The Project Gutenberg eBook of L'origine della Famiglia della Proprietà privata e dello Stato

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Title: L'origine della Famiglia della Proprietà privata e dello Stato

Author: Friedrich Engels

Translator: Pasquale Martignetti

Release date: September 11, 2019 [eBook #60281]
Most recently updated: October 17, 2024

Language: Italian

Credits: Produced by Barbara Magni and the Online Distributed
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from Università degli Studi di Torino - Sistema
Bibliotecario d'Ateneo, Scienza dell'antichità, filologico
letterarie storico artistiche)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK L'ORIGINE DELLA FAMIGLIA DELLA PROPRIETÀ PRIVATA E DELLO STATO ***

L'ORIGINE DELLA FAMIGLIA
DELLA PROPRIETÀ PRIVATA
E DELLO STATO


BIBLIOTECA DELLA CRITICA SOCIALE


FEDERICO ENGELS

L'ORIGINE DELLA FAMIGLIA
della Proprietà Privata
E DELLO STATO

in relazione alle ricerche di L. H. Morgan


Versione di PASQUALE MARTIGNETTI

II Edizione definitiva
con introduzione di

EDOARDO BERNSTEIN

MILANO
Uffici della CRITICA SOCIALE
Portici Galleria V. E., 23
1901


INDICE


[iii]

Dedico questa seconda edizione della versione dell'Engels alla dolorosa memoria del mio diletto primogenito Salvatore, che, il 6 settembre 1900, mentre stava sotto le armi al campo di manovre di Sparanise, si toglieva la vita, vinto dall'angoscia di una contrastata passione d'amore. Animo delicatissimo, ardente, inebbriato di un ideale cui sbarravano il varco le spietate esigenze di una società che «non lascia fra uomo e uomo altro legame che il nudo interesse e l'arido pagamento a pronti»[1], egli trafiggeva, inconscio, di ferita insanabile, con una medesima arme, il cuore paterno e della povera madre, insieme col proprio; quasi documentando, col generoso sangue ribelle, il tragico vero che emana da questo libro: — amore, sogni di giovinezza, ogni più nobile anelito umano, tutto la ferrea necessità economica vince ed opprime. — Così affrettino i fati l'avvento di una società migliore, più benigna agli affetti e alle speranze dei figli, meno avara di conforti alle cupe desolazioni dei dannati a sopravvivere, dei genitori orbati, curvi ai sepolcri!

Pasquale Martignetti.

Benevento, dicembre 1900.

[v]

Introduzione critica alla seconda edizione italiana[2]

L'editore della presente traduzione d'uno fra i più notevoli lavori di Federico Engels, l'amico Turati, mi chiede ch'io l'accompagni con una prefazione. Accetto di buon grado l'invito, pur non dissimulandomi il grave cómpito ch'esso m'addossa.

Ciò che il libro offre è detto dal titolo, e il nome dell'autore sta a guarentigia che l'argomento è trattato da mano maestra. I pregi [vi] di Engels come scrittore sono così universalmente riconosciuti, che è inutile qui noverarli. Anzichè assicurare il lettore ch'egli ha dinanzi il lavoro d'un uomo, il cui sapere era altrettanto vasto quanto era profondo il giudizio e limpido e semplice lo stile, tornerà opportuno esaminare in quale senso questo mirabile studio potrebbe oggi, per avventura, completarsi.

Engels, come rileva egli stesso nella prefazione del 1884, nel comporre questo libro adempì un legato impostogli da Carlo Marx. A chi scrive venne fatto di gettare un'occhiata entro la fucina, ov'esso fu elaborato. Sul principio del 1884 io mi trovai per qualche tempo ospite di Engels, appunto allora intento ad una prima revisione accurata delle carte postume di Marx. Fra i manoscritti, che in quell'occasione Engels andava rileggendomi fino a notte inoltrata, eranvi anche i sunti fatti da Marx dell'Ancient Society di Lewis H. Morgan, corredati di sue glosse marginali non di rado stringatissime. Non è intaccare la fama dell'autore del Capitale il soggiungere che le glosse non contenevano nulla di nuovo e che, quanto ai sunti, se essi offrivano la prova più convincente della coscienza portata da quel Grande nei suoi lavori, non erano tuttavia più che marmo greggio, a cui mancava ancora completamente una mano d'artista che desse loro una forma. Marx aveva estratto da Morgan soltanto ciò, ch'eragli sembrato degno di speciale osservazione; la morte gl'impedì d'andare oltre. Il cómpito d'elaborare quei materiali toccò ad Engels, che l'esaurì in un tempo relativamente breve, grazie all'essersi egli stesso dedicato altra volta a ricerche più estese nel [vii] campo della storia primitiva dei Germani e dei Celti.

Insieme all'intento puramente oggettivo, di far conoscere al mondo socialista e, di rimbalzo almeno, al mondo speciale dei dotti, le scoperte di Morgan relative alla costituzione della gens e alla sua importanza per la scienza storica, fu anche un desiderio più personale, che mosse Engels a comporre questo lavoro: il desiderio di porre sotto miglior luce l'opera, a suo avviso ingiustamente negletta, di Morgan, contribuendo così al riconoscimento dovuto ai meriti dello scrittore americano. Forse Engels esagera alquanto, asserendo che il libro di Morgan fu «sistematicamente sepolto» in Inghilterra (Prefazione del 1891), giacchè il lieve conto che ne fecero gli etnologi inglesi si spiega anche senza l'ipotesi d'una congiura del silenzio, come pure si spiega che il suo editore lo trascurasse, dacchè la stampa specialista l'aveva più criticato che non lodato. È certo nondimeno che i capi delle scuole etnologiche non gli accordarono il posto che gli spetta e che alcuni errori di Morgan nei minuti particolari fecero loro disconoscere il valore delle nuove vedute, ond'egli arricchì la scienza della storia primitiva dei popoli. Perchè ciò si evitasse ci sarebbero voluti uomini immuni dalle prevenzioni ond'erano imbevuti gli etnologi inglesi; uomini insomma che abbracciassero, collo stesso occhio di Morgan, tutta quanta la sociologia.

In ogni scienza particolare s'annida la tendenza alla micrologia specialista, la quale, ove trascenda, conduce ad un positivismo o fenomenalismo pedantesco. Dinanzi alla mole del [viii] materiale raccolto ed alle innumerevoli sue varietà, la fiducia nelle regole generali svanisce e l'ufficio dell'indagatore sembra esaurirsi nel classificare e coordinare le cose accettate ed i fatti acquisiti. Così la diffidenza del legale specialista per tutte le teorie di diritto naturale cresce in ragione della sua virtuosità nella casistica del diritto positivo; le costruzioni filosofiche gli appaiono astrazioni fantastiche o generalità prive di solida base. Sotto egual luce dovettero manifestarsi alle predisposizioni positiviste degli etnologi le formule generali, che Morgan presentava come frutto della sua analisi sulle istituzioni degli Indiani nordamericani. Dovendosi qui ricavare da un determinato principio fondamentale la genesi dei molteplici fenomeni, ecco che la classificazione in vigore, tutta poggiata sovra punti formali, sarebbe caduto in enorme discredito. Niuna meraviglia che i rappresentanti di questa non s'accorgessero della nuova teoria se non per rilevarne le lacune, mentre lo stesso Engels ammette che talune ipotesi di Morgan sono insufficienti o affatto insostenibili. Pei difensori del sistema antico, l'edificio teoretico di Morgan era completamente crollato, rimanendone in piedi solo alcune illustrazioni di singoli fenomeni, che vennero accettate di buon grado. Ma anche a queste non si dette maggior peso che all'altro materiale empirico, onde son pieni gli archivî etnologici, e ch'è del resto continuamente sottoposto a nuove rettifiche in questo o quel particolare.

Engels riconosce in Morgan un nuovo scopritore «a suo modo» della concezione materialistica della storia trovata da Marx e da [ix] lui nel 1844-45. Ma, se non voglia darsi a quell'«a suo modo» un significato molto largo, tale affermazione parmi non regga; poichè in Morgan manca appunto il principio caratteristico della concezione materialistica della storia, cioè la derivazione delle idee giuridiche, morali, ecc., dal modo e dalle trasformazioni del sistema di produzione dei mezzi di sussistenza. Certo egli ha fornito numerosi elementi a conforto di tale correlazione; egli ha, ciò che più monta, distinto gli stadii dell'evoluzione generale della civiltà desumendoli dallo stato in cui trovavansi la conquista e la produzione dei mezzi di sussistenza. Tuttavia qui si arresta il concetto ch'egli aveva dell'importanza dell'elemento economico nell'evoluzione della società umana; cosicchè non può dirsi che, nel campo dei principî, egli abbia superato il confine, che separa la storia obiettiva della civiltà dal materialismo storico. In altri termini, Morgan storico sta al materialismo storico come i socialisti teorici del periodo 1825-1840 stanno al socialismo di Marx ed Engels.

Non minor dose di materialismo storico che in Morgan si riscontra nei teorici dell'owenismo, del sansimonismo e del fourierismo; quest'ultima scuola in ispecie aveva negli Stati-Uniti rappresentanti intelligentissimi, nè poteva essere ignorata da Morgan. Potrebbe forse obbiettarsi che, pur non avendo costruito una teoria della storia corrispondente al materialismo storico, nondimeno, adottandone il metodo, egli l'avrebbe rafforzata coll'esempio. Anche questo, peraltro, non è, a senso mio, sostenibile. In Morgan troviamo, è [x] vero, che si tien conto incidentalmente dell'influenza determinante che ha il fattore della produzione, ma senza ch'esso sostenga la parte di forza impellente assolutamente decisiva nell'evoluzione storica. Egli accorda alle ideologie (alle rappresentazioni religiose, ecc.) una forza d'impulso ben maggiore che loro non accordi il materialismo storico, e nella struttura della famiglia — presa questa parola nel senso più lato — vede un coefficiente d'evoluzione sociale per lo meno equivalente al sistema di produzione.

Su quest'ultimo punto, Engels trova che Morgan, nello studio ch'egli ha fatto di certi periodi dell'evoluzione, applicò fedelmente la teoria materialistica della storia; e ciò inquantochè egli considera anche la vita sessuale come un fattore di produzione, il fattore dell'origine della vita, della riproduzione della specie. Senonchè, anche nella scuola di Marx-Engels, siffatta equiparazione della produzione degli uomini con la produzione dei beni non mancò di contraddittori. Uno fra i suoi rappresentanti più noti, H. Cunow, scrivendo delle basi economiche del diritto materno, dimostrò che ella si riduceva ad una mera analogia di parole, senza alcun sostegno nei fatti. Sotto l'aspetto storico, non si tratta della materiale produzione o riproduzione della vita umana, la quale è rimasta la stessa sin dai tempi primitivi, ma bensì delle forme della vita sociale collettiva dei sessi, dei loro reciproci rapporti giuridici, dell'ordinamento familiare e delle sue mutazioni nella storia dell'umanità. Ora, tali mutazioni non si sarebbero già svolte indipendentemente, accanto a quelle del modo di produzione dei [xi] mezzi di sussistenza, ma sarebbero anzi state determinate da queste. L'ordinamento familiare dipenderebbe dal modo di produzione, ossia dalla conquista dei mezzi di sussistenza. Chi giungesse a diverse conclusioni diminuirebbe la portata del materialismo storico.

In quest'obbiezione v'ha ad ogni modo una parte di verità, giacchè d'un'equivalenza della famiglia, quale fattore di riproduzione degli esseri, coi fattori della produzione dei mezzi di sussistenza non si trova traccia in nessuna fra le definizioni del materialismo storico precedentemente pubblicate da Marx ed Engels. Engels rammenta bensì nella presente opera che, in un manoscritto composto da Marx e da lui nel 1846, dicevasi già che la prima divisione del lavoro fu quella fra l'uomo e la donna per la procreazione dei figli; ma ciò non fa che dare maggiore rilievo all'equivoco di quest'analogia. Infatti la divisione delle funzioni nella procreazione e riproduzione non costituisce punto uno stadio d'evoluzione della storia dell'umanità, ma ci trasporta molto indietro nella storia dell'evoluzione degli animali e delle piante e non è se non lo sviluppo ulteriore di altre divisioni di lavoro o di funzioni. Considerata come produzione, la procreazione è divisione di lavoro biologica, non sociologica.

Ma, se l'obbiezione di Cunow regge quanto alla giustificazione data da Engels dell'equivalenza tra ordinamento familiare e sistema di produzione, ciò non significa che Engels siasi del pari ingannato quanto al fatto in sè stesso, nel porre cioè la famiglia e l'unione dei sessi ad egual livello d'altri fattori della [xii] produzione, anzi, nelle fasi primitive dell'evoluzione, persino talvolta ad un livello superiore. In coteste fasi, il modo della vita comune dei sessi, relativamente all'influenza che può esercitare nella creazione e nel consolidamento di comunità più o meno vaste, è anzitutto esso medesimo un fattore importantissimo nella produzione o conquista dei mezzi di sussistenza; in secondo luogo deve riconoscersene l'influenza attraverso l'evoluzione del sistema di produzione, per ciò ch'è esso appunto che ne suscita o rafforza le condizioni di progresso. Così mi sembra, ad esempio, che le osservazioni di Engels sull'importanza che ha la formazione dell'orda nell'elevamento del primo uomo al disopra dello stadio d'evoluzione nel quale si arrestarono le scimmie antropomorfe, pur restando nel regno delle ipotesi (giacchè a quel progresso possono essere concorse altre cause), hanno tuttavia molti argomenti in proprio favore. In ogni caso l'obbiezione di Cunow urta contro lo stesso errore che, allo stesso proposito, riscontriamo anche in Engels; quello cioè di non aver sufficientemente rilevato la differenza fra rapporti causali e condizionali, o, in altri termini, fra causa e condizione, ch'egli tratta a un dipresso come sinonimi.

Nell'esposizione materialistica della storia, è questo veramente uno scoglio fra i meno superabili. I cultori di cotesto metodo incappano facilmente nell'equivoco di scorgere in coefficienti, che resero una data evoluzione possibile, addirittura le cause e le forze impellenti ond'essa è sorta. Ora, siffatti coefficienti possono, è vero, aver agito come propulsori, ma [xiii] ciò non vuol dire che siano stati sempre il propulsore decisivo. Infatti v'hanno date condizioni naturali — come le qualità del suolo, il clima, la preponderanza del regno vegetale sul regno animale — necessarie allo svolgimento di talune forme economiche e strutture sociali. Ma ciò non dimostra ancora che tali forme e strutture siano il necessario prodotto di quelle condizioni; che queste, cioè, siano sufficienti a produrle anche senza il sussidio di altri coefficienti. Quanto è agevole intuire in astratto che tutto ciò che accade è necessario che accada, altrettanto difficile è dimostrare siffatta necessità nei casi concreti, di fronte al vario atteggiarsi degli organismi superiori. Esaminate più davvicino, le pretese prove si riducono sempre a semplici combinazioni di parziali concause e condizioni, che autorizzano bensì giudizî di maggiore o minore probabilità, ma non mai di certezza apodittica.

Coloro, ai quali tutto ciò fa l'effetto di scoraggiante scetticismo, rammentino che qui si tratta d'interpretazioni scientifiche ex postea e non già di formule di rivendicazioni — si tratta insomma di sapere, non di volere. D'altronde l'azione pratica della democrazia socialista non è ella stessa diretta principalmente a creare le condizioni d'un ordinamento sociale superiore, la cui struttura è affare dell'avvenire?

Era troppo naturale che, nel ricercare presso i varî popoli le traccie della gens imperniata sulla successione materna (determinazione della parentela secondo la discendenza materna), chi primo l'aveva scoperta, Morgan, accordasse un'attenzione più intensa ai fatti, [xiv] che meglio si prestavano alla sua tesi, anzichè a quelli che se ne scostavano. Talune sue generalizzazioni esagerate trovano poi una scusante nella circostanza, che, allorquando egli scriveva la sua opera, le indagini sulla storia primitiva erano poco sviluppate come scienza; mentre oggidì s'esporrebbe al ridicolo chi osasse spacciare tutte le sue proposizioni per altrettante verità apodittiche. Lo stesso dicasi delle conclusioni che Engels, sulle traccie di Morgan, trasse rapporto alla gens, però che anch'esse non vanno immuni da generalizzazioni rivelatesi assolutamente eccessive.

Nell'accennato scritto di Cunow è poi data la convincente dimostrazione, che il diritto materno non è punto un istituto, il quale si svolga fatalmente dall'originaria famiglia-orda, se così si può chiamarla, in conseguenza del crescere di questa, ma che si richiedono sempre determinate condizioni economiche — una limitata agricoltura coesistente alla caccia e alla pesca, come base della sussistenza — perchè alla donna sia dato raggiungere, nella collettività domestica ed eventualmente nella gens, quella posizione, che può definirsi di diritto materno, nel significato in cui Engels adopera questa parola. In Engels diritto materno, nel senso di posizione sociale più elevata della donna, e successione materna compaiono a un dipresso come sinonimi, sebbene in realtà non lo siano affatto e la successione materna fosse, anzi sia, in molti casi accompagnata ad una posizione sociale assai bassa della donna. Del pari troviamo la successione materna in popoli pastori, sebbene, secondo la teoria, la pastorizia dovrebbe dare origine [xv] alla famiglia patriarcale. Fa d'uopo appunto, come notammo, d'un concorso ininterrotto di differenti circostanze perchè sorga una determinata istituzione sociale, e già presso i popoli primitivi s'avverte che non v'ha assolutamente, nella serie delle evoluzioni delle loro istituzioni sociali, una costante coincidenza quanto agli stadii percorsi da ciascuno di essi.

Per tale rapporto, Engels si lascia più volte trascinare, nell'attuale scritto, dalla predilezione per certe forme ed istituzioni del diritto sociale, a conclusioni che non resistono ad una più accurata disamina. Per esempio, egli esagera talvolta — non sempre — la portata del così detto comunismo primitivo, che del resto non era sostanzialmente se non un comunismo negativo, senza un concetto giuridico determinato, e che assunse una forma positiva soltanto come collettivismo di gruppi di parentela. Ciò, a cui mira la democrazia socialista, come partito dei lavoratori, è, nei suoi presupposti materiali ed ideali, così fondamentalmente diverso da quel primordiale «diritto di tutti sulla terra e sui suoi prodotti», che si può dire in diametrale opposizione con esso. Fra le rivendicazioni socialiste e quel diritto primitivo non v'è più somiglianza che fra l'animismo dei selvaggi e le teorie vitaliste dei moderni fisiologi. Osservato più attentamente, il comunismo primitivo si presenta come una proprietà particolare di gruppi sovra la terra e sui tesori ch'essa offre spontaneamente, fondata sull'occupazione o sulla conquista o sulle forme affini d'acquisto dei mezzi di sussistenza: raccolto e caccia. D'altronde, anche in [xvi] questi stadii si rinviene di già la proprietà personale, sebbene, naturalmente, esercitata soltanto sovra oggetti d'uso individuale, come armi, ornamenti e simili. Può dirsi, su per giù, che il comunismo primitivo era un comunismo fondato sul non-lavoro e che la sua scomparsa coincide col primo apparire della coltivazione sistematica del suolo, d'onde l'acquisto dei mezzi di sussistenza ebbe finalmente la vera impronta di lavoro creatore. Ovvero può invece dirsi che il comunismo primitivo corrispondeva a quello stato d'immediata dipendenza in cui l'uomo trovavasi ancora rapporto ai doni spontanei della natura, e che cessa appunto non appena l'uomo incomincia a dominare la natura. A mio avviso, nell'abbandono di siffatto comunismo primordiale, potrà tutt'al più ravvisarsi una specie di peccato originale storico: il peccato dell'umanità che s'accosta all'albero della scienza.

Non dissimile è il giudizio storico, che deve darsi su l'abolizione o la scomparsa della costituzione gentilizia; costituzione che Engels medesimo dichiara possibile soltanto in uno stadio assai basso d'evoluzione sociale — (popolazione scarso e lavoro poco produttivo) — e destinata a tramontare al primo slancio ulteriore dell'evoluzione. La forte simpatia di Engels per la società sorta sulle associazioni gentilizie ed organizzata a loro servigio non gliene dissimula però i lati oscuri ed il carattere transitorio. Nullameno anche il quadro, ch'egli ci dà, del modo, con cui dalla costituzione gentilizia si sarebbe svolto lo Stato, mi sembra di colorito alquanto tendenzioso. Generalmente egli si raffigura questo trapasso [xvii] come una specie di peccato originale, prodotto da influenze degradanti, da interessi spregevoli e da mezzi ignominiosi — come un abisso di corruzione, in cui, dal grado di relativa elevatezza morale di già raggiunto, sarebbe precipitata l'umanità. Qui abbiamo, secondo me, la eccessiva generalizzazione di alcuni fenomeni accidentali o secondarî, che risponde a quella pseudo-etica, a quel romanticismo sociale, che troviamo più spesso nei radicali con tendenze conservatrici, ad esempio nei democratici piccolo-borghesi, anzichè nei rappresentanti del socialismo scientifico. Indubbiamente, ove le istituzioni sociali sono poco evolute e lasciano lieve margine alle tendenze particolari dell'individuo, minore è la possibilità di corruzione che non in società più complicate; tuttavia chi vorrebbe perciò asserire in generale che siano più elevate le condizioni morali delle società più semplici? Non dovremmo piuttosto confessare che, per quanto ci seduca a prospettiva del loro contrasto coll'ambiente attuale, il valore morale non ne è soverchio? L'onestà dovuta ad ignoranza o ad assenza di tentazioni ha tutt'altro carattere che non quella dei membri di maggiori e più complicate comunità, dotati d'intelligenza ed esposti ad ogni sorta di tentazioni. In parecchi passi lo stesso Engels mostra la spaventosa rapidità con cui, ad esempio, la moralità dei barbari Germani s'infrange nell'urto della civiltà romana; e lo stesso può notarsi oggi negli individui che, appartenendo ad ambienti civili più semplici, sono trascinati nell'orbita di civiltà superiori.

È errore purtroppo comune quello di scorgere una prova di moralità più elevata della [xviii] nostra civiltà, nell'assenza di talune immoralità o di taluni vizi, che non è invece in realtà se non l'indice della rozzezza di vita e d'ideazione dei popoli, presso i quali l'ammiriamo. Costumi più semplici e moralità più alta son due termini, come tutti sanno, sostanzialmente diversi. La sincerità dell'uomo della natura, che a ciascuno dice ciò che di lui effettivamente pensa, c'impone per il contrasto colla nostra cortesia di convenzione, la quale ci consente di dirigere magari parole cortesi a persone che abbiano in dispregio; ma non perciò pensiamo ad imitarla e ce ne avremmo a male se lo facessero quelli che ci circondano. La nostro cortesia è ella forse più immorale della sua sincerità? Oserei negarlo. Infatti la nostra ipocrisia, appunto perchè convenzionale, non ha origine maligna; ell'è piuttosto un dominio sovra sè stessi, richiesto dalle condizioni e dai rapporti d'una vita più evoluta, la quale non tollera che s'abbia sempre il cuore sulla lingua. Ben poteva, cent'anni fa, quando la Germania era ancora quasi esclusivamente un paese agricolo, cantarsi da Goethe:

In tedesco è mentir l'esser cortese.

Oggi, la si direbbe un'esagerazione priva di garbo; ma peggio ancora il voler dedurre dalla scomparsa delle forme di convivenza primordiali un abbassamento nel livello morale. È certo che le condizioni morali dell'attuale Germania sono superiori a quelle del 1800.

Allorquando s'occupa di determinati popoli e della loro evoluzione, Engels si mostra per lo più immune da romantici entusiasmi per [xix] le civiltà primitive, anzi dileggia volontieri quegli scrittori, pei quali il selvaggio è l'uomo migliore. Ma, nel riepilogare e nelle formule generali, accade anche a lui di fermarsi ai lati luminosi delle più antiche forme sociali, dimenticandone i lati oscuri. D'altronde, non è semplicemente dalla simpatia, ben concepibile, verso le istituzioni democratiche dei popoli primitivi ch'egli è spinto a siffatte unilateralità; nel suo modo di presentare la storia si sente piuttosto l'influenza di certe vedute fourieriste ed hegeliane. Sulla fine del libro, è Engels stesso che cita la Critica della civiltà di Fourier, dove appunto fra le note predominanti emerge l'evoluzione fino a noi, rappresentata quale un progresso intellettuale accompagnato da degenerazione morale. Ad eguali conclusioni giunge in Hegel il concetto della storia, che s'evolve per via di antitesi. Ora, volendo giudicare il presente sotto questo aspetto, si è fatalmente portati ad esagerare il valore di determinate istituzioni del passato.

Così, ad esempio, la moderna prostituzione è ben più ripugnante al nostro senso morale che non la poligamia, quale la rinveniamo anche in anteriori stadi d'evoluzione. Eppure la prima segna un grande progresso morale, in quanto riposo sul riconoscimento della libera personalità. La prostituta moderna dispone ella stessa del proprio corpo, al contrario di ciò che accadeva generalmente nella poligamia. Anche vendendosi sotto il pungolo del bisogno, ella esercita un atto d'indipendenza, che presso varî popoli così detti della natura è alla donna negato. Certamente la vendita o il baratto di fanciulle adulte, che si fa nel [xx] matrimonio dai loro genitori o dal capo della famiglia ad un terzo, si concilia colle idee generali di questi popoli assai meglio che non la prostituzione volontaria colle nostre; ciò tuttavia prova unicamente che i nostri odierni criterî sono più elevati e non già che i nostri costumi sono decaduti.

Tale è principalmente il criterio, con cui dobbiamo confrontare e valutare le condizioni morali d'epoche diverse. Formuliamolo come ci pare, ma sempre troveremo che questo criterio si risolve nel maggiore o minor rispetto della personalità e nella posizione che a questa è fatta nella comunità. S'intende che la libertà puramente formale della personalità esige, per divenire vera libertà, certe condizioni economiche e che il rispetto sociale della personalità presuppone il rispetto e la padronanza di sè stessi.

A Fourier e a Hegel si connettono altresì parecchie deduzioni di Engels sulla futura forma della famiglia e del vincolo sociale. Nel matrimonio proletario egli ravvisa uno stadio di monogamia più elevato che non quello in cui trovasi il matrimonio borghese. Vi mancano, secondo lui, insieme alla proprietà, l'impulso ed i mezzi ad un predominio maschile e l'eguaglianza economica dei sessi fa sì che di regola l'amore sessuale presieda veramente alla loro unione. Passati i mezzi di produzione in proprietà comune della società, diventati oggetto di industria pubblica i lavori che prima appartenevano all'economia domestica, convertita in pubblico servizio l'assistenza e l'educazione dei fanciulli, diverrebbe generale questa eguaglianza di fatto dei sessi, rendendo in [xxi] pari tempo possibili le unioni sessuali fondate esclusivamente sull'amore sessuale. Nondimeno Engels dubita che, avverandosi tutto ciò, cadrebbe anche la monogamia, la quale oggi ha la prostituzione per correlativo, essendo difficile ammettere che questa possa scomparire senza trascinare nella sua caduta la monogamia.

Anche della verità di taluno di questi presupposti può tuttavolta dubitarsi. Così la vita coniugale del moderno lavoratore è considerata da Engels un po' troppo dal punto di vista del concetto tradizionale di «proletario». Nei paesi meglio progrediti, il matrimonio del lavoratore tende in fatto assai più ad imborghesirsi che non a svolgersi in una propria direzione indipendente e, almeno per ora, subisce più del matrimonio borghese l'influenza della legislazione sociale. Questa, è vero, toglie ai genitori parte delle cure pei fanciulli, ma, col divieto del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche, colla diminuzione delle ore di lavoro degli adulti e con altrettali disposizioni, paralizza una quantità di forze tendenti all'abolizione od alla decomposizione della famiglia. Oltracciò, nel mondo dei lavoratori è regola quasi generale che col matrimonio la donna abbandona il lavoro retribuito o lo limita sensibilmente, dedicandosi sovratutto alla direzione della casa. Il piede di casa individuale importa senza dubbio un sensibile spreco di lavoro, ma l'attrattiva d'una casa propria è talmente forte per la grande maggioranza degli uomini, da far loro preferire il sovrappiù necessario di lavoro casalingo ai cresciuti mezzi di godimento, che sarebbero apportati dalla trasformazione [xxii] della economia domestica in industrie pubbliche. Si può certamente constatare una serie di fenomeni, che contribuiscono a rendere meno gravosa ed a completare la vita domestica individuale — ma non si può punto constatarne la dissoluzione, almeno nella classe lavoratrice. Il problema del servizio nella casa borghese, che si agita attualmente nei paesi progrediti, non minaccia affatto la casa operaia.

È del pari dubbio se noi andiamo incontro ad un'epoca in cui al matrimonio monogamico saranno tolte le sue basi economiche. La necessità della coesistenza della prostituzione con questo matrimonio può sostenersi soltanto da chi al concetto di «monogamia» dà un significato soverchiamente gretto. Dell'odierno matrimonio dei lavoratori, Engels afferma che esso è monogamico nel significato etimologico, ma non affatto nel significato storico della parola. Tuttavia, che cosa devesi intendere per «monogamico nel significato storico»? Chi ben guardi, tale espressione è da Engels usata per indicare quella forma, in cui primitivamente la monogamia si svolge da precedenti forme di connubii (connubio per gruppi o per coppie), ossia il connubio individuale con predominio quasi assoluto dell'uomo sulla donna. Egli medesimo, però, ammette che la monogamia non apparve punto dappertutto nella «rude forma classica» assunta, secondo lui, presso i Greci, indicando inoltre come essa si distingua nei diversi paesi con tratti differenti. Se ne dovrebbe concludere che il concetto di «monogamia» non si esaurisce nel significato connesso alla forma primordiale; e [xxiii] che siamo quindi autorizzati ad applicarlo a tutti i connubii fra un solo uomo e una sola donna, il cui intento sia superiore a quello d'un semplice appaiamento o d'un appaiamento a durata fissa.

Quell'elemento, già così importante nella conclusione del matrimonio, ch'è l'armonia spirituale o psichica e quindi il completamento reciproco dei due, è affatto trascurato da Engels, sebbene col progredire della civiltà esso divenga nel matrimonio un coefficiente di sempre maggiore importanza. Ma conviene che cadano non pochi ostacoli, che scompaiano non pochi pregiudizii, prima che cessi lo stato d'inferiorità della donna di fronte all'uomo; e quindi il matrimonio, ch'è quanto dire l'unità della famiglia, ha dinanzi a sè ancora molto tempo per mantenersi essenzialmente monogamico.

Un discorso analogo può tenersi per quel che riguarda lo Stato. Anche per quest'istituto vediamo Engels fondarsi su una definizione che s'attaglia alle sue particolarità iniziali — formazione del dominio di classe — per predirne la futura scomparsa. Ora, nel corso dell'evoluzione, lo Stato ha sostanzialmente ampliato le sue forme, assumendo sempre nuove funzioni. Non ne parla Engels stesso come d'un organo di divisione del lavoro sociale? E dovrà per questo credersi che, tolto di mezzo il presupposto or ora menzionato, anche lo Stato abbia a spegnersi o a paralizzarsi? Ciò mi sembra estremamente inverosimile. Infatti, l'evoluzione che procede sotto i nostri occhi ci mostra che, all'opposto, man mano lo Stato cessa d'essere l'organo del dominio o dell'oppressione [xxiv] di classe, più va estendendosi la sua sfera d'azione. Ed anche nei suoi primordi esso non è un semplice congegno di codesta oppressione: il suo sorgere coincide colla formazione di grandi unità di popoli, entro confini fissi, con sedi stabili e la cui coesione non è più dovuta esclusivamente alle associazioni familiari. Esso nasce dall'aumento numerico e dalla densità della popolazione stabile su un dato territorio; nè potendosi tale aumento concepire senza una grande ricchezza economica e lunghi periodi pace, ecco che lo Stato nascente, pur essendo un mezzo di dominazione di classe, è altresì il caposaldo e l'espressione d'un grande progresso sociale. Il che ci è pure mostrato dallo stesso Engels, allorquando nella federazione delle razze irocchesi scorge il crollo di quella costituzione gentilizia, che precorse l'instaurazione dello Stato e ch'era troppo limitata e gretta per tollerare un sensibile progresso sovra il tenore di vita degli Indiani in continua guerra pei territorii di caccia, ecc. Se, adunque, al suo apparire, lo Stato serviva alla dominazione di classe, o se venne foggiato da classi dominanti intente a consolidarsi il potere, si tratta d'una faccia del suo organismo, che non forma se non una particolarità secondaria, radicata non nelle forze che agiscono permanentemente, ma bensì nelle transitorie circostanze della sua creazione e conservazione. La scomparsa dello Stato presuppone non solo l'abolizione del dominio di classe, ma lo spezzarsi altresì delle grandi unità nazionali per far luogo ad associazioni staccate di piccole corporazioni o gruppi. Quest'ultimo evento è però più che improbabile. Per quanto [xxv] il principio democratico della federazione sia destinato a trionfare e a informare il rapporto dei gruppi locali e professionali collo Stato — e io penso che sia questo uno fra i più importanti problemi contemporanei — la molteplicità e multiformità dei gruppi ed il continuo aumento dei congegni della società sono tuttavia segni certi che non ne conseguirà la soppressione dell'organismo che tutti li abbraccia, cioè dello Stato.

Vero è soltanto che cadrà lo Stato sfruttatore ed oppressore. Ma questa non è se non una particolare forma di Stato, e non lo Stato in generale.

Furono, come già si disse, concetti appresi da Fourier e da Hegel che condussero Engels a identificare sostanza e forma od a prendere pel tutto un lato particolare della cosa. Anche Fourier abolisce lo Stato, sostituendogli l'associazione dei falansteri; il concetto poi che lo Stato scompare insieme al dominio di classe, donde è generato, corrisponde alla formula hegeliana, per la quale la negazione della negazione è legge dell'evoluzione. Ma, per quanto in Fourier e Hegel si ammirino due illustri precursori della moderna dottrina dell'evoluzione, ciò non toglie l'errore insito nelle loro formule, e che consiste precisamente nel rilevare trasformazioni assolute o totali là dove in realtà non si riscontrano se non mutazioni relative.

Ma facciamo punto colle riserve, le quali han di mira soltanto singole pagine del lavoro di Engels, lasciandone pressochè intatto il complesso, e le quali non vietano d'apprezzarne l'alto valore. Ogni esposizione storica, ogni [xxvi] interpretazione di evoluzioni storiche è, fino a un certo segno, una creazione ed offre un elemento soggettivo determinato dalla personalità dell'autore. A nessuno è concesso presentare la verità nella sua pienezza, o per lo meno esprimere sempre esattamente il rapporto di tutti i fattori di un fenomeno. In questa materia, poi, si è quasi sempre dinnanzi ad ipotesi, più o meno verosimili, ma che non sono ancora certezza. Così lo stesso Engels modificò nella quarta edizione di questo libro taluni passi della prima ed avrebbe, occorrendo, fatto lo stesso nelle edizioni successive. Il suo libro non è un catechismo, ma un tentativo di rappresentare le forze e le circostanze che foggiarono i tre più importanti istituti giuridico-sociali della società incivilita e ne conservarono le forme a noi conosciute: proprietà, famiglia, Stato.

Se Engels quà e là può ingannarsi nel valutare l'influenza di talune fra queste forze in date evoluzioni, ce ne compensa l'ammirabile finezza, con cui egli ci esibì un quadro vivace, intuitivo, del loro complesso. Tanto la muta azione degli elementi economici che, quasi inavvertiti, minano le fondamenta di società o d'istituzioni sociali, rendendone prima possibile, poi inevitabile, la trasformazione, quanto l'influenza delle forze soggettive o ideologiche, sono esposte in modo meraviglioso. Pochi possiedono, al pari di Engels, la dote d'offrire molto in breve contorno, senza divenir pesanti. Egli è sempre chiaro e vivo, maestro nell'analisi e nell'arte di scegliere, nella molteplicità dei fenomeni e delle forze, sempre i fenomeni e le forze prevalenti. Sono queste qualità che [xxvii] rendono prezioso il suo libro anche agli etnologi di professione, così esposti al pericolo di perdere di vista, nelle ricerche speciali, le correlazioni generali delle cose. Per la democrazia socialista, poi, esso ha il notevole merito di renderle famigliari i risultati d'una scienza, alla quale la massa dei socialisti non potè dedicare soverchio tempo e che pure è di non lieve importanza per intendere l'essenza della società. Si potranno sottoporre a revisione i particolari di questo libro, ma, come guida per conoscere i problemi della storia primitiva, esso è insuperabile.

Edoardo Bernstein.

[xxviii]

AVVERTENZE FILOLOGICHE

Fu durante gli squallidi e non volontarii ozii del reclusorio di Pallanza che potei dedicare parecchie giornate a una diligente revisione di questa versione — completata colle notevoli aggiunte dell'ultima edizione tedesca — dell'amico prof. Martignetti. Dei ritocchi intesi soltanto a viemmeglio italianizzarne lo stile — talvolta, per delicato scrupolo di fedeltà, un po' tedescamente duro — non occorre ch'io m'intrattenga. Debbo invece al traduttore e al lettore e alla memoria di Engels — il quale, buon conoscitore della nostra come di quasi tutte le moderne lingue europee, aveva approvato la prima versione (Benevento, 1885), e che pur troppo non è più là perchè, nei dubbii, possiamo consultarlo, come solevamo — debbo un po' anche a me stesso, per la responsabilità che ciascuno deve assumere dei fatti suoi, un chiarimento su quelle modificazioni, che, toccando ad alcune parole, se così posso esprimermi, sostanziali potrebbero essere soggetto di critica.


Einzelehe. — Questo termine ricorre frequentissimo nel volume e appartiene a quella che chiamerei la «terminologia tecnica» dell'autore. Martignetti, e con esso il Sig. Enrico Ravé, che voltò questo libro in francese[3], lo traducono quasi sempre con monogamia, matrimonio monogamico, al pari della parola Monogamie, che l'Engels [xxix] impiega pure con non minore frequenza. Letteralmente, Einzelehe significa connubio singolare o di singoli, cioè connubio di due sole persone, in contrapposizione alle varie forme di connubio plurale, (poligamia, poliandria, connubio per gruppi, ecc.). Io, dovunque l'Engels adopera Einzelehe, sostituii — ad evitare anche il doppio senso dell'aggettivo «singolare» — la dizione «connubio (o unione coniugale) individuate».

Invero, finchè si credette che, di connubii plurali, non esistessero che le forme tradizionalmente note — poligamia e poliandria — e, viceversa, di connubii singolari, la sola forma monogamica, il vocabolo monogamia rispondeva e bastava. Ma le scoperte del Morgan, illustrate dall'Engels, rovesciarono cotesto semplicismo. Questo volume ci apprende come, da un lato, la poligamia e la poliandria siano state precedute (a prescindere dall'antichissima e supposta promiscuità assoluta, che non sarebbe una forma, anzi sarebbe piuttosto la negazione di ogni forma di vero connubio) da molteplici modi di una unione coniugale, che ha insieme della poliandria e della poligamia, senza essere nè l'una, nè l'altra, e che fu chiamata «connubio per gruppi» (Gruppenehe): nel quale tutta una serie di donne erano mogli di tutta una serie di mariti, e del quale la forma punalua sarebbe stata il tipo più evoluto e classico. Ci apprende, dall'altro lato, che, assai prima che trionfasse la rigorosa monogamia dei tempi storici (feste Monogamie), la quale del resto non significa sempre — non significò mai, secondo Engels — la limitazione del rapporto sessuale abituale ad una coppia unica; usarono, per quasi tutto il periodo della Barbarie e per gran parte altresì dell'epoca selvaggia, forme varie di connubii a tempo, dal vincolo più o meno rilassato (lockre Monogamie), ma fra due sole persone; vere forme dunque di connubio singolare od individuale (Einzelehe). La Paarungsehe, connubio per coppie, o sindiasmico, sarebbe stata la forma classica di questi [xxx] maritaggi, risolubili per mutuo consenso, o per volontà di una delle parti, rimanendo i figli alla madre.

Non solo: ma, mentre le varie forme di connubio per gruppi tennero un larghissimo posto nella evoluzione umana e durarono per millennii, come unioni perfettamente organizzate, sulle quali imperniavasi un sistema complicato e ben fisso di parentela e tutta una costituzione sociale; l'Engels ci dimostra come la poligamia e la poliandria, queste forme di connubii per gruppo unilaterali, non poterono essere mai se non l'eccezione e, com'egli si esprime, «un prodotto di lusso della storia» (pag. 76). Dall'altro canto, la monogamia propriamente detta, quella che l'Engels chiama preferibilmente Monogamie, non si svolge dalle varie forme di connubio individuale, e in particolare dal connubio sindiasmico, se non a un dato momento della storia e sotto la pressione di fattori speciali — fattori economici. — Fu dacchè l'allevamento sistematizzato degli armenti, devoluto sopratutto al sesso maschile, permise all'uomo di accumulare ricchezze suscettive di appropriazione individuale e di scambio, dalla proprietà delle quali la donna era esclusa: fu soltanto da tale momento, il quale appare nello stadio più avanzato della Barbarie, già quasi alle soglie dell'epoca civile, che l'uomo — intendiamo il maschio umano — ebbe possibilità ed interesse di modificare la forma di famiglia per modo, da assicurare ai propri figli (la cui paternità doveva, a tal uopo, risultare ben certa) l'eredità di cotesti suoi beni. Caddero allora (nell'ipotesi dell'Engels) il diritto materno e la discendenza in linea femminile; l'uomo diventò, nella famiglia, il despota; si pretese dalla donna (non si dice che la si ottenesse) la fedeltà più rigorosa, e il connubio non fu più risolubile per sua iniziativa. La «monogamia» nasce in questo momento, dopo un lungo periodo di Einzelehen di varia natura; nasce, col suo corteggio obbligato di infedeltà, specialmente mascolina, di eterismo, di prostituzione; monogamia, in ogni [xxxi] caso, temperata e corretta dall'adulterio. E, com'essa è nata da fattori economici, così con questi si trasforma; ecco l'odierno matrimonio proletario, nel quale, per la rispettiva indipendenza e quasi parità economica dei due sessi, i caratteri storici della monogamia, la supremazia del maschio, l'adulterio ecc., la stessa ferrea indissolubilità, si ottundono; e più si ottunderanno quanto più (come già sta avvenendo) i lavori domestici si trasformeranno in servizio sociale. Il matrimonio proletario, dice l'Engels, è monogamo nel senso etimologico, ma non affatto nel senso storico della parola; il connubio dell'avvenire farà della monogamia (intendasi qui, dunque, nel senso etimologico) una realtà per la prima volta anche per l'uomo (pagg. 92 e 97).

Non è dunque un semplice accidente se l'Autore di questo libro adopera distintamente le due diverse espressioni, Monogamie ed Einzelehe; e generalmente (non manca qualche esempio in contrario, ma in casi nei quali non è possibile l'equivoco) adotta il termine greco per la forma storica e il tedesco per la monogamia in senso etimologico, e quindi nel significato più generale. Postochè l'Einzelehe comprende la Monogamie, ma non viceversa, e questa è preceduta e potrà essere susseguita da lunghissimi periodi di Einzelehen che non sono Monogamie, è chiaro che l'adottare un vocabolo solo per i due concetti non può essere senza confusione. Sovente, infatti, la confusione si affaccia. Qualche volta il Ravé tenta sfuggirle, rendendo, per esempio, Einzelehe con «mariage unique»(?) (pag. XIV), o risolve la difficoltà sopprimendone l'obbietto, come a pag. 13, dove Einzelehe diventa Ehe: «ce genre de mariage.....»; preceduto in questo spediente dal Martignetti (ediz. 1885, pag. 21). Ma ecco un brano che mi sembra risolutivo (cfr. più oltre, pag. 105-106; ultima ediz. tedesca 1894, pagg. 71-72):

«Or poiché — scrive l'Engels — l'amore sessuale è di sua natura esclusivo,.... il connubio fondato sull'amore [xxxii] sessuale è, di sua natura, Einzelehe. Vedemmo quanta ragione aveva Bachhofen di considerare il progresso dal connubio per gruppi all'Einzelehe come l'opera sopratutto delle donne; solo il passaggio dal connubio sindiasmico alla Monogamie è dovuto agli uomini; e, storicamente,.... agevolò la infedeltà degli uomini. Ecc.»

Qui è ben chiaro che Einzelehe e Monogamie sono distinti, successivi ed in contrapposto fra loro; fra essi, cronologicamente, sta di mezzo il connubio sindiasmico, forma speciale di Einzelehe, onde si è svolta la Monogamie. Martignetti, nelle pagina manoscritte (il brano è fra gli aggiunti nelle ultime edizioni tedesche), rendeva Einzelehe nel primo caso con monogamia, nel secondo, fatto accorto della contraddizione, con matrimonio per coppie. Ravé si districa ancor peggio (pag. 108):

«Mais, dès lors que, par sa nature, l'amour sexuel est exclusif,.... le mariage basé sur l'amour sexuel est, de par sa nature, la monogamie. Nous avons vu combien Bachofen avait raison lorsqu'il considérait le progrés du mariage par groupe au mariage par couple, comme étant surtout l'oeuvre de la femme; seul le passage du mariage syndiasmique à la monogamie peut être mis au compte de l'homme; ecc.»

Nel quale testo non solo si sostituisce arbitrariamente «mariage par couple» — che sarebbe piuttosto la Paarungsehe o connubio sindiasmico, del quale pure, nel brano, è distintamente fatto cenno — alla generica Einzelehe; ma il vocabolo Monogamie gioca due parti in commedia, e, che è peggio, due parti contraddittorie: quella di connubio individuale in genere (compresa la Paarungsehe, e tutte le altre forme antiche e future) e quella di monogamia nel senso storico, e cioè di quel matrimonio, coevo alla proprietà privata e contrassegnato dal dominio maschile, al quale si applica l'aforisma di Fourier: «come nella grammatica due negazioni fanno una affermazione, così nella morale coniugale due prostituzioni formano una virtù.»

[xxxiii]

Non giova moltiplicare gli esempi. Le cose dette bastano, spero, a salvarmi da accusa di stranezza o di temerità se, per rendere Einzelehe, coniai la dicitura «connubio individuale», e sia pur che la frase non lusinghi l'orecchio: l'importante, ad ogni modo, è di intenderci sul significato.

Analogamente, Einzelfamilie volli tradotta, anzichè con «famiglia monogamica», con famiglia individuale, o singola, od isolata, a seconda dei casi. Isolirte familie usa in qualche caso l'Autore (ediz. tedesca, pag. 143), che risponde alle familles incohérentes del Fourier, nella nota a pag. 240 di questo volume. — Al vocabolo matrimonio, quando si tratta di forme primitive, ho poi sostituito connubio; non parendomi che alla Einzelehe, che fioriva, non ancora staccata, sul tronco del connubio per gruppi, possa imprimersi il suggello giuridico e contrattuale, che il sostantivo matrimonio, storicamente e volgarmente, porta con sè.


Leiblich. — L'aggettivo (letteralmente: corporale) è impiegato dall'Engels a designare un rapporto di consanguineità reale e diretta. Nelle famiglie per gruppi, in cui tutta una serie di donne vive in comunanza coniugale con una serie di uomini, questi sono reputati altrettanti padri, quelle altrettante madri dei figli di ciascuna di esse; e tutti i loro figli, anche quelli che nella nomenclatura odierna chiameremmo cugini, sono reputati fratelli e sorelle fra loro; i cugini (nel senso moderno) non esistono ancora. Ma vi è pure di ciascun figlio una madre certa, che lo ha generato, e un padre — il più spesso incerto — che concorse direttamente al concepimento. Questi genitori, e i fratelli e sorelle, figli di cotesta coppia, sarebbero reciprocamente genitori, figli e fratelli e sorelle leibliche. Nei rapporti però della parentela riconosciuta, in coteste famiglie per gruppi, non erano propriamente leiblich se non la genitrice verso i figli, e, fra loro, i figli di una [xxxiv] stessa genitrice: leiblichen Geschwister (das heisst von mütterlichen Seite), scrive esplicitamente l'Engels parlando della famiglia punalua (ediz. tedesca citata, pag. 21). — Martignetti traduce talvolta carnale, tal'altra volta (di fratelli e sorelle) germani. Ravé rende leiblich colle frasi: la mère propre, le vrai père, e, trattandosi di fratelli e sorelle, germains, e una volta (pag. 31) utérins; in un luogo (pag. 118) lo sopprime. — Tutto ciò non solo genera discordanza, ma si risolve (mi sembra) nel sostituire concetti presi a prestito dalla famiglia moderna a quelli che regnavano, e soli potevano regnare, nella famiglia per gruppi. — Io preferii adottare invariabilmente l'aggettivo: carnale.


Kultur, Kulturvölker, Kulturstufen. — Non è facile rendere nelle lingue latine, con vocabolo unico e costante, il tedesco Kultur e i suoi composti. Martignetti e Ravé traducono: cultura, civilizzazione, popoli civilizzati; culture, civilisation, peuples civilisés, cultivés. Se Kultur corrispondesse a civiltà o ad incivilimento, noi ci troveremmo, sin dal primo capitolo (pag. 23), a intitolare Stadii preistorici di civiltà (Vorgeschichtliche Kulturstufen) il quadro dello stato selvaggio e della Barbarie! Il Martignetti, infatti, e con esso il Ravé, ci danno per popoli inciviliti (civilizzati, civilisés, cultivés) gli antiken Kulturvölkern nei quali il diritto paterno si è appena sostituito al diritto materno della gens primitiva, i Greci dei tempi eroici, i Germani di Tacito, ecc., che appartengono allo stadio superiore della Barbarie, anzi quegli stessi Kulturvölker (ediz. tedesca, pag. 41; Martignetti, 1885, pag. 41; Ravé, pag. 63) nei quali cotesta rivoluzione non si è ancora compiuta.

L'antinomia è tanto più stridente in un libro, in cui le tre grandi epoche dell'evoluzione umana (selvaggia, barbarica, civile), e gli stadii di ciascuna di esse, sono tratteggiati colla maggior precisione, e quegli epiteti acquistano [xxxv] un valore tecnico, che non ha nulla d'indeterminato. D'altro canto, non potrebbe parlarsi di Kulturvölker, alludendo a popoli che stagnano, senza speranza di elevamento, nelle bassure sociali dello stato selvaggio od anche barbarico, quasi sottratti alla legge della evoluzione storica. Questi riflessi mi suggerirono di significare Kulturvölker con l'equivalente: «popoli tendenti od avviati a civiltà» od anche, dove il senso lo comporta, «più o meno inciviliti», e Kulturstufen con stadii dell'evoluzione. «Coltura», «coltivati», in italiano e in francese, hanno altro senso preciso.


Preisgebung. — In più luoghi l'Engels ci parla del costume, durato a lungo fra gli antichi popoli, e tuttora esistente presso popolazioni barbariche, pel quale le fanciulle, prima di passare al connubio individuale, o anche le donne durante questo, dovevano, in dati periodi, sich preisgeben (abbandonarsi, darsi in balia) ad unioni sessuali più o meno promiscue; avanzo e riconoscimento della tradizione dei tempi, nei quali le donne appartenevano indistintamente a tutti gli uomini della tribù, o, in uno stadio successivo, a tutti gli uomini della tribù che non fossero della loro gente; e, insieme, sorta di sacrificio espiatorio (Sühnopfer), col quale acquistavano il diritto alla relativa castità del connubio individuale già sorto.

A non voler meritare il rimprovero che l'Engels muove al Westermark (V. più oltre, pag. 43) di «guardare lo stato di cose primitivo colla lente del lupanare», non mi pare possibile tradurre il concetto della Preisgebung, come fa talora il Ravé (pag. 53, 80, ecc.), coi vocaboli moderni prostituirsi e prostituzione. Simili espressioni (Prostitution, Prostituirten) sono a preferenza, se non sempre, impiegate dall'Engels per indicare il far commercio e lucro di sè, la moderna prostituzione venale o professionale, figlia dell'epoca proprietaria e compagna inevitabile del [xxxvi] predominio maschile e del matrimonio monogamico, colla quale l'antica promiscuità nulla aveva di comune; nè quindi poteva avervi alcunchè di comune quest'altra promiscuità, rituale o simbolica, avvenisse pure talvolta a prezzo di denaro (Hingebung für Geld), denaro che in origine passava al tesoro del tempio nel quale celebravasi il rito d'amore (pag. 84). Lo stesso eterismo dei Greci, comechè le Etere fossero straniere o liberte, non è ancora la vera prostituzione. Giova rammentare come l'Engels, in una nota (pag. 45), rimproveri al Goethe di avere, in una sua ballata, troppo assimilato la religiöse Frauenpreisbung degli antichi alla prostituzione moderna.

Il Martignetti ben avvertì la differenza e soleva tradurre Preisgebung con abbandono. Questa espressione dovette soltanto venir completata, perchè non apparisse un pudibondo eufemismo.

(Aprile 1901)

Filippo Turati.

[1]

Prefazioni dell'Autore

[3]

PREFAZIONI DELL'AUTORE

I. — Alla 1.ª edizione (1884).

I capitoli che seguono sono in certo modo l'esecuzione di un legato. Un uomo del valore di Carlo Marx si era riservato di esporre i risultati delle investigazioni di Morgan, in relazione con quelli delle sue — in certi limiti, oso dire delle nostre — ricerche storiche materialistiche e di chiarirne quindi tutta l'importanza. Morgan aveva pure scoperto di nuovo, a modo suo, in America, la concezione materialistica della storia, scoperta 40 anni prima dal Marx; e, nel suo paragone della barbarie colla civiltà, era stato condotto da essa, nei punti principali, ai medesimi risultati del Marx. E come il Capitale fu per lunghi anni saccheggiato con tanta premura dagli economisti di mestiere in Germania quanta fu la perfidia con cui si adoperarono a ucciderlo col silenzio, così, in modo affatto simile, venne trattato il libro di Morgan Ancient Society[4] dai portavoce della scienza «preistorica» in Inghilterra. Il mio lavoro può supplire assai debolmente [4] quello che non fu concesso di fare al mio estinto amico.

Mi stanno però dinnanzi — e li riprodurrò per quanto sia possibile — i commenti critici ond'egli accompagnò i minuziosi estratti dal Morgan.

