depravazione per gli uomini, — diventerà ciò che era da principio, e ciò che dovrebbe essere sempre: un mezzo di perfezionamento per l’umanità, che l’aiuterà a effettuare nel mondo l’amore, l’unione e la felicità. CAPITOLO XVIII. Che cosa dovrà essere l’arte dell’avvenire. Si parla volontieri dell’arte dell’avvenire, e s’intende rappresentare con queste parole un’arte nuova, eminentemente raffinata, e derivante dall’arte attuale delle classi superiori della nostra società. Ma una siffatta arte dell’avvenire non nascerà mai, nè potrebbe nascere. L’arte delle nostre classi superiori è fin d’ora giunta a una stretta insuperabile. Sulla via per cui s’è messa non le riuscirà di fare un passo di più. Quest’arte, dal giorno in cui s’è separata dal fondamento principale dell’arte vera, dal giorno in cui ha cessato d’ispirarsi alla coscienza religiosa, è diventata sempre più speciale, sempre più pervertita; ed ora eccola ridotta al nulla. Perciò l’arte dell’avvenire — la vera, quella che vivrà veramente nell’avvenire — non sarà il prolungamento della nostra arte presente, ma scaturirà da principii affatto diversi, e non aventi nulla in comune con quelli a cui ora s’ispira l’arte delle nostre classi superiori. L’arte dell’avvenire, destinata a diffondersi tra tutti gli uomini, non avrà più il fine di esprimere dei sentimenti accessibili solo ad alcuni ricchi; avrà il fine di manifestare la più alta coscienza religiosa delle generazioni future. Nel futuro non si considererà come arte se non quella che esprimerà dei sentimenti che spingano gli uomini all’unione fraterna, o anche dei sentimenti così universali da poter essere provati dalla massa degli uomini. Solo quest’arte sarà segnalata fra il resto, ammessa, incoraggiata, diffusa. E tutto il resto dell’arte, tutto ciò che non è accessibile che ad alcuni, sarà considerato come cosa senza importanza e lasciato da parte. E l’arte non sarà più pregiata, come oggidì, solo da una piccola classe di persone ricche; sarà stimata dalla massa degli uomini. E gli artisti, nell’avvenire, non saranno più, come ora, presi esclusivamente in una piccola classe della nazione; saranno artisti tutti coloro che a qualunque classe appartengano, si mostreranno capaci di creazione artistica. Allora tutti potranno diventare artisti; perchè, in primo luogo, non s’esigerà più dall’arte una tecnica complicata e artificiosa, che richiede per essere imparata una perdita infinita di tempo; non le si domanderà altro che la chiarezza, la semplicità e la sobrietà; tutte cose che non s’acquistano con una preparazione meccanica, ma coll’educazione del gusto. In secondo luogo tutti potranno diventare artisti, perchè invece delle nostre scuole professionali, accessibili solamente a pochi, tutti potranno imparare la musica e il disegno fin dalla scuola primaria, insieme colle altre nozioni elementari, talchè ogni persona che si sentirà una disposizione per un’arte, potrà esercitarla ed esprimere con essa i suoi sentimenti personali. Mi si obbietterà che colla soppressione delle scuole artistiche speciali, la tecnica dell’arte sarà indebolita. Sì, certamente, sarà indebolita, se s’intende per tecnica l’insieme dei vani artifizi che oggi si designano con questo nome; ma se per tecnica s’intende soltanto la chiarezza, la semplicità e la sobrietà, non solo quella tecnica non ne sarà tocca, come lo prova abbastanza tutta l’arte popolare, ma si troverà invece innalzata a un grado superiore. Poichè tutti gli artisti di genio finora nascosti tra il popolo potranno partecipare all’arte e fornire dei modelli di perfezione che saranno la migliore scuola di tecnica per gli artisti del loro tempo e dei tempi a venire. Anche oggidì non è nella scuola che s’istruisce il vero artista, è nella vita, studiando l’esempio dei grandi maestri; ma allora, quando parteciperanno all’arte gli uomini di maggior ingegno del popolo intiero, il numero dei modelli da studiare sarà più grande, e questi modelli saranno più accessibili; e la mancanza d’un insegnamento professionale sarà cento volte compensata, per il vero artista, dal giusto concetto che si farà del fine e dei metodi dell’arte. Questa sarà una delle differenze dell’arte futura dalla nostra arte presente. Un’altra differenza sarà che l’arte dell’avvenire non verrà più esercitata da artisti professionali pagati per