The Project Gutenberg eBook of Annali d'Italia, vol. 4

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Title: Annali d'Italia, vol. 4

Author: Lodovico Antonio Muratori

Release date: February 7, 2015 [eBook #48188]
Most recently updated: October 24, 2024

Language: Italian

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK ANNALI D'ITALIA, VOL. 4 ***

ANNALI

D'ITALIA

4


Copertina

ANNALI
D'ITALIA

DAL

PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE
SINO ALL'ANNO 1750


COMPILATI

DA L. ANTONIO MURATORI

E

CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI

Quinta Edizione Veneta


VOLUME QUARTO


VENEZIA

DAL PREMIATO STAB. DI G. ANTONELLI ED.

1845


INDICE


ANNALI D'ITALIA

DAL

PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE FINO ALL'ANNO 1500

[9]

   
Anno di Cristo DCCCCXCIV. Indiz. VII.
Giovanni XV papa 10.
Ottone III re di Germania e d'Italia 12.

Cogli affari d'Italia han correlazione quei di Gerberto creato arcivescovo di Rems. Prese la santa Sede la protezione di Arnolfo deposto da quella sedia contro le leggi canoniche, e papa Giovanni XV sospese dai divini uffizii que' vescovi che aveano proferita sentenza contro di lui. Restano tuttavia le invettive d'esso Gerberto, non dirò contro la Chiesa romana, ma contro quei papi che in questi ultimi tempi l'aveano cotanto sporcata, e sì malamente governata; di Gerberto, dico, il quale da qui a non molto ci comparirà salito sul medesimo trono pontificio. Ugo Capeto re di Francia spedì al papa le ragioni dell'operato dai vescovi, e il pregò di voler venire in persona fino a Grenoble, per conoscere meglio questa differenza. Non si sentì voglia il pontefice Giovanni di prendersi tanto incomodo, e solamente mandò in Francia Leone abbate del monistero di san Bonifazio per suo legato, per cui opera nell'anno seguente fu in qualche maniera posto [10] fine a quell'imbroglio. Abbiamo da Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] e da Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernitanus, in Chron.] che in questo anno obsessa est Matera a Saracenis tribus mensibus, et quarto capta ab eis. Ne erano allora in possesso i Greci, ma non ebbero forza per poterla sostenere contro la possanza dei Mori. Fino all'anno presente signoreggiò in Salerno Giovanni II appellato di Lamberto [Peregrinius, Hist. princip. Langobard.]. La morte il rapì con restare principe di Salerno suo figliuolo Guaimario, chiamato il terzo, per distinguerlo da altri due principi dello stesso nome, che erano vivuti ne' tempi addietro. Era esso Giovanni tuttavia vivente nel giugno di quest'anno, ciò apparendo da un diploma dato da lui e dal figlio Guaimario, che si legge nelle Antichità italiane [Antiquit. Ital., Dissert. XXXII, pag. 1035.]. Truovasi ancora in quest'anno Otberto ossia Oberto II marchese, figliuolo di quell'Otberto I che noi già vedemmo marchese e conte del sacro palazzo, e dicemmo progenitore della casa d'Este, il quale tiene un placito nella chiesa di Lavagna, e sentenzia in favore del monistero di san Fruttuoso [Antichità Estensi, P. I, cap. 15.]. L'atto fu [11] scritto anno Incarnationis Domini nostri Jesu Christi nongentesimo nonagesimo quarto, X kalendas februarii, Indictione septima, cioè senza contar gli anni di Ottone III re. Erano potenti in Toscana e Lunigiana i marchesi appellati dipoi di Este, e forse di qui possiamo inferire che il suddetto Otberto II governasse in questi tempi la marca di Genova.


   
Anno di Cristo DCCCCXCV. Indiz. VIII.
Giovanni XV papa 11.
Ottone III re di Germania e d'Italia 13.

Fu nel presente anno sul principio di giugno tenuto per ordine del papa un concilio in Mosomo, oggidì Mouson vicino alla Mosa, a cui presedette Leone abbate legato pontificio, e fu deciso che la deposizione di Arnolfo arcivescovo di Rems fosse invalida e nulla, e per conseguente contro i canoni entrato in quella chiesa Gerberto monaco, già abbate di Bobbio. Però spossessato di quell'insigne arcivescovato Gerberto, e come abbandonato da Ugo Capeto re di Francia, si ritirò alla corte del re Ottone III, di cui aveva l'onore d'essere stato maestro. Ma Arnolfo, che era in prigione, finchè visse il re Ugo, non ne potè uscire. Abbiamo da Ditmaro [Ditmarus, in Chron., lib. 4.] e da Ermanno Contratto [Ermannus Contractus, in Chron.] che ad una dieta tenuta in Maddeburgo intervenne con gli altri principi Arrigo II duca di Baviera e di Carintia, e marchese di Verona, il qual poscia portatosi a Gandersheim, dove Gerberga sua sorella era badessa, quivi cadde gravemente infermo. Però chiamato a sè il figliuolo Arrigo, che fu poi imperadore e santo, gli ordinò di tornarsene in Baviera ad assicurarsi di quel ducato, raccomandandogli di non operare mai contro la fede ed ubbidienza dovuta al re suo signore: massima da lui trascurata negli anni addietro, del che era ben pentito, e pregandolo di [12] ricordarsi del padre, che più non rivedrebbe in questo mondo. Aggiugne l'Annalista Sassone [Annalista Saxo. apud Eccardum.]: Hic postquam poenitentia ductus regnum respuit, et Bawariae ducatu donatus est, ita in eo pro componenda pace ultra priores suos effloruit, ut ab illius terrae incolis Henricus pacificus et pater patriae appellaretur. Dopo la morte del padre il giovane Arrigo, Bawariorum electione et auxilio, bona patris et ducatum, rege donante, obtinuit. Abbiamo poi due rilevanti particolarità spettanti a quest'anno negli Annali di Ildeseim [Annales Hildesheim.], copiate dipoi dall'Annalista sassone, cioè, che Ottone III mandò per suoi ambasciatori a Costantinopoli Giovanni vescovo di Piacenza, e Bernuardo vescovo di Virzburgo, per addimandare in moglie d'esso re una principessa del sangue imperiale de' Greci. Tornerà il ragionamento intorno a questo affare andando innanzi. Questo vescovo di Piacenza è quel medesimo Giovanni archimandrita calabrese, di cui abbiam parlato di sopra, e che vedremo antipapa in breve. Il Campi nella Storia ecclesiastica di Piacenza il truova in quella città anche nell'aprile dell'anno presente. L'altra particolarità è che legati apostolicae sedis cum unanimitate Romanorum atque Langobardorum regem Romam invitant. Certo è, che per la lontananza del re erano insorti dei troppo mali umori in Italia, cioè sedizioni di popoli, e soprattutto dai potenti venivano usurpati giornalmente i beni e diritti delle chiese. Abbiam veduto il popolo di Milano in rotta contra del loro arcivescovo Landolfo; obbligato papa Giovanni XV a fuggirsene di Roma per la prepotenza di Crescenzio e di quel senato. Forse questi due fatti occorsero circa questi medesimi tempi. E come avesse mano e balìa nel governo di Roma il suddetto Crescenzio, si può anche intendere da ciò che i vescovi di Francia nella lite già accennata di Arnolfo e Gerberto diceano, o, per dir meglio, [13] facea lor dire lo stesso Gerberto [Baron., in Annal. Eccles. ad annum 992.]: Regii, ac nostri legati Romam profecti, et epistolas pontifici porrexerunt, et ab eo indigne suscepti sunt. Sed, ut credimus, quia Crescentio nulla munuscula obtulerunt, per triduum a palatio seclusi, nullo responso accepto redierunt: quod peccatis nostris exigentibus provenire, non dubium est, ut romana Ecclesia, quae mater et caput ecclesiarum est, per tyrannidem debilitetur. Ecco lo stato in cui si trovava allora la Sedia apostolica, certo per colpa de' soli Romani. Da un diploma riferito dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 in Episc. Veron.] siamo assicurati che il re Ottone III si trovava in Magonza III idus novembris anno dominicae Incarnationis DCCCCXCV Indictione VIIII (la qual dovea camminare fino al fine dell'anno presente, secondo il moderno stile) anno tertii Ottonis regnantis XII. Parimente la Cronica del monistero di Volturno [Chron. Vulturnense, P. II, tom. 1 Rer. Ital.] ci somministra un placito, tenuto in quest'anno in Valva nel ducato di Spoleti, oppure nella marca di Camerino. Erano presidenti ad esso Atto comes, et Oderisius comes, et Helmepertus episcopus missus domni Ugonis dux et marchio. Queste poche parole confermano quanto s'è accennato di sopra, cioè che per qualche accidente non era più duca di Spoleti e marchese di Camerino Trasmondo, da noi veduto negli anni addietro al governo di que' paesi; e che a lui era succeduto Ugo duca e marchese anche di Toscana.


   
Anno di Cristo DCCCCXCVI. Indiz. IX.
Gregorio V papa 1.
Ottone III re 14, imperad. 1.

L'anno fu questo in cui, venuta la primavera, vernali tempore, il giovane Ottone III re calò in Italia, accompagnato dalla guardia di un decoroso esercito. Secondo il Cronografo sassone [Chronograph. Saxo, in Access. Histor. Leibnitii.], [14] dominicam resurrectionem Papiae regali more celebravit. Passato a Ravenna, quivi fece una buona posata, e colà gli giunse l'avviso che era mancato di vita Giovanni XV, cioè quel papa che il santo abbate di Fleury Abbone [Aimonius, in Vita S. Abbonis.] ito a Roma, turpis lucri cupidum, atque in omnibus suis actibus venalem reperit. Seco avea l'imperadore condotto Brunone suo parente, in qualità di cappellano, giovane letterato, ma alquanto per la sua età focoso. Invogliossi Ottone di metterlo sul trono pontifizio, e intesosi coi Romani, lo spedì a Roma, accompagnato da Willigiso arcivescovo di Magonza, e da Adalboldo vescovo di Utrecht, dove innalzato a quella sublime dignità, assunse il nome di Gregorio V. Il Sigonio [Sigonius, de regno Italiae, lib. 7.] scrive che Ottone usurpato jure Brunonem Saxonem propinquum suum, XVI kalendas julii pontificem declaravit, ac Romam consecrandum misit. Altrettanto ha Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.]; ed amendue riferiscono all'anno precedente l'esaltazione d'esso Gregorio; nè mancano scrittori che credono creato papa Brunone allorchè Ottone III fu giunto a Roma, e adoperò la sua autorità in favore di lui. Ma tanto al Sigonio, quanto al cardinal Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.] mancarono molti lumi, che noi ora abbiamo, e però in molte circostanze si allontana dal vero il loro racconto. La verità si è, che solamente nel presente anno venne Ottone III in Italia; ed in esso mancò di vita Giovanni XV romano pontefice. Stando il re Ottone in Ravenna, raccomandò ai Romani il suddetto Brunone, ed essi concordemente convennero nell'elezione di lui, senza che il re usurpasse i loro diritti. Prese il nome di Gregorio V. Non essendo egli per anche imperadore, ma solo re d'Italia, a nulla era tenuto per lui il clero e popolo romano, e solamente poteano intervenire riguardi di convenienza, che in fatti non mancarono in [15] tal congiuntura. Come succedesse l'affare, l'abbiamo da un autore contemporaneo, cioè dal monaco autore della Vita di santo Adalberto vescovo di Praga presso il padre Mabillone [Mabill., Saecul. Benedict. V, pag. 860.]: Rex autem Otto, scrive egli, Alpium nives multo milite transmeans, juxta sacram urbem Ravennam regalia castra metatus est. Ibi in ejus occursum veniunt epistolae cum nuntiis, quos mittunt romani proceres et senatorius ordo: primo illius adventum, velut toto tempore paternae mortis non visum, totis visceribus desiderare, ac debita fidelitate pollicitantur exspectare. Deinde in morte domni Apostolici tam tibi quam illis, non modicam invectam esse partem incommodorum annuntiant, et quam pro eo ponerent, regalem exquirunt sententiam. Pertanto mandò egli a Roma Brunone; e che questi fosse liberamente eletto ed approvato dal clero e popolo romano, l'abbiamo dagli Annali d'Ildeseim [Annales Hildesheim.] e dall'Annalista sassone [Annalista Saxo.], che scrivono a quest'anno: Johannes papa obiit. Unde imperator in Italia positus, rumore incitatus, praemissis quibusdam principibus, publico consensu et electione, fecit in apostolicam Sedem ordinari suum nepotem domnum Brunonem, Ottonis filium, qui marcham veronensem servabat, imposito nomine Gregorii. Di qui impariamo chi fosse il padre di Gregorio V papa, cioè Ottone duca della Franconia, ed allora marchese ancora della marca di Verona, nato da Liutgarda figliuola di Ottone il Grande imperadore. Ne ho io prodotta la genealogia altrove [Antiq. Ital., Dissert. XLI. Antichità Estensi, P. I, cap. 8.]. Così il Cronografo sassone scrive [Chronograph. Saxo apud Leibnitium.]: Nepotem suum Brunonem virum valde praeclarum, non solum cleri, sed et omnium Romanorum unanimi voto civium pontificem electum subrogari pie consensit. Crede il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] che sul principio di maggio seguisse [16] l'assunzione al trono pontifizio di Gregorio V.

Allorchè Ottone nel calare in Italia fu a Verona, per attestato del Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], Pietro Orseolo II doge di Venezia inviò a fargli riverenza Pietro suo figliuolo, che ebbe l'onore d'essere tenuto alla cresima dal medesimo re: nella quale occasione mutò il suo nome in quello di Ottone, e regalato dal re se ne tornò tutto contento al padre. E quando esso re fu giunto a Ravenna, il suddetto doge gli spedì degli ambasciatori, che riportarono da lui privilegium de portu et mercato tenendo cum tribus locis, cum omni datio et theloneo. Non si può ben intendere in qual sito fosse questo porto e mercato. Immaginò il Sigonio che Ottone III, prima di portarsi a Ravenna, passasse ad assediar Milano, dove aggiustasse le differenze insorte fra Landolfo arcivescovo e il popolo di quella città. Ma appunto l'immaginò. Niuno degli antichi scrittori conobbe questo assedio di Milano, nè sotto Ottone II, nè a' tempi di Ottone III suo figliuolo: però non si può riposar sull'autorità di Landolfo seniore storico milanese, che è solo a narrarlo; e tanto più perchè, già avvertimmo che Arnolfo altro storico milanese, ma più accurato, nulla ne parla, e scrive posto in altra maniera fine alle controversie di Milano. Si può ben credere che in quest'anno, e non già nel seguente, come fu d'avviso Girolamo Rossi [Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5.], riuscisse ad esso Ottone III dimorante in Ravenna d'indurre san Romualdo, monaco ed anacoreta, di santità già conosciuta, ad accettare il governo dei monistero di Classe, come si legge nella vita d'esso santo scritta da san Pier Damiano [Petrus Damiani, in Vit. Romualdi., cap. 6.]. Dappoichè fu assunto al pontificato Gregorio V, il re Ottone III mosse da Ravenna alla volta di Roma, dove fu solennemente ricevuto. Ho io rapportato un bel placito, tenuto fuori della stessa Roma dal medesimo re colla [17] assistenza di molti vescovi e principi con queste note [Antichità Estensi, P. I, cap. 20.]: Regnante domno Hottone piissimo rege anno regni pietatis ejus in Italia secundo, primo mense madii, Indictione secunda, foras porta sancti Laurentii, infra palatius domni nostri regis. Non ho finora saputo intendere, perchè si dica anno secondo del regno, se non supponendo che seguisse la sua elezione e coronazione in re d'Italia nell'aprile dell'anno precedente. Ma se Ottone era in Roma, ossia sulla porta di Roma nel dì primo di maggio, si avvalora l'autorità di quegli scrittori che il fanno giunto colà prima che Brunone fosse posto sulla cattedra pontifizia. Ora in esso placito l'abbate di santa Flora d'Arezzo fece querela contra Adelbertus marchio, et Albertus germani, filii quondam Holberti, cioè figliuoli del marchese Oberto I conte del sacro romano palazzo, ed antenati della casa d'Este, per cagione di alcuni beni da loro occupati, e ne riportò il possesso, salva querela, cioè con lasciar vive ad essi marchesi le loro ragioni nel petitorio. Stando in vicinanza di Roma il re Ottone III, finalmente giunse ad ottenere la corona dell'imperio. Siccome abbiamo dalla vita di santo Adalberto [Anonym., in Vit. S. Adalberti Pragens.], magno gaudio omnium imperatorium attigit apicem. Laetantur cum primoribus minores civitatis, cum afflicto paupere exsultant agmina viduarum, quia novus imperator dat jura populis, dat jura novus papa. Queste parole, dice il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.], manifeste ostendunt, Ottonem III sicuti et decessores, supremum dominium in urbe exercuisse; quod usque ad nostra tempora obscurum fuit. Il giorno in cui, secondo gli Annali d'Ildeseim, egli imperator et patricius coronatur, fu quello di Pentecoste, che in quell'anno cadde nel dì 31 di maggio. Ma, per attestato di Ditmaro [Ditmarus, in Chron., lib. 4.] e dell'Annalista sassone [Annalista Saxo.], Romam veniens [18] in Ascensione Domini, quae tunc erat XII kalendas junii, anno aetatis suae XV, regni autem XIII, Indictione VIII (ha da essere VIIII) ab eodem unctionem percepit, et advocatus Ecclesiae sancti Petri efficitur. Altrettanto ha il Cronografo sassone, pubblicato dal Leibnizio [Chronographus Saxo editus a Leibnitio.]: il che quando sia vero, la coronazione seguì nel dì 21 di maggio. E questa appunto si dee dire le vera sentenza. Rapporta l'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., t. 5 in Episc. Veronens.] un suo diploma, dato in Roma X kalendas junii di quest'anno, Indictione IX, anno tertii Ottonis imperantis I. Ho io parimente pubblicato un diploma [Antiquit. Italic., Dissert. VIII.], da lui dato in favore di Odelrico vescovo di Cremona, obtentu karissimae sororis nostrae Sophiae con queste note: Datum VI kalendas junii anno dominicae Incarnationis DCCCCXCVI, Indictione VIIII, anno vero tercii Ottonis regnantis XIII, imperii autem ejus primo. Actum Romae: il che ci fa conoscere ch'egli era già imperadore nel dì 27 di maggio. E qui non voglio tacere che nel medesimo mese Ardoino conte del palazzo tenne un placito [Ibidem, Dissert. VII.] nel distretto di Brescia, dove l'avvocato della chiesa di Cremona ottenne sentenza favorevole contra di Gualberto giudice. L'atto fu scritto anno Incarnationis Domini nostri Jesu Christi DCCCC nonagesimo sexto, XI kalendas junias, Indictione nona: il che è da notare, perchè sempre più conferma quanto io ho detto di sopra; cioè, che quantunque Ottone III fosse eletto re di Italia, e governasse questo regno, pure non erano contati in Italia gli anni del suo regno, perchè egli non era per anche coronato colla corona che chiamiamo ferrea. Altra ragione non so io addurne che questa. Aggiungasi un altro diploma d'esso Augusto, dato VIII kalendas junii dell'anno presente coll'actum Romae, come si legge nel Bollario casinense; di modo che siam certi del dì della sua coronazione.