Secondo la concezione materialistica, il movente essenziale e decisivo, nella storia, sta nella produzione e nella riproduzione della vita immediata. Queste, a loro volta, sono di due specie. Da una parte, la produzione delle sussistenze: alimenti, vesti, abitazioni, e degli strumenti che le procacciano; dall'altra, la procreazione degli stessi uomini, la riproduzione della specie. Le istituzioni sociali, sotto le quali vivono gli uomini di una data epoca storica e di un dato paese, sono determinate da entrambi i modi della produzione: per una parte, dal grado di sviluppo del lavoro; per l'altra, dal grado di sviluppo della famiglia. Meno sviluppato è il lavoro, più limitata è la quantità dei suoi prodotti, ossia della ricchezza sociale, e tanto più l'ordinamento sociale si vede dominato da vincoli di sangue. In questo assetto sociale, basato su legami di consanguineità, si sviluppa intanto sempre più la produttività del lavoro; insieme ad essa la proprietà privata e lo scambio, la differenza di ricchezza, l'impiego di forza di lavoro estranea, e con ciò la base degli antagonismi di classe: nuovi elementi sociali che, nel corso delle generazioni, si sforzano di adattare l'antica costituzione sociale alle nuove condizioni, sino a che finalmente la loro incompatibilità produce una completa rivoluzione. La vecchia società, basata su vincoli di sangue, è frantumata nella collisione colle classi sociali novellamente sviluppatesi; subentra una nuova società, compendiata nello Stato, le cui unità costitutive non sono più gruppi consanguinei, ma locali; una società, nella quale l'ordinamento della famiglia è interamente dominato dall'ordinamento della proprietà, e nella quale si svolgono liberamente quegli antagonismi e quelle lotte di classi, in cui consiste tutta la storia fin ora scritta.

[5]

Il gran merito di Morgan è di avere scoperta e riprodotta, nelle sue linee principali, questa base preistorica della nostra storia scritta, e di aver trovata, nei gruppi consanguinei degl'Indiani dell'America del nord, la chiave che ci scioglie gli enigmi più importanti, finora insolubili, delle più antiche storie, greca, romana e germanica. Ma il suo scritto non è l'opera di un giorno. Egli lottò circa quarant'anni col suo soggetto, finchè lo ebbe dominato completamente. E perciò il suo libro è anche una delle opere del nostro tempo, di cui possa dirsi che «fanno epoca».

Nel complesso dell'esposizione che segue, il lettore distinguerà facilmente la parte di Morgan dalla mia. Nelle parti storiche sulla Grecia e su Roma, ai dati di Morgan, ne aggiunsi altri, ond'io potevo disporre. I capitoli sui Celti e sui Germani sono essenzialmente miei; Morgan, a questo proposito, disponeva quasi soltanto di fonti di seconda mano e, per quel che riguarda i Germani, non possedeva, all'infuori di Tacito, che le cattive adulterazioni liberali del signor Freeman. Le deduzioni economiche, bastevoli al Morgan pel suo scopo, ma affatto insufficienti pel mio, sono state tutte da me rimaneggiate. E s'intende, infine, che io sono responsabile di tutte le conclusioni nelle quali Morgan non è espressamente citato.

[6]

II. — Alla 4.ª edizione (1891).

Le precedenti edizioni di questo lavoro, malgrado la loro grande tiratura, sono esaurite da circa sei mesi, e già da gran tempo l'editore mi chiedeva di curare una nuova edizione. Lavori più urgenti mi tolsero di occuparmene finora. Dalla 1.ª edizione scorsero 7 anni, durante i quali la conoscenza delle forme primitive di famiglia fece rilevanti progressi. Diventavano perciò necessarie diligenti rettifiche ed aggiunte, tanto più che, volendosi fare una edizione stereotipa, è da tener conto della impossibilità di apportarvi, per qualche tempo, ulteriori modificazioni.

Sottoposi quindi a un'accurata revisione il testo e vi introdussi una serie di aggiunte; sperando così di avere fatto opera che risponda allo stato odierno della scienza. Darò inoltre, nel corso di questa prefazione, un rapido sguardo allo sviluppo della storia della famiglia da Bachofen a Morgan; e ciò, sopratutto, perchè la scuola preistorica inglese, sciovinisticamente ispirata, continua a fare tutto il possibile per seppellire nel silenzio la rivoluzione portata nei criteri della preistoria dalle scoperte di Morgan, pur continuando, senza uno scrupolo al mondo, ad appropriarsi i risultati da lui ottenuti. E, purtroppo, questo esempio, dato dagli inglesi, è seguito anche altrove.

Il mio lavoro ebbe diverse traduzioni. La prima fu l'italiana: L'origine delia famiglia, della proprietà privata e dello Stato, versione di Pasquale Martignetti, riveduta dall'autore; Benevento 1885. Poi la rumena: Origina familei, proprietatei private si a statului, traducere de Ioan Nadejde, nel periodico Contemporanul di Iassy, dal settembre 1885 al maggio 1886. In seguito la danese: Familjens, Privatejendommens og Siatene Oprindelse, [7] Dansk, af Forfatteren gennemgaaet Udgave, besörget af Gerson Trier; Köbenhavn 1888. Una traduzione francese di Enrico Ravé, fatta sulla presente edizione tedesca, è in corso di stampa[5].


Sino al 1860 non si può dire esistesse una storia della famiglia. La scienza storica stava ancora, per questo riguardo, sotto l'esclusiva influenza dei cinque libri di Mosè. La famiglia patriarcale, quivi descritta più minutamente che altrove, non solo era accettata senz'altro come la forma più antica, ma era anche — astrazion fatta dalla poligamia — identificata con la odierna famiglia borghese; così che la famiglia propriamente non avrebbe avuto in generale alcuno sviluppo storico, ammettendosi tutt'al più che nell'epoca primitiva potesse esservi stato un periodo di rapporti sessuali sottratti ad ogni regola.

È vero che, oltre all'unione coniugale individuale[6], si conoscevano la poligamia orientale e la poliandria indo-tibetana; ma queste tre forme non si riusciva a ordinarle in una concatenazione storica e figuravano senza nesso l'una accanto all'altra. Che in alcuni popoli della storia antica, come in alcuni selvaggi dell'oggi, la discendenza fosse determinata non dal padre, ma dalla madre, e quindi la linea femminile fosse considerata come la sola valida; che in molti popoli odierni il matrimonio fosse vietato entro il limite di certi grandi gruppi, allora non peranco bene studiati, e che quest'uso si trovi in tutte le parti [8] del mondo — questi fatti in verità erano noti e se ne raccoglievano sempre nuovi esempi. Ma non si sapeva che cosa cavarne, e ancora nelle Researches into the early history of mankind ecc., di E. B. Tylor, 1865, essi figurano semplicemente come «strani costumi», allato al divieto, in vigore presso alcuni selvaggi, di toccare tizzoni ardenti con ordigni di ferro, e ad altre analoghe futilità religiose.

La storia della famiglia data dal 1861, dall'apparizione del «Mutterrecht» («Diritto materno») di Bachofen. L'autore vi afferma:

1.º Che gli uomini da principio vivevano in rapporti sessuali promiscui, che egli, con espressione impropria, qualifica eterismo;

2.º Che tali rapporti sessuali escludono ogni certezza di paternità; che quindi la genealogia non poteva essere determinata se non in linea femminile, secondo il diritto materno; e che questo in origine si verificò presso tutti i popoli dell'antichità;

3.º Che, in conseguenza, le donne, quali madri ed uniche parenti certe della giovane generazione, godettero un così alto grado di stima e di considerazione, da ottenere, secondo il concetto di Bachofen, un predominio assoluto (ginecocrazia);

4.º Che il passaggio al connubio individuale, per cui la donna appartiene esclusivamente ad un uomo, includeva la violazione di una legge religiosa primitiva (ossia, in effetti, una violazione del tradizionale diritto degli altri uomini sulla medesima donna), violazione che doveva essere espiata, o la cui tolleranza la donna doveva riscattare, coll'abbandonarsi per un dato periodo ad amori promiscui.

Bachofen prova queste tesi con passi innumerevoli della letteratura classica antica, cercati e raccolti con una diligenza straordinaria. La evoluzione dall'«eterismo» alla monogamia e dal diritto materno al paterno si effettua, secondo lui, [9] specialmente fra i Greci, in virtù di un continuo sviluppo dei concetti religiosi, della intrusione di nuove deità, rappresentanti le nuove idee, nei gruppi degli dei tradizionali, che rappresentavano le idee antiche; sicchè queste venivano mano mano soppiantate da quelle. Non è quindi lo sviluppo delle condizioni reali della vita umana, ma il loro riflesso religioso nelle menti degli uomini, che, secondo Bachofen, ha operato i cangiamenti storici nella reciproca posizione sociale dell'uomo e della donna.

Bachofen presenta quindi l'Oreste di Eschilo come la rappresentazione drammatica della lotta tra l'agonizzante diritto materno e il nascente, anzi ormai vittorioso, diritto paterno nell'epoca eroica. Clitennestra, per amore del suo amante Egisto, ha ucciso lo sposo Agamennone, reduce dalla guerra di Troja: ma Oreste, figlio suo e di Agamennone, vendica l'assassinio del padre, uccidendo la propria genitrice. Le Erinni, le demoni protettrici del diritto materno, pel quale l'assassinio della madre è il più grave ed inespiabile delitto, perseguitano Oreste; ma Apollo, che, per mezzo del suo oracolo, ha incitato Oreste a vendicare il padre, e Minerva, chiamata come arbitra — le due deità, che qui rappresentano il nuovo ordine paterno — lo difendono: Minerva ascolta le due parti. Tutta la controversia si riassume nel dibattito tra Oreste e le Erinni. Oreste afferma che Clitennestra ha perpetrato un doppio misfatto: perchè essa ha ucciso lo sposo di lei e insieme anche il padre di lui. Perchè dunque le Erinni perseguitano lui e non essa, che è la più colpevole? La risposta delle Erinni vi colpisce:

«Essa non era consanguinea dell'uomo che ha ucciso.»

L'assassinio di un uomo non consanguineo, anche se è lo sposo, è espiabile; non concerne le Erinni; loro solo ufficio è punire l'assassinio tra consanguinei e, secondo il diritto materno, il più grave ed inespiabile è l'assassinio della madre. Ma Apollo [10] interviene come difensore di Oreste, e Minerva fa votare gli Areopagiti, i giudici ateniesi; i voti sono eguali per l'assoluzione e per la condanna; allora Minerva, che presiede l'Areopago, dà il suo voto favorevole ad Oreste e lo assolve. Il diritto paterno ha vinto il diritto materno, gli «dei di giovane schiatta», come le Erinni li qualificano, vincono le Erinni, che alla fine si lasciano pur esse persuadere ad assumere un nuovo ufficio in servizio del nuovo ordine di cose.

Questa interpretazione, nuova ma giusta, dell'Oreste, è uno dei passi migliori e più belli di tutto il libro, ma essa prova altresì che Bachofen crede alle Erinni, ad Apollo e a Minerva quanto almeno, a suo tempo, vi credeva lo stesso Eschilo: egli crede cioè che furono appunto questi miti che nel tempo eroico della Grecia compirono il miracolo di abbattere il diritto materno e di sostituirlo col diritto paterno. È chiaro come codesto modo di vedere, secondo il quale la religione è considerata la leva decisiva della storia del mondo, debba finalmente riuscire ad un mero misticismo. Gli è perciò che la fatica spesa intorno al grosso in quarto del Bachofen è assai dura e ben lungi dall'essere sempre rimuneratrice. Ciò però non menoma il grande merito di questo pioniere; egli, pel primo, alle frasi vaghe, con cui si alludeva allo stato primitivo di promiscuità sessuale, sostituì la prova, emergente da infinite traccie contenute nella letteratura classica antica, che, prima del connubio individuale, ebbe vita, presso i Greci e gli Asiatici, uno stato di cose, nel quale, non solo un uomo aveva rapporto sessuale con parecchie donne, ma una donna con parecchi uomini, senza che i costumi ne fossero offesi. Egli ha provato che questo uso non sparì senza lasciar tracce di sè in un abbandono temporaneo a rapporti sessuali promiscui, col quale le donne dovevano acquistare il diritto al connubio individuale; che, quindi, la discendenza, in origine, non poteva essere determinata [11] se non in linea femminile, da madre a madre; che questa validità esclusiva della discendenza femminile si conservò a lungo nell'epoca del connubio individuale, malgrado la paternità assicurata o almeno riconosciuta; e che, finalmente, questa originaria posizione delle madri, come le sole progenitrici certe dei loro figli, assicurava ad esse, e quindi alle donne in generale, una condizione sociale più elevata di quella avuta in qualsiasi epoca posteriore. Per verità Bachofen non ha espresso queste tesi così chiaramente, impedito come egli era dal suo concetto mistico. Ma egli le ha dimostrate, e nel 1861 questo equivaleva a una rivoluzione completa.

Il grosso in-quarto di Bachofen era scritto in tedesco, ossia nella lingua della nazione che allora meno s'interessava alla preistoria della famiglia odierna; rimase perciò sconosciuto. Il suo immediato successore sullo stesso terreno si presentò nel 1865, senza sapere nulla di Bachofen.

J. F. Mac Lennan fu la perfetta antitesi del suo precursore. Invece del mistico geniale, abbiamo qui l'arido giurista; invece della esuberante fantasia poetica, le plausibili combinazioni dell'avvocato patrocinante. Mac Lennan trova, presso molti popoli selvaggi, barbari ed anche inciviliti dei tempi antichi e moderni, una forma di matrimonio, nella quale lo sposo, solo o coll'aiuto de' suoi amici, deve fingere di rapire la sposa ai suoi parenti con la violenza. Questo costume dev'essere la traccia di un uso anteriore, in cui gli uomini di una tribù si procuravano le donne togliendole effettivamente colla forza da altre tribù. Or come nacque questo «matrimonio di rapina»? Finchè gli uomini poterono trovare donne a sufficienza nella propria tribù, non vi era per esso alcun motivo. D'altra parte, troviamo sovente che in popoli poco evoluti esistono certi gruppi (che nel 1865 venivano spesso identificati con le tribù), nell'interno dei quali è vietato il matrimonio, sicchè gli uomini [12] devono prendere le mogli, e le donne i mariti, al di fuori del proprio gruppo; mentre in altri popoli c'è l'uso che gli uomini di un certo gruppo sono obbligati a prendere le loro mogli soltanto nell'interno del loro proprio gruppo. Mac Lennan chiama i primi gruppi esogami, i secondi endogami, e stabilisce senz'altro un'antitesi netta fra «tribù» esogame ed endogame. E sebbene le sue stesse ricerche sulla esogamia gli facciano toccare con mano, che quest'antitesi, in molti casi, se non nella più parte o addirittura in tutti i casi, non esiste che nella sua imaginazione, egli la pone, cionullameno, a base di tutta la sua teoria. Le tribù esogame non possono, secondo lui, prendere le loro donne che dalle altre tribù e, nello stato di guerra permanente fra le tribù selvagge, questo non può accadere se non per mezzo del ratto.

Mac Lennan chiede poi: d'onde cotesta esogamia? I concetti di consanguineità e di incesto, come quelli che si sviluppano assai più tardi, non possono averci che fare. La causa di quest'uso può ben essere il costume, molto diffuso tra i selvaggi, di uccidere, tosto dopo il parto, le neonate. Da ciò un eccesso di maschi, in ogni tribù, e quindi la necessità che più uomini possiedano una donna in comune: la poliandria. Ne seguiva ancora che, mentre si conosceva la madre di un neonato, non se ne conosceva il padre; quindi parentela determinata solo dalla linea femminile, con esclusione della maschile — diritto materno. E un'ultima conseguenza della scarsezza di donne nella tribù — scarsezza mitigata, ma non eliminata, dalla poliandria — era appunto il ratto sistematico e brutale delle donne dalle tribù straniere. «Poichè esogamia e poliandria derivano da una medesima causa, dalla mancanza di equilibrio numerico tra i due sessi, noi dobbiamo considerare tutte le razze esogame come primitivamente dedite alla poliandria.... E avere perciò come incontestabile, che, presso le razze esogame, il primo sistema di parentela [13] sia quello che riconosce il vincolo di sangue soltanto dal lato materno.» (Mac Lennan, Studies in ancient history, 1886. Primitive marriage, pag. 124).

Il merito di Mac Lennan è di aver indicato l'uso generale e la grande importanza di ciò che egli chiama esogamia. Quanto al fatto dei gruppi esogami, egli non l'ha punto scoperto, e non lo ha neanche ben compreso. Prescindendo da precedenti notizie isolate di molti studiosi, ai quali appunto egli attinse, quella istituzione era stata descritta con precisione ed esattezza presso i Magar indiani dal Latham (Descriptive ethnology, 1859), il quale avea detto come essa fosse generalmente diffusa e si trovasse in tutte le parti del mondo — e questo in un passo citato dello stesso Mac Lennan. E il nostro Morgan l'aveva del pari indicata e perfettamente descritta, sin dal 1847, nelle sue lettere sugli Irocchesi, nella American Review, e nel 1851 nel suo The league of the Iroquois; mentre, come vedremo, la curialesca intelligenza di Mac Lennan aveva portato su questo punto una confusione molto maggiore di quella che la fantasia mistica di Bachofen abbia portato nel campo del diritto materno.

Un altro merito di Mac Lennan è di aver riconosciuto che l'ordine di discendenza secondo il diritto materno fu il primitivo; sebbene in ciò lo abbia preceduto Bachofen, come anch'egli ammise più tardi. Ma anche qui egli non vede chiaramente le cose: egli parla sempre di «parentela soltanto in linea femminile» (Kinship through females only); e questa espressione, giusta per il periodo anteriore, continua ad applicarla a periodi posteriori di sviluppo, quando la discendenza e l'eredità erano bensì ancora determinate esclusivamente dalla linea femminile, ma era contemporaneamente anche riconosciuta ed espressa la parentela in linea maschile. È il limitato criterio del giurista, che si crea una formula fissa di diritto, e continua ad applicarla invariabilmente ad istituzioni a cui, coll'andar del tempo, è divenuta inapplicabile.

[14]

Malgrado tutta la sua plausibilità, pare che la teoria di Mac Lennan non sia sembrata molto fondata neppure al suo stesso autore. Egli è sorpreso, per esempio, dal fatto «notevole, che la forma del ratto simulato delle donne sia più spiccata ed espressiva precisamente presso quei popoli, nei quali domina la parentela maschile» (ossia la discendenza in linea maschile). (Pag. 140). E così pure: «È un fatto strano, che, per quanto ci consta, l'infanticidio non è praticato sistematicamente in nessuno dei luoghi nei quali l'esogamia e la più antica forma di parentela coesistevano.» (Pag. 146). Due fatti che contraddicono direttamente la sua spiegazione, e ai quali egli non sa contrapporre se non nuove ipotesi, ancora più complicate.

La sua teoria trovò, cionullameno, grande eco e adesione in Inghilterra, dove Mac Lennan fu generalmente considerato come il fondatore della storia della famiglia e come la prima autorità in questa materia. La sua antitesi di «tribù» esogame ed endogame, per quante eccezioni e modificazioni si constatassero, restò la base riconosciuta dei concetti dominanti, e impedì di guardare liberamente su questo campo, intralciando per tal modo ogni serio progresso. Alla esagerazione delle benemerenze di Mac Lennan, divenuta oggi di moda in Inghilterra e altrove, è da contrapporre che egli, con la sua antitesi erronea di «tribù» esogame ed endogame, recò un danno ben maggiore dei vantaggi derivati dalle sue indagini.

Venivano frattanto in luce fatti che non si potevano adattare nel suo piccolo quadro. Mac Lennan non conosceva che tre forme di connubio: poligamia, poliandria e connubio individuale. Ma, una volta diretta l'attenzione su questo punto, si trovarono prove sempre maggiori dell'esistenza, presso popoli poco evoluti, di certe forme di connubio, in cui una serie di uomini possedeva in comune una serie di donne, e Lubbock (The origin of civilization, 1870) in questo matrimonio per gruppi (communal mariage) ravvisò un fatto storico.

[15]

Subito dopo, nel 1871, venne in iscena Morgan con materiale nuovo e, sotto molti rapporti, decisivo. Egli si era convinto che lo strano sistema di parentela in vigore presso gl'Irocchesi era comune a tutti gli aborigeni degli Stati Uniti, diffuso, cioè, sopra un intero continente, quantunque in diretta contraddizione coi gradi di parentela, quali risultano dal sistema coniugale ivi in vigore. Con questa convinzione, egli riuscì a determinare il Governo federale americano a raccogliere notizie intorno ai sistemi di parentela degli altri popoli, sulla base di questionari e di tavole da lui stesso redatti. E dalle risposte ottenute gli risultò:

1.º che il sistema di parentela indo-americano era in vigore anche nell'Asia, e, in forma alquanto modificata, in Africa ed in Australia, presso numerose tribù;

2.º che questo sistema di parentela si spiegava completamente mercè una forma di matrimonio per gruppi, che stava appunto allora per sparire in Hawai e in altre isole dell'Australia;

3.º che in queste stesse isole, allato a codesta forma di connubio, era in vigore un sistema di parentela, che non poteva spiegarsi se non con una forma di matrimonio per gruppi ancora più primitiva ed ora estinta.

Morgan pubblicò le notizie raccolte, e le conclusioni ch'egli ne traeva, nei suoi Systems of consanguinity and affinity (1871), portando con ciò la questione sopra un campo immensamente più vasto. Partendo dai sistemi di parentela, e ricostruendo le forme di famiglia corrispondenti, apriva un nuovo campo di ricerche e spingeva lo sguardo assai lontano nella preistoria della umanità. Accettato questo metodo, doveva cadere la povera costruzione di Mac Lennan.

Questi difese la sua teoria nella nuova edizione del Primitive marriage (Studies in ancient history. 1875). Mentre egli con artifizî straordinari e su mere ipotesi architetta una storia della famiglia, esige da Lubbock e da Morgan non solo la prova [16] di ognuna delle loro affermazioni, ma prove incontrastabilmente precise e autentiche, come soltanto si suol chiederle in un tribunale scozzese. E questo è quel medesimo uomo, che dall'intimo rapporto tra il fratello della madre e il figlio della sorella presso i Germani (Tacito: Germania, cap. 20), basandosi su quanto racconta Cesare, che i Britanni avevano in comune le loro mogli per gruppi di dieci o dodici, e fondandosi su tutte le altre relazioni degli antichi scrittori sulla comunanza delle donne fra i barbari, trae senza esitare l'illazione che in tutti questi popoli dominava la poliandria! Par di udire un procuratore del re che, per cucinare la sua tesi, si permette ogni libertà, ma pretende la prova provata e formale per ogni parola del difensore.

Egli afferma che il matrimonio per gruppi è una mera invenzione, e con ciò ricade molto sotto a Bachofen; afferma che i sistemi di parentela di Morgan non sono che semplici prescrizioni di cortesia sociale, provate dal fatto che gl'Indiani danno l'epiteto di fratello o di padre anche a uno straniero bianco. È come se si volesse affermare che le designazioni di padre, madre, fratello e sorella sono semplici appellativi senza senso, perchè gli ecclesiastici e le abatesse cattoliche si salutano coi nomi di padre e madre, e perchè frati e monache e perfino i framassoni e i membri delle associazioni operaie inglesi si qualificano, nelle loro solenni sedute, fratelli e sorelle. Insomma, la difesa di Mac Lennan fu quanto mai debole e meschina.

Rimaneva però ancora un punto, su cui egli non era stato battuto. Non solo l'antitesi di «tribù» esogame ed endogame, sulla quale si fondava tutto il suo sistema, non era stata scossa, ma era tuttavia quasi generalmente considerata come il cardine di tutta la storia della famiglia. Si ammetteva bensì che il tentativo di Mac Lennan di spiegare quest'antitesi fosse insufficiente e in contraddizione coi numerosi fatti da lui medesimo citati: ma l'antitesi stessa, l'esistenza di due diverse specie di tribù, [17] una delle quali prendeva le sue mogli nella tribù, mentre ciò era assolutamente vietato all'altra, quest'antitesi era considerata vangelo incontestabile. Consultinsi per esempio: Les origines de la famille di Giraud-Teulon (1874) e Origin of civilization di Lubbock (4.ª edizione, 1882).

Or qui giunge a buon punto l'opera capitale di Morgan: Ancient society (1877), base del presente lavoro. Quello che Morgan nel 1871 presentiva ancora confusamente, è in essa svolto con piena coscienza. Endogamia ed esogamia non formano punto un'antitesi; l'esistenza di «tribù» esogame non fu riscontrata in nessun luogo. Ma, mentre ancor dominava il matrimonio per gruppi, che, secondo ogni probabilità, un tempo esistì dapertutto, la tribù si scindeva in un numero di gruppi consanguinei dal lato materno, in genti, nel cui interno vigeva rigoroso il divieto di coniugarsi, sicchè gli uomini di una gente potevano prendere, e ordinariamente prendevano, le loro donne entro la tribù, ma dovevano prenderle fuori della loro gente. Se quindi la gente era rigorosamente esogama, la tribù, che abbracciava la totalità delle genti, era altrettanto rigorosamente endogama. Con ciò furono definitivamente stritolate le sottigliezze del Mac Lennan.

Ma Morgan non stette pago a queste conclusioni. La gente degli Indiani americani gli servi anche per fare il secondo passo decisivo sul terreno da lui esaminato. In questa gente, organizzata secondo il diritto materno, egli scoprì la forma primitiva, dalla quale si sviluppò la gente posteriore, organizzata secondo il diritto paterno, la gente quale noi la troviamo presso i popoli dell'antichità avviati all'incivilimento. La gente greca e romana, che era rimasta fin qui un enigma per tutti gli storici, si trovò spiegata col fatto della gente indiana, e con ciò fu trovata una nuova base per tutta la storia primitiva.

Questa nuova scoperta della gente primitiva organizzata sul diritto materno, come stadio che precede la gente organizzata sul diritto paterno dei [18] popoli avviati a civiltà, ha, per la storia primitiva, la medesima importanza che la teoria della evoluzione di Darwin ha per la biologia, e la teoria del plusvalore di Marx per l'economia politica. Essa diè modo al Morgan di abbozzare, per la prima volta, una storia della famiglia, in cui, per quanto lo permette il materiale oggi noto, sono fissati preliminarmente, in linea generale, i periodi classici dell'evoluzione. Nessuno può disconoscere che con ciò si apre una nuova èra nello stadio della storia primitiva. La gente del diritto materno è divenuta il cardine sul quale si aggira tutta questa scienza; scoperta la gente, si può finalmente sapere in qual senso si debbano dirigere le indagini e come si debba aggruppare quel che si viene scoprendo. Gli è perciò che, dopo l'apparizione del libro del Morgan, i progressi su questo campo sono diventati molto più rapidi.

Le scoperte del Morgan sono ora universalmente riconosciute dai «preistorici» anche in Inghilterra: o meglio questi se le sono appropriate. Ma in nessuno di essi, o quasi, si trova francamente confessato che a Morgan si deve questa rivoluzione di idee. In Inghilterra il suo libro si tiene occulto per quanto è possibile; si loda, quasi con degnazione, l'autore per i suoi precedenti lavori: si spiluzzicano alcuni particolari della sua opera: ma si tacciono ostinatamente le sue scoperte più importanti. Ancient society è esaurito nella edizione originale; in America, non c'è uno spaccio rimuneratore per lavori di questo genere; in Inghilterra, pare che il libro sia stato sistematicamente sepolto, e la sola edizione in commercio di quest'opera che fa epoca, è... l'edizione tedesca.

D'onde questo riserbo, nel quale è difficile non scorgere una congiura del silenzio, massime di fronte alle numerose citazioni di mera cortesia e alle altre prove di camaraderie di cui spesseggiano gli scritti dei nostri storici in voga? Forse perchè Morgan è americano, e perchè riesce duro ai «preistorici» [19] inglesi, nonostante tutta la loro commendevolissima diligenza nella raccolta del materiale, di dover ricorrere a due geniali stranieri, Bachofen e Morgan, pei criterî generali nell'ordinamento e nel raggruppamento di esso, ossia per le idee? Passi pel tedesco, ma ricorrere a un americano! Di fronte agli americani ogni inglese è patriota, e io ho veduti esempi curiosissimi di questo fatto negli Stati Uniti. Si aggiunga che Mac Lennan è stato, per così dire, il fondatore e il capo ufficialmente riconosciuto della scuola preistorica inglese; che era, in certo qual modo, di bon ton nel mondo della letteratura preistorica, di parlare con la più grande venerazione della sua artificiosa costruzione storica, per cui dall'infanticidio si passa alla famiglia del diritto materno, traverso alla poliandria e al ratto; che il menomo dubbio, sulla esistenza di «tribù» esogame ed endogame escludentisi assolutamente, era considerato come un'empia eresia: che quindi il Morgan, distruggendo questi dogmi consacrati, commetteva una specie di sacrilegio. E, per giunta, egli li distruggeva con argomenti la cui semplice esposizione bastava per farne saltare immediatamente la verità agli occhi di tutti; sicchè gli adoratori di Mac Lennan, che sin allora avevano barcollato e brancolato tra esogamia ed endogamia, si dovevano quasi dar del pugno sulla fronte esclamando: Come fummo così stupidi da non aver saputo, da noi stessi, veder queste cose?!

E se tanti delitti non bastassero per vietare alla scuola ufficiale qualsiasi atteggiamento che non fosse di freddo disdegno, Morgan colmò la misura, non solo portando la critica sulla civiltà, sulla società a produzione mercantile — forma fondamentale della nostra odierna società — con un modo che ricorda il Fourier, ma parlando di una futura trasformazione di questa società in termini che avrebbero potuto essere usati anche da Carlo Marx. Ben meritò quindi che Mac Lennan gridasse sdegnato «che il metodo storico gli era assolutamente antipatico», [20] e che il professore Giraud-Teulon lo ripetesse in Ginevra nel 1884. E tuttavia lo stesso signor Giraud-Teulon nel 1874 (Origines de la famille) brancolava ancora disperato nel dedalo della esogamia Mac Lenniana, dalla quale soltanto Morgan doveva liberarlo!

Quanto agli altri progressi che la storia primitiva deve al Morgan, io non ho bisogno di esporli qui minutamente: nel corso del mio lavoro si troverà quanto è necessario dire in proposito. I quattordici anni, che passarono dalla pubblicazione della sua opera capitale, hanno di molto arricchito il nostro materiale per la storia delle società umane primitive. Agli antropologi, ai viaggiatori, ai «preistorici» di professione, si sono aggiunti gli studiosi di diritto comparato; e hanno portato alcuni nuovo materiale, altri nuovi punti di vista. Perciò qualche ipotesi del Morgan ha vacillato, o è caduta addirittura. Ma il nuovo materiale raccolto non ha condotto in nessuna parte a soppiantare le sue grandi idee principali. L'ordine portato da lui nella storia primitiva permane nei suoi tratti essenziali. Sì, si può dirlo: quest'ordine viene sempre più universalmente accettato e riconosciuto, quanto più si vuol celare il merito, che a lui spetta, di essere l'autore di questo grande progresso scientifico[7].

Londra, 16 giugno 1891.

Federico Engels.


[21]

L'origine della Famiglia

della Proprietà privata

e dello Stato

[23]

I. Stadî dell'evoluzione preistorica[8]

Morgan è il primo, che, con conoscenza di causa, cercò di apportare un ordine preciso nelle nozioni della preistoria umana, e, sinchè un nuovo materiale considerevolmente più ricco non costringa a cangiamenti, le sue classificazioni rimarranno ben salde.

Delle tre epoche principali — stato selvaggio, barbarie, epoca civile — evidentemente lo occupano soltanto le prime due e la transizione alla terza. Egli suddivide ognuna delle due prime in tre stadii: inferiore, medio e superiore, secondo i progressi della produzione dei mezzi di sussistenza; perciocchè, egli dice, «l'abilità in questa produzione è decisiva per stabilire il grado della superiorità e del dominio dell'uomo sulla natura; di tutti gli esseri, solo l'uomo è giunto a farsi padrone quasi assoluto della [24] produzione degli alimenti. Tutte le grandi epoche dell'umano progresso coincidono, più o meno direttamente, con le epoche nelle quali furono arricchite le fonti della sussistenza.» Lo sviluppo della famiglia procede di pari passo, ma non offre alcun segno altrettanto caratteristico per la distinzione dei periodi.

I. STATO SELVAGGIO.

1. Stadio inferiore. Infanzia del genere umano che, vivendo, almeno in parte, sugli alberi (con che soltanto è spiegabile ch'esso abbia potuto durare di fronte ai grandi animali da preda), dimorava ancora nelle sue sedi originarie, le selve tropicali o subtropicali. Frutta, noci, radici gli erano alimento; la elaborazione del linguaggio articolato è prodotto essenziale di questo periodo. Di tutti i popoli conosciuti nel periodo storico, nessuno apparteneva più a questo stadio primitivo. Quantunque possa aver durato molti millennii, non ci è dato dimostrarlo con prove dirette; ma, ammessa la discendenza dell'uomo dal regno animale, non si può non ammettere questa transizione.


2. Stadio medio. Comincia coll'impiego dei pesci (tra i quali noveriamo anche i granchi, le conchiglie ed altri animali acquatici) pel nutrimento, e coll'uso del fuoco. Questi due fatti vanno insieme, poichè solo il fuoco rende il pesce perfettamente commestibile. Ma, con questo nuovo alimento, gli uomini divennero indipendenti dal clima e dalla [25] località; seguendo i fiumi e le coste, essi poterono diffondersi, ancora nello stato selvaggio, sulla più gran parte della terra. Gli strumenti di pietra grezza, rozzamente lavorati, della più remota età della pietra, così detti paleolitici, che appartengono, tutti o la più parte, a questo periodo e che si trovano diffusi per tutti i continenti, costituiscono la prova di queste migrazioni. La occupazione delle nuove zone, l'ininterrotto attivo stimolo di ricerca, insieme al possesso del fuoco prodotto dalla confricazione, apportarono nuovi alimenti, come: radici e tuberi fortemente amidacei, cotti nella cenere calda o in forni scavati nella terra; selvaggina, che, coll'invenzione delle prime armi, mazze e lance, divenne un eventuale complemento del vitto. Popoli esclusivamente cacciatori, quali si descrivono nei libri, viventi cioè di sola caccia, non ve n'ebbe mai, poichè il prodotto della caccia è troppo malcerto.

Per la continua incertezza delle sussistenze, sembra allignare in questo periodo l'antropofagia, che durerà poi lungo tempo. Gli Australiani e molti Polinesiani stanno ancora oggi in questo stadio medio dello stato selvaggio.


3. Stadio superiore. Comincia colla invenzione dell'arco e della freccia, con che la selvaggina diviene alimento ordinario, e la caccia uno dei rami normali del lavoro. Arco, corda e freccia formano già un istrumento molto complesso, la cui invenzione presuppone lunga esperienza accumulata, spirito acuto e conoscenza simultanea di molte altre invenzioni. Infatti, se paragoniamo i popoli, che [26] conoscono bensì l'arco e la freccia, ma non ancora la ceramica (dalla quale Morgan data il passaggio alla barbarie), noi troviamo qualche principio di villaggi, un certo dominio sulla produzione delle sussistenze, vasi ed arredi di legno, tessitura a mano, senza telaio, di fibre di corteccia, canestri intrecciati di scorze o di vimini, strumenti di pietra levigata (neolitici). Per lo più il fuoco e l'ascia di pietra han già foggiato l'albero a piroga, e fornito, qua e là, travi e tavole per la costruzione di case. Noi troviamo, per esempio, tutti questi progressi presso gl'Indiani del Nord-ovest dell'America, che conoscono, sì, l'arco e la freccia, ma non la ceramica. Per lo stato selvaggio l'arco e la freccia furono quello che fu la spada di ferro per la barbarie, e l'arme da fuoco per l'epoca civile: l'arme decisiva.

II. BARBARIE.

1. Stadio inferiore. Data dalla introduzione della ceramica. Questa, verosimilmente in molti casi, e probabilmente dapertutto, è sorta dallo spalmare con argilla i vasi intrecciati, o di legno, per renderli incombustibili; con che trovossi bentosto, che l'argilla plasmata rendeva lo stesso servizio anche senza il recipiente interno.

Fin qui, potemmo considerare il processo dell'evoluzione in un modo affatto generale, come applicabile, per un dato periodo, a tutti i popoli, senza riguardo alla località. Ma il sopraggiungere della barbarie segna uno stadio, nel quale la diversa attitudine naturale dei due grandi continenti acquista [27] valore. Il momento caratteristico del periodo della barbarie è l'addomesticamento e l'allevamento degli animali e la coltura delle piante. Ora, il continente orientale, il così detto vecchio mondo, possedeva tutti gli animali addomesticabili e tutti i cereali coltivabili, tranne uno; l'occidentale, l'America, dei mammiferi addomesticabili non aveva che il lama, e anche questo soltanto in una parte del Sud, e di tutti i cereali coltivabili solo uno, ma il migliore: il maiz. Queste differenti condizioni naturali fanno sì che quindinnanzi la popolazione di ciascun emisfero segue il suo corso particolare, e i diversi periodi vi sono segnati da limiti speciali.


2. Stadio medio. Incomincia, nell'Est, coll'allevamento degli animali domestici: nell'Ovest, colla coltura delle piante alimentari mercè l'irrigazione e coll'uso di «adobi» (mattoni disseccati al sole) e di pietre per costruzione.

Incomincieremo coll'Ovest, poichè quivi questo stadio, fino alla conquista europea, non era stato varcato in nessun luogo.

Presso gl'Indiani dello stadio inferiore della barbarie, ai quali appartenevano tutti quelli trovati all'est del Mississipi, esisteva già al tempo della loro scoperta una certa coltura ortilizia del maiz, e forse anche di zucche, melloni ed altri ortaggi, che forniva un elemento molto importante della loro alimentazione; essi abitavano case di legno, in villaggi cinti di palizzate. Le tribù del Nordovest, particolarmente quelle della valle della Colombia, trovavansi ancora allo stadio superiore dello [28] stato selvaggio, e non conoscevano nè ceramica, nè coltivazione di piante di qualsiasi specie. Invece gl'Indiani dei così detti Pueblos del Nuovo-Messico, i Messicani, gli Americani del centro e i Peruviani del tempo della conquista, stavano nello stadio medio della barbarie; essi abitavano case di «adobi» o di pietra, costrutte a guisa di fortezze, coltivavano maiz e altre piante alimentari, diverse secondo la località e il clima, in orti irrigati industriosamente, che fornivano le sussistenze principali, e avevano anche addomesticati alcuni animali, i Messicani il tacchino ed altri volatili, i Peruviani il lama. Conoscevano inoltre la lavorazione dei metalli ad eccezione del ferro, per lo che non potevano ancora fare a meno degli strumenti e delle armi di pietra. La conquista spagnuola troncò qualsiasi ulteriore sviluppo indipendente.

Nell'Est, il periodo medio della barbarie incominciò coll'addomesticamento degli animali da carne e da latte, mentre la coltivazione delle piante sembra esser rimasta sconosciuta per molto tempo di questo periodo. L'addomesticamento e l'allevamento del bestiame, e la formazione di grandi armenti, è ciò che sembra aver data l'occasione agli Arii ed ai Semiti di separarsi dalla restante massa dei barbari. Agli Arii europei ed asiatici sono ancora comuni i nomi degli animali, ma quasi nessuno di quelli delle piante coltivabili.

La formazione di armenti avea per effetto di condurre i popoli a scegliere i luoghi atti alla vita pastorale; presso i Semiti le praterie dell'Eufrate e del Tigri, presso gli Arii quelle dell'India, dell'Osso e del Iassarte, del Don e del Dnieper. È [29] ai confini di siffatte regioni ricche di pascoli che dev'essersi incominciato l'addomesticamento del bestiame. Alle schiatte posteriori, i popoli pastorali sembrano quindi provenienti da contrade, che, ben lungi dall'essere la culla del genere umano, erano al contrario inabitabili pei loro selvaggi antenati, ed anche per uomini dello stadio inferiore della barbarie. Inversamente, non avrebbe potuto venir mai in mente a questi barbari dello stadio medio, una volta abituati alla vita pastorale, di abbandonare le pianure erbose ed irrigue, per tornare alle selve dei loro antenati. Anzi, allorchè furono spinti più oltre verso il Nord e l'Ovest, fu impossibile ai Semiti ed agli Arii di innoltrarsi nelle contrade boscose dell'Europa e dell'Occidente dell'Asia, prima che, colla coltivazione dei cereali, si fossero posti in grado di nutrire il loro bestiame e sopratutto di svernare su questo terreno meno favorevole. È più che probabile che la coltura dei cereali vi ebbe origine dal bisogno di foraggi pel bestiame, e solo più tardi divenne importante pel nutrimento umano.

È forse alla doviziosa alimentazione di carne e di latte, e particolarmente alla sua favorevole azione sullo sviluppo dei bambini, che è da ascriversi il preponderante sviluppo delle razze Aria e Semitica. Sta in fatto che gl'Indiani dei Pueblos del Nuovo Messico, il cui vitto è quasi esclusivamente vegetale, hanno un cervello più piccolo degl'Indiani dello stadio inferiore della barbarie, che mangiano più carne e più pesce. Ad ogni modo, a questo stadio sparisce a poco a poco l'antropofagia, e si conserva solo come cerimonia religiosa, o, che è quasi lo stesso, come sortilegio.

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3. Stadio superiore. Comincia colla fusione del minerale di ferro, e passa nell'epoca civile, colla scoperta della scrittura alfabetica e colla sua applicazione ad annotazioni letterarie. Questo stadio, che, come si è detto, vien raggiunto in modo autonomo soltanto nell'emisfero orientale, sorpassa nei progressi della produzione tutti i precedenti presi insieme. Appartengono ad essi i Greci dei tempi eroici, le tribù italiche di poco anteriori alla fondazione di Roma, i Germani di Tacito, i Normanni del tempo dei Vikinghi.

Anzitutto ci si presenta qui il vomere di ferro tirato da animali, che rese possibile la coltura in grande della terra, l'agricoltura, e con ciò un incremento di sussistenze praticamente illimitato per le condizioni di quei tempi; con ciò ancora i diboscamenti e la trasformazione delle foreste in terreno coltivabile e in prati — trasformazione impossibile in larga misura, prima che fossero introdotte l'ascia e la vanga di ferro. Ma ciò produsse anche il rapido aumento della popolazione, e il suo addensarsi su piccolo spazio. Prima dell'agricoltura, solo condizioni eccezionalissime potevano fare che una popolazione di un mezzo milione di uomini si riunisse sotto un Governo centrale; e probabilmente ciò non era mai avvenuto.

Il maggior fiore dello stadio superiore della barbarie ci si presenta nelle poesie omeriche, e sopratutto nell'Iliade. Complicati utensili di ferro; il mantice; il mulino a mano; la ruota del vasaio; la preparazione dell'olio e del vino; una lavorazione dei metalli diventata artistica; la carretta e il carro da guerra; la costruzione delle navi con [31] assi e travi; gli inizii dell'architettura come arte; città murate con torri e merli; l'epopea omerica e tutta la mitologia — son questi i principali retaggi che i Greci portarono dalla barbarie nell'epoca civile. Se confrontiamo con ciò le descrizioni che Cesare ed anche Tacito fanno di quei Germani, che stavano alla soglia di quello stesso stadio dell'evoluzione, dal quale i Greci omerici si accingevano a passare in uno stadio superiore, vedremo quale ricchezza di sviluppo della produzione contenga in sè lo stadio superiore della barbarie.

Il quadro dell'evoluzione dell'umanità attraverso lo stato selvaggio e la barbarie sino ai principii dell'epoca civile, quadro che ho qui abbozzato sulle tracce di Morgan, è già abbastanza ricco di dati nuovi e, quel che più monta, incontestabili, perchè desunti immediatamente dalla produzione. Nondimeno esso apparirà pallido e meschino, paragonato con quello che si svolgerà alla fine della nostra peregrinazione: soltanto allora sarà possibile porre in piena luce il passaggio dalla barbarie all'epoca civile e il loro vivo contrasto. Noi possiamo generalizzare intanto la classificazione di Morgan:

Stato selvaggio — Periodo in cui prevale l'appropriazione dei prodotti naturali; i prodotti dell'arte umana sono sopratutto utensili necessari a quest'appropriazione.

Barbarie — Periodo della pastorizia e dell'agricoltura, dell'introduzione di metodi per l'incremento dei prodotti naturali mercè l'attività umana.

Epoca civile — Periodo in cui l'uomo apprende la ulteriore lavorazione dei prodotti naturali, l'industria propriamente detta e l'arte.

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II. La famiglia

Morgan, che passò gran parte della sua vita tra gli Irocchesi che anche ora hanno sede nello Stato di Nuova-York, e che fu adottato in una delle loro tribù (quella dei Senecca), trovò in vigore fra essi un sistema di parentela, che contraddiceva coi loro rapporti di famiglia effettiva. Regnava tra essi quella specie di connubio individuale, facilmente dissolubile dalle due parti, che Morgan designò come famiglia sindiasmica (dal greco συνδιαξω, accoppiarsi). La prole di un tale connubio era quindi manifesta e riconosciuta da tutti; nissun dubbio a chi dovessero applicarsi le qualifiche di padre, madre, figlio, figlia, fratello, sorella. Ma ciò non ha riscontro nell'uso effettivo di queste espressioni. L'Irocchese chiama suoi figli e sue figlie non soltanto i suoi proprii figli, ma anche quelli dei suoi fratelli; ed essi lo chiamano padre. Egli chiama invece nipoti i figli delle sue sorelle, ed essi lo chiamano zio. Inversamente, la Irocchese chiama suoi figli e sue figlie i figli proprii e quelli delle sue sorelle, e questi la chiamano madre. Essa chiama [33] invece suoi nipoti i figli dei suoi fratelli, ed essi la chiamano zia. I figli dei fratelli si chiamano quindi tra loro fratelli e sorelle; similmente i figli delle sorelle. I figli di una donna e quelli dei suoi fratelli si chiamano invece reciprocamente cugini. E questi non sono semplici nomi, ma espressioni che racchiudono concetti reali di prossimità e di lontananza, di eguaglianza e di disuguaglianza della consanguineità, e servono di base a un sistema di parentela completamente elaborato, che è in grado di esprimere parecchie centinaia di rapporti di parentela differenti di un solo individuo. V'ha di più. Questo sistema non è soltanto in pieno vigore presso tutti gl'Indiani americani (finora non s'è trovata alcuna eccezione), ma vige anche quasi invariato presso gli aborigeni dell'India, nelle tribù dravidiane del Dekan e nelle tribù Gaura dell'Indostan. Le espressioni di parentela dei Tamili nell'India del Sud, e degl'Irocchesi della tribù Senecca nello Stato di Nuova-York, concordano ancora oggi per più di duecento diverse designazioni di parentela. E anche fra queste tribù dell'India, come fra tutti gl'Indiani americani, le relazioni di parentela, nascenti dalla forma di famiglia in vigore, stanno in contraddizione col sistema di parentela.

Come spiegare ciò? Dato il valore grandissimo della parentela nell'ordinamento sociale di tutti i popoli selvaggi e barbari, non si può con delle frasi distruggere l'importanza di un sistema tanto diffuso. Un sistema, che è generalmente in vigore nell'America, che esiste parimente nell'Asia presso popolazioni di razze affatto diverse, del quale abbondano [34] forme più o meno modificate dapertutto in Africa e in Australia, vuol essere spiegato storicamente, non messo da parte con delle frasi, come tentò per esempio il Mac Lennan. Le designazioni di padre, figlio, fratello, sorella non sono semplici titoli d'onore, ma importano doveri reciproci ben determinati e seriissimi, l'insieme dei quali è parte essenziale della costituzione sociale di quei popoli. E la spiegazione fu trovata. Alle isole Sandwich (Hawai) esisteva ancora nella prima metà di questo secolo una forma di famiglia, che presentava esattamente siffatti padri e madri, fratelli e sorelle, figli e figlie, zii e nipoti, quali li suppone il sistema di parentela dei primitivi Indiani dell'America. Ma, cosa strana! il sistema di parentela in vigore in Hawai non concordava a sua volta colla forma di famiglia ivi realmente esistente. Là, cioè, tutti i figli dei fratelli e delle sorelle sono indistintamente fratelli e sorelle, e son ritenuti figli comuni, non soltanto della loro madre e delle sue sorelle, o del loro padre e dei suoi fratelli, ma di tutti i fratelli e di tutte le sorelle dei loro genitori senza distinzione. Se dunque il sistema di parentela americano presuppone una forma di famiglia primitiva che in America più non esiste e che noi troviamo ancora realmente esistente nell'Hawai, il sistema di parentela dell'Hawai ci rinvia, dal canto suo, a una forma di famiglia ancor più primitiva, di cui certamente non possiamo dimostrare più l'esistenza in nessun luogo, ma che dev'essere esistita, poichè in caso diverso non avrebbe potuto nascere il corrispondente sistema di parentela. «La famiglia — dice il Morgan — è l'elemento attivo; essa non è [35] mai stazionaria, ma progredisce da una forma inferiore ad una superiore, a misura che la società si sviluppa da uno stadio più basso ad uno più alto. I sistemi di parentela al contrario sono passivi; solo a lunghi intervalli essi registrano i progressi fatti dalla famiglia nel corso del tempo, e subiscono cangiamenti radicali solo allorquando la famiglia si è radicalmente cangiata.» — «E — aggiunge il Marx — questo è vero in generale anche dei sistemi politici, giuridici, religiosi, filosofici.» Mentre la famiglia progredisce, il sistema di parentela si ossifica, e mentre questo si mantiene per consuetudine, la famiglia lo oltrepassa. Ma, colla stessa sicurezza, colla quale il Cuvier, dalle ossa marsupiali di uno scheletro di animale, trovate presso Parigi, potè stabilire che esso era di un marsupiale, e che ivi un tempo erano vissuti dei marsupiali ora estinti; colla stessa sicurezza noi possiamo indurre, da un sistema di parentela storicamente pervenutoci, la precedente esistenza della forma di famiglia estinta, ad esso corrispondente.

I sistemi di parentela e le forme di famiglia testè menzionati differiscono da quelli ora dominanti in ciò, che ogni figlio ha più padri e più madri. Nel sistema di parentela americano, al quale corrisponde la famiglia dell'Hawai, il fratello e la sorella non possono essere padre e madre dello stesso figliuolo: ma il sistema di parentela dell'Hawai presuppone una famiglia, nella quale questa era invece la regola. Eccoci ricondotti a una serie di forme di famiglia, che contraddicono recisamente a quelle sinora ordinariamente ammesse come le sole che siano esistite. Le idee correnti [36] conoscono soltanto il connubio individuale, allato ad esso la poligamia, e tutt'al più la poliandria, e dissimulano, come si addice al moralista filisteo, che la pratica, tacitamente ma con tutta disinvoltura, scavalca questi limiti posti dalla società ufficiale. Lo studio della storia primitiva ci presenta invece condizioni, nelle quali gli uomini vivono in poligamia, e le loro mogli contemporaneamente in poliandria, e i figli comuni sono quindi considerati come comuni a tutti loro; condizioni che percorrono a loro volta tutta una serie di cangiamenti sino al loro definitivo risolversi nel connubio individuale. Questi cangiamenti sono tali, che il circolo del vincolo coniugale comune, larghissimo da principio, si restringe sempre più, finchè alla fine lascia sussistere soltanto la coppia unica, che oggi predomina.

Ricostruendo così a ritroso la storia della famiglia, Morgan, d'accordo in ciò colla più parte dei suoi colleghi, arriva ad uno stato primitivo, nel quale regnava nella tribù la promiscuità completa, sicchè ogni donna apparteneva ad ogni uomo, ed ogni uomo egualmente ad ogni donna. Di un tale stato primitivo già si è parlato fin dal secolo scorso, ma soltanto con frasi generiche; Bachofen pel primo, ed è questo uno dei suoi grandi meriti, lo prese sul serio e ne cercò tracce nelle tradizioni storiche e religiose. Noi sappiamo oggi, che queste tracce da lui rinvenute non riconducono affatto a un periodo sociale di illimitata promiscuità sessuale; ma ad una forma molto posteriore, al matrimonio per gruppi. Quel periodo sociale primitivo, se effettivamente ha esistito, appartiene ad [37] un'epoca così remota, che difficilmente possiamo sperare di trovarne prove dirette nei fossili sociali, presso i selvaggi più arretrati. Il gran merito di Bachofen sta appunto nel l'aver portato tale questione al primo posto delle nostre indagini[9].

Venne di moda testè di negare questo periodo iniziale della vita sessuale dell'uomo. Si vuol risparmiare questa «vergogna» all'umanità. E per ciò si fa valere non soltanto il difetto di qualsiasi prova diretta, ma anche l'esempio del rimanente mondo animale. Letourneau (Évolution du mariage et de la famille, 1888) ne ricava numerosi fatti, secondo i quali una promiscuità sessuale assolutamente illimitata non apparterrebbe che alle infime specie. Ma da tutti questi fatti io posso trarre soltanto l'illazione, che essi non provano assolutamente nulla per l'uomo e per le sue relazioni nella vita primitiva. I connubii a lungo termine fra i vertebrati si spiegano sufficientemente con cause fisiologiche; per esempio, negli uccelli, col bisogno di aiuto che hanno le femmine durante la covatura; [38] nè gli esempi di fedele monogamia, che si trovano presso gli uccelli, provano alcunchè per gli uomini, appunto perchè questi non discendono dagli uccelli. E se la stretta monogamia fosse il culmine di ogni virtù, la palma ne spetterebbe al tenia, che, in ognuno dei suoi da 50 a 200 proglottidi o sezioni, possiede un completo apparato sessuale femminile e maschile, e passa tutta la vita ad accoppiarsi con sè stesso in ognuna di queste sezioni. Ma, se ci limitiamo ai mammiferi, noi troviamo in essi tutte le forme della vita sessuale; promiscuità, principi di matrimonio per gruppi, poligamia, connubio individuale; non manca che la poliandria, la quale non era possibile che agli uomini. Anche i nostri più prossimi parenti, i quadrumani, ci offrono tutte le possibili varietà di aggruppamenti di maschi e di femmine; e, se ci teniamo in limiti ancor più angusti, e consideriamo soltanto le quattro scimmie antropomorfe, Letourneau ci sa dire soltanto che esse ora sono monogame, ora poligame, mentre Saussure, citato da Giraud-Teulon, le dichiara monogame. Anche le affermazioni più recenti, di Westermarck (The History of Human Marriage, London 1891), sulla monogamia delle scimmie antropomorfe, sono ancora ben lungi dall'essere una prova. Insomma, i ragguagli sono tali, che Letourneau sinceramente ammette: «che non vi ha, del resto, tra i mammiferi alcun rigoroso rapporto tra il grado dello sviluppo intellettuale e la forma dell'unione sessuale». Ed Espinas (Des sociétés animales, 1877) dice addirittura: «L'orda è il gruppo sociale più elevato, che possiamo osservare negli animali. Essa [39] è, a quanto sembra, composta di famiglie, ma sin dal principio la famiglia e l'orda stanno in antagonismo, esse si sviluppano in rapporto inverso.»