l’arte loro, e occupati solo in essa. L’arte dell’avvenire sarà esercitata da tutti gli uomini che ne sentiranno il desiderio, e anche questi non se n’occuperanno che nel momento in cui ne sentiranno il desiderio. Si crede facilmente, nella nostra società, che l’artista lavora tanto meglio e più efficacemente, quanto più assicurata è la sua condizione materiale. Questa opinione basterebbe a provare una volta di più, se fosse necessario, che ciò che oggidì si prende per arte, non ne è che la contraffazione. Infatti è vero che per produrre delle scarpe o del pane la divisione del lavoro offre grandi vantaggi; il calzolaio o il fornaio che non è costretto a cucinarsi il suo pasto o a spaccarsi la legna, può fare una maggior quantità di scarpe o di pagnotte. Ma l’arte non è un mestiere; è la trasmissione che si fa agli altri d’un sentimento provato dall’artista. E questo sentimento non può nascere in un uomo se non quando esso viva intieramente della vita naturale e vera degli uomini. Pertanto, assicurare all’artista la soddisfazione di tutti i suoi bisogni materiali, è nuocere alla sua capacità di produrre l’arte, poichè liberando l’artista dalle condizioni — comuni a tutti gli uomini — della lotta contro la natura per la conservazione della propria vita e di quella degli altri, lo si priva dell’occasione e della possibilità d’imparare a conoscere i sentimenti più importanti e più naturali degli uomini. Non c’è condizione più detestabile per la facoltà creatrice d’un artista che quella sicurezza assoluta e quel lusso, che oggi sono ritenuti la condizione indispensabile perchè l’arte funzioni bene. L’artista dell’avvenire vivrà della vita ordinaria degli uomini, guadagnandosi il pane con un mestiere qualunque. Ed essendo così educato a conoscere il lato serio della vita si sforzerà di trasmettere al più gran numero possibile d’uomini il dono superiore che la natura gli avrà accordato; tale trasmissione sarà la sua gioia e la sua ricompensa. Fintantochè non si saranno cacciati i mercatanti dal tempio, il tempio dell’arte non sarà un tempio. Ma la prima cura dell’arte dell’avvenire sarà quella di cacciarneli. Finalmente il contenuto dell’arte dell’avvenire, come io me la raffiguro, differirà totalmente da quello della nostra arte presente. Consisterà nell’espressione di sentimenti non già esclusivi, come l’ambizione, il pessimismo, il disgusto, e la sensualità, ma di sentimenti provati dall’uomo che vive della vita comune di tutti gli uomini, e fondati sulla coscienza religiosa del nostro tempo, di sentimenti accessibili a tutti gli uomini senza eccezione. Ecco, si dirà, un contenuto molto scarso! Che cosa si può esprimere di nuovo nel terreno dei sentimenti cristiani d’amor del prossimo? E che ci può essere di più mediocre e di più monotono che dei sentimenti accessibili a tutti gli uomini? Eppure non è meno certo che i soli sentimenti nuovi che oggidì possano esser provati, sono dei sentimenti religiosi, cristiani, e dei sentimenti accessibili a tutti. I sentimenti che provengono dalla coscienza religiosa del nostro tempo sono infinitamente nuovi e varii; ma non consistono solo, come talora si crede, a rappresentare Cristo nei diversi episodi del Vangelo, o a ripetere sotto nuova forma le verità cristiane dell’unione, della fratellanza, dell’uguaglianza e dell’amore. I sentimenti cristiani sono nuovi e varii all’infinito, perchè, quando l’uomo considera le cose sotto il punto di vista cristiano, i soggetti più vecchi, più comuni, quelli che si ritengono più logori, destano in lui i sentimenti più nuovi, più impreveduti, più patetici. Che cosa ci può essere di più vecchio dei rapporti tra il marito e la moglie, tra i figli e i genitori, tra uomini di paesi diversi? Ora, basta che alcuno consideri questi rapporti dal punto di vista cristiano perchè tosto nascano in lui dei sentimenti infinitamente varii, dei sentimenti nuovi, profondi, patetici. Il vero è che il contenuto dell’arte dell’avvenire non sarà punto immiserito, ma allargato, quando quest’arte avrà per oggetto di trasmettere i sentimenti vitali, i più generali fra tutti, i più semplici, i più universali. Nella nostra arte d’ora non si considerano come degni d’essere espressi dall’arte che i sentimenti particolari d’uomini in una certa situazione eccezionale, e si esige per giunta che siano espressi in