[19] Creato che fu imperadore Ottone III, cominciò, secondo il rito de' suoi predecessori, a far giustizia in Roma; e fra gli altri fu citato Crescenzio per le insolenze usate a Giovanni XV papa. Habito, dice l'Annalista sassone [Annalista Saxo apud Eccardum.], cum Romanis placito, quemdam Crescentium, quia priorem papam injuriis saepe laceraverat, exsilio statuit deportari; sed ad preces novi Apostolici omnia illi remisit. Di qui ancora s'intende qual fosse l'autorità imperiale di Ottone III in Roma. Sbrigato da questi affari esso Augusto, si trasferì dipoi a Pavia. Ne ho la pruova in un suo diploma [Antiquit. Ital., Dissert. XVIII.], confermatorio de' beni e privilegii del monistero delle monache di santa Maria di Teodata, oggidì della Posterla, dato kalendis augusti, anno dominicae Incarnationis DCCCCXCVI Indictione IX, anno tertii Ottonis regnantis XIII, imperii primo. Actum Papiae. Benchè niuno degli antichi storici faccia menzione che Ottone III fosse coronato colla corona del regno d'Italia; pure si può ragionevolmente credere ch'egli o nel suo primo arrivo in Lombardia nella primavera di quest'anno, ovvero nell'essere tornato colà dopo la coronazione romana, ricevesse ancora l'altra del regno italico. Bonincontro Morigia da Monza [Bonincontrus Morig. in Chron.], che fioriva nel secolo decimoquarto, siccome osservai nel mio trattato de Corona Ferrea, [Anecdot. Latin., tom. 2.], scrive ch'egli primo in Modoetia (cioè in Monza) postea in Mediolano italici regni coronam accepit. Anzi, se a lui crediamo, Ottone III fu quegli che costituì la nobil terra di Monza caput Lombardiae et sedem regni illius: il che difficilmente si può credere, perchè quest'era una prerogativa di Pavia, e, se si vuol, anche di Milano. Sappiamo ben di certo, che ne' secoli susseguenti fu e tuttavia si truova custodita la corona del ferro nella basilica di san Giovanni Batista di Monza, [20] e che quivi talvolta furono coronati i re d'Italia. Sull'autunno se ne tornò in Germania il novello Augusto, e per quanto ci assicura il Cronografo sassone, in agrippina colonia, summi imperatoris condigno honore, celebrat natalem diem. Può essere motivo di maraviglia il trovare tanta diversità di pareri intorno all'anno in cui Ugo Capeto re di Francia, primo della sua schiatta, finì di vivere. L'Annalista sassone [Annalista Saxo.] fa succeduta la di lui morte nell'anno 994; Odoranno ed altri nell'anno 998. Certo è che s'ingannano. Il padre Mabillone e il padre Daniello il credono mancato di vita nell'anno presente 996. Ma il padre Pagi pretende che ciò accadesse nell'anno seguente 997. Tale fu ancora il sentimento di Romoaldo salernitano [Romualdus Salernitanus, in Chron., tom. 7 Rer. Ital.]. Lascerò io disputarli di questo, bastando ricordare ai lettori ch'ebbe per successore Roberto, principe per la sua pietà e per altre virtù lodatissimo, ma poco da noi conosciuto per altre sue azioni Abbiamo poi una gran folla di scrittori che tengono istituiti in quest'anno da papa Gregorio V i sette elettori dell'imperio. Ma in questi ultimi tempi, ben ventilata una tal quistione, è ormai deciso non sussistere l'istituzione d'essi elettori: intorno a che non ispenderò io altra parola.

Prima nondimeno di abbandonar quest'anno, si vuol rammentare uno strepitoso fatto, che si dice accaduto nel contado di Modena, e vien riferito all'anno presente dal Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 7.] e da altri. Gotofredo da Viterbo [Gotifredus Viterbiens., in Panth.] circa l'anno 1190 fu il primo e il solo a spacciar questo racconto. Trovandosi l'imperadrice moglie di Ottone III (chiamata Maria da alcuni) vicino a Modena nella casa del conte, ossia governatore di questa città, chiamata Amola, perdutamente s'invaghì d'esso conte, ed anche sfacciatamente [21] gli palesò le sue fiamme. Egli, fedele a Dio e al suo principe, si mise a fuggire; e perchè l'imperadrice l'aveva afferrato pel mantello a fine di ritenerlo, glielo lasciò nelle mani. Rivelò il conte alla propria moglie quanto gli era accaduto, ben prevedendo la propria rovina. Infatti accusato dall'imperadrice all'Augusto consorte, quasichè egli avesse dato un assalto alla di lei onestà, il credulo Ottone gli fece senz'altro tagliare il capo. Comparve dipoi l'afflitta moglie del conte davanti all'imperadore; e rivelato il fatto, come era, dimandò giustizia, con esibirsi di provar l'innocenza del marito e la calunnia dell'imperadrice col giudizio, come allora diceano, del ferro rovente. Fu ammessa alla pruova, e senza danno alcuno maneggiò quel ferro, o pure passeggiò illesa sopra i vomeri infuocati; perlochè l'imperadrice fu condannata al fuoco. Ma che questa sia una popolar novella, bevuta buonamente da Gotofredo da Viterbo, abbastanza si comprende dal vedere che niuno de' più antichi scrittori ha lasciata menzione di un avvenimento di tanto rilievo, che avrebbe fatto un incredibil rumore dappertutto. E neppure alcun d'essi scrive che Ottone III, giovane di sedici anni, avesse per anche presa moglie; anzi s'è osservato ch'egli nel precedente anno inviò due vescovi a cercarne una in Grecia. Aggiungasi aver noi trovato all'anno 989 Tedaldo, avolo della contessa Matilda, marchese e conte di Modena. Scorgeremo inoltre vivente lo stesso Tedaldo dopo la morte di Ottone III, nè è molto probabile che fosse stato tolto a lui il governo di questa città per darlo ad un altro. Quel solo che potrebbe addursi per sostener qui il racconto di Gotifredo, consiste in immaginare che gli antichi passassero sotto silenzio le nozze e la morte di questa imperadrice, come memoria infame. Oltre di che, Landolfo seniore, storico milanese, non lontano dai tempi di Ottone III lasciò scritto [Landulf. Senior, Hist. Mediol., t. 4 Rer. Ital.], [22] aver egli spedito a Costantinopoli Arnolfo II arcivescovo di Milano a cercargli una moglie, defuncta conjuge, ex qua filium masculum minime genuerat: siccome io prima d'ora osservai nella prefazione alla storia d'esso Landolfo. Però ne creda ciò che vuole il saggio lettore.


   
Anno di Cristo DCCCCXCVII. Indiz. X.
Gregorio V papa 2.
Ottone III re 15, imperad. 2.

Pareva che ormai dovesse il regno d'Italia, e Roma più che le altre città, goder pace e quiete, dacchè c'era un imperador potente che potea farsi rispettare ed ubbidire da tutti. Ma non fu così. Un mal uomo, un uomo acciecato dall'ambizione, conviene dire che fosse Crescenzio console di Roma. Quando si credeva Gregorio V papa di poter esercitare quel temporal dominio in Roma e nel suo ducato che aveano goduto tanti suoi predecessori, e che gli era stato confermato dall'Augusto Ottone III, trovò un troppo gagliardo oppositore in esso Crescenzio. Avvezzo questi a comandare, senza far caso del giuramento di fedeltà prestato al medesimo papa e all'imperadore, dimenticando ancora il perdono dei suoi falli, poco dianzi ottenuto ad intercessione dello stesso pontefice: tanto fece, che obbligò Gregorio V a fuggirsene di Roma, nudus omnium rerum, e a mettere in salvo la vita [Annales Hildesheim. Annalista Saxo.]. Ritirossi egli a Pavia, dove raunato un concilio di vescovi, fulminò la scomunica contra di Crescenzio. Ma questi se ne rise; anzi da lì a non molto passò all'estremo degli eccessi, quasichè non ci fosse più nè Dio nè potenza umana valevole a contrastare con lui. Cioè capitò in questi tempi a Roma quel Giovanni calabrese vescovo ossia arcivescovo di Piacenza, di cui s'è parlato più volte negli anni addietro, e il quale nella vita di san Nilo Egumeno presso il cardinal Baronio porta il nome di Philagathus, [23] già inviato dallo stesso Ottone III a Costantinopoli per trattare del suo maritaggio con una delle figliuole dei greci Augusti. Venivano con esso lui gli ambasciatori spediti all'Augusto Ottone da Basilio e Costantino imperadori, che furono con grande onore ricevuti da Crescenzio. Allora fu che tanto l'ambizioso Crescenzio, quanto il volpone Giovanni tramarono una tela d'infame politica, che abbastanza risulta dalla storia di quei tempi: cioè si accordarono insieme che il governo temporale di Roma restasse a Crescenzio, ma sotto la protezione e sotto la sovranità degl'imperadori greci, e Giovanni fosse creato papa, con contentarsi del governo spirituale della Chiesa di Dio. Parlando Arnolfo milanese [Arnulphus, Hist. Mediol. tom. 4 Rer. Ital.] di questo Giovanni greco, ha le seguenti parole: De quo dictum est, quod romani decus imperii astute in Graecos transferre tentasset. A me sembra verisimile che anche gli ambasciatori greci avessero mano in questo indegno trattato, che fu immediatamente eseguito, con aver la fazion di Crescenzio eletto e consecrato il suddetto Giovanni, manifesto antipapa, ed usurpatore del trono pontifizio. Fece inoltre Crescenzio mettere in prigione gli altri legati dell'imperadore Ottone che erano tornati da Costantinopoli. Benchè io abbia di sopra dato assai a conoscere chi fosse Giovanni, ora divenuto antipapa, pure ai lettori non sarà discaro di mirarne la pittura che ce ne lasciò il Cronografo sassone [Cronographus Saxo apud Leibnitium.], appellato dal Pagi, maddeburgense. Hic igitur, dice egli, Johannes natione graecus (di sopra l'avea chiamato Johannem quemdam calabritanum) conditione servus, astu callidissimus imperatorem Augustum Ottonem II sub paupere adiens habitu, ob interventum suae dilectae contectalis Theophanu Augustae, regia primum est alitus stipe. Deinde procurrente tempore, vulpina, qua nimium callebat, versutia praefatum eatenus circumvenit [24] Augustum (veggasi all'anno 982) ut pro loco et tempore satis clementi ab eo gratia donatus, paene inter primos usque ad defunctionem suam clarus haberetur. Post dormitionem vero secundi Ottonis, regnante jam tertio Ottone filio suo, praefatus Johannes ingenita sibi circa illos calluit securius astutia, quo regis infantia et primatum illius permittebatur incuria. Ad haec defuncto placentinae urbis episcopo, vir bonae indolis ei subeligitur. Quo indecenter ejecto, praefatus Johannes, non pastor sed mercenarius, eamdem non regendam, sed devastandam suscepit ecclesiam. Quam quum aliquot annos teneret, avaritiae diabolicae inebriatus veneno, tantum se extulit super se, ut etiam Romae ipsam beati Petri apostoli sedem, antichristi membrum vere effectus, fornicando potius pollueret, quam venerando insederet. Ecco qual fosse il furbo calabrese che s'intruse nella sedia sacrosanta del principe degli Apostoli. Fu egli perciò scomunicato da tutti i vescovi dell'Italia, Germania e Francia.

Crescenzio intanto imperium sibi usurpavit; e perchè papa Gregorio V si azzardò d'inviare i suoi legati a Roma, li fece egli prendere, e cacciolli in prigione. Di tutta questa sacrilega sollevazione andavano di mano in mano gli avvisi all'Augusto Ottone III; ma trovandosi egli in Germania impegnato nella guerra contro gli Slavi, non potè sì presto accudire agl'interessi d'Italia, certo essendo ch'egli fin verso il fine di quest'anno non si mosse dalla Sassonia. Perciò scorretto è da dire un suo diploma da me letto nell'archivio episcopale di Cremona con queste note [Antiquit. Italic., Dissert. XI.]: Data kalendis maji, anno dominicae Incarnationis nongentesimo nonagesimo septimo, domni autem Ottonis regnantis XV, imperii vero II, Indictione X. Actum Romae. Gli anni del regno e dell'imperio convengono all'anno seguente, e conseguentemente s'ha da scrivere anno DCCCCXCVIII, Indictione XI. S'ingannò eziandio il Sigonio, e poi Girolamo [25] Rossi, allorchè scrissero che Ottone III fu in Ravenna nell'aprile dell'anno presente, dove alle preghiere di Alasia sua sorella donò alcuni stati in Lombardia a Witichindo, a quo illustris Carrettorum familia manavit, come spacciavano i favolosi genealogisti degli ultimi secoli. Se sia poi documento legittimo una bolla di Gregorio V papa, che si pretende conceduta in quest'anno a Giovanni arcivescovo di Ravenna, nonis julii, Indictione X, nelle scritture estensi, per la controversia di Comacchio, è stato abbastanza esaminato. Abbiamo presso il Campi [Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.] un diploma di Ottone III spedito nell'anno presente XVI kalendas augusti. Actum Eschonowaga, cioè in una terra di Germania. Circa il fine poi dell'anno presente indubitata cosa è che esso imperadore calò di nuovo in Italia, sì perchè sotto quest'anno l'Annalista d'Ildeseim [Annales Hildesheim.] scrive ch'egli, ut Romanorum sentinam purgaret, Italiam perrexit, e sì perchè così persuadono i documenti che citerò all'anno seguente. Basti qui l'accennare un suo diploma, pubblicato dal padre Puccinelli [Puccinelli, Chron. della Badia Fiorentina, pag. 232.], che cel fa vedere in Trento nel dì 13 di dicembre dell'anno presente; e l'Ughelli attesta che il medesimo ne spedì un altro in favore della chiesa di Vercelli, Papiae in palatio XI kalendas januarii anno Incarnat. Domini DCCCCXCVII, Indictione XI, anno regni XIV, imperii autem II. Si aumentò mirabilmente in quest'anno la potenza dei Veneziani [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], perchè nata discordia dopo la morte di Turpimiro re dei Croati Schiavoni, le città marittime della Dalmazia mostrarono genio di darsi sotto il dominio veneto, che in quelle parti non possedeva allora se non la città di Zara. Il saggio dunque e valoroso doge Pietro Orseolo II con una buona armata navale si portò colà, ed ebbe ubbidienti ai suoi [26] cenni Parenzo, Pola, Ausere, Veglia, Arbe, Traù, Spalatro, Curzola, Liesina, Ragusi, ed altre città ed isole; dopo di che trionfalmente restituitosi a Venezia, cominciò ad intitolarsi duca della Dalmazia.


   
Anno di Cristo DCCCCXCVIII. Indiz. XI.
Gregorio V papa 3.
Ottone III re 16, imperad. 3.

Da uno strumento, da me dato alla luce [Antiquit. Italic., Dissert. XLI.], noi ricaviamo che nel dì 15 di gennaio dell'anno presente domnus Otho dux filius bonae memoriae Cononi comperò da Liutifredo vescovo di Tortona molte castella e beni. Il contratto seguì in Pavia. Questo Ottone duca, figliuolo di Conone, cioè di Corrado duca della Francia orientale, altri non è che il padre di Gregorio V papa. Essendosi ritirato a Pavia esso pontefice a cagione dello scisma introdotto nella Chiesa romana, colà si era portato ancora Ottone suo padre, marchese allora della marca di Verona; oppure vi capitò accompagnando l'Augusto Ottone III, il quale irritato forte contro i perturbatori del suo imperio e della Chiesa romana, sul fine del precedente anno era calato di nuovo in Italia. Il Cronografo sassone [Chronographus Saxo apud Leibnitium.] ci fa sapere che venerabilis papa Gregorius Papiae obviam factus est all'imperadore. Adunque Ottone III venne a Pavia, e, siccome poco fa osservammo, quivi celebrò la festa del santo Natale. Oltre a ciò, nel dì 5 di gennaio del presente anno egli si truova in quella città, dove diede un diploma in favore del monistero ambrosiano [Puricellius Monument. Basil. Ambrosian.]: Nonis januarii anno dominicae Incarnationis DCCCCXCVIII, regni vero domni Ottonis tertii XIV (dee essere XV), imperii ejus II, Indictione XI. Actum Papiae. Di là poi passò l'imperadore a Cremona, e quivi nel dì 29 di gennaio concedette ai canonici di santo Antonino di Piacenza un [27] privilegio [Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.], dato XIV kalendas februarii anno dominicae Incarnationis DCCCCXCVIII, Indictione XI, anno vero domni Ottonis tertii imperatoris regni ejus XV imperii II. Actum Cremonae. Che esso Augusto nel medesimo giorno dimorasse in Cremona, ne abbiamo un'altra testimonianza in un placito da me pubblicato [Antiquit. Ital., Dissert. XXVIII, p. 793.], il cui principio è tale: Dum in Dei nomine civitate Cremona in domo (cioè nel palazzo del vescovo) ipsius civitatis in Laubia majore ipsius domus, ubi domnus Otto gloriosissimus imperator praeesset, in judicio residebat, per ejusdem domni Olderici licentiam (cioè del vescovo di Cremona, perchè non si potea nei luoghi privati senza permission del padrone alzar tribunale di giustizia) Otto dux et missus domni ipsius Ottonis imperatoris (cioè il padre di Gregorio V papa) unicuique justitias faciendas et deliberandas: residentibus cum eo Henricus dux (cioè di Baviera, che fu poi imperadore), ec. In esso placito ottenne Odelrico vescovo di Cremona una favorevol sentenza contra dei cittadini della medesima città usurpatori de' suoi beni. Da Cremona si trasferì Ottone a Ravenna, e quivi [Ibidem, Dissert. LXII.] V idus februarii, Indictione XI confermò i privilegii ai canonici di Ferrara, con imporre ai trasgressori la pena di cento libbre, da pagarsi medietatem camerae nostrae, et medietatem praedictis canonicis, e non già alla camera pontificia. Dovette in tal congiuntura succedere ciò che narra Andrea Dandolo a questo medesimo anno [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.]: cioè che soggiornando Ottone III in Ravenna, s'invogliò di fare una scappata a Venezia, per vedere quella maravigliosa città. Fatta dunque vista di ritirarsi all'antichissimo monistero della Pomposa, per quivi fare un poco di purga, con soli sei compagni e Giovanni Diacono si portò poscia colà incognito. Segretamente avvertito della [28] sua venuta il doge, la notte trattava e cenava lautamente con lui, nel giorno poi il lasciava andare a suo talento visitando le chiese e le altre cose rare della città. Tenne Ottone Augusto al battesimo una figliuola del doge; gli condonò il pallio, che in vigore dei patti pagavano ogni anno i Veneziani al re d'Italia; e soddisfatta la sua curiosità, se ne ritornò a Ravenna. Finalmente in compagnia di papa Gregorio V e con un fioritissimo esercito d'Italiani e di Tedeschi s'incamminò il giovine imperadore alla volta di Roma [Annalista Saxo apud Eccardum.].

In essa si trovarono questi due primi luminari della Cristianità VIII kalendas martii anno dominicae Incarnationis DCCCCXCVIII, Indictione XI, ciò apparendo da un diploma d'esso Augusto in favore dell'insigne monistero di Farfa contra d'Ugo abbate [Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.], qui sibi imperialis abbatiae monasterii videlicet farfensis, absque nostro assensu regimen usurpaverat inique, et quod deterius est, pretio emerat a romano pontefice. Il bello è che Ottone III lo tolse ad Ugo abbate, por darlo poi in commenda, ossia in benefizio ad Ugo vescovo. Non istette però molto a rimettere in possesso del medesimo monistero il suddetto Ugo abbate, il quale riuscì poi un valentuomo, e faticò non poco in vantaggio del suo monistero. Un altro suo diploma [Antiquit. Ital., Dissert. XIX, pag. 9.], dato in Roma stessa V kalendas martii, si legge nelle Antichità italiane. In esso son confermati tutti i suoi beni ad Antonino vescovo di Pistoia. Non avea già aspettato l'arrivo di papa Gregorio, nè dell'imperadore, l'antipapa Giovanni; ma cautamente travestito, dopo aver tenuta occupata circa dieci mesi la sedia di san Pietro, se n'era fuggito. Poco nondimeno gli valse in questo bisogno l'astuzia sua. Fu scoperto e preso dai Romani stessi, i quali, per attestato di san Pier Damiano [Petrus Damiani, Epist. II ad Cadalpum.] e del Cronografo [29] sassone [Cronographus Saxo.], temendo che l'imperadore il lasciasse andar senza pena, gli tagliarono la lingua e il naso, gli cavarono gli occhi, e così malconcio il condussero nelle carceri di Roma. Da lì a qualche tempo postolo a rovescio sopra di un asinello, colla coda d'esso in mano il guidarono per le piazze e contrade della città, forzandolo a cantare: Tale supplicium patitur, qui romanum papam de sua sede pellere nititur. Novella ben graziosa, come se fosse credibile che il misero avesse voglia e forza da cantar questa canzone. E poi s'ha da chiedere a Pier Damiano, come potesse costui cantare, dopo averci detto che gli era stata dianzi tagliata la lingua. Per altro non si mette in dubbio l'obbrobrioso trattamento fatto a questo antipapa; anzi si sa che fu detestato da san Nilo abbate greco, celebre di questi tempi, e fondatore del monistero di Grottaferrata, abitante allora in un monistero presso di Gaeta, la cui Vita si legge negli Annali ecclesiastici del Baronio. Udito che egli ebbe come l'antipapa orbatus oculi, lingua et naso, in carcerem conjectus est, per compassione a questo suo nazionale greco, benchè di patria calabrese, si portò a Roma. Accolto con somma divozione dal papa e dall'imperadore, chiese loro in dono l'infelice Giovanni, qui, diceva egli, utrumque vestrum ex fonte baptismatis suscepit. Veggasi a qual grado di riputazione avesse portato costui la sua ipocrisia, dacchè avea tenuto al sacro fonte due sì eccelsi personaggi. Allora l'imperadore colle lagrime agli occhi (neque enim revera tota res ejus consilio peracta est) gli rispose che gliel concederebbe, purchè esso Nilo volesse fermarsi in Roma a governare il monistero di santo Anastasio dei Greci. Si disponeva il buon servo di Dio ad accettar la proposizione; sed durus ille papa, non contentus malis, quae adversus praedictum Philagathum (così egli nomina Giovanni) patraverat, quum illum adduxisset, et sacerdotales vestes ei dilaniasset, per totam [30] urbem circumduxit, ec. Predisse poi Nilo tanto al papa, quanto all'imperadore l'ira di Dio, perchè niuna misericordia aveano di costui, male corrispondendo a Dio che loro l'avea dato nelle mani.