Noi non sappiamo dunque quasi nulla di determinato sugli aggruppamenti famigliari o altri aggruppamenti sociali delle scimmie antropomorfe; le notizie che ne abbiamo si contraddicono diametralmente. E non è meraviglia, quando si consideri come sono contraddittorie e quanto bisogno hanno del vaglio critico anche le notizie che possediamo sulle tribù umane allo stato selvaggio; e si rifletta quanto più difficili da osservarsi siano le società delle scimmie a paragone delle umane. Sinchè dunque non avremo dati maggiori, ci è forza rinunciare a qualsiasi conclusione in proposito.

Al contrario, il passo citato dell'Espinas ci offre una base migliore.

Orda e famiglia non sono, negli animali superiori, complementi reciproci, ma sono in antitesi. Espinas dimostra molto bene come la gelosia dei maschi nel tempo degli amori rallenta o dissolve temporaneamente ogni orda sociale. «Dove la famiglia è molto strettamente unita, non si formano le orde se non come rare eccezioni. Dove invece esiste la promiscuità sessuale e la poligamia, l'orda nasce quasi da sè.... Perchè nasca un'orda, devono essere rallentati i vincoli di famiglia e l'individuo deve ridivenir libero. Gli è perciò che negli uccelli troviamo così raramente orde organizzate... Nei mammiferi invece troviamo società più o meno organizzate, appunto perchè qui l'individuo non scompare nella famiglia.... La coscienza collettiva dell'orda non può quindi avere, al suo nascere, un [40] peggiore nemico della coscienza collettiva della famiglia. Non esitiamo ad affermarlo: se si è sviluppata una forma di società più elevata della famiglia, ciò non può essere avvenuto che incorporando in sè famiglie già profondamente alterate; il che non esclude che queste famiglie trovassero in ciò la possibilità di ricostituirsi poi in circostanze molto più favorevoli.» (Espinas, loco citato, da Giraud-Teulon, Origines du mariage et de la famille, 1884, pag, 518-520).

Noi vediamo dunque, che le società degli animali possono avere, senza dubbio, un certo valore per le conclusioni da dedurre relativamente alle società umane, ma solo un valore negativo. Per quanto ci consta, l'animale vertebrato superiore non conosce che due forme di famiglia: poligamia o unione di coppie isolate; in ambo i casi non vi è se non un maschio adulto, uno sposo solo. La gelosia del maschio, che è insieme legame e limite della famiglia, pone la famiglia animale in antitesi con l'orda; l'orda, la forma sociale superiore, è qua resa impossibile, là indebolita o distrutta durante gli amori, nel migliore dei casi, ostacolata nei suoi ulteriori sviluppi, dalla gelosia del maschio. Questo già basta a provare che famiglia animale e società umana primitiva sono cose senza nesso fra loro; che i primi uomini, che si elevarono dall'animalità, o non conobbero famiglia di sorta, o tutt'al più ne conobbero una forma che non si rinviene fra gli animali. Un animale così inerme come il futuro uomo poteva, a rigore, in piccolo numero cavarsi d'impaccio anche nello stato di isolamento, quello stato in cui la più elevata forma [41] sociale è la coppia isolata quale viene attribuita, sulla fede dei cacciatori, dal Westermarck al gorilla e allo schimpanzé. Ma per elevarsi dall'animalità, per effettuare il più grande progresso che si vegga in natura, occorreva un altro elemento: occorreva compensare il difetto della forza difensiva dell'uomo isolato, con la unione delle forze e la cooperazione dell'orda. Con rapporti sociali simili a quelli delle scimmie antropomorfe, non si spiegherebbe la transizione all'umanità; queste scimmie pajono piuttosto linee collaterali deviate, regredienti e probabilmente destinate a poco a poco a perire. Questo basta a farci respingere qualsiasi parallelo tra le loro forme di famiglia e quelle dell'uomo primitivo. Ma la reciproca tolleranza dei maschi adulti, l'assenza di gelosia, era la prima condizione perchè si potessero formare cotesti grandi e stabili gruppi, per mezzo de' quali soltanto si poteva effettuare il passaggio dall'animalità all'umanità. E, infatti, qual'è la forma di famiglia più antica e primitiva, di cui la storia ci mostra inconfutabilmente l'esistenza, e che, quà e là, possiamo ancora oggi studiare? Il connubio per gruppi, la forma nella quale interi gruppi di uomini e interi gruppi di donne si posseggono mutuamente e che lascia ben poco campo alla gelosia. E di più, noi troviamo, a uno stadio posteriore di sviluppo, la forma eccezionale della poliandria, che esclude assolutamente qualsiasi senso di gelosia ed è quindi sconosciuta agli animali. Ma poichè le forme a noi note del connubio per gruppi sono accompagnate da condizioni così singolarmente complicate, che ci riconducono di necessità a forme anteriori [42] più semplici dei rapporti sessuali, e quindi, in ultima analisi, a un periodo di promiscuità assoluta, corrispondente alla transizione dall'animalità all'umanità; così il richiamo alle unioni degli animali non vale che a ricondurci al punto dal quale ci avrebbe dovuto allontanare per sempre.

Che cosa significa dunque: promiscuità sessuale senza regole? Significa questo solo: che le regole o limitazioni, in vigore oggi o in un epoca anteriore, allora non esistevano. Noi abbiamo già veduto cadere le barriere della gelosia. Se c'è qualche cosa di certo, è che la gelosia è un sentimento sviluppatosi relativamente tardi. Lo stesso è da dirsi dell'idea di incesto. Non soltanto, nell'epoca primitiva, fratello e sorella erano marito e moglie, ma oggi ancora la pratica sessuale tra genitori e figli è in vigore presso molti popoli. Bancroft (The Native Races of the Pacific Coast of North America, 1875, vol. I) attesta questo dei Caviati sulla strada di Behring, dei Cadiachi presso Alaska, dei Tinneh nell'interno del Nord America inglese; Letourneau raccoglie ragguagli di questo stesso fatto tra i Chippeways indiani, i Cucù del Chili, i Caraibi, i Karens del fondo dell'India; senza parlare delle narrazioni degli antichi Greci e Romani sopra i Parti, i Persiani, gli Sciti, gli Unni, ecc. Prima che si inventasse l'incesto (poichè esso è una vera invenzione, e delle più preziose) il rapporto sessuale fra genitori e figli non poteva fare più scandalo del rapporto sessuale fra persone appartenenti a due diverse generazioni. Quest'ultimo si dà ancor oggi, nei paesi i più spigolistri, senza destar grande orrore; zitellone di oltre 60 anni sposano pure, [43] se abbastanza ricche, giovanotti che rasentano i trenta. Ma se, dalle forme di famiglia le più primitive che noi conosciamo, stacchiamo le idee d'incesto che vi sono connesse, idee affatto diverse dalle nostre e spesso anzi in diretta contraddizione con esse, eccoci ad una forma di rapporto sessuale che non si può qualificare se non come «senza regole»; e lo è nel senso che non esistono ancora le restrizioni imposte poi dall'uso. Ma non è vero che da ciò venga necessariamente, nella pratica quotidiana, un orribile caos. Le unioni temporanee in singole coppie non sono punto escluse, tanto che, anche nel connubio per gruppi, esse formano la maggioranza dei casi. E se colui che più recentemente ha negato questo stato primitivo di cose, il Westermarck, designa come matrimonio ogni stato, in cui due esseri di diverso sesso rimangono uniti sino alla nascita del rampollo, ben è da dirsi che questa specie di matrimonio poteva benissimo avverarsi nello stadio della promiscuità senza contraddire ad essa, cioè alla mancanza di regole fisse imposte dall'uso alle relazioni sessuali, Westermarck parte senza dubbio dal concetto che «la mancanza di regole (o la promiscuità) implica la compressione delle inclinazioni individuali», talchè «la prostituzione ne è la forma più genuina». A me pare piuttosto che rimane impossibile ogni intelligenza dello stato di cose primitivo finchè lo si guardi con la lente del lupanare.

Ma ritorniamo al connubio per gruppi. Secondo il Morgan, da questo stato primitivo di rapporti sessuali senza regole, si sviluppò probabilmente molto presto:

[44]

1.º La famiglia consanguinea (Blutsverwandtschaftsfamilie), primo stadio della famiglia. Qui i gruppi conjugali sono distinti per generazioni: tutti i nonni e tutte le nonne, nei limiti della famiglia, sono tra loro mariti e mogli, così pure i loro figli, cioè i padri e le madri; i costoro figli formeranno a loro volta un terzo circolo di sposi comuni, e i figli di questi ultimi, i pronipoti dei primi, un quarto. In questa forma di famiglia sono quindi reciprocamente esclusi dai diritti e dai doveri (come diremmo noi) del matrimonio, soltanto predecessori e successori, genitori e figli. I fratelli e le sorelle, i cugini e le cugine di 1.º, di 2.º e di qualsiasi altro grado più lontano sono tutti fratelli e sorelle tra loro e, appunto perciò, sono tutti marito e moglie l'uno dell'altro. Il rapporto di fratello e sorella implica, per sè stesso in questo stadio, la pratica sessuale reciproca[10]. La forma tipica di una tale famiglia consisterebbe nella discendenza di una coppia, nella quale, a loro volta, [45] i discendenti di ogni singolo grado sono tutti fratelli e sorelle, e appunto perciò mariti e mogli tra loro.

La famiglia consanguinea è scomparsa. Anche i popoli più rozzi, dei quali narra la storia, non ne offrono alcun esempio. Ma come essa debba aver esistito, ci costringe ad ammetterlo il sistema di parentela dell'Hawai, ancora oggi in vigore in tutta la Polinesia, che esprime gradi di parentela consanguinea, quali possono nascere soltanto da cotesta forma di famiglia; ci costringe ad ammetterlo tutto l'ulteriore sviluppo della famiglia, che presuppone quella forma come primo stadio necessario.

2.º La famiglia punalua. Se il primo progresso dell'organizzazione consistette nell'escludere dalla pratica sessuale reciproca i genitori ed i figli, il secondo consistette nell'escluderne le sorelle e i fratelli. Questo progresso, stante la maggior eguaglianza d'età degl'interessati, fu infinitamente più importante, ma anche più difficile; esso si effettuò gradatamente, [46] incominciando colla esclusione dal rapporto sessuale dei fratelli e delle sorelle carnali[11] (cioè dal lato materno), dapprima in casi particolari, divenendo regola a poco a poco (nell'Hawai avvenivano eccezioni ancora in questo secolo), e terminando col divieto del connubio perfino tra fratelli e sorelle collaterali, cioè, giusta la nostra designazione, tra figli, nipoti e pronipoti dei fratelli e delle sorelle; esso forma, secondo Morgan, «una eccellente illustrazione dell'azione del principio della selezione naturale». Non v'ha dubbio che le tribù, nelle quali il matrimonio tra consanguinei (Inzucht) venne limitato da questo progresso, dovettero svilupparsi più rapidamente e più completamente di quelle, nelle quali il matrimonio tra fratelli e sorelle restava regola e legge. E quanto fosse sentita l'azione di questo progresso, lo prova la istituzione della gente, che scaturì direttamente da esso e che, oltrepassando di gran lunga il suo primo scopo, formò la base dell'ordinamento sociale della maggior parte, se non di tutti, i popoli barbari della terra, e dalla quale noi entriamo immediatamente, in Grecia come in Roma, nel periodo della civiltà.

Ogni famiglia primitiva dovette scindersi al più tardi nel corso di due o tre generazioni. La economia domestica comunistica originaria, che perdura senza eccezione fino in pieno mezzo della barbarie, stabiliva una grandezza massima della [47] comunità di famiglia, varia secondo le circostanze, ma supergiù determinata per ciascuna località. Appena sorse l'idea della sconvenienza dell'unione sessuale tra figli di una stessa madre, essa dovette agire sulle divisioni delle antiche comunità domestiche e sulla fondazione delle nuove (che però non coincidevano necessariamente coi gruppi di famiglie). Una o più serie di sorelle divennero il nucleo dell'una, i loro fratelli carnali quello dell'altra. Così, o analogamente, dalla famiglia consanguinea scaturì la forma da Morgan denominata «famiglia punalua».

Secondo l'uso dell'Hawai, un dato numero di sorelle, carnali o di grado più lontano (cioè cugine di 1.º, di 2.º o di qualsiasi altro grado) erano le mogli comuni dei loro mariti comuni, ma dai quali venivano esclusi i loro fratelli; ora questi mariti non si chiamavano più vicendevolmente fratelli, nè in realtà occorreva che lo fossero, ma punalua, cioè intimi compagni o associati. Così pure una serie di fratelli carnali o di più lontano grado avevano un dato numero di mogli, non loro sorelle, in matrimonio comune, e queste mogli si chiamavano tra loro punalua. Questa la forma classica di una disposizione di famiglie, che comportò posteriormente una serie di variazioni, e il cui tratto caratteristico essenziale era: comunità reciproca dei mariti e delle mogli in un determinato circolo di famiglia, dal quale però erano esclusi i fratelli delle mogli, prima i fratelli carnali, poi anche quelli più lontani, e inversamente del pari le sorelle dei mariti.

Questa forma di famiglia ci presenta colla maggior [48] precisione i gradi di parentela, quali li esprime il sistema americano. I figli delle sorelle di mia madre sono anche figli di lei, come pure i figli dei fratelli di mio padre sono altresì suoi figli, ed essi sono tutti miei fratelli e mie sorelle; ma i figli dei fratelli di mia madre sono suoi nipoti, i figli delle sorelle di mio padre sono nipoti di mio padre, ed essi tutti sono miei cugini e mie cugine. Perciocchè, mentre i mariti delle sorelle di mia madre sono tuttavia suoi mariti, e così pure le mogli dei fratelli di mio padre sono ancora sue mogli — di diritto, se non sempre di fatto —; il divieto sociale della pratica sessuale tra fratelli e sorelle ha diviso in due classi i figli dei fratelli e delle sorelle, trattati sinora come fratelli e sorelle senza distinzione: gli uni rimangono, dopo come prima, fratelli e sorelle (più lontani) tra loro; gli altri, i figli, qui del fratello, là della sorella, non possono essere più a lungo fratelli e sorelle, non possono più avere comuni genitori, nè il padre, nè la madre, nè ambidue, e perciò diviene per la prima volta necessaria la classe dei nipoti e delle nipoti, dei cugini e delle cugine, che non avrebbe avuto senso nel passato ordinamento di famiglia. Il sistema di parentela americano, che sembra affatto assurdo in qualsiasi forma di famiglia basata sul connubio individuale di qualunque specie, viene spiegato razionalmente e trovasi naturalmente motivato, sin nelle più piccole particolarità, per mezzo della famiglia punalua. Fin dove si è trovato diffuso questo sistema di parentela, almeno fino lì dev'essere anche esistita la famiglia punalua, o una forma analoga.

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È verosimile che questa forma di famiglia, dimostrata effettivamente esistente in Hawai, sarebbe stata dimostrata egualmente in tutta la Polinesia, se i pii missionarii, come un tempo i monaci spagnuoli in America, avessero saputo vedere in siffatti rapporti anticristiani qualcosa più di un semplice abominio[12]. Quando Cesare ci narra dei Britanni, che si trovavano allora nello stadio medio della barbarie: «essi hanno le loro mogli in comune fra dieci o dodici di loro, e sovente fratelli con fratelli e genitori con figli» — ciò si spiega nel miglior modo come connubio per gruppi. Quelle madri barbare non avevano 10 o 12 figli in età da poter tenere mogli in comune, ma il sistema di parentela americano, che corrisponde alla famiglia punalua, offre molti fratelli, perchè tutti i cugini prossimi e lontani di un uomo sono suoi fratelli. Il «genitori con figli» può essere un falso concetto di Cesare; non è però assolutamente escluso, in questo sistema, che padre e figlio, o madre e figlia, possano trovarsi nel medesimo gruppo matrimoniale, sibbene è escluso che possano trovarvisi padre e figlia, o madre e figlio. Questa, od altra analoga forma di famiglia del connubio per gruppi, presenta del pari la più ovvia spiegazione dei racconti di Erodoto e di altri antichi scrittori sulla comunione delle donne presso [50] le popolazioni selvagge e barbare. Famiglia punalua deve anch'essere quella che Watson e Kave (The People of India) raccontano dei Tikurs dell'Audh (al nord del Gange): «Essi convivono (intendasi sessualmente) quasi senza distinzione in grandi comunità, e, se due persone passano come coniugi, il legame non è che nominale».

Direttamente dalla famiglia punalua sembra uscita, nella grande generalità dei casi, la istituzione della gente. In verità il sistema di classi australiano ci offre un altro punto di partenza, dal quale poteva svilupparsi questa istituzione; gli Australiani hanno genti, ma non hanno ancora una famiglia punalua, bensì una forma più grossolana del connubio per gruppi.

In tutte le forme della famiglia per gruppi, è incerto il padre di un bambino, ma la sua madre è certa. Sebbene chiami suoi figli tutti figli della famiglia collettiva ed abbia per essi doveri materni, tuttavia essa distingue i suoi propri figli. È quindi chiaro che, finchè esiste connubio per gruppi, la discendenza non può dimostrarsi che dal lato materno, e quindi non è riconosciuta che la linea femminile. È questo infatti il caso presso tutt'i popoli selvaggi e appartenenti allo stadio inferiore della barbarie; ed averlo scoperto pel primo, è il secondo grande merito di Bachofen. Egli designa questo riconoscimento esclusivo della discendenza materna, e i rapporti ereditarii che col tempo nascono da esso, col nome di «diritto materno». Per brevità io conservo questo nome, ma esso è inesatto, poichè, a questo stadio sociale, non può ancora parlarsi di «diritto» nel senso giuridico.

[51]

Se della famiglia punalua prendiamo ora uno dei due gruppi-modello, cioè quello di una serie di sorelle carnali e di grado più lontano (cioè a dire discendenti in primo, in secondo o in un grado più remoto da sorelle carnali) insieme ai loro figli e ai loro fratelli carnali o di grado più remoto dal lato materno (che, secondo la nostra presupposizione, non sono loro mariti), noi abbiamo appunto il circolo delle persone, che appariscono più tardi come membri di una gente nella prima forma di questa istituzione. Essi tutti hanno uno stipite materno comune, e, in virtù di questa origine, le figlie formano generazioni di sorelle. Ma i mariti di queste sorelle non possono esser più i loro fratelli, non possono cioè discendere da questo stipite materno, e quindi non possono appartenere al gruppo consanguineo, alla futura gente; però i loro figli appartengono a questo gruppo, poichè la discendenza dal lato materno è la sola decisiva, essendo la sola certa. Una volta stabilito il divieto dell'unione sessuale fra tutti i fratelli e tutte le sorelle, compresi i più lontani parenti collaterali dal lato materno, il suddetto gruppo si è anche trasformato in una gente, si è Costituito cioè come un circolo fisso di consanguinei di linea femminile, che non possono più sposarsi tra loro, e che quindinnanzi si consolida sempre più con altre istituzioni comuni sociali e religiose ed è distinto dalle altre genti della stessa tribù. Di ciò particolareggiatamente più tardi. Ma quando troviamo, che necessariamente, spontaneamente, la gente si sviluppa dalla famiglia punalua, noi siamo obbligati ad ammettere la pristina esistenza di questa forma di famiglia come quasi [52] certa per tutti quei popoli, presso i quali sono dimostrabili istituzioni gentili, cioè a un di presso per tutti i barbari e per tutti i popoli avviati a civiltà.

Quando Morgan scrisse il suo libro, le nostre nozioni intorno al connubio per gruppi erano ancora molto limitate. Avevasi qualche conoscenza del connubio per gruppi degli Australiani organizzati in classi; inoltre Morgan, fin dal 1871, aveva pubblicate le notizie che possedeva sulla famiglia punalua dell'Hawai. La famiglia punalua forniva, da un lato, la completa spiegazione del sistema di parentela dominante tra gli Indo-americani, che era stato per Morgan il punto di partenza di tutte le sue indagini, e dall'altro, il vero punto di derivazione della gente a diritto materno; essa rappresentava poi un grado di sviluppo molto più elevato delle classi australiane. Era quindi comprensibile che Morgan la concepisse come lo stadio di sviluppo che precede immediatamente quello del connubio sindiasmico e le attribuisse una generale diffusione nei tempi anteriori. Dopo d'allora, noi imparammo a conoscere una serie di altre forme di connubio per gruppi, e sappiamo ora che a questo proposito Morgan andò troppo oltre. Ma egli ebbe pur sempre la fortuna di trovare nella sua famiglia punalua la forma più elevata e classica del connubio per gruppi, quella forma dalla quale si spiega nel modo più semplice la transizione a una forma superiore.

Il più essenziale contributo alla conoscenza del connubio per gruppi lo dobbiamo al missionario inglese Lorimer Fison, che per lunghi anni studiò questa forma di famiglia sul suo terreno classico, [53] in Australia. Egli rinvenne il più basso grado di sviluppo presso i negri del monte Gambier nell'Australia meridionale. Qui tutta la tribù è divisa in due grandi classi, Kroki e Kumiti. I rapporti sessuali in ciascuna di queste classi sono rigorosamente vietati; invece ogni uomo di una classe è lo sposo nato di ogni donna dell'altra classe, e reciprocamente. Non gli individui, ma gli interi gruppi son conjugati tra loro, classe con classe. E, si noti, qui non è fatta in nessun luogo riserva alcuna per differenze di età o per consanguineità speciali, salvo quella che risulta dalla separazione in due classi esogame. Un Kroki ha per sposa legittima ogni donna Kumite; e poichè la sua propria figlia, come figlia di una donna Kumite, è, giusta il diritto materno, anche Kumite, essa è con ciò la sposa nata di ogni Kroki, quindi anche del suo proprio padre. Almeno, l'organizzazione di classe, quale ci si presenta, non pone a ciò alcun ostacolo. O quindi questa organizzazione è nata in un tempo, in cui, malgrado il vago istinto di frenare il connubio tra consanguinei, non si trovava ancora nulla di particolarmente abbominevole nell'unione sessuale tra genitori e figli; e in questo caso il sistema delle classi sarebbe nato direttamente da uno stato di assoluta promiscuità sessuale. Ovvero il rapporto sessuale tra genitori e figli era già vietato dall'uso quando nacquero le classi; e allora lo stato attuale richiama la famiglia consanguinea ed è il primo passo per uscirne. Quest'ultima ipotesi è la più probabile. Per quanto mi consta, non si hanno dall'Australia esempi di connubio tra genitori e figli, e anche la posteriore forma della esogamia, la gente a diritto materno, [54] presuppone di regola il tacito divieto di questa pratica, come vigente all'epoca della sua fondazione.

Il sistema delle due classi, oltre che al Monte Gambier nell'Australia meridionale, si trova anche sul fiume Darling più all'est, e, al nord-est, nel Queensland; esso è quindi molto diffuso. Questo sistema esclude soltanto i connubii tra fratelli e sorelle, tra figli di fratelli e tra figli di sorelle dal lato materno, perchè questi appartengono alla stessa classe; al contrario, i figli di sorella e fratello possono sposarsi. Un altro passo diretto a impedire l'unione fra consanguinei noi lo troviamo presso i Kamilaroi sul fiume Darling nella Nuova Galles meridionale, dove le due classi originarie sono suddivise in quattro, e ognuna di queste ultime si sposa in massa con un'altra. Quelli delle prime due classi sono sposi nati tra loro; ma, secondo che la madre apparteneva alla prima o alla seconda, i figli passano alla terza o alla quarta; i figli di queste due classi, pure conjugate tra loro, appartengono di nuovo alla prima e alla seconda. Sicchè sempre una generazione appartiene alla prima e alla seconda classe, la successiva alla terza e alla quarta, quella che segue ritorna alla prima e alla seconda. E i figli di fratelli e sorelle (in linea materna) non possono essere marito e moglie, ma i nipoti di fratelli e sorelle lo possono. Quest'ordinamento così complicato è reso ancora più complicato dall'innesto, — che avviene in seguito — delle genti a diritto materno, ma noi non possiamo addentrarvici. Si vede tuttavia che il bisogno d'impedire l'unione di consanguinei si fa sentire continuamente, ma si va a tentoni e senza chiara coscienza dello scopo.

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Il connubio per gruppi, che ivi, in Australia, è ancora matrimonio di classi, un connubio in massa di tutta una classe di uomini, sparsa sovente sopra l'intero continente, con una classe di donne altrettanto diffusa — questo connubio per gruppi, visto da vicino, non si presenta così abbominevole, come se lo immagina la fantasia di un filisteo abituato al regime dei bordelli; al contrario per lunghi anni se ne sospettò a malapena l'esistenza, e anche di recente essa venne di nuovo messa in dubbio. All'osservatore superficiale esso si presenta come un connubio individuale dal vincolo molto rilassato, con allato, quà e là, della poligamia e qualche infedeltà occasionale. Bisogna impiegare anni e anni, come fecero Fison e Howitt, per scoprire in questi rapporti conjugali — che nella loro pratica ricordano piuttosto agli Europei ordinarii i patrii costumi — per scoprirvi la legge regolatrice, giusta la quale il negro australiano straniero, lontano migliaia di chilometri dalla sua patria, tra persone il cui linguaggio gli è ignoto, trova, e non di rado da un accampamento a un altro accampamento, da una ad un'altra tribù, donne che si danno a lui di buon grado e senza riluttanza; la legge, in omaggio alla quale chi ha più donne ne cede una all'ospite per la notte. Dove l'Europeo vede assenza di leggi e di costumi, regna in fatto una legge rigorosa. Le donne appartengono alla classe conjugale dello straniero e sono perciò sue spose nate; quella medesima legge consuetudinaria che intreccia i loro destini vieta, sotto pena d'infamia, qualsiasi rapporto sessuale al di fuori delle classi coniugali che si appartengono a vicenda. Anche ove impera [56] il ratto delle donne, che spesso e in molti luoghi è la regola, la legge delle classi è rigorosamente osservata.

Del resto, nel ratto delle donne si accenna già una traccia del passaggio al connubio individuale, almeno nella forma del connubio sindiasmico: quando il giovane, coll'aiuto degli amici, ha rapito e condotto via la ragazza, essa si dà a tutti per turno, ma è considerata di poi come la moglie del giovane che ha promosso il ratto. E, inversamente, se la donna rapita fugge dal marito ed è accolta da un altro, essa diviene moglie di quest'ultimo e il primo ha perduto il suo privilegio. Perciò, dentro ed accanto al connubio per gruppi, che pur continua in generale ad esistere, si formano rapporti di esclusività, connubii a tempo più o meno lungo, allato alla poligamia[13]; sicchè il connubio per gruppi anche qui è in decadenza, e si tratta soltanto di sapere chi, sotto l'influenza europea, sparirà prima dalla scena: se il connubio per gruppi, o i negri australiani che lo praticano.

Il conjugio fra intere classi, quale esiste in Australia, è in ogni caso una forma molto bassa e primitiva del connubio per gruppi, mentre la famiglia punalua, per quanto sappiamo, è il suo più alto grado di sviluppo. Il primo sembra la forma corrispondente allo stato sociale dei selvaggi erranti, il secondo presuppone già società comunistiche con sede relativamente stabile e conduce, senza transizione, allo stadio di sviluppo immediatamente superiore. Tra i due, si troveranno di certo altri periodi [57] intermedii; è questo un campo d'indagini appena dischiuso, sul quale non si son fatti che i primi passi.

3.º La famiglia sindiasmica. Certi connubi, a tempo più o meno lungo, si facevano già nel connubio per gruppi, e fors'anche prima; l'uomo aveva una moglie principale (non si può ancor dire una moglie prediletta) tra le molte mogli, ed egli era per essa il principale marito fra tutti. Questa circostanza contribuì non poco alla confusione fatta dai missionarii, che nel connubio per gruppi ora vedono la comunanza delle donne senza alcun limite, ed ora l'adulterio a pieno libito. Ma tali connubi di consuetudine dovettero consolidarsi semprepiù, man mano che la gente si svolgeva e che più numerose divenivano le classi dei «fratelli» e delle «sorelle», tra le quali il connubio non era più consentito. Il divieto delle nozze fra consanguinei, effetto del costituirsi della gente, si andò estendendo ancor più. Così fra gli Irocchesi e fra la più parte degli altri Indiani americani, che si indugiano tuttora nello stadio inferiore della barbarie, troviamo che il connubio è vietato fra tutti i parenti, che conta il loro sistema, e che sono parecchie centinaia di specie. In questo crescente complicarsi dei divieti di connubio, i connubii per gruppi divenivano sempre meno possibili; essi furono sostituiti dalla famiglia sindiasmica. In questo stadio un marito convive con una moglie, in modo però, che la poligamia[14] e, occasione capitando, l'infedeltà coniugale, rimangono un diritto dei mariti; [58] quantunque la prima si trovi raramente, e ciò per ragioni economiche; mentre dalle mogli, durante la convivenza, si esige per lo più la più rigorosa fedeltà, e il loro adulterio è duramente punito. Ma il vincolo coniugale è facilmente risolubile dalle due parti, e, dopo come prima, i figli appartengono soltanto alla madre.

In questa progressiva esclusione dei consanguinei dal vincolo conjugale continua ad agire la selezione naturale. A dirla con Morgan; «I matrimonii tra genti non consanguinee producono una razza più vigorosa, così fisicamente come intellettualmente; quando due tribù progredite si mischiavano, i nuovi cranii e cervelli si ampliavano naturalmente, finchè abbracciassero le attitudini di entrambe». Le tribù, che avevano adottata la costituzione gentile, dovettero acquistare così il predominio su quelle rimaste in arretrato, o trarle seco col loro esempio.

L'evoluzione della famiglia nella storia primitiva, consiste quindi nel continuo restringersi della cerchia abbracciante in origine tutta la tribù, nella quale regna la comunanza del connubio tra i due sessi. Esclusi a mano a mano, prima i parenti più prossimi, poi i più lontani, infine anche i semplici parenti per cognazione (affini), qualsiasi forma di connubio per gruppi finisce per diventare praticamente impossibile, e la coppia unica, che pel momento è ancora debolmente unita, rimane la molecola, se si scioglie la quale, cessa lo stesso connubio. Già di qui si vede quanto poco l'amore sessuale individuale, nell'odierno significato della parola, abbia da fare colla genesi del connubio individuale. Ciò è dimostrato ancor meglio dalla pratica [59] di tutti i popoli che si trovano in questo stadio. Mentre nelle precedenti forme di famiglia gli uomini non erano mai imbarazzati a trovar mogli, anzi ne avevano più del bisogno, ora le mogli divenivano rare e ricercate. Onde, colla famiglia sindiasmica, cominciano il ratto e la compra delle donne — sintomi questi molto diffusi, ma non più che sintomi, di un sopravvenuto profondo cangiamento. Questi sintomi, che non sono poi altro se non semplici metodi di procurarsi mogli, il pedante scozzese Mac Lennan li ha trasformati in classi distinte di famiglia, sotto il nome di «matrimonio per ratto» e di «matrimonio per compra». Del resto, anche presso gli Indiani americani e altrove (nello stesso stadio), la conchiusione del connubio non è affare degli interessati, che spesso non vengono neanche interrogati, ma delle loro madri. Sovente due persone, affatto sconosciute tra loro, sono così fidanzate, e ne hanno notizia solo quando è imminente la celebrazione degli sponsali. Prima delle nozze, lo sposo dà ai parenti gentili della sposa (cioè ai suoi parenti materni, non al padre e alla costui parentela) dei donativi come prezzo della ragazza ceduta. Il connubio si scioglie a volontà di ciascuno dei due coniugi; nondimeno, in molte tribù, per esempio fra gli Irocchesi, si è formata a poco a poco un'opinione pubblica avversa a siffatte separazioni; nelle contese intervengono come pacieri i parenti gentili delle due parti, e, solo se questa mediazione fallisce, ha luogo il divorzio; la moglie tiene seco i figliuoli e i divorziati sono liberi entrambi di rimaritarsi.

La famiglia sindiasmica, per sè stessa troppo debole e instabile per creare il bisogno o anche [60] solo il desiderio di una casa propria, non disfà menomamente l'economia domestica[15] comunistica, tramandata dall'epoca primitiva. Ma economia domestica comunistica significa il dominio delle donne nella casa, come pure l'esclusivo riconoscimento di una madre carnale, derivante dalla impossibilità di conoscere con certezza un padre carnale; significa grande stima delle donne, cioè delle madri. Una delle più assurde idee, trasmesse dalle teorie sociali del secolo XVIII, è che, nei primi tempi della società, la donna fosse schiava dell'uomo. La donna, presso tutti i selvaggi e tutti i barbari dello stadio inferiore e medio, e anche in parte del superiore, ha una condizione non solo libera, ma altamente onorata. Che cosa sia ancora la donna nella famiglia sindiasmica, può attestarlo Arturo Wright, che fu missionario per lunghi anni tra gli Irocchesi del Senecca: «Quanto alle loro famiglie, al tempo nel quale abitavano le «lunghe case» antiche (economie domestiche comunistiche di parecchie famiglie), il sistema dominante era sempre quello del clan (gente), pel quale le donne prendevano i loro mariti dagli altri clans... Di solito l'elemento femminile signoreggiava nella casa; le provviste erano comuni; ma guai all'infelice marito od amante che fosse troppo pigro od inetto a contribuire la sua parte di provviste. Per quanti figli o cose proprie avesse nella casa, egli doveva aspettarsi ad ogni istante l'ordine di far fagotto e di [61] spulezzare. E non gli era lecito tentare di resistere, la casa gli diveniva insopportabile, non gli rimaneva che tornare al suo proprio clan, o, più spesso, cercarsi un nuovo matrimonio in un altro clan. Le mogli erano la vera potenza nei clans, come dapertutto. All'occasione non esitavano a deporre un duce e degradarlo a guerriero comune». L'economia domestica comunistica, nella quale le mogli appartengono per la maggior parte, o tutte, a una medesima gente, mentre i mariti provengono da genti diverse, è la base reale di quel predominio delle donne, generale nel tempo primitivo, la cui scoperta è un terzo merito del Bachofen. Noto infine, che le relazioni dei viaggiatori e dei missionarii, sull'eccessivo lavoro di cui sono aggravate le donne tra i selvaggi e tra i barbari, non contraddicono in verun modo a ciò che ora si è detto. La divisione del lavoro tra i due sessi è determinata da motivi affatto diversi da quelli che determinano la condizione della donna nella società. Popoli, presso i quali le donne debbono lavorare molto più che a loro, secondo il concetto nostro, non convenga, hanno per esse, sovente, assai più stima vera che i nostri Europei. La dama della civiltà, circondata di falsi omaggi e dispensata da ogni reale lavoro, ha una condizione sociale infinitamente più bassa della donna della barbarie, assoggettata a duro lavoro, ma che nel suo popolo passava per una vera dama (lady, frowa, Frau = signora) e lo era anche pel suo carattere.

Se la famiglia sindiasmica abbia oggi interamente sostituito in America il connubio per gruppi, debbono deciderlo ricerche più approfondite sulle [62] popolazioni del Nord-ovest e più ancora del Sud dell'America, che si trovano ancora nel periodo superiore dello stato selvaggio. Di queste ultime si narrano esempi così svariati di licenza sessuale da far supporre che ancora vi esista il vecchio connubio per gruppi. Ad ogni modo non ne sono ancora sparite tutte le tracce. Presso almeno quaranta tribù del Nord dell'America, l'uomo, che sposa una sorella maggiore, ha il diritto di prendere anche per mogli tutte le sorelle di lei non appena raggiungano l'età voluta: avanzo della comunanza dei mariti per tutta la serie delle sorelle. E dei peninsulari della California (grado superiore dello stato selvaggio) narra Bancroft, che essi hanno certe festività, nelle quali convengono parecchie tribù, a scopo di promiscuità sessuale. Evidentemente sono genti, che in queste feste conservano la vaga reminiscenza del tempo, nel quale le donne di una gente avevano per mariti comuni tutti gli uomini delle altre, e viceversa. Lo stesso uso vige ancora in Australia. Avviene presso alcuni popoli, che gli anziani, i capi e i sacerdoti-magi, sfruttano per conto proprio la comunanza delle donne e ne monopolizzano la maggior parte; ma in certe festività e nelle grandi riunioni popolari essi devono restituire la vecchia comunanza e permettere che le loro donne si sollazzino coi giovani. Westermark (pag. 28-29) cita tutta una serie di esempii di siffatti saturnali periodici, in cui l'antica promiscuità sessuale rivive per breve tempo: presso gli Hos, i Santali, i Pandscha e i Colari delle Indie, presso alcuni popoli australiani, ecc.; ma ne trae la singolare illazione, che ciò sia non già un avanzo del connubio [63] per gruppi, da lui negato, bensì... del tempo della fregola, comune all'uomo primitivo e agli altri animali.

Arriviamo con ciò alla quarta grande scoperta di Bachofen, quella cioè della forma di transizione molto diffusa dal connubio per gruppi alla famiglia sindiasmica. Ciò che Bachofen presenta come un'espiazione per la violazione degli antichi precetti divini, come una penitenza con la quale la donna riscatta il diritto alla castità, non è in realtà se non l'espressione mistica dell'espiazione, con cui la donna si riscatta dall'antica comunanza degli uomini e acquista il diritto di non darsi che a un uomo solo. Questa espiazione consiste in un limitato abbandono di sè stesse agli amori promiscui: le donne babilonesi dovevano darsi una volta all'anno nel tempio di Militta; altri popoli dell'Asia Minore mandavano le loro fanciulle per degli anni nel tempio di Anaiti a coltivarvi l'amor libero con favoriti di loro scelta, prima di potersi maritare; usi analoghi, travestiti in riti, sono comuni a quasi tutti i popoli asiatici, tra il Mediterraneo e il Gange. Il sacrificio espiatorio pel riscatto diviene nel corso del tempo sempre più breve, come già osserva Bachofen: «Il darsi ripetute volte nell'anno è sostituito dall'abbandonarsi una sola volta; all'eterismo delle matrone succede quello delle fanciulle; lo si pratica prima anzichè durante il matrimonio; scambio di darsi a tutti senza limite, la donna può prescegliere certe persone» (Mutterrecht, p. XIX). Presso altri popoli manca il travestimento religioso: presso alcuni — come i Traci, i Celti, ecc., nell'antichità, molti aborigeni dell'India, i popoli malesi, gli [64] isolani dell'Oceania e molti Indiani americani, ancor oggi — le fanciulle, sino al matrimonio, godono della più grande libertà sessuale. Lo stesso avviene quasi dapertutto nell'America del Sud, e ne è testimonio chiunque vi si sia alquanto addentrato. Così Agassiz (A journey in Brazil, Boston and New-York 1880, p. 260) narra quanto segue di una ricca famiglia, di origine indiana: avendovi egli visto una fanciulla, chiese di suo padre, supponendo fosse il marito della madre, che, in qualità di ufficiale, era andato alla guerra contro il Paraguay; ma la madre rispose sorridendo: não tem pai, he filha da fortuna, essa non ha padre, è figlia del caso. «Così parlano sempre le donne indiane, o di sangue mescolato, dei loro figli nati fuori matrimonio, senza esitare, nè arrossire; e nonchè esser ciò una cosa fuor dell'ordinario, sembra anzi che il contrario sia l'eccezione. Sovente i figli non conoscono se non la madre, perciocchè tutta la cura e tutta la responsabilità ricade su di essa; nulla sanno del padre; sembra anzi che alla donna non baleni neppure che essa o i suoi figli possano vantare alcun diritto verso di lui». Ciò che qui sembra strano all'uomo incivilito è semplicemente la regola secondo il diritto materno e nel connubio per gruppi.

Presso altri popoli, gli amici e i parenti dello sposo o i convitati esercitano, nell'occasione stessa delle nozze, il tradizionale diritto sulla sposa, e la volta dello sposo non viene che in ultimo; così alle Baleari e presso gli Augili africani nell'antichità, e oggi ancora presso i Barea nell'Abissinia. Presso altri popoli, un personaggio ufficiale, il capo della tribù o della gente, il cacicco, lo sciamane, [65] il prete, il principe, o comunque si chiami, rappresenta la comunità, ed esercita sulla sposa il diritto della prima notte. Malgrado tutte le pretese riabilitazioni neoromantiche, questo jus primae noctis esiste ancora, come avanzo del connubio per gruppi, fra la maggior parte degli abitanti del territorio di Alaska (Bancroft, Native Races, I, 81), presso i Tahu nel Messico settentrionale (ivi, p. 584) e presso altri popoli; esso ha esistito, per tutto il Medio evo, almeno nei paesi di origine celtica, tramandatovi dal connubio per gruppi, per esempio nella provincia di Aragona. Mentre nella Castiglia il contadino non fu mai servo, in Aragona domina la più ignominiosa servitù, sino all'arbitrato di Ferdinando il Cattolico, nel 1486. È detto in questo documento; «Noi giudichiamo e dichiariamo, che, quando il contadino prende moglie, i premenzionati signori (senyors, Baroni) non possono dormire con essa la prima notte, o, dopo che essa si sia messa a letto, coricarsi con lei ed usarne in segno di dominio, nè servirsi della figlia o del figlio del contadino, con pagamento o senza, contro la loro volontà». (Citato nell'originale catalano da Sugenheim, Leibeigenschaft, Pietroburgo 1861, p. 35).

Bachofen ha anche perfettamente ragione, quando afferma recisamente, che il passaggio, da ciò che egli chiama «eterismo» o «generazione di palude», al connubio individuale, fu essenzialmente opera delle donne. Quanto più, con lo sviluppo delle condizioni economiche dell'esistenza, cioè col cessare del vecchio comunismo e con l'addensarsi della popolazione, i tradizionali rapporti sessuali perdevano il carattere ingenuo delle foreste primitive, tanto [66] più essi dovevano apparire umilianti ed oppressivi alle donne, e tanto più queste dovevano desiderare il diritto alla castità, o al connubio temporaneo o permanente con un sol uomo, come una liberazione. Questo progresso non poteva emanare dagli uomini, perchè essi non hanno mai pensato, e non pensano neanche oggi, a rinunziare in pratica alle attrattive dei connubio per gruppi. Solo dopo che, mercè le donne, si passò al connubio sindiasmico, poterono gli uomini introdurre la rigorosa monogamia, per le sole donne, s'intende.

La famiglia sindiasmica nacque sul limite fra lo stato selvaggio e la Barbarie, per lo più nel periodo superiore dello stato selvaggio, e soltanto qua e là in quello inferiore della Barbarie. Essa è la forma di famiglia caratteristica della Barbarie, come il connubio per gruppi lo è dello stato selvaggio, e la monogamia dell'epoca civile. Perchè potesse svilupparsi sino a una vera e salda monogamia, abbisognavano altre cause da quelle che agirono sin qui. Nella famiglia sindiasmica il gruppo era già ridotto alla sua ultima unità, alla sua molecola di due atomi: un uomo e una donna. La selezione naturale aveva compiuto la sua opera escludendo sempre più la comunanza dei connubii; in questa direzione non le rimaneva più nulla da fare. Se dunque non emergevano nuove forze impulsive, forze sociali, non vi era ragione perchè dalla famiglia sindiasmica scaturisse una nuova forma di famiglia. Queste forze entrarono in gioco.

Lasciamo ora l'America, la terra classica della famiglia sindiasmica. Nessun indizio autorizza a concludere, che ivi siasi sviluppata una forma di [67] famiglia più elevata, e che, prima della scoperta e della conquista, vi sia mai esistita in qualche luogo la stretta monogamia. Non così nel vecchio mondo.

Quivi l'addomesticamento degli animali e l'allevamento degli armenti avevano sviluppata una fonte di ricchezza non ancor presentita, e creato rapporti sociali affatto nuovi. Sino allo stadio inferiore della barbarie, la ricchezza che poteva conservarsi consisteva quasi esclusivamente nella casa, nel vestito, in rozzi ornamenti, e negli ordigni per procurarsi ed allestire gli alimenti: la barca, le armi, le suppellettili più semplici. Gli alimenti dovevano conquistarsi giorno per giorno. Ora, invece, cogli armenti di cavalli, cammelli, asini, buoi, pecore, capre e porci, le inoltrantisi popolazioni nomadi — gli Arii nella regione indica dei cinque fiumi e nel territorio del Gange, come nelle steppe dell'Osso e del Jassarte, allora assai più ricche di acqua; i Semiti sull'Eufrate e sul Tigri — acquistarono beni, che esigevano solo un po' di vigilanza e le cure le più grossolane, per moltiplicarsi sempre più, e fornire il più ricco nutrimento di latte e di carne. Tutti i mezzi anteriori di procacciarsi gli alimenti passano così in seconda linea; la caccia, già una necessità, diventa ora un lusso.

Ma a chi apparteneva questa nuova ricchezza? Senza dubbio, in origine, alla gente; senonchè sugli armenti dev'essersi ben presto sviluppata la proprietà privata. È difficile dire se all'autore del cosiddetto primo libro di Mosè, il padre Abramo apparisse possessore dei suoi armenti in virtù di un diritto proprio, come capo di una famiglia, o in virtù della sua qualità di effettivo capo ereditario [68] di una gente. Certo è soltanto, che non possiamo rappresentarcelo come proprietario nel senso moderno. E certo è inoltre che, alla soglia della storia autentica, troviamo gli armenti già dapertutto in proprietà privata dei singoli capi di famiglia, esattamente come i prodotti dell'arte della barbarie, gli arnesi di metallo, gli articoli di lusso, finalmente il bestiame umano, gli schiavi.

Perciocchè a quest'epoca fu inventata anche la schiavitù. Lo schiavo non aveva valore pei barbari dello stadio inferiore. Gli stessi Indiani americani si comportavano coi nemici vinti affatto diversamente dai barbari degli stadii superiori. Gli uomini erano uccisi, o accolti come fratelli nella tribù dei vincitori; le donne venivano sposate, o adottate insieme ai loro figli sopravvissuti. La forza di lavoro umano non offre ancora, in questo stadio, alcun apprezzabile sopravvanzo sul costo del suo mantenimento. Introdotti l'allevamento del bestiame, la lavorazione dei metalli, la tessitura, e finalmente l'agricoltura, tutto questo mutava. Come le spose, nel passato così numerose e così facili a procurarsi, ora acquistavano un prezzo e venivano comprate, lo stesso avvenne delle forze di lavoro, massime dacchè gli armenti passarono definitivamente in proprietà privata. La famiglia non aumentava così presto come il bestiame. Occorrendo un maggior numero di persone per custodirlo, si utilizzò il nemico prigioniero di guerra, che d'altronde si riproduceva come il bestiame.

Tali ricchezze, passate in proprietà privata e rapidamente accresciute, diedero un terribile colpo alla società fondata sulla famiglia sindiasmica e [69] sulla gente del diritto materno. Il connubio sindiasmico aveva introdotto un nuovo elemento nella famiglia: allato alla madre carnale esso aveva posto il padre carnale, autentico, probabilmente più autentico di molti «padri» d'oggidì. Giusta la divisione del lavoro nella famiglia di quel tempo, spettava all'uomo il procacciare gli alimenti e gli strumenti di lavoro necessarii all'uopo, e quindi anche gli spettava la proprietà di questi ultimi; separandosi li portava seco, come la moglie conservava le sue masserizie. Giusta gli usi di quella società, l'uomo era dunque proprietario delle nuove fonti di alimentazione, il bestiame, e in seguito dei nuovi strumenti di lavoro, gli schiavi. Ma, giusta gli usi medesimi, i suoi figli non ereditavano da lui, poichè l'eredità si regolava come stiamo per dire.

Giusta il diritto materno, cioè finchè la discendenza non si computava che in linea femminile, e giusta il costume ereditario primitivo della gente, da principio i parenti gentili ereditavano dai loro defunti compagni gentili. I beni di fortuna dovevano restare nella gente. Stante la sua poca importanza, la successione in pratica sarà passata ai più prossimi parenti gentili, cioè ai consanguinei dal lato materno. Ma i figli del marito defunto non appartenevano alla sua gente, bensì a quella della madre; essi ereditavano da questa, dapprincipio insieme cogli altri consanguinei di lei, in seguito forse in prima linea, ma essi non potevano ereditare dal padre, poichè non appartenevano alla sua gente, alla quale dovevano rimanere i suoi beni di fortuna. Alla morte, quindi, di un possessore di armenti, questi sarebbero passati anzitutto ai suoi [70] fratelli e alle sue sorelle e ai figli delle sue sorelle, o ai discendenti delle sorelle di sua madre, ma i suoi propri figli rimanevano diseredati.

A misura quindi che le ricchezze aumentavano, da un lato, esse davano all'uomo nella famiglia una posizione più importante che alla donna e, d'altro lato, creavano in lui lo stimolo ad utilizzare questa posizione più importante, per rovesciare, a favore dei propri figli, la vecchia successione. Ma ciò era impossibile finchè vigeva la discendenza per diritto materno. Questo diritto doveva dunque essere rovesciato, e lo fu. Ciò non fu tanto difficile quanto oggi ci sembra, poichè questa rivoluzione — una delle più importanti, che gli uomini abbiano vedute — non aveva bisogno di toccare alcuno dei membri viventi di una gente. Tutti questi potevano rimanere, dopo come prima, ciò che erano stati. Bastò stabilire che, in avvenire, i discendenti dei compagni maschi resterebbero nella gente e quelli delle femmine ne sarebbero esclusi, passando nella gente del loro padre. Con ciò si aboliva il computo della discendenza in linea femminile e il diritto ereditario materno, e si istituiva la linea di discendenza maschile e il diritto ereditario paterno. Come si sia fatta questa rivoluzione, nei popoli tendenti alla civiltà, e quando, non ne sappiamo nulla. Essa appartiene interamente all'epoca preistorica. Ma che si sia fatta, è dimostrato oltre il bisogno dalle abbondanti tracce di diritto materno raccolte sopratutto dal Bachofen, e come facilmente si effettui, lo vediamo in una intera serie di tribù indiane, dove essa è affatto recente, o si effettua ancor oggi, in parte sotto l'influenza della crescente [71] ricchezza e del cangiato modo di vita (passaggio dai boschi alle praterie), e in parte per l'influsso morale della civiltà e dei missionarii. Di otto tribù del Missuri, sei hanno introdotto la discendenza e la successione maschile, due l'hanno ancora femminile. Presso i Shawnees, i Miamies e i Delawares si è introdotto l'uso di trasportare i figli dalla gente della madre in quella del padre, col dar loro un nome tratto dalla gente del padre, affinchè possano ereditare da questo. «Innata tendenza casistica dell'uomo, di cangiare le cose mutando i loro nomi e di trovare ripieghi per abbattere la tradizione avendo l'aria di rispettarla, quando un interesse diretto ne dà lo stimolo sufficiente!» (Marx). Nacque da ciò un'inestricabile confusione, alla quale dovevasi ovviare, e venne anche in parte ovviato, col passaggio al diritto paterno. «In generale sembra questo il passaggio il più naturale» (Marx).

Chi vuol vedere ciò che sanno dirci gli studiosi di Diritto comparato sul come sarebbesi effettuata questa trasformazione presso i popoli tendenti a civiltà del vecchio mondo — ipotesi e niente più — consulti Kovalevsky, Tableau des origines et de l'evolution de la famille et de la propriété, Stockholm, 1890.

La caduta del diritto materno fu la sconfitta storico-mondiale del sesso femminile. L'uomo afferrò il timone anche nella casa, la donna fu avvilita, asservita, resa schiava delle sue voglie e divenne un semplice strumento di riproduzione. Questa degradata condizione della donna, che appare evidente sopratutto fra i Greci dei tempi eroici e più ancora dei tempi classici, venne gradatamente inorpellata [72] e dissimulata, e qua e là ha assunto anche forme più miti; ma non fu mai in alcun modo abolita.

Il primo effetto di cotesto nuovo ed esclusivo dominio dell'uomo, mostrasi nel sorgere di quella forma intermedia che è la famiglia patriarcale. Ciò che particolarmente la caratterizza non è la poligamia, di cui parleremo più tardi, ma «l'organizzazione di un certo numero di persone libere e non libere in una sola famiglia, sotto la patria potestà del capo di essa. Nella forma semitica, questo capo di famiglia vive in poligamia, i non liberi hanno moglie e figli, e lo scopo di tutta l'organizzazione è la custodia degli armenti sopra uno spazio di terra determinato». L'essenziale è l'incorporazione dei non liberi e la patria potestà; la famiglia romana è quindi il tipo completo di questa forma di famiglia. La parola familia non significa in origine l'ideale dell'odierno filisteo, composto di sentimentalismo e di discordia domestica; presso i Romani dei primi tempi, essa non si riferisce nemmeno alla coppia conjugale e ai suoi figli, ma soltanto agli schiavi. Famulus è lo schiavo domestico, e familia è la collettività degli schiavi appartenenti ad un uomo. Ancora al tempo di Caio, la familia, id est patrimonium (ossia l'asse ereditario), veniva legata per testamento. L'espressione fu inventata dai Romani, per designare un nuovo organismo sociale, il cui capo teneva moglie, figli e un certo numero di schiavi sotto di sè, giusta la patria potestà romana, con diritto di vita e di morte su tutti. «La parola non è dunque più antica del ferreo sistema di famiglia delle tribù latine, sorto dopo introdotte [73] l'agricoltura e la schiavitù legale e dopo la scissione degli Arii italici dai Greci». Marx aggiunge: «La famiglia moderna contiene in germe non solo la schiavitù (servitus), ma ben anche il servaggio, poichè essa in origine si connette con dei servizii agricoli. Essa compendia in miniatura tutti gli antagonismi che più tardi si sviluppano ampiamente nella società e nel suo Stato».

Siffatta forma di famiglia segna il passaggio dalla famiglia sindiasmica alla monogamia. Per guarentire la fedeltà della moglie, cioè la paternità dei figli, la donna è consegnata incondizionatamente al potere dell'uomo: se egli la uccide, non esercita che il proprio diritto.