un modo raffinatissimo, inaccessibile alla maggioranza degli uomini. E si ritiene indegno di fornir materia all’arte tutto l’immenso dominio dell’arte popolare e infantile: i proverbi, le canzoni, i giuochi, le imitazioni, ecc. Ma l’artista dell’avvenire capirà che produrre una favola, una canzone, purchè commovano, produrre una farsa, purchè diverta, disegnare una figura che rallegri delle migliaia di bambini e di adulti, che tutto ciò è molto più fecondo e più importante che produrre un romanzo, o una sinfonia, o un quadro, che divertiranno per qualche tempo un piccolo numero di ricchi, e poi si sprofonderanno per sempre nella dimenticanza. Ora il territorio di questa arte dei sentimenti semplici, accessibili a tutti, è immenso, e si può dire non sia mai stato toccato. Così l’arte dell’avvenire non sarà più povera della nostra, ma all’opposto infinitamente più ricca. E la forma dell’arte dell’avvenire, anch’essa non sarà inferiore alla forma presente dell’arte, ma le sarà incomparabilmente superiore, e ciò non nel senso d’una tecnica raffinata e artificiosa, ma nel senso d’una espressione breve, semplice, chiara, libera di ogni sopraccarico inutile. Mi ricordo che una volta, dopo d’aver inteso da un astronomo eminente una conferenza pubblica intorno all’analisi spettrale delle stelle della via lattea, domandai a quell’astronomo se non avrebbe acconsentito a tenerci semplicemente una conferenza sul movimento della terra, attesochè tra i suoi uditori c’era senza dubbio un bel numero di persone che non sapevano con precisione che cosa producesse il giorno e la notte, l’estate e l’inverno. E l’astronomo mi rispose sorridendo: “Sì, sarebbe un bell’argomento, ma troppo difficile. Mi riesce infinitamente più facile parlare dell’analisi spettrale della via lattea„. Avviene lo stesso dell’arte. Scrivere un poema sopra un soggetto dei tempi di Cleopatra, dipingere Nerone che appicca il fuoco a Roma, comporre una sinfonia nella maniera di Brahms e di Riccardo Strauss, o un’opera come quelle di Wagner, è infinitamente più facile che raccontare una semplice storia senza nulla d’eccezionale, beninteso raccontandola in modo che trasmetta il sentimento di chi la racconta, o anche disegnare col lapis un’imagine che commuova o che rallegri chi la vede, o scrivere quattro battute d’una melodia senza accompagnamento, ma tale da tradurre un certo stato dell’anima. — Ma colla nostra civiltà, ci riesce impossibile ritornare alle forme primitive! — diranno gli artisti. Ci è impossibile di scrivere oggi dei racconti come la storia di Giuseppe, o come l’Odissea, di comporre della musica come quella delle canzoni popolari! Ciò è realmente impossibile agli artisti del nostro tempo; ma non lo sarà all’artista dell’avvenire, che non avrà più la testa ingombra d’un arsenale di formule tecniche, e che non essendo più un professionista dell’arte, non essendo più pagato per i suoi prodotti, non produrrà dell’arte se non quando ci si sentirà trascinato da un irresistibile bisogno interiore. Pertanto la differenza sarà completa, sotto il rispetto sì della forma che della sostanza, tra l’arte dell’avvenire, e ciò che oggigiorno riteniamo per arte. Il fondo dell’arte dell’avvenire sarà costituito da sentimenti incoraggianti gli uomini a unirsi, o tali da unirli effettivamente; la forma di siffatta arte sarà tale da poter essere accessibile alla massa degli uomini. Perciò l’ideale della perfezione, nel futuro, non sarà più il grado di particolarità dei sentimenti, ma al contrario il loro grado di generalità. L’artista non cercherà più come ora, d’essere oscuro, complicato ed enfatico, ma al contrario di essere breve, chiaro, e semplice. E solo quando l’arte avrà assunto questo carattere, essa non servirà più unicamente a distrarre è a divertire una classe d’oziosi, come fa ora, ma comincierà a compiere il suo vero ufficio, vale a dire a trasportare un concetto religioso dal dominio della ragione nel dominio del sentimento, a guidare così gli uomini verso la felicità, verso la vita, verso quell’unione e quella perfezione che loro raccomanda la loro coscienza religiosa. CONCLUSIONE. Ho fatto del mio meglio per riassumere in questo libro i miei pensieri sopra un soggetto che da quindici anni non ha cessato d’occuparmi. Con questo non voglio dire, s’intende, che io abbia cominciato quindici