Non era già fuggito Crescenzio da Roma, perchè confidato nel creduto allora inespugnabile castello di sant'Angelo, quivi si serrò coi suoi partigiani [Ditmarus, Chronic., lib. 4. Annalista Saxo. Glaber, Rodulphus lib. 1 cap. 4.]. Dopo la domenica in Albis fece l'imperadore imprendere l'assedio di quella fortezza con quante macchine erano allora in uso; e dati varii assalti e scalate, finalmente riuscì ai suoi di superar quella rocca. A Crescenzio preso e a dodici dei suoi tagliata fu, d'ordine dell'imperadore, la testa, e i lor cadaveri appesi ai merli del castello III kalendas maji, quando Crescentius decollatus suspensus fuit, come si ha da un diploma d'esso imperadore, citato dal padre Mabillone [Mabill., Annal. Benedict., ad hunc annum.]. Ma diversamente contano questo fatto gli storici italiani, cioè Leone Ostiense, san Pier Damiano, Arnolfo e Landolfo seniore storici milanesi, con iscrivere che ingannevolmente, e con promessa e giuramento di aver salva la vita, s'indusse Crescenzio a dare il castello e sè stesso in mano dell'imperadore, il qual poscia con qualche pretesto gli fece tagliare la testa: il che servì ad atterrir chiunque non sapeva allora ubbidire nè al papa nè all'imperadore. Cessò di vivere, o rinunziò alla sua chiesa in quest'anno Giovanni arcivescovo di Ravenna. Trovavasi nella corte dell'imperadore Gerberto monaco franzese, da noi veduto abbate di Bobbio, e poscia arcivescovo di Rems. Cacciato da quella chiesa, si attaccò all'Augusto Ottone III, di cui era stato maestro, e siccome gran faccendiere stava attento ad ogni apertura di avanzare la sua fortuna. Ed appunto egli ottenne di essere promosso all'arcivescovato di Ravenna verso il fine d'aprile dell'anno corrente, e non già nell'anno antecedente, come pensò Girolamo [31] Rossi. Tenne egli, prima che passasse quest'anno, un concilio dei suoi suffraganei in essa città [Labbe Concil., tom. 9.]. Occorre qui un punto imbrogliato di storia. Presso l'Olstenio, e nei concilij del Labbe, e nelle giunte ad Agnello Ravennate [Agnell., Vit. Episcopor. Ravenn., P. I tom. 2 Rer. Ital.], e nella Cronica di Farfa [Chronic. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.] si legge una riguardevol costituzione di Ottone III Augusto, indirizzata consulibus senatus populique romani, archiepiscopis, abbatibus, marchionibus, comitibus, in Italia constitutes, dove proibisce da lì innanzi ed annulla le alienazioni dei beni delle chiese. Fu fatta e pubblicata questa costituzione XII kalendas otobris Indictione XII (cominciata nel settembre dell'anno presente) anno III pontificatus domni Gregorii V papae, promulgata per manus Gerberti sanctae ravennatis ecclesiae archiepiscopi in ea synodo, in qua mediolanensi episcopo, Arnulfo nomine, papatum oblatum est in basilica beati Petri, quae vocatur ad Coelum aureum, et subscripserant omnes, qui adfuerunt episcopi. Non si sa primieramente il luogo di questo concilio. Se in Ravenna esisteva una basilica di san Pietro ad Coelum aureum, o, come ha un altro testo, ad Cellam auream, quivi sarà stato tenuto il suddetto concilio. Ma più probabile sembra che qui si debba intendere la basilica famosa di questo nome, posta in Pavia, dove riposa il sacro corpo di santo Agostino. Non certo in Roma finchè non apparisca che ivi fosse basilica alcuna così denominata. Secondariamente non si capisce che significhino quelle parole, in qua mediolanensi episcopo, Arnulfo nomine, papatum ablatum est. Qui decide tosto il padre Pagi [Pagius, in Crit. ad Annal. Baron.] con dire che l'imperito Cronografo farfense v'aggiunse di suo queste parole et Arnulfum archiepiscopum mediolanensem loco Johannis archiepiscopi piacentini posuit. Ma anche nel testo della Biblioteca estense, ove son [32] le Vite degli arcivescovi di Ravenna, s'incontrano le stesse parole. E poi come aspettare al dì 20 di settembre di quest'anno, e al concilio di Pavia, a levare il papato a Giovanni Calabrese arcivescovo di Piacenza, s'egli già nel dì 2 di marzo era stato deposto e villaneggiato, e forse non si contava più tra i viventi? Giacchè a noi mancano i lumi della storia per rischiarare questo punto, amo meglio di tacere, oppure di solamente proporre un mio sospetto. Cioè morto in quest'anno Landolfo II, arcivescovo di Milano, gli succedesse Arnolfo II, il quale, siccome altri vescovi voleano allora usare il titolo di servus servorum Dei, riserbato oggidì al romano pontefice, così anche egli assumesse il titolo di papa urbis Mediolani, non già per usurparsi il pontificato romano, ma per imitare gli antichi vescovi, i quali erano, al pari del pontefice romano, chiamati papi. Giacchè il costume avea introdotto che ai soli successori nella cattedra di san Pietro si desse questo titolo, papa Gregorio si può immaginare che ne facesse doglianza, e che nel concilio di Pavia fosse decretato che Arnolfo desistesse dal chiamarsi papa. San Gregorio VII pontifice decretò dipoi che questo titolo fosse riserbato ai romani pontefici.

Due diplomi da me pubblicati [Antiquit. Ital., Dissert. V.] ci fanno vedere Ottone III Augusto nel territorio di Lucca. Il primo è dato X kalendas septembris anno dominicae Incarnationis DCCCCXCVIII, Indictione VI (ha da essere XI.) Actum in Marlia juxta Lucam. Il secondo fu dato kalendis septembris dello stesso anno. Actum in castello Marlia juxta Lucam. Ch'egli di là passasse a Pavia, l'impariamo da un altro suo diploma in favore del vescovo di Torino [Guichenon, Bibliotec. Sebus. Centur. I, cap. 87.], dato kalendis septembris anno dominicae Incarnationis DCCCCXCVIII, Indictione XII, anno regni domni Othonis tertii XIV, imperii vero ejus III. Actum [33] palatio Papiae. Ma questo è documento difettoso. Nel primo dì di settembre non potè essere Ottone Augusto nel territorio di Lucca e in Pavia. Perciò in vece di septembris s'ha forse da leggere octobris. Così in vece dell'anno XIV del regno s'ha da scrivere XV. Quivi ancora si legge: Eo quod interventu ob amorem, ec. senza dirsi che intervenisse per impetrar questa grazia. Abbiamo poscia un altro diploma del medesimo Augusto in favor del monistero di Bobbio [Bullar. Casinens., tom. 2, Constit. LXV.], dove è Actum Papiae anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi DCCCCXCVIII, Indictione XI (s'ha da scrivere XII), anno imperii tertii Ottonis III. Datum kalendis octobris: il che ci dà a conoscere che la suddetta costituzion generale fu da lui formata e promulgata in un concilio tenuto in essa città di Pavia, e non altrove. Merita eziandio d'essere qui rammentato un placito [Antiquit. Ital., Dissert. X.], tenuto nel dì 16 di settembre dell'anno presente, anno Gregorii summi pontificis III, et anno Ottonis imperatoris III, Indictione XII, civitate Corneliense (cioè in Imola) juxta monasterium sanctae Mariae, quod vocatur in Regula. Tenne questo placito domnus Oldericus subdiaconus et missus domni Ottonis imperatoris, et cum eo domnus Erardus comes. Ivi fu rimesso in possesso d'alcuni beni situati nel territorio di Faenza e d'Imola il monistero di santa Maria, quod vocatur in Palatiolo, posto in Ravenna. Tunc misit domnus Oldericus subdiaconus et missus domni imperatoris cum praedicto domnus Erardus comes bandum, ec., colla pena di cento bisanti d'oro ai trasgressori, da pagarsi medietatem camerae nostrae (cioè dell'imperadore), e l'altra metà al monistero: pruova ancor questa del fisco spettante nelle città dell'esarcato all'imperadore. Ci fa poi intendere Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] che in quest'anno venit Busitus Caytus [34] (uffiziale di guerra dei Saraceni) cum praedicto Smaragdo (era questi un Greco o un cittadino di Bari ribello dei Greci) Barum mense octobris, et praedictus Smaragdus eques intravit Barum per vim a porta occidentali, et exiit iterum. Tunc Busitus cognita fraude discessit. Dovea costui aver fatto credere ai Mori di dar loro in mano la città di Bari, signoreggiata allora dai Greci; ma non essendogli venuto fatto di fissare il piede in quella città, il capitano de' Mori temendo di qualche inganno, se ne tornò colle pive nel sacco. A quest'anno, siccome ho nelle Antichità estensi [Antichità Estensi, P. I, cap. 15.] fatto conoscere, si truova nel broglio di Carrara in Lunigiana Oberto II marchese, progenitore de' principi della casa d'Este, che stabilisce un aggiustamento con Gotifredo vescovo di Luni, riconoscendo da lui in livello quattro pievi. Egli è ivi chiamato Otbertus marchio filius quondam item Otberti itemque marchio, qui professus sum ex natione mea lege vivere Longobardorum. Gli stati di questi principi erano allora principalmente nella Lunigiana e per la Toscana. Tenuto fu in quest'anno un insigne placito in Roma davanti a papa Gregorio V e all'imperadore Ottone III [Mabill., Annal. Benedict. Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Italic.] anno pontificatus domni Gregorii, summi pontificis et universalis V papae II, imperii autem domni Ottonis imperatoris similiter II, Indictione XI mensis aprilis die IX, davanti alle porte della basilica vaticana, dove Ugo abbate di Farfa vinse una lite di due chiese, quae sunt aedificatae in thermis alexandrinis, cum casis, cryptis, hortis, terris cultis et incultis, etc. sitas Romae regione nona. Fu imposta la pena di dieci libbre d'oro ottimo ai trasgressori, da pagarsi medietatem regi, et medietatem ipsius monasterii (farfensis) rectoribus. Potrebbesi forse anche di qui dedurre il sovrano dominio tuttavia conservato in [35] Roma da Ottone III Augusto: del che ho io addotto altre pruove nella Piena esposizione, ec.


   
Anno di Cristo DCCCCXCIX. Indiz. XII.
Silvestro II papa 1.
Ottone III re 17, imperad. 4.

Venne a morte in quest'anno nel dì 12 di febbraio, secondochè abbiamo dal suo epitaffio, Gregorio V papa, senza che alcuno degli antichi storici parli più precisamente di questo fatto. Egli era nel più bel fiore della sua gioventù, e probabilmente corse qualche sospetto che la fazion di Crescenzio avesse saputo trovar modo di sbrigarsi di un papa odiato da essi, parente dell'imperadore, e tanto assistito dalla potenza di lui. Leggesi anche oggidì nella basilica vaticana il suo epitaffio, rapportato da Pietro Mallio, dal cardinal Baronio, dall'Aringhi e da altri. Non dovea per anche essere abbastanza appagata l'ambizione di Gerberto coll'arcivescovato di Ravenna, contuttochè allora fosse quella chiesa una delle più riguardevoli e ricche della Cristianità. Venuta la vacanza della santa Sede, s'adoperò egli per ottenerla colla protezione ed autorità dell'imperadore, stato già discepolo suo: se pure lo stesso Ottone III quegli non fu che per avere un pontefice ben affetto e dipendente dai suoi cenni, il promosse a questa eccelsa dignità. Se si vuol prestar fede ad un diploma da me dato alla luce, nel primo dì di gennaio dell'anno presente si trovava esso Augusto in Verona [Antiquit. Ital., Dissert. LXVI.], dove concedette ai canonici di Parma per interposizione di Sigefredo vescovo parmigiano curtem de Palationi, quae dicitur sancti Secundi, cum castello et villis. Siccome facilmente si osserva nelle antiche memorie, bene spesso sotto nome di corte era compreso un territorio che avea castello e parrocchia sua particolare. Il diploma fu dato kalendis januarii anno dominicae Incarnationis DCCCCXCIX, Indictione XIII, [36] anno tertii Ottonis regnantis XVII, imperantis IIII. Actum Veronae. Ma queste note tutte convengono non al presente anno, ma bensì al susseguente; e sarà stato adoperato l'anno veneto e fiorentino, che durava nei primi mesi dell'anno millesimo della nostra salute. Comunque sia, era esso Augusto in Roma, allorchè accadde la morte di Gregorio V, oppure accorse egli frettolosamente colà a questo disgustoso avviso. Scrive il Cronografo sassone [Chronographus Saxo apud Leibnitium.] che nel dì 7 di febbraio di questo anno diede fine alla sua vita Matilda, figliuola di Ottone I Augusto, ed egregia badessa quindilinburgense, alla cui saviezza superiore al suo sesso, avea l'Augusto Ottone III lasciato il governo del regno germanico. Furono spediti ambasciatori per portare all'imperadore questa infausta nuova, i quali Romam pervenientes praefactum imperatorem recenti nepotis sui papae Brunonis, qui romana lingua Gregorius dicebatur, obitu admodum moestum reperiunt. Era egli dunque in Roma, poco dopo la morte del papa, e quivi parimente il truovo nel dì 7 di maggio, ciò apparendo da un suo diploma [Antiquit. Italic., Dissert. LXXIII.] dato alla chiesa di Vercelli, nonis maii, anno dominicae Incarnationis DCCCCXCVIIII, Indictione XII, anno tertii Ottonis regis XV, imperatoris III. Actum Romae. È considerabile in esso diploma il dirsi: Damus omnia praedia Arduini filii Dodonis, quia hostis publicus adjudicatus episcopum Petrum vercellensem interfecit, et interfectum incendere non expavit. E pure questo Ardoino figliuolo di Dodone, oppur di Oddone, quel medesimo sembra essere stato che da qui a non molto vedremo re d'Italia, con essere caduta la corona del regno d'Italia in un sì crudele ed empio personaggio. Ora i buoni ufizii, oppure l'autorità di Ottone III Augusto, furono cagione che Gerberto, già arcivescovo di Rems, poscia di Ravenna, giugnesse a salire sulla cattedra pontifizia di Roma nel dì due d'aprile, [37] col prendere il nome di Silvestro II. È famoso quel verso, composto da lui, o da altri:

Scandit ab R. Gerbertus ad R. post papa viget R.

Egli ebbe per successore nella cattedra archiepiscopale di Ravenna Leone abbate nonantolano.

Era tuttavia vivente Adelaide, vedova di Ottone il Grande, intenta solo alle limosine e ad altre opere di pietà, per le quali si meritò poi d'essere annoverata fra i santi. Aveva ella, oltre ad altri monisteri, fondato fuor di Pavia l'insigne di san Salvatore. Al medesimo in quest'anno nel dì 13 di aprile, trovandosi ella infra castrum, qui dicitur Asterna, judiciaria, alsasiense, cioè in Alsazia, fece una magnifica donazion di beni, che si legge nello strumento da me dato alla luce [Antiquit. Ital., Dissert. XXI, pag. 171.]. S'era la buona imperadrice portata in Borgogna per mettere la pace fra i sudditi di Rodolfo II re suo nipote, e per visitar quei luoghi santi. Infermatasi finalmente, piena di meriti, passò a miglior vita [Odilo in Vit. S. Adelheidis.] nel dì 16 di dicembre dell'anno presente, e onorata da Dio con varii miracoli, fu seppellita in Selts. Noi poscia troviamo l'Augusto Ottone nel celebre monistero di Subiaco, dove concede a Pietro monaco licenza di fabbricare una chiesa, con un diploma [Antiq. Italic., Dissert. LXVII.] dato III idus augusti anno dominicae Incarnationis DCCCCXCVIIII, Indictione XII, anno tertii Ottonis regnantis XVI, imperantis IIII. Actum Sublaci in sancto Benedicto. Con altro suo diploma ordinò dipoi che il nobil monistero di Farfa non avesse in avvenire a concedersi in benefizio ossia in commenda ad alcuno. Esso privilegio [Chronic. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.] fu dato V nonas octobris di questo anno, Indictione XII, anno regni XVI, imperii IV. Actum Romae. Son degne in questo diploma le seguenti parole: Nos quadam die [38] Romam exeuntes pro restituenda republica, cum marchione nostro Hugone, et concilia imperii nostri cum venerabili papa Silvestro secundo, et cum aliis nostris optimatibus, ibidem tractavimus. Questo Ugo era il marchese e duca di Toscana, talmente introdotto nella corte di Ottone III Augusto, che gli serviva non solamente di consigliere, ma in certa maniera anche da aio.

Abbiamo poi da Leone ostiense [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap 15.] che in quest'anno Laidolfo principe di Capoa, perchè scoperto di aver tenuta mano nell'assassinamento di Landenolfo suo fratello, fu cacciato in esilio dall'imperadore Ottone, e sostituito in suo luogo da Ademario nobile capuano. Da un diploma ancora, rapportato nella Cronica del monistero di santa Sofia [Ughell., tom. 8 Ital. Sacr., in Appendic.], si scorge che esso Augusto era in Benevento V idus novembris del presente anno, quivi ben trattato da Pandolfo II principe di quella città. E quando sussista questo documento, facilmente si potrà verificare ch'egli si trovasse prima in quella medesima città VII idus julii, nel qual giorno, scrive Roberto abbate tuiziense [Rupertus Tuitiensis, in Vita S. Heriberti.] che santo Eriberto fu consecrato arcivescovo di Colonia in Benevento, dove era la corte dell'imperadore. Anche il padre Bollando dubitò di questo giorno. Ma Ademario poco godette del suo principato di Capoa; perciocchè, secondo il suddetto Ostiense, paulo post, cioè quattro mesi dappoi, dai cittadini di Capoa fu discacciato, e in luogo suo fu creato principe Landolfo IV da sant'Agata, figliuolo di Landolfo III già principe di Benevento. Tornato che fu Ottone III a Roma, tenne un riguardevol placito, rapportato dal padre Mabillone [Mabillon., Annal. Benedict.] e nella Cronica del monastero di Farfa [Chronic. Farfens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.], anno, Deo propitio, pontificatus domni nostri Silvestri summi pontificis et universalis [39] secundi papae primo, et imperii domni nostri tertii Ottonis, a Deo coronati, magni et pacifici imperatoris anno IIII, Indictione XIII, mense decembris die secunda. Litigavano fra loro l'abbate di Farfa Ugo e Gregorio abbate dei santi Cosma e Damiano, monistero posto Romae trans Tiberim in Mica Aurea, a cagione della cella di santa Maria in Minione. Davanti a papa Gregorio V s'era agitata questa causa, et tunc supradictus domnus Gregorius papa propter pecuniam, quam acceperat a Gregorio abbate, iratus est contra Hugonem abbatem, e il forzò a cedere. Dopo la morte di papa Gregorio reclamò Ugo abbate di Farfa davanti l'imperadore, in Roma nel palazzo imperiale; ed essendo stato più volte citato l'abbate Gregorio, e ricusando di comparire l'imperadore, col consiglio del giudici, diede il possesso di quella cella all'abbate di Farfa, con intimar la pena di cento libbre d'oro puro ai contravventori, da applicarsi, medietatem camerae imperatoris, et medietatem praefato monasterio sanctae Mariae in Pharpha. E ne fu fatto lo strumento praecepto domni imperatoris, et consensu domni apostolici, sive judicum. Circa questi tempi Pietro Orseolo II doge di Venezia, per attestato del Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], a requisizione di Basilio e Costantino imperadori d'Oriente, mandò a Costantinopoli Giovanni suo figliuolo, che da loro ricevette molti onori e finezze. Ed allora fu, come scrive Cedreno [Cedrenus, in Hist., ad hunc annum.], che Basilio Augusto principi Venetiae nuptum tradidit filiam Argyri, sororem ejus Romani, qui post imperio potitus est, hoc modo gentem sibi devinciens Venetorum. Questo principe di Venezia altro non fu che il suddetto Giovanni, il quale, per attestato del medesimo Dandolo, fu dal popolo eletto doge e collega. Riconobbe lo stesso Dandolo queste nozze celebrate magnificamente in Costantinopoli, e chiama quella principessa Maria (Marta ha un altro testo) nipote di Basilio, perchè nata da sua sorella [40] maritata con Argiro. Furono coronati gli sposi con diadema d'oro, e Giovanni onorato col titolo di patrizio, e regalato col corpo di santa Barbara, ch'egli portò con seco a Venezia. Scrive sotto questo anno Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chron.] che descendit Trachamotus catapanus, qui et Gregorius, et obsedit civitatem Gravinam, et comprehendit Theophylactum. Davano i Greci in questi tempi il nome di catapano al governator generale degli stati che possedevano in Calabria e in Puglia: nome che Guglielmo pugliese ed altri stimarono derivato dalla greca favella, ma il Du-Cange [Du-Cange, in Not. ad Alexiad. et in Glossar. Latin.] ha creduto formato dal latino capitaneus. La quistione non so io dire se sia per anche pienamente decisa. Dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., in Episcop. Comens.] è rapportato un diploma dato alla chiesa di Como da Ottone III colle seguenti note: Data VI kalendas julii, anno dominicae Incarnationis 999, imperii domni Ottonis XVI, Indictione XII. Spropositate affatto son queste note, siccome osservò il Coleti nella nuova edizion dell'Ughelli, ed avvertì anche il diligentissimo Gotifredo abbate gotwicense [Chron. Gotwicense, pag. 223.], il quale osserva qui ed altrove molte simili storture dei documenti recati da esso Ughelli.