Con la famiglia patriarcale entriamo nel dominio della storia scritta, dominio nel quale la scienza del diritto comparato ci reca un notevole sussidio. Dobbiamo infatti a questa un progresso essenziale su questo punto. Fu Massimo Kovalevsky (Tableau, ecc., de la famille e de la propriété, Stockholm 1890, pag. 60-100) a fornirci la prova, che la comunità domestica patriarcale, quale la troviamo ancor oggi fra i Serbi ed i Bulgari sotto nome di zadruga (traducibile a un dipresso con unione d'amicizia) o di bratstvo (fratellanza) ed in forma modificata presso i popoli orientali, costituì lo stadio di transizione tra la famiglia del diritto materno, sorta dal connubio per gruppi, e la famiglia individuale del mondo moderno. Ciò sembra dimostrato almeno pei popoli tendenti a civiltà del mondo antico, per gli Arii e per i Semiti.

La zadruga degli Slavi del Sud offre il miglior esempio superstite di una tale comunità di famiglia. [74] Essa abbraccia parecchie generazioni di discendenti da uno stesso padre, con le rispettive mogli, che, tutti coabitando sotto il tetto medesimo, coltivano i loro campi in comune, hanno comuni provviste di alimenti e di vesti, e possiedono in comune ogni risparmio. La comunità sta sotto l'amministrazione del padron di casa (domácin); questi la rappresenta nei rapporti esterni, può alienare oggetti di poco conto, tiene la cassa e ne risponde, come risponde del corso regolare degli affari. È elettivo; nè occorre che sia il più vecchio. Le donne e i loro lavori stanno sotto la direzione della padrona di casa (domácica), di solito la moglie del domácin. Questa ha anche un voto importante, sovente decisivo, nella scelta dello sposo per le ragazze. Ma il potere supremo risiede nel Consiglio di famiglia, o assemblea di tutti i compagni adulti, donne ed uomini. A quest'assemblea il padrone di casa rende i conti; è essa che prende le decisioni definitive, che esercita giurisdizione su tutti i membri della comunità, che conchiude le compre e le vendite di qualche importanza, massime se si tratta di terreni o di stabili, ecc.

Non è che da circa un decennio che il perdurare di consimili grandi comunità domestiche fu dimostrato anche in Russia; oggi è generalmente riconosciuto che esse sono altrettanto radicate nel costume popolare russo quanto la obscina o comunità di villaggio. Esse figurano nel più antico codice russo, il Pravda di Jaroslav, sotto lo stesso nome (vervj) che nelle leggi dalmate, e si trovano del pari nelle fonti storiche polacche e czeche.

Anche fra i Germani, secondo Heussler (Institutionen [75] des deutschen Rechts), l'unità economica in origine non è la famiglia isolata nel senso moderno, ma la «comunità domestica», che comprende parecchie famiglie di diverse generazioni, e spesso anche individui non liberi. Anche la famiglia romana viene ricondotta a questo tipo, e l'assoluta potestà del padre di famiglia, di fronte all'assenza d'ogni diritto negli altri membri della famiglia, fu testè vivamente contestata. Presso i Celti, in Irlanda, devono esservi state analoghe comunità di famiglia; in Francia esse si conservarono nel Nivernese, sotto il nome di parçonneries, sino alla rivoluzione francese, e nella Franca Contea non sono ancora interamente estinte. Nei pressi di Louhans (Saône-et-Loire) si vedono grandi case di contadini, con una sala centrale comune alta sino al tetto, e intorno le camere da letto, alle quali si accede mediante scale di sei a otto scalini, e dove abitano parecchie generazioni della medesima famiglia.

Nelle Indie la comunità domestica che coltiva la terra in comune è ricordata fin da Nearco, ai tempi di Alessandro il Grande, e vi esiste tuttora nel Pandschàb e in tutto il Nord-ovest del paese. Nel Caucaso la potè dimostrare lo stesso Kovalevsky. In Algeria esiste ancora presso i Cabili. E la si sarebbe rinvenuta anche in America, dove la si dice scoperta fra i Calpullis, descritti da Zurita nel vecchio Messico; Cunow (Ausland, 1890, N. 42-44) dimostrò invece abbastanza chiaramente, che nel Perù, al tempo della conquista, vigeva una specie di regime di marca (il quale, cosa strana, si sarebbe chiamato propriamente marca!), con divisione periodica [76] del terreno coltivato, e quindi con coltivazione individuale.

In ogni caso, la comunità domestica patriarcale, con la terra posseduta e coltivata in comune, acquista ormai una importanza ben maggiore che nel passato. Noi non possiamo più dubitare della parte importante che essa ha sostenuto, fra i popoli tendenti a civiltà e fra molti altri popoli del mondo antico, nel determinare il passaggio dalla famiglia del diritto materno alla famiglia isolata. Più avanti torneremo all'altra conclusione del Kovalevsky, per cui essa sarebbe anche stata lo stadio di transizione onde si sviluppa la comunità del villaggio o della marca, con coltivazione individuale e divisione dapprima periodica e poi definitiva dei campi e delle praterie.

Quanto alla vita di famiglia in queste comunità domestiche, è da notare che, in Russia almeno, il capo di casa ha fama di abusare molto della sua posizione di fronte alle giovani della comunità, specialmente di fronte alle nuore, e spesso di farsene un harem; i canti popolari russi sono abbastanza eloquenti in proposito.

Prima di passare alla monogamia, che si svolge rapidamente colla caduta del diritto materno, poche parole ancora sulla poligamia e sulla poliandria. Ambedue queste forme di connubio non possono essere che eccezioni, per così dire prodotti di lusso della storia, salvo che non sorgano in un paese l'una accanto all'altra, ciò che, come è noto, non è il caso. Poichè dunque gli uomini esclusi dalla poligamia non si possono consolare con donne lasciate libere dalla poliandria, e poichè il numero [77] degli uomini e delle donne, indipendentemente dalle istituzioni sociali, fu sinora supergiù eguale, ciò basta ad escludere che l'una o l'altra di queste forme di connubio possano divenire la forma dominante. Nella realtà, la poligamia di un uomo era il prodotto palese della schiavitù e rimaneva sempre l'eccezione. Nella famiglia patriarcale semitica, vive in poligamia il solo patriarca, tutt'al più qualcuno dei suoi figli, gli altri debbono appagarsi di una sola donna. Lo stesso avviene ancora in tutto l'Oriente; la poligamia è un privilegio dei ricchi e dei potenti, e si recluta principalmente colla compra di schiave; la massa del popolo è monogama. Analogamente è un'eccezione la poliandria nell'India e nel Tibet, la cui origine dal connubio per gruppi sarebbe certo interessante approfondire. Nella sua pratica essa sembra del resto ben più larga del geloso regime degli harem maomettani. Almeno, presso i Nairi dell'India, tre, quattro o più uomini hanno bensì una moglie in comune, ma ognuno di essi ne può avere in comune con tre o più altri uomini una seconda, una terza, una quarta, ecc. È un miracolo, che Mac Lennan in questi clubs conjugali, di parecchi dei quali si può esser membri contemporaneamente e che egli stesso descrive, non abbia scoperta la nuova classe del matrimonio di club. Ma questo regime è ben lungi dall'essere vera poliandria; esso è piuttosto, come già osservò Giraud-Teulon, una forma speciale del connubio pei gruppi; gli uomini vivono in poligamia, e in poliandria le donne.

4. La famiglia monogamica. Essa nasce dalla famiglia siandiasmica, come si è dimostrato, nell'epoca [78] in cui lo stadio medio trapassa in quello superiore della barbarie; il suo definitivo trionfo è uno dei segni caratteristici dell'epoca civile che incomincia. Essa è fondata sul dominio del marito coll'espresso scopo di procreare figli la cui paternità sia incontestata, e tale paternità è richiesta, perchè questi figli debbono subentrare un giorno come eredi naturali nella fortuna paterna. Essa si distingue dalla famiglia sindiasmica per una assai maggiore saldezza del vincolo conjugale, non più risolubile per semplice consenso. Ordinariamente ora è solo l'uomo che può scioglierlo e ripudiare la moglie. Il diritto dell'infedeltà gli rimane garantito almeno dall'uso (il Codice Napoleone glielo attribuisce espressamente, finchè esso non porti la concubina nella casa conjugale) ed è sempre più praticato quanto più cresce lo sviluppo sociale; se la moglie si ricorda dell'antica pratica sessuale e vuol rinnovarla, essa è punita più duramente che mai per lo innanzi.

La nuova forma di famiglia ci si offre in tutta la sua durezza presso i Greci. Mentre, come osserva Marx, la posizione delle dee nella mitologia ci presenta un periodo anteriore, nel quale le donne avevano ancora una posizione più libera e più stimata, noi troviamo ai tempi eroici la donna già degradata dal predominio dell'uomo e dalla concorrenza delle schiave. Si legge nell'Odissea come Telemaco rimprovera sua madre e la costringe a tacere. In Omero, le giovani conquistate sono abbandonate alla sensualità dei vincitori; i capi, a turno e a norma del grado, si scelgono le più belle; tutta l'Iliade, com'è noto, si aggira sulla contesa tra [79] Achille ed Agamennone per una di tali schiave. Per ogni eroe omerico di qualche importanza è menzionata la fanciulla prigioniera di guerra, con la quale egli divide la tenda ed il letto. Queste fanciulle sono anche condotte in patria e nella casa conjugale, come Cassandra da Agamennone in Eschilo; i figli procreati con siffatte schiave ricevono una piccola parte dell'eredità paterna e sono considerati come uomini liberi; così Teucro è un figlio di Telamone nato fuori di matrimonio, eppure può portare il nome del padre. Dalla sposa si esige che tolleri tutto questo, e serbi la più rigorosa castità e fedeltà coniugale. La donna greca dei tempi eroici è, ben vero, più stimata di quella del periodo incivilito, ma essa non è altro, alla fine, per l'uomo che la madre dei suoi figli ed eredi legittimi, la governante della sua casa e la direttrice delle schiave, che egli può fare, e fa, a piacere, sue concubine. È l'esistenza della schiavitù allato alla monogamia, è la presenza di schiave giovani e belle che appartengono corpo ed anima all'uomo, ciò che sin dall'origine imprime alla monogamia il suo carattere specifico: essa è monogamia soltanto per la donna, non già per l'uomo. Questo carattere lo serba anche oggi.

Pei Greci del periodo posteriore, giova distinguere tra Dori ed Jonî. I primi, il cui esempio classico è Sparta, conservano, per molti riguardi, rapporti conjugali ancora più antichi di quelli che ci mostra lo stesso Omero. A Sparta vige un connubio sindiasmico, modificato secondo i concetti locali dello Stato, che offre ancora molte reminiscenze del connubio per gruppi. I connubii senza [80] prole vengono sciolti; il re Anassandrida (verso il 650 avanti la nostra èra) alla sua moglie sterile ne aggiunse una seconda e aveva così due famiglie[16]; nella stessa epoca il re Aristone, avendo due mogli sterili, ne ripudiò una e gliene sostituì una terza. D'altra parte, più fratelli potevano avere una moglie comune; l'amico, cui piacesse la moglie dell'amico, poteva dividerla con questo; ed era ritenuto decente porre la moglie a disposizione di un «vigoroso stallone», come direbbe Bismarck, anche se questo non fosse cittadino. Da un passo di Plutarco, secondo il quale una Spartana indirizza a suo marito l'amante che la incalzava con profferte di amore, pare — secondo Schömann — che vi fosse una anche più larga libertà di costume. Non esisteva quindi vero adulterio, o infedeltà della moglie alle spalle del marito. D'altra parte, la schiavitù domestica era sconosciuta a Sparta almeno nel tempo migliore, i servi iloti abitavano separati sui fondi de' padroni, era quindi minore per gli Spartani la tentazione di contaminarne le donne. Per tutte queste ragioni le donne a Sparta non potevano non avere una posizione molto più stimata che nel resto della Grecia. Le donne spartane e la parte eletta delle Etére ateniesi sono le sole donne greche di cui gli antichi parlino con rispetto, e i cui pensieri essi stimassero degni di venir rilevati.

Ben altrimenti fra gli Jonî, la cui città caratteristica è Atene. Ivi le fanciulle non imparavano che a filare, tessere, cucire, tutt'al più qualche poco a [81] leggere e a scrivere. Vivevano come recluse e non praticavano se non con altre donne. La camera delle donne era segregata nel piano superiore o sul di dietro della casa, dove gli uomini, massime se stranieri, difficilmente penetravano e dove esse si ritiravano se capitavano visite maschili. Le donne non uscivano che accompagnate da una schiava; in casa erano strettamente vigilate; Aristofane parla di molossi, educati a spaventare gli adulteri, e, almeno nelle città asiatiche, alla sorveglianza delle donne si impiegavano gli eunuchi, che già al tempo di Erodoto fabbricavansi in Chio per farne commercio, e, secondo Wachsmuth, non servivano ai soli barbari. In Euripide, la donna è qualificata come oikurema, ossia come cosa destinata alla cura della casa (la parola è neutra), e per l'Ateniese essa non era che una macchina per la procreazione e la principale domestica. L'uomo aveva gli esercizi ginnastici e gli affari pubblici, dai quali era esclusa la donna; aveva spesso, inoltre, schiave a sua disposizione, e, nel fiore di Atene, una prostituzione diffusa e che lo Stato, a dire il vero, favoriva. Fu appunto sulla base di questa prostituzione che si svilupparono certi speciali caratteri di donne greche, che per lo spirito e pel gusto artistico si elevavano tanto sul livello comune delle donne antiche, quanto le Spartane pel carattere. Ma che per divenire donne bisognasse prima essere Etére, è questa la più severa condanna della famiglia ateniese.

Questa famiglia ateniese fu, nel corso del tempo, il tipo sul quale sempre più modellarono i loro rapporti domestici non solo gli altri Jonî, ma tutti i Greci dell'interno e delle colonie. Ma, ad onta [82] dell'isolamento e della sorveglianza, le Greche trovavano abbastanza spesso l'occasione d'ingannare i loro mariti. Questi, che si sarebbero vergognati di manifestare amore per le loro mogli, si divertivano amoreggiando colle Etére; ma la degradazione delle donne si vendicò sugli uomini e degradò anch'essi, finchè caddero nel pervertimento degli amori coi fanciulli, e degradarono i loro dei, come sè stessi, col mito di Ganimede.

Tale fu l'origine della monogamia, per quanto, ci è dato rintracciarla nel popolo più incivilito e più altamente evoluto dell'antichità. Essa non fu affatto un frutto dell'amore sessuale individuale, con cui non aveva assolutamente nulla di comune, poichè, dopo come prima, i connubii restarono connubii di convenienza. Essa fu la prima forma di famiglia, non basata su rapporti naturali, ma economici, cioè sulla vittoria della proprietà privata sopra la originaria proprietà comune naturale. Dominio dell'uomo nella famiglia, e procreazione di figli, che non potessero essere che suoi e destinati ad ereditare la sua ricchezza — questi e non altri furono gli scopi del connubio individuale[17], francamente espressi dai Greci. Del resto esso era per loro un peso, un dovere verso gli dei, verso lo Stato e verso i proprii antecessori; un dovere da adempiere e nulla più. In Atene la legge imponeva all'uomo non solo il matrimonio, ma l'adempimento di un minimo dei cosiddetti doveri coniugali.

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Il connubio individuale non appare quindi affatto nella storia come una riconciliazione fra l'uomo e la donna, e, meno ancora, come la forma di connubio più alta.

Al contrario. Esso si presenta come l'assoggettamento di un sesso all'altro, come la proclamazione di un conflitto dei sessi, sino allora sconosciuto in tutta la storia primitiva. In un vecchio manoscritto inedito, elaborato da Marx e da me nel 1846, trovo: «La prima divisione del lavoro è quella tra l'uomo e la donna per la procreazione.» Oggi posso aggiungere: Il primo antagonismo di classe, che si presenta nella storia, coincide collo sviluppo dell'antagonismo fra l'uomo e la donna nel connubio individuale, e la prima oppressione di classe con quella del sesso maschile sul femminile. Il connubio individuale fu un grande progresso storico, ma al tempo stesso esso aprì, accanto alla schiavitù e alla ricchezza privata, quell'èra, non ancor chiusa, nella quale ogni progresso è insieme un relativo regresso; nella quale il bene e lo sviluppo degli uni si compie col male e colla oppressione degli altri. Esso è la forma cellulare della società incivilita, la forma nella quale già possiamo studiare la natura degli antagonismi e delle contraddizioni che in questa società completamente si svolgono.

L'antica libertà relativa dei rapporti sessuali non cessò affatto colla vittoria della famiglia sindiasmica, e neppure con quella del connubio individuale. «L'antico sistema coniugale, ridotto a più stretti limiti dalla graduale estinzione dei gruppi punalua, circondò tuttavia la progrediente famiglia e vi lasciò [84] la sua impronta sino all'albeggiare dell'epoca civile.... Esso sparì definitivamente nella nuova forma dell'eterismo, che incalza gli uomini anche in piena civiltà come un'ombra fosca projettata sulla famiglia.» Morgan intende per eterismo il rapporto sessuale extraconiugale di uomini con donne non maritate, esistente allato al connubio individuale; rapporto sessuale che, com'è noto, fiorisce nelle forme più diverse durante tutto il periodo della Civiltà e si muta sempre più in aperta prostituzione. Questo eterismo scaturisce direttamente dal connubio per gruppi, dalle unioni promiscue con le quali le donne acquistavano il diritto alla castità. Il darsi per danaro fu dapprima un atto religioso che compievasi nel tempio della dea dell'amore, e in origine il danaro devolvevasi al tesoro del tempio. Le Ierodule di Anaiti in Armenia, di Afrodite in Corinto, come le danzatrici religiose dei tempii dell'India, le cosiddette Baiadere (la parola è una corruzione dal portoghese bailadeira = ballerina), furono le prime prostitute. Il far copia di sè, in origine dovere di ogni donna, più tardi fu ufficio esclusivo di queste sacerdotesse in rappresentanza di tutte le donne. Presso altri popoli l'eterismo deriva dalla libertà sessuale concessa alle ragazze avanti il matrimonio, avanzo quindi anch'esso del connubio per gruppi, ma trasmessoci per altra via. Col sorgere della disparità delle fortune, cioè nello stadio superiore delle Barbarie, il lavoro salariato nasce sporadicamente accanto al lavoro dello schiavo, e contemporaneamente, come suo correlativo necessario, la prostituzione professionale delle donne libere accanto a quella forzata [85] delle schiave. Così il retaggio lasciato dal connubio per gruppi all'epoca civile è a doppia faccia; come è a doppia faccia, ipocrita, incoerente e contraddittorio tutto ciò che la civiltà produce; qui la monogamia, là l'eterismo fino alla sua ultima forma, la prostituzione. L'eterismo è una istituzione sociale come qualsiasi altra; esso conserva l'antica libertà sessuale a favore degli uomini. Non soltanto tollerato in pratica, ma praticato palesemente, sopratutto dalle classi dominanti, esso è condannato a parole. Ma in realtà questa condanna non colpisce punto gli uomini, che vi partecipano, ma soltanto le donne: queste sono anatomizzate e reiette, proclamandosi così ancora una volta l'incondizionata signoria degli uomini sul sesso femminile come legge fondamentale della società.

Ma con ciò si sviluppa una nuova antitesi nella stessa monogamia. Da un lato il marito che infiora la sua esistenza coll'eterismo; dall'altro la moglie lasciata in un canto. E non si può avere un lato dell'antagonismo senza l'altro, come non si può avere in mano una mela intera quando se n'è mangiata la metà. Sembrò essere tuttavia questa l'opinione dei mariti finchè le loro mogli non li disingannarono. Col connubio individuale nascono due costanti e caratteristiche figure sociali che il passato non conosce: l'amante fisso della moglie e il marito cornuto. Gli uomini avevano ottenuta la vittoria sulle donne, ma la magnanimità delle vinte s'incaricò della incoronazione. Allato al connubio individuale e all'eterismo, l'adulterio divenne una istituzione sociale inevitabile — vietato, duramente [86] punito, ma indistruttibile. La paternità certa del fanciullo si fondò tutt'al più, dopo come prima, sulla convinzione morale, e, per risolvere la insolubile contraddizione, il Codice Napoleone decretava all'art. 312: L'enfant conçu pendant le mariage a pour père le mari; il figlio concepito durante il matrimonio ha per padre.... il marito. È questo l'ultimo risultato di tremila anni di connubio individuale.

Così noi abbiamo nella famiglia individuale — nei casi che rimangono fedeli alla sua origine storica e mettono in chiara luce l'antagonismo tra l'uomo e la donna, espresso nell'esclusivo dominio dell'uomo — un quadro in piccolo degli stessi antagonismi e contraddizioni, fra i quali la società, divisa in classi, si muove fin dagli inizii dell'epoca civile senza poterli risolvere e superare. Io parlo qui naturalmente solo di quei casi del connubio individuale, nei quali la vita conjugale si svolge giusta il carattere originario di tutta l'istituzione, ma nei quali la donna si ribella contro il dominio dell'uomo. Che non tutti i matrimonii trascorrano così, niuno lo sa meglio del filisteo tedesco, il quale nella casa non sa mantenersi meglio il suo dominio che nello Stato, e la cui moglie quindi porta di pien diritto quei pantaloni, dei quali egli non è degno. Con tutto ciò egli si reputa superiore al suo compagno di sventura francese, al quale, più sovente che a lui, accade anche di peggio.

Per altro la famiglia individuale non si presenta dapertutto e in ogni tempo nella forma classicamente dura che essa ebbe presso i Greci. Fra i Romani, che, quali futuri conquistatori del mondo, [87] avevano vedute più ampie, se anche meno perspicaci, la donna era più libera e più stimata. Il Romano credeva la fedeltà coniugale senz'altro guarentita col potere di vita e di morte che aveva sulla moglie. Ivi la donna avea facoltà, come l'uomo, di sciogliere il connubio. Ma il più grande progresso nello sviluppo del connubio individuale avvenne certamente coll'entrata dei Germani nella storia; senza dubbio perchè fra di essi, per effetto della loro povertà, non sembra che la monogamia si fosse ancora completamente disinvolta dal connubio sindiasmico. Lo desumiamo da tre circostanze menzionate da Tacito: In primo luogo, accanto a un religioso rispetto del nodo coniugale — «essi si appagano di una moglie, le donne vivono in una stretta castità» — vigeva tuttavia la poligamia per le persone elevate e pei capi delle tribù, condizione analoga a quella degli Americani, fra i quali dominava la famiglia sindiasmica. In secondo luogo, il passaggio dal diritto materno al paterno doveva essere recente, poichè il fratello della madre — il più prossimo parente gentile maschio, giusta il diritto materno — era ancora considerato un parente quasi più prossimo dello stesso genitore; il che corrisponde anche al punto di vista degl'Indiani americani, fra i quali Marx, com'ei diceva sovente, trovò la chiave per l'intelligenza della nostra storia primitiva. E, in terzo luogo, le donne erano, presso i Germani, altamente stimate e molto influenti anche nei pubblici affari, ciò che sta in diretto contrasto col predominio monogamico degli uomini. Cose, quasi tutte, nelle quali i Germani concordano con gli [88] Spartani, i quali, come vedemmo, non avevano ancor del tutto superato il connubio sindiasmico. Coi Germani quindi, anche per questo rapporto, un elemento affatto nuovo sorgeva a dominare sul mondo. La nuova monogamia, che si sviluppava allora dalla miscela dei popoli sugli avanzi del mondo romano, rivestì il dominio maschile di forme più miti e lasciò alle donne, almeno esteriormente, una posizione molto più stimata e più libera di quella che abbia mai conosciuta la classica antichità. Con ciò solo nacque la possibilità che dalla monogamia — in essa, allato ad essa e contro di essa, secondo i casi — si svolgesse il più grande progresso morale che noi le dobbiamo: l'amore sessuale individuale moderno, ignoto a tutto il mondo passato.

Ma questo progresso si deve certamente al fatto che fra i Germani regnava ancora la famiglia sindiasmica, e la condizione della donna, corrispondente a questa forma di famiglia, fu, in quanto possibile, innestata nella monogamia; non si deve già alla leggenda di un maraviglioso candore morale, naturale ai Germani; la realtà è che il connubio sindiasmico non si aggira fra gli stridenti antagonismi morali dalla monogamia. I Germani, anzi, nelle loro migrazioni, particolarmente verso il Sud-est, tra i nomadi delle steppe del Mar Nero, si erano molto depravati, e, oltre l'abilità nell'equitazione, ne avevano anche appreso dei brutti vizii contro natura, come attestano esplicitamente Ammiano, dei Thaifali, e Procopio, degli Eruli.

Ma se la monogamia, di tutte le forme di famiglia conosciute, fu quella, sotto la quale soltanto [89] potè svilupparsi il moderno amore sessuale, ciò non significa che questo vi si sia sviluppato esclusivamente, o anche solo prevalentemente, come amore reciproco dei coniugi. Ciò, anzi, era escluso dalla natura stessa del connubio individuale stabile sotto il dominio dell'uomo. In tutte le classi storicamente attive, cioè in tutte le classi dominanti, la conclusione delle nozze restò ciò che era stata dal connubio sindiasmico in poi, un affare di convenienza, regolato fra i genitori. E la prima forma storica dell'amore sessuale come passione, come passione attinente ad ogni uomo (almeno delle classi dominanti) e come la più elevata forma dell'istinto sessuale — ciò che ne costituisce appunto il carattere specifico — codesta sua prima forma, l'amore cavalleresco del medio-evo, fu tutt'altro che un amore coniugale. Al contrario. Nel suo aspetto classico, presso i Provenzali, essa naviga a vele spiegate verso l'adulterio, e i loro poeti lo cantano. Il fiore delle poesie amorose provenzali sono le albas, in tedesco Tagelieder (canzoni del mattino). Esse descrivono, con vivi colori, come il cavaliere giace colla sua bella — moglie di altrui — mentre fuori sta la scolta, che lo chiama, appena sorge l'alba, perchè possa spulezzare inosservato; la scena della separazione ne forma il punto culminante. I francesi del Nord ed anche i nostri bravi tedeschi adottarono questa specie di poesia con relativo amore cavalleresco, e il nostro vecchio Wolfram von Eschenbach ha lasciato sul piccante argomento tre meravigliosi Tagelieder, ch'io preferisco di gran lunga alle sue tre lunghe epopee.

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Il contratto nuziale borghese, ai nostri giorni, è di due sorta. Nei paesi cattolici, un tempo come ora, i genitori procurano al giovane borghese la sposa che gli conviene, e la conseguenza naturale ne è il più completo sviluppo della contraddizione insita nella monogamia: florido eterismo da parte dell'uomo, rigoglioso adulterio da parte della donna. La chiesa cattolica abolì il divorzio, probabilmente perchè si è convinta che contro l'adulterio, come contro la morte, non cresce erba negli orti. Nei paesi protestanti è regola invece di concedere al figlio del borghese di eleggersi, con più o meno libertà, una donna della propria classe, onde un certo grado di amore può trovarsi alla base del matrimonio, e, per ragion di decoro, vi è sempre presupposto, ciò che è del tutto consono all'ipocrisia protestante. Qui l'eterismo dell'uomo è meno spiccato e l'adulterio della donna è meno la regola. Ma poichè, in ogni forma di connubio, gli uomini rimangono ciò che erano prima delle nozze, e poichè i borghesi dei paesi protestanti sono per lo più filistei, questa monogamia protestante, nella media dei migliori casi, non conduce che alla comunanza conjugale di una plumbea noia, che si qualifica col nome di felicità domestica. Il migliore specchio di questi due metodi di matrimonio è il romanzo, per la maniera cattolica, il francese, per la protestante, il tedesco. In entrambi l'eroe del romanzo conquista qualche cosa: nel tedesco, il giovane, la ragazza; nel francese, il marito, le corna. Non è ancora risoluto quale dei due stia peggio. Perciò al borghese la noia del romanzo tedesco desta lo stesso orrore che la immoralità [91] del romanzo francese al filisteo tedesco; sebbene da poco in quà, dacchè «Berlino divenne città mondiale», il romanzo tedesco si faccia alquanto meno timido nel riprodurre l'eterismo e l'adulterio, da lungo tempo ivi ben noti.

Ma in ambo i casi il matrimonio è subordinato alla classe degli interessati e, per tal riguardo, è quindi sempre un matrimonio di convenienza. In ambo i casi tale matrimonio si converte bene spesso nella più abbietta prostituzione, talvolta delle due parti, più spesso della moglie soltanto, la quale non si distingue dalla cortigiana ordinaria se non in quanto essa non dà a nolo il suo corpo volta per volta come una salariata, ma lo vende una volta per sempre come avviene alle schiave. E per tutti i matrimoni di convenienza vale il motto di Fourier: «Come nella grammatica due negazioni fanno un'affermazione, così nella morale conjugale due prostituzioni formano una virtù.» È solo tra le classi oppresse, cioè oggidì nel proletariato, che l'amore sessuale, nelle relazioni colla donna, può diventare e diventa la regola vera — sia esso o no consacrato ufficialmente. Ma nel proletariato tutte le basi della monogamia classica vengono meno. Esso non ha proprietà, per conservare e trasmettere la quale vennero appunto creati la monogamia e il dominio dell'uomo, e non v'è quindi stimolo alcuno a far valere questo dominio. Di più ne mancano i mezzi; il diritto borghese, che difende quel dominio, non esiste che pei possidenti e per le loro relazioni coi proletarii; esso costa danaro e quindi, stante la loro povertà, non ha influenza nelle relazioni del lavoratore con sua moglie. Qui ciò che decide [92] sono rapporti sociali e personali affatto diversi. Dacchè, inoltre, la grande industria getta la donna dalla casa nel mercato del lavoro e nella fabbrica, e spesso ne fa il sostegno della famiglia, ecco mancato il terreno agli ultimi avanzi del dominio maschile nella casa proletaria — salvo forse ancora qualche tratto di quella brutalità verso la donna, che prese piede appunto col sorgere della monogamia. Così la famiglia del proletario non è più monogamica nello stretto senso, siavi pure l'amore il più appassionato e la più inviolata fedeltà dei conjugi, e malgrado qualsiasi benedizione spirituale o temporale. Onde anche gli eterni compagni della monogamia, l'eterismo e l'adulterio, non sostengono qui che una parte quasi impercettibile; la donna riacquistò effettivamente il diritto al divorzio, e, se i coniugi diventano incompatibili, si separano liberamente. Insomma, il matrimonio proletario è monogamico nel senso etimologico della parola, ma non lo è assolutamente nel senso storico.

I nostri giuristi stimano, senza dubbio, che il progresso della legislazione toglie sempre più alle donne ogni motivo a doglianze, poichè i moderni sistemi legislativi dei paesi civili sempre più riconoscono, in primo luogo, che il matrimonio, perchè sia valido, dev'essere un contratto accettato spontaneamente dalle due parti; e, in secondo luogo, che anche durante il matrimonio i coniugi hanno eguali diritti ed eguali doveri. Supposta la logica applicazione di questi due principii, le nostre donne avrebbero tutto ciò che possono desiderare.

Quest'argomentazione, tutta giuridica, è esattamente quella stessa con la quale i repubblicani [93] borghesi tappano la bocca ai proletarii. Il contratto di lavoro dev'essere accettato spontaneamente da entrambe le parti. Ma esso si ritiene «spontaneamente accettato» non appena la legge ha dichiarate eguali le due parti sulla carta. Il potere che la diversità di classe sociale conferisce ad una parte, la pressione che esso esercita sull'altra — la effettiva condizione economica di entrambe — ciò non riguarda la legge. Nel contratto di lavoro le parti devono avere eguali diritti, se l'una o l'altra non vi abbia espressamente rinunziato; ma la legge non può nulla contro il fatto che la condizione economica costringe l'operaio a rinunziare anche all'ultima parvenza di cotesta eguaglianza.

Per il matrimonio, la legge, anche la più progredita, è pienamente soddisfatta, quando gl'interessati hanno espressa formalmente a verbale la loro spontaneità; quanto a ciò che avviene dietro lo scenario giuridico, là dove si svolge la vita reale, e come cotesto spontaneo consenso si ottenga, di tutto ciò nè il giurista, nè la legge possono curarsi. Eppure una semplice osservazione di diritto comparato mostrerebbe al giurista il valore di cotesta spontaneità. Nei paesi, dove ai figli è legalmente assicurata una parte della fortuna paterna, dove cioè non li si può diseredare — in Germania, nei paesi di diritto francese, ecc. — si esige, per contrarre matrimonio, il consenso dei genitori. Nei paesi di diritto inglese, dove il consenso dei genitori non è legalmente necessario, i genitori hanno piena libertà di disporre della loro fortuna, e possono a piacere diseredare i loro figli. Ciò malgrado, o meglio appunto per ciò, in Inghilterra ed in [94] America, la libertà di contrarre matrimonio, nelle classi nelle quali c'è qualcosa da ereditare, non è di un pelo più grande (ciò è ben chiaro) che in Francia ed in Germania.

Così è pure dell'eguaglianza giuridica del marito e della moglie nel matrimonio. La loro ineguaglianza giuridica, trasmessaci dalle passate istituzioni sociali, non è la causa, ma l'effetto della soggezione economica della donna. Nell'antica economia domestica comunistica, che abbracciava più coppie di coniugi coi loro figli, l'amministrazione domestica, lasciata alle donne, era un'industria altrettanto pubblica e socialmente necessaria, quanto il procacciare gli alimenti, che era di spettanza degli uomini. Con la famiglia patriarcale, e ancora più con la famiglia monogamica isolata, le cose cangiarono. La direzione delle faccende domestiche perdette il suo carattere pubblico. Essa non riguardò più la società; si mutò in un servizio privato; e la donna diventò la prima servente, esclusa dal partecipare alla produzione sociale. Solo la grande industria moderna riaperse alla donna — e soltanto alla donna proletaria — l'adito alla produzione sociale, ma in tal guisa che, quando essa adempie ai suoi doveri nel servizio privato della famiglia, rimane esclusa dalla produzione pubblica e non può guadagnar nulla, mentre poi, se vuol partecipare all'industria pubblica e procacciarsi un guadagno autonomo, non è più in grado di adempiere ai suoi doveri di famiglia. E come nella fabbrica, così avviene alla donna in qualsiasi ramo di attività; anche nella medicina, o nell'avvocatura. La moderna famiglia individuale è fondata sulla [95] palese o velata schiavitù domestica della donna, e la moderna società è una massa le cui molecole sono le famiglie isolate. Oggi, nella grande maggioranza dei casi, è l'uomo che alimenta la famiglia, almeno nelle classi possidenti, e ciò gli conferisce una posizione di dominatore che non ha bisogno di altro privilegio giuridico. Nella famiglia egli è il borghese; la donna il proletario. Ma nel mondo industriale il carattere specifico della oppressione economica che pesa sul proletariato non spicca in tutto il suo rilievo, se non dopo eliminati tutti i privilegi legali della classe capitalistica e raggiunta l'eguaglianza giuridica delle due classi; la repubblica democratica non elimina l'antagonismo di queste, essa offre anzi ad esse il terreno pel combattimento decisivo. Parimente il carattere specifico del dominio dell'uomo sulla donna nella famiglia moderna, la necessità della loro vera eguaglianza sociale e la via di pervenirvi, non appariranno in piena luce se non quando essi saranno pienamente eguali in diritto. Allora si parrà che la emancipazione della donna ha per condizione prima il ritorno di tutto il sesso femminile alla industria pubblica, e che ciò richiede a sua volta che la proprietà della famiglia isolata cessi di essere l'unità economica della società.


Noi abbiamo quindi tre forme principali di connubio, che corrispondono, all'ingrosso, ai tre principali stadii dell'evoluzione umana. Allo stato selvaggio il connubio per gruppi; alla Barbarie il connubio sindiasmico; all'epoca civile la monogamia, che ha per complementi l'adulterio e la [96] prostituzione. Tra il connubio sindiasmico e la monogamia s'insinuano, nel periodo superiore della barbarie, il dominio degli uomini sulle schiave e la poligamia.

Come lo dimostra quanto abbiamo esposto, il progresso che si rivela in questa serie è connesso al fatto singolare, che la libertà sessuale del connubio per gruppi è sempre più sottratta alle donne, ma non agli uomini, pei quali in realtà il connubio per gruppi perdura. Ciò che per la donna è un delitto e si trae dietro gravi conseguenze legali e sociali, passa come onorevole per l'uomo, o, nel peggior caso, come una lieve macula morale, che si porta con soddisfazione. Ma quanto più l'eterismo tradizionale è modificato, ai tempi nostri, dalla produzione capitalistica e ad essa si adatta, quanto più esso si trasforma in aperta prostituzione, tanto più esso diventa demoralizzante, e demoralizza gli uomini assai più delle donne. Delle donne la prostituzione degrada — e ancora non nel senso che comunemente si crede — soltanto le infelici che ne sono vittime; essa degrada invece il carattere di tutto quanto il sesso maschile. Così specialmente un fidanzamento prolungato è, in nove casi su dieci, una vera scuola preparatoria d'infedeltà coniugale.

Noi moviamo ora a una trasformazione sociale, che demolirà le basi economiche della monogamia, altrettanto certamente quanto quelle del suo complemento: la prostituzione. La monogamia nacque dal concentrarsi di grandi ricchezze in una stessa mano, cioè in quella di un uomo, e dal bisogno di trasmettere queste ricchezze ai figli di quest'uomo, ad [97] esclusione di ogni altro. Perciò era necessaria la monogamia non dell'uomo, ma della donna, ed essa non impedì punto l'aperta o dissimulata poligamia dell'uomo. Ma la futura rivoluzione sociale, col trasformare almeno la massima parte della ricchezza stabile ereditaria — i mezzi di produzione — in proprietà sociale, ridurrà al minimo tutta questa smania per le eredità. Ora, poichè la monogamia è nata da cause economiche, sparirà essa collo sparire di queste?

Non senza ragione si potrebbe rispondere: non solo essa non sparirà, ma comincerà anzi a veramente esistere per la prima volta; perciocchè, con la trasformazione dei mezzi di produzione in proprietà sociale, cessa il lavoro salariato, cessa il proletariato, e quindi anche la necessità per un certo numero di donne, che si può statisticamente calcolare, di prestarsi ad altri per denaro. La prostituzione è soppressa, e la monogamia, scambio di sparire, diverrà alfine una realtà.... anche per gli uomini.

La condizione degli uomini sarà dunque, in ogni caso, assai modificata; ma anche quella delle donne, di tutte le donne, subirà importanti cangiamenti. Col passaggio dei mezzi di produzione in proprietà comune, la famiglia isolata cessa di essere l'unità economica della società. L'economia domestica privata si trasforma in una industria sociale. La cura e l'educazione dei figli diventa affare pubblico; la società provvede ugualmente per i figli di tutti, legittimi o naturali, e cessa con ciò la preoccupazione delle «conseguenze», che forma oggi il più essenziale motivo sociale — morale ed economico — che [98] impedisce a una fanciulla di darsi francamente all'uomo che ama.

Ma non sarà questa una ragione sufficiente perchè sorga a poco a poco una certa libertà dei rapporti sessuali e con essa un'opinione pubblica meno rigorosa sull'onore verginale e sul pudore della donna? E finalmente, non abbiamo noi veduto che, nel mondo moderno, monogamia e prostituzione sono, è vero, un'antitesi, ma un'antitesi inscindibile, due poli del medesimo stato speciale? Può la prostituzione cessare senza trascinar seco nell'abisso la monogamia?

Qui entra efficacemente in gioco un nuovo fattore, un fattore, che esisteva tutt'al più in germe allorchè la monogamia si venne formando: l'amore sessuale individuale.

Prima del medio-evo non può parlarsi di amore sessuale individuale. Certo, la bellezza personale, la familiarità, l'affinità di tendenze, ecc., dovettero sempre destare in persone di diverso sesso il desiderio di rapporti sessuali, nè, agli uomini come alle donne, potè essere affatto indifferente con quale persona essi entrassero in tanta intimità di relazioni. Ma da ciò al nostro amore sessuale v'è di mezzo un abisso. In tutta l'antichità i connubii sono conchiusi dai genitori per gl'interessati, che vi si acconciano tranquillamente. Quel briciolo di amore coniugale, che l'antichità conobbe, non è già un'inclinazione subiettiva, ma un dovere obiettivo, non la causa, ma il correlativo del matrimonio. L'antichità non ci offre l'amore, nel senso moderno, se non al difuori della società ufficiale. I pastori, di cui Teocrito e Mosco ci cantano le [99] gioie e le pene d'amore, il Dafni e la Cloe di Longo, sono semplici schiavi, che non hanno parte veruna nello Stato, la sfera d'azione del cittadino libero. Ma, al difuori degli schiavi, non troviamo l'amore se non come prodotto di decomposizione del vecchio mondo in isfacelo, e con donne estranee alla società ufficiale, con Etére, ossia con straniere o con affrancate; in Atene alla vigilia del suo tramonto, in Roma al tempo dell'Impero. Se veri amoreggiamenti avvenivano tra cittadini e cittadine libere, eran sempre degli adulterii. E al poeta classico dell'amore nell'antichità, al vecchio Anacreonte, l'amore sessuale nel nostro senso era così indifferente, che neanche gli importava il sesso della persona amata.

Il nostro amore sessuale è essenzialmente diverso dal semplice desiderio sessuale, dall'Eros degli antichi. In primo luogo, esso presuppone il ricambio, e in ciò la donna è eguale all'uomo, mentre essa, nell'antico Eros, non era neppur sempre interrogata. In secondo luogo, l'amore sessuale ha un'intensità e una durata, per le quali il non possedersi reciprocamente e la separazione appaiono ad entrambe le parti come una grande, se non anche come la suprema sventura; per darsi l'uno all'altro, ogni audacia è ben accetta, anche il rischio della vita, ciò che nell'antichità non avveniva, tutt'al più, che in caso d'adulterio. E finalmente, ai rapporti sessuali si applica una nuova norma morale; non si chiede soltanto se siano legittimi o illegittimi, ma ancora se sian generati da scambievole amore. Beninteso, anche questa nuova norma morale, nella pratica feudale o borghese, [100] subisce il destino di tutte le altre: esser trasgredita. Ma non le avviene di peggio. Come tutte le altre è riconosciuta in teoria — sulla carta. E per ora non può pretender di più.

Il medioevo ripiglia l'amore sessuale a quel punto in cui l'ha lasciato l'antichità; all'adulterio. Già descrivemmo l'amore cavalleresco che inventò i Tagelieder: le canzoni del mattino. Da questo amore, che tende a violare il matrimonio, sino a quello che deve fondarlo, c'è un bel tratto che la cavalleria non correrà mai tutto intiero. Se anche dai frivoli Provenzali passiamo ai virtuosi Tedeschi, troviamo nel poema dei Nibelungi che, benchè Krimhilda nel suo segreto sia innamorata di Sigifredo quanto questi di lei, basta che Gunther le accenni di averla giurata a un cavaliero, che neppure le nomina, perchè essa risponda: «Non occorre pregarmi; io sarò sempre ciò che voi comandate; e a quell'uomo, che Voi, Signore, mi darete per marito, mi fidanzerò volontieri.» Neanche le balena che il suo amore possa in alcun modo meritare considerazione. Gunther chiede la mano di Brunechilde, Etzel di Krimhilda, senz'averle mai viste; del pari, nella Gutrun, Sigibante di Irlanda chiede sposa la norvegese Uta, Hetel di Hegelingen chiede Ilda d'Irlanda, e finalmente Sigifredo di Morland, Hartmut di Ormania e Herwing di Zelanda chiedono la mano di Gutrun; e qui solo avviene che questa si decida spontaneamente per l'ultimo. Di regola, la sposa del giovane principe è scelta dai suoi genitori, se viventi, se no da lui stesso ma dietro il parere dei grandi feudatari, che ha sempre un gran peso. Nè può essere altrimenti, dacchè [101] pel cavaliere o pel barone, come per lo stesso principe, le nozze sono un atto politico, un occasione d'ingrandirsi il potere con nuove alleanze; l'interesse della casa, non il capriccio dell'individuo, è ciò che decide. E come mai dunque spetterebbe all'amore di dire l'ultima parola?

Non diverso era il destino dei cittadini stretti in corporazione nelle città medioevali. I privilegi stessi che li proteggevano, quei regolamenti corporativi pieni di clausole, le barriere artificiali che li dividevano legalmente, quà dalle altre corporazioni, là dai compagni della stessa corporazione, altrove dai garzoni e dagli apprendisti, limitavano ancor più la cerchia già abbastanza angusta, entro la quale essi potevano cercarsi una sposa conveniente. E quale fosse fra tutte la più conveniente, decideva inappellabilmente, in cotesto complicato sistema, non già il loro gusto individuale, ma l'interesse della famiglia.

Così le nozze, dalla loro origine sino alla fine del medio evo, rimasero sottratte, nella immensa maggioranza dei casi, alla decisione degl'interessati. Da principio si veniva al mondo già conjugati con un intero gruppo dell'altro sesso. Nelle forme successive del connubio per gruppi, probabilmente il sistema rimase quello, ma i gruppi andarono sempre restringendosi. Nel connubio sindiasmico è regola che le madri negoziino i maritaggi dei figli; anche allora il criterio è la ricerca di vincoli di parentela, che procaccino alla giovane coppia una posizione più forte nella gente e nella tribù. E allorchè, col prevalere della proprietà privata sulla proprietà comune e cogli interessi [102] successorii, trionfarono il diritto paterno e la monogamia, allora per la prima volta le nozze subirono l'imperio assoluto delle preoccupazioni economiche. Cessò la forma del matrimonio per compra, ma la cosa rimase sempre più quella stessa, talchè non la sola donna, ma anche l'uomo ebbe un prezzo — non in ragione delle qualità personali, ma in ragione de' suoi beni. In pratica e sin dalle origini, era cosa affatto inaudita fra le classi dominanti che la simpatia mutua degli interessati potesse essere il motivo prevalente delle nozze: ciò non avveniva che nei romanzi, oppure fra le classi oppresse che non contavano affatto.

Tali le condizioni che trovò la produzione capitalistica, allorchè questa, dall'epoca delle scoperte geografiche, si apparecchiò, col commercio internazionale e con la manifattura, a conquistare il dominio del mondo. Si dovette pensare che questa maniera di connubii le fosse la più conveniente, e realmente lo fu. E tuttavia — oh! imperscrutabile ironia della storia! — era essa medesima che doveva aprirvi la breccia decisiva. Tutto trasformando in merci, essa dissolvette tutti i vecchi rapporti tradizionali, e al costume ereditato, al diritto storico, sostituì la compra e la vendita, il «libero» contratto. È questa la constatazione che, credendo d'aver fatta una grande scoperta, annunciava il giurista inglese H. S. Maine, dicendo che tutto il nostro progresso sulle epoche passate consiste nell'esserci elevati from status to contract, quanto dire da istituzioni ereditarie a uno stato di cose liberamente consentito; ma essa, in quanto è vera, si trovava già nel Manifesto dei comunisti.

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Senonchè, per contrattare, converrebbe poter disporre liberamente di sè, delle proprie azioni e de' proprii beni, e godere uguaglianza di diritto cogli altri contraenti. Creare persone «libere» ed «eguali», fu appunto uno dei cómpiti principali della produzione capitalistica. Benchè da principio ciò avvenisse in modo semicosciente e per giunta sotto un involucro religioso, pure la riforma luterana e calvinista fissò la massima, che l'uomo non è del tutto responsabile dei suoi fatti se non li compie con piena libertà di volere, e che è dovere morale resistere contro qualsiasi coazione ad azioni immorali. Ma come porre ciò d'accordo con la pratica delle nozze invalsa fino allora? Le nozze, nel concetto borghese, erano un contratto, un negozio giuridico, e il più importante di tutti, perchè disponeva, per tutta la vita, del corpo e dello spirito di due esseri umani. Formalmente esse erano libere, esigendosi il consenso degl'interessati; ma si sapeva troppo bene come questo consenso si otteneva, e quali erano i veri contraenti. Or se, ad ogni altro contratto, richiedevasi una reale libertà di decisione, perchè non la si richiedeva per le nozze? Non avevano dunque i due giovani fidanzati il diritto di disporre liberamente di sè, del loro corpo e dei suoi organi? Non era forse venuto di moda l'amore sessuale, grazie alla cavalleria, e, di fronte agli adulteri amori di questa, non era l'amore coniugale la sua vera forma borghese? Ma, se il dovere dei coniugi era di amarsi, non era forse con altrettanta ragione il dovere degli amanti quello di sposarsi fra loro e non con altri? Non era superiore, questo diritto degli amanti, a quello [104] dei genitori, dei parenti e degli altri tradizionali paraninfi e mezzani di nozze? Se il libero esame personale era francamente ammesso come diritto individuale nella Chiesa e nella religione, come poteva esso venir meno innanzi all'intollerabile pretesa della vecchia generazione di disporre del corpo, dell'anima, della fortuna, della felicità e dell'infelicità della generazione più giovane?

Tali questioni ben dovevano venir poste in un tempo che rallentava tutti i vecchi vincoli sociali e scuoteva tutti i concetti tradizionali. Il mondo si era, d'un colpo, decuplicato; non più un quarto di emisfero, ma l'intero globo terraqueo si spiegava davanti agli europei occidentali, che si affrettavano a prendere possesso degli altri sette quarti. E come i vecchi angusti limiti della patria, così cadevano le frontiere millennarie imposte al pensiero dal medio evo. All'occhio esterno come all'occhio interno dell'uomo si apriva un orizzonte infinitamente più vasto. Che importavano il decoro e l'onorevole privilegio corporativo, trasmesso di generazione in generazione, al giovane cui allettavano le ricchezze delle Indie, le miniere d'oro e d'argento del Messico e di Potosi? Fu questo il tempo dei cavalieri erranti della borghesia; ebbe ancor essa il suo romanticismo e i suoi delirii amorosi, ma su piede borghese e con fini essenzialmente borghesi.

Così avvenne che la nascente borghesia, massime dei paesi protestanti, nei quali fu più scossa la tradizione, riconobbe sempre più anche pel matrimonio la libertà del contratto, applicandola come si è detto. Il matrimonio restò matrimonio di classe, [105] ma entro la classe fu concesso agli interessati un certo grado di libertà di scelta. E sulla carta, nelle teorie morali come nelle descrizioni poetiche, nulla fu più inconcusso della tesi, che è immorale ogni matrimonio non fondato sull'amore sessuale reciproco e sull'accordo veramente libero degli sposi. Insomma il matrimonio d'amore fu proclamato un diritto umano, e non solo un droit de l'homme, ma anche, per eccezione, un droit de la femme.

Ma v'era un punto nel quale questo diritto umano distinguevasi da tutti gli altri cosiddetti diritti umani. Mentre questi, in pratica, erano limitati alla classe dominante, alla borghesia, e direttamente o indirettamente sequestravansi al proletariato, qui sogghigna un'altra volta l'ironia della storia. La classe dominante rimane dominata dalle note influenze economiche e solo in casi eccezionali contrae matrimonii veramente liberi, mentre questi nella classe soggetta sono, come vedemmo, la regola.

La completa libertà delle nozze non può quindi, in generale, aver luogo se non quando l'abolizione della produzione capitalistica e dei rapporti di proprietà da essa creati, abbia tolte di mezzo tutte le preoccupazioni economiche che ancor dominano così potentemente la scelta degli sposi. Solo allora rimarrà, unico motivo, la mutua simpatia.

Or, poichè l'amore sessuale è di sua natura, esclusivo — sebbene oggidì questo esclusivismo non si avveri frattanto che nella donna — il connubio fondato sull'amore sessuale è, di sua natura, connubio individuale. Vedemmo quanta ragione aveva Bachofen di considerare il progresso dal connubio [106] per gruppi al connubio individuale come l'opera sopratutto delle donne; solo il passaggio dal connubio sindiasmico alla monogamia è dovuto agli uomini; e, storicamente, esso sopratutto peggiorò la condizione delle donne e agevolò la infedeltà degli uomini. Se ora cesseranno anche le preoccupazioni economiche, per le quali le donne devono tollerare quest'abituale infedeltà degli uomini — la preoccupazione per la propria esistenza e, più ancora, per l'avvenire dei figli — la conseguente eguaglianza della donna spingerà assai più, se dobbiamo affidarci a tutta l'esperienza del passato, gli uomini a diventare realmente monogami, che non le donne a diventare poliandre.

Ma ciò che decisamente sparirà dalla monogamia saranno tutti quei caratteri che le impresse l'origine ch'essa ebbe dai rapporti di proprietà, e cioè, in primo luogo, il predominio dell'uomo, e, in secondo luogo, l'indissolubilità. Il predominio dell'uomo nel matrimonio non è che la conseguenza del suo predominio economico, e cade con questo. L'indissolubilità del matrimonio è in parte effetto della condizione economica onde nacque la monogamia, in parte tradizione del tempo in cui il nesso di questa condizione economica con la monogamia era ancora mal compreso e spinto all'estremo dalla religione. Già oggi essa subì mille strappi. Se è morale soltanto il matrimonio fondato sull'amore, sarà del pari morale soltanto quello in cui l'amore persiste. La durata dell'amore sessuale individuale è molto diversa secondo gli individui, massime negli uomini, e se esso positivamente vien meno, o una nuova passione gli subentra, il divorziare diventa [107] un benefizio per entrambe le parti come per la società. A che prò impantanarsi per questo in un processo di separazione?

Ciò che noi dunque possiamo oggi congetturare sull'ordinamento dei rapporti sessuali, che seguirà al non lontano tramonto della produzione capitalistica, è sopratutto d'indole negativa, e si limita principalmente a ciò che sarà eliminato. Ma e quello che verrà in appresso? Ciò sarà deciso dopochè una nuova generazione sarà cresciuta; una generazione di uomini che mai nella vita non si siano trovati nel caso di acquistare i favori di una donna per danaro o con altri mezzi di coazione sociale; e una generazione di donne che mai non si siano trovate in condizione nè di doversi dare ad un uomo per altri motivi che di un vero amore, nè di doversi ricusare a colui che amano, per timore delle conseguenze economiche. E quando tal gente sarà nata, certo sarà l'ultima delle sue inquietudini quella di sapere che cosa noi almanaccammo ch'essa avesse da fare; essa si creerà da sè la propria condotta e un'opinione pubblica foggiata sopra questa per giudicare la condotta dei singoli. E basti di ciò.