anni fa a scrivere questo studio: ma sono di certo almeno quindici anni che ho cominciato a scrivere uno studio sull’arte, dicendo a me stesso, che una volta avviato in questo soggetto, sarei andato sino alla fine senza fermarmi. Cionondimeno le mie idee intorno a tale soggetto si trovarono essere così poco chiare, che non potei esprimerle in forma soddisfacente. E dopo d’allora non ho mai cessato di riflettere intorno a questo argomento, e sei o sette volte mi sono rimesso a scrivere uno studio in proposito; ma ogni volta, dopo d’avere scritto un certo numero di pagine, non mi sono più sentito in grado di condurre il mio lavoro sino alla fine. Ora finalmente sono riuscito a terminarlo; e per cattivo che esso sia, spero almeno di non essermi ingannato nel pensiero che ne forma la base e che consiste a considerare l’arte del nostro tempo come incamminata per una falsa strada. Possa dunque il mio lavoro non rimanere senza frutto! Ma affinchè l’arte riesca a uscire dalla falsa strada e a ritornare al suo uffizio naturale, occorre che un altro ramo non meno importante dell’attività intellettuale degli uomini, cioè la scienza, colla quale l’arte si trova sempre in rapporto di stretta dipendenza, occorre che anch’essa abbandoni la strada falsa nella quale si trova. L’arte e la scienza stanno tra di loro in un rapporto tanto stretto quanto è quello dei polmoni e del cuore; e se uno dei due organi è alterato, l’altro non può più funzionare normalmente. La vera scienza insegna agli uomini le cognizioni che debbono avere per essi la maggiore importanza e dirigere la loro vita. L’arte trasporta codeste cognizioni dal dominio della ragione in quello del sentimento. Perciò se il cammino seguito dalla scienza è cattivo, il cammino seguito dall’arte sarà pure cattivo. L’arte e la scienza s’assomigliano a quei battelli che vanno a due a due sui fiumi, l’uno fornito di macchina, e fatto per rimorchiar l’altro. Se il primo prende una direzione falsa, anche il secondo è costretto a seguirlo in essa. E come l’arte, in termini generali, è la trasmissione di tutti i sentimenti possibili, ma tuttavia, nel senso più ristretto del vocabolo, non è arte seria se non quella che trasmette agli uomini dei sentimenti importanti per essi, così la scienza, in termini generali, è l’espressione di tutte le cognizioni possibili, ma non è per noi scienza seria se non quella che esprime delle cognizioni importanti per noi. Ora, ciò che determina il grado d’importanza sia dei sentimenti che delle cognizioni è la coscienza religiosa d’una società e d’una epoca data, cioè il concetto comune che si formano del senso della vita gli uomini di quell’epoca e di quella società. Ciò che più contribuisce a tradurre in realtà quest’ideale della vita, è ciò che si deve insegnare maggiormente: ciò che vi contribuisce meno, dev’essere insegnato meno; e ciò che non contribuisce in nessun modo a realizzare il destino della vita umana non deve essere insegnato affatto, o, se lo s’insegna, non deve essere almeno considerato come cosa che abbia alcuna importanza. Così fu sempre in passato per la scienza, e così dovrebbe essere ancora, perchè così esige la natura stessa del pensiero e della vita dell’uomo. Eppure la scienza delle nostre classi superiori non solo non riconosce come base alcuna religione, ma anzi reputa superstizioni tutte le religioni. In conseguenza gli uomini del nostro tempo affermano che imparano indistintamente _tutto_. Ma poichè _tutto_ è un po’ troppo, essendo infiniti gli oggetti della conoscenza, e poichè è impossibile imparare tutto indistintamente, quella non è che un’affermazione puramente teorica. Nella realtà, gli uomini non imparano _tutto_, e non avviene indifferentemente che imparino quello che imparano. Nella realtà, gli uomini non imparano che ciò che è molto utile, o molto gradevole a coloro che s’occupano della scienza. E appartenendo costoro alle classi superiori della società, ciò che torna loro più utile è di mantenere l’ordine sociale che permette alle loro classi di godere dei loro privilegi; e ciò che torna loro più gradevole è di soddisfare vane curiosità che non esigono da essi uno sforzo di mente troppo considerevole. Da ciò proviene che una delle sezioni della scienza più in onore è quella delle scienze che, come la storia e l’economia politica, s’occupano sopratutto