   
Anno di Cristo M. Indizione XIII.
Silvestro II papa 2.
Ottone III re 18, imperad. 5.

Erano mancate ad Ottone III Augusto le tre principali colonne sue, cioè Gregorio V papa, la santa avola Adelaide, e la piissima e savia zia Matilda badessa: però per regolare gli affari del regno germanico s'inviò colà nella primavera di quest'anno. Specialmente era condotto in Germania dal pio desiderio di visitare in Gnesna città della Polonia il sacro corpo di santo Adalberto vescovo di Praga, [41] ultimamente martirizzato per la Fede di Gesù Cristo dai Prussiani, avendo inteso che al suo sepolcro si faceano dei frequenti miracoli. Portossi colà con somma divozione, e a piè nudi entrato nella città, fece le sue orazioni in quel sacro tempio. Celebrò dipoi la Pasqua in Sassonia, e di là passando ad Aquisgrana, quivi solennizzò la festa della Pentecoste. Mosso da una giovanil curiosità, volle vedere dove riposasse il corpo di Carlo Magno [Ditmarus, Chron., lib. 4.]. E segretamente fatto rompere il pavimento, tanto si cercò sotterra, che si trovò la camera, dove era il deposito di quel glorioso monarca, la cui descrizione abbiamo da varii antichi storici, ma specialmente da Ademaro [Ademarus Monachus, in Chron.] monaco, scrittore vicino a questi tempi. Non altro prese Ottone che la croce d'oro che gli pendeva dal collo, e parte delle vesti non putrefatte; e il resto lasciò come era. Perchè ciò fu creduto contra disciplinam ecclesiasticam perciò corse voce; che Carlo Magno era apparuto ad Ottone III, con predirgli che morrebbe senza eredi. Le storie di questi tempi son piene di simili visioni e sogni. A tutto allora si prestava fede, e non pochi erano gl'inventori di tali novità. Lo stesso Ademaro scrive che Otto imperator per somnium monitus est, ut levaret corpus Caroli Magni. Dimorava in Aquisgrana l'Augusto Ottone, allorchè Olderico, ossia Odelrico vescovo di Cremona ottenne da lui la conferma di due corti, con diploma dato [Antiquit. Ital., Dissert. XXXI, pag. 967.] V idus maii, anno dominicae Incarnationis millesimo, Indictione XIII, anno tertii Ottonis regnantis XVI (dee essere XVII), imperii V (ha da essere IV). Actum Aquisgrani in palatio. Sbrigato dagli affari della Germania, se ne tornò Ottone in Italia; e, se vogliamo credere ad un suo diploma, pubblicato dal Margarino [Bullarium Casinens., tom. 2, Constit. LXVIII.], era egli in Pavia nel dì 6 di luglio del presente anno, avendo quivi confermate [42] al monistero di san Salvatore tutte le sue tenute ed esenzioni, con diploma dato II nonas julii, anno dominicae Incarnationis M, Indictione XIII, anno tertii Ottonis regni XVII, imperii anno V. Actum in papiensi palatio. Da un altro diploma presso l'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Vercellens.] abbiamo ch'egli dimorava in Roma nella festa dell'Ognissanti di quest'anno, avendo ivi conceduto a Leone vescovo di Vercelli un privilegio kalendis novembris, anno dominicae Incarnationis M, Indictione XIV, anno tertii Ottonis regnantis XVI, imperii vero V. Actum Romae in palatio monasterio. È scorretta questa ultima parola, e secondo un esemplare del padre Mabillone [Mabill., in Annal. Benedictin.], s'ha da leggere Montis. Finalmente l'autore degli Annali d'Ildeseim [Annales Hildesheim.] scrive che imperator Natalem Christi Romae celebravit.

Questo è quel poco che si sa delle azioni di Ottone III nel presente anno. Potrebbe essere ch'egli in questo medesimo, come scrive l'Ostiense [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2.], andasse per divozione al monte Gargano, e poscia a Benevento; ma certo non succedette, come pensò il padre Mabillone, la di lui venuta a Ravenna, nè la sua permanenza nel monistero di Classe, dovendosi ciò riferire all'anno seguente. Non so da quale documento, o storia si prendesse il Sigonio [Sigonius, de Regno Italiae, lib. 7.] la seguente notizia, di cui si può dubitare, cioè che papa Silvestro II andò ad Orvieto, et rempublicam ejus civitatis multis salutaribus legibus vinxit. Aggiunge che esso pontefice assediò in quest'anno Cesena. E così fu, scrivendo san Pier Damiano [Petrus Damian., in Vit. S. Mauri, cap. 3.] che papa Gerbertus juxta Caesenam castra metatus erat, ejusque oppidum circumfusi exercitus obsidione vallabat. Per qual motivo s'inducesse a tale assedio il pontefice, non apparisce. Finalmente scrive il medesimo Sigonio che i Saraceni con grosso esercito [43] in quest'anno fecero un'irruzione nella Campania, et Capuam ejus provinciae caput ceperunt. Ma questo avvenimento qual credenza possa meritare nol veggo, non ne parlando alcuno degli antichi storici. Se fosse riuscito un sì gran colpo ai Mori, troppo strepito avrebbe fatto in Italia; ed è quasi impossibile che alcuno degli antichi non ne avesse lasciata memoria. Scorgesi ancora che il Sigonio si servì qui di poco buoni documenti, perchè scrive che Ottone III, intesa questa disavventura del Cristianesimo, con tanta prestezza tornò dalla Sassonia in Italia, e che nel dì 25 di marzo dell'anno seguente 1001 arrivò a Ravenna. Ma noi giù abbiamo veduto ch'egli di buon'ora comparve in Italia nell'anno presente. Non altro ha Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] sotto quest'anno, se non che anno millesimo, Indictione XIII captus est Smaragdus (ribello de' Greci) a Tracamotho (catapano ossia generale d'essi Greci) mense julii XI die. Che s'egli poi soggiugne: Et obiit rex Otho Romae, questo è un doppio errore, non essendo mancato di vita Ottone III nè in quest'anno, nè in Roma. Fu duca di Amalfi circa questi tempi Giovanni Petrella figliuolo del già Mansone duca [Antiquit. Italic., tom. 1, pag. 120.], e portò anch'egli il titolo di patrizio imperiale. Che i Greci in questi tempi avessero stesa di molto la lor signoria nella Puglia, si può dedurre da un diploma di Gregorio [Ibidem, Dissert. VI, p. 337.] protospatario e catapano d'Italia, in cui conferma al monistero di Monte Casino varie tenute poste in Lesina, Ascoli, Canosa, Minervina e Trani, città perciò sottoposte al dominio greco.


   
Anno di Cristo MI. Indizione XIV.
Silvestro II papa 4.
Ottone III re 19, imperad. 6.

Siam giunti al principio del secolo undecimo, secolo che produsse una mutazione [44] insigne di governo e di costumi; e sopra tutto ci farà vedere in rotta il sacerdozio coll'imperio, cioè un'iliade de' gravi scandali e sconcerti non meno in Italia che in Germania. Ma ritornando al filo della storia, noi sappiamo da san Pier Damiano [Petrus Damiani, Vit. S. Romualdi, cap. 25.] che Ottone III Augusto, perchè si sentiva mordere la coscienza d'aver sotto la fede del giuramento ingannato e fatto decollare Crescenzio console romano nell'anno 998, e ne volea far penitenza, dopo aver confessato il suo fallo a san Romoaldo abbate, per consiglio di lui, nudis pedibus de romana urbe progrediens, sic usque in Garganum montem ad sancti Michaelis perrexit ecclesiam. Leone Ostiense [Leo Ostiens., in Chron.] mette questo pellegrinaggio dell'imperadore sotto l'anno precedente 1000, con aggiugnere, che passando per Benevento, fece istanza a que' cittadini d'aver il corpo di san Bartolomeo apostolo, da riporre nella chiesa di santo Adalberto, ch'egli facea fabbricare nell'isola del Tevere in Roma, e sommamente desiderava di arricchir di sante reliquie. Gli accorti Beneventani, giacchè non ardivano di opporsi alla dimanda autorevole dell'imperadore, in vece del corpo dell'Apostolo, gli mostrarono e diedero il corpo di san Paolino vescovo di Nola: con cui egli tutto contento, ma ingannato, se ne andò. Perciò il cardinale Orsino, poscia Benedetto XIII papa, ai dì nostri vigorosamente sostenne il possesso dei Beneventani contra le pretensioni de' Romani, giacchè si attribuisce l'una e l'altra città il corpo di quell'apostolo. E ben prevale l'autorità dell'Ostiense agli autori del secolo susseguente, che diversamente ne scrissero. Seguita poi a dire Leone ostiense, che scoperto l'inganno, s'adirò forte l'imperadore contra de' Beneventani, e perciò sequenti tempore perrexit iterum super Beneventum, et obsedit eam undique per dies multos. Sed nihil adversus eam praevalens, Romam reversus est. [45] Unde vix ad sua reverti disponens, mortus est. La morte di Ottone III cadde nel gennaio dell'anno seguente. Parrebbe perciò che in quest'anno seguisse l'assedio di Benevento. Infatti Romoaldo salernitano [Romualdus Salern., Chron., tom. 7 Rer. Ital.] scrive che Ottone III obsederat Beneventum anno MI, Indictione IV (vuol dire XIV) et acriter ipsam civitatem expugnans vi caeperat. Contuttociò non pare assai certo quest'assedio, e molto meno è da credere ch'egli prendesse quella città. E quando pur fosse succeduto, difficile è lo stabilirne il tempo, cioè se nel presente o nel precedente anno. Credo bensì che sul principio di quest'anno succedesse l'assedio di Tivoli. Tangmaro prete, scrittore contemporaneo, nella vita di san Bernardo vescovo d'Ildeseim [Tangmarus, in Vita, S. Berwardi. tom. 1 Scriptor. Brunsvicens. Leibnitii.], racconta che quel santo prelato, a cagione d'una controversia insorta fra lui e Willigiso arcivescovo di Magonza, arrivò a Roma nel dì 4 di gennaio dell'anno presente, ed espose le sue querele al piissimo papa Silvestro, all'imperadore Ottone, di cui era stato maestro, e ad Arrigo duca di Baviera, che si trovava allora alla corte d'esso imperadore. Fu raunato un concilio, deciso in favore di lui, e spedito in Germania Federigo cardinal della santa romana Chiesa, sassone di nazione, per terminar quella briga con un altro concilio. In quei giorni, seguita a dire Tangmaro, avea l'imperadore Ottone intrapreso l'assedio di Tivoli con tutte le macchine di guerra, e facea gran guerra a quella città. San Pier Damiano scrive che l'origine d'essa venne dall'avere quel popolo ucciso Mazzolino, duca ossia capitano d'esso Augusto Ottone III, e dall'aver anche obbligato lo stesso imperadore a scappare dalla città. Ma Tangmaro assai dà a conoscere che la lite era insorta fra i Romani e quei di Tivoli; e perciocchè Ottone inclinava in favore [46] dei Romani, i Tiburtini si ribellarono, e fu necessitato l'imperadore a prendere l'armi contra di loro, ma con trovare quell'osso più duro di quel che si pensava. Se vogliam credere al medesimo san Pier Damiano [Petrus Damian., in Vit. S. Romualdi.], si trattava di mettere a fil di spada tutti gli abitanti di quella città; ma buona per loro che capitò in quelle parti san Romoaldo abbate per rinunziare la badia di Classe. S'interpose egli, trattò d'accordo, e fece che l'adirato Augusto si contentò che quel popolo atterrasse una parte delle mura, gli desse degli ostaggi, e in mano l'uccisore del suo uffiziale. Così fu, e il santo ottenne anche dalla madre dell'ucciso la vita dell'uccisore. Come sieno sicuri i racconti di san Pier Damiano, che neppure era nato in que' tempi, si raccoglierà dal confrontarli colla narrativa di Tangmaro prete, il quale con san Bervardo si trovò presente a questo fatto. Nulla scrive egli di san Romualdo, ma bensì, che trovando l'imperadore gran testimonianza negli assediati, e desiderando di uscir di questo impegno senza disonore papa Silvestro e il vescovo Bernardo mossi da ecclesiastico zelo, fecero istanza d'entrare in Tivoli. Vi furono con giubilo accolti, e disposero quel popolo a risottomettersi imperatoris ditioni, con rendersi a discrezione. Il dì seguente uscirono cuncti primarii cives nudi, femoralibus tantum tecti, dextra gladios, laeva scopas (flagelli) ad palatium praetendentes; imperiali jure se subactos; nil pacisci, nec ipsam quidem vitam; quos dignos judicaverit, ense feriat, vel pro misericordia ad palum scopis examinari faciat; si muros urbis ad solum complanari votis ejus suppetat, promtos libenti animo cuncta exsequi, nec jussis ejus majestatis, dum vivant, contradicturos. L'imperatore, alle preghiere del papa e del vescovo, loro perdonò, e restò conchiuso di non distruggere quella città. Notinsi quelle parole de' Tivolesi; imperialis juri se subactos. In tali casi [47] andavano i nobili a chiedere perdono col mettersi la spada al collo, per dichiararsi degni del taglio della testa. Gl'ignobili portavano la corda al collo, per protestarsi degni di essere impiccati.

Torniamo ora a san Pier Damiano, il quale ci fa sapere che Ottone III venne a Ravenna nell'anno presente, ed ivi attese a far penitenza dei suoi falli nel monistero di Classe. Ecco le sue parole [Petrus Damian., in Vita S. Romuald., cap. 25.]: Per totam etiam quadragesimam in classense monasterio beati Apollinaris, paucis sibi adhaerentibus, mansit. Ubi jejunio et psalmodiae, prout valebat, intentus, cilicio ad carnem indutus, aurata desuper purpura tegebatur. Lecto etiam fulgentibus palliis strato, ipse in florea de papyris confecta tenera delicati corporis membra terebat. Promisit itaque Romualdo, quod imperium relinquens, monachicum susciperet habitum, ec. Che Ottone III fosse in Ravenna nel dì 20 di aprile, si può anche intendere da un suo diploma confermatorio dei privilegii del monistero delle monache della Posterla di Pavia, a petizione di Pietro vescovo di Como ed arcicancelliere e di Ottone conte del palazzo, nipote d'esso vescovo. Fu dato quel diploma [Antiq. Ital., Dissert. VII.] II kalendas mai, anno dominicae Incarnationis millesimo primo, Indictione XIIII, anno tercii Ottonis regnantis XVII, imperii V. Actum Ravennae. Pendeva tuttavia da esso diploma il sigillo di piombo coll'immagine e nome dell'imperadore. Ma io non osservai bene, se in vece di regnantis XVII, fosse ivi scritto XVIII, perchè ciò essendo, converrebbe ammettere due epoche diverse del regno. Altri simili esempli nondimeno abbiam veduto di sopra. Ho io parimente prodotta una lettera scritta [Ibidem, Dissert. LXX.] da papa Silvestro II al suddetto imperadore, in cui raccomanda alla cura di Guido vescovo di Pavia l'antichissimo monistero delle monache del Senatore. Vidi pendente la Bolla pontifizia di piombo; e pure v'ha la seguente [48] data: Actum hoc anno dominicae Incarnationis millesimo primo. Indictione tertiadecima, anno vero pontificatus Silvestri universalis papae quarto. Ma in questo anno correa l'indizione XIV, e l'anno quarto di papa Silvestro II cominciava solamente a correre nell'anno seguente. Che anche verso il fine di novembre tuttavia esso imperadore soggiornasse in Ravenna, si raccoglie da un altro diploma, spedito in favore del monistero delle monache di san Felice di Pavia [Ibidem, Dissert. LXVI.], dato X kalendas decembris, anno dominicae Incarnationis millesimo primo, Indictione XV, anno tertii Ottonis regnantis XVII, imperii VI. Actum Ravennae. Si osservi ancor qui l'anno XVII, del regno, e non già il XVIII, come dovrebbe essere secondo l'epoca ordinaria di questo imperadore. Ma quivi è cosa strana che sottoscriva Heribertus Cancellarius vice Willigisi archiepiscopi, quando Pietro vescovo di Como era tuttavia arcicancelliere. Apparteneva in questi tempi la nobil terra di Carpi, oggidì città, al contado di Reggio; e quivi [Antiquit. Ital., Dissert. VIII.] anno imperii tercii domni Ottoni, Deo propitio, sexto, pridie kalendas octobris, Indictione quintadecima, cioè nell'anno presente, Tedaldo marchese e conte del contado di Reggio, avolo della gran contessa Matilda, tenne un placito, in cui si trovò in persona Berta badessa del monistero di santa Giulia di Brescia, e vinse una lite di terreni. A qual marca presedesse Tedaldo, io nol so dire. Circa questi tempi Leone arcivescovo di Ravenna, caduto in mala sanità, rinunziò la sua Chiesa, ed in luogo suo entrò il soprammentovato Federigo cardinale della santa romana Chiesa. Non so io concertare con quanto abbiam veduto di sopra intorno alla permanenza di Ottone III Augusto in Ravenna per tutta la quaresima, il dirsi dal Cronografo sassone [Cronograph. Saxo apud Leibnitium.] ch'egli Romam proficiscens sacrosanctum dominicae Resurrectionis [49] festum debita ibi veneratione celebrare instituit. Credo io piuttosto che in vece della Pasqua egli volesse dire il Natale del Signore. Nè si dee tralasciare che questo imperadore da Ravenna fece una scappata a Pavia verso il fine di giugno, ciò costando da un suo diploma, dato in favore di Pietro vescovo di Novara [Baron., Ann. Eccl. ad hunc annum.] X kalendas julii, anno dominicae Incarnationi millesimo primo, Indictione XIV, anno tertii Ottonis regni XVII, imperii V. Dee essere VI. Tornato poscia a Ravenna, sentendo sul fine dell'anno che v'erano dai torbidi in Roma, s'inviò a quella volta. Trovò più di quel che s'immaginava. Abbiamo da Ditmaro [Ditmarus, Chron., lib. 4.] che fra gli altri potenti romani, Gregorio, personaggio assai caro al medesimo Augusto, gli tendeva delle insidie per prenderlo. Un giorno infatti divampò una sollevazion dei Romani contra di lui, per la quale fu astretto a fuggirsene per una porta fuori di Roma con lasciar molti de' suoi nella città rinchiusi. Il Cronografo sassone [Chronograph. Saxo.] scrive, che quanti ne furono trovati, tutti restarono trucidati. Ma Ditmaro narra che i Romani ravveduti del loro fallo, li lasciarono in libertà, ed inviarono messi all'imperadore, chiedendo perdono e pace. Ottone, nulla fidandosi delle loro belle parole, attese a raunar quante soldatesche potè, e tutti i suoi vassalli; e chi dice ch'egli esercitò varie ostilità contra dei Romani, e chi, solamente che si preparò a vendicarsi del ricevuto affronto. Fra quelli che specialmente assisterono in questo brutto frangente all'imperadore, per mettersi in salvo, si contò Ugo duca e marchese di Toscana; ma egli stette poco a terminare i suoi giorni. Se vogliam badare a san Pier Damiano [Petrus Damiani, lib. 7, Epist. 12, seu Opuscul. 57.], scrittore che, credulo più degli altri, imbottì l'opere sue di visioni, sogni e miracoli strani, racconta che un [50] vescovo, di cui avea dimenticato il nome, vide in un tizzone di fuoco scritte queste parole: Hugo marchio quinquaginta annis vixit: indizio della vicina sua morte. Ma se è vero, come avvertii di sopra all'anno 961, che già Ugo fosse marchese di Toscana in quell'anno, non si potrà già credere ch'egli mancasse di vita in età solo d'anni cinquanta.