Ritorniamo ora a Morgan, dal quale ci siamo un bel po' dilungati. L'indagine storica delle istituzioni sociali, sviluppatesi durante l'epoca civile, esorbita dal quadro del suo libro. Le sorti, quindi, della monogamia durante questo periodo poco lo preoccupano. Anch'egli, nell'ulteriore sviluppo della famiglia monogamica, vede un progresso, un'approssimazione alla completa eguaglianza di diritto dei sessi; tale scopo non gli sembra [108] raggiunto. Ma, egli dice, «se si riconosce il fatto che la famiglia ha percorso successivamente quattro forme, e trovasi ora in una quinta, nasce il problema se questa forma durerà anche in avvenire. L'unica risposta possibile è questa, che essa deve progredire come progredisce la società, modificarsi a misura che questa si modifica, il tutto come sinora. Essa è la figlia del sistema sociale e deve rifletterne lo stato di civiltà. Poichè la famiglia monogamica si è migliorata dal principio dell'epoca civile, e sopratutto nei tempi moderni, si può almeno presumere che essa sia capace di ulteriore perfezionamento, sino a raggiungere l'eguaglianza dei sessi. Se in un lontano avvenire la famiglia monogamica non dovesse più corrispondere alle esigenze della società, è impossibile predire la natura di quella che verrà in sua vece.»

[109]

III. La Gente Irocchese.

Ed eccoci a un'altra scoperta di Morgan, almeno altrettanto importante quanto la ricostruzione delle antiche forme di famiglia dai sistemi di parentela. La prova che i gruppi consanguinei, designati nelle tribù degli Indiani americani con nomi di animali, sono essenzialmente identici ai genea dei Greci, alle gentes dei Romani; che la forma americana è la originale, la greco-romana è la posteriore, la derivata; che tutta l'organizzazione sociale dei Greci e dei Romani primitivi in genti, fratrie e tribù trova il suo fedele parallelo fra gli Indiani americani; che la gente è una istituzione comune a tutti i barbari sino alla loro entrata nell'epoca civile e anche più tardi (per quanto almeno attestano sinora le nostre fonti) — questa prova chiarì, d'un colpo, le parti le più difficili delle più antiche storie greche e romane, e gettò insieme una luce inattesa sui fondamenti della costituzione sociale dei tempi antichi, anteriori al sorgere dello Stato. Per quanto la cosa sembri semplice, una volta conosciuta, Morgan non [110] l'ha scoperta che recentemente; nel suo lavoro del 1871, egli non aveva ancora penetrato questo segreto, la cui rivelazione rese mogi i cultori inglesi della preistoria, già così baldanzosi.

La parola latina gens, che Morgan impiega in generale per questi gruppi consanguinei, come la parola greca genos, che ha lo stesso significato, deriva dalla radice comune aria gan (in tedesco, dove di regola l'ario g diventa k, kan) che significa generare. Gens, genos, sanscrito dschanas, gotico (giusta la suddetta regola) kunî, vecchio norvegese e anglosassone kyn, inglese kin, alto-tedesco del medio-evo künne, significano egualmente stirpe, origine. Ma gens in latino, genos in greco, si usa specialmente per quel gruppo di consanguineità, che vanta comune origine (nel caso nostro, da un capostipite comune) ed è unito da certe istituzioni sociali e religiose in una comunità particolare, la cui genesi e la cui natura, ciò mal grado, rimasero sinora oscure a tutti i nostri storici.

Già vedemmo, trattando della famiglia punalua, che cosa sia la composizione di una gente nella sua forma originaria. Essa consiste di tutti coloro che, mediante il connubio punalua e i concetti in esso necessariamente dominanti, formano la prole riconosciuta di una determinata progenitrice, fondatrice della gente. Poichè in questa forma di famiglia la paternità è incerta, la discendenza non conta che in linea femminile. Poichè i fratelli non possono sposare le sorelle, ma solo donne di altra stirpe, così i figli procreati con queste cadono, giusta il diritto materno, fuori della gente. Rimangono quindi nella cerchia parentale solo i discendenti [111] delle figlie di ogni generazione; quelli dei figli passano nelle genti delle loro madri. Che diviene ora questo gruppo di consanguinei, tosto che esso si costituisce come gruppo particolare, di fronte a gruppi analoghi di una stessa tribù?

Come forma classica di questa gente primitiva Morgan prende quella degl'Irocchesi, specialmente della tribù Senecca. Questa si divide in otto genti, designate con nomi di animali: 1.º Lupo, 2.º Orso, 3.º Testuggine, 4.º Castoro, 5.º Cervo, 6.º Beccaccia, 7.º Airone, 8.º Falco. In ogni gente regnano i costumi seguenti:

1.º Essa elegge il Sachem (capo in tempo di pace) e il Capitano, o duce in guerra. Il Sachem doveva essere eletto nella gente, e il suo uffizio era in essa ereditario, inquantochè in caso di vacanza doveva venir ricoperto immediatamente; il Capitano poteva anche eleggersi fuori della gente, e talora mancare affatto. Non si eleggeva mai Sachem il figlio del predecessore, poichè, regnando fra gli Irocchesi il diritto materno, il figlio apparteneva a un'altra gente; sì bene, spesso, il fratello, o il figlio della sorella. Nella elezione votavano tutti, uomini e donne. Ma l'elezione doveva essere sanzionata dalle altre sette genti, e solo allora l'eletto veniva solennemente insediato dal Consiglio generale di tutta la federazione irocchese. L'importanza di ciò si vedrà più tardi. Il potere del Sachem nella gente era paterno, di natura meramente morale; egli non aveva mezzi coercitivi. Egli era inoltre, per ragione di carica, membro del Consiglio della tribù dei Senecca, come pure del Consiglio federale della collettività irocchese. [112] Il Capitano non comandava che nelle spedizioni guerresche.

2.º Essa depone a suo talento il Sachem e il Capitano. Anche la deposizione è fatta insieme dagli uomini e dalle donne. I deposti ridiventano persone private, semplici guerrieri come gli altri. Del resto il Consiglio della tribù può altresì deporre i Sachem, anche contro il volere della gente.

3.º I membri della gente non possono conjugarsi fra loro. È questa la regola fondamentale della gente, il vincolo che la tiene unita; essa è l'espressione negativa della ben positiva parentela di sangue, solo in virtù della quale quei dati individui diventano una gente. Colla scoperta di questo semplice fatto, Morgan ha svelato per la prima volta la natura della gente. Quanto poco essa fosse fino allora stata compresa, lo dimostrano le relazioni anteriori sui selvaggi e sui barbari, nelle quali i differenti corpi, onde si compone l'ordine gentile, venivano confusi alla cieca sotto nome di tribù, clan, thum, ecc., e dicevasi talora che dentro di essi era vietato il matrimonio. Di qui la inestricabile confusione, nella quale Mac Lennan, da vero Napoleone, mise ordine con questo decreto: «Tutte le tribù si dividono in quelle fra i cui membri è vietato il matrimonio (esogame) e quelle in cui esso è concesso (endogame).» E dopo aver così bene imbrogliata le cose, potè darsi alle più profonde indagini, per sapere quale delle sue due assurde classi fosse la più vecchia: la esogamica o la endogamica. Colla scoperta della gente fondata sulla parentela di sangue, e sulla conseguente impossibilità di connubii tra i suoi membri, quest'assurdità [113] cadeva da sè. — È sottinteso che, nello stadio in cui troviamo gli Irocchesi, il divieto delle nozze fra i membri della gente è ritenuto inviolabile.

4.º I beni dei defunti spettavano ai compagni gentili; dovevano rimanere nella gente. Stante la tenuità degli oggetti, che poteva lasciare un Irocchese, partecipavano all'eredità i più prossimi parenti gentili; se moriva un uomo, i suoi fratelli e sorelle carnali e lo zio materno; se una donna, i figli e le sorelle carnali, non i fratelli. Analogamente non potevano ereditare il marito e la moglie a vicenda, nè i figli dal padre.

5.º I compagni gentili si dovevano aiuto scambievole, protezione e sopratutto assistenza nel vendicare le offese ricevute da stranieri. L'individuo si affidava per la sua sicurezza alla difesa della gente, e lo poteva; chi l'offendeva, offendeva tutta la gente. Di qui, dai vincoli di sangue della gente, nacque il dovere della vendetta, interamente riconosciuto dagli Irocchesi. Se un estraneo uccideva un compagno gentile, tutta la gente dell'ucciso era obbligata alla vendetta. Tentavasi anzitutto un accomodamento; la gente dell'uccisore teneva consiglio e presentava al Consiglio della gente dell'ucciso proposte di pacificazione, offrendo per lo più espressioni di rammarico e cospicui donativi. Se venivano accettati, tutto era finito. In caso diverso, la gente offesa nominava uno o più vendicatori, obbligati a perseguitare l'uccisore ed ucciderlo. Se ciò avveniva, la gente dell'ucciso non aveva alcun diritto di dolersene; la contesa era pareggiata.

6.º La gente ha determinati nomi o serie di [114] nomi, che essa sola può adoperare in tutta la tribù, sicchè il nome di ciascuno dice tosto a quale gente esso appartenga. Un nome gentile porta in sè stesso diritti gentili.

7.º La gente può adottare stranieri e affiliarli così alla tribù. I prigionieri di guerra, che non venivano uccisi, divenivano, mediante l'adozione in una gente, membri della tribù dei Senecca e ricevevano con ciò tutti i diritti della gente e della tribù. L'adozione avveniva su proposta di compagni gentili, uomini, che accoglievano lo straniero come fratello o sorella, o donne, che lo accoglievano come figlio; il solenne ricevimento nella gente era necessario come sanzione. Spesso una gente eccezionalmente ridotta di numero si rinforzava così coll'adozione in massa di un'altra gente, che vi consentiva. Fra gli Irocchesi il solenne ricevimento nella gente aveva luogo in seduta pubblica del Consiglio della tribù, per lo che esso diveniva effettivamente una cerimonia religiosa.

8.º È difficile constatare solennità religiose speciali nelle genti indiane, ma le cerimonie religiose degli Indiani coincidono più o meno con quelle delle genti. Nelle sei feste religiose annue degli Irocchesi i Sachem e i Capitani delle singole genti, per ragione della carica, erano annoverati tra i «custodi della fede» e avevano funzioni sacerdotali.

9.º La gente ha un cimitero comune. Questo è sparito presso gli Irocchesi dello Stato di Nuova-York, circondati ora dai bianchi, ma un tempo esisteva. Presso altri Indiani esso esiste ancora; così i Tuscarora, prossimi parenti agli Irocchesi, [115] hanno nel camposanto, sebbene cristiani, una fila distinta per ogni gente, sicchè la madre viene seppellita nella stessa fila dei figli, ma non il padre. E anche presso gli Irocchesi, tutta la gente di un defunto va ai funerali, provvede alla sepoltura, ai discorsi funebri, ecc.

10.º La gente ha un Consiglio, assemblea democratica di tutti i gentili adulti, uomini e donne, tutti con eguale diritto di voto. Questo Consiglio eleggeva Sachem e Capitani e li deponeva; del pari gli altri «custodi della fede»; decideva circa la composizione (guidrigildo) o la vendetta pei gentili uccisi; adottava stranieri nella gente. Insomma era, nella gente, il potere sovrano.

Queste sono le attribuzioni di una gente tipica indiana. «Tutti i suoi membri sono liberi, obbligati a difendere l'uno la libertà dell'altro; eguali nei diritti personali — nè Sachem nè Capitani pretendono qualsiasi preferenza; essi formano una fratellanza legata da vincoli di sangue. Libertà, eguaglianza, fratellanza, sebbene non mai formulate, erano i principii fondamentali della gente, e questa era, a sua volta, l'unità di tutto un sistema sociale, la base della società indiana organizzata. Ciò spiega l'inflessibile sentimento d'indipendenza e la dignità personale dell'incesso, che ognuno riconosce negli Indiani.»

Al tempo della scoperta, gli Indiani di tutto il Nord dell'America erano organizzati in genti, secondo il diritto materno. Solo in alcune tribù, come quella dei Dacotas, le genti erano sparite, e in alcune altre, gli Ojibwas, gli Omahas, erano organizzate secondo il diritto paterno.

[116]

In moltissime tribù indiane composte di più di cinque o sei genti, noi troviamo tre, quattro o più genti riunite in un gruppo particolare, che Morgan, fedelmente traducendo il nome indiano, chiama fratrie (fratellanze) giusta il suo corrispondente greco. Così i Senecca hanno due fratrie; la 1.ª abbraccia le genti 1 a 4, la 2ª le genti 5 a 8. Un esame più approfondito mostra che queste fratrie rappresentano per lo più le genti originarie, nelle quali la tribù si divise in principio; poichè, pel divieto delle nozze entro la gente, ogni tribù doveva abbracciare necessariamente almeno due genti, per avere un esistenza autonoma. A misura che cresceva la tribù, ogni gente dividevasi a sua volta in due o più, ognuna delle quali appariva come una gente speciale, mentre la gente originaria, che abbraccia tutte le genti figlie, perdurava come fratria. Nei Senecca e nella maggior parte degli altri Indiani le genti di una fratria sono genti sorelle, mentre quelle delle altre sono cugine — designazioni che, come vediamo nel sistema di parentela americana, hanno un senso molto reale ed espressivo. In origine nessun Senecca poteva coniugarsi neanche nella sua fratria, ma ciò è da lungo tempo caduto e fu limitato alla gente. Era tradizione dei Senecca, che l'Orso e il Cervo fossero le due genti originarie, dalle quali si sarebbero diramate le altre. Codesta nuova istituzione, una volta radicata, veniva modificata secondo il bisogno; se date genti di una fratria si estinguevano, intere genti di altre fratrie entravano in quella, per ricondurre l'equilibrio. Perciò in differenti tribù troviamo genti di egual nome aggruppate diversamente nelle fratrie.

[117]

Le funzioni della fratria fra gli Irocchesi sono in parte sociali, in parte religiose.

1.º Le fratrie fanno tra loro il giuoco della palla; ciascuna mette innanzi i suoi migliori giuocatori, gli altri stanno spettatori; ogni fratria ha un posto speciale, e scommettono l'una contro l'altra sulla vittoria dei loro.

2. Nel Consiglio della tribù i Sachem e i Capitani di ogni fratria siedono insieme, i due gruppi l'uno di fronte all'altro; ogni oratore parla ai rappresentanti di ciascuna fratria come a una corporazione particolare.

3.º Se era avvenuto un omicidio nella tribù e l'uccisore e l'ucciso non appartenevano alla medesima fratria, la gente offesa faceva spesso appello alle sue genti fraterne; queste tenevano un Consiglio di fratria e si rivolgevano all'altra fratria come collettività, affinchè questa riunisse del pari un Consiglio per l'accomodamento della cosa. Qui la fratria ripresentasi quindi come gente originaria, e con maggiore probabilità di successo della gente isolata e più debole, sua figlia.

4.º Morendo una persona ragguardevole, la fratria opposta si assumeva i funerali ed il seppellimento, mentre quella del defunto partecipava al lutto. Se moriva un Sachem, la fratria opposta annunziava la vacanza dell'uffizio al Consiglio federale degli Irocchesi.

5.º Per la elezione di un Sachem interveniva del pari il Consiglio delle fratrie. La sanzione delle genti fraterne si aveva pressochè per sottintesa, ma le genti dell'altra fratria potevano opporsi. In [118] tal caso si riuniva il Consiglio di questa fratria; se sosteneva l'opposizione, l'elezione era nulla.

6.º In passato gli Irocchesi avevano particolari misteri religiosi, chiamati dai bianchi medicine-lodges. Questi erano celebrati fra i Senecca da due Società religiose, aventi regolare diritto di consacrazione pei nuovi membri; a ciascuna delle due fratrie apparteneva una di queste Società.

7.º Se, com'è quasi certo, i quattro linages (lignaggi, schiatte), che abitavano i quattro quartieri del Tlascalà al tempo della conquista, erano quattro fratrie, è con ciò dimostrato che le fratrie, come fra i Greci e come le analoghe associazioni di schiatte fra i Germani, contavano anche come unità militari; questi quattro linages andavano in guerra, ciascuno formando uno speciale drappello, con uniforme e bandiera propria e sotto proprii condottieri.

Come parecchie genti una fratria, così, nella forma classica, parecchie fratrie fanno una tribù; in molti casi, nelle tribù molto indebolite, manca l'anello di congiunzione, la fratria.

Or che cos'è che caratterizza una tribù indiana d'America?

1.º Un territorio proprio e un proprio nome. Ogni tribù, oltre il luogo di sua vera sede, possedeva un esteso territorio per la caccia e per la pesca. Al di là, v'era una vasta zona neutra che si estendeva sino al territorio della tribù più vicina, ed era meno larga fra tribù di linguaggio affine, più larga fra tribù di linguaggio non affine. È questa la «foresta limitrofa» dei Germani, il [119] deserto che creano intorno al loro territorio gli Svevi di Cesare, l'«îsarnholt» (danese jarnved, limes danicus) tra danesi e alemanni, il Sachsenwald (selva sassone) e il branibor (che vale, in slavo, selva protettrice), donde ha nome il Brandeburgo, fra alemanni e slavi. Il territorio, così rinchiuso fra incerti confini, era il dominio comune della tribù, tale riconosciuto dai vicini, e che essa doveva difendere dalle usurpazioni. Per lo più, in pratica, l'incertezza dei confini non nuoceva se non quando la popolazione era molto cresciuta. — I nomi delle tribù sembrano, il più spesso, nati accidentalmente anzichè scelti a disegno; spesso col tempo avveniva che una tribù fosse designata dalle vicine con un nome diverso da quello con cui si chiamava essa stessa; così gli Alemanni ricevettero dai Celti il loro primo nome storico collettivo di Germani.

2.º Un dialetto speciale, proprio soltanto a quella tribù. Infatti, tribù e dialetto non fanno che uno; testè ancora in America, tribù e dialetti nuovi formavansi per scissione; forse se ne formano ancora. Se due tribù indebolite si fondono in una, avviene, in via di eccezione, che nella stessa tribù si parlino due dialetti cognati.

La forza media della tribù americana è sulle 2000 teste; i Cerocchesi però ne contano 26,000, il più gran numero d'indiani negli Stati Uniti che parlino lo stesso dialetto.

3.º Il diritto d'insediare solennemente Sachem e Capitani eletti dalle genti; e

4.º Il diritto di deporli anche contro il volere [120] della loro gente. Sachem e Capitani essendo membri del Consiglio della tribù, si spiegano da sè questi diritti della tribù di fronte ad essi. Dove più tribù federavansi, questi diritti passavano al loro Consiglio federale.

5.º Idee religiose (mitologia) e funzioni del culto comuni. «Gli Indiani erano, alla loro maniera barbara, un popolo religioso». La loro mitologia non fu ancora studiata con metodo critico; essi già si figuravano sotto forme umane l'incarnazione delle loro idee religiose — spiriti d'ogni sorta — ma lo stadio inferiore della Barbarie, in cui si trovavano, non conosce ancora le rappresentazioni simboliche, i cosiddetti idoli. È un culto naturale ed elementare, evolvente al politeismo. Le differenti tribù avevano le loro feste periodiche, con determinate forme di culto, sopratutto la danza e i giuochi; le danze in particolare erano un elemento sostanziale di tutte le solennità religiose; ogni tribù ne aveva di speciali.

6.º Un Consiglio della tribù per gli affari comuni. Esso era composto di tutti i Sachem e Capitani delle singole genti, loro rappresentanti reali perchè sempre deponibili; sedeva pubblicamente circondato dagli altri membri della tribù, che avevano diritto di interquerire e di esporre la propria opinione; il Consiglio deliberava. Ordinariamente ogni presente veniva udito a sua richiesta, e anche le donne potevano esporre le loro idee mediante un oratore di loro scelta. Fra gli Irocchesi la decisione definitiva doveva essere presa all'unanimità, ciò che avveniva anche per talune decisioni delle comunità di marca alemanne. Al Consiglio della [121] tribù spettava sopratutto disciplinare i rapporti colle tribù straniere; esso inviava o riceveva ambasciatori, dichiarava la guerra e conchiudeva la pace. Se scoppiava la guerra, per lo più era fatta da volontarii. Per massima ogni tribù era considerata in istato di guerra con ogni altra, colla quale non avesse conchiuso un esplicito trattato di pace. Guerrieri eminenti organizzavano per lo più tali spedizioni, indicendo una danza di guerra; chi danzava dichiarava con ciò di partecipare alla spedizione. La colonna era subito allestita e posta in movimento. Anche la difesa del territorio di una tribù attaccata era fatta per lo più con l'appello di volontarii. La partenza e il ritorno di siffatte colonne davano sempre occasione a pubbliche festività. L'assenso del Consiglio della tribù a simili spedizioni non era necessario, e non veniva nè chiesto, nè dato. Sono, in fondo, le spedizioni private di guerra delle compagnie militari dei Germani, quali ce le descrive Tacito, colla differenza che, fra i Germani, queste compagnie hanno già assunto un carattere stabile, formano un nucleo fisso, già organizzato in tempo di pace, e intorno al quale, allo scoppiar della guerra, si aggruppano gli altri volontarii. Di rado tali colonne di guerra erano numerose; le più importanti spedizioni degli Indiani, anche a grandi distanze, erano eseguite da tenui forze di combattimento. Se parecchie di siffatte compagnie si riunivano per una grande impresa, ciascuna non ubbidiva che al suo condottiero; l'unità del piano di campagna era, bene o male, assicurata da un Consiglio di questi capi. È insomma, il modo di guerra degli Alemanni nel quarto secolo [122] sull'alto Reno, quale lo vediamo descritto in Ammiano Marcellino.

7.º In alcune tribù troviamo un capo supremo, le cui attribuzioni sono però molto limitate. È uno dei Sachem che, nei casi che richiedono rapida azione, deve prendere misure provvisorie fino a che il Consiglio possa riunirsi e deliberare definitivamente. Non è che un debole germe, per lo più destinato a isterilirsi, di un funzionario munito di potere esecutivo; più spesso, se non sempre, come vedremo, un tale funzionario si svilupperà dal duce supremo di guerra.

La grande maggioranza degli Indiani americani non oltrepassò la riunione in tribù. Poco numerose, separate l'una dall'altra da vaste zone di confine, indebolite da eterne guerre, esse possedevano con pochi uomini un territorio immenso. Qua e là si formavano alleanze fra tribù affini per la necessità del momento e cadevano con essa. Ma in talune contrade, dopo la disgregazione, tribù originariamente affini eransi riunite di nuovo in federazioni permanenti, primo passo alla formazione di nazioni. Negli Stati Uniti, la forma più evoluta di tale federazione la troviamo presso gli Irocchesi. Abbandonate le loro sedi all'ovest del Mississipì, dove probabilmente formavano un ramo della grande famiglia dei Dacota, essi si stabilirono, dopo lunghe migrazioni, nell'odierno Stato di Nuova-York, divisi in cinque tribù: Senecca, Caiuga, Onondoga, Onieda e Mohawks. Vivevano di pesce, di selvaggina e di grossolani ortaggi; abitavano villaggi cinti per lo più da palizzate. Senza aver mai superato le 20 mila anime, avevano parecchie [123] genti comuni in tutte le cinque tribù, parlavano dialetti affini dello stesso idioma e possedevano una sola distesa di territorio, divisa fra le cinque tribù. Questo territorio essendo di recente conquista, l'unione abituale di coteste tribù contro i cacciati era naturale, e sviluppossi, al più tardi in principio del secolo XV, in una formale confederazione che, conscia della sua nuova forza, assunse tosto un carattere aggressivo, e, all'apice del suo potere, verso il 1675, aveva conquistato nei dintorni vaste contrade, esiliando parte degli abitatori, rendendo tributaria l'altra parte. La federazione Irocchese presenta l'organizzazione sociale la più progredita a cui fossero giunti gli Indiani, finchè non ebbero varcato lo stadio inferiore della Barbarie (eccettuati quindi i Messicani, i Neo-Messicani e i Peruviani). Le basi della federazione erano le seguenti:

1.º Confederazione perpetua, sul principio della completa eguaglianza e autonomia in tutti gli affari interni delle cinque tribù consanguinee. Questa consanguineità era il vero fondamento della federazione. Delle cinque tribù, tre chiamavansi tribù-madri, ed erano sorelle tra loro; le altre due si chiamavano tribù-figlie, ed erano del pari tra loro tribù-sorelle. Tre genti — le più antiche — vivevano ancora in tutte le cinque tribù, tre altre in tre sole tribù; i membri di ognuna di queste genti erano fratelli in tutte le cinque tribù. Il linguaggio comune, con differenze solo dialettali, era l'espressione e la prova della origine comune.

2.º L'organo della federazione era un Consiglio federale di cinquanta Sachem, tutti eguali di [124] grado e di considerazione; questo Consiglio decideva definitivamente su tutti gli affari della federazione.

3.º Questi cinquanta Sachem, al sorgere della federazione, erano stati distribuiti fra le tribù e le genti, come incaricati di nuovi uffizii, istituiti espressamente per fini federali. Ad ogni vacanza, essi erano rieletti dalle genti rispettive, che potevano sempre deporli; ma il diritto di insediarli nell'uffizio spettava al Consiglio federale.

4.º Questi Sachem federali erano anche Sachem delle loro rispettive tribù ed avevano seggio e voto nel Consiglio della tribù.

5.º Tutte le deliberazioni del Consiglio federale dovevano essere prese all'unanimità.

6.º La votazione si faceva per tribù, sicchè tutte le tribù, e in ogni tribù tutti i membri del Consiglio federale, dovevano essere di pieno accordo perchè la deliberazione fosse valida.

7.º Ciascuno dei cinque Consigli di tribù poteva convocare il Consiglio federale, ma questo non poteva convocare sè stesso.

8.º Le sedute avevano luogo innanzi al popolo riunito; ogni Irocchese poteva prendervi la parola; il solo Consiglio decideva.

9.º La federazione non aveva presidente, nè capo del potere esecutivo.

10.º Essa aveva invece due supremi Capitani di guerra, con eguali attribuzioni ed eguale potere (i due «Re» degli spartani, i due Consoli di Roma).

Questa fu tutta la costituzione pubblica, sotto la quale gli Irocchesi vissero oltre quattro secoli, [125] e vivono ancora. Io l'ho minutamente descritta sulle traccie di Morgan, poichè essa ci offre l'opportunità di studiare l'organizzazione di una società, nella quale lo Stato non è sorto ancora. Lo Stato presuppone un potere pubblico speciale, distinto dalla collettività dei cittadini; e Maurer, che con giusto istinto riconosce la costituzione della marca tedesca come un'istituzione per sè stessa meramente sociale, essenzialmente diversa dallo Stato, benchè poi debba in gran parte servirgli di base — Maurer indaga perciò in tutti i suoi scritti il sorgere graduale del potere pubblico in seno e accanto alle costituzioni originarie delle marche, dei villaggi, dei castelli e delle città. Noi vediamo negli Indiani del Nord-America, come una tribù, originariamente una, si estenda mano mano sopra un vasto continente; come le tribù, scindendosi, diventino popoli, interi gruppi di tribù; come i linguaggi si modifichino fino a che non solo diventano inintelligibili tra loro, ma svanisce anche quasi ogni traccia dell'unità originaria; come inoltre nelle tribù le singole genti si scindano in parecchie, le antiche genti-madri si conservino sotto forma di fratrie, e nondimeno i nomi di queste antichissime genti rimangano inalterati in tribù molto lontane e da lungo tempo separate — il Lupo e l'Orso sono ancora nomi gentili presso la maggioranza delle tribù indiane. E a tutte queste tribù si applica in generale la suddescritta costituzione — colla sola differenza che molte non si sono spinte sino alla federazione delle tribù parenti fra loro.

Ma vediamo anche, fino a qual segno — posta la gente come unità sociale — tutta la costituzione [126] delle genti, delle fratrie e della tribù, si sviluppi da questa unità con necessità quasi ineluttabile — perchè naturale. Sono tre gruppi di differenti gradazioni di consanguineità, chiuso ciascuno in sè stesso e regolante i suoi proprii affari, ma integrantisi a vicenda. E la cerchia di affari loro spettante abbraccia l'insieme degli affari pubblici dei barbari dello stadio inferiore. Dove quindi troviamo in un popolo la gente come unità sociale, noi potremo cercarvi anche un'organizzazione della tribù, analoga alla qui descritta; e dove esistono fonti sufficienti, come presso i Greci ed i Romani, non solo la troveremo, ma ci convinceremo altresì che, dove le fonti ci lasciano in asso, il paragone della costituzione sociale americana ci aiuta a risolvere i dubbii e gli enigmi i più difficili.

Ed è mirabile in tutta la sua infantilità e semplicità questa costituzione gentile! Senza soldati, gendarmi e poliziotti, senza nobili, re, governatori, prefetti o giudici, senza prigioni, senza processi, tutto fa il suo corso regolare. Ogni disputa o contesa è decisa dalla collettività degli interessati, la gente o la tribù o le singole genti fra loro — solo come estrema risorsa, cui ben di rado si ricorre, sta la minaccia della vendetta, di cui la nostra pena di morte non è che la forma incivilita, che reca in sè tutti i vantaggi e tutti i guai della civiltà. Sebbene vi siano molti più affari comuni che non oggi — l'economia domestica è comune a tutta una serie di famiglie ed è comunistica, il terreno è proprietà comune della tribù, solo gli orti sono temporaneamente assegnati ai particolari — tuttavia non c'è neanche una traccia del nostro [127] vasto e intricato apparato amministrativo. Gl'interessati decidono e, nel più dei casi, il costume secolare ha già tutto regolato. Non vi possono essere nè poveri, nè indigenti — la famiglia[18] comunistica e la gente conoscono i loro doveri verso i vecchi, gl'infermi e gli storpiati in guerra. Tutti uguali e liberi — anche le donne. Non v'ha ancor posto per gli schiavi, nè, di regola, per la soggiogazione di tribù straniere. Allorchè gli Irocchesi, intorno al 1651, ebbero vinti gli Eries e la «nazione neutrale», essi offrirono loro di entrare nella federazione con eguali diritti; solo quando i vinti ricusarono, vennero espulsi dal loro territorio. E quali uomini e quali donne produca una siffatta società, lo dimostra l'ammirazione di tutti i bianchi, che s'imbatterono con Indiani non degenerati, per la dignità personale, la rettitudine, la forza di carattere e il valore di questi barbari.

Del valore ebbimo esempii affatto recenti in Africa. I Cafri Zulù, alcuni anni or sono, come i Nubii, or son pochi mesi — due tribù nelle quali non sono ancora estinte le istituzioni gentili — hanno fatto quanto non saprebbe fare alcuna milizia europea. Non muniti che di lancie e di frecce, senza armi da fuoco, sotto la grandine di palle dei retrocarica della fanteria inglese — riconosciuta la migliore del mondo pel combattimento a file serrate, — si spinsero sino alle sue baionette, e più d'una volta l'hanno scompigliata ed anche respinta, nonostante la colossale ineguaglianza delle armi e benchè ignorino il servizio militare e gli esercizii militari. [128] Ciò che sanno fare e sopportare lo dicono i lamenti degli Inglesi, secondo i quali un Cafro in 24 ore percorre maggior via di un cavallo — il più piccolo muscolo scatta fuori, duro e temprato, come corda di sferza, dice un pittore inglese.

Tali apparivano gli uomini e la società umana prima della separazione in classi. E se paragoniamo la loro condizione con quella della immensa maggioranza degli odierni uomini inciviliti, la distanza è enorme tra il proletario e il piccolo contadino odierni e l'antico libero compagno di una gente.

Questo è un lato della cosa. Ma non dimentichiamo che tale organizzazione era consacrata allo sfacelo. Essa non andava al di là della tribù; la federazione delle tribù denota già il principio del suo tramonto, come si mostrerà, e come già si mostrò nei tentativi di conquista degli Irocchesi. Ciò che era fuori della tribù, era fuori del diritto. Ove non esisteva espresso trattato di pace, era guerra da tribù a tribù, e la guerra era condotta colla crudeltà che distingue gli uomini dagli altri animali e che soltanto posteriormente venne mitigata dall'interesse. La costituzione gentile nel suo fiore, quale la vedemmo in America, presuppone una produzione pochissimo sviluppata, cioè una popolazione assai rada sopra un esteso territorio; quindi una dipendenza quasi completa dell'uomo dalla natura esterna, incompresa, rizzanteglisi di fronte come straniera, dipendenza che si riflette nelle fanciullesche idee religiose. La tribù restava la frontiera per l'uomo, tanto di fronte agli estranei quanto a sè stesso: la tribù, la gente e le loro istituzioni erano sacre ed inviolabili, erano un potere supremo [129] posto dalla natura, al quale l'individuo rimaneva assolutamente sottoposto nel sentire, nel pensare e nell'agire. Quanto le persone di quest'epoca ci appaiono imponenti, altrettanto sono indifferenziate fra loro, e ancora attaccate, come dice Marx, al cordone ombellicale della naturale comunità primitiva. Il potere di questa doveva essere infranto — e lo fu. Ma fu infranto da influenze, che sin dal principio ci appaiono come una degradazione, come una caduta dalla semplice altezza morale dell'antica società gentile. Sono i più volgari interessi — la bassa cupidigia, la brutale sensualità, la sordida avarizia, la egoistica rapina nel possesso comune — che inaugurano la nuova, la incivilita società di classi; sono i mezzi i più ignominiosi — il furto, la violenza, la perfidia, il tradimento — che minano e distruggono l'antica società gentile priva di classi. E la stessa nuova società, durante i duemila e cinquecento anni della sua esistenza, non fu altro mai se non lo sviluppo di una piccola minoranza a spese della grande maggioranza sfruttata ed oppressa — ed ora lo è più che mai.

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IV. La Gente Greca

I Greci, come i Pelasgi ed altri popoli dello stesso stipite, erano già sin dal tempo preistorico ordinati secondo la stessa serie organica degli Americani: gente, fratria, tribù, federazione di tribù. La fratria poteva mancare, come fra i Dorii, la federazione di tribù poteva non essere ancora costituita dapertutto, ma in tutti i casi la gente rimaneva l'unità. Quando i Greci entrano nella storia, essi si trovano alla soglia dell'epoca civile; tra essi e le tribù americane, delle quali fu parlato sopra, intercedono poco meno di due grandi periodi di sviluppo, di cui i Greci del tempo eroico precedono gli Irocchesi. Perciò la gente dei Greci non è più affatto la gente arcaica degli Irocchesi, e l'impronta del connubio per gruppi è già in buona parte sparita. Il diritto materno ha ceduto al diritto paterno; — con ciò la nascente proprietà privata ha fatto la sua prima breccia nella costituzione gentile. Una seconda breccia fu la naturale conseguenza della prima: poichè, col diritto paterno, la fortuna di una ricca ereditiera sarebbe [131] passata colle nozze a suo marito, cioè ad un'altra gente, si sovvertì la base di ogni diritto gentile, e non solo si concesse, ma s'impose, in questo caso, che la fanciulla si maritasse entro la gente, per conservare i beni a quest'ultima.

Secondo la storia greca di Grote, ecco da che cosa era mantenuta la coesione, specialmente nella gente ateniese:

1.º Comuni festività religiose; diritto accordato esclusivamente ai sacerdoti di rendere onori a una determinata divinità, il supposto stipite della gente, che, in tale qualità, era designato con un soprannome speciale;

2.º Cimitero comune (confronta le Eubulidi di Demostene);

3.º Diritto di successione reciproco;

4.º Mutuo dovere d'aiuto, di protezione e d'assistenza in caso di violenze;

5.º Scambievole diritto e dovere di sposarsi entro la gente in certi casi, particolarmente se trattavasi di un'orfana o di un'ereditiera;

6.º Una proprietà comune, almeno in alcuni casi, con un arconte (capo) e un tesoriere proprio.

La fratria univa poi parecchie genti, però meno strettamente; ma anche qui troviamo reciprocanza di analoghi diritti e doveri e specialmente la comunanza di date pratiche religiose e il diritto della persecuzione se un membro della fratria veniva ucciso. L'insieme delle fratrie di una tribù aveva a sua volta sacre festività comuni e periodiche, sotto la presidenza di un phylobasileus (capo di tribù) eletto fra i nobili (eupatridi).

Fin qui Grote. E Marx aggiunge: «Ma attraverso [132] la gente greca fa ancora immediatamente capolino il selvaggio (l'Irocchese per esempio).» Tanto più innegabilmente se approfondiamo l'indagine. Nella gente greca infatti si nota inoltre:

7.º Discendenza secondo il diritto paterno;

8.º Divieto di coniugarsi entro la gente, salvo nel caso di ereditiere. Questa eccezione, diventata precetto, dimostra l'antica regola. Questa risulta del pari dal principio generalmente in vigore, che la donna, coniugandosi, rinunziava ai riti religiosi della sua gente e abbracciava quelli della gente del marito, nella cui fratria veniva anche inscritta. Conforme a ciò e secondo un famoso passo di Dicearco, le nozze fuori della gente erano la regola; e Becker nel suo Charikles ammette recisamente che niuno poteva sposarsi entro la propria gente;

9.º Il diritto dell'adozione nella gente; esso risultava dall'adozione nella famiglia, ma con pubbliche formalità e solo eccezionalmente;

10.º Il diritto di eleggere e di deporre i capi. Sappiamo che la gente aveva il suo arconte, ma in niun luogo è detto che l'uffizio fosse ereditario in date famiglie. Sino alla fine della Barbarie la presunzione è sempre contro la stretta eredità, che è affatto inconciliabile con uno stato di cose in cui ricchi e poveri avevano nella gente diritti perfettamente eguali.

Non solo Grote, ma Niebuhr, Mommsen e, fino ad ora, tutti gli altri storici dell'antichità classica arenarono nella gente. Pur avendone esattamente delineati molti caratteri, essi videro sempre nella gente un gruppo di famiglie, ciò che li impediva di intenderne la natura e l'origine. La famiglia, [133] nella costituzione gentile, non fu mai, nè potè essere, una unità di organizzazione, perchè l'uomo e la donna appartenevano necessariamente a due genti diverse. La gente entrava interamente nella fratria, la fratria nella tribù; la famiglia si ripartiva metà nella gente del marito e metà in quella della moglie. Lo Stato, esso pure, non riconosce, nel diritto pubblico, la famiglia; essa non esisteva che pel diritto privato. E nondimeno tutta la storia scritta sinora parte dall'assurda ipotesi, divenuta intangibile sopratutto nel secolo XVIII, che la famiglia monogamica isolata, la quale precede a mala pena l'epoca civile, sia stata il nucleo intorno a cui, mano mano, si formò il cristallo della società e dello Stato.

«È da osservare inoltre al Signor Grote (soggiunge Marx) che, sebbene i Greci derivassero le loro genti dalla mitologia, quelle genti sono più antiche della mitologia coi suoi dei e semidei, da esse stesse creata.»

Grote è citato a preferenza da Morgan, perchè testimone reputato e non sospetto davvero. Egli narra eziandio, che ogni gente ateniese aveva un nome derivato dal suo supposto stipite; che prima di Solone in ogni caso, e anche dopo Solone in assenza di testamento, i compagni gentili (gennêtes) del defunto ne ereditavano la fortuna; e che, in caso di omicidio, prima i parenti, poi i compagni gentili, e finalmente i membri della fratria (fratores) dell'ucciso, avevano il diritto e il dovere di tradurre l'uccisore innanzi ai giudici: «tutto quello, che ci è trasmesso delle più antiche leggi ateniesi, è fondato sulla divisione in genti e in fratrie.»

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La discendenza delle genti da progenitori comuni fu un vero rompicapo per i «pedanti filistei» (Marx). Pretendendo che naturalmente questi progenitori siano affatto mitici, essi non riescono in alcun modo a spiegarsi l'origine della gente per una semplice giustapposizione di famiglie prive di ogni originaria parentela; or è appunto ciò che dovrebbero ben chiarire, se pur vogliono spiegarsi la esistenza della gente. Suppliscono un profluvio di parole, aggirantisi in un circolo vizioso, senza uscir mai da questa tesi: l'albero genealogico è bensì una favola, ma la gente è una realtà. E finalmente il Grote scriveva (diamo anche le interpolazioni di Marx): — «Dell'albero genealogico ci si parla di rado, poichè esso non era messo in pubblico che in certe speciali solennità. Ma anche le genti meno importanti hanno le loro pratiche religiose comuni (meraviglioso questo, signor Grote!) e stipite e genealogia soprannaturale comune, tal quale come le più rinomate (ciò è ben strano, signor Grote, per delle genti «meno importanti»!); il piano fondamentale e la base ideale (non ideale, signor caro, ma proprio carnale — fleischlich per dirla in tedesco!) erano identici in tutte».

Marx così riassume la risposta di Morgan su questo punto: «Il sistema di consanguinità corrispondente alla gente nella sua forma primitiva — che i Greci avevano posseduta come tutti gli altri mortali — conservava la conoscenza dei gradi di parentela di tutti i membri della gente fra loro. Questo, che era per essi d'importanza capitale, essi rapprendevano per pratica sin dalle fasce. Ciò cadde in oblio colla famiglia monogamica. Il nome gentile [135] creava una genealogia, appetto alla quale, quella della famiglia individuale appariva insignificante. Era quel nome oramai, che doveva conservare il fatto della comune origine di coloro che lo portavano; ma la genealogia della gente risalì così lontano, che i suoi membri non potevano più dimostrare la realtà della loro mutua parentela, eccetto in un limitato numero di casi, in cui fossero più prossimi i predecessori comuni. Il nome stesso era prova di comune origine, e prova decisiva, astrazion fatta dai casi d'adozione. Di fronte a ciò, negare in fatto, come il Grote ed il Niebuhr, qualsiasi parentela tra i compagni gentili, trasformando così la gente in una creazione fantastica e poetica, è degno di scrittori «ideali», cioè estranei alla vita. Poichè l'intreccio delle generazioni, sopratutto dacchè è sorta la monogamia, vien respinto in un lontano passato, e la passata realtà appare riflessa nelle fantasie mitologiche, questi dabben filistei ne conchiusero e ne conchiudono ancora che è la genealogia fantastica quella che creò le genti reali.»

La fratria era, come fra gli Americani, una gente madre divisa in parecchie genti figlie e che le riuniva; spesso anche le faceva tutte derivare da uno stipite comune. Così, secondo Grote, «tutti i membri contemporanei della fratria di Ecateo avevano una medesima deità per progenitore comune al sedicesimo grado»; tutte le genti di questa fratria erano quindi alla lettera genti sorelle. La fratria si presenta in Omero anche come unità militare, nel famoso passo dove Nestore consiglia ad Agamennone: Ordina gli uomini per tribù e per fratrie, acciocchè la fratria assista la fratria, e la [136] tribù la tribù. — Essa ha altresì il diritto e il dovere della punizione dell'omicidio commesso sopra un fratore, ciò che indica che nel passato le spettava il dovere della vendetta. Ha ancora santuarii e feste comuni, essendo l'elaborazione di tutta la mitologia greca, dal primitivo culto ario della natura importato seco loro dall'Asia, essenzialmente l'opera delle genti e delle fratrie.

La fratria aveva inoltre un capo (phratriarchos) e, secondo De Coulanges, anche assemblee e decreti obbligatorii, una giurisdizione ed un'amministrazione. Anche lo Stato, quando sorse, benchè ignorasse la gente, lasciò alla fratria certe funzioni pubbliche.

La riunione di parecchie fratrie affini forma la tribù. Nell'Attica c'erano quattro tribù, ognuna di tre fratrie, ciascuna delle quali numerava trenta genti. Siffatta proporzione di gruppi presuppone un intervento cosciente e metodico nell'ordinamento sorto naturalmente. Come, quando e perchè ciò sia avvenuto, tace la storia greca, della quale gli stessi Greci hanno serbata reminiscenza solo dai tempi eroici.

Le diversità dei dialetti erano meno sviluppate presso i Greci, concentrati sopra un territorio relativamente piccolo, che nelle vaste foreste americane; tuttavia anche là troviamo riunite in più grandi masse soltanto tribù parlanti lo stesso linguaggio principale, e anche, nella piccola Attica, uno speciale dialetto, che divenne poi il dominante, come comune linguaggio di prosa.

Nelle poesie omeriche troviamo le tribù greche per lo più già riunite in piccole nazioni, nelle [137] quali però le genti, le fratrie e le tribù conservavano ancora completa la loro indipendenza. Esse abitavano già in città fortificate da mura; la cifra della popolazione cresceva coll'estendersi degli armenti, dell'agricoltura, e coll'esordire del mestiere; aumentavano con ciò le differenze di ricchezza e con esse l'elemento aristocratico nella vecchia democrazia naturale. Questi piccoli popoli guerreggiavano incessantemente pel possesso delle migliori contrade e anche per bottino; la schiavitù dei prigionieri di guerra era già istituzione riconosciuta.

La costituzione di queste tribù e di questi piccoli popoli era la seguente:

1.º Autorità permanente era il Consiglio (bulê), composto in origine dei capi delle genti, e più tardi, allorchè il loro numero divenne troppo grande, di una parte scelta, che offrì l'opportunità allo sviluppo e al consolidamento dell'elemento aristocratico; ond'è che Dionisio ci dà il Consiglio dei tempi eroici come composto addirittura di notabili (kratistoi). Il Consiglio decideva definitivamente gli affari importanti; così, in Eschilo, il Consiglio di Tebe decreta — ciò che era decisivo in quel caso — di sotterrare onorevolmente Eteocle, ma di gettare in pascolo ai cani il cadavere di Polinice. Colla istituzione dello Stato questo Consiglio diventò poi il Senato.

2.º L'assemblea del popolo (agora). Fra gli Irocchesi vedemmo il popolo, uomini e donne, circondare l'assemblea del Consiglio, prendervi ordinatamente la parola e influenzarne così le decisioni. Fra i Greci omerici questa «circumambienza», [138] per usare un'espressione del vecchio gergo giudiziario tedesco (Umstand), si è già sviluppata in una generale assemblea del popolo, come fra i Germani primitivi. Convocavala il Consiglio per decidere gli affari importanti; ogni uomo poteva prendervi la parola. La deliberazione seguiva per alzata di mano (Eschilo nelle Supplici) o per acclamazione. L'assemblea era sovrana in ultima istanza, perciocchè dice Schömann (Antichità greche), «se trattasi di cosa, alla cui esecuzione è necessario il concorso del popolo, Omero non ci addita alcun mezzo, con cui questo possa esservi costretto contro il suo volere». In quest'epoca, in cui ogni uomo adulto della tribù era guerriero, non c'era ancora nessuna forza pubblica distinta dal popolo, da poterglisi contrapporre. La democrazia naturale era ancora nel suo pieno fiore, e questo deve essere il punto di partenza per giudicare del potere e della posizione, tanto del Consiglio, quanto del basileus.

3.º Il duce dell'esercito (basileus). Qui osserva Marx: «I dotti europei, per la maggior parte servi nati di principi, fanno del basileus un monarca nel senso moderno. Morgan, yankee repubblicano, protesta. Egli dice con molta ironia, ma con non minore verità, dell'untuoso Gladstone e della sua «Juventus mundi»: «Il Signor Gladstone ci presenta i duci degli eserciti greci dei tempi eroici come re e principi, e gentlemen per giunta; ma egli deve poi confessare che, in generale, pare che l'uso o la legge della primogenitura fosse abbastanza, ma non troppo rigorosamente, stabilita.» Ammetterà il signor Gladstone, che una primogenitura [139] così abbastanza ma non troppo rigorosamente garantita vale supergiù come se non ci fosse.

Vedemmo com'era regolata la successione nelle funzioni di capo fra gli Irocchesi ed altri Indiani. Tutte le cariche erano elettive, per lo più in seno alla gente, e quindi in questa ereditarie. Nei casi di vacanza, a poco a poco, si preferì il più prossimo parente gentile — fratello o figlio di sorella — se non v'erano motivi di posporlo. Se dunque presso i Greci, dominando il diritto paterno, l'uffizio di basileus passava ordinariamente al figlio o a uno dei figli, ciò non prova se non che i figli avevano la maggior probabilità d'essere eletti dal popolo, non già che succedessero di diritto, senza uopo di elezione popolare. È questo, fra gli Irocchesi e fra i Greci, il primo germe di famiglie nobili entro le genti, e fra i Greci anche di un futuro principato o monarchia ereditaria. La presunzione è adunque che fra i Greci il basileus, o doveva essere eletto dal popolo, o almeno confermato dai suoi organi riconosciuti — Consiglio od agora — come praticavasi pel «re» (rex) dei Romani.

Nell'Iliade, il dominatore degli uomini, Agamennone, non appare come supremo re dei Greci, ma quale comandante supremo di un esercito confederato dinanzi ad una città assediata. E a questa sua qualità accenna Ulisse, quando era scoppiata la discordia tra i Greci, nel famoso passo: non è buona cosa che più persone comandino, uno solo sia il comandante, ecc. (dopo di che il sempre citato verso che parla di «scettro», che è un'aggiunta [140] posteriore). «Ulisse non tiene qui una conferenza sopra una forma di Governo, ma chiede ubbidienza verso il supremo duce in guerra. Pei Greci, che non appaiono innanzi a Troia se non come esercito, le cose procedono abbastanza democraticamente nell'agora. Achille, quando parla di doni, cioè della distribuzione del bottino, non ne fa distributore nè Agamennone, nè un altro basileus, ma sempre «i figli degli Achei», cioè il popolo. I predicati: «generato da Giove», «nutrito da Giove», non provano nulla, poichè ogni gente discende da una deità, quelle della tribù principale poi da una deità più ragguardevole — che in questo caso è Giove. Anche i personalmente non liberi, come il porcaio Eumeo ed altri, sono «divini» (dioi e theioi), e ciò nell'Odissea, cioè in un tempo molto posteriore all'Iliade; nella stessa Odissea il nome di eroe è attribuito anche all'araldo Mulio, come al cieco cantore Demodoco. Insomma, la parola basileia, impiegata dagli scrittori greci ad indicare la cosiddetta monarchia dei poemi omerici, (perchè il comando militare è il suo carattere principale), col Consiglio e coll'assemblea popolare allato, significa soltanto.... democrazia militare» (Marx).

Il basileus, oltre alle attribuzioni militari, aveva anche funzioni sacerdotali e giudiziarie; queste non ben determinate, quelle nella sua qualità di supremo rappresentante della tribù o della federazione di tribù. Non è fatta mai parola di attribuzioni civiche, amministrative, ma esso sembra essere stato, per ragione d'uffizio, membro del Consiglio. Il tradurre basileus col tedesco König (re) è [141] quindi etimologicamente esattissimo, perchè König (Kuning), da Kuni, Künne, significa capo di una gente. Ma l'odierno significato della parola re non corrisponde in niuna guisa al basileus dell'antica Grecia. Tucidide chiama espressamente l'antica basileia una patrikê, cioè derivata da genti, e dice che essa ebbe attribuzioni rigorosamente determinate, quindi limitate. E riferisce Aristotile, che la basileia dei tempi eroici era un comando sopra uomini liberi, e il basileus, il duce dell'esercito, giudice e sommo sacerdote; esso non aveva quindi il potere del Governo nel senso posteriore della parola[19].

Noi vediamo quindi nella costituzione greca dei tempi eroici l'antica organizzazione gentile ancora in vigore, ma già al principio del tramonto: diritto paterno con devoluzione della fortuna ai figli, con che è favorita l'accumulazione della ricchezza nella famiglia e la famiglia diviene una potenza di fronte alla gente; reazione delle differenze di ricchezza sulla costituzione, col formare il primo germe di una nobiltà e di una monarchia ereditarie; schiavitù, da principio dei soli prigionieri di guerra, [142] ma che apre già la prospettiva alla riduzione in ischiavitù dei compagni di tribù e perfino dei compagni gentili; l'antica guerra da tribù a tribù, che già degenera in rapina sistematica per terra e per mare, allo scopo di conquistare bestiame, schiavi, tesori, e diventa una fonte normale di guadagno; in breve, la ricchezza apprezzata e stimata come il bene supremo, e violati gli antichi ordinamenti gentili, per giustificare i violenti bottini. Non mancava più che una cosa: una istituzione, che non solo assicurasse le ricchezze individuali di recente acquistate contro le tradizioni comunistiche dell'ordinamento gentile, che non solo consacrasse la proprietà privata sì poco apprezzata nel passato, e di questa consacrazione facesse lo scopo supremo di ogni umana società; ma che improntasse eziandio le nuove forme d'acquisto della proprietà, sviluppantisi l'una dopo l'altra, cioè il sempre accelerato incremento della ricchezza, col suggello del generale riconoscimento sociale; una istituzione, che non solo perpetuasse la nascente divisione della società in classi, ma anche il diritto della classe possidente allo sfruttamento dei non possidenti, e il dominio di quella su questi.

E questa istituzione venne. Si inventò lo Stato.

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V. Genesi dello Stato ateniese.

In nessun luogo, meglio che nell'antica Atene, ci è dato seguire almeno le prime traccie dello svilupparsi dello Stato, che avvenne dopochè gli organi della costituzione gentile, in parte trasformati, in parte soppiantati dall'intrusione di organi nuovi, finirono per cedere il posto a vere magistrature di Stato, e il «popolo in armi» che, nelle sue genti, fratrie, tribù, difendeva sè stesso, fu sostituito dalla «forza pubblica» armata, che obbediva a quelle magistrature e poteva così essere rivolta anche contro il popolo. I cangiamenti di forma sono, nei punti essenziali, esposti da Morgan; io devo aggiungere in gran parte il contenuto economico che li produce.

Ai tempi eroici le quattro tribù ateniesi dimoravano ancora, nell'Attica, su territorii distinti; pare che anche le dodici fratrie, che le componevano, avessero avuto sedi separate nelle dodici città di Cecrope. La costituzione era quella dei tempi eroici: Assemblea pubblica, Consiglio del popolo, basileus. Fin dove risale la storia scritta, il terreno era già [144] diviso e passato in proprietà privata, conforme alla produzione mercantile già relativamente sviluppata sullo scorcio dello stadio superiore della Barbarie, e al commercio che le corrisponde. Oltre al grano si produsse il vino e l'olio; il commercio sull'Egèo venne semprepiù sottratto ai Fenici e cadde in gran parte in mani attiche. Colla compra e colla vendita della proprietà fondiaria, colla crescente divisione del lavoro fra l'agricoltura e il mestiere, fra il commercio e la navigazione, i membri delle genti, delle fratrie e delle tribù dovettero bentosto confondersi; nei distretti della fratria e della tribù vennero abitatori, che, sebbene dello stesso popolo, tuttavia non appartenevano a quelle corporazioni, ed erano così stranieri nella loro propria residenza. Perciocchè ogni fratria ed ogni tribù amministrava essa stessa in tempo di pace i suoi proprii affari, senza ricorrere al Consiglio popolare o al basileus di Atene. Ma chi abitava nel territorio della fratria e della tribù senza appartenervi, non poteva, naturalmente, prender parte alcuna a quest'amministrazione.