di stabilire che l’ordine presente della vita sociale è appunto quello che è sempre esistito e che deve esister sempre, di modo che ogni tentativo di modificarlo ci si mostri illegittimo e vano. Un’altra sezione è quella delle scienze sperimentali, che abbracciano la fisica, la chimica, la botanica; queste scienze non s’occupano che di ciò che non ha alcun rapporto diretto colla vita, di ciò che è materia di pura curiosità, o anche di ciò che può contribuire a rendere più comoda l’esistenza delle classi superiori della società. Ed è per giustificare questa scelta arbitraria e mostruosa, fatta tra le diverse materie della conoscenza, che i nostri scienziati hanno inventato una teoria corrispondente appuntino a quella dell’_arte per l’arte_, la teoria della _scienza per la scienza_. La teoria dell’arte per l’arte sostiene che l’arte consiste nell’occuparsi di tutti i soggetti che fanno piacere; la teoria della scienza per la scienza sostiene che la scienza consiste nell’insegnare tutti i soggetti interessanti. E così accade che, delle due sezioni della scienza che s’insegnano agli uomini, l’una invece d’insegnare come gli uomini dovrebbero vivere per effettuare il loro destino, predica la legittimità e l’immutabilità d’un modo di vita menzognero e funesto, mentre l’altra sezione, quella delle scienze sperimentali, s’occupa di quistioni di pura curiosità, o anche di piccole invenzioni pratiche. E di queste due sezioni della scienza contemporanea, la prima è cattiva non solo perchè intorbida la mente degli uomini e dà loro delle idee false; è pur cattiva per il fatto solo della sua esistenza, e perchè occupa il posto che dovrebbe occupare la scienza vera. E la seconda sezione, quella appunto di cui oggi la scienza insuperbisce, è cattiva, perchè svia l’attenzione degli uomini dagli obbiettivi veramente importanti, volgendola verso ricerche inutili; ed è anche cattiva perchè nell’organismo sociale che è legittimato e sostenuto dalle scienze della prima sezione, la maggior parte delle invenzioni tecniche della scienza sperimentale servono non già alla felicità, ma all’infelicità degli uomini. Soltanto gli uomini che hanno dedicato la loro vita a questi studi inutili, possono continuare a credere che le scoperte e le invenzioni che si compiono nel dominio delle scienze sperimentali siano cosa veramente importante e profittevole. E se costoro lo credono, egli è perchè non guardano dintorno a sè, e non vedono ciò che è veramente importante. Basterebbe che alzassero il capo dal loro microscopio, attraverso il quale osservano tutte le materie che studiano; basterebbe che volgessero gli sguardi intorno a sè per vedere quanto siano vane tutte quelle cognizioni da cui ricavano una vanità così ingenua, in confronto di quelle altre cognizioni alle quali abbiamo rinunziato per rimetterle nelle mani dei professori di giurisprudenza, di finanza, d’economia politica, ecc. Basterebbe che volgessero un’occhiata intorno a sè per vedere che l’oggetto importante e proprio della scienza umana non dovrebbe essere d’imparare ciò che, per caso, è interessante, ma d’imparare in che senso deve essere diretta la vita dell’uomo, d’imparare quelle verità religiose, morali, sociali senza di cui tutta la nostra così detta conoscenza della natura non può esserci che inutile o funesta. Noi siamo contentissimi e fierissimi che la nostra scienza ci offra la possibilità di trar partito dalla forza del vapore a profitto dell’industria, o, se volete, che ci conceda di scavare delle gallerie nel fianco dei monti. Ma come non pensiamo che codesta forza del vapore non l’adoperiamo per il benessere degli uomini, ma solo per arricchire un piccolo numero di capitalisti? Questa stessa dinamite, che ci serve ad aprire i tunnel, come mai non pensiamo che non è impiegata principalmente a scavar delle gallerie, ma bensì a procurare la distruzione delle vite umane, come stromento terribile per quelle guerre che ci ostiniamo a considerare come indispensabili, e alle quali non cessiamo di prepararci? E se anche è vero — cosa che resta ancora da dimostrare — che la scienza ora sia giunta a impedire la difterite, a spianare le gibbosità, a guarire la sifilide, a compiere delle operazioni straordinarie, ecc., nemmeno in ciò possiamo trovare di che inorgoglirci per poco che vogliamo pensare alla vera funzione