Seguita a dire san Pier Damiano, che l'imperadore Ottone, udita la morte del marchese Ugo, o perchè poco si fidasse di lui, o perchè non gli piacesse la troppa di lui potenza, proruppe in queste parole del salmo [Psalm. 123.]: Laqueus contritus est, et nos liberati sumus. Ma ebbe poco a rallegrarsi e a gloriarsene Ottone III, perciocchè anch'egli paulo post, eodem scilicet anno, et ipse defunctus est. Sembrano queste parole indicare che la morte d'Ugo accadesse sul principio di gennaio dell'anno seguente; perchè da lì a non molto in quello stesso mese diede fine al suo vivere anche lo stesso imperadore. Ma don Placido Puccinelli, che con istile romanzesco compilò la vita di questo celebre e potente principe, e il saggio Cosimo della Rena [Cosimo della Rena, Serie de' duchi di Toscana.] pretendono che la sua morte accadesse nel dì 21 di dicembre dell'anno presente; giorno in cui i monaci benedettini della badia di Firenze celebrano il di lui anniversario. Che il luogo, dove egli finì sua vita, fosse o Pistoia, o Firenze, li credo io sogni dei moderni scrittori. Certo è poi, per attestato del suddetto san Pier Damiano, che questo principe, figliuolo d'Uberto, e nipote d'Ugo re d'Italia obtinuit utramque monarchiam (egli avrà scritto marchiam) et quam Tyrrhenum videlicet, et quam mare Adriaticum alluit: cioè fu duca non meno della Toscana che di Spoleti. Sed quam perpenderet, quia propter improbitatem injuste viventium strenue regere utramque non posset, ultroneae renuntiationis arbitrio cessit imperatori marchiam [51] Camerini cum Spoletano ducatu, juri vero proprio Tusciam reservavit. Se non si disotterrano altre memorie, non è facile il conoscere in qual tempo succedesse questa rinunzia del ducato di Spoleti e della marca di Camerino; anzi può anche nascere dubbio intorno alla medesima. Abbiam veduto all'anno 995 un Ugo duca di Spoleti e marchese di Camerino. Aggiungo ora, credersi da me lo stesso che Ugo marchese di Toscana. Perciocchè fra le epistole di Gerberto una se ne legge scritta a lui, già divenuto papa, con questo titolo [Gerbert., Epist. 158, tom. 2 Rer. Franc. Du-Chesne.]: Reverentissimo papae Gerberto Otto gratia Dei imperator augustus, dove dice, che trovando nociva l'aria d'Italia alla sua sanità, vuol mutare paese; ma che in aiuto di esso papa egli lascia primores Italiae, e massimamente Hugonem tuscum vobis per omnia fidum S. (forse scilicet) comitem, Spoletinis et Camerinis praefectum, cui octo comitatus, qui sub lite sunt, vestrum ob amorem contulimus, nostrumque legatum eis ad praesens praefecimus, ut populi rectorem habeant, et vobis ejus opera debita servitia exhibeant. Circa questi tempi si conosce scritta questa lettera, e dalla medesima impariamo che Ugo marchese di Toscana comandava anche a Spoleti e a Camerino. Dove è dunque la cessione di quei principati a noi narrata da Pier Damiano? Anzi il marchese Ugo, in vece di rinunziare in questi tempi ciò ch'egli godeva, cercava ancora di goderne di più secondo il costume ordinario dei gran signori, che mai non si saziano d'accrescere i loro stati. Di qui appunto abbiamo ch'egli acquistò otto contadi, non goduti prima. E un contado allora per lo più significava una città col suo distretto. Non lasciò dopo di sè il marchese Ugo alcun figliuolo maschio, e resta tuttavia involto nelle tenebre chi fosse l'erede degli immensi suoi allodiali. Gran sospetto ho io che per qualche sua figliuola, o sorella, o zia, passata nei marchesi progenitori della [52] casa d'Este, a loro devenisse Rovigo, Este, la badia della Vangadizza con altri Stati situati fra Padova e Ferrara; perciocchè gli Estensi, prima potenti nella Lunigiana e Toscana, si cominciano da qui innanzi a trovar signori anche di questi altri stati; e si vede ricreato in essi il nome di Ugo [Antichità Estensi, P. I, cap. 11 e 12.], essendo anche allora non men che oggidì, vigoroso il costume di rinnovar nei nipoti i nomi degli avoli o parenti si paterni che materni. Andando innanzi, vedremo chi succedesse al marchese Ugo nel ducato della Toscana, e in quello ancora di Spoleti e di Camerino.

Tornando ora ad Ottone III Augusto, uscito ch'egli fu di Roma, e raccolti che ebbe tutti i suoi vassalli e soldati, mostrava ben grande ilarità nel volto; ma riflettendo ai varii trascorsi della sua giovanile età, internamente nondimeno stava malinconico, ed attendeva a farne penitenza [Annal. Saxo. Ditmar., Chron., lib. 4.] colle lagrime, orazioni e limosine. Secondo gli Annali d'Ildeseim [Annal. Hildesheim.], egli solennizzò la festa del santo Natale in Todi in compagnia di papa Silvestro. Poscia Salernum oppidum adiit, sta scritto nei suddetti Annali; ma con errore, dovendo dire Paternum oppidum. Quel che è più strano, e lo racconta Ditmaro, in questi medesimi tempi, senza che ne sappiam la cagione, in Germania molti duchi e conti, con participazione ancora dei vescovi, macchinavano delle novità contra dello stesso Ottone III, e ricorsero per questo ad Arrigo duca di Baviera. Ma perchè il ritrovarono ricordevole degli avvertimenti lasciati a lui dal duca Arrigo suo padre, di osservare religiosamente la fedeltà dovuta al sovrano, non andò più innanzi la loro mena. Scrivono alcuni che esso duca Arrigo si trovava coll'imperadore, allorchè questi fu forzato a scappare di Roma. Ciò ch'io rapporterò all'anno seguente, ci darà abbastanza a conoscere che Arrigo dimorava sul [53] fine di quest'anno in Germania. Ma s'io ho da confessare il vero, temo forte che Ditmaro e i suoi copiatori non sieno stati informati di questi sconcerti. Tangmaro prete [Tangmarus, in Vita S. Bervvardi.], che, come dissi, ci diede la vita di san Bervardo, e fu non solo scrittore contemporaneo, ma testimonio di vista di tali avvenimenti, lasciò scritto, che terminato l'assedio di Tivoli (assedio succeduto nei primi mesi dell'anno presente), col perdono dato a quei cittadini, il popolo romano, il quale volea pur disfatta quella città, e atterrato quel popolo per una gara che vedremo continuata anche dipoi, la prese contra dell'imperadore, serrò le porte di Roma, negò ad esso Augusto, non che ai suoi, l'entrarvi, ed arrivò anche ad uccidere alcuni dei fedeli del medesimo imperadore. Si venne perciò all'armi, ma Dio volle che i Romani si ravvidero, implorarono ed ottennero la pace; eglino stessi levarono la vita a due capi della sedizione, e tutto restò quieto. Pacem petunt, sacramenta innovant, fidem se imperatori perpetuo servaturos promittunt. Sul principio dell'anno tutto questo accadde. Tornò in Germania san Bervardo, e perchè con tutto l'appoggio del papa e dell'imperadore non potè ottener giustizia dall'arcivescovo Wittigiso, rispedì verso il fine dell'anno il suddetto Tangmaro in Italia. Questi imperatorem in spoletanis partibus reperit; vi arrivò anche il papa, ed amendue Tudertinae Natalem Domini celebrarunt. In essa città fu poi tenuto nel dì seguente un concilio di molti vescovi di Italia, e di tre tedeschi, nel quale Tangmaro espose le doglianze del suo vescovo, e ne riportò buon provvedimento. Licenziato dipoi con assai regali, si partì alla volta della Germania nel dì 11 di gennaio, con aggiugnere che l'imperadore poco appresso, cioè X kalendas februarii, per una febbre già incominciata terminò i suoi giorni. Però non so vedere [54] come regga quella guerra contra dei Romani, e quella vendetta che ci vien raccontata da Ditmaro. Tutto era in pace, ed anche papa Silvestro in buona armonia coi Romani pacificamente celebrò quel concilio in Todi. Ma prima di terminare gli avvenimenti di quest'anno, dee farsi menzione d'uno, che altronde non s'ha se non da due storici milanesi del secolo di cui parliamo, cioè da Arnolfo [Arnulf., Hist. Mediolan., lib. 1, cap. 13.] e da Landolfo seniore [Landulfus Senior., lib. 2, cap. 18.]. Stando fermo Ottone III di volere per moglie una principessa dell'imperial corte di Grecia, giacchè indarno l'avea chiesta con una precedente ambasceria, spedì colà, per quanto si può conghietturare, nell'anno presente, Arnolfo II arcivescovo di Milano. V'andò egli con superbissimo accompagnamento, ricevette insigni onori da Basilio e Costantino Augusti, ed ottenne quanto dimandò. Ma inutile riuscì il suo viaggio e trattato, perchè tornato in Italia, trovò Ottone III chiamato da Dio all'altra vita. Il suddetto Landolfo seniore, scrittore talvolta parabolano, lasciò scritto, che oltre a molti altri regali riportati da quella corte, esso Arnolfo serpentem aeneum, quem Moyses in deserto divino imperio exaltaverat, imperatori requisivit, et habere meruit; et veniens in ecclesia sancti Ambrosii ipsum exaltavit. Mirasi tuttavia nella basilica ambrosiana di Milano un serpente di bronzo sopra una colonna di marmo, creduto il medesimo di cui parla Landolfo; e sopra di questa insigne reliquia è mirabile il vedere quanto abbiano scritto varii scrittori milanesi, senza accorgersi che questa è una delle grossolane semplicità dei secoli barbarici. Sembra a me d'aver prodotta altrove [Antiquit. Italic., Dissert. LIX.] la vera origine di questo serpente di bronzo, conservato in essa basilica; e però altro non ne soggiungo.

[55]


   
Anno di Cristo MII. Indizione XV.
Silvestro II papa 4.
Ardoino re d'Italia 1.

Dimorava l'Augusto Ottone III nella terra di Paterno con poca sanità, intento agli esercizii di penitenza. Questa terra di Paterno, Cosimo della Rena [Cosimo della Rena, Serie de' Duchi di Toscana.] la crede situata nel contado di Perugia, distante una giornata da Todi. Leone ostiense [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 24.] chiaramente scrive che Ottone si ritirò apud oppidum, quod nuncupatur Paternum, non longe a civitate, quae dicitur Castellana. Nelle Tavole del Magini tuttavia si osserva Paterno del contado di Città Castellana; e però non occorre senza testimonianza degli antichi cercare altro sito che questo. Stando in essa terra Ottone, che s'intitola Servus Apostolorum, diede un diploma [Puccinelli, Cronica della Badia Fiorent.] in favore della badia di Firenze VI idus januarii, anno dominicae Incarnationis MII, Indictione XV, anno tertii Othonis regni XVIII, imperii VI. Datum in Paterno. Si osservi ancor qui l'anno del regno XVIII, che, secondo l'epoca ordinaria dovrebbe essere il XIX, e però indica un'epoca diversa dall'altra. Forse è presa dall'anno 884, dappoichè colla cessione del duca Arrigo egli fu ristabilito sul trono. Poscia nel dì 11 del medesimo mese ne spedì un altro in confermazione dei beni del monistero di santa Maria di Prataglia [Idem, ibidem, pag. 209.], III idus januarii, anno dominicae Incarnationis MII, Indictione XV, anno autem domni Ottonis inclitissimi tertii imperatoris, regnantis quidem XVIII, imperantis VI. Actum in Paterno. Ma da lì a pochi dì la morte rapì questo giovane imperadore, della cui nobilissima indole maravigliose doti d'animo e sapere, non si saziano di parlare gli storici antichi della Germania. La morte sua negli Annali [56] d'Ildeseim [Annal. Hildesheim.] e da Ermanno Contratto [Hermannus Contrac., in Chronic.] vien registrata nel dì 23 di gennaio del presente anno. Ditmaro, che la mette nel dì 24, forse volle intendere della sepoltura. Se ad alcuni scrittori tedeschi s'ha da credere, Ottone III fu portato all'altra vita da una febbre petecchiale. Ma Leone ostiense, Landolfo seniore, Roberto tuiziense, Radolfo glabro ed altri tutti concordemente asseriscono che mancò di vita per veleno datogli da Stefania, già moglie di quel Crescenzio ch'egli avea fatto decapitare, benchè sieno discordi nella maniera, ed abbiamo infrascato di molte dicerie popolari questo avvenimento. L'incauto principe s'avea presa per concubina questa donna, laonde fu a lei facile il far vendetta dell'ucciso marito. Che Ottone l'avesse presa per moglie, come hanno asserito alcuni, e poi la ripudiasse, son favole, a mio credere, nate nell'immaginazione della buona gente. Fors'anche è una favola quel concubinato, che non s'accorda colla penitenza a cui egli attendeva in questi tempi. Fu incredibile il dolore e pianto di tutti i suoi per l'immatura morte di questo da loro amatissimo principe. La tennero essi celata finchè si raunassero le soldatesche sparse per le castella, e poi si misero in viaggio per riportarne il corpo ad Aquisgrana, dove egli desiderò di essere seppellito. Ditmaro [Ditmarus, lib. 4.] e l'Annalista [Annalista Saxo.] e il Cronografo sassone [Chronographus Saxo apud Leibnitium.] scrivono, che divulgata la morte di Ottone III, e che veniva trasportato in Germania il cadavero suo, i Romani (se pure non voglion dire gli Italiani) barbaramente si scatenarono contro la picciola armata dei Tedeschi; ed ora in aguati, ed ora a campagna aperta l'assalirono, con essere specialmente succedute tre battaglie, nelle quali ebbero la peggio i Romani. In somma per sette giorni [57] continui bisognò marciar quasi sempre combattendo; nè si trovarono mai sicuri, finchè ad Bernam perveniunt civitatem. Ma in vece di Berna si ha a mio credere da scrivere Beronam, cioè Verona, in cui era marchese Ottone duca di Carintia. In fatti nella vita di santo Arrigo imperadore [Adelboldus in Vita S. Henrici imperat.] si legge: Cum maxima difficultate et periculis pluribus per Veronam, per Bavariam, cadaver ipsius reportabant. Furono poi accolti ad una corte del vescovo d'Augusta da Arrigo III duca di Baviera, il quale cominciò di buon'ora a fare i suoi negoziati, per essere eletto re, giacchè il defunto Augusto non avea lasciato dopo di sè prole alcuna maschile. Era esso Arrigo figliuolo di Arrigo duca, e nipote di un altro Arrigo duca, già da noi veduto fratello di Ottone il Grande Augusto; e per conseguente, se era mancata la linea d'esso Ottone, durava nondimeno in lui l'altra in guisa ch'egli pretendeva come per diritto ereditario la corona. Però per forza occupò lo scettro, la corona, il pomo e gli altri ornamenti imperiali. E perchè il santo arcivescovo di Colonia Eriberto avea mandata innanzi la lancia, il fece arrestare, nè il rilasciò senza sigurtà che gliel'avrebbe inviata. Fu poi data sepoltura al corpo del defunto imperadore in Aquisgrana.

In questo mentre, cioè appena intesa la morte di Ottone III Augusto senza successione, i principi, vescovi, ed altri primati d'Italia furono in gran moto. Ai più pareva che fosse risorta la lor libertà per poter eleggere quel re che fosse loro più in grado; e tanto per amore della propria nazione, quanto perchè non erano molto soddisfatti del governo dei monarchi tedeschi, si accordarono assaissimi d'essi nella dieta tenuta in Pavia di eleggere un re italiano. Ardoino marchese d'Ivrea, principe per accortezza e per ardire, ma non già per le virtù cristiane, superiore a molti, quegli fu che guadagnò i voti degli altri, e si fece eleggere e coronare re nella basilica di san Michele di Pavia. Episcopicida [58] il chiama Ditmaro, e ne abbiam veduta la ragione di sopra all'anno 999. Favole io reputo quelle che racconta Valeriano Castiglione [Castiglione, nelle Annotaz. al regno d'Italia del Tesauro.], spacciando che in una dieta di Lodi seguisse l'elezion di Ardoino. Arnolfo milanese chiaramente scrive: Papiae eligitur. Nella Cronichetta dei re d'Italia [Anecdot. Latin, tom. 2, pag. 204.], da me data alla luce, si legge che dopo la morte di Ottone III fuit tunc regnum sine rege XXIV dies. Die qui fuit dominico, et fuit XV mensis februarii in civitate Papia inter basilicam sancti Michaelis fuit coronatus Ardoinus rex. Cadde appunto il dì XV di febbraio dell'anno presente in domenica; e di qui ancora si apprende, contando i dì 24 del regno vacante, che Ottone finì di vivere nel dì 23 di gennaio. Ardoino, chiamato da Ditmaro Hardwigus ed Hardwicus, e da Arnolfo storico milanese di questo secolo [Arnulf. Histor. Mediolanens. lib. 1.] nobilis Ipporegiae marchio, era figliuolo di Dodone ossia Doddone, come si ha da un suo diploma, dato [Guichenon Bibliothec. Sebus., Centur. II, cap. 10.] anno dominicae Incarnationis MXI, tertio kalendas aprilis, Indictione IX. Actum Bobii in episcopali palatio. Questo contiene una donazione fatta a san Siro di Pavia pro anima patris nostris Doddonis, et pro anima patrui nostri domni Adalberti, rogante domno Wilelmo marchione carissimo consobrino germano nostro. Nè dà egli il titolo di marchese al padre, nè allo zio. Da altri il padre d'Ardoino sembra appellato Oddone, cioè Ottone; ed avendo Ardoino avuto un figliuolo nomato Ottone [Idem, Ibidem, cap. 3.], pare che non sia senza fondamento un tal nome. Per quanto ancora ho osservato nelle Antichità estensi [Antichità Estensi, P. I, cap. 13.], non è inverisimile che Odelrico Magnifredo ossia Manfredi, marchese celebre di Susa, e fratello di Alrico vescovo d'Asti, fosse suo zio paterno. Comunque sia, Ardoino diede principio [59] al suo governo col confermare i privilegii di varie chiese. Uno dei suoi diplomi pel monistero di san Salvatore di Pavia si vede spedito [Bullar. Casinens., tom. 2, Constit. LXXI.] X kalendas martii, anno dominicae Incarnationis MII, anno domni Arduini regis I. Actum in papiensi palatio. Il Margarino ha dimenticata l'indizione. Due altri dati nello stesso giorno per la chiesa di Como si leggono presso il padre Tatti [Tatti, Istor. della Chiesa di Como, tom. 2.] colle seguenti note: VIII kalendas aprilis anno dominicae Incarnationis millesimo secundo, Indictione quintadecima, anno vero domni Ardoini regis regnantis primo. Actum Castro Montigio. Così passavano gli affari d'Italia, ed intanto si disputava in Germania per l'elezione del nuovo re. I due principali concorrenti, oltre ad Ecchicardo marchese di Turingia, erano Erimanno duca di Alemagna e d'Alsazia, figliuolo di Udone duca (morto nella sconfitta data dai Saraceni in Calabria ad Ottone II) e il soprammentovato Arrigo III, duca di Baviera. Prevalse in fine, ma dopo molti movimenti d'armi, coi suoi aderenti esso duca Arrigo, il quale in Magonza, per attestato di Ditmaro [Ditmarus, Chron., lib. 5.], VII idus junii in regem eligitur, acclamatur, et a Willigiso praesule benedicitur et coronatur. Adelboldo [Atelboldus, in Vit. S. Henrici.] scrive octavo idus junii: cioè sarà stato eletto nel dì 25 di maggio, e coronato nel dì 26: e n'era ben degno; tante virtù d'animo concorrevano in lui, e massimamente la religione e la pietà, per cui si meritò poscia il titolo di santo. Claudus, cioè zoppo, fra gli Arrighi vien appellato da alcuni, perchè zoppicava di un piede. Avea per moglie Cunegonda, figliuola di Sigefredo conte di Lucemburgo, che con lui gareggiava nel possesso ed esercizio delle più rare virtù, e per cagion d'esse arrivò anche ella ad essere registrata nel catalogo dei celesti cittadini [Annales Hildesheim.]. Ricevette [60] anch'essa dipoi la corona regale nel giorno di san Lorenzo in Paderbona. Sotto il presente anno Lupo protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] racconta che obsedit Saphi caytus (cioè il generale dei Saraceni ossia dei Mori africani, padroni della Sicilia) Barum a die II maii usque ad sanctum Lucam mense octobris. Tunc liberata est per Petrum ducem Veneticorum. Questo fatto glorioso di Pietro Orseolo II doge di Venezia non fu ignoto all'accuratissimo cronista di Venezia Andrea Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], di cui sono le seguenti parole: Iste dux etiam contra Saracenos, qui barensem urbem Apuliae obsessam delinebant, cum navali stolo perrexit, et urbem intravit, et victualibus muniit. Et cum Gregorio catapano imperiali ex urbe exiens, de Saracenis victoria habuit, et liberata urbe ab obsidione Venetias rediit. Il Sigonio differì questa impresa fino all'anno 1005.