Il regolare andamento della costituzione gentile ne ebbe tale dissesto, che già ai tempi eroici si dovette porvi riparo. Si introdusse la costituzione attribuita a Teseo. Il cangiamento consistette specialmente nell'istituire un'amministrazione centrale in Atene, per cui una parte degli affari, fin allora indipendentemente amministrati dalle tribù, vennero dichiarati affari comuni e passarono al Consiglio generale sedente in Atene. Con ciò gli Ateniesi fecero un passo più lungo, che mai qualsiasi popolo indigeno in America: alla semplice federazione di tribù [145] finitime subentrò la loro fusione in un unico popolo. Con ciò nacque un diritto popolare comune ateniese, che stava al disopra dei diritti consuetudinarii delle tribù e delle genti; il cittadino ateniese ebbe, come tale, determinati diritti e nuova protezione giuridica, anche sul territorio dov'era estraneo alla tribù. Ma era questo anche il primo passo allo sfacelo della costituzione gentile; perchè era l'adito aperto all'ammissione di cittadini estranei a tutte le tribù dell'Attica, e che pertanto erano e rimasero affatto fuori della costituzione gentile ateniese. Una seconda istituzione attribuita a Teseo fu la divisione di tutto il popolo, senza riguardo a gente, a fratria o tribù, in tre classi: eupatridi o nobili, geomori o agricoltori, e demiurghi o artigiani, e l'attribuzione ai nobili dell'esclusivo diritto ai pubblici uffici. All'infuori di quest'ultimo privilegio, tale divisione restò senza effetti, non fondando fra le tre classi alcuna differenza di diritti. Ma essa è importante, perchè ci presenta i nuovi elementi sociali che silenziosamente si erano sviluppati. Essa mostra, che la consuetudine degli uffici gentili in certe famiglie era già divenuta per esse un titolo alle cariche poco contestato; che queste famiglie, già potenti per ricchezza, cominciavano a comporsi, fuori delle loro genti, in classe distinta privilegiata; e che lo Stato, che sorgeva appunto allora, consacrò queste usurpazioni. Essa mostra altresì che la divisione del lavoro tra agricoltori ed artigiani era già abbastanza forte per emulare, in importanza sociale, l'antica divisione per genti e per tribù. Essa proclama finalmente l'inconciliabile antitesi tra società gentile e Stato; il primo conato [146] di formazione d'uno Stato consiste nello smembrare le genti, dividendole in privilegiati e posposti, e questi ultimi separando pure in due classi di lavoratori, l'una contrapposta all'altra.

La ulteriore storia politica di Atene sino a Solone non è che imperfettamente conosciuta. L'uffizio di basileus cadde in disuso; alla testa dello Stato si posero arconti, scelti fra la nobiltà. Il dominio dei nobili crebbe semprepiù, sino a che, verso il 600 dell'era nostra, divenne intollerabile. E i mezzi principali per sopprimere la libertà comune furono il danaro e l'usura. La principale sede della nobiltà era Atene co' suoi dintorni, dove il commercio marittimo, aiutato spesso dalla pirateria, l'arricchiva, e concentrava il denaro nelle sue mani. Da ciò la sorgente economia a denaro penetrò come un corrosivo nel costume tradizionale delle comunità rurali, fondate sulla primitiva economia in natura. La costituzione gentile è assolutamente incompatibile coll'economia a denaro; la rovina dei piccoli contadini dell'Attica coincise col rallentarsi dei vecchi legami gentili che, avvincendoli, li proteggevano. La dichiarazione di debito e il pignoramento (gli Ateniesi avevano già inventata anche l'ipoteca) non rispettavano nè la gente nè la fratria. E l'antica costituzione gentile non conosceva nè il denaro, nè i prestiti e i debiti in denaro. Onde il dominio finanziario della nobiltà, sempre più rigoglioso, elaborò anche un nuovo diritto consuetudinario per garantire il creditore contro il debitore e per consacrare lo sfruttamento fatto dal possessore di denaro sul contadino. Intere distese di terreno nell'Attica erano irte di colonne ipotecarie. [147] sulle quali stava scritto che il fondo che le portava era impegnato a questo od a quello per tanto o tanto denaro. I campi, che non erano così designati, erano in gran parte già venduti per la avvenuta scadenza dell'ipoteca o degli interessi e passati in proprietà del nobile strozzino; il contadino poteva esser lieto, se gli veniva concesso di continuarvi a restare come fittaiuolo e di vivere di un sesto del prodotto del suo lavoro, pagando gli altri cinque sesti come fitto al nuovo signore. C'è di più. Se il ricavo della vendita del fondo non copriva il debito, o se questo era stato contratto senza ipoteca, il debitore doveva vendere schiavi i suoi figli all'estero per pagare il creditore. Il padre che vende i figli — ecco il primo frutto del diritto paterno e della monogamia! E se il vampiro non era ancor sazio, poteva vendere come schiavo lo stesso debitore. Fu questa la dolce aurora dell'epoca civile presso il popolo ateniese.

Nel passato, allorchè la condizione del popolo corrispondeva ancora alla costituzione gentile, un tale sconvolgimento non sarebbe stato possibile; e ora era avvenuto, non sapevasi come. Ritorniamo un istante ai nostri Irocchesi. Là sarebbe stata inconcepibile una situazione, quale agli Ateniesi si era imposta, per così dire, senza il loro concorso e certo contro il loro volere. Là i metodi di produzione delle sussistenze, rimanendo d'anno in anno supergiù invariati, non potevano generare nè siffatti conflitti, che apparivano come imposti dal di fuori, nè alcuna antitesi di ricchi e di poveri, di sfruttatori e di sfruttati. Gli Irocchesi erano ancora ben lontani dal dominare la natura, ma, nei limiti naturali [148] loro imposti, essi dominavano la loro propria produzione. A parte il caso, di un cattivo raccolto dei loro orti, o l'esaurimento della provvista dei pesci dei loro laghi e fiumi e della selvaggina dei loro boschi, essi sapevano quanto potevano trarre dalla loro maniera di procurarsi le sussistenze. Potevano trarne un sostentamento più o meno abbondante o scarso; ma non mai sconvolgimenti sociali imprevisti, non mai la dissoluzione dei vincoli gentili, la scissione dei compagni della gente o della tribù in classi antagoniste e reciprocamente combattentisi. La produzione si muoveva nei più angusti limiti; ma i produttori dominavano il loro proprio prodotto. Era questo l'immenso vantaggio della produzione barbarica, che andò perduto coll'avvento della civiltà, e riconquistare il quale è il compito della prossima generazione, ma sulla base del potente dominio ormai raggiunto dagli uomini sulla natura, e della libera associazione che oggi è possibile.

Non così fra i Greci. La proprietà privata degli armenti e delle suppellettili di lusso condusse allo scambio tra gl'individui, alla trasformazione dei prodotti in merci. Questo il germe di tutta la trasformazione successiva. Tostochè i produttori non consumarono più essi stessi direttamente il loro prodotto, ma se lo lasciarono uscir di mano cogli scambî, essi cessarono di esserne i padroni. Essi non sapevano più ciò che ne accadeva, e sorgeva la possibilità che un giorno il prodotto venisse impiegato contro il produttore, per sfruttarlo ed opprimerlo. Perciò nessuna società, che non abolisca lo scambio tra gl'individui, può conservare a lungo [149] il dominio sulla sua propria produzione e il controllo sugli effetti sociali del suo sistema di produzione.

Ma gli Ateniesi dovevano imparare quanto rapidamente, sorto lo scambio tra gli individui e trasformatisi i prodotti in merci, il prodotto padroneggia i produttori. Colla produzione mercantile, apparve la coltivazione del terreno fatta dagli individui per proprio conto, e con ciò bentosto la proprietà fondiaria individuale. Sorse inoltre il denaro, la merce universale, con la quale tutte le altre potevano scambiarsi; ma, inventando il denaro, gli uomini non sapevano di creare una nuova forza sociale, l'unica forza universale, dinanzi alla quale tutta la società avrebbe dovuto inchinarsi. E questa nuova forza, sorta improvvisamente all'insaputa e a malgrado de' suoi proprii creatori, fece sentire agli Ateniesi il suo dominio con tutta la brutalità della sua giovinezza.

Che fare? L'antica costituzione gentile non solo si era dimostrata impotente contro la marcia trionfale del denaro; essa era inoltre assolutamente incapace di trovar posto in sè stessa per qualcosa come il denaro, i creditori e i debitori, la riscossione coattiva dei crediti. Ma la nuova forza sociale era omai là, e nè pii desiderii, nè aneliti al ritorno del buon tempo antico cacciavano dal mondo il denaro e l'usura. Per giunta una serie di altre breccie minori doveva subire la costituzione gentile. Il frammischiarsi dei compagni delle genti e delle fratrie su tutto il territorio attico, particolarmente in Atene medesima, era aumentato di generazione in generazione, benchè l'Ateniese potesse bensì vendere [150] fuori della propria gente il suo fondo, ma non ancora la sua casa di abitazione. La divisione del lavoro tra i diversi rami della produzione, l'agricoltura e il mestiere, e nel mestiere stesso le innumerevoli suddivisioni, il commercio, la navigazione, ecc., si erano sviluppate sempre più coi progressi dell'industria e del traffico; la popolazione si divideva ormai, secondo l'occupazione, in gruppi quasi fissi, ciascun dei quali aveva una serie di nuovi interessi comuni, che non trovavano posto nella gente o nella fratria, e la cui tutela esigeva quindi nuove cariche. Il numero degli schiavi si era considerevolmente accresciuto, e già allora deve aver superato di molto quello degli Ateniesi liberi; in origine la costituzione gentile ignorava la schiavitù, e quindi i mezzi di tener a freno questa massa di non liberi. E finalmente il commercio aveva attirata in Atene una moltitudine di stranieri, che vi si stabilivano per far denaro più facilmente, che l'antica costituzione lasciava privi di diritti e di difesa, e che, malgrado la tradizionale tolleranza, rimanevano nel popolo come un elemento estraneo e perturbatore.

In breve, la costituzione gentile volgeva al suo termine. La società ne traripava ogni giorno più, e quella costituzione non poteva nè arrestare, nè rimuovere neanche i mali più funesti, nati sotto i suoi occhi. Lo Stato, frattanto, s'era sviluppato in silenzio. I nuovi gruppi, nati dalla divisione del lavoro, dapprima fra città e campagna, poi fra i varî rami del lavoro urbano, avevano generato nuovi organi per la tutela dei loro interessi; cariche d'ogni sorta erano state istituite. E allora il giovine Stato abbisognò sopratutto di una forza [151] propria, che, presso gli Ateniesi navigatori, doveva essere da principio soltanto una forza marittima per le piccole guerre e per la protezione delle navi mercantili. In un tempo imprecisato, prima di Solone, vennero istituite le naucrarie, piccoli distretti, dodici per ciascuna tribù; ogni naucraria doveva allestire, armare ed equipaggiare un vascello da guerra e fornire inoltre due cavalieri. Questa istituzione intaccava doppiamente la costituzione gentile; in primo luogo, creando una forza pubblica, che non coincideva più senz'altro coll'insieme del popolo armato, e, in secondo luogo, dividendo per la prima volta il popolo a pubblici fini, non più per gruppi di parentela, ma a norma dell'abitazione locale. E di ciò si vedrà poi l'importanza.

Non potendo la costituzione gentile recare alcun aiuto al popolo sfruttato, non rimaneva che lo Stato nascente. E questo lo aiutò colla costituzione di Solone, mentre esso si rafforzava sempre più a spese dell'antica costituzione. Solone — qui non c'interessa come fu introdotta la sua riforma, nell'anno 594 avanti la nostra êra — Solone aprì la serie delle cosiddette rivoluzioni politiche, e lo fece con un attacco alla proprietà. Tutte le rivoluzioni avvenute fino ad oggi furono rivoluzioni per la difesa di una forma della proprietà contro un'altra. Esse non possono proteggere l'una senza danneggiare l'altra. Nella grande rivoluzione francese la proprietà feudale fu sacrificata per salvare la borghese; in quella di Solone fu la proprietà del creditore che dovette soffrire a vantaggio di quella del debitore. I debiti furono semplicemente dichiarati nulli. Le particolarità non ci sono esattamente note, ma Solone [152] si vanta nelle sue poesie di aver rimosse le colonne ipotecarie dai terreni indebitati, e di aver ricondotti in patria i cittadini venduti o fuggiti all'estero per debiti. Questo non era possibile che coll'aperta violazione della proprietà. E infatti, tutte, dalla prima all'ultima, le cosiddette rivoluzioni politiche si fecero a vantaggio di una forma di proprietà, colla confisca, chiamata anche furto, di un'altra forma. Tanto egli è vero, che, da duemila e cinquecento anni in poi, la proprietà non potè esser conservata se non colla violazione continua della proprietà.

Ma ora trattavasi d'impedire il ritorno di un siffatto asservimento dei liberi Ateniesi. Ciò avvenne anzitutto con misure generali, per esempio colla inibizione dei contratti di debito nei quali fosse pegno la persona del debitore. Fu inoltre stabilito un limite massimo della proprietà fondiaria che un individuo potesse possedere, per porre almeno qualche freno alla bulimia della nobiltà pel terreno dei contadini. Si introdussero poi cangiamenti nella costituzione; i più importanti per noi sono questi:

Il Consiglio fu portato a quattrocento membri, cento per ogni tribù; quì la base era ancora la tribù. Ma questo era anche l'unico lato, pel quale l'antica costituzione riappariva nel nuovo corpo dello Stato. Giacchè, pel resto, Solone divise i cittadini in quattro classi secondo la loro proprietà fondiaria e il suo reddito; 500, 300 e 150 medimni di grano (un medimno vale circa 41 litri) erano i ricavi minimi per le prime tre classi; chi aveva una proprietà fondiaria minore o non ne aveva punto cadeva nella quarta classe. Le cariche pubbliche [153] potevano essere coperte soltanto dalle tre prime; le più elevate, solo dalla prima classe; la quarta classe non aveva che il diritto di parlare e di votare nell'assemblea popolare; la quale però eleggeva tutti i funzionarii; a questa essi dovevano rendere i conti; era essa che faceva tutte le leggi, e in essa la quarta classe formava la maggioranza. I privilegi aristocratici furono in parte rinnovati sotto forma di privilegi della ricchezza, ma il popolo conservò il potere sovrano. Le quattro classi formarono inoltre la base di una nuova organizzazione dell'esercito. Le due prime classi fornivano la cavalleria; la terza doveva servire come fanteria pesante; la quarta come fanteria leggiera, senza corazza, o sulla flotta, e probabilmente veniva anche stipendiata.

Qui è dunque introdotto nella costituzione un elemento affatto nuovo: la proprietà privata. I diritti e i doveri dei cittadini dello Stato vengono misurati dalla grandezza della loro proprietà fondiaria, e di quanto guadagnano influenza le classi facoltose, di altrettanto si rattrappiscono le antiche corporazioni consanguinee; la costituzione gentile aveva sofferto un nuovo strazio.

L'attribuzione dei diritti politici a seconda dei beni non era però una di quelle istituzioni, senza cui lo Stato non può esistere. Sebbene essa abbia rappresentato una parte importante nella storia della costituzione degli Stati, nondimeno moltissimi Stati, e precisamente quelli più completamente evoluti, non ne ebbero bisogno. Anche in Atene essa non fu che transitoria; dopo Aristide, tutti gli uffizi erano accessibili a tutti i cittadini.

[154]

Durante i successivi ottant'anni, la società ateniese assunse a mano a mano l'indirizzo, che più poi sviluppò nei secoli successivi. All'usura sui terreni, così fiorente prima di Solone, fu posto fine, come pure all'eccessivo accentramento della proprietà fondiaria. Il commercio, il mestiere esercitato sempre più in grande coll'opera degli schiavi, e il lavoro degli artigiani, divennero i principali rami di produzione. Si divenne più illuminati. Scambio di sfruttare i concittadini brutalmente come da principio, si sfruttarono piuttosto gli schiavi e la clientela extra-ateniese. La proprietà mobile, la ricchezza finanziaria, il numero degli schiavi e dei vascelli cresceva sempre più, ma non erano più un semplice mezzo di acquistare proprietà fondiaria, come nella malaccorta epoca precedente; divennero uno scopo essi stessi. Con ciò, da una parte, fu creata una vittoriosa concorrenza all'antica potenza della nobiltà colla nuova classe di ricchi industriali e commercianti, ma, dall'altra, fu anche tolto l'ultimo terreno agli avanzi dell'antica costituzione gentile. I membri delle genti, delle fratrie e delle tribù, sparpagliati per tutta l'Attica e completamente mescolati, non potevano più formare corporazioni politiche; una moltitudine di cittadini ateniesi non apparteneva ad alcuna gente; erano immigrati, ammessi bensì nel diritto civico, ma non in alcuno degli antichi gruppi consanguinei; accanto ad essi vi era poi il sempre crescente numero degl'immigrati stranieri, semplici clienti.

Nel frattempo le lotte di partito proseguivano; la nobiltà tentava riconquistare i suoi passati privilegi, e per un istante riottenne il predominio, [155] finchè la rivoluzione di Cleistene (509 avanti la nostra êra) l'abbattè definitivamente; ma con essa abbattè pure l'ultimo residuo della costituzione gentile.

Cleistene, nella sua nuova costituzione, disconobbe le quattro antiche tribù fondate sulle genti e sulle fratrie. Subentrò un'organizzazione affatto nuova, sulla base della divisione dei cittadini secondo la residenza, come si era fatto per le naucrarie. L'essenziale non era più l'appartenere a gruppi consanguinei, ma il luogo dell'abitazione; non veniva diviso il popolo, ma il territorio, e gli abitanti divennero politicamente una semplice appendice del territorio.

Tutta l'Attica fu divisa in cento distretti comunali, o demi, ciascun dei quali si amministrava da sè. I cittadini residenti in ogni demo (demoti) eleggevano il loro capo (demarco) e il loro tesoriere, più trenta giudici con giurisdizione sulle piccole controversie. Avevano ancora un proprio tempio e un dio protettore, o eroe, di cui eleggevano i sacerdoti. Nel demo il supremo potere era l'assemblea dei demoti. È, come ben osserva Morgan, il tipo dei Comuni urbani d'America, che si governano da sè stessi. Il nascente Stato ateniese partiva da quella stessa unità, con la quale finisce lo Stato moderno nel suo più elevato sviluppo.

Dieci di queste unità, demi, formavano una tribù, che ora, a differenza dalle antiche tribù consanguinee, piglia nome di tribù locale. La tribù locale non era solo una tribù politica autonoma, era anche una corporazione militare; eleggeva il filarco, o capo della tribù, che comandava la cavalleria, il [156] tassiarco per la fanteria, e lo stratega che comandava tutta la milizia reclutata nel territorio della tribù. Forniva inoltre cinque navi da guerra con rispettivi equipaggi e comandanti, e aveva per sacro patrono un eroe attico, dal cui nome si intitolava. Finalmente eleggeva cinquanta consiglieri nel Consiglio ateniese.

La somma di tutto ciò era lo Stato ateniese, retto dal Consiglio composto dei cinquecento eletti delle dieci tribù, e in ultima istanza dall'Assemblea del popolo, dove ogni cittadino ateniese aveva accesso e diritto di voto; allato, arconti ed altri funzionari curavano i differenti rami amministrativi e giudiziarii. Un funzionario supremo del potere esecutivo non esisteva in Atene.

Con questa nuova costituzione e coll'ammissione di un grandissimo numero di clienti, in parte immigrati, in parte schiavi affrancati, gli organi della costituzione gentile erano stati scacciati dagli affari pubblici; essi discesero al grado di riunioni private e di confraternite religiose. Ma l'influenza morale, il tradizionale modo di concepire e di pensare dell'antica epoca gentile, continuarono ad ereditarsi per lungo tempo e non svanirono che a poco a poco. Ciò si vide in una ulteriore istituzione dello Stato.

Vedemmo che una delle essenziali caratteristiche dello Stato consiste in una forza pubblica distinta dalla massa del popolo. Atene non aveva allora che l'esercito popolare e una flotta fornita immediatamente dal popolo; quello e questa la difendevano dall'estero e tenevano a freno gli schiavi, che già formavano la grande maggioranza della popolazione. [157] Di fronte ai cittadini la forza pubblica non esistì da principio che come polizia, la quale è vecchia quanto lo Stato, per lo che gl'ingenui francesi del secolo XVIII non parlavano di popoli inciviliti, ma di nations policées. Gli Ateniesi, insieme al loro Stato, istituirono quindi anche una polizia, una vera gendarmeria di arcieri a piedi e a cavallo. Ma questa gendarmeria era formata... di schiavi. Sembrava così degradante questo mestiere di birro al libero ateniese, che egli si lasciava piuttosto arrestare da schiavi armati, anzi che prestarsi esso stesso a tale ignominia. Questo era ancora l'antico sentimento gentile. Lo Stato non poteva sussistere senza polizia, ma esso era ancora giovane, e non godeva ancora sufficiente autorità morale, per rendere stimabile un mestiere, che agli antichi compagni gentili appariva necessariamente infame.

Quanto lo Stato, organato omai nei suoi tratti essenziali, fosse adatto alla nuova condizione sociale degli Ateniesi, lo mostra il rapido fiorire della ricchezza, del commercio e dell'industria. L'antagonismo di classi, sul quale riposavano le istituzioni politiche e sociali, non era più fra nobiltà e popolo comune, ma fra schiavi e liberi, fra clienti e cittadini. Al tempo del massimo fiore l'intera cittadinanza ateniese libera, donne e fanciulli compresi, consisteva di circa 90,000 individui, accanto ai quali si contavano 365,000 schiavi di ambo i sessi e 45,000 clienti — stranieri ed affrancati. Per ogni cittadino maschio adulto v'erano quindi almeno 18 schiavi, e più di due clienti. Il gran numero di schiavi proveniva dal fatto, che molti di essi lavoravano insieme nelle manifatture, grandi officine, [158] sotto la sorveglianza d'ispettori. Ma, collo sviluppo del commercio e dell'industria, vennero l'accumulazione e la concentrazione delle ricchezze in poche mani, l'impoverimento della massa dei liberi cittadini, ai quali non rimaneva altra scelta, che, o di far concorrenza al lavoro schiavo col proprio lavoro manuale — ciò che passava per disonorevole, «banauso», e prometteva anche poco profitto — o diventare dei parassiti. Per necessità, date le circostanze, abbracciarono il secondo partito, ed essendo essi la massa, portarono con ciò lo sfacelo in tutto lo Stato ateniese. Non la democrazia rovinò Atene, come pretendono i pedanti piaggiatori dei principi europei, ma la schiavitù, che proscriveva il lavoro del cittadino libero.

La genesi dello Stato presso gli Ateniesi è un modello particolarmente tipico della formazione dello Stato in generale, perchè, da un lato, ha luogo senza perturbazioni, senza influsso di violenze interne od esterne — la usurpazione di Pisistrato non lasciò traccia della sua breve durata — e perchè, d'altro lato, fa scaturire direttamente dalla società gentile una forma di Stato già assai evoluta, la repubblica democratica; e, finalmente, perchè conosciamo sufficientemente tutte le sue particolarità essenziali.

[159]

VI. Gente e Stato in Roma.

Secondo la leggenda della fondazione di Roma, la prima colonia nacque da un dato numero di genti latine (la leggenda dice cento) riunite in una tribù, alle quali si unì bentosto una tribù sabellica, e infine una terza, composta di elementi diversi, anche queste, vuolsi, di cento genti ciascuna. Da tutto il racconto salta agli occhi che di primitivo non v'era quasi altro che la gente, e anche questa in molti casi non era che la propaggine di una gente madre rimasta nell'antica patria. Le tribù portano in fronte il suggello della composizione artificiale, benchè composte per lo più di elementi congiunti da parentela e modellate sul tipo dell'antica tribù cresciuta spontaneamente, non artificialmente combinata; non è dunque escluso, che il nucleo di ognuna delle tre tribù possa essere effettivamente stato una tribù antica. L'anello di congiunzione, la fratria, consisteva di dieci genti e chiamavasi curia; le curie quindi erano trenta.

È ammesso che la gente romana era la medesima istituzione della greca; se la greca non è che [160] uno sviluppo di quella unità sociale, la cui forma primitiva ci è dato dai Pellirosse americani, lo stesso dovrà dirsi della romana. Possiamo quindi andar per le corte.

La gente romana aveva, almeno nei primi tempi della Città, la costituzione seguente:

1.º Diritto ereditario reciproco fra i compagni gentili; i beni di fortuna restavano nella gente. Poichè nella gente romana, come nella greca, regnava già il diritto paterno, erano esclusi i discendenti della linea femminile. Secondo la «legge delle dodici tavole», il più antico diritto romano scritto che ci sia conosciuto, ereditavano prima i figli come eredi naturali; in loro difetto, gli agnati (congiunti in linea maschile); e, nell'assenza di questi, i compagni gentili. In tutti i casi la fortuna rimaneva nella gente. Noi vediamo qui il graduale insinuarsi, nel costume gentile, di nuove disposizioni di diritto, prodotte dall'accresciuta ricchezza e dalla monogamia; l'originaria eguaglianza di diritto successorio dei compagni gentili è dapprima — e ciò assai di buon'ora, come accennammo più sopra — limitato in pratica agli agnati, finalmente ai figli e ai loro discendenti in linea maschile; si capisce da sè che nelle «dodici tavole» ciò appare in ordine inverso.

2.º Cimitero comune. Alla patrizia gente Claudia, quando migrò da Regilli a Roma, fu assegnato un pezzo di terreno per suo uso, e inoltre un luogo di sepoltura comune nella città. Ancora, sotto Augusto, la testa di Varo, caduto nella foresta di Teutoburgo, fu riportata a Roma e collocata nel gentilitius tumulus; la gente Quintilia aveva dunque anche un sepolcro speciale.

[161]

3.º Feste religiose comuni; le ben note sacra gentilitia.

4.º Obbligo di non sposarsi nella gente. Ciò non pare che in Roma sia mai stato sancito da una legge scritta, ma il costume rimaneva. Della enorme quantità di coppie coniugali romane, i cui nomi ci son tramandati, non c'è un solo nome gentile comune al marito e alla moglie. Il diritto successorio conferma questa regola. La donna perde con le nozze i suoi diritti agnatizî, esce dalla sua gente, e nè essa, nè i suoi figli, possono ereditare da suo padre o dai fratelli di questo, perchè diversamente l'eredità sarebbe perduta per la gente paterna. Questo non ha senso se non si presuppone che la donna non possa sposare alcun membro della propria gente.

5.º Una proprietà fondiaria comune. Questa vi era anche nel tempo primitivo, dacchè il terreno della tribù cominciò ad essere ripartito. Nelle tribù latine troviamo il terreno, parte in possesso della tribù, parte della gente, parte delle comunità o gruppi domestici, che in quel tempo difficilmente potevano essere famiglie individuali. Si dice che Romolo abbia fatta la prima distribuzione di terreno agl'individui, circa un ettaro (due jugeri) per ciascheduno. Tuttavia noi troviamo anche di poi possessi fondiari in mano alle genti, pur astraendo dal terreno dello Stato, intorno al quale si aggira tutta la storia interna della Repubblica.

6.º Dovere di mutua difesa ed assistenza fra compagni gentili. Di ciò la storia scritta non ci mostra che pochi avanzi; lo Stato romano assunse subito tale predominio, chè passò ad esso il diritto di protezione [162] contro le offese. Quando Appio Claudio fu imprigionato, tutta la sua gente mise il lutto, anche i suoi nemici personali. Alla seconda guerra punica, le genti si unirono per la liberazione dei compagni gentili prigionieri di guerra; il Senato glielo vietò.

7.º Diritto di portare nomi gentili. Perdurò sino al tempo dell'Impero; agli affrancati si permetteva di assumere il nome gentile dei loro ex-signori, ma senza diritti gentili.

8.º Diritto di adottare stranieri nella gente. Esplicavasi coll'adozione in una famiglia (come presso gli Indiani), che traeva seco l'ammissione nella gente.

9.º Il diritto di eleggere e di deporre capi non è menzionato in nessun luogo. Ma, poichè nei primi tempi di Roma tutti gli uffizii tenevansi per elezione o per acclamazione, dal re elettivo in giù, e anche i preti delle curie venivano eletti da queste, noi possiamo ammettere lo stesso pei capi (principes) delle genti — comunque l'elezione da una medesima famiglia potesse essere già diventata la regola.

Queste erano le attribuzioni di una gente romana. Ad eccezione del passaggio, già compiutosi, al diritto paterno, esse sono lo specchio fedele dei diritti e dei doveri di una gente Irocchese; anche qui «fa manifestamente capolino l'Irocchese».

A mostrare quale confusione regni ancor oggi, anche tra i nostri storici più reputati, sull'ordinamento gentile romano, basterà un esempio. Nel lavoro di Mommsen sui nomi proprî romani dell'epoca repubblicana e di Augusto (Römische Forschungen, Berlino, 1864, 1.º volume) sta scritto: «Oltre a tutti i maschi della stessa stirpe, esclusi naturalmente [163] gli schiavi, ma inclusi i famigliari e i clienti, il nome della stirpe compete anche alle donne.... La tribù (così Mommsen traduce qui la parola gens) è.... una comunità, discendente da uno stipite comune (reale o presunto, o anche immaginario), tenuta assieme dalla comunanza delle feste, della sepoltura e della eredità, e alla quale possono e devono appartenere tutti gl'individui personalmente liberi, quindi anche le donne. Ma il difficile è stabilire il nome di stirpe delle donne maritate. La difficoltà non esisteva, finchè la donna non poteva sposare se non un compagno della sua gente; e probabilmente per molto tempo le donne incontrarono maggiori difficoltà a maritarsi fuori che dentro la gente; talchè poi quel diritto, la gentis enuptio, ancora nel sesto secolo veniva dato in ricompensa come privilegio personale... Ma dove avvenivano siffatti matrimonî fuori della gente, la donna, nei primi tempi, doveva passare nella tribù del marito. Nulla è più certo del fatto, che la donna, coll'antico matrimonio religioso, entrava nella comunità giuridica e religiosa del marito, e lasciava la propria. Chi non sa che la donna maritata perde il diritto ereditario, attivo e passivo, nella propria gente, e lo acquista invece verso suo marito, i suoi figli e tutti in generale i membri della gente di questi? e se essa diventa come figlia del marito ed entra nella costui famiglia, come può rimanere al di fuori dalla sua stirpe?» (pag. 9 a 11).

Mommsen afferma dunque, che le donne romane, che appartenevano ad una gente, non potevano maritarsi in origine se non nella propria gente; la gente romana sarebbe quindi stata endogama, e [164] non esogama. Questa opinione, che contraddice a tutto quanto si è riscontrato presso altri popoli, si fonda principalmente, se non esclusivamente, sopra un solo passo di Livio, oggetto di molte controversie (Libro XXXIX, cap. 19), secondo il quale il Senato, nell'anno di Roma 568, ossia nel 186 avanti la nostra êra, decise, uti Feceniæ Hispallæ datio, deminutio, gentis enuptio, tutoris optio item esset quasi ei vir testamento dedisset; utique ei ingenuo nubere liceret, neu quid ei qui eam duxisset, ob id fraudi ignominiaeve esset — che Fecenia Hispalla avrebbe il diritto di disporre della sua fortuna, di diminuirla, di maritarsi fuori della gente, e di scegliersi un tutore, come se il suo (defunto) marito le avesse conferito questi diritti per testamento; che essa potrebbe sposare un cittadino libero, senza che a colui che la torrà in moglie possa ciò essere ascritto come un'ignominia od una mala azione.

Senz'alcun dubbio è qui conferito a Fecenia, ad un'affrancata, il diritto di maritarsi fuori della gente. E da questo passo risulta con eguale certezza che il marito poteva conferire per testamento a sua moglie il diritto di maritarsi, dopo la sua morte, fuori della gente. Ma fuori di quale gente?

Se la donna doveva maritarsi nella propria gente, come ritiene Mommsen, essa rimaneva in questa gente anche dopo il matrimonio. Ma, in primo luogo, questa pretesa endogamia della gente è appunto ciò che si dovrebbe dimostrare. E in secondo luogo, se la donna doveva sposarsi nella gente, lo doveva naturalmente anche l'uomo, altrimenti sarebbe rimasto senza moglie. Ne verrebbe che l'uomo poteva legare per testamento a sua moglie un diritto, [165] che non possedeva per sè; assurdo giuridico. Mommsen lo sente e congettura quindi che «per sposarsi fuori della gente occorreva, in diritto, non solo il consenso del marito sotto la cui potestà la donna si trovava, ma quello eziandio di tutti i compagni gentili» (pag. 10, Nota). Or questa è anzitutto un'ipotesi molto ardita; e inoltre contraddice al chiaro tenore del passo citato; il Senato le dà questo diritto in luogo e vece del marito, esso le dà espressamente nulla più e nulla meno di ciò che il marito poteva darle, ma ciò che le dà è un diritto assoluto, non dipendente da alcun'altra limitazione; sicchè, se essa ne fa uso, non dovrà soffrirne neanche il suo nuovo marito; il Senato incarica anzi i consoli e i pretori presenti e futuri di provvedere perchè non le derivi alcun danno. L'ipotesi di Mommsen sembra quindi affatto inammissibile.

Ovvero: la donna sposava un uomo di un'altra gente, ma essa rimaneva nella propria gente nativa. Allora, giusta il suddetto passo, il marito avrebbe avuto il diritto di permettere alla moglie di maritarsi fuori della gente di lei. Cioè avrebbe avuto il diritto di disporre negli affari di una gente alla quale egli non apparteneva. La cosa è così assurda, che non è il caso di spendervi altre parole.

Rimane quindi la sola ipotesi, che la donna abbia sposato in prime nozze un uomo di altra gente, passando senz'altro in quella del marito, come effettivamente ammette anche Mommsen per casi simili. Allora tutto il viluppo è subito spiegato. La donna, sciolta colle nozze dalla sua antica gente e entrata in quella del marito, ha in questa una posizione [166] affatto speciale. Essa è compagna gentile sì, ma non consanguinea; la maniera della sua adozione la esclude sin dal principio da qualsiasi divieto di matrimonio nella gente, nella quale appunto si è già maritata; essa è ammessa nell'unione matrimoniale della gente, alla morte di suo marito eredita della sua fortuna, eredita cioè la fortuna di un compagno gentile. Che di più naturale, affinchè questa fortuna rimanga nella gente, che essa sia obbligata a sposare un compagno gentile del suo primo marito e nessun altro? E se un'eccezione deve farsi, chi sarà competente ad autorizzarvela, se non colui che le ha legata questa fortuna, il suo primo marito? Nel momento in cui egli le lascia i suoi beni e le permette insieme di trasferirli col matrimonio, o in conseguenza del matrimonio, in una gente estranea, questi beni gli appartengono ancora, egli dispone quindi letteralmente della roba sua. Quanto alla donna e ai suoi rapporti colla gente del marito, è questi che ve l'ha introdotta con un libero atto della sua volontà: il matrimonio; sembra quindi anche naturale, che egli sia la persona più idonea ad autorizzarla ad uscirne con un secondo matrimonio. Insomma la cosa appare semplice ed evidente, tostochè noi eliminiamo lo strano concetto di una gente romana endogama e la concepiamo con Morgan come esogama fin dalle origini.

Rimane ancora un'ultima ipotesi, che ha pure trovato i suoi sostenitori, e sono anzi i più numerosi. Il passo di Livio significherebbe soltanto, «che le fanciulle affrancate (libertae) non potevano senza particolare autorizzazione maritarsi fuori della gente (e gente enubere) o fare qualsiasi altro [167] atto, che, collegato con la capitis deminutio minima, potesse aver per effetto l'uscita della liberta dalla unione gentile.» (Lange, Römische Alterthümer, Berlino 1856, I, pag. 195, dove, quanto al passo di Livio, si fa riferimento a Duschke). Se questa ipotesi è giusta, il passo non prova più nulla quanto ai rapporti delle Romane pienamente libere; e di un costoro obbligo di maritarsi nella gente non può più esser questione.

L'espressione enuptio gentis non si trova che in questo passo, in tutta la letteratura romana; la parola enubere, «sposarsi fuori», solo tre volte appunto in Livio, ma senza alcun rapporto colla gente. L'ipotesi fantastica che le romane potessero maritarsi solo nella gente, si deve a quest'unico passo. Ma essa non regge affatto, perchè, o il passo si riferisce a restrizioni speciali per le affrancate, e non prova nulla per le donne di condizione libera (ingenuae); o si riferisce anche a queste, e allora esso prova piuttosto, che di regola la donna si maritava fuori della sua gente, ma col matrimonio passava nella gente del marito; prova cioè contro Mommsen e a favore di Morgan.

Ancora quasi tre secoli dopo la fondazione di Roma, i vincoli gentili erano così forti, che una gente patrizia, quella dei Fabii, potè intraprendere di propria iniziativa, col consenso del Senato, una spedizione di guerra contro la vicina città di Veio. Trecentosei Fabii sarebbero usciti e stati uccisi tutti in una imboscata; solo un ragazzo, sopravvissuto, ripropagò la gente.

Dieci genti formavano, come si è detto, una fratria, che chiamavasi curia ed aveva attribuzioni [168] pubbliche più importanti della fratria greca. Ogni curia aveva le sue pratiche religiose, i suoi santuari e i suoi preti speciali; l'insieme di questi ultimi formava uno dei Collegi del sacerdozio romano. Dieci curie formavano una tribù, che probabilmente, come le altre tribù latine, aveva in origine un capo eletto, duce dell'esercito e sommo sacerdote. Le tribù formavano il populus romanus.

Al popolo romano poteva quindi soltanto appartenere chi era membro di una gente, e con essa di una curia e di una tribù. La prima costituzione di questo popolo fu la seguente: Degli affari pubblici la immediata gestione spettava al Senato, il quale, come il Niebuhr ben notò per il primo, era composto dei capi delle trecento genti; appunto perchè gli anziani delle genti, essi si chiamavano «padri», patres, e la loro riunione «Senato» (Consiglio degli anziani, da senex, vecchio). La consuetudine di eleggerli sempre nella stessa famiglia di ogni gente, originò anche qui la prima nobiltà della tribù; queste famiglie si chiamarono patrizie e pretesero un esclusivo diritto al Senato e a tutte le altre cariche. Che col tempo il popolo abbia subita questa pretesa lasciandola così trasformarsi in un vero diritto, lo adombra la leggenda di Romolo attribuente ai primi senatori e ai loro discendenti il patriziato coi suoi privilegi. Il Senato, come la bulè ateniese, decideva su molti affari e aveva facoltà di proposta pei più importanti, sopratutto per le nuove leggi. Queste erano deliberate dall'assemblea popolare, cioè dai comitia curiata (assemblea delle curie). Il popolo si riuniva per curie, ogni curia probabilmente per genti; nella [169] decisione, ciascuna della trenta curie disponeva di un voto. L'assemblea delle curie accettava o rigettava tutte le leggi, eleggeva tutti i più alti funzionarii, compreso il rex (il cosiddetto re), dichiarava la guerra (ma il Senato conchiudeva la pace) e decideva come tribunale supremo, su appello degl'interessati, quante volte si trattava della pena di morte contro un cittadino romano. — Infine, allato al Senato e all'assemblea popolare, stava il rex, che corrispondeva esattamente al basileus greco, e non era affatto quel re quasi assoluto, che Mommsen ci rappresenta[20]. Esso era anche duce dell'esercito, sommo sacerdote e presidente di certi tribunali. Egli non aveva alcuna competenza civile, alcun potere sulla vita, sulla libertà e sulla proprietà dei cittadini, salvo non lo derivasse dal potere disciplinare di capo dell'esercito, o da quello di far eseguire come presidente le sentenze del tribunale. L'uffizio di rex non era ereditario; all'opposto, egli era prima eletto dai Comizi delle curie, probabilmente sopra proposta del suo predecessore in carica, e poi, in una seconda assemblea, solennemente insediato. Che potesse anche [170] venir deposto, lo dimostra la sorte di Tarquinio il superbo.

Come i Greci dei tempi eroici, così i Romani dell'epoca dei cosiddetti re, vivevano dunque in una democrazia militare, basata su genti, fratrie e tribù, e da esse sviluppatasi. Se anche le curie e le tribù erano in parte creazioni artificiali, esse erano però foggiate sui genuini primitivi tipi della società dalla quale scaturivano e che le circondava ancora da tutti i lati. E se anche la primitiva nobiltà patrizia aveva già guadagnato terreno e i reges tentavano di ampliare gradatamente le loro attribuzioni — ciò non cangia il carattere fondamentale originario della costituzione, ed è di questo solo che si tratta.

Intanto la popolazione di Roma, e del territorio romano ampliato colla conquista, aumentava, parte coll'immigrazione, parte cogli abitanti delle regioni assoggettate, per lo più latine. Tutti questi nuovi appartenenti allo Stato (noi lasciamo qui da banda la questione dei clienti) stavano fuori delle antiche genti, curie e tribù, non formavano quindi affatto parte del popolo romano propriamente detto. Erano personalmente liberi, potevano possedere fondi, dovevano pagare tributi e prestar servizio militare. Ma non potevano rivestire alcuna carica, non partecipavano all'assemblea delle curie, nè alla distribuzione dei terreni conquistati dallo Stato. Formavano la plebe, esclusa da tutti i diritti pubblici. Col loro numero sempre crescente, colla loro istruzione militare e col loro armamento, essi divennero una potenza minacciosa di fronte all'antico populus, ormai rigorosamente precluso ad ogni incremento [171] dal di fuori. Si aggiungeva che la proprietà fondiaria era stata ripartita, pare, supergiù egualmente tra popolo e plebe, mentre la ricchezza commerciale e industriale, che certamente non era ancora molto sviluppata, apparteneva per la massima parte alla plebe.

Nella grande oscurità, in cui è avvolta tutta la tradizionale storia delle origini di Roma — oscurità fatta ancora molto più densa dai racconti e dai tentativi di spiegazione prammatico-razionalisti di successivi indagatori delle fonti educati al criterio giuridico — nulla si può precisare nè sul tempo, nè sul processo, nè sull'occasione della rivoluzione che pose fine all'antica costituzione gentile. Certo è solo, che ne furono causa le lotte tra plebe e popolo.

La nuova costituzione, attribuita al re Servio Tullio, tracciata su modelli greci, sopratutto su quella di Solone, creò una nuova assemblea popolare, che includeva o escludeva popolo e plebei indistintamente, secondo che prestassero o no servizio militare. Tutti gli uomini soggetti alle armi furono distribuiti, secondo la loro fortuna, in cinque classi. La proprietà minimum per ciascuna di queste classi era: 1.ª 100,000 assi; II.ª, 75,000; III.ª 50,000; IV.ª 25,000; V.ª 11,000 assi; pari, secondo Dureau de la Malie, a circa L. 17,500, 13,125, 8750, 4500 e 1962. La sesta classe, quella dei proletarii, consisteva dei meno fortunati, esenti da servizio militare e da tasse. Nella nuova assemblea popolare delle centurie (Comitia centuriata) i cittadini si schieravano militarmente nelle loro centurie, per compagnie di 100 uomini, e ogni centuria aveva un voto. [172] Ma la prima classe dava 80 centurie; la seconda 22; la terza 20; la quarta 22; la quinta 30; la sesta non ne dava che una, per decenza. Venivano poi i cavalieri, comprendenti i più ricchi, con 18 centurie. In totale 193; maggioranza dei voti 97. Ora i cavalieri e la prima classe avevano insieme, solo essi, 98 voti, cioè la maggioranza; se costoro erano d'accordo, la decisione definitiva era presa, senza che gli altri venissero neanche interrogati.

A questa nuova assemblea delle centurie passarono tutti i diritti politici dell'antica assemblea delle curie (eccetto alcuni puramente nominali); le curie e le genti che le componevano furono con ciò degradate, come in Atene, a semplici società private e religiose, e come tali vegetarono ancora a lungo, mentre l'assemblea delle curie anneghittì ben tosto completamente. Per cacciare dallo Stato anche le antiche tre tribù di famiglie, vennero introdotte quattro tribù locali, con una serie di diritti politici, ciascuna delle quali abitava un quartiere della Città.

Così anche in Roma, prima ancora dell'abolizione della cosiddetta monarchia, l'antico ordinamento sociale fondato su vincoli personali di sangue fu distrutto e gli subentrò una vera costituzione di Stato, basata sulla divisione del territorio e sulla differenza delle fortune. Il potere pubblico risiedette nella cittadinanza soggetta al servizio militare, di fronte non solo agli schiavi, ma altresì ai cosiddetti proletarii, esclusi dal servizio militare e dal maneggio delle armi.

Entro questa nuova costituzione — cui la cacciata dell'ultimo re, Tarquinio il superbo, che aveva usurpato [173] un vero potere reale, e la sua sostituzione con due duci di eserciti (Consoli) muniti di eguale potere (come fra gli Irocchesi), non diede che un maggiore sviluppo — entro questa costituzione si muove tutta la storia della Repubblica romana, con tutte le sue lotte dei patrizii e dei plebei per l'accesso alle cariche e per la partecipazione all'agro pubblico, e col definitivo sparire della nobiltà patrizia nella nuova classe dei grandi proprietari terrieri e finanziarii, che mano mano assorbirono tutta la proprietà fondiaria dei contadini rovinati dal servizio militare, fecero coltivare dagli schiavi gli enormi latifondi così formati, spopolarono l'Italia, e aprirono con ciò le porte non solo all'Impero, ma ben anche ai suoi successori, i barbari Germani.

[174]

VII. La Gente presso i Celti e presso i Germani.

Lo spazio non ci consente di addentrarci nelle istituzioni gentili tuttora esistenti, in forma più o meno schietta, fra le più diverse popolazioni selvaggie e barbare, nè di seguirne le traccie nelle storie primitive dei più o meno inciviliti popoli dell'Asia. Le une o le altre si trovano dappertutto. Eccone due soli esempi: Prima ancora che fosse ben conosciuta la gente, l'uomo che più si sforzò di fraintenderla, Mac Lennan, l'ha dimostrata e l'ha descritta esattamente presso i Calmucchi, i Circassi, i Samoiedi, e presso tre popoli dell'India: i Warali, i Magari e i Munnipuri. Recentemente M. Kovalevsky l'ha scoperta e descritta presso gli Psciavi, gli Scevsuri, gli Svaneti ed altre tribù del Caucaso. Qui non diamo che alcune brevi notizie sulla gente, quale la troviamo fra i Celti ed i Germani.

Le più antiche leggi celte di cui abbiamo notizia ci mostrano la gente ancora in pieno vigore; nella Irlanda essa vive, almeno istintivamente, nella coscienza popolare ancor oggi, dopo che gl'inglesi [175] l'hanno violentemente distrutta; nella Scozia essa era ancora in tutto il suo fiore alla metà del secolo scorso, e anche là non soggiacque che alle armi, alla legislazione e ai tribunali inglesi.

Le leggi dell'antica Galles, scritte parecchi secoli prima della conquista inglese e al più tardi nell'undecimo secolo, mostrano ancora l'agricoltura comune in interi villaggi, benchè solo come avanzo eccezionale di un costume generale del passato; ciascuna famiglia aveva cinque acri per sè, oltre a ciò un campo veniva coltivato in comune e se ne ripartiva il prodotto. L'analogia coll'Irlanda e colla Scozia non lascia dubbio che queste comunità di villaggio rappresentavano o genti o suddivisioni di genti, quand'anche un nuovo esame delle leggi del paese di Galles, pel quale mi manca il tempo (i miei estratti sono del 1869), non dovesse provarlo più esattamente. Ma ciò che le fonti della Galles, e con esse le irlandesi, provano direttamente, è che fra i Celti la famiglia sindiasmica, nell'undecimo secolo, non era ancora stata affatto soppiantata dalla monogamia. Nella Galles un matrimonio non diveniva indissolubile, o tale, per dir meglio, che non si potesse più disdire, se non dopo sette anni. Se mancavano tre sole notti ai sette anni, gli sposi potevano divorziare. Allora si spartiva la roba; la donna divideva, l'uomo sceglieva la sua parte. I mobili venivano ripartiti giusta certe regole molto umoristiche. Se era l'uomo che scioglieva il matrimonio, egli doveva rendere alla donna la sua dote e qualcosa in più; se era la donna, essa riceveva meno. Dei figli, due restavano all'uomo, uno, quello di età mediana, alla [176] donna. Se la donna, dopo la separazione, prendeva un altro uomo, e il primo marito la reclamava di nuovo, essa doveva seguirlo, anche se avesse già un piede nel nuovo talamo. Ma se i due avevano convissuto sette anni, erano marito e moglie anche senza la formalità delle nozze. La castità delle ragazze prima del matrimonio non era punto rigorosamente custodita o richiesta; le norme vigenti in proposito erano estremamente frivole e punto rispondenti alla morale borghese. Se una moglie commetteva adulterio, il marito poteva bastonarla (era questo uno dei tre casi, nei quali ciò gli era concesso; negli altri casi incorreva in una pena), ma non gli era permesso poi di chiedere altro risarcimento, perciocchè «per lo stesso fallo vi deve essere o espiazione o vendetta, ma non le due cose insieme». I motivi pei quali la donna poteva chiedere il divorzio, senza perdere con ciò alcuno dei suoi diritti, erano molto larghi: bastava che il marito avesse l'alito cattivo. Il riscatto in denaro da pagarsi al capo o re della tribù pel diritto della prima notte (gobr merch, donde il nome medioevale marcheta, in francese marquette), tiene una gran parte nel libro delle leggi. Se aggiungeremo, che è dimostrata in Irlanda l'esistenza di rapporti analoghi; che anche ivi erano molto in uso i matrimonii temporanei, e che alla donna, in caso di separazione, erano guarentiti grandi vantaggi, e regolati nel modo più coscienzioso, perfino un indennizzo pei servigi domestici resi, che ivi a una «prima moglie» se ne trovano accanto delle altre, e nella ripartizione delle eredità non è fatta differenza tra figli legittimi ed illegittimi — noi avremo [177] del connubio sindiasmico un quadro, di fronte al quale appare severa la forma di connubio in vigore nell'America del Nord, ma tale che non può recar meraviglia nell'undecimo secolo in un popolo, che al tempo di Cesare viveva ancora col connubio per gruppi.

La gente irlandese (sept; la tribù chiamavasi clainne, clan) non è solo constatata e descritta dagli antichi libri di diritto, ma anche dai giuristi inglesi del secolo XVII inviati colà per la trasformazione del territorio dei clans in demanio del re inglese. Il suolo era rimasto sino allora proprietà comune del clan o della gente, in quanto non fosse stato già trasformato dai capi in loro demanio privato. Se moriva un compagno gentile, e per conseguenza cessava una economia domestica, il capo (i giuristi inglesi lo chiamavano caput cognationis) faceva una nuova distribuzione di tutto il territorio fra le restanti famiglie. In generale questa distribuzione dev'essersi fatta giusta le norme vigenti in Germania. Ancor oggi le campagne di alcuni villaggi — che quaranta o cinquant'anni fa erano molto numerosi — formano il cosiddetto rundale. I contadini, fittaiuoli particolari del terreno, che una volta era comune alla gente e che poi fu rubato dal conquistatore inglese, pagano ciascuno il proprio fitto, ma riuniscono tutti i lotti di campo e di prato e, secondo la posizione e la qualità, li ridividono in Gewanne, come si dice sulla Mosella, e danno a ciascuno la sua parte in ogni Gewann; il terreno paludoso e i pascoli sono sfruttati in comune. Ancora cinque anni fa si rifaceva il riparto di tempo in tempo, e in molti luoghi annualmente. [178] La carta topografica di un villaggio-rundale rispecchia quelle delle borgate tedesche della Mosella o dell'Hochwald. La gente sopravvive anche nelle «fazioni». I contadini irlandesi si dividono spesso in partiti che, sembrando fondati sopra divergenze assurde o prive di senso, sono affatto inesplicabili per gli Inglesi, e pare non abbiano altro scopo che le popolari solenni zuffe di una fazione contro l'altra. Sono artificiali reviviscenze, sostitutivi postumi delle genti distrutte, che mostrano a modo loro la persistenza degli istinti gentili ereditati. Per altro in molte contrade i compagni gentili stanno ancora insieme a un dipresso sull'antico territorio; così, ancor dopo il 1830, la grande maggioranza degli abitanti della contea di Monaghan non aveva che quattro nomi di famiglie, discendeva cioè da quattro genti o clans[21].

[179]

Nella Scozia il tramonto dell'ordinamento gentile data dalla sconfitta della sollevazione del 1745. Quale anello di quest'ordinamento rappresenti specialmente il clan scozzese, è ancora da indagare; ma che esso ne sia uno, è indubitato. Nei romanzi di Walter Scott noi ci vediamo dinanzi vivente questo clan dell'alta Scozia. Esso è, dice Morgan, «un perfetto modello della gente nella sua organizzazione e nel suo spirito, un esempio evidente della dominazione della vita gentilizia sui gentili... Nelle loro guerre e nelle loro vendette, nella distribuzione del territorio per clans, nello sfruttamento in comune del terreno, nella fedeltà dei membri del clan verso il capo e tra loro, noi ritroviamo dappertutto i tratti della società gentile... La discendenza seguiva il diritto paterno, sicchè i figli degli uomini rimanevano nel clan, quelli delle donne passavano al clan del padre». Ma che nella Scozia regnasse un tempo il diritto materno, lo prova il fatto che, nella famiglia reale dei Picti, secondo Beda, vigeva la successione in linea femminile. Anzi, un tratto della famiglia punalua erasi conservato, come negli abitanti del paese di Galles, così anche fra gli Scozzesi, sin nel medio-evo, ed era il diritto della prima notte, che il capo del clan o il re, quale ultimo rappresentante dei mariti comuni d'un tempo, era autorizzato ad esercitare su ogni sposa, se quel diritto non veniva riscattato con una somma di denaro.


È cosa certa che i Germani, sino alla invasione dell'Impero romano, erano organizzati in genti. [180] Essi debbono aver occupato il territorio tra il Danubio, il Reno, la Vistola e il mare del Nord solo pochi secoli prima della nostra êra; i Cimbri e i Teutoni erano ancora in piena migrazione e gli Svevi non trovarono sedi fisse che al tempo di Cesare. Di essi Cesare dice esplicitamente che si erano stabiliti per genti e per parentele (gentibus cognationibusque), e in bocca di un Romano della gente Giulia questa parola «gentibus» ha un significato preciso che non si cancella coi sofismi. Ciò poteva dirsi di tutti i Germani; perfino la colonizzazione nelle provincie romane conquistate pare siasi fatta per genti. Nel diritto nazionale alemanno è confermato che il popolo si stabilì per genti (genealogiae), sul terreno conquistato al sud del Danubio, e la parola genealogia viene adoperata nell'identico senso, come più tardi comunità di marca o di villaggio[22]. Kovalevsky sostenne di recente che queste genealogiae fossero le grandi comunità domestiche, tra le quali era distribuito il terreno, e dalle quali svilupparonsi poi le comunità di villaggio. [181] Lo stesso potrebbe dirsi della fara, con che i Burgundi e i Longobardi — cioè una stirpe gotica e una stirpe erminonica o alto-tedesca — designavano a un dipresso, se non precisamente, quello stesso che il libro delle leggi alemanne con la parola genealogia. È il caso d'indagare più da vicino di che cosa — se gente o comunità domestica — effettivamente si tratti.

I monumenti linguistici non risolvono il dubbio se tutti i Germani avessero un'espressione comune per designare la gente, e quale essa fosse. Etimologicamente la parola corrisponde al greco genos, al latino gens, al gotico kuni, all'alto-tedesco mediano künne, ed è anche usata nel medesimo senso. Ciò che ci richiama ai tempi del diritto materno, è che il nome, che serve a indicare la donna, proviene dalla stessa radice: greco gyne, slavo zena, gotico qvino, vecchio norvegese kona, kuna. Presso i Longobardi e i Burgundi troviamo, come si è detto, fara, che Grimm deriva da una radice ipotetica, fisan, generare. A me parrebbe più evidente la derivazione da faran, migrare, viaggiare, come designazione di una sezione fissa di emigranti, la quale, è quasi sottinteso, si componeva di parenti; tale designazione, nel corso di parecchi secoli di migrazione, prima verso l'Est, poi verso l'Ovest, sarebbe venuta naturalmente e a poco a poco a indicare tutta una comunità del medesimo ceppo. Vi è inoltre il gotico sibja, in anglosassone sib, nel vecchio alto-tedesco sippia, sippa: parente. Nell'antico norvegese non se ne trova che il plurale sifjar, i parenti; il singolare non si usava che come nome di una dea, Sif. — E finalmente troviamo un'altra [182] espressione nella canzone d'Ildebrando, dove Ildebrando chiede ad Adubrando «quale fra gli uomini di quel popolo fosse suo padre.... o di quale schiatta sei tu» (eddo huêlihhes cnuosles du sis). Finchè vi fu un nome alemanno comune per la gente, questo dev'essere stato il gotico kuni, e ciò non solo per l'identità con la corrispondente espressione delle lingue sorelle, ma anche pel fatto che da esso deriva la parola kuning, re, che in origine significa il capo d'una gente o d'una tribù. La parola sibja, parente, non sembra che c'entri: almeno perchè sifjar nel vecchio norvegese significa non solo consanguinei ma anche cognati, e abbraccia quindi i membri di almeno due genti; sif non può quindi essere stato l'equivalente di gente.

Come fra i Messicani e fra i Greci, anche fra i Germani l'ordine di battaglia, tanto dello squadrone di cavalleria quanto della colonna a cuneo della fanteria, veniva disposto per corporazioni gentili. Se Tacito dice: per famiglie e per parentele, questa espressione indeterminata si spiega col fatto che, all'epoca sua, la gente aveva cessato da un pezzo di essere in Roma un'associazione vivente.

È decisivo un passo di Tacito nel quale è detto: il fratello della madre considera i suoi nipoti come suoi figli, anzi alcuni ritengono il vincolo di sangue tra zio materno e nipote ancora più sacro e più stretto che quello tra padre e figlio, sicchè, quando richiedonsi ostaggi, il figlio della sorella è tenuto per una garenzia maggiore che non il proprio figlio di colui che si vuol vincolare. — Qui noi abbiamo un tratto vivente della gente organizzata giusta il diritto materno, cioè primitiva, e ci è dato come [183] qualche cosa di particolarmente caratteristico ai Germani[23]. Se un compagno di una tale gente dava il proprio figlio in pegno di una promessa e lo lasciava cader vittima della violazione del patto, egli non dovea risponderne che a sè stesso. Ma se il sacrificato era il figlio della sorella, era violato il più sacro dei diritti gentili; il più prossimo parente gentile, cui spettava prima che ad ogni altro la difesa del fanciullo o dell'adolescente, era colpevole della sua morte; egli o non doveva darlo come ostaggio o doveva osservare il contratto. Se non avessimo alcun'altra traccia di costituzione gentile presso i Germani, questo solo passo basterebbe.

Ma ancor più decisivo, perchè posteriore di circa otto secoli, è un passo del canto vecchio-norvegese sul crepuscolo degli dei e sulla fine del mondo, la Völuspâ. In questa «visione della profetessa», in cui, com'è ora dimostrato da Bang e Bugge, sono intrecciati anche elementi cristiani, si dice, descrivendo [184] il tempo della corruzione e della depravazione generale che prepara la grande catastrofe:

Broedhr munu berjask ok at bönum verdask

munu SYSTRUNGAR sifjum spilla.

«I fratelli si combatteranno e si assassineranno a vicenda, e i figli delle sorelle romperanno la parentela». Systrungar sono i figli della sorella della madre, e che questi rinneghino la loro consanguineità appare al poeta un delitto ancora più grave dell'assassinio del fratello. La maggior gravità deriva dal systrungar, che indica la parentela dal lato materno; se invece di questa parola, vi fosse syskina-börn o syskina synir, figli di fratelli e sorelle (cugini in genere)[24], la seconda linea di fronte alla prima non significherebbe aggravamento, ma attenuazione del delitto. Quindi, anche al tempo dei Vikinghi, quando nacque la Völuspâ, non era ancora cancellato in Scandinavia il ricordo del diritto materno.

Del resto, il diritto materno, al tempo di Tacito, almeno fra quei Germani che gli erano più noti, aveva ceduto il posto al diritto paterno; i figli ereditavano dal padre; se non c'erano figli, ereditavano i fratelli e gli zii paterni e materni. L'ammissione del fratello della madre all'eredità si connette col perdurare del costume testè ricordato e prova essa pure quanto fosse di origine recente il [185] diritto paterno fra i Germani. Sino in pieno medioevo si ritrovano traccie di diritto materno. Pare che anche allora non vi fosse ancora molta fiducia nella paternità, sopratutto fra i servi; così, se un signore feudale d'una città reclamava un servo fuggito, la qualità di servo nel fuggitivo, per esempio ad Augusta, a Basilea e a Kaiserslautern, doveva venir giurata da sei dei suoi più prossimi consanguinei, e questi esclusivamente dal lato materno. (Maurer, Städteverfassung, I.º, pag. 381).

Un altro avanzo del diritto materno appena estinto, ce lo mostra il rispetto dei Germani pel sesso femminile, quasi incomprensibile ai Romani. Donzelle di nobile famiglia erano, nei trattati coi Germani, i più sicuri ostaggi; il pensiero che le loro mogli e figliuole potessero cadere in prigionia o in ischiavitù era terribile per essi e stimolava più di ogni altro il loro coraggio in battaglia; essi vedevano nella donna qualche cosa di sacro e di profetico, ne ascoltavano il consiglio anche nei frangenti più gravi; così Veleda, la sacerdotessa dei Brutteri sul fiume Lippe, fu l'anima di tutta quella sollevazione dei Batavi, nella quale Civile, alla testa dei Germani e dei Belgi, scosse tutta la dominazione romana nelle Gallie. In casa, la supremazia delle donne sembra incontestata; esse, i vecchi e i fanciulli, debbono, è vero, attendere ad ogni lavoro; l'uomo caccia, beve o poltrisce. Lo dice Tacito, ma poichè egli non dice chi coltivasse il campo, e dichiara formalmente che gli schiavi non prestavano altro che un tributo, senza lavori servili, la massa degli uomini adulti avrà ben dovuto fare almeno il poco lavoro, che l'agricoltura richiedeva.

[186]

La forma del matrimonio era, come già si è detto, un connubio sindiasmico che mano mano si avvicinava alla monogamia. Non era ancora la stretta monogamia, perchè la poligamia era permessa ai notabili. In generale si teneva severamente alla castità delle fanciulle (all'opposto dei Celti) e Tacito parla altresì con un calore particolare della inviolabilità del vincolo coniugale fra i Germani. Solo l'adulterio della donna egli indica quale motivo di divorzio. Ma il suo racconto lascia qui molte lacune e tradisce troppo l'intenzione di proporre un esempio di virtù ai dissoluti Romani. Invero: se i Germani erano, nelle loro foreste, così eccezionali cavalieri di onestà, come mai bastò il più piccolo contatto col mondo esteriore per farli scendere al livello medio della restante umanità europea? L'ultima traccia della loro severità di costumi svanì, tra i Romani, ancor più presto del loro linguaggio. Leggasi solo Gregorio di Tours. Che nelle antiche foreste germaniche non potesse esistere il raffinato eccesso di sensualità che regnava in Roma, s'intende da sè, e così resta ai Germani, anche sotto questo rapporto, un sufficiente vantaggio in confronto al mondo romano, senza bisogno di attribuir loro un'astinenza sessuale, che non esistì mai, in verun luogo, presso un intero popolo.

Dalla costituzione gentile provenne il dovere di ereditare le inimicizie come le amicizie del padre o dei parenti; così pure la «composizione», sostituita alla vendetta, per l'omicidio o per le offese. Questa «composizione», che, soltanto una generazione fa, era ancora considerata come una specifica istituzione germanica, la si ritrova ora presso centinaia di [187] popoli come una forma mitigata ed universale della vendetta, derivante dall'ordinamento gentile. La troviamo, al pari dell'obbligo della ospitalità, tra gli altri, presso gli Indiani dell'America; la descrizione del come era praticata l'ospitalità, secondo Tacito (Germania, cap. 21), è quasi la stessa, sino nei minuti particolari, che Morgan ci dà dei suoi Indiani.

La disputa calorosa ed interminabile, se i Germani di Tacito avessero già definitivamente distribuito l'agro lavorato, e come debbansi interpretare i relativi passi, appartiene ora al passato. Dacchè presso tutti i popoli fu dimostrata la coltivazione in comune dei campi fatta dalla gente, e in seguito da comunistiche associazioni di famiglie, che Cesare constata ancora fra gli Svevi, e più tardi l'assegnazione dei campi a famiglie particolari con redistribuzioni periodiche; dacchè fu stabilito che queste redistribuzioni periodiche dell'agro lavorato si conservarono quà e là fino ai nostri giorni nella stessa Germania, non è il caso di spendervi intorno altre parole. Se dall'agricoltura in comune, che Cesare attribuisce esplicitamente agli Svevi (presso di essi, dice egli, non vi erano terreni ripartiti o terreni privati), i Germani, nei 150 anni corsi sino a Tacito, erano passati alla coltivazione particolare con redistribuzione annua del terreno, è questo in verità progresso sufficiente; il passaggio da quello stadio alla piena proprietà privata dei terreni, in così breve intervallo e senza estranee ingerenze, implicherebbe semplicemente l'impossibile. Per conseguenza, io leggo in Tacito solo quello che egli seccamente dice: essi si scambiano (o redistribuiscono) [188] ogni anno il terreno coltivato, e sopravvanza ancora un vasto spazio di terreno comune. È lo stadio dell'agricoltura e dell'appropriazione del terreno, che corrisponde esattamente alla costituzione dei Germani d'allora.

Lascio inalterato il brano precedente, quale sta nelle precedenti edizioni, sebbene la questione nel frattempo abbia assunto un altro aspetto. Dopochè Kovalevsky ha dimostrato (veggasi più sopra a pag. 73) l'esistenza di una comunità domestica patriarcale, molto se non universalmente diffusa, che avrebbe formato lo stadio intermedio tra la famiglia comunistica a diritto materno e la famiglia isolata moderna, non si tratta più di discutere, come fanno ancora il Maurer e il Waitz, se la proprietà della terra fosse comune o privata, bensì qual fosse la forma della proprietà comune. Non vi è alcun dubbio che al tempo di Cesare, fra gli Svevi, non solo la proprietà era comune, ma anche la coltivazione si faceva in comune e per conto comune. Si potrà invece ancora discutere a lungo se l'unità economica fosse la gente o la comunità domestica, o un gruppo comunistico di parenti intermedio fra le due; o se pure i tre gruppi coesistessero, a seconda delle condizioni del terreno. Ma ora Kovalevsky sostiene che lo stato di cose descritto da Tacito presuppone non già la società della marca o del villaggio, ma la comunità domestica; e che solo da quest'ultima si sarebbe poi più tardi sviluppata la comunità di villaggio, per effetto dell'incremento della popolazione.

Posto ciò, le colonie dei Germani sul territorio da essi occupato al tempo dei Romani, come su [189] quello tolto più tardi ai Romani stessi, sarebbero state composte non di villaggi, ma di grandi comunità domestiche, abbraccianti parecchie generazioni, e le quali prendevano a coltivare proporzionate distese di territorio, e del terreno incolto circostante giovavansi come di marca in comune coi vicini. Se così è, il passo di Tacito sul cangiamento del terreno coltivato dovrebbesi intendere effettivamente in senso agronomico: che cioè la comunità coltivava ogni anno una distesa diversa, lasciando a maggese o addirittura lasciando di nuovo inselvatichire il campo lavorato nell'anno antecedente. Stante la scarsezza della popolazione, rimaneva allora sempre abbastanza terreno incolto, per rendere inutile ogni contesa pel possesso terriero. Solo dopo secoli, allorchè il numero dei membri della comunità domestica fu tanto aumentato, che diventò impossibile, nelle condizioni della produzione di quel tempo, la economia in comune, essi si sarebbero sciolti, e i campi e i prati già comuni sarebbero stati ripartiti, nei noti modi, fra le economie domestiche individuali, che oramai si venivano formando, dapprima temporaneamente, e poi definitivamente, mentre i boschi, i pascoli e le acque rimasero comuni.

Questo processo evolutivo sembra essere storicamente dimostrato per la Russia. Per quanto riguarda l'Allemagna e, in seconda linea, gli altri paesi germanici, è innegabile che questa ipotesi spiega meglio le fonti sotto molti rapporti, e risolve le difficoltà più facilmente che non l'altra finora adottata, che faceva risalire fino a Tacito le comunità di villaggio. I più antichi documenti, quelli, [190] ad esempio, del Codex Laureshamensis, si spiegano in complesso assai meglio mercè la comunità domestica che non colla comunità di marca e di villaggio. La nuova ipotesi, d'altro canto, schiude, a sua volta, il varco a nuove difficoltà e a nuove questioni, che dovranno venir risolute. Solo nuove indagini potranno essere decisive; ma io non posso contestare che lo stadio intermedio della comunità domestica ha per sè moltissima probabilità anche per la Germania, per la Scandinavia e per l'Inghilterra.

Mentre ai tempi di Cesare i Germani hanno appena fissato stabili residenze e in parte ne vanno ancora in traccia, ai tempi di Tacito essi hanno già dietro di sè un intero secolo di stabilità; ed è innegabile un corrispondente progresso nella produzione dei mezzi di sussistenza. Abitano in case di tronchi; le loro vesti tengono ancora assai della primitiva selvatichezza boschereccia; un grossolano manto di lana, pelli di animali, e, per le donne e le persone più ragguardevoli, sottovesti di lino. Son loro alimenti latte, carne, frutti selvatici, e, aggiunge Plinio, polenta di avena (ch'è ancora oggi il piatto nazionale celtico nell'Irlanda e nella Scozia). La loro ricchezza consiste in bestiame, ma questo è di cattiva razza; i buoi, piccoli, miseri, senza corna; i cavalli, piccoli poneys e non da corsa. Il denaro era raro e poco usato, e soltanto romano. Non lavoravano nè apprezzavano l'oro e l'argento; il ferro era raro, e, almeno nelle tribù sul Reno e sul Danubio, quasi soltanto, a quanto pare, importato, non procurato da loro. La scrittura runica (imitata da caratteri greci o latini) esisteva soltanto [191] come scrittura segreta e non veniva adoperata che a magie religiose. I sacrifizii umani erano ancora in uso. Insomma, abbiamo qui un popolo elevatosi allora allora dallo stadio medio al superiore della barbarie. Ma, mentre alle tribù confinanti immediatamente coi Romani la facile importazione dei prodotti dell'industria romana impediva lo sviluppo di una industria tessile e metallurgica indipendente, se ne formava una indubbiamente al nord-est, sul Baltico. I pezzi di armatura trovati nelle paludi dello Schleswig — lunga spada di ferro, giaco di maglie, elmo d'argento, ecc., con monete romane della fine del secondo secolo — e gli oggetti in metallo di fabbricazione germanica diffusi colla migrazione dei popoli, rivelano un tipo affatto proprio e già assai sviluppato, anche dove si accostano a modelli originariamente romani. L'immigrazione nell'Impero romano incivilito pose termine dappertutto a questa industria indigena, eccetto in Inghilterra. Con quanta unità di tipo si fosse formata e avesse progredito questa industria, lo mostrano, ad esempio, i fermagli di bronzo; quelli trovati in Borgogna, in Romania e sul mar d'Azof, potrebbero essere usciti dalla stessa officina che allestì gli inglesi e gli svedesi e sono tutti senza dubbio d'origine germanica.

Anche la costituzione corrisponde allo stadio superiore della Barbarie. In generale esisteva, secondo Tacito, il Consiglio dei capi (principes) che decideva negli affari di minor conto, ma apparecchiava i più importanti per la decisione dell'assemblea del popolo; questa esiste anche nello stadio inferiore della Barbarie, almeno là dove noi la conosciamo, [192] fra gli Americani, ma solo per la gente, non ancora per la tribù o per la federazione di tribù. I capi (principes) si distinguono ancora nettamente dai duci di guerra (duces), precisamente come fra gli Irocchesi. I primi vivono già in gran parte dei donativi d'onore, in bestiame, grano, ecc., recati dai compagni della tribù; essi vengono eletti, come in America, per lo più dal seno della stessa famiglia; il passaggio al diritto paterno favorisce, come in Grecia ed in Roma, la graduale trasformazione dell'elezione in eredità e con ciò la formazione di una famiglia di nobili in ogni gente. Questa antica cosiddetta nobiltà di tribù si perdette per la maggior parte durante la migrazione dei popoli o subito dopo. I duci degli eserciti venivano eletti, senza riguardo all'origine, solo per idoneità. Essi avevano poco potere e dovevano influire coll'esempio; lo speciale potere disciplinare dell'esercito è da Tacito chiaramente attribuito ai sacerdoti. L'effettivo potere risiedeva nell'assemblea del popolo. Il re o il capo della tribù presiede; il popolo decide — no: col mormorio; si: coll'acclamazione e con lo strepito delle armi. Essa è insieme assemblea giudiziaria; in essa si presentano e si giudicano le querele, essa pronunzia le sentenze di morte, e la morte è comminata solo per la codardia, pel tradimento del popolo e pei vizi contro natura. Anche nelle genti e in altre suddivisioni, la collettività giudica sotto la presidenza del capo, che, come in tutti i tribunali primitivi germanici, non poteva essere che il direttore del dibattito e l'interrogatore; arbitra fin dal principio e dappertutto era sempre, fra i Germani, la collettività.

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Sin dal tempo di Cesare si erano formate federazioni di tribù; in alcune c'era già il re; il supremo condottiero dell'esercito, come presso i Greci ed i Romani, aspirava già alla tirannide e talvolta l'otteneva. Tali fortunati usurpatori non erano punto padroni assoluti; nondimeno, cominciavano già a spezzare i vincoli della costituzione gentile. Mentre un tempo gli schiavi affrancati occupavano una posizione subordinata, perchè non potevano appartenere a nessuna gente, presso i nuovi monarchi tali favoriti pervenivano spesso ai gradi, alla ricchezza e agli onori. Lo stesso avvenne dopo la conquista dell'Impero romano fatta dai duci dell'esercito, divenuti allora re di vaste contrade. Presso i Franchi, gli schiavi e gli affrancati del re sostennero una gran parte, prima alla Corte, poi nello Stato; in gran parte la nuova nobiltà discese da essi.

Una istituzione favorì il sorgere della monarchia: le compagnie militari (comitati di Tacito). Già fra i Pellirosse americani vedemmo, come accanto alla costituzione gentile si formino di proprio moto associazioni private per fare la guerra. Queste associazioni private, presso i Germani, erano già divenute associazioni permanenti. Duci di eserciti, che si erano procacciata una fama, raccoglievano a sè d'intorno una schiera di giovani avidi di bottino, obbligati a personale fedeltà verso il duce, come egli verso di loro. Il duce li manteneva, faceva loro donativi, li ordinava gerarchicamente: una guardia del corpo e una schiera agguerrita per le piccole spedizioni, un corpo completo di uffiziali per le grandi. Per deboli che dovessero essere queste compagnie, quali anche ci appaiono più [194] tardi, per esempio in Italia con Odoacre, nondimeno esse formavano già il germe della rovina dell'antica libertà popolare e si dimostrarono tali durante e dopo le migrazioni. Poichè, in primo luogo esse favorirono il sorgere del potere regio. E, in secondo luogo, esse non potevano essere tenute assieme, come già nota Tacito, che dalle incessanti guerre e dalla continua rapina. Il bottino divenne scopo. Se il capo della compagnia non aveva da far nulla nelle vicinanze, egli traeva colla sua milizia presso altre popolazioni, dove eravi guerra e speranza di bottino; le truppe ausiliarie germaniche, che in gran copia combatterono sotto bandiere romane perfino contro Germani, erano in parte composte di siffatte compagnie. Era il primo embrione dei lanzichenecchi, onta e maledizione dei tedeschi. Dopo la conquista dell'Impero romano, queste compagnie del re, insieme ai servi e ai valletti di Corte romani, formarono il secondo principale elemento della futura nobiltà.

In generale, quindi, le tribù la cui federazione formava il popolo dei Germani, avevano la stessa costituzione che si era già sviluppata presso i Greci dei tempi eroici e presso i Romani della cosiddetta epoca dei re: l'assemblea del popolo, il Consiglio dei capi gentili, il duce dell'esercito, che già anelava a un effettivo potere reale. Era questa la costituzione più evoluta che potesse in generale scaturire dall'ordinamento gentile; e fu anche la costituzione modello dello stadio superiore della Barbarie. Quando la società varcò i limiti, entro i quali bastava questa costituzione, l'ordinamento gentile ebbe fine: esso fu distrutto, e lo Stato lo sostituì.

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VIII. La formazione dello Stato dei Germani.

Secondo Tacito, i Germani erano un popolo molto numeroso. In Cesare troviamo un ragguaglio approssimativo della forza dei singoli popoli tedeschi; egli fa ascendere gli Usipeti e i Tencteri, apparsi sulla riva sinistra del Reno, a 180,000, comprese le donne e i fanciulli. Quindi, per ciascun popolo, circa 100,000[25], che è già assai più degli Irocchesi, ad esempio, i quali, nel loro fiore, non superavano i 20,000, e furono il terrore dell'intera regione dai grandi laghi sino all'Ohio e al Potomac. Ciascuno di questi popoli, se noi ci proviamo ad aggruppare quelli stabilitisi nei pressi del Reno e che, per le relazioni pervenuteci, ci sono più noti, occupa sulla carta, all'incirca ed in media, lo spazio [196] di una provincia della Prussia, a un dipresso 10,000 chilometri quadrati o 182 miglia quadrate geografiche. Ma la Germania Magna dei Romani, sino alla Vistola, abbracciava in cifre tonde 500,000 chilometri quadrati. Data una media di 100,000 individui per ciascun popolo, il totale per la Germania Magna ammonterebbe a cinque milioni; il che è già molto per un gruppo di popoli barbari, mentre sarebbe pochissimo per popoli odierni, che contano 10 teste per chilometro quadrato, o 550 per ogni miglio quadrato geografico. Ma i Germani non finivano lì. Lungo i Carpazii, sino alle foci del Danubio, abitavano popoli tedeschi di stirpe gotica, i Bastarni, i Peukini ed altri, così numerosi che Plinio ne fa la quinta tribù principale dei Germani, e che, dopo aver servito, 180 anni avanti la nostra êra, quali mercenarii del re macedone Perseo, si spinsero, nei primi anni di Augusto, sino nella regione di Adrianopoli. Fossero solo un milione, avremmo, al principio della nostra era, un totale probabile di almeno sei milioni di Germani.

Presa dimora in Germania, la popolazione dovette crescere con rapidità accelerata: basterebbero a provarlo i progressi industriali testè menzionati. Gli oggetti trovati nelle paludi dello Schleswig, come si desume dalle monete romane che li accompagnavano, sono del terzo secolo. In quell'epoca esistevano quindi già sul Baltico un'industria tessile e un'industria metallurgica assai sviluppate, un attivo commercio coll'Impero romano e un certo lusso nei ricchi — tutte traccie di popolazione alquanto densa. Ma alla stessa epoca incomincia anche la guerra generale di aggressione dei Germani su [197] tutta la linea del Reno, sulla frontiera fortificata dei Romani e sul Danubio, dal Mare del Nord sino al Mar Nero — prova diretta d'una popolazione sempre crescente e che tende ad espandersi. Trecento anni durò la lotta, durante la quale tutta la tribù principale delle popolazioni gotiche (eccetto i Goti Scandinavi ed i Burgundi) trasse verso il Sud-est e formò l'ala sinistra della grande linea d'attacco, al centro della quale gli Alto-tedeschi (Erminoni) sul Danubio superiore, e alla cui ala destra gli Iskevoni (oggi Franchi) si spingevano sul Reno; agli Inghevoni toccò la conquista della Britannia. Alla fine del quinto secolo l'Impero romano giaceva snervato, dissanguato e impotente, aperto agli invasori Germani.

Eravamo pur dianzi alla culla dell'antica civiltà greca e romana. Eccoci al suo funerale. Su tutti i paesi del bacino del Mediterraneo era passata la pialla livellatrice della mondiale dominazione romana, e ciò per lunghi secoli. Dove non faceva resistenza il greco, tutti i linguaggi nazionali avevano dovuto cedere a un latino corrotto; non v'erano più differenze di nazionalità; non v'erano più Galli, Iberi, Liguri, Norici; tutti eran divenuti Romani. L'amministrazione romana e il diritto romano avevano sciolti dappertutto gli antichi aggruppamenti di schiatta, e distrutto con ciò l'ultimo avanzo di indipendenza locale e nazionale. La qualità di Romano conferita a tutti non offriva un compenso; essa non esprimeva una nazionalità, ma solo la mancanza di ogni nazionalità. Gli elementi di nuove nazioni esistevano dappertutto; i dialetti latini delle diverse provincie si differenziavano sempre più; i [198] confini naturali, che in passato avevano fatto territorii indipendenti l'Italia, la Gallia, la Spagna, l'Africa, esistevano e si sentivano ancora. Ma in nessun luogo esisteva la forza di aggruppare questi elementi in nuove nazioni; in niun luogo restava traccia di capacità di sviluppo, di forza di resistenza, e, meno ancora, di una forza creativa. L'immensa massa umana di quell'immenso dominio non aveva che un vincolo: lo Stato romano, e questo era divenuto col tempo il suo peggior nemico ed oppressore. Le provincie avevano annientata Roma; Roma stessa era divenuta una città di provincia come le altre — privilegiata, ma non più signora, non più centro dell'Impero mondiale, non più neppure sede degli imperatori e dei sotto-imperatori, che risiedevano a Costantinopoli, a Treviri, a Milano. La Stato romano era divenuto una gigantesca e complicata macchina, non ad altro diretta che a dissanguare i sudditi. Tributi, requisizioni e prestazioni forzate di lavoro riducevano la massa della popolazione in una povertà sempre più desolante; l'oppressione raggiunse l'insopportabile colle estorsioni dei governatori, dei percettori delle imposte, dei soldati. A questo era riuscito lo Stato romano col suo dominio universale: esso fondava il suo diritto all'esistenza sulla conservazione dell'ordine all'interno e sulla protezione contro i barbari all'estero; ma il suo ordine era peggiore del più tristo disordine, e i barbari, contro i quali esso pretendeva difendere i cittadini, venivano da questi invocati quali salvatori.

La situazione sociale non era meno disperata. Già dagli ultimi tempi della Repubblica la dominazione [199] romana era riuscita allo sfruttamento inconsiderato delle provincie conquistate; l'Impero non aveva abolito questo sfruttamento, al contrario lo aveva disciplinato. Quanto più l'Impero decadeva, tanto più crescevano tributi e prestazioni, tanto più spudoratamente i funzionari rubavano ed angariavano. Il commercio e l'industria non erano state mai il forte dei Romani, dominatori dei popoli; solo nell'usura essi hanno superato tutto ciò che si fece prima e dopo di loro. Quel tanto di commercio, che si era trovato e conservato, andò in rovina sotto le estorsioni dei funzionarii; quello che perdurò, riguardava la parte greca, orientale dell'Impero, che esorbita dal nostro quadro. Impoverimento generale, regresso del commercio, del mestiere, dell'arte, decremento della popolazione, decadenza delle città, ritorno dell'agricoltura ad uno stadio inferiore — questo fu il risultato finale della dominazione mondiale romana.

L'agricoltura, il principale ramo di produzione in tutto il mondo antico, era tale più che mai. In Italia gli immensi latifondi, sin dalla fine della Repubblica occupanti quasi tutto il territorio, erano stati utilizzati in due modi: o come pascoli, nei quali la popolazione era sostituita da pecore e da buoi, la cui custodia non richiedeva che pochi schiavi; o come ville, dove masse di schiavi esercitavano l'orticoltura in grande, in parte pel lusso del proprietario, in parte per lo smercio sui mercati delle città. I grandi pascoli si erano conservati ed anche estesi; le ville e la loro orticoltura erano rovinate coll'impoverimento dei loro possessori e colla decadenza delle città. La coltura dei [200] latifondi, fondata sul lavoro schiavo, non dava più profitto, ma essa era allora l'unica forma possibile di grande agricoltura. La piccola coltura era ridivenuta la sola forma rimuneratrice. Le ville furono frazionate, l'una dopo l'altra, in piccole parcelle, e concesse ad enfiteuti, che pagavano una data somma, o a parziarii, più fattori che fittaiuoli, che ricevevano il sesto o appena la nona parte dal prodotto annuo pel loro lavoro. Ma a preferenza questi piccoli spezzoni di campi erano concessi a coloni, che pagavano una data somma annua, che erano legati alla gleba e che potevano essere venduti con questa; essi non erano veri schiavi, ma neanche liberi, non potevano contrarre matrimonio con liberi, e i matrimonii tra loro non erano considerati come pienamente validi, ma, a guisa di quelli degli schiavi, come un semplice concubinato (contubernium). Erano i precursori dei servi del medio-evo.

L'antica schiavitù aveva fatto il suo tempo. Nè in campagna nella grande agricoltura, nè nelle manifatture delle città essa dava più un profitto rimuneratore — il mercato pei suoi prodotti non esisteva più. E la piccola agricoltura e il piccolo mestiere, a cui erasi ristretta la gigantesca produzione dei tempi floridi dell'Impero, non aveva posto per numerosi schiavi. Soltanto per gli schiavi domestici e di lusso dei ricchi c'era ancora posto nella società. Ma la morente schiavitù bastava ancora tuttavia a far apparire ogni lavoro produttivo un compito da schiavi, indegno di un libero Romano — e chi non lo era oramai? Quindi, da un lato, aumentavano le affrancazioni degli schiavi [201] superflui, divenuti un peso; dall'altro si moltiplicavano quà i coloni, là i liberi pezzenti (analoghi ai poor whites degli ex-Stati schiavisti d'America). Il Cristianesimo è affatto innocente del graduale estinguersi dell'antica schiavitù. Esso ha secondata la schiavitù per lunghi secoli nell'Impero romano, e in seguito non ha mai impedito ai cristiani il commercio degli schiavi, nè quello degli Alemanni nel Nord, nè quello dei Veneziani sul Mediterraneo, nè più tardi, la tratta dei negri[26]. La schiavitù cessò, perchè non dava più profitto. Ma la morente schiavitù lasciò dietro il suo venefico pungiglione, nella proscrizione del lavoro produttivo dei liberi. Questo il cul di sacco in cui s'era ficcato il mondo romano: la schiavitù era economicamente impossibile, il lavoro dei liberi era moralmente bandito. L'una non poteva più essere, l'altro non poteva essere ancora, la base della produzione sociale. Unico scampo, in simile caso, una rivoluzione completa.

La situazione non appariva migliore nelle provincie. A questo proposito è sulle Gallie che abbiamo i maggiori ragguagli. Ivi, allato ai coloni, c'erano ancora piccoli contadini liberi. Per guarentirsi dagli arbitrii dei funzionarii, dei giudici e degli usurai, essi si ponevano sovente sotto la protezione o il patronato di un potente; nè soltanto gli individui, ma intiere comunità, talchè gli Imperatori, nel quarto secolo, emanarono in proposito parecchi [202] divieti. Ma che giovava mai a coloro che cercavano protezione? Il padrone poneva loro la condizione di trasferire in testa sua la proprietà del loro fondo, e in ricambio glie ne assicurava l'usufrutto vita durante — gherminella che ben avvertì la santa Chiesa e che imitò bravamente, nel IX e nel X secolo, per l'incremento del regno di Dio e della proprietà terrena sua propria. Vero è che allora, verso l'anno 475, il vescovo Salviano di Marsiglia inveiva ancora contro simili ladronecci e narrava che l'oppressione dei funzionarii e dei grandi proprietarii terrieri romani era divenuta così grave, che molti «Romani» fuggivano nelle contrade già occupate dai Barbari, mentre i cittadini romani, che vi dimoravano, nulla temevano di più che di ritornare sotto il dominio romano. Che, in quel tempo, sovente, per povertà, dei genitori vendessero i loro figli come schiavi, lo dimostra una legge diretta ad infrenare quest'uso.

Per avere i barbari Germani liberato i Romani dal loro proprio Stato, tolsero loro due terzi di tutto il territorio e se lo divisero fra loro. La divisione si fece secondo la costituzione gentile; stante il numero relativamente piccolo dei conquistatori, grandissime zone rimasero indivise, e proprietà in parte di tutto il popolo, in parte delle singole tribù e genti. In ogni gente i campi e le praterie erano divisi in parti eguali e sorteggiati tra le singole famiglie; ignoriamo se, nei primi tempi avessero luogo divisioni periodiche; comunque, questo costume cessò bentosto nelle provincie romane, e le parti di ciascuno divennero proprietà privata alienabile, allodio. Il bosco e il pascolo restò indiviso [203] per l'uso comune; quest'uso, come il modo di coltivazione della campagna divisa, era regolato conforme all'antico costume e alle deliberazioni della collettività. Come più la gente stava fissa nel suo villaggio, e i Germani e i Romani a poco a poco si fondevano, tanto più il vincolo di parentela cedeva a quello meramente territoriale; la gente si perdeva nella associazione della marca, nella quale tuttavia si ritrovano bene spesso le traccie della originaria consanguineità dei compagni. Così la costituzione gentile, almeno nei paesi dove conservossi la comunità della marca — il Nord della Francia, l'Inghilterra, la Germania, la Scandinavia — si trasformò insensibilmente in una costituzione locale, diventando con ciò atta ad essere assorbita nello Stato. Ma essa serbò tuttavia il carattere democratico primitivo, proprio a tutta la costituzione gentile, e questo carattere, sopravvissuto anche nelle degenerazioni successive, fu un arme in mano degli oppressi, che li francheggiò insino ai tempi moderni.

Se dunque il vincolo del sangue si smarrì presto nella gente, ciò avvenne perchè, anche nella tribù e in tutto il popolo, i suoi organi degenerarono per effetto della conquista. Sudditanza e costituzione gentile sappiamo che sono incompatibili. Qui lo vediamo confermato su vasta scala. I popoli Germani, signori delle provincie romane, dovevano organizzare questa loro conquista. Ma nè si potevano accogliere le masse romane nei corpi gentili, nè dominarle col mezzo di questi. Alla testa dei corpi amministrativi locali romani, la più parte ancor vivi, conveniva porre qualcosa che sostituisse lo [204] Stato romano, e questo non poteva essere che un altro Stato. Gli organi della costituzione gentile dovevano quindi trasformarsi in organi di Stato, e ciò assai rapidamente, poichè le circostanze urgevano. Ma il rappresentante immediato del popolo conquistatore era il duce dell'esercito. La sicurezza interna ed esterna del territorio conquistato richiedeva il consolidamento del suo potere. Il momento era giunto per la trasformazione del comando militare in monarchia: essa si compì.

Prendiamo l'Impero dei Franchi. Quivi al popolo vittorioso dei Salii toccarono in pieno possesso non solo i vasti dominii dello Stato romano, ma altresì tutte le vastissime zone che, nelle maggiori e minori società di marca e di distretto, erano rimaste indivise, massime tutti i grandi territorii boscosi. La prima cosa che fece il re franco, di semplice comandante supremo divenuto un vero regnante, fu di tramutare questa proprietà pubblica in proprietà regia, rubarla al popolo e donarla o concederla al suo seguito. Questo seguito, originariamente composto della sua scorta personale da guerra e degli altri sotto-capi dell'esercito, si rafforzò presto non solo con Romani, cioè con Galli romanizzati, che, per la loro arte dello scrivere, per la loro coltura, per la loro conoscenza della lingua volgare romana e dell'idioma scritto latino, come pure del diritto del paese, bentosto gli divennero indispensabili, ma altresì con schiavi e con affrancati, che formavano la sua Corte e tra i quali egli sceglieva i suoi favoriti. A tutti costoro furono dapprima per lo più donati lotti di territorio pubblico, poi furono loro concessi sotto forma di benefizî, che da principio [205] per lo più duravano quanto la vita del re; fu così creata la base di una nuova nobiltà a spese del popolo.

Non basta. La vasta estensione dell'Impero non poteva governarsi coi mezzi dell'antica costituzione gentile; il Consiglio dei capi, se anche non fosse da lungo tempo cessato, non sarebbesi potuto riunire, e fu presto sostituito dal seguito permanente del re; l'antica assemblea del popolo si mantenne in apparenza, ma anch'essa divenne sempre più nient'altro che la riunione dei sotto-capi dell'esercito e dei grandi recentemente sorti. I contadini, liberi proprietarii del suolo, la massa del popolo franco, furono stremati e rovinati dalle eterne guerre civili e di conquista — queste ultime specialmente sotto Carlo Magno — quanto lo erano stati i contadini romani negli ultimi tempi della Repubblica. Essi, che avevano formato in origine tutto l'esercito, e dopo la conquista della Francia il nucleo di esso, in principio del nono secolo erano così impoveriti, che appena il quinto degli uomini poteva ancora servire. Alle leve di liberi contadini, bandite direttamente dal re, subentrò un esercito composto dei vassalli dei nuovi grandi, tra i quali anche contadini asserviti, discendenti di quelli, che prima non avevano conosciuto altro signore che il re, e ancor prima nessun signore affatto, neanche il re. Sotto i successori di Carlo, la rovina dei contadini franchi fu consumata dalle guerre interne, dall'indebolimento del potere regio e dalle corrispondenti usurpazioni dei grandi, ai quali si aggiunsero allora anche i Conti di distretto, istituiti da Carlo e aspiranti all'ereditarietà della carica; finalmente dalle [206] invasioni dei Normanni. Cinquant'anni dopo la morte di Carlo Magno l'Impero franco giaceva spossato ai piedi dei Normanni, così come, quattro secoli prima, l'Impero romano ai piedi dei Franchi.

E non solo l'impotenza all'estero, ma anche l'ordine o piuttosto il disordine sociale interno era quasi il medesimo. I liberi contadini franchi nulla ebbero da invidiare ai loro predecessori, i coloni romani. Rovinati dalle guerre e dai saccheggi, essi avevano dovuto porsi sotto la protezione dei nuovi grandi o della Chiesa, poichè il potere regio era troppo debole per proteggerli; ma questa protezione dovettero pagarla a caro prezzo. Come un tempo i contadini Galli, essi dovevano trasferire al protettore la proprietà del loro fondo e tornarlo a ricevere da lui come bene livellario, sotto forme diverse e mutevoli, ma sempre contro prestazione di servizii e pagamento di canoni; ridotti a questa forma di dipendenza, essi perdettero a poco a poco anche la libertà personale; dopo poche generazioni, la più parte erano già servi. Come presto tramontasse la libertà del contadino, lo dimostra il catasto di Irminone dell'abbazia di Saint-Germain-des-Près, allora presso ed ora entro Parigi. Sui vasti tenimenti di questa badìa, sparpagliati nei dintorni, risiedevano ancora, ai tempi di Carlo Magno, 2788 economie domestiche, quasi tutte franche con nomi tedeschi. Vi si contavano 2080 coloni, 35 liti, 220 schiavi e solo 8 liberi fittaiuoli! La pratica, dichiarata empia da Salviano, per la quale il protettore trasferiva in sua proprietà il fondo del contadino, e non glielo riconcedeva che in usufrutto, e solo sua vita durante, veniva ora [207] generalmente esercitata coi contadini dalla Chiesa. Le prestazioni obbligatorie di lavoro, che venivano sempre più in uso, avevano avuto il loro modello così nelle angarie romane, servizii coattivi per lo Stato, come nei lavori dei compagni di marca Germani per la costruzione di ponti e strade e per altri scopi di comune interesse. La massa della popolazione sembra dunque, dopo quattro secoli, tornata al suo punto di partenza.

Ma ciò non prova che due cose: primieramente, che il congegno sociale e la distribuzione della proprietà nel crollante Impero romano avevano pienamente corrisposto allo stadio della produzione d'allora nell'agricoltura e nell'industria, ossia erano stati inevitabili; e in secondo luogo, che cotesto stadio della produzione, durante i quattro secoli seguenti non avendo essenzialmente nè progredito nè regredito, aveva fatalmente riprodotta la stessa ripartizione della proprietà e le medesime classi della popolazione. La città, negli ultimi secoli dell'Impero romano, aveva perduta la sua antica dominazione sulla campagna, e non l'aveva riacquistata nei primi secoli della signoria germanica. Ciò presuppone un basso grado di sviluppo tanto dell'agricoltura quanto dell'industria. Questo insieme di condizioni produce necessariamente grandi proprietarii fondiarii dominanti e piccoli contadini dipendenti. Quanto fosse impossibile innestare in una tale società, da un lato, la romana cultura a schiavi dei latifondi, dall'altro, la più recente grande cultura con prestazioni obbligatorie di lavoro, lo provano i giganteschi esperimenti di Carlo Magno, colle famose ville imperiali, sparite senza quasi lasciar traccia. Essi non furono [208] continuati che da chiostri, e solo per questi furono fecondi; ma i chiostri erano corpi di società anormali, basati sul celibato; essi potevano bensì fare cose eccezionali, ma appunto perciò dovevano restare eccezioni.

Eppure del cammino se n'era fatto in questi quattro secoli. Se in principio e in fine troviamo su per giù le stesse classi principali, cangiati erano però gli uomini che le formavano. Sparita era l'antica schiavitù, spariti i liberi poveri cenciosi, che disprezzavano il lavoro come cosa da schiavi. Tra il colono romano e il nuovo servo, c'era stato il libero contadino franco. Il «vano ricordo e la sterile lotta» della romanità agonizzante erano morti e sotterrati. Le classi sociali del nono secolo si erano formate, non già nel pantano di una civiltà che si dissolve, ma nei dolori del parto di una nuova. La nuova generazione, così i signori come i servi, era una generazione di uomini, in paragone dei suoi predecessori romani. Il rapporto fra potenti signori fondiarii e contadini dipendenti, che era stato per questi la ineluttabile forma di rovina dell'antico mondo, fu ora per quelli il punto di partenza di una novella evoluzione. E poi, per improduttivi che sembrino, questi quattro secoli si lasciarono dietro un grande prodotto: le moderne nazionalità, la trasformazione e il nuovo assetto dell'umanità dell'Europa occidentale per la storia futura. I Germani avevano infatti rivivificata l'Europa, e perciò la dissoluzione degli Stati del periodo germanico non terminò colla soggiogazione normanno-saracena, bensì collo svolgersi dei beneficii e del vassallaggio per ottenere protezione (Kommendation) sino al feudalismo, e con un così grande incremento [209] della popolazione, che permise, due secoli dopo, di sopportare senza danno i forti salassi delle crociate.

Ma qual fu la misteriosa magìa con la quale i Germani infusero nuovo vigore alla morente Europa? Fu forse una innata malìa della razza germanica, come favoleggiano i nostri storici «sciovinisti?» Niente affatto. I Germani erano, particolarmente allora, una razza ariana fornita di alte doti, e in pieno sviluppo di vita. Ma non furono le loro qualità nazionali specifiche che hanno ringiovanito l'Europa, bensì semplicemente la loro barbarie: la loro costituzione gentile.

La loro capacità e il loro coraggio personale, il loro sentimento di libertà e il loro istinto democratico, pei quali in tutti gli affari pubblici ravvisavano un affare proprio, in breve, tutte le qualità che i Romani avevano perdute e che sole potevano dal fango del mondo romano modellar nuovi Stati e far crescere nuove nazionalità — che altro erano se non i tratti caratteristici del barbaro dello stadio superiore — frutti della sua costituzione gentile?

Se essi trasfigurarono l'antica forma della monogamia, se mitigarono il dominio dell'uomo nella famiglia, se diedero alla donna una posizione più elevata, ignota al mondo classico, che cosa mai ve li rese idonei, se non la loro barbarie, le loro consuetudini gentili, le loro qualità ancora vive, retaggio dei tempi del diritto materno?

Se, almeno in tre delle più importanti contrade, Germania, Nord della Francia e Inghilterra, salvarono un tratto di schietta costituzione gentile sotto forma di comunità della marca nello Stato feudale, e diedero con ciò alla classe oppressa, ai [210] contadini, anche nella più dura servitù medioevale, un appoggio locale e un mezzo di resistenza, quale non trovarono nè gli antichi schiavi, nè i moderni proletarii — a che si è dovuto, se non alla loro barbarie, al loro sistema esclusivamente barbarico di colonizzazione per stirpi?

E finalmente, se poterono sviluppare ed elevare a regola la forma più mite della servitù già praticata nella patria e nella quale si trasformò di più in più la stessa schiavitù dell'Impero romano; una forma, che, come primo notava il Fourier, dà agli asserviti i mezzi per una graduale emancipazione come classe (fournit aux cultivateurs des moyens d'affranchissement COLLECTIF et PROGRESSIF); una forma che perciò si eleva molto più alto della schiavitù, nella quale ultima non era possibile che la immediata liberazione dell'individuo senza transizione (l'antichità non offre esempî di abolizione della schiavitù per mezzo di ribellioni vittoriose) — mentre infatti i servi del medio-evo riuscirono a poco a poco alla loro emancipazione come classe — a che lo dobbiamo, se non alla loro barbarie, mercè la quale essi non erano ancora giunti a una schiavitù completa, nè all'antica schiavitù del lavoro, nè alla schiavitù domestica orientale?

Tutto quello, che i Germani infusero al mondo romano di robustezza e di vitalità, era barbarie. Infatti solo dei barbari sono capaci di ringiovanire un mondo travagliato da un'agonia di civiltà. E lo stadio superiore della Barbarie, al quale e nel quale i Germani avevano cercato di elevarsi prima della migrazione dei popoli, era il più favorevole per siffatto processo. Ciò spiega tutto.

[211]

IX. Barbarie ed Epoca civile.

Abbiamo seguito il dissolversi della costituzione gentile nei tre grandi esempii particolari dei Greci, dei Romani e dei Germani. Esaminiamo ora, per concludere, le condizioni economiche generali che minavano già l'organamento gentile della società nello stadio superiore della Barbarie, e che la distrussero completamente coll'avvento dell'Epoca civile. Qui il Capitale di Marx ci è tanto necessario quanto il libro di Morgan.

Sorta nello stadio medio e sviluppatasi nello stadio superiore dello stato selvaggio, la gente, per quanto le fonti ci permettono di giudicarne, raggiunse il suo fiore nello stadio inferiore della Barbarie. Cominciamo quindi da questo stadio di sviluppo.

Qui, dove i Pellirosse d'America devono servirci come esempio, la costituzione gentile è completamente elaborata. Una tribù si è scissa in parecchie genti, almeno in due; queste genti primitive, col crescere della popolazione, si suddividono ciascuna in parecchie genti figlie, di fronte alle quali la [212] gente madre appare come fratria; la stessa tribù si divide in parecchie tribù, in ciascuna delle quali ritroviamo in gran parte le antiche genti; talora le tribù parenti sono federate. Questo semplice organamento basta perfettamente alle condizioni sociali onde è derivato. Esso non è altro che il loro proprio aggruppamento naturale, ed è in grado di dirimere tutti i conflitti, che possono sorgere in una società così organata. All'estero li dirime la guerra; essa può terminare colla distruzione della tribù, giammai colla sua soggiogazione. Il grandioso, ma anche il lato debole della costituzione gentile, è che essa non ha posto per signoria e per servitù. All'interno non c'è alcuna differenza fra diritti e doveri; il problema, se la partecipazione agli affari pubblici, la vendetta o la «composizione» siano un diritto o un dovere, non esiste per l'Indiano; esso gli sembrerebbe tanto assurdo quanto il chiedere se il mangiare, il dormire, il far la caccia siano un diritto o un dovere. Non meno inconcepibile è una divisione della tribù e della gente in differenti classi. E ciò ne conduce all'esame della base economica di tale stato di cose.

La popolazione è estremamente rada; addensata solo alla residenza della tribù, intorno alla quale si stende in vasto cerchio prima il territorio di caccia, poi la zona neutra della foresta protettrice, che la separa dalle altre tribù. La divisione del lavoro è affatto primitiva: non esiste che tra i due sessi. L'uomo fa la guerra, la caccia, la pesca, procura la materia prima pel nutrimento e gli strumenti necessarii a tutto questo. La donna accudisce alla casa e prepara il vitto e le vesti, cucina, tesse, [213] cuce. Ciascuno dei due è signore nel suo àmbito: l'uomo nel bosco, la donna in casa. Ognuno è proprietario degli istrumenti da lui fabbricati e adoperati: l'uomo delle armi, degli ordegni da caccia e da pesca, la donna delle masserizie. L'economia domestica è comunistica per parecchie, spesso per molte famiglie[27]. Quello, che è fatto ed utilizzato in comune, è proprietà comune: la casa, il giardino, la barca. Qui dunque, e soltanto qui, regge la «proprietà del prodotto del proprio lavoro», dai giuristi e dagli economisti falsamente attribuita alla società incivilita; ultimo sotterfugio giuridico, sul quale si puntella ancora l'odierna proprietà capitalistica.

Ma gli uomini non rimasero dappertutto a questo stadio. In Asia trovarono animali che si lasciarono addomesticare, e poi allevare. La bufala selvatica doveva esser presa alla caccia; addomesticata, forniva annualmente un vitello, e latte per giunta. Certe tribù più progredite — arii, semiti, forse anche già dei turanici — fecero dell'addomesticamento, e più tardi anche dell'allevamento del bestiame, la loro principale occupazione. Tribù di pastori si staccarono dal resto della massa dei barbari: prima grande divisione sociale del lavoro. Le tribù di pastori producevano sussistenze, non solo più copiose, ma diverse da quelle degli altri barbari. Essi non solo avevano latte, latticinii e carne in maggior copia, ma anche pelli, lana, pelo di capra, e filati [214] e tessuti moltiplicantisi colla massa della materia prima. Ciò rendeva uno scambio normale per la prima volta possibile. Nei periodi precedenti non potevano aver luogo che scambii occasionali; una particolare abilità nella fabbricazione di armi e di utensili poteva condurre, è ben vero, a una transitoria divisione del lavoro. Così si rinvennero, in molti luoghi, indubbii avanzi di officine da strumenti di pietra, dello scorcio dell'età della pietra; gli artefici, che qui spiegavano la loro abilità, lavoravano probabilmente, come ancora oggi gli artigiani delle comunità gentili dell'India, per conto della collettività. Ad ogni modo, in questo stadio, lo scambio non poteva aver luogo che nell'interno della tribù, e anche questo in via eccezionale. Ora invece, dopo la separazione delle tribù di pastori, troviamo tutte le condizioni per lo scambio tra membri delle differenti tribù, e perchè esso si organizzi e si consolidi come istituzione normale. In origine una tribù scambiava coll'altra, per mezzo dei rispettivi capi gentili; ma quando gli armenti cominciarono a passare in proprietà privata, prevalse di più in più lo scambio individuale, e divenne finalmente l'unica forma. Il principale articolo, che le tribù di pastori davano in iscambio ai loro vicini, fu il bestiame; il bestiame divenne così la merce, in confronto alla quale furono valutate tutte le altre e che dappertutto fu accettata volentieri nello scambio contro queste — insomma il bestiame, già a questo stadio, acquistò funzione e rese servizio di moneta: tanto e così presto, già in principio dello scambio delle merci, faceva sentirsi il bisogno di una merce-moneta.

[215]

L'orticoltura, probabilmente ignota ai barbari asiatici dello stadio inferiore, sorse tra loro al più tardi nello stadio medio, come foriera dell'agricoltura. Il clima degli altipiani turanici non permette vita pastorale se manchino provviste di foraggi pei lunghi e rigidi inverni; qui dunque la cultura dei prati e delle biade era condizione necessaria. Deve dirsi lo stesso per le steppe al nord del Mar Nero. Ma se il frumento si produsse prima pel bestiame, divenne bentosto anche un alimento per l'uomo. Il terreno coltivato restò ancora proprietà della tribù, assegnato in usufrutto da principio alla gente, più tardi concesso da questa alle comunità domestiche, a finalmente agli individui; essi potevano avervi alcuni diritti di possesso, ma nulla più.

Fra le scoperte industriali di questo stadio, due sono particolarmente importanti. La prima è il telaio, la seconda la fusione dei minerali e la lavorazione dei metalli. Il rame e lo stagno, e il bronzo che è un composto dei due, furono di gran lunga i più importanti; il bronzo forniva strumenti utili ed armi, ma non poteva sostituire gli strumenti di pietra; ciò non era possibile che al ferro, e il ferro non lo si sapeva ancora ottenere. L'oro e l'argento cominciavano a usarsi in gioielli ed ornamenti e dovevano già tenersi in gran pregio di fronte al rame e al bronzo.

L'incremento della produzione in tutti i rami — allevamento del bestiame, agricoltura, mestieri domestici — diede alla forza di lavoro umano la facoltà di generare un prodotto più grande di quello che occorreva a sostentarla. Esso accrebbe insieme la quantità di lavoro giornaliero, che spettava ad [216] ogni membro della gente, della comunità domestica o delle singole famiglie. Nuove forze di lavoro divenivano desiderabili. La guerra le offriva; i prigionieri di guerra furono trasformati in ischiavi. Accrescendo la produttività del lavoro, e per conseguenza la ricchezza, e ampliando il campo della produzione, la prima grande divisione sociale del lavoro doveva, dato quel complesso di condizioni storiche, produrre necessariamente la schiavitù. Dalla prima grande divisione sociale del lavoro nacque la prima grande divisione della società in due classi: signori e schiavi, sfruttatori e sfruttati.

Come e quando siano passati gli armenti dalla proprietà comune della tribù o della gente in quella dei singoli capi di famiglia, finora è affatto ignoto. Ma essenzialmente è in questo stadio che il passaggio dev'essere avvenuto. Ora, cogli armenti e colle altre nuove ricchezze, vi fu una rivoluzione nella famiglia. Il guadagno era stato sempre affare dell'uomo, e i mezzi all'uopo erano prodotti da lui e sua proprietà. Gli armenti erano i nuovi mezzi di guadagno, il loro addomesticamento prima, e poi la loro sorveglianza, furono opera sua. A lui, quindi, apparteneva il bestiame, a lui le merci e gli schiavi scambiati contro il bestiame. Tutto il profitto, che offriva ora l'industria, spettava all'uomo; la donna ne godeva con lui, ma non aveva alcuna parte nella proprietà di esso. Il guerriero e cacciatore «selvaggio» si era accontentato, nella casa, del secondo posto dopo la donna; il pastore «più mite», imbaldanzito della sua ricchezza, si spinse al primo posto e cacciò la donna al secondo. Nè questa se [217] ne poteva dolere. La divisione del lavoro nella famiglia aveva regolata la divisione della proprietà tra l'uomo e la donna; essa era rimasta la medesima; e nondimeno capovolgeva ora i rapporti domestici, unicamente perchè era cambiata la divisione del lavoro fuori della famiglia. La stessa causa che, nel passato, aveva assicurato alla donna il dominio nella casa: il suo impiego esclusivo al lavoro domestico; questa stessa causa assicurava ora, nella casa, il dominio dell'uomo; il lavoro domestico della donna spariva, di fronte al lavoro produttivo dell'uomo; questo fu tutto, quello un insignificante accessorio. Onde già si vede che l'emancipazione della donna, la sua parificazione di condizioni all'uomo, è e resta un'impossibilità, finchè la donna rimane esclusa dal lavoro produttivo sociale e sequestrata nel lavoro privato domestico. L'emancipazione della donna allora solo diviene possibile, quando questa possa partecipare su vasta scala alla produzione sociale e il lavoro domestico non la occupi più che in una misura insignificante. E ciò non divenne possibile che colla grande industria moderna, la quale non solo permette il lavoro della donna in grande proporzione, ma formalmente lo esige, e tende a sempre più trasformare in una industria pubblica il lavoro domestico privato.

Colla effettiva prevalenza dell'uomo nella casa cadeva l'ultimo freno al suo esclusivo dominio. Questo esclusivo dominio fu consolidato e perpetuato colla caduta del diritto materno, colla introduzione del diritto paterno, col passaggio graduale dalla famiglia sindiasmica alla monogamica. Ma con ciò fu dato uno strappo all'antico ordinamento [218] gentile: la famiglia isolata divenne una potenza e si elevò minacciosa di fronte alla gente.

Ancora un passo, e siamo allo stadio superiore della Barbarie, al periodo, nel quale tutti i popoli destinati a civiltà hanno la loro epoca eroica; l'età della spada, ma anche dell'aratro e dell'ascia di ferro. Col ferro l'uomo ebbe acquistata l'ultima e la più importante di tutte le materie prime, che compirono una rivoluzione nella storia, l'ultima.... fino alla patata. È al ferro che si deve l'agricoltura su grandi superfici e il dissodamento di estese boscaglie; esso diede all'artiere strumenti di una durezza e di un taglio, cui nessuna pietra, nessun altro metallo conosciuto poteva resistere. Tutto ciò a poco a poco; il primo ferro era spesso più molle del bronzo. Così l'arme di pietra non dileguò che lentamente; non solo nel canto d'Ildebrando, ma altresì presso Hastings nel 1066, c'erano ancora asce di pietra in battaglia. Ma ormai il progresso procedeva irresistibile, meno interrotto e più rapido. La città, le cui mura, le cui torri, i cui merli di pietra circondavano case di pietra o di mattoni, divenne la sede centrale della tribù o della federazione di tribù; progresso notevolissimo nell'architettura, ma segno insieme di un cresciuto pericolo e del bisogno di difesa. La ricchezza cresceva rapidamente, ma come ricchezza individuale; la tessitura, la metallurgia e gli altri mestieri di più in più specializzati, facevano la produzione più varia e più perfezionata; accanto al grano, ai legumi e alle frutta, l'agricoltura fornì l'olio e il vino, di cui fu appresa la preparazione. Sì molteplice attività non poteva più esercitarsi da uno stesso individuo; ed [219] ecco la seconda grande divisione del lavoro: il mestiere si separò dall'agricoltura. Il continuo incremento della produzione, e con esso della produttività del lavoro, elevò il valore della forza di lavoro umana; la schiavitù, che nello stadio antecedente era ancora nascente e sporadica, diviene ora elemento essenziale del sistema sociale; gli schiavi cessano di essere semplici aiuti, essi vengono spinti a dozzine al lavoro sul campo e nell'officina. Collo scindersi della produzione nei due grandi rami principali, agricoltura e mestiere, nasce la produzione diretta per lo scambio, la produzione delle merci; con essa il commercio, non solo nell'interno e ai confini della tribù, ma già anche per mare. Tutto ciò però ancora ben poco sviluppato; i metalli nobili cominciano a diventare la merce-moneta, dominante ed universale, ma non ancora coniati, e si scambiano tali e quali, in ragione di peso.

La differenza fra ricchi e poveri si aggiunge a quella fra liberi e schiavi — la nuova divisione del lavoro genera una nuova divisione di classi nella società. Le differenze di ricchezza fra i varii capi di famiglia distruggono dappertutto l'antica comunità domestica comunistica, dove ancor perdurava, e la coltivazione in comune del terreno per conto di quella. La campagna è assegnata in usufrutto alle singole famiglie, dapprima a tempo, più tardi in via definitiva; il passaggio alla piena proprietà privata si effettua a poco a poco e parallelamente al passaggio dal connubio sindiasmico alla monogamia. La famiglia isolata comincia a divenire l'unità economica della società.

[220]

La popolazione più densa impone vincoli più stretti all'interno come all'esterno. La federazione di tribù consanguinee diviene dappertutto una necessità; presto lo diviene anche la loro fusione, e con ciò la fusione dei territorii separati delle tribù in un territorio collettivo della nazione. Il capo militare del popolo — rex, basileus, thiudans — diventa un funzionario indispensabile, permanente. Sorge, dove ancora non esisteva, l'assemblea del popolo. Capo militare, Consiglio, assemblea del popolo, formano gli organi della società gentile, evolutasi a democrazia militare. Militare — perciocchè la guerra e l'organizzazione per la guerra sono ora funzioni normali della vita del popolo. Le ricchezze dei vicini stimolano la cupidigia dei popoli, nei quali l'acquisto della ricchezza è già uno dei primi scopi della vita. Sono barbari: predare pare loro più facile e anche più onorevole che piegarsi al lavoro. La guerra, che prima si faceva soltanto per vendicare usurpazioni, o per espandere un territorio divenuto insufficiente, si fa ora unicamente pel bottino e diventa un'industria permanente. Non invano mura minacciose cingono le nuove città fortificate; nei loro fossati si spalanca la tomba della costituzione gentile, e le loro torri si slanciano fin dentro l'epoca civile. Non altrimenti all'interno. Le guerre di bottino aumentano la potenza del supremo comandante, come dei sotto-duci dell'esercito; la consuetudinaria elezione dei successori nelle stesse famiglie si trasforma a mano a mano, sopratutto dopo la introduzione del diritto paterno, in ereditarietà, dapprima tollerata, poi pretesa, finalmente usurpata; la base è posta della monarchia e della nobiltà ereditaria. [221] Così gli organi della costituzione gentile si svellono a poco a poco dalle loro radici nel popolo, nella gente, nella fratria e nella tribù, e tutta la costituzione gentile si converte nel suo contrario: da un'organizzazione di tribù pel libero ordinamento dei loro proprii affari, essa diviene un'organizzazione pel saccheggio e per la oppressione dei vicini, e, correlativamente, i loro organi, da strumenti della volontà popolare, si convertono in organi indipendenti di dominio e di oppressione di fronte al proprio popolo. Ma questo non era possibile, se l'avidità della ricchezza non scindeva i compagni gentili in ricchi ed in poveri, se «la differenza di proprietà nella stessa gente non mutava l'unità degli interessi in antagonismo dei compagni gentili» (Marx), e se l'estendersi della schiavitù non cominciava a far considerare il lavoro per guadagnarsi la vita come degno solo degli schiavi, e più disonorevole della rapina.


Eccoci dunque alla soglia dell'epoca civile. Essa è aperta da un nuovo progresso della divisione del lavoro. Negli stadii primitivi gli uomini producevano solo direttamente pel proprio bisogno; gli scambi eventuali erano atti isolati, e non riguardavano che l'accidentale superfluo. Allo stadio medio della Barbarie troviamo già, nei popoli pastori, sotto forma di bestiame, una proprietà la quale, tostochè gli armenti han raggiunto una certa importanza, lascia normalmente un avanzo sopra i bisogni; v'è inoltre una divisione del lavoro tra i popoli pastori [222] e le tribù rimaste in arretrato e prive di armenti; d'onde due stadii di produzione diversi e coesistenti, e quindi le condizioni di uno scambio permanente. Lo stadio superiore della Barbarie ci presenta un'altra divisione del lavoro, quella fra l'agricoltura ed il mestiere; cresce con ciò la quantità dei prodotti creati direttamente per lo scambio, e lo scambio tra i varii produttori diventa una necessità di vita della società. L'epoca civile consolida ed accresce tutte queste già esistenti divisioni del lavoro, sopratutto coll'acuire l'antagonismo tra città e campagna (con che la città può dominare economicamente la campagna, come nell'antichità, o la campagna dominare la città, come nel medioevo), e vi aggiunge una terza divisione del lavoro caratteristica ad essa e d'importanza decisiva: produce cioè una classe, che non si occupa più della produzione, ma solo dello scambio dei prodotti — i negozianti.

Sinora ogni nuova formazione di classi era stata l'opera esclusiva della produzione; le persone occupate nella produzione dividevansi in dirigenti ed esecutori, ovvero in produttori su più grande o su più piccola scala. Qui entra per la prima volta in iscena una classe che, senza prendere una parte qualsiasi nella produzione, sa conquistarne la direzione generale e assoggettarsi economicamente i produttori; una classe che si fa indispensabile intermediario tra due produttori e li sfrutta entrambi. Sotto il pretesto di evitare ai produttori la pena e il risico dello scambio, di estendere lo spaccio dei loro prodotti ai più lontani mercati, di essere quindi la classe la più utile della popolazione, si [223] forma una classe di veri parassiti sociali, che, come guiderdone di ben meschini effettivi servizii, screma, per dir così, tanto la produzione indigena quanto la straniera, acquista rapidamente enormi ricchezze e una corrispondente influenza sociale, e appunto perciò, durante l'epoca civile, è chiamata a sempre nuovi onori e a sempre maggior dominio sulla produzione, sino a che anch'essa, alla fine, mette al mondo un proprio prodotto — le crisi commerciali periodiche.

Allo stadio di evoluzione al quale siam giunti, certo il giovine ceto dei negozianti non presente ancora i grandi destini che lo attendono. Ma esso si forma e si rende indispensabile, e questo basta. E con esso si sviluppa il denaro metallico, la moneta coniata, e con questa un nuovo mezzo pel non produttore di dominare il produttore e la sua produzione. Era scoperta la merce delle merci, che contiene in sè celate tutte le merci; il talismano, che può trasformarsi a volontà in qualsiasi cosa desiderabile e desiderata. Chi lo possedeva dominava il mondo della produzione; e chi lo possedeva più di tutti? Il negoziante. In sue mani il culto del denaro era assicurato. Egli provvide a far manifesto fino a qual punto tutte le merci, quindi tutti i produttori di merci, dovessero prostrarsi supplici nella polvere innanzi al denaro. Egli provò praticamente, come tutte le altre forme della ricchezza non sono che semplice apparenza di fronte a questa incarnazione della ricchezza come tale. Giammai la potenza del denaro si presentò con tanta brutalità, con tanta violenza primitiva, come in questo suo periodo di giovinezza. Dopo la compra [224] delle merci col denaro venne il prestito del denaro; con esso l'interesse e l'usura. E nessuna legislazione posteriore lanciò il debitore così spietatamente ed irremissibilmente ai piedi dell'usuraio creditore, come le legislazioni dell'antica Atene e dell'antica Roma — e ambedue nacquero spontaneamente, come diritti consuetudinarii, senz'altra coazione che la economica.

Allato alla ricchezza in merci e in ischiavi, allato alla ricchezza in denaro, ecco ora sorgere anche la ricchezza fondiaria. Il diritto di possesso degli individui sulle parcelle di terreno, ad essi primitivamente concesse dalla gente o dalla tribù, erasi ora tanto consolidato, che esse appartenevano loro ereditariamente. Ciò che essi, sopratutto negli ultimi tempi, avevano invocato, era la liberazione dai diritti della società gentile sulle parcelle, diritti che diventavano per essi una catena. Furono liberati dalla catena — ma bentosto anche dalla nuova proprietà fondiaria. La piena proprietà, la libera proprietà del terreno, non significava solo la facoltà di possederlo in modo assoluto e senza restrizioni — significava anche la facoltà di alienarlo. Finchè il terreno era proprietà della gente, questa facoltà non esisteva. Ma quando il nuovo proprietario della terra spezzò definitivamente le pastoie della suprema proprietà della gente e della tribù, egli spezzò anche il vincolo, che sino allora lo aveva legato indissolubilmente al terreno. Che cosa ciò significasse gli fu palese mercè il denaro, inventato contemporaneamente alla proprietà fondiaria. Il terreno poteva ora diventare una merce, che si vende e che si dà in pegno. Non appena fu [225] introdotta la proprietà fondiaria, immediatamente fu inventata anche l'ipoteca (vedi Atene). Come l'eterismo e la prostituzione stanno alle calcagna della monogamia, così l'ipoteca si mette alle calcagna della proprietà fondiaria. Avete voluto la piena, libera, alienabile proprietà della terra; ebbene, voi l'avete — tu l'as voulu, Georges Dandin!

Così, coll'espandersi del commercio, col denaro e coll'usura, colla proprietà fondiaria e coll'ipoteca, progredirono rapidamente la concentrazione e l'accentramento della ricchezza nelle mani di una classe poco numerosa, accanto al crescente impoverimento della massa e alla crescente massa dei poveri. La nuova aristocrazia della ricchezza, dove già non coincideva colla vecchia nobiltà della tribù, la eclissò definitivamente (in Atene, in Roma, fra i Germani). E accanto a questa divisione dei liberi in classi, fondata sulla ricchezza, si ebbe, specialmente in Grecia, un immenso aumento degli schiavi[28], il cui lavoro forzato formò la base, sulla quale si elevò tutto l'edificio sociale.

Guardiamoci ora d'intorno, per vedere che era avvenuto della costituzione gentile in questa trasformazione sociale. Essa era là impotente, di fronte ai nuovi elementi sorti senza il suo concorso. Il suo presupposto era che i membri di una gente, od anche di una tribù, risiedessero uniti sullo stesso territorio, lo abitassero esclusivamente. Ciò era cessato da lungo tempo. Dappertutto s'eran mescolate le genti [226] e le tribù, dappertutto abitavano schiavi, clienti, stranieri, in mezzo ai cittadini. La stabilità, raggiunta soltanto verso la fine dello stadio medio della Barbarie, era di nuovo e continuamente turbata dalla mobilità e variabilità del domicilio, conseguenza dei commerci, dei cangiamenti delle industrie, delle vicende della proprietà fondiaria. I compagni delle corporazioni gentili non potevano più riunirsi per la salvaguardia dei proprii affari comuni; a malapena sopravvivevano le cose meno importanti, come le festività religiose. Accanto ai bisogni e agli interessi, per provvedere ai quali i corpi gentili avevano veste e capacità, erano sorti, dalla trasformazione dei rapporti industriali e dal consecutivo cangiamento dell'assetto sociale, bisogni ed interessi nuovi, non solo estranei all'antico ordinamento gentile, ma che lo attraversavano in ogni guisa. Gli interessi dei gruppi d'artigiani, nati dalla divisione del lavoro, i bisogni particolari della città in opposizione alla campagna, richiedevano nuovi organi; ma ognuno di questi gruppi era composto di individui appartenenti a genti, fratrie e tribù le più diverse, e conteneva financo stranieri; cotesti organi si dovevano quindi formare fuori della costituzione gentile, accanto ad essa, e quindi contro di essa. — E in ogni corporazione gentile si faceva sentire a sua volta questo conflitto di interessi, che raggiungeva il suo culmine nella riunione di ricchi e di poveri, di usurai e di debitori, nella stessa gente e nella stessa tribù. — A ciò si aggiungeva la massa della nuova popolazione estranea alle società gentili, che, come in Roma, poteva divenire una forza nel paese, e che era [227] troppo numerosa per venire accolta mano mano nelle schiatte e tribù consanguinee. Di fronte a questa massa, le associazioni gentili stavano quali corporazioni chiuse, privilegiate; la originaria democrazia naturale si era cangiata in una odiosa aristocrazia. — In una parola, la costituzione gentile, nata da una società che non conosceva antagonismi interni, non era adatta che a una cosiffatta società. Essa non aveva alcun mezzo coercitivo all'infuori dell'opinione pubblica. Ma qui era nata una società, che tutte le condizioni della sua vita economica dividevano in liberi e schiavi, in ricchi sfruttatori e poveri sfruttati, e che non solo non poteva conciliare questi antagonismi, ma doveva anzi sempre più spingerli all'estremo. Una tale società poteva soltanto sussistere, o in una continua ed aperta lotta di queste classi tra loro, ovvero sotto la dominazione di un terzo potere, che, stando apparentemente al di sopra delle classi contendenti, reprimesse il loro aperto conflitto, e lasciasse tutt'al più spiegarsi la lotta di classi sul solo terreno economico, nella cosiddetta forma legale. La costituzione gentile aveva vissuto. Essa fu distrutta dalla divisione del lavoro, che divise la società in classi, e fu sostituita dallo Stato.


Studiammo di sopra partitamente le tre forme principali, nelle quali lo Stato si eleva sulle rovine della costituzione gentile. Atene presenta la forma più pura e più classica: ivi lo Stato scaturisce direttamente e principalmente dagli antagonismi [228] di classi, che si sviluppano entro la stessa società gentile. In Roma, la società gentile diviene un'aristocrazia chiusa, in mezzo ad una plebe numerosa, che sta fuori di essa, priva di diritti, ma carica di doveri; la vittoria della plebe demolisce l'antica costituzione gentile, e sui suoi rottami fonda lo Stato, in cui aristocrazia gentile e plebe bentosto si confondono del tutto. Infine, presso i Germani conquistatori dell'Impero romano, lo Stato nasce direttamente dalla conquista di un grande territorio straniero, a dominare il quale la costituzione gentile non offriva mezzo veruno. Ma poichè a questa conquista non si connette nè una seria lotta coll'antica popolazione, nè una più progredita divisione del lavoro; poichè lo stadio di sviluppo economico dei conquistati e quello dei conquistatori sono supergiù gli stessi, e la base economica della società rimane quindi l'antica; perciò la costituzione gentile può perdurare lunghi secoli nella nuova forma territoriale di costituzione di marca, e ringiovanire anche per un certo tempo in forma affievolita nelle successive schiatte nobili e patrizie, ed anche nelle schiatte contadinesche, come fra i Dithmarsci[29].

Lo Stato non è quindi affatto un potere imposto alla società dal di fuori; altrettanto poco esso è «l'attuazione dell'idea morale», «l'imagine e la realtà della ragione», come pretende Hegel. Esso [229] è invece un prodotto della società ad un determinato stadio di evoluzione; è la confessione che questa società si avviluppa in una insolubile contraddizione con sè stessa, scissa in antagonismi inconciliabili, che è impotente a bandire. Ma affinchè questi antagonismi, cioè queste classi con interessi economici contendenti, non distruggano sè stesse e la società in lotte infeconde, diventò necessario un potere che stesse apparentemente al di sopra della società, per attutire il conflitto e tenerlo nei limiti dell'«ordine»; e questo potere, sorto dalla società, ma che si colloca al di sopra di essa, e le si rende di più in più estraneo, è lo Stato.

Di fronte all'antica organizzazione gentile, ciò che caratterizza lo Stato è, in primo luogo, la divisione dei cittadini secondo il territorio. Le antiche associazioni gentili, formate e tenute insieme da vincoli di sangue, erano, come vedemmo, divenute insufficienti, in gran parte perchè presupponevano compagni vincolati ad un determinato territorio, il che era già cessato da un pezzo. Il territorio era rimasto, ma gli uomini erano divenuti mobili. Si prese quindi la divisione del territorio come punto di partenza, e i cittadini dovettero adempiere i loro diritti e doveri pubblici là dove essi si stabilivano, senza riguardo a gente ed a tribù. Questo organamento dei membri dello Stato, secondo la località cui appartengono, è comune a tutti gli Stati. Esso quindi ci sembra naturale; ma vedemmo sopra, quali dure e lunghe lotte furono necessarie, prima che esso potesse, in Atene e in Roma, prendere il posto dell'antico organamento per genti.

[230]

Il secondo carattere è la istituzione di una forza pubblica, che non coincide più immediatamente colla popolazione organantesi da sè come forza armata. Questa forza pubblica speciale è necessaria, poichè uno spontaneo organamento armato della popolazione è fatto impossibile dalla divisione in classi. Gli schiavi appartengono anch'essi alla popolazione; i 90,000 cittadini ateniesi, non formano, di fronte ai 365,000 schiavi, che una classe privilegiata. Il popolo armato della democrazia ateniese era una forza pubblica aristocratica di fronte agli schiavi, e li teneva in freno; ma per tenere a freno anche i cittadini, fu necessaria una gendarmeria, come si è sopra narrato. Questa forza pubblica esiste in ogni Stato; essa non consiste soltanto di uomini armati, ma anche di accessorii materiali, prigioni e apparati coercitivi di ogni sorta, affatto ignoti alla società gentile. Essa può essere di poco conto, quasi impercettibile, in società nella quale gli antagonismi di classi non si sieno ancora sviluppati, e su territorii isolati, come, in certi tempi e luoghi, negli Stati-Uniti d'America. Ma essa s'accresce a misura che gli antagonismi di classi si acuiscono nello Stato, e che gli Stati limitrofi divengono più grandi e più popolosi — si consideri solo la nostra odierna Europa, dove la lotta di classi e la concorrenza della conquista hanno elevato la forza pubblica a un'altezza, dalla quale essa minaccia di ingoiare tutta la società e lo Stato medesimo.

Per mantenere in piedi questa forza pubblica, sono necessarie le contribuzioni dei cittadini dello Stato — le imposte. Queste erano affatto sconosciute alla società gentile. Oggi ne sappiamo qualche [231] cosa. Ma col crescere dell'incivilimento esse non bastano già più; lo Stato trae cambiali sull'avvenire, contrae prestiti, debiti dello Stato. Anche di questi la vecchia Europa ne conosce una litania.

In possesso della forza pubblica e del diritto di riscuotere le tasse, ecco ora i funzionarii, organi della società sopra la società. La deferenza libera, spontanea, che veniva tributata ai magistrati della costituzione gentile, non basta loro quand'anche potessero averla; strumenti di un potere divenuto estraneo alla società, essi debbono ottenere il rispetto con leggi eccezionali, mercè le quali acquistano una santità ed una inviolabilità particolare. Il più miserabile poliziotto dello Stato incivilito ha più «autorità» che non tutti i magistrati della società gentile presi insieme; ma il principe più potente e il più grande uomo di Stato o Generale della civiltà può invidiare il più meschino capo gentile per la spontanea e incontestata stima che gli vien tributata. L'uno sta in mezzo alla società; l'altro è obbligato a voler rappresentare qualche cosa al di fuori e al di sopra di essa.

Lo Stato è adunque nato dal bisogno di frenare gli antagonismi di classe; ma, poichè al tempo stesso esso è nato in mezzo al conflitto di queste classi, ordinariamente è lo Stato della classe la più potente, di quella che ha il dominio economico e che, mercè questo, acquista anche il dominio politico, e con ciò un nuovo mezzo per la soggiogazione e per lo sfruttamento delle classi oppresse. Così lo Stato antico era sopratutto lo Stato dei possessori di schiavi per la oppressione degli schiavi, come lo Stato feudale era l'organo della nobiltà per la soggiogazione [232] dei contadini servi e vassalli, e il moderno Stato rappresentativo è lo strumento del capitale che sfrutta il lavoro salariato. Eccezionalmente però avvengono periodi, in cui le classi contendenti si equilibrano talmente, che il potere dello Stato, quale apparente mediatore, acquista momentaneamente una certa indipendenza di fronte a ciascuna di esse. Così la monarchia assoluta dei secoli XVII e XVIII tiene in bilancia la nobiltà e la borghesia; così il bonapartismo del primo e sopratutto del secondo Impero francese si serviva del proletariato contro la borghesia e della borghesia contro il proletariato. La più recente produzione del genere, nella quale dominatori e dominati appaiono egualmente comici, è il nuovo Impero tedesco bismarckiano; quivi capitalisti e lavoratori sono tenuti in equilibrio e canzonati egualmente, a profitto dei rovinati nobiluzzi campagnuoli prussiani.

Nella più parte, inoltre, degli Stati storici, i diritti spettanti ai cittadini sono graduati in ragione dei beni posseduti, il che fa direttamente palese che lo Stato è un'organizzazione a favore della classe possidente contro i non possidenti. Così già nelle classi a base di censo, ateniesi e romane. Così nello Stato feudale del medio-evo, dove il grado di potere politico corrispondeva alla proprietà fondiaria. Così nel censo elettorale dei moderni Stati rappresentativi. Questo riconoscimento politico delle differenze di proprietà non è però affatto essenziale. Al contrario, esso denota uno stadio inferiore nella evoluzione dello Stato. La più alta forma dello Stato, la repubblica democratica — che nei nostri moderni rapporti sociali diviene una necessità di [233] più in più ineluttabile, ed è la sola forma di Stato, nella quale possa combattersi l'ultima lotta decisiva tra proletariato e borghesia — la repubblica democratica non tiene più ufficialmente alcun conto delle differenze di proprietà. In essa la ricchezza esercita il suo potere indirettamente, ma tanto più sicuramente. Da un lato, sotto la forma di corruzione diretta dei funzionarii, di cui l'America è l'esempio classico; dall'altro, sotto la forma dell'alleanza tra il Governo e la Borsa, alleanza che si effettua tanto più facilmente, quanto più crescono i debiti dello Stato, e quanto più le Società per azioni concentrano nelle loro mani, non solo i mezzi di trasporto, ma anche la produzione stessa, per ritrovar poi nella Borsa il loro centro. Di ciò, oltre l'America, è un esempio palmare l'attuale Repubblica francese, e anche la onesta Svizzera ha offerto il suo su questo terreno. Ma che a questa fraterna alleanza del Governo colla Borsa non sia affatto necessaria la repubblica democratica, lo prova, oltre l'Inghilterra, il nuovo Impero tedesco, dove non è facile dire, se il suffragio universale abbia portato più in alto Bismarck o Bleichröder. E infine la classe possidente domina direttamente a mezzo del suffragio universale. Finchè la classe oppressa, cioè nel caso nostro il proletariato, non è ancora matura per la propria emancipazione, essa riconoscerà, nella sua maggioranza, l'ordine sociale esistente come l'unico possibile e starà politicamente in coda alla classe capitalistica, sarà la sua più estrema ala sinistra. Ma a misura che essa si avvicina alla propria emancipazione, essa si costituisce come partito a sè, ed elegge rappresentanti suoi proprii, non quelli [234] dei capitalisti. Il suffragio universale è quindi il gradimetro della maturità della classe lavoratrice. Di più esso non può essere e non sarà mai nello Stato odierno; ma ciò anche basta. Il giorno in cui il termometro del suffragio universale segnerà pei lavoratori il punto di ebollizione, essi sapranno altrettanto bene quanto i capitalisti che cosa ciò vorrà dire.

Lo Stato non esiste dunque ab eterno. Vi furono società che fecero senza di esso i loro affari, e che non ebbero alcuna idea dello Stato e del potere dello Stato. A un dato stadio dell'evoluzione economica, stadio necessariamente connesso colla scissione della società in classi, questa scissione rese necessario lo Stato. Noi ci avviciniamo ora a gran passi a uno stadio di sviluppo della produzione, nel quale la esistenza di queste classi, non solo cessò di essere una necessità, ma diventa un'ostacolo positivo alla produzione. Esse cadranno, colla stessa ineluttabilità colla quale già son sorte. Con esse, inevitabilmente, cade lo Stato. La società, che riorganizza la produzione sulla base dell'associazione libera ed eguale dei produttori, trasporterà tutta la macchina dello Stato a quello che sarà allora il suo posto: al museo delle antichità, accanto al mulinello a mano e all'ascia di bronzo.


L'epoca civile è dunque, da quel che s'è detto, quello stadio dell'evoluzione della società, nel quale la divisione del lavoro, il conseguente scambio tra gli individui, e la produzione delle merci che abbraccia [235] questo e quella, giungono al pieno sviluppo e sconvolgono tutta la società precedente.

La produzione di tutti gli stadi anteriori della società era essenzialmente produzione in comune, come del pari il consumo aveva luogo mercè la diretta distribuzione dei prodotti in economie comunistiche più o meno vaste. Questa comunanza della produzione si svolgeva nei più stretti limiti, ma con essa i produttori dominavano il loro processo di produzione e il loro prodotto. Essi sapevano ciò che il prodotto diviene: essi lo consumavano, non sfuggiva loro di mano; e finchè la produzione si fa su questa base, essa non può essere più forte dei produttori, non può generare alcun potere estraneo che si rizzi lor di fronte a guisa di spetro, come avviene normalmente e inevitabilmente nell'epoca civile.

Ma in cotesto processo di produzione s'insinua lentamente la divisione del lavoro. Essa mina la comunanza della produzione e dell'appropriazione, essa fa dell'appropriazione individuale la regola prevalente, e genera con ciò lo scambio tra gli individui, quale lo abbiamo esaminato più sopra. A poco a poco la produzione di merci diviene la forma dominante.

Colla produzione mercantile, colla produzione non più pel consumo personale, ma per lo scambio, i prodotti cangiano necessariamente di mano. Il produttore aliena nello scambio il suo prodotto e non sa più che avvenga di esso. Mano mano che interviene il denaro, e col denaro il negoziante quale intermediario tra i produttori, il processo di scambio si fa ancor più intricato, la sorte finale [236] dei prodotti ancora più incerta. I negozianti sono molti e nessuno di essi sa quello che fa l'altro. Le merci non passano soltanto di mano in mano, esse vanno anche di mercato in mercato; i produttori hanno perduto il dominio sull'insieme della produzione del loro ambiente, senza che i negozianti l'abbiano acquistato. Prodotti e produzione sono in balìa del caso.

Ma il caso non è che un polo di una concatenazione di cose, il cui polo opposto ha nome necessità. Nella natura, dove ugualmente sembra dominare il caso, abbiamo da lungo tempo dimostrata in ogni campo la intima necessità, la legge inesorabile, nella quale il supposto «caso» si traduce. Ciò che è vero della natura, lo è del pari della società. Quanto più un'attività sociale, una serie di processi sociali sfugge al cosciente controllo degli uomini e li domina, quanto più essa sembra abbandonata al puro caso, tanto più questo caso non è che l'espressione di leggi proprie e fatali in essa immanenti. Siffatte leggi dominano anche le accidentalità della produzione e dello scambio delle merci; al singolo produttore o negoziante esse appaiono quali forze estranee, da principio affatto sconosciute, la cui natura non può che a grande stento essere indagata ed approfondita. Queste leggi economiche della produzione delle merci si modificano coi differenti stadî di sviluppo di questa forma di produzione; ma in generale tutta l'epoca civile è dominata da esse. Ancor oggi il prodotto domina i produttori; ancor oggi la produzione totale della società non è regolata da un piano ponderato in comune, ma da cieche leggi, che s'impongono con [237] la brutalità degli elementi e, alla fine, colle burrasche delle crisi commerciali periodiche.

Vedemmo sopra, come, a uno stadio abbastanza primitivo dello sviluppo della produzione, la forza di lavoro umana diviene capace di fornire un prodotto considerevolmente più grande di quanto è necessario al mantenimento dei produttori, e come questo stadio di sviluppo è in sostanza quello stesso in cui sorgono la divisione del lavoro e lo scambio tra gli individui. A quel punto non ci voleva molto a scoprire la grande «verità» che anche l'uomo può essere una merce; che la forza di lavoro umana può essere scambiata e sfruttata, trasformando l'uomo in uno schiavo. Appena gli uomini avevano cominciato a scambiare, che essi stessi furono scambiati. L'attivo si mutò nel passivo, lo volessero o no.

Colla schiavitù, che nell'epoca civile trovò il suo più completo sviluppo, si produsse la prima grande divisione della società in una classe sfruttatrice ed una sfruttata. Questa divisione durò per tutto il periodo civile. La schiavitù è la prima forma dello sfruttamento, ed è propria al mondo antico; le succedono la servitù nel medio-evo, il lavoro salariato nei tempi moderni. Sono queste le tre grandi forme di servaggio caratteristiche alle tre grandi epoche della Civiltà; dapprima palese, di poi camuffata, la schiavitù le sta sempre alle costole.

Lo stadio della produzione mercantile, col quale l'epoca civile comincia, è economicamente designato dalla introduzione 1.º della moneta metallica, e con ciò del capitale in denaro, dell'interesse e dell'usura; [238] 2.º dei negozianti come classe intermediaria tra i produttori; 3.º della proprietà fondiaria privata e dell'ipoteca; 4.º del lavoro schiavo come forma di produzione dominante. La forma di famiglia, corrispondente alla Civiltà e che trionfa definitivamente con essa, è la monogamia, il dominio dell'uomo sulla donna, e la famiglia individuale quale unità economica della società. Il compendio della società incivilita è lo Stato, che in tutti i periodi tipici è senza eccezione lo Stato della classe dominante, e in tutti i casi rimane essenzialmente una macchina per tener in freno la classe oppressa e sfruttata. Sono pure note caratteristiche della Civiltà: da un lato, il fissarsi dell'antagonismo fra città e campagna, quale fondamento di tutta la divisione sociale del lavoro; dall'altro, la introduzione dei testamenti, con che il proprietario può disporre della sua proprietà altresì dopo la morte. Questa istituzione, che schiaffeggia in pieno viso l'antica costituzione gentile, fu sconosciuta in Atene fino a Solone; in Roma fu introdotta di buon'ora, ma ignoriamo il quando[30]; fra gli Alemanni la introdussero i preti, affinchè il buon tedesco potesse legare il suo retaggio liberamente alla Chiesa.

Con questa costituzione per base, l'epoca civile ha compiuto cose, delle quali l'antica società gentile [239] era ben lungi dall'essere capace. Ma essa le compì, ponendo in moto le passioni e gli appetiti più sordidi degli uomini, che sviluppò a spese di tutte le altre loro disposizioni. La bassa cupidigia fu l'anima della Civiltà dal suo primo giorno fino ad oggi; la ricchezza e ancora la ricchezza, e sempre la ricchezza, e non già la ricchezza della società, ma di questo o quel miserabile individuo, fu il suo unico scopo finale. Se poi le cadde in grembo il crescente sviluppo della scienza, e a più riprese il massimo fiore dell'arte, ciò fu solo perchè, senza queste, non era possibile la piena conquista dell'odierna ricchezza.

Essendo base della Civiltà lo sfruttamento di una classe ad opera di un'altra, tutta la sua evoluzione si muove in una contraddizione perenne. Ogni progresso della produzione è contemporaneamente un regresso nella condizione delle classi oppresse, cioè della grande maggioranza. Ogni benefizio per gli uni è necessariamente un male per gli altri; ogni passo di una classe verso l'emancipazione, è per un'altra un passo a ritroso verso l'oppressione. La prova la più evidente ce la offre la introduzione delle macchine, i cui effetti sono oggi noti a tutti. E se fra i barbari, come vedemmo, a mala pena poteva farsi la differenza fra diritti e [240] doveri, la civiltà ne rende chiara la differenza e l'antitesi anche all'intelletto più ottuso, assegnando a una classe quasi tutti i diritti, all'altra quasi tutti i doveri.

Ma ciò non dev'essere. Quello, che è bene per la classe dominante, dev'essere bene per tutta la società, colla quale la classe dominante s'identifica. Onde, più progredisce la Civiltà, più essa è costretta a coprire col manto della carità i mali da essa necessariamente prodotti, a palliarli o a negarli, a introdurre insomma una ipocrisia convenzionale, ignota alle prime forme della società ed anco ai primi stadii della Civiltà stessa, e che tocca il colmo nell'assunto: che lo sfruttamento della classe oppressa è esercitato dalla classe sfruttatrice unicamente nell'interesse della stessa classe sfruttata; e se questa non lo riconosce, anzi si ribella, ciò costituisce la più nera ingratitudine contro i suoi benefattori, gli sfruttatori[31].

E ora, per finire, il giudizio di Morgan sulla Civiltà:

«Dall'avvento della Civiltà l'incremento della ricchezza divenne così immenso, le sue forme così svariate, la sua applicazione così estesa, e la sua amministrazione così abile nell'interesse dei proprietarii, [241] che questa ricchezza, di fronte al popolo, è divenuta una potenza ch'esso non può vincere. La mente umana si trova sconcertata e interdetta dinanzi alla sua propria creazione. Verrà tuttavia il tempo, in cui la ragione umana sarà tanto forte da dominare la ricchezza, e in cui essa stabilirà tanto il rapporto dello Stato colla proprietà, che esso difende, quanto i limiti dei diritti dei proprietarii. Gli interessi della società vincono assolutamente in importanza gli interessi degli individui, e gli uni e gli altri debbono essere messi in un rapporto equo ed armonico. La semplice caccia alla ricchezza non è il destino finale dell'umanità, se tuttavia il progresso rimane la legge dell'avvenire, come lo fu del passato. Il tempo decorso dallo spuntare della Civiltà non è che un'esigua frazione della vita trascorsa dall'umanità; un'esigua frazione di quella che ancora le sovrasta. La dissoluzione della società ci sta minacciosa dinanzi come conclusione dì una lizza storica, il cui unico scopo finale è la ricchezza; perciocchè una tale lizza contiene gli elementi della sua propria distruzione. Democrazia nell'amministrazione, fratellanza nella società, eguaglianza di diritti, educazione universale, inaugureranno l'imminente periodo superiore della società, pel quale lavorano costantemente l'esperienza, la ragione e la scienza. Esso sarà una reviviscenza — ma in più alta forma — della libertà, dell'eguaglianza e della fratellanza delle antiche genti». (Morgan, Ancient Society, pag. 552).

[243]

INDICE

Dedica (P. Martignetti) Pag. III
Introduzione critica alla seconda edizione italiana (E. Bernstein) V
Avvertenze filologiche (F. Turati) XXVIII
Prefazioni dell'Autore:
  I alla prima edizione (1884) 3
  II alla quarta edizione (1891) 6
L'Origine della Famiglia, della Proprietà privata e dello stato:
I. Stadii dell'evoluzione preistorica 23
  1. Stato selvaggio 24
  2. Barbarie 26
II. La Famiglia 32
III. La «Gente» Irocchese 109
IV. La «Gente» Greca 130
V. Genesi dello Stato Ateniese 143
VI. «Gente» e Stato in Roma 159
VII. La «Gente» presso i Celti e presso i Germani 174
VIII. La formazione dello Stato dei Germani 195
IX. Barbarie ed Epoca civile 211

NOTE:

1.  Manifesto dei Comunisti.

2.  Ringraziamo Edoardo Bernstein di questa Introduzione critica, della quale egli consentì a fregiare la presente edizione del libro di Engels, e l'amico Carlo Tanzi che ce ne allestì la versione. — Quanto alla biografia e alla bibliografia di Engels, della quale Pasquale Martignetti aveva dato nella 1.ª edizione (1885) qualche rapido cenno, che oggi riuscirebbe necessariamente incompleto, preferiamo rinviare il lettore alle copiose notizie che raccogliemmo nell'Introduzione al primo saggio dell'Engels, da noi tradotto e pubblicato in occasione della sua morte (5 agosto 1895): L'Economia politica; con introduzione e notizie bio-bibliografiche di Filippo Turati, Vittorio Adler e Carlo Kautsky; e con appendice (Milano, Critica Sociale, 1895; cent. 50). (Nota degli Editori italiani).

3.  Paris, George Carrés, 1893.

4.  Ancient society, or researches in the times of human progress from savagery, through barbarism, to civilisation. By Lewis H. Morgan. London, Macmillan e C. 1877. Il libro fu stampato in America, ed è molto difficile trovarlo in Londra. L'autore è morto da pochi anni.

5.  Pubblicata poi a Parigi, nel 1896, Georges Oarré editore; 58, Rue S. André-des-Arts. (Nota degli Editori Italiani).

6.  Il tedesco testualmente dice: «oltre all'Einzelehe». Veggansi in proposito più addietro le Avvertenze filologiche. (Nota degli Editori Italiani).

7.  Ritornando da New York nel settembre 1838, mi imbattei in un ex deputato al Congresso pel distretto elettorale di Rochester, il quale aveva conosciuto Lewis Morgan. Egli però non seppe, malavventuratamente, dirmi molto di lui. Morgan aveva vissuto in Rochester come uomo privato, assorbito esclusivamente nei suoi studi. Mercè l'interposizione di un suo fratello, colonnello, applicato al Ministero della guerra in Washington, egli era riuscito ad interessare il Governo delle sue ricerche e a pubblicare, a spese pubbliche, molte delle sue opere. A quest'uopo anche il mio interlocutore si era spesso adoperato, quando veniva alla capitale per prender parte al Congresso.

8.  Il titolo di questo 1º capitolo è nel testo tedesco: Vorgeschichtliche Culturstufen — Veggansi più addietro le Avvertenze filologiche che seguono all'introduzione. (Nota degli Editori italiani).

9.  Quanto poco il Bachofen comprendesse quello che egli aveva scoperto, o piuttosto indovinato, lo prova egli stesso designando questo stato primitivo col nome di eterismo. L'eterismo denotava presso i Greci, allorchè essi introdussero questa parola, il rapporto sessuale degli uomini celibi, o viventi in unione individuale, con donne non maritate; esso presuppone sempre una determinata forma di matrimonio, fuori del quale ha luogo questo rapporto, e include già la prostituzione, almeno come possibilità. In un altro significato questa parola non fu mai adoperata, e in questo senso io l'adopero col Morgan. Le scoperte più importanti del Bachofen vengono sempre snaturate dal concetto mistico, che i rapporti di famiglia fra l'uomo e la donna, variabili secondo le diverse epoche e nati storicamente, abbiano la loro sorgente nelle idee religiose degli uomini del tempo, non già nei loro reali rapporti di vita.

10.  In una lettera della primavera 1882, Marx si esprime nei termini più vivi contro la completa falsificazione della storia primitiva, dominante nel testo dei Niebelungen di Wagner. «Fu egli mai udito che il fratello abbracciasse come sposa la sorella?» A questi «Dei della lascivia» di Wagner, che rendono più piccanti i loro intrighi amorosi, in modo affatto moderno, con un zinzino d'incesto, Marx risponde: «Nell'epoca primitiva la sorella era la moglie, e questo era morale

— (Alla IV edizione) — Un amico francese, adoratore di Wagner, non approva questa nota ed osserva, che, già nella vecchia Edda, che ha servito di base a Wagner, Loki, nella Egisdrecca, rimprovera a Freyja: «Tu abbracci il tuo proprio fratello innanzi agli dei»; volendo provare con ciò che il matrimonio tra fratelli e sorelle era già allora vilipeso. L'Egisdrecca è espressione di un tempo, in cui era completamente distrutta la fede nei vecchi miti; essa è una semplice satira, alla maniera di Luciano, contro gli dei. Il rimprovero, che Loki, facendo la parte di Mefistofele, muove ivi a Freyja, è piuttosto un argomento contro Wagner. Loki dice anche, alcuni versi dopo, a Niördh: «Tu generasti un (tale) figlio con tua sorella» (vidh systur thinni gaztu slikan mög). Niördhr non è un Ase, ma un Vane, e nella saga degli Ynglinga dice che i matrimoni tra fratelli e sorelle erano comuni nel paese dei Vani, e non presso gli Asi. Questo indicherebbe che i Vani erano deità più antiche degli Asi. In ogni caso Niördh vive tra gli Asi come loro pari, e quindi l'Egisdrecca è piuttosto una prova che, alle origini della mitologia norvegese, il matrimonio tra fratelli e sorelle non suscitava ancora orrore, almeno fra gli dei. A difesa di Wagner, meglio dell'Edda, potrebbe forse citarsi il Goethe, che, nella ballata del dio e della bajadera, commette un errore analogo circa alla pratica religiosa per la quale le donne facean copia di sè: pratica che egli assimila troppo alla moderna prostituzione.

11.  Tedesco: Leiblichen Geschwister. Veggansi le Avvertente filologiche che fanno seguito all'Introduzione. (Nota degli Editori Italiani).

12.  Le tracce della promiscuità sessuale indistinta, di quella ch'egli chiamava «generazione di palude» (Sumpfseugung), che Bachofen crede aver trovate, si riportano, ormai non si può più dubitarne, al connubio per gruppi. «Se Bachofen, trova «senza legge» questi connubii-punalua, un uomo di quel periodo troverebbe la maggior parte degli attuali matrimonii tra cugini prossimi e lontani, paterni o materni, altrettanto incestuosi quanto i matrimonii tra fratelli e sorelle consanguinei» (Marx).

13.  Nel testo: Vielweiberei.

14.  Vielweiberei.

15.  Haushalt; Haushaltung: l'italiano non ha alcuna parola che, al pari del francese ménage, renda in breve e completamente la stessa idea. (Nota degli Editori Italiani).

16.  Haushaltungen. Vedi la nota a pag. 60 (Nota degli editori).

17.  Nel testo: Einzelehe. In questo caso speciale Engels avrebbe impiegato Einzelehe come equivalente di Monogamie. — Veggansi le Avvertenze filologiche che fanno seguito alla Introduzione, (Nota degli editori italiani).

18.  Haushaltung: Vedi nota a pag. 60

19.  Come nel basileus greco, così nel duce dell'esercito azteco si volle a forza vedere un principe nel senso moderno. Morgan sottopone per la prima volta alla critica storica le relazioni degli spagnuoli, prima fraintese ed esagerate, poi direttamente menzognere, e prova, che i Messicani si trovavano nello stadio medio della Barbarie, tuttavia più elevati degl'Indiani-Pueblos del Nuovo-Messico, e che la loro costituzione, per quanto può dedursi da informi relazioni, corrispondeva a ciò: una federazione di tre tribù, che se ne era rese tributarie un certo numero di altre, e che era retta da un Consiglio federale e da un comandante dell'esercito della federazione, del quale ultimo gli spagnuoli fecero un «imperatore».

20.  Il rex latino è il celto-irlandese righ (capo della tribù) e il reiks gotico; che questo, come in origine anche il tedesco fürst, principe (cioè, come in inglese first, in danese först, il primo), significasse capo della tribù o della gente, risulta dal fatto che i Goti possedevano giù nel quarto secolo una parola speciale per indicare quel che fu poi detto re, cioè il duce di tutto un popolo in armi: thiudans. Artaserse ed Erode, nella traduzione della bibbia di Ulfila, non si chiamano mai reiks, ma thiudans, e il regno dell'imperatore Tiberio non reiki, ma thiudinassus. Nel nome del goto thiudans, o, come noi traduciamo inesattamente, del goto re Thiudareiks, Teodorico, cioè Dietrich, le due denominazioni si confondono in una.

21.  Avendo passati alcuni giorni in Irlanda, mi riconvinsi vieppiù di quanto ancora i concetti dell'epoca gentile dominino quelle popolazioni campestri. Ivi il proprietario di terreno, il cui fittaiuolo è il contadino, è tuttora considerato da questo come una specie di capo di clan, che deve amministrare i fondi nell'interesse di tutti, al quale il contadino paga il tributo sotto forma di affitto, ma dal quale egli deve anche ricevere appoggio in caso di bisogno. E del pari ogni benestante è considerato in dovere di fornire appoggio ai suoi vicini più poveri, se questi cadono in miseria. Siffatto aiuto non è un'elemosina, ma è ciò che è dovuto di diritto al compagno più povero dal compagno più ricco o dal capo di un clan. Si comprendono le lamentele degli economisti e dei giuristi sulla impossibilità d'inculcare al contadino irlandese il concetto della moderna proprietà borghese; una proprietà, che ha soltanto diritti e non doveri, è cosa che non entra affatto nelle teste irlandesi. Ma si comprende anche come degli Irlandesi, trabalzati improvvisamente, con tali ingenui concetti gentili, nelle grandi città inglesi ed americane, fra una popolazione che ha idee giuridiche e morali affatto diverse, perdano ogni concetto di morale e di diritto ed ogni ritegno, e sovente si demoralizzino in massa.

22.  Marca, in tedesco, significa il terreno appartenente originariamente in comune agli abitanti di un villaggio o di un distretto. I campi e i prati erano divisi fra i capi di famiglia, ma nei primi tempi erano soggetti a nuove divisioni periodiche (il che perdura ancora in parecchi villaggi sulla Mosella); più tardi la parte di ciascuno divenne proprietà sua, ma sempre soggetta al regolamento della coltura per la comunità. I pascoli, le selve e altri terreni incolti restarono, e sono ancora oggi in molti casi, proprietà comune. La collettività degli interessati determina e il modo di coltura dei campi e l'uso del terreno comune. La costituzione della marca è la più antica costituzione dei Germani e la base su cui sono estrutte tutte le loro istituzioni del medio-evo.

(Nota aggiunta dall'autore pel lettore italiano, qui riprodotta dalla edizione di Benevento, 1885).

23.  I Greci non conoscono più, se non per la mitologia dei tempi eroici, la stretta natura del vincolo tra zii materni e nipoti, proveniente dal tempo del diritto materno e comune a tanti altri popoli. Secondo Diodoro (IV, 34), Meleagro uccide i figli di Testio fratelli di sua madre Altea. Costei vede in tal fatto un delitto tanto inespiabile, che maledice l'uccisore, suo proprio figlio, e gli augura la morte. «Gli Dei esaudirono, come narrasi, i suoi voti, e posero fine alla vita di Meleagro». Secondo lo stesso Diodoro (IV, 41), gli Argonauti sbarcano sotto Ercole in Tracia e ivi trovano che Fineo, ad istigazione della sua nuova consorte, maltratta ignominiosamente i suoi due figli procreati colla moglie ripudiata, la Boreade Cleopatra. Ma tra gli Argonauti vi sono anche dei Boreadi, fratelli di Cleopatra, fratelli quindi della madre dei maltrattati. Essi prendono tosto le difese dei nipoti, e li liberano uccidendo le guardie.

24.  Il testo tedesco traduce i due termini scandinavi rispettivamente con Geschwisterkinder e Geschwistersöhne. — Kind, Söhn è fanciullo, figlio. Geschwister equivale a fratelli, ma indifferentemente maschi o femmine. La parola corrispondente, che renderebbe più chiaramente il concetto, manca in italiano. (Nota degli editori italiani)

25.  Questa cifra è confermata da un passo di Diodoro sui Celti gallici: «Nella Gallia abitano molte popolazioni di forze disuguali. Le più grandi ammontano a circa 200,000 individui, le più piccole a circa 50,000». (Diodoro Siculo, V. 25). Ossia 125,000 in media. I popoli Galli, stante il loro più alto sviluppo, dovevano essere più numerosi dei Germani.

26.  Secondo il vescovo Liutprando di Cremona, il ramo principale dell'industria nel X secolo in Verdun, cioè nel Sacro Impero tedesco, era la fabbricazione degli eunuchi, che con gran profitto venivano esportati nella Spagna per gli harem dei Mori.

27.  Particolarmente sulle coste nord-ovest dell'America (vedi Bancroft). Presso gli Haidahs, nell'isola della regina Carlotta, si trovano economie domestiche persino di 700 persone sotto un solo tetto. Presso i Nootaks vivevano sotto uno stesso tetto intere tribù.

28.  Circa il numero degli schiavi in Atene, veggasi sopra a pag. 157. A Corinto, ai tempi prosperi della Città, esso ammontava a 460,000; a Egina a 470,000; in ambo i casi, il decuplo della popolazione dei liberi.

29.  Il primo storico, che avesse un'idea almeno approssimativa della gente, fu Niebuhr, e lo deve — insieme agli errori che accettò senz'altro — alla sua conoscenza delle schiatte dithmarscie.

30.  Il «System der erworbenen Rechte» (Sistema dei diritti acquisiti) di Lassalle si aggira, nella seconda parte, principalmente intorno alla tesi, che il testamento romano è vecchio quanto Roma, che nella storia romana non vi fu mai «un'epoca senza testamento», che il testamento nacque, anzi, in un'epoca anteriore alla romana, dal culto dei defunti. Lassalle, quale vecchio-hegeliano ortodosso, fa derivare le disposizioni del diritto romano, non dai rapporti sociali dei Romani, ma dal «concetto speculativo» del volere, e giunge così a quell'affermazione totalmente contraria alla storia. Ciò non può destar meraviglia in un libro che, in grazia dello stesso concetto speculativo, riesce a questo risultato, che nell'eredità romana la trasmissione dei beni sarebbe stata un mero accessorio. Lassalle non solo crede alle illusioni dei giuristi romani, particolarmente dei primi tempi; egli li supera.

31.  Io avevo da principio l'intensione di porre la brillante critica della Civiltà, che si trova sparsa nelle opere di Carlo Fourier, accanto a quella di Morgan e alla mia. Pur troppo me ne manca il tempo. Noto solo, che già in Fourier la monogamia e la proprietà della terra sono le caratteristiche essenziali della Civiltà, e che egli la chiama una guerra del ricco contro il povero. In lui si trova già anche l'intuizione profonda, che in tutte le società difettose, scisse da antagonismi, le famiglie isolate (les familles incohérentes) sono le unità economiche.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

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