della scienza. Se la decima parte delle forze che si spendono ora a studiare argomenti di pura curiosità o piccole invenzioni pratiche, fosse impiegata nella vera scienza, che ha per oggetto la felicità degli uomini, vedremmo sparire almeno la metà di quelle malattie che oggidì ingombrano le cliniche e gli ospedali; non vedremmo, come ora, dei ragazzini condannati all’etisia e al rachitismo dal regime delle fabbriche, non vedremmo la mortalità dei bambini superare, come ora, il cinquanta per cento, non vedremmo delle generazioni intiere immolate alle malattie, non vedremmo la prostituzione, non la sifilide, non le guerre, che sono l’eccidio di milioni d’uomini, non vedremmo tutte le mostruosità di sciocchezze e di patimenti che la scienza contemporanea osa ritenere come condizioni inevitabili della vita umana! Ma il nostro concetto della scienza è pervertito a tal segno che gli uomini del nostro tempo troveranno strano che si parli loro di scienze capaci di diminuire la mortalità dei bambini, di sopprimere la prostituzione, la sifilide, la degenerazione, la guerra. Siamo giunti ad imaginarci che non c’è scienza se non quando un uomo, in un laboratorio, versa un liquido da un provino in un altro, guarda attraverso a un prisma, tortura delle rane o dei conigli, oppure anche svolge da una cattedra una matassa di frasi sonanti e stupide — che del resto non cerca di capire nemmeno egli stesso — sui luoghi comuni della filosofia, della storia, del diritto, dell’economia politica, e tutto ciò per il solo fine di provare che quello che è deve essere sempre. Eppure la scienza, la vera scienza, la sola che meriterebbe la considerazione concessa oggigiorno alla sua contraffazione, la vera scienza consisterebbe nel riconoscere a che cosa dobbiamo credere e a che cosa non dobbiamo credere, come dobbiamo e come non dobbiamo condurre la nostra vita, come fa d’uopo allevare i figli, come possiamo trar partito dai beni della terra senza schiacciare per ciò delle altre vite umane, e quale deve essere la nostra condotta riguardo agli animali, senza contare molte altre questioni ugualmente importanti per la vita degli uomini. Tale è sempre stata la vera scienza; e tale dev’essere. Ed è questa scienza che sola corrisponde alla coscienza religiosa del nostro tempo; ma essa si trova, da un lato, negata e combattuta da tutti gli scienziati che lavorano a mantenere l’ordine sociale presente, e dall’altro è ritenuta vana, sterile, antiscientifica dagli infelici la cui intelligenza s’è atrofizzata nello studio delle scienze sperimentali. La scienza essendo intesa come è intesa oggi, quali sentimenti può mai destare che l’arte alla sua volta possa trasmetterci? La prima sezione di questa scienza provoca dei sentimenti retrivi, antiquati, fuori d’uso, e cattivi per il nostro tempo. E l’altra sezione tutta consacrata allo studio di soggetti che non hanno rapporto colla vita degli uomini, è di sua natura incapace di fornire materia all’arte. E così avviene che l’arte del nostro tempo, per essere arte vera, deve aprirsi la via da sè, a dispetto della scienza, oppure mettere a profitto gl’insegnamenti d’una scienza che il nostro mondo non ammette, d’una scienza rinnegata e respinta dalla parte ortodossa della scienza. È a questo partito che l’arte si trova ridotta, quando si dà pensiero di compiere la sua funzione. Almeno conviene sperare che un lavoro simile a questo che io ho tentato per l’arte sarà intrapreso, un giorno o l’altro, rispetto alla scienza; un lavoro che proverà agli uomini la falsità della teoria della scienza per la scienza, che mostrerà loro la necessità di riconoscere la dottrina cristiana nel suo vero senso, e che appoggiandosi su questa dottrina, insegnerà loro a valutare in un modo nuovo l’importanza delle cognizioni di cui ora siamo fieri in modo così ridicolo. Possano allora gli uomini riconoscere quanto sono secondarie e insignificanti le cognizioni sperimentali, e quanto essenziali e importanti le cognizioni religiose, morali, e sociali! Possano capire che queste cognizioni primordiali non devono essere lasciate, come lo sono ora, sotto la tutela e alla discrezione delle classi ricche, ma che devono al contrario essere rimesse nelle mani di tutti gli uomini liberi e amanti della verità, i quali, spesso in contraddizione colle classi ricche, cercano il destino reale della vita! Possano le scienze matematiche, astronomiche, fisiche, chimiche e biologiche, come pure la scienza applicata alla medicina, non essere più insegnate che nella misura in cui contribuiranno ad affrancare gli uomini dagli errori religiosi, giuridici e sociali, nella misura in cui serviranno al bene di tutti gli uomini, e non più d’una sola classe privilegiata! Solo allora la scienza cesserà d’essere ciò che è ora, cioè da una parte un sistema di sofismi destinati a mantenere un organismo sociale decrepito, dall’altra un ammasso informe di cognizioni, in gran parte poco utili o anche assolutamente inutili. Solo allora essa diventerà ciò che deve essere, un tutto organico, avente uno scopo determinato e comprensibile per tutti gli uomini, cioè d’introdurre nella coscienza umana le verità che derivano dall’idea religiosa d’un’epoca. E soltanto allora l’arte, sempre dipendente dalla scienza, ridiventerà ciò che può e deve essere, un organo imparentato con quello della scienza, ugualmente importante per la vita e per il progresso degli uomini. L’arte non è un godimento, un piacere, nè un divertimento; l’arte è una grande cosa. È un organo vitale dell’umanità, che trasporta i concetti della ragione nel dominio del sentimento. Nel tempo nostro il concetto religioso degli uomini ha per centro la fratellanza universale e la felicità nell’unione. La vera scienza deve dunque insegnarci le diverse applicazioni di questo concetto alla vita; e l’arte deve trasportare questo concetto nel dominio dei nostri sentimenti. Così l’arte ha dinanzi a sè un cómpito immenso: coll’aiuto della scienza e sotto la guida della religione deve fare in modo che quell’unione pacifica degli uomini, che ora non s’ottiene che con mezzi esteriori, tribunali, polizia, ispezioni, ecc., possa effettuarsi per il libero e gioioso consenso di tutti. L’arte deve sopprimere nel mondo il regno della violenza e della coercizione. Ed è un cómpito a cui essa sola può soddisfare. Essa sola può ottenere che i sentimenti d’amore e di fratellanza, oggi solamente accessibili agli uomini migliori della nostra società, diventino sentimenti costanti, universali, istintivi in tutti gli uomini. Eccitando in noi, coll’aiuto di creazioni imaginarie, i sentimenti della fratellanza e dell’amore, può avvezzarci a provare gli stessi sentimenti nella realtà, può assestare nell’anima umana delle rotaie, sulle quali oramai scorrerà la vita, sotto la guida della scienza e della religione. E unendo gli uomini più diversi in comunanza di sentimenti, sopprimendo le distinzioni tra di loro, l’arte universale può preparare gli uomini all’unione definitiva, può dimostrar loro, non col ragionamento, ma per mezzo della vita stessa, la gioia dell’unione universale, al di là delle barriere imposte dalla vita. L’uffizio dell’arte nel tempo nostro è di trasportare dal dominio della ragione in quello del sentimento questa verità: che la felicità degli uomini sta nella loro unione. È l’arte sola che potrà fondare sulle rovine del nostro regime presente di violenza e di coercizione, quel regno di Dio che si presenta a noi tutti come il termine più alto della vita umana. Ed è ben possibile che nell’avvenire la scienza somministri all’arte un altro ideale, e che l’arte abbia allora il cómpito di tradurlo in atto; ma nel nostro tempo la funzione dell’arte è chiara e precisa. Il cómpito dell’arte vera, dell’arte cristiana, è oggidì quello di effettuare l’unione fraterna degli uomini. FINE. INDICE. TOLSTOI E MANZONI NELL’IDEA MORALE DELL’ARTE, di _Enrico Panzacchi_ Pag. V a XLVII _Introduzione dell’autore_ 3 I. Il problema dell’arte 15 II. La bellezza 27 III. Distinzione tra l’arte e la bellezza 44 IV. La funzione dell’arte 54 V. L’arte vera 64 VI. L’arte falsa 73 VII. L’arte degli eletti 80 VIII. Gli effetti dell’arte pervertita; l’impoverimento della materia artistica 87 IX. Gli effetti dell’arte pervertita; la ricerca dell’oscurità 96 X. Le conseguenze della perversione nell’arte; la contraffazione dell’arte 129 XI. L’arte professionale, la critica, l’insegnamento artistico: loro influenza sulla contraffazione dell’arte 144 XII. L’opera di Wagner, modello perfetto della contraffazione dell’arte 159 XIII. Difficoltà di distinguere l’arte vera dalla sua contraffazione 182 XIV. Il contagio artistico, criterio dell’arte vera 188 XV. L’arte buona e l’arte cattiva 193 XVI. Le conseguenze del cattivo funzionamento dell’arte 217 XVII. Possibilità d’un rinnovamento artistico 232 XVIII. Che cosa dovrà essere l’arte dell’avvenire 236 _Conclusione_ 247 OPERE DI LEONE TOLSTOI _Edizioni Treves_ _Anna Karenine_. 2 volumi preceduti da uno studio di D. Ciàmpoli sui romanzi russi. 9.ª edizione. L. 2 — _La guerra e la pace_. 4 volumi. 8.ª edizione. 4 — _I Cosacchi_. 5.ª edizione 1 — _La sonata a Kreutzer_. 8.ª edizione 1 — _Ultime novelle; Piaceri viziosi_. 5.ª edizione 1 — La morte di Ivan Iliitch. — Il romanzo d’un cavallo. — Un povero diavolo. — L’alcool e il tabacco. — L’ubbriachezza nelle classi dirigenti. — Delle relazioni fra i sessi. _Padrone e servitore_, racconto. 9.ª edizione 1 — _Resurrezione_, romanzo. 3 volumi. 5.ª edizione 5 — _Memorie._ 6.ª edizione 3 — _Che cosa è l’arte?_ (con prefazione di ENRICO PANZACCHI). 5.ª edizione 1 — _La vera vita_, preceduto da un saggio critico di NINO DE SANCTIS 3 — _La potenza delle tenebre_, dramma. 2.ª edizione 1 — _I frutti dell’istruzione_, commedia 1 — _Dottrine Religiose e Sociali del Conte L. N. Tolstoi_, di BASSANO GABBA 1 50 NOTE: [1] Come introduzione all’opera di Tolstoi, abbiamo il piacere di presentare i due articoli che le dedicò Enrico Panzacchi nei fascicoli della _Nuova Antologia_ del 16 giugno e del 16 dicembre 1898. Dobbiamo ringraziare l’autore e il direttore dell’_Antologia_ del permesso accordatoci, — e ne saranno del pari grati i lettori. (_Nota degli Editori_). [2] RENÉ DOUMIC, _Les jeunes_. [3] Prefazione alla tragedia _Il conte di Carmagnola_. [4] _Opere varie._ Edizione Rechiedei, pag. 796. [5] _Opere varie._ Ediz. cit., pag. 783. [6] Ib., pagg. 465 e seg. [7] _Discorsi._ “Una opinione di Alessandro Manzoni„. Edizione Cogliati. Milano, 1898. [8] _Zola, Dumas, Guy de Maupassant_, pag. 153 e seg. [9] _Prémières poésies._ “Don Paez„. [10] Vedi di lui _Science et Religion_, pag. 229 e seg. [11] _Pro Archia poeta._ [12] Mario Pilo è un professore italiano. L’A. ha avuto sott’occhi la traduzione francese del suo volume. (_N. d. T._). [13] _Solness il costruttore_, di Ibsen. [14] _I ciechi_, di Maeterlinck. [15] _La campana sommersa_, di Hauptmann (_N. d. T._). [16] Adducendo questi titoli delle opere d’arte che ritengo le migliori tra le moderne, sono lontano dal pretendere di dare un giudizio definitivo di queste opere; poichè non solo non ho l’esperienza occorrente per valutare tutte le produzioni artistiche, ma per giunta appartengo io stesso a quella specie d’uomini che ebbero per tempo depravato il gusto da una cattiva educazione. Quindi è possibilissimo che colle mie vecchie abitudini connaturate con me io m’inganni su parecchi punti, attribuendo un valore artistico superiore ad impressioni famigliari a me sino dall’infanzia. Ma se enumero così certe opere di diverse categorie, lo faccio solo per ispiegar meglio il mio pensiero, e per dimostrar meglio come ora io intenda la perfezione nell’arte. E debbo aggiungere ancora che schiero nella classe dell’_arte cattiva_ tutte le mie proprie opere artistiche, eccettuato il racconto _Dio vede la Verità_ col quale volli fare un’opera d’arte religiosa, e quell’altra mia narrazione _Nel Caucaso_, che mi sembra appartenere alla seconda delle categorie che ritengo accettabili. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK CHE COSA È L'ARTE? *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate. While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. International donations are gratefully accepted, but we cannot make any statements concerning tax treatment of donations received from outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff. Please check the Project Gutenberg web pages for current donation methods and addresses. Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: www.gutenberg.org/donate. Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works Professor Michael S. Hart was the originator of the Project Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For forty years, he produced and distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Most people start at our website which has the main PG search facility: www.gutenberg.org. This website includes information about Project Gutenberg™, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.