Non fu l'assunzione del re Arrigo al trono germanico senza contrasti, e massimamente dalla parte del suddetto Erimanno duca d'Alemagna, o vogliam dire di Suevia. Tuttavia, giacchè chiunque de' baroni a tutta prima non aveva acconsentito alla di lui elezione, di mano in mano veniva a rendergli ubbidienza, Erimanno anch'egli, preso miglior consiglio, sul principio d'ottobre di quest'anno, e non già nel seguente, come hanno gli Annali d'Ildeseim, andò a gittarsegli a' piedi, e a giurargli fedeltà. Di questi prosperosi successi del re Arrigo informato il re Ardoino, già andava prevedendo che non tarderebbe molto il re germanico a portar la guerra in Italia [Ditmarus, Chronic., lib. 5.], ma in questo mentre si fabbricava egli la sua rovina col trattar aspramente que' medesimi principi d'Italia che l'aveano messo sul trono. Fra gli altri, perchè il vescovo di Brescia gli disse alcune spiacevoli parole, il prese pel ciuffo, e il cacciò vituperosamente in terra, come se fosse stato un bifolco. Questa sua sfrenata [61] collera fu cagione che molti dei principi italiani, pentiti d'averlo innalzato, segretamente spedirono o messi o lettere ad invitare in Italia il buon re Arrigo [Adelboldus, in Vita S. Henrici.]. Era, come ho detto di sopra, in questi tempi duca di Carintia e marchese della marca di Verona, ossia di Trivigi, Ottone, quel medesimo che vedemmo padre di Gregorio V papa, il cui padre fu Corrado duca di Franconia, la madre Liutgarda figliuola di Ottone I Augusto. Il discender egli dal sangue di esso imperadore, congiunto col credito di una rara probità e saviezza, parvero tali prerogative allo stesso Arrigo, non per anche re, che gli mandò ad offerire il regno. Ma egli con umiltà si sottrasse a questo onore e peso, e, per quanto potè, cooperò dipoi all'esaltazione d'Arrigo. Dalla Germania, ove era ito esso Ottone, ebbe ordine di tornarsene in Italia con un piccolo corpo di armata. Ardoino, che teneva di buone spie, non solo penetrò la di lui venuta, ma seppe ancora, che calato esso in Italia, erano per unire con lui le forze loro Federigo arcivescovo di Ravenna e Teodolfo marchese. Così ha il testo di Ditmaro, e quello eziandio dell'Annalista sassone [Annalista Saxo apud Eccardum.]; ma senza dubbio in vece di Teodolfo, s'ha quivi da leggere Teodaldo, ossia Tedaldo marchese, avolo della gloriosa contessa Matilda. Tieboldus è nominato da Adelboldo [Adelboldus, in Vita S. Henrici.]. Però Ardoino frettolosamente con tutte le sue forze accorse alle Chiuse d'Italia, che fin qui erano state guardate dagli uomini del vescovo di Verona, e per forza le prese. S'avanzò anche fino a Trento, credendo che colà fossero già calati i Tedeschi; ma non avendoli trovati, se ne tornò in fretta alla campagna di Verona. Celebrava egli la festa del santo Natale in un castello, quando giunto il duca Ottone alla Chiusa dell'Adige, e trovato serrato quel passo, mandò al re Ardoino pregandolo della licenza di [62] poter passare. Trattenne Ardoino i messi sino alla mattina seguente, e nella notte raunate le sue truppe, sul far del giorno in ordinanza di battaglia portossi ad assalire i nemici. Calda fu quell'azione, molto sangue costò all'una e all'altra parte; ma in fine restarono sconfitti i Tedeschi, e pochi se ne salvarono coll'aiuto delle gambe. Narra il Sigonio questo fatto sotto l'anno 1003; ma assai chiaramente si raccoglie da Ditmaro che ciò seguì sul termine dell'anno presente. Non errò già egli, come pretende il padre Pagi [Pagius, Crit. ad Annal. Baron. ad ann. 1004.], in raccontare una tal battaglia e vittoria, essendo cosa indubitata, perchè asserita da Ditmaro [Ditmaro, Chron., lib. 5.] e da Adelboldo [Adeboldus, in Vita S. Henrici.] scrittori di questi tempi. Parimente Arnolfo storico del presente secolo scrive [Arnulf., Hist. Mediol., lib. 1, c. 15.] che il re Arrigo per consiglio de' principi d'Italia segretamente a lui favorevoli, direxit in Italiam suum cum exercitu ducem. Cui occurrens viriliter Ardoinus, facta congressione in campo Fabricae, quamplures stravit, ceteros extra fines regni fugavit. Curiosa cosa è il vedere un contrasto seguito in quest'anno fra Conone, ossia Corrado, vescovo di Perugia, e l'abbate del monistero di san Pietro di Perugia [Ughell., Ital. Sacr., tom. 9, pag. 918.], praesidente domno Sylvestro II Romanae sedis pontifice in synodo habita in palatio sacrosancto lateranensi, anno quarto ordinationis suae, mense Decembris die tertia, Indictione prima, cominciata nel settembre. Pretendeva il vescovo superiorità sopra quel monistero; pretendeva il papa che fosse esente ed immediatamente sottoposto alla santa sede in vigore di un privilegio pontificio. Rispondeva il vescovo: Privilegia haec non reprobo, sed sine consensu antecessoris mei, cujus temporibus illud primum privilegium factum est, factum fuisse dico. Si solum viderem consensum, haberem inde aeternum silentium. Gli fu [63] mostrata la lettera del suo predecessore col consenso, anzi con preghiera che fosse privilegiato quel monistero; laonde convenne al vescovo di cedere. Così i vescovi d'allora consentivano alla diminuzione della loro giurisdizione. E di qui si scorge che si esigeva questo loro consenso. Ma andando innanzi, fu creduto in Roma superfluo il chiederlo, e si privilegiarono tutti quanti i monisteri, secondochè piaceva ai romani pontefici.


   
Anno di Cristo MIII. Indizione I.
Giovanni XVII papa 1.
Giovanni XVIII papa 1.
Ardoino re d'Italia 2.

Circa il dì 11 di maggio dell'anno presente diede fine alla sua carriera Silvestro II papa, prima chiamato Gerberto. Se si volesse credere all'Annalista sassone [Annalista Saxo, ad ann. 1001.], quella medesima Stefania, già moglie di Crescenzio console decapitato, che attossicò Ottone III Augusto, malamente conciò anche il suddetto pontefice. Veneficio ejusdem mulieris etiam papa Romanus gravatus asseritur, ita ut loquendi usum amiserit. Non si può dire quante ciarle si spargessero dipoi in discredito di esso Silvestro: cioè fu spacciato per negromante, e che per patto segreto del diavolo egli arrivasse al pontificato, e poco mancò che miseramente poi tra le griffe di lui non ispirasse l'anima. Stomacose calunnie son queste, o inventate, o spacciate da Bennone, cardinale scismatico a' tempi di papa Gregorio VII, nell'infame sua invettiva contra della corte romana [Menchenius, Scriptor. Rer. German., tom. 1.]. Sigeberto, Martino Polacco, Tolomeo da Lucca ed altri da questa puzzolente scrittura trassero la favola indegna del merito raro di questo pontefice. Perciocchè, per consentimento degli antichi e migliori storici, Gerberto ossia Silvestro II, se si eccettua la sua ambizione, fu uno dei più insigni personaggi di questi tempi: tanto era il [64] suo sapere, non disgiunto dalla pietà, per cui parve a que' secoli ignoranti ch'egli più che umanamente possedesse le arti e le scienze. A lui anzi ha grande obbligazione l'Italia, potendosi in certa maniera dire, che dall'aver egli aperta scuola nel monistero di Bobbio, cominciò fra noi il risorgimento delle buone lettere; e così in Germania e in Francia, dove egli coll'esempio suo infervorò allo studio i dormigliosi ingegni. Di lui perciò si dilettava forte Ottone III imperadore, e soprattutto, perchè egli era assai istruito delle arti matematiche. Quelle linee e quei triangoli, cose allora troppo forestiere, probabilmente gli acquistarono il titolo di mago presso il goffo popolaccio. Optime, scriveva Ditmaro [Ditmarus, Chronic. sub finem lib. 6.], callebat astrorum cursus discernere, et contemporales suos variae artis notitia superare. In Magdaburg horologium fecit, illud recte constituens, considerata per fistulam quadam stella, nautarum duce. Anche prima dell'invenzione del cannocchiale, si servivano gli astronomi di un tubo per mirar le stelle, ma senza giungere a saper adoperare e congegnar lenti ed obbiettivi di vetro, che oggidì cotanto ingrandiscono e rendon visibili gli oggetti lontani. Il padre Pez diede alla luce la Geometria d'esso Gerberto [Pez, Thesaur. Anecdotor., P. II, tom. 3.]. Altre sue operette, oltre alle epistole, scritte con assai vivacità, sono rammentate dagli scrittori della storia letteraria. Ora a Silvestro II succedette nella cattedra di san Pietro un Giovanni, soprannominato Siccone o Secco, il quale, secondo la cronologia pontificia, dovrebbe essere appellato Giovanni XVI, e pure si truova nomato da alcuni Giovanni XVII, perchè quantunque Giovanni calabrese, che occupò la sedia a Gregorio V nell'anno 997, non meriti luogo tra i romani pontefici, pure altro sentimento dovettero avere i Romani d'allora, giacchè troviamo che il successore di questo Giovanni Secco venne sempre chiamato negli Atti pubblici [65] Giovanni XVII. Così il chiamò anche Mariano Scoto e l'Annalista sassone; e che così si abbia a chiamare saggiamente lo pretese il padre Pagi [Pagius, Crit. ad Annales Baron.]. Ma questo Giovanni XVII, dopo aver tenuta la cattedra pontificia appena sei mesi, colla sua morte fece luogo ad un altro Giovanni XVIII, che fu soprannominato Fasano. Crede il suddetto padre Pagi seguita la di lui ordinazione nel dì di santo Stefano, 26 di dicembre dell'anno corrente.

In quest'anno ancora mi sia lecito il riferire quali principi d'Italia tenessero in favore del re Arrigo, secretamente nondimeno; credendo io che il solo Ottone marchese di Verona e duca di Carintia si dichiarasse apertamente contra di Ardoino. Trovavasi tuttavia in viaggio, tornando dall'ambasciata di Costantinopoli, Arnolfo II arcivescovo di Milano, allorchè venne a morte Ottone III Augusto, e seguì l'elezione e coronazione d'esso Ardoino. Dovette egli aversi a male che senza di lui, primo fra' principi della Lombardia, e in possesso di coronare i re d'Italia, si fosse dato il regno e conferita la corona al marchese d'Ivrea. Perciò Ardoino, secondochè s'ha da Arnolfo storico [Arnulf., Hist. Mediol., lib. 1, cap. 19.], cognito jam dicti praesulis reditu, occurrit in itinere obvius, securitate, quanta valuit, sibi illum applicare procurans. Gli diede, a mio credere, il prelato delle buone parole, ma internamente seguitò ad essergli contrario. Anzi, se si volesse credere a Landolfo seniore [Landulf. Senior, Hist. Mediol., lib. 2, cap. 14.], da lì a pochi giorni questo arcivescovo in Rochalia cum omnibus Italiae primatibus colloquium habuit, ubi quum diverse de regni negotiis tractassent, Arduini spreto dominio, quod malis artibus usurpaverat, Henricum I theutonicum scientia illustrem, armis fortissimum militumque copiis abundantem, et divitiis affluentem elegit. Ma non presti qui fede il lettore a Landolfo, autore solito a vendere delle fanfaluche. [66] Non è credibile questa dieta tenuta in Roncaglia (io non so come il Sigonio la metta in Lodi), allorchè Ardoino era tuttavia forte, nè avea competitore in Italia. Arnolfo, storico di maggior credito, sotto l'antecedente anno scrive con più apparenza di verità, che insorta la lite del regno fra Arrigo e Ardoino, in medio principes regni (italici) fraudulenter incedentes, Ardoino palam militabant, Henrico latenter favebant, avaritiae lucra sectantes. Adelboldo [Abelboldus, in Vita S. Henrici.], autore contemporaneo, ci viene annoverando quai fossero i fautori del re Arrigo in Italia, che nell'anno precedente l'invitarono in Italia. In voluntate hujusmodi, dice egli, aliqui manifesti, aliqui erant occulti. Tieboldus namque marchio et archiepiscopus ravennas, et episcopus mutinensis, veronensis, et vercellensis, aperte in regis Henrici fidelitate manebant. Archiepiscopus autem mediolanensis, et episcopi cremonensis, placentinus, papiensis, brixiensis, comensis, quod volebant, manifestabant. Omnes tamen in commune regem Henricum desiderabant, precibus per legatos et literas invitabant. Fra quei che camminavano con più riguardo, v'era l'arcivescovo di Milano. Veggasi dunque se regga la sparata di Landolfo storico milanese. Quel Tieboldo marchese, siccome già accennai, altro non è che Teodaldo o Tedaldo, avolo della contessa Matilda, e figliuolo di quell'Adalberto Azzo conte, oppure marchese, da noi veduto a' tempi di Ottone I Augusto. Di esso Tedaldo parla anche Benzone vescovo d'Alba in quel suo scomunicato panegirico di Arrigo III fra gl'imperadori, con dire [Benzo, Panegyr. lib. 1, cap. 16. tom. 1 Rer. German. Menchen.]: De Tadone vero, qui propter metum Ardoini pedester legatus marchionis Teodaldi, atque episcopi Leonis (di Vercelli) quid fecit venerabilis clementia magni Henrici serenissimi imperatoris? Certe uni filio ejus dedit Veronae episcopatum; alteri comitatum; [67] patri vero Gardam, et totum Benacum. Volle il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron. ad ann. 1002.] darci informazione di questo principe, con dire ch'egli sposò Willa ossia Guilla, sorella di Ugo duca e marchese di Toscana. Certo che una Willa fu moglie di esso Tedaldo; ma un sogno è del padre Pagi, perchè senza pruova alcuna dell'antichità, il darle per fratello il marchese Ugo. Soggiugne francamente che Tedaldo succedette al marchese Ugo nel ducato della Toscana: il che hanno creduto alcuni moderni, ed inclinò a crederlo anche l'accuratissimo Francesco Maria Fiorentini [Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 3.]. Per provarlo, adduce esso Pagi la fondazione da lui fatta del monistero di Polirone, dove s'intitola: Ego in Dei nomine Teudaldus marchio, filius quondam Adelberti itemque marchio. Stima eziandio che Adalberto suo padre sia stato marchese di Toscana. Ma è da dire che la storia della Toscana per questi tempi è involta in molte tenebre. Per conto di Adalberto, tale è l'error del Pagi, che non occorre confutarlo. Abbiam già veduto a cui finora sia stato appoggiato il governo della Toscana. Che poi Tedaldo suo figliuolo succedesse ad Ugo marchese, nulla serve a provarlo il titolo di marchese. Altri v'erano in que' tempi di questo titolo decorati, e fra gli altri anche gli antenati della casa d'Este, senza che si possa dire che governassero la Toscana. Nè perchè si truovi in Toscana un marchese, ci è lecito il tosto inferirne che egli fosse ancora marchese di Toscana. Altrimenti con più ragione si avrebbe ad asserire marchese di quella contrada [Antichità Estensi, P. I, cap. 21.] Adalberto marchese, figliuolo di Oberto marchese e nipote di Oberto marchese, uno degli antenati della suddetta casa d'Este, che poco più di due mesi dopo la morte di Ugo, potente marchese di Toscana, fa una vendita di beni [Fiorentini, Memorie di Matilde, lib. 3.] anno ab Incarnatione millesimo secundo, et tertio idus martii, Indictione XV, infra Burgo [68] de Luca prope portam sancti Fridiani. Ma io non mi sono arrischiato per questo solo documento a crederlo e chiamarlo marchese di Toscana. Tornando dunque al marchese Tedaldo suddetto, altro io non so dire, se non che egli era conte di Reggio e di Modena, come altrove ho provato. Di lui scrisse ancora Donizone Monaco [Donizo, in Vita Mathild., lib. 1, cap. 3.] nella vita della contessa Matilda sua nipote, che il papa l'investì di Ferrara.

Regibus exsistit carus, notissimus illis,

Romanus papa quem sincere peramabat,

Et sibi concessit, quod ei Ferrarea servit.

Inclino parimente a credere ch'egli governasse Mantova, perchè nel seguente anno truovo Bonifazio suo figliuolo con titolo di marchese in quella città. Ed ancorchè non sappia io ben dire se il soprammentovato monistero di Polirone fosse allora situato nel contado di Mantova, oppure di Reggio; pure di qui ancora scorgiamo che la potenza di Tedaldo marchese si stendeva per queste parti, senza che resti memoria alcuna comprovante ch'egli fosse marchese di Toscana. Perchè Arrigo re di Germania niun possesso e dominio godeva per anche in Italia, potrebbe sembrare alquanto strano un suo diploma riferito dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Parmens.], dato II kalendas martii, anno Incarnationis Domini MIII, Indictione I, anno vero domni Henrici regis primo. Actum Noviomagi, in cui esso re Arrigo, interventu nostri fidelis Teodaldi marchionis (così abbiamo veduto che era appellato dai Tedeschi il suddetto Tedaldo), concede a Sigefredo vescovo di Parma la pingue badia di Nonantola sul modenese: parendo poco verisimile che Tedaldo marchese e il vescovo si portassero a Nimega, senza timore d'incontrar la disgrazia del regnante Ardoino. Ma questo broglio e l'aggraffamento di questa insigne badia sarà seguito per lettere e raccomandazioni segrete. E il buon re Arrigo non avea allora [69] scrupolo a guadagnarsi de' partigiani in Italia, facendo il liberale coi beni ancora della chiesa. Quatenus (Sigefredus) firmatus in fide acriter deserviret nobis, lo dice chiaramente lo stesso Arrigo. Nè vo' lasciare di dire avere Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chron.] scritto sotto quest'anno: Sarraceni obsederunt montem Scaviosum mense martii, sed nihil profecerunt.


   
Anno di Cristo MIV. Indizione II.
Giovanni XVIII papa 2.
Ardoino re d'Italia 3.
Arrigo II re di Germania 3, d'Italia 1.

Fin qui era durato il regno di Ardoino in Italia senza essere turbato, per quanto si sappia, da guerre interne, ma colla fede vacillante di molti principi che inclinavano al re Arrigo, o erano da lui mossi colla speranza di maggiori vantaggi. Ho io pubblicato [Antiq. Ital., Dissert. XXXI, pag. 965.] un placito tenuto da Adelelmo qui et Azo, missus domni Arduini regis in Cremona, anno regni domni Arduini regis tercio. Quinto kalendas marcii, Indictione II, cioè nel febbraio nell'anno presente. Ma non andò molto che arrivò in Italia chi gli rovesciò il suo trono. Arrigo II, re di Germania, tra perchè gli stava a cuore l'Italia, e perchè da' suoi parziali gli veniva dipinta per assai facile la conquista di questo regno, sbrigato che fu da alcune guerre civili, e creato che ebbe duca di Baviera Arrigo fratello dell'Augusta Cunegonda, s'incamminò con un possente esercito a questa volta, e nel dì delle palme arrivò a Trento. Se crediamo all'Annalista sassone [Annalista Saxo apud Eccardum.], già erano iti a trovarlo fino in Germania il vescovo di Verona, et alii quidam italici primores regni cum regiis muneribus. Secondochè scrive Ditmaro, [Ditmarus, Chron., lib. 6.], la venuta d'esso Arrigo in Italia accadde nell'anno seguente [70] 1005, consummata millenarii linea numeri et in quinto cardinalis ordinis loco. Però il cardinal Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.], e dopo di lui il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baronii.], rifiutando gli Annali d'Ildeseim [Annales Hildesheim.] che la mettono nell'anno presente, scrive: Henrici expeditionem italicam in annum sequentem MV, differt Ditmarus libro sexto, eique standum existimo. Ma il padre Pagi non colpì nel segno. Il testo di Ditmaro quivi è scorretto, e in vece di quinto vi si ha da scrivere quarto. L'Annalista sassone e il Cronografo sassone [Chronographus Saxo apud Leibnitium.], copiatori di esso Ditmaro, chiaramente scrivono che nell'anno presente il re Arrigo calò in Italia. Così ha Ermanno Contratto [Hermannus Contractus, in Chron.] con altri. E questa verità vien chiaramente confermata da Adelboldo [Adelboldus in Vita S. Henrici.], scrittore contemporaneo, e dai documenti che accennerò. Arrivato dunque a Trento il re germanico coll'esercito suo, trovò prese e ben fortificate da Ardoino le Chiuse dell'Adige, in maniera che gli era impossibile lo sforzare quel passo. Per consiglio de' suoi, rivolse le sue speranze al popolo della Carintia, il quale portossi ad occupare un'altra Chiusa verso la Brenta, non so se sul Vicentino o sul Trivisano, che non era custodita con tanta gelosia. Presa questa, Arrigo col fiore della sua armata per monti scoscesi e dirupi tanto fece, che da quella parte scese al piano d'Italia in vicinanza d'esso fiume Brenta. Quivi riposò le stanche soldatesche, e celebrò la santa Pasqua, che venne in quest'anno nel dì 17 d'aprile. Degno di considerazione è uno strumento dato alla luce dal padre Bacchini [Bacchini, Istoria del monistero di Polirone, Append., pag. 20.], in cui Bonifacio Marchio filius domni Teudaldi itemque Marchio, qui professus sum ex natione mea lege vivere Longobardorum, fa un donativo di terre al monistero di [71] Polirone. Tali sono le note di quella carta: Henricus gratia Dei rex, anno regni ejus, Deo propitio, hic in Italia primo, mense martius, Indictione secunda. Actum in civitate Mantuae. Credette esso padre Bacchini spettante all'anno seguente 1005 questa donazione, non so se così persuaso dal padre Pagi, che ad esso anno mette la venuta del re Arrigo in Italia. Ma è fuor di dubbio che appartiene all'anno presente, dimostrandolo l'indizione seconda, corrente in quest'anno. Sicchè vegniamo ad intendere che Bonifazio marchese, padre della contessa Matilda, vivente ancora il marchese Tedaldo suo padre, portò il titolo di marchese, e signoreggiava in Mantova. Di esso Bonifacio appunto scrive Donizone:

Cui juravere, patre tunc vivente fideles

Servi prudentes proceres, comites pariterque.

Intendiamo inoltre che esso marchese Bonifazio, appena udita la mossa del re Arrigo verso l'Italia, senza neppure aspettare ch'egli valicasse i monti, il riconobbe per re d'Italia, e cominciò a contare l'anno primo del suo regno. Si dovea egli fidar molto della fortezza di Mantova, siccome suo padre della rocca di Canossa. Nella terza festa di Pasqua passò il re Arrigo la Brenta, ed accampossi per ispiare gli andamenti d'esso Ardoino. Ma da lì a poco gli giunse il lieto avviso che l'armata d'esso Ardoino s'era sciolta, e chi l'una via e chi l'altra avea preso. Arnolfo milanese [Arnulfus, Hist. Mediolan., lib. 1, cap. 16.] così racconta il fatto: Ex adverso Ardoinus fidens viribus, nec minus armis instructus, non tantum defendere, quantum super eum (Heinricum) paratus insurgere, occurrit illi Veronae. Sed deceptus perfidia principum, majori militum parte destituitur. Quumque cessisset invitus, regnum Heinricus ingreditur. Non avea saputo Ardoino cattivarsi l'amore de' principi; abbondava anche di vizii, oltre al sapersi che il pescare nel torbido è mestiere non ignorato dai grandi; nè mancava allora [72] in Italia chi credea di poter vantaggiare gl'interessi suoi sotto i re tedeschi e lontani. In somma il re Arrigo, esentato da ogni contrasto, fu ben tosto ricevuto in Verona con sommo applauso, e quivi se gli presentò Tedaldo marchese col suddetto Bonifazio marchese suo figliuolo, e cogli altri parziali che s'erano cavata la maschera [Adelboldus, in Vit. S. Henrici, §. 48.]. Con pari lietissimo incontro fu accolto in Brescia da que' cittadini e dal loro vescovo, per quanto pare, appellato Adalberone da Ditmaro, sebbene l'Ughelli mette allora vescovo di quella città Landolfo. Ibi, soggiugne Adelboldo, archiepiscopus ravennas cum suis et sibi finitimis ei obviam venit, et manus nondum dominio adulterino pollutas, seniori diu exspectato reddit: parole significanti che Federico arcivescovo di Ravenna co' popoli dell'esarcato non avea voluto riconoscere per re in addietro Ardoino, e che egli giurò fedeltà ad Arrigo, come a suo signore. Dal che resta sempre più avverato che in que' tempi l'esarcato di Ravenna era parte del regno d'Italia, e non ne godevano i papi alcun temporale dominio. Ma poco più dovette sopravvivere esso arcivescovo di Ravenna, siccome apparirà da quanto diremo all'anno 1014. Andossene dipoi Arrigo a Bergamo, e colà venuto l'arcivescovo di Milano Arnolfo II, prestò ad esso re il giuramento di fedeltà. Giunto finalmente a Pavia, fu eletto ed acclamato re d'Italia dalla maggior parte dei principi, e coronato nella chiesa di san Michele. Nella prima delle Cronichette dei re d'Italia, da me date alla luce [Chronic. Regum Ital. tom. 1 Anecdot. Latin.], si legge: In die dominico, qui fuit die.... mensis madii inter basilicam sancti Michaelis, quae dicitur Majore; fuit electus Henricus, et coronatus in secundo die, qui fuit die Lunae. XII die mensis madi. Nell'altra Cronichetta abbiamo: Deinde venit Anricus rex. Fuit coronatus in regem in Papia tertio die ante festivitatem sancte Xiri, quae fuit in mense madio. Nel dì 17 di maggio in Pavia si celebra [73] la traslazione di san Siro. Tre giorni prima, cioè nel dì 14 d'esso mese, correndo allora la domenica, dovette seguir l'elezione del re Arrigo, e la sua coronazione nel lunedì seguente, giorno 15 d'esso mese. Però in vece di die Lunae XII die mensis madii, vo io credendo s'abbia a leggere XV.

Ma queste allegrezze restarono funestate da un terribilissimo accidente. Nello stesso giorno della coronazione del re, verso la sera, insorse lite fra i Pavesi e i Tedeschi che erano in Pavia. Gli storici tedeschi, da' quali soli vien con qualche particolarità esposto il fatto, attribuiscono l'origine della discordia all'ubbriachezza de' cittadini (il lettore più facilmente la immaginerà dei Tedeschi), e a qualche fazionario (il che può essere) di Ardoino che incitò il popolo all'armi. Presero i Pavesi le mura, e crescendo la loro furia, s'inviarono al palazzo dove era Arrigo. Eriberto arcivescovo di Colonia, per placare il rumore, s'affacciò ad una finestra; ma i sassi e le saette il fecero ritirare ben tosto. Intanto s'attrupparono quanti Tedeschi si trovavano nella città, e cominciò la mischia, che durò tutta la notte fino al giorno chiaro, in cui accorsi gli altri soldati ch'erano fuori della città, ridussero a mal punto i cittadini. Ma perciocchè dalle case venivano pietre, legni e verrettoni, i Tedeschi si avvisarono di attaccar fuoco in varii siti della città; e questo crebbe a tal segno, che tutta quella nobil città restò preda delle fiamme insieme col palazzo regale. Restarono vittime delle spade o del fuoco non pochi dei Pavesi; e ciò che non consumò il fuoco, andò miseramente a sacco. Ritirossi il re Arrigo fuori della città nel monistero di san Pietro in Coelo aureo, fece cessare, ma molto tardi, la guerra; e intanto, come scrive Arnolfo [Arnulfus, Hist. Mediolanens., lib. 1.], quum non ad votum sibi obtemperasset, uno totam Papiam concremavit incendio. I saggi imperadori tedeschi, per evitare simili tragedie, amavano di aver [74] fuori delle città i loro palagi. Ugo flaviniacense [Ugo Flaviniacens., in Chron.] scrive che Arrigo obbligò i Pavesi a rifare il palazzo regale. Noi non possiam ben sapere il netto di questi fatti, perchè non gli abbiamo se non da storici tedeschi, i quali ce ne danno notizia, e li dipingono come lor torna meglio. Ma si può ben credere che una sì barbarica vendetta non fece gran credito al re Arrigo, e meno alla gente sua, e sparse l'orrore per tutta l'Italia. Perciò stimò bene esso re di non fermarsi molto in un paese, dove lasciava segni tanto vivi di bestial furore per colpa de' suoi. Pare nondimeno ch'egli tuttavia dimorasse in Pavia nel dì 25 del mese di maggio, avendo io pubblicato un suo diploma [Antiquit. Ital., Dissert. LXXI.] in favore di Guinizone abbate di san Salvatore di Monte Amiata, dato VIII kalendas junii, anno dominicae Incarnationis millesimo quarto, Indictione II, anno vero domni Henrici regis II. Actum Papiae. Non parrà a taluno molto credibile che il re Arrigo si fermasse tanto in una città interamente bruciata, e in mezzo a cittadini che l'odiavano a morte. Quel che è certo, da Pavia se ne andò a Pontelungo, dove ricevette molti deputati di città e luoghi che vennero a sottomettersi. Poscia visitò Milano. Inde Chromo perveniens Pentecostem sanctam pia animi devotione celebravit. Che luogo sia questo, nol so. Grommo è chiamato dall'Annalista sassone [Annalista Saxo.]. Parmi di aver veduto Gromello nelle vecchie carte, ma mi è ignoto il suo sito, e per conseguente non posso discernere se convenga a questo racconto. Diede un egli amplissimo privilegio a Sigefredo vescovo di Parma [Antiquit. Italic., Dissert. LXXI.], II kalendas junii, anno dominicae Incarnationis MIIII, Indictione II, anno vero domni Henrici regis II. Actum in Rodo. Abbiam qui l'epoca del regno di Germania, ma dovrebbe essere l'anno III. Il luogo poi è Rhò, terra del contado di [75] Milano. Un altro diploma dal Tatti [Tatti, Istor. della Chiesa di Como, tom. 2.] e dall'Ughelli si dice dato ad Everardo vescovo di Como nello stesso giorno, cioè II idus junii, anno vero dominicae Incarnationis MIIII, Indictione II, anno vero domni Henrici secundi regis tertio. Actum in Lacunavara. Si osservi il nome di Henricus (si soleva scrivere Heinricus) e il titolo Francorum pariterque Longobardorum rex, ch'è cosa rara. Aggiugne Adelboldo [Adelboldus, in Vita S. Henrici.], che nel partirsi Arrigo da Crommo, Tusci ei occurrunt, et manus per ordinem singuli reddunt. Se la Toscana avesse riconosciuto per re Ardoino, nol so dire. Certo di qui impariamo che quei popoli si diedero al re Arrigo; e non vedendosi parola del loro marchese, nasce sospetto che in questi tempi niuno essa ne avesse. Pare eziandio che vada per terra l'opinion di coloro che tennero Tedaldo, avolo della contessa Matilda, per marchese di Toscana. Se tal fosse stato, non si tardi quella provincia avrebbe accettato per re Arrigo, sapendosi che Tedaldo era de' suoi più parziali. Sbrigato così dagli affari d'Italia il regnante Arrigo, s'inviò alla volta dell'Alemagna, e celebrò in Argentina la festa di san Giovanni Batista. Quindi attese alla guerra contra di Boleslao usurpatore della Boemia. Che il Sigonio non abbia conosciuto la venuta in quest'anno di Arrigo in Italia, e gli altri atti suddetti, non è da maravigliarsene. Mancavano a lui molti lumi che noi ora abbiamo. Piuttosto si può chiedere, come abbondando di questi lumi Burcardo Struvio [Struv., Corp. Hist. German., in Henrico II.], scrivesse che Arrigo fu coronato re d'Italia in Pavia nell'anno 1005. Ma anch'egli senza altro esame dovette tener dietro al Pagi.

Ho io pubblicata una donazione [Antiquit. Ital., Dissert. VI.] che Bonifacius gloriosus marchio (non so se sia il padre della contessa Matilda) fece al monistero di san Salvatore anno Deo propitius, pontificatus domni Johannis summi [76] pontificis, ec. secundo, sicque regnante domno Heinrico piissimo rege in Italia anno tertio, die XXIII mensis septembris, Indictione septima. Fontana Tanoni. Gli anni del papa e del re indicano l'anno presente. Ma l'indizione è scorretta, e dovrebbe essere o secunda o tertia. Se sapessi dove fosse il luogo di Fontana Tanoni, saprei anche dire perchè entrino qui gli anni del romano pontefice. Negli Annali pisani [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.] si legge sotto questo anno: Fecerunt bellum Pisani cum Lucensibus in Aqualonga, et vicerunt illos. Questo è il primo fatto d'armi e la prima guerra d'una città italiana contra dell'altra, che ci somministri la storia d'Italia. Fin qui le città di questo regno erano state governate ognuna dal suo conte. I conti delle varie provincie erano subordinati a qualche marchese o duca, cioè al governatore della provincia. E i duchi e marchesi all'imperadore ossia al re di Italia. Così ognuno vivea in pace, e nascendo discordie fra l'un popolo e l'altro, o i duchi e marchesi, oppure gli uffiziali e messi imperiali tosto le sopivano. Abbiam solamente veduta fin qui una discordia civile in Milano. Se è vera la guerra suddetta, già cominciamo a scorgere che le città d'Italia alzano la testa, e si attribuiscono ovvero si usurpano il diritto regale di far guerra. Vedremo andar crescendo questa musica, la quale si tirò dietro col tempo una gran mutazione di cose in Italia. Ancor questo potrebbe parere indizio che allora la Toscana fosse senza un capo, cioè senza un marchese, la cui autorità tenesse a freno o troncasse somiglianti discordie. Nota appunto il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 8.] sotto il presente anno che Pisa, Genova e Firenze cominciarono a far figura e ad acquistarsi gran nome; perciocchè, coll'esempio de' Veneziani, si diedero alla mercatura ed all'armi, e fecero flotte navali. Delle due prime città possiamo accordarci con lui; ma per conto di Firenze, cominciò ella [77] più tardi a salir in potenza e ricchezza, e a segnalarsi nell'armi. Per altro conviene andar ritenuto in credere tutto ciò che narrano i suddetti Annali, e, dopo di essi, il Tronci [Tronci, Annal. Pisan.], di tante prodezze dei Pisani coi lor vicini in questi tempi. Altri d'essi Annali raccontano all'anno 1002 la suddetta sconfitta de' Lucchesi ad Acqualunga. Poscia all'anno presente narrano che Lucani cum magno exercitu Lombardorum venerunt usque ad Pappianam, et Pisani eos fugaverunt usque ad Ripam Fractam. Non è sì facilmente da credere una tale armata de' Lucchesi, perchè non per anche i popoli d'Italia aveano scosso il giogo, nè soleano far tanto i bravi l'un contra l'altro. Secondochè osservò il cardinal Baronio, in quest'anno la peste infierì non poco in Roma. Confermò ancora il re Arrigo tutti i suoi beni e privilegii alla chiesa di Cremona con un diploma dato [Antiquit. Italic., Dissert. LXXI.] VII idus octubris, Indictione II, anno ab Incarnatione Domini MIIII, anno vero domni Henrici secundi regis II. Datum in Agidburgo. A Giovanni Petrella duca di Amalfi succedette in questo anno Sergio suo figliuolo, il quale avendo dichiarato suo collega nel governo Giovanni suo figliuolo, dopo tredici anni fu scacciato dal popolo, mal soddisfatto di lui [Ibid., tom. 1, pag. 120.]. Nell'anno poscia 1019 lo stesso Giovanni juniore fu di nuovo proclamato duca, e regnò tredici anni.


   
Anno di Cristo MV. Indizione III.
Giovanni XVIII papa 3.
Ardoino re d'Italia 4.
Arrigo II re di Germania 4, d'Italia 2.

Qualor si voglia prestar fede agli Annali pisani, fuit capta Pisa a Saracenis [Annal. Pisan., tom. 6 Rer. Ital.]. Il Tronci, storico di quella città, narra che i Pisani colla lor armata navale passarono in Calabria contra de' Saraceni, e trovatili [78] rifugiati nella città di Reggio, vi posero l'assedio, e datale aspra battaglia, se ne impadronirono, con mettere a fil di spada tutti quegl'infedeli, e dare il sacco alle lor case. Aggiugne che Musetto re saraceno, divenuto padrone della Sardegna, inteso che la città di Pisa si trovava allora sprovveduta di combattenti, per essere eglino andati in corso, venne con grossa armata, prese quella città, la saccheggiò, e ne bruciò quella parte che si chiamò poi Chinsica, perchè una donna chiamata Chinsica Gismondi, vedendo il pericolo della città, andò gridando al palazzo de' rettori della repubblica, e fece dar campana a martello; per la qual cosa i Barbari si diedero alla fuga. Fu poi alzata una statua a questa donna, e dato il nome di lei alla parte abbrugiata di essa città. V'ha delle contraddizioni in quel racconto, e, quanto a me, io il credo in parte favoloso. Forse il nome di Chinsica venne dalla lingua arabica a quella parte di Pisa, perchè ivi soleano abitare i mercatanti arabi ossia saraceni che venivano a trafficare in Pisa. Abbiamo dal Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] che nell'anno XV di Pietro Orseolo II, doge di Venezia, il quale dovrebbe coincidere coll'anno presente o col susseguente, una terribil carestia e moria fu non solamente in Venezia, ma per tutto il mondo, in guisa che innumerabil gente perì. Fra gli altri che restarono preda di questo malore, si contò Giovanni figliuolo d'esso doge e suo collega nel ducato. E da lì a sedici dì soggiacque al medesimo funesto influsso anche Maria sua moglie, quella stessa ch'egli avea condotta da Costantinopoli, sorella di Romano, poscia imperadore de' Greci, come di sopra vedemmo all'anno 999. Di questa donna s'ha da intendere ciò che scrive san Pier Damiano colle seguenti parole [Petrus Damian., Opuscul. de Instit. Monial. cap. 11.]: Dux Venetiarum constantipolitanae urbis civem habebat uxorem, quae nimirum tam tenere, tam delicate vivebat, et non modo [79] superstitiosa, ut ita loquar, se se jucunditate mulcebat, ut etiam communibus se aquis dedignaretur abluere; sed ejus servi rorem coeli satagebant undecumque colligere, ex quo sibi laboriosum satis balneum procurarent (lo creda chi vuole). Cibos quoque suos manibus non tangebat, sed ab eunuchis ejus alimenta quaeque minutius concidebantur in frusta; quae mox illa quibusdam fuscinulis aureis atque bidentibus ori suo liguriens adhibebat. Ejus porro cubiculum tot thymiamatum aromatumque generibus redundabat, ut et nobis narrare tantum dedecus foeteat, et auditor forte non credat. Seguita poscia a dire che Dio colpì la vanità e superbia di questa donna, perchè corpus ejus omne computruit, ita ut membra corporis undique cuncta marcescerent, totumque cubiculum intolerabili prorsus foetore complerent. In tale stato, fuggita da tutti, terminò la sua vita questa vanissima principessa. Si ingannò il Dandolo, riferendo parte di queste parole di san Pier Damiano a' tempi di Domenico Silvio che fu eletto doge di Venezia nell'anno 1071. A questi tempi appartiene un tal fatto. Ma perciocchè l'abbate urspergense [Urspergensis, in Chronico.] mette la fame sotto l'anno precedente, nel quale parimente accadde la peste, per testimonianza del cardinal Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.], potrebbe taluno credere che a quell'anno si avesse da riferire l'avvenimento suddetto. Parla Ermanno Contratto [Ermannus Contract., in Chronic.] di questa carestia all'anno presente. All'incontro Sigeberto [Sigebertus, in Chron.] e gli Annali d'Ildeseim [Annales Hildesheim.] la mettono nell'anno seguente. Attese in questo anno il re Arrigo a domar Boleslao occupator della Boemia, e il ridusse a capitolar con giubilo di tutti i popoli. Stando in Utrecht confermò i privilegii del monistero ambrosiano con diploma [Puricellius Monument. Basil. Ambrosian.] dato anno dominicae Incarnationis MV Indictione III, anno vero domni Heinrici II, regis [80] III, data VI nonas maii. Actum Trajectum.


   
Anno di Cristo MVI. Indizione IV.
Giovanni XVIII papa 4.
Ardoino re d'Italia 5.
Arrigo II re di Germania 5, d'Italia 3.

Forse perchè nell'anno presente fu l'Italia, anzi l'Europa tutta, afflitta dalla carestia e pestilenza, di cui s'è fatta menzione nel precedente anno, la storia è assai digiuna di fatti, e massimamente l'italiana. Della Germania altro non sappiamo, se non che Baldovino conte di Fiandra, per avere occupata la città di Valenciennes, appartenente alla marca della Lorena, e sottoposta allora al regno germanico, obbligò il re Arrigo ad impugnar l'armi contra di lui, ma con poco profitto. Però fu riserbata all'anno venturo la maniera più propria di metterlo in dovere. Grande affetto avea preso il buon re Arrigo alla chiesa di Bamberga, con desiderare specialmente di farne un vescovato. Però ne cominciò con vigore in quest'anno il negoziato, ma ritrovando renitente Arrigo vescovo di Virtzburg, ossia d'Erbipoli, per lo smembramento che si voleva far della sua diocesi [Acta Sanctor. Bollandi ad diem 14 julii.], solamente nell'anno seguente ebbe compimento la di lui premura. Negli Annali pisani [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.] abbiamo sotto il presente anno, che fecerunt Pisani bellum cum Saracenis ad Rhegium, et gratia Dei vicerunt illos in die sancti Sixti. Questa è la vittoria riferita dal Tronci all'anno precedente. Ma altro è l'avere sconfitti i Saraceni ad Rhegium, altro l'essersi impadroniti, come vuole esso Tronci, di quella città, perchè di ciò non resta vestigio. Leggesi presso l'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 3 in Episcop. Clusin.] un placito tenuto anno Incarnationis Domini MVI, Indictione IV, quarto nonas aprilis dal re Arrigo [81] in Germania, dove fu agitata una lite fra Arialdo vescovo di Chiusi in Toscana, e Guinizone abbate del monistero di san Salvatore di Monte Amiato, e Bosone abbate di santo Antimo. Il suo principio è questo: Dum resideret domnus Henricus rex in caminata in Castello hereditatis suae, quod dicitur Novum Burgum (Neoburgo) alla presenza di alcuni vescovi ed abbati. Fra gl'Italiani v'intervennero Olderico vescovo di Trento e lo stesso vescovo di Chiusi, Ivizone abbate leonense sul Bresciano, Ugo abbate di Farfa, Buono abbate di Ravenna, Ildeberto abbate di Siena, Giovanni abbate forse di Lucca, Ildebrando, Rinieri e Ardingo conti, probabilmente di Toscana, Pietro Traversario da Ravenna, e i messi dei vescovi di Arezzo e di Siena. Ecco come gl'Italiani frequentavano in questi tempi la corte del re Arrigo, e massimamente gli abbati, tutti per loro negozii, e per impetrar privilegii, o beni, o giustizia, giacchè non mancavano mai prepotenti che usurpavano ai monisteri gli stabili con quella stessa facilità con cui i monaci gli acquistavano.


   
Anno di Cristo MVII. Indizione V.
Giovanni XVIII papa 5.
Ardoino re d'Italia 6.
Arrigo II re di Germania 6, d'Italia 4.

Esige ben la storia d'Italia che a quest'anno si faccia menzione di Fulberto creato circa questi tempi, come comunemente vien creduto, vescovo di Sciartres (Carnutum) in Francia. Siccome osservò il padre Mabillone [Mabill., Annal. Benedict., ad ann. 992.], fondamento c'è di tenerlo per nato in Italia. Bassi ben furono i natali suoi, ma passato in Francia, per l'elevatezza dell'ingegno e saper suo, meritò d'essere innalzato a quella cattedra. Aveva avuto in Rems per maestro Gerberto, che fu poi papa Silvestro II. Aprì anch'egli scuola, e la continuò anche dopo essere [82] salito al vescovato; e dalla medesima uscirono poi eccellenti discepoli. Più celebre scuola di questa non v'era allora tra i Franzesi. Le opere di così insigne prelato sono assai note nella storia letteraria. Già avea Tedaldo marchese, filius quondam Adalberti itemque marchio, avolo della celebre contessa Matilda, ridotto a perfezione il magnifico monistero di san Benedetto, situato tra il Po e il fiumicello Larione, oggidì appellato di Polirone. Al medesimo fece egli un'amplissima donazione di beni in quest'anno. Presso il padre Bacchini [Bacchini, Istor. di Poliron. nell'Appendice.] si legge lo strumento stipulato infra Rocca Canossa, con queste note: Henricus Dei gratia rex, anno regni ejus, Deo propitio, hic in Italia quarto, mense junii, Indictione V. Dal che impariamo che in Italia si usava l'epoca particolare del regno italico diversa da quella del germanico. Un'altra donazione parimente da lui fatta al monistero medesimo si vede scritta anno millesimo septimo, Indictione quinta, secundo die intrante mense aprilis, senza apporvi gli anni del re. Comunemente si crede ch'esso marchese Tedaldo desse fine in quest'anno ai suoi giorni. Io non ne sono abbastanza persuaso, siccome dirò qui sotto all'anno 1012. Nel presente riuscì al re Arrigo di appagar le sue piissime voglie con ergere in vescovato e dotare magnificamente la chiesa di Bamberga, e sottoporla al solo romano pontefice. Fu confermato quest'atto con sua bolla particolare data in quest'anno da Giovanni XVIII papa, come si legge presso l'Hofmanno [Hofmannus, Annal. Bambergens.] ed altri scrittori [Apud Ludewig, tom. 1. Scriptor. Bamberg.]. Con gagliardo esercito passò circa questi tempi il medesimo re Arrigo la Schelda contro di Baldovino conte di Fiandra, il quale veggendo di non potere resistere, si gittò alla misericordia di lui, e ne ottenne buona capitolazione. Si riaccese anche la guerra fra esso re Arrigo e Boleslao duca di Polonia e degli Sclavi. [83] Questo è poi l'anno in cui venne alla luce in Ravenna Pietro Damiano, grande ornamento del secolo presente [Petrus Damian., Opuscul. 67, cap. 5.]. Fu il suo nome Pietro di Damiano, cioè Pietro fratello di Damiano. Confessa egli in più di un luogo che attese allo studio delle lettere prima in Faenza, poscia in Parma; il che ci dà a conoscere che le lettere a poco a poco risorgeano anche in Italia. Terminò il corso di sua vita in quest'anno Landolfo IV principe di Capua [Camillus Peregrinius, Histor. Princip. Langobard.], soprannominato da santa Agata, nel dì 24 di luglio, e lasciò successore nel principato Pandolfo IV. Andavano di male in peggio gli affari della Chiesa di Cremona. Non fu sì presto uscito del mondo Odelrico ossia Olderico vescovo di quella Chiesa, che i beni d'essa patirono non lieve detrimento. Gli succedette Landolfo cappellano del re Arrigo, il quale nell'anno presente ottenne da esso re un diploma di protezione per la sua Chiesa [Antiquit. Italic., Dissert. LXI.], anno dominicae Incarnationis MVII, Indictione V, anno regni domni Heinrici regis secundi regnantis VI (questa è l'epoca del regno germanico). Actum Polede. In Milano Fulcoino figliuolo di Bernardo, vivente secondo la legge salica, fondò in quest'anno la collegiata di santa Maria, oggidì appellata Folcorina. Lo strumento ha queste note: Henricus gratia Dei rex, anno regni ejus quarto, VIII die mensis octobris, Indictione ingrediente sexta. Ancor qui abbiamo l'epoca del regno d'Italia del re Arrigo.


   
Anno di Cristo MVIII. Indizione VI.
Giovanni XVIII papa 6.
Ardoino re d'Italia 7.
Arrigo II re di Germania 7, d'Italia 5.

Ebbe in quest'anno degli aspri affari il re Arrigo per cagione di uno dei fratelli della imperadrice Cunigonda sua [84] moglie, chiamato Adalberone. Essendo vacata l'archiepiscopale chiesa di Treveri, fu egli eletto, benchè mal volentieri, da quel clero e popolo per arcivescovo. Ma non vi consentì il re Arrigo, da cui fu data quella chiesa a Megingaudo, camerario di Willigiso arcivescovo di Magonza [Hermannus Contractus, in Chron.]. Per questa cagione insorse guerra fra esso re e lo stesso Adalberone, al quale furono in aiuto Teodorico vescovo di Metz, Arrigo duca di Baviera, suoi fratelli. Li soggiogò il re Arrigo, e tolse poi il ducato al cognato Arrigo. Intorno a che si possono leggere gli Annali di Treveri del Browero [Browerus, Annal. Trevirens.]. Gl'imperadori greci possedevano in questi tempi quasi tutta la Puglia, cominciando da Ascoli, e seguitando la costa dell'Adriatico, a riserva di Siponto e del monte Gargano, dipendenti dal principato di Benevento. Erano anche in possesso della maggior parte della Calabria, con ritenere ancora qualche sovranità o autorità almeno nei ducati di Napoli, Amalfi e Gaeta. Soleano chiamar Longobardia quegli Stati e mandarvi un governator generale col nome di catapano, come già accennammo. Abbiamo da Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chron.] che nell'anno 1006 Xifea catapano era venuto a quel governo. Ma essendo egli mancato di vita nell'anno appresso, in quest'anno descendit Curcua patricius mense maii, cioè fu inviato per governatore d'essa minor Lombardia. Pare che in quest'anno il re Arrigo confermasse i suoi privilegii e beni al monistero delle monache di san Sisto di Piacenza con un diploma [Antiquit. Ital., Dissert. LXX.], dato anno dominicae Incarnationis millesimo octavo, Indictione V, anno vero domni Heinrici secundi regis, regnantis VI. Actum in Ingelheim. Ma qui v'ha errore, o nell'anno, e si dee scrivere millesimo septimo, ovvero nell'indizione, e si dee leggere Indictione VI. Ed è considerabile che nè in [85] questo, nè nell'altro diploma, accennato all'anno precedente, non comparisce il giorno, nè il mese, contro il costume delle regali cancellerie. Anche il padre Mabillone [Mabillon., de Re Diplomatica.] osservò questo rito o difetto in altri diplomi d'esso re Arrigo. Nell'archivio del monistero di Subiaco si legge una bolla o strumento con queste note: Anno, Deo propitio, pontificatus domni Johanni summi pontifici XVIII papae in sacratissima sede beati Petri Apostoli V, Indictione VI, mense junii die VI, cioè nell'anno presente. Vo io tuttavia contando gli anni del re Ardoino; perciocchè sebbene ha creduto più d'uno scrittore che egli dopo la venuta in Italia del re Arrigo, e dopo la di lui coronazione, decadesse affatto dal soglio reale, pure è certo che egli ritenne circa nove anni ancora non solamente il titolo di re, ma anche ne esercitò l'autorità in molti luoghi. Allorchè gli convenne cedere al re Arrigo, egli si ritirò nelle fortezze del Piemonte in salvo. Ma non sì tosto uscì Arrigo d'Italia, che Ardoino tornò ad alzare la testa, e trovando specialmente inviperito il popolo di Pavia contro dei Tedeschi per l'immenso danno recato colla spada e col fuoco alla lor città, si può facilmente credere che fu quivi di nuovo riconosciuto per re. Porta il Guichenon [Guichenon Bibliot. Sebus Centur. II, cap. 3.] una donazione fatta alla cattedrale di Pavia da Ottone conte, chiamato ivi filius serenissimi domini, et metuendissimi patris mei domini Ardoini regis. Lo strumento ha queste note: Ardoinus divina tribuente gratia piissimus rex, anno regni ejus propitio septimo, Indictione VII. Manca il mese e il giorno, con restare incerto se fosse fatta quell'offerta negli ultimi quattro mesi dell'anno corrente, o nei due primi del seguente. Lo strumento è sottoscritto dallo stesso re Ardoino, e vi si legge: Actum apud Papiam in palatio juxta ecclesiam sancti Michaelis. Sicchè abbiam [86] qualche fondamento di credere ritornato questo re al suo comando in Pavia.


   
Anno di Cristo MIX. Indizione VII.
Sergio IV papa 1.
Ardoino re d'Italia 8.
Arrigo II re di Germania 8, d'Italia 6.

Giunse al fine di sua vita in quest'anno, senza sapersene il più preciso tempo, Giovanni XVIII papa, che da Ditmaro è chiamato Phasan [Ditmarus, in fine, lib. 6.], e dall'Annalista sassone [Annalista Saxo.] Phasianus, idest Gallus cioè fagiano. Uno strumento si legge nel monistero di Subbiaco, che porta le seguenti note: Anno, Deo propitio, pontificatus domni Johanni summi pontifici et universali XVIII papae in sacratissima sede beati Petri Apostoli sexto, Indictione septima, mensis januarii die XI, cioè nel presente anno. Rapporta il cardinal Baronio [Baron., in Annal. Eccles.] un epitaffio, che era nella basilica vaticana, attribuito da Motteo Veggio a questo papa. Lo riferisce ancora Pietro Manlio [Manlius tom. 7 Junii Act. Sanctor. Bolland.], ma con dirlo cujusdam Johannis papae. Non oserei io crederlo sepolcro di questo papa. Ivi si legge:

Nam graios svperans, eois partibvs vnam,

SCHISMATA PELLENDO, REDDIDIT ECCLESIAM.

Non è probabile che di questa gloriosa azione niuno avesse lasciata qualche menzione nella Storia ecclesiastica d'Oriente o d'Occidente. Egli è chiamato ancora

AVGVSTIS CARVS, GENTIBUS, ET TRIBVBVS.

Più convien questo titolo a qualche papa Giovanni, vivuto allorchè i greci Augusti signoreggiavano in Roma. Successore di questo pontefice fu Sergio IV, il quale, per attestato di Ditmaro [Ditmarus, in Chron., lib. 6.], [87] vocabatur Bucca Porci. Erano forse in voga ancora in quei tempi i soprannomi, molti dei quali, tuttochè fossero imposti più per vituperio che per onore, tuttavia passarono dipoi in cognomi di famiglia, siccome ho osservato altrove [Antiquit. Ital., Dissert. XLI.]. Negò il cardinal Baronio che questo papa portasse un tal soprannome, perchè dal suo epitaffio si scorge che prima del pontificato era chiamato Pietro.

SERGIUS EX PETRO SIC VOCITATVS ERAT.

Ma questo a nulla serve. Pietro fu il suo nome battesimale; ma per soprannome, secondo il costume d'allora, egli dovette essere chiamato Bocca di Porco, siccome il suo predecessore Giovanni fu soprannominato fasano, ossia fagiano. Per attestato del Dandolo [Dandul., in Chron. tom. 12 Rer. Italic.], in quest'anno pagò il tributo della natura Pietro Orseolo II doge di Venezia, principe glorioso per avere assaissimo ampliato il dominio veneto, sconfitti i Saraceni, e governati con somma prudenza e dolcezza i suoi popoli. Gli succedette circa il mese di marzo Ottone Orseolo suo figliuolo, dianzi creato suo collega, non inferiore nella religione e giustizia al padre, e ricchissimo di beni di fortuna. Ebbe egli per moglie una figliuola di Geiza duca di Ungheria, e sorella di santo Stefano, primo re regnante allora in quelle contrade, la quale gareggiava nelle virtù col fratello. Era, per testimonianza di Camillo Pellegrino [Camillus Peregrinius, Histor. Princip. Langobard.], in questi tempi principe di Capua Pandolfo IV. Prese egli per suo collega in quel principato Pandolfo II principe di Benevento, suo zio paterno. Non ne veggiamo assegnato il motivo; ma probabilmente fu, perchè mancandogli successione maschile, volle assicurare nei parenti suoi il principato. Abbiamo sotto questo anno da Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] [88] che cecidit maxima nix, ex qua siccaverunt arbores olivae, et pisces et volatilia mortua sunt. Poscia aggiugne: Mense maii incoepta est rebellio: il che io intendo de' Pugliesi che cominciarono a ribellarsi ai Greci Et mense augusti apprehenderunt Saraceni civitatem Cosentiam (metropoli della Calabria) rupto foedere nominae Cayti Sati, cioè del generale dei Mori. Ancorchè Ardoino re avesse ripigliate le forze, e signoreggiasse, a mio credere, in Pavia, pure la maggior parte delle città del regno stava costante nella divozione e fedeltà giurata al re Arrigo, e fra queste Milano, Piacenza, Cremona. Landolfo vescovo appunto di Cremona ottenne in quest'anno da Arrigo un divieto a Lamberto, abate del monistero di san Lorenzo, situato presso a Cremona, di non poter alienare, livellare o contrattare in altre guise i beni di qual sacro luogo senza la licenza del vescovo suddetto, il quale poscia se ne abusò. Il diploma si dice dato [Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Cremonens.] VII idus octobris, anno ab Incarnatione Domini MVIIII, anno vero domni Henrici primi (scrivi secundi) regis VII. Actum Maideburg. Dovrebbe essere l'anno VIII, se pure non appartiene all'anno precedente: il che non si può comprendere per la mancanza dell'indizione. Ho veduta un'autentica donazione fatta in Correggio alla chiesa di san Michele, oggidì di san Quirino, con queste note: Enricus gratia Dei rex ic in Italia quinto, die quinto de mense octubris, Indictione octava, che appartiene all'anno presente. Sotto quest'anno ancora abbiamo dal Bollario casinense [Bullarium Casinens., tom. 2, Constit. LXXV.] e dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 3.] una donazione fatta alla badia di santa Maria di Firenze, anno ab Incarnatione Domini nono post mille, pridie idus augusti, Indictione settima. Il suo principio è questo: Ego quidem Bonifatius inclitus marchio, filio domni Alberti, qui fuit comes, qui professus sum legem vivere [89] Ribuariorum. Lo strumento fu stipulato in loco Palanoro territorio motinense. Dove fosse questo Planoro del contado di Modena, nol saprei dire. Pianoro si trova sulle montagne di Bologna, Pianorso in quelle di Modena. Meno poi so di qual contrada fosse marchese questo Bonifazio. Cosimo della Rena nella seconda parte, a noi promessa, ma non mai data, della Serie dei duchi di Toscana, pare che inclinasse a crederlo duca di Toscana. Non c'è fondamento alcuno per sì fatta opinione. I duchi, marchesi, conti e signori grandi per lo più possedeano allora dei beni in varie parti d'Italia; nè basta una donazione di beni privati, fatta da alcun di essi in qualche territorio, per argomentare il dominio principesco di questo Bonifazio marchese, vivente secondo la legge ripuaria, ho io trattato altrove [Antiquit. Ital., Dissert. XXII.], con crederlo discendente da quel Bonifazio che già vedemmo duca di Spoleti e marchese di Camerino, e da Teobaldo parimente duca e marchese di quelle contrade nel secolo precedente. Ma non apparisce punto se questo giovane Bonifazio governasse marca alcuna: e certamente egli fu personaggio diverso da Bonifazio, marchese padre della gran contessa Matilda.


   
Anno di Cristo MX. Indizione VIII.
Sergio IV papa 2.
Ardoino re d'Italia 9.
Arrigo II re di Germania 9, d'Italia 7.

Se vogliam qui prestar fede a Giovanni Villani [Giovanni Villani, Istor., lib. 4, cap. 5.] che, narrando avvenimenti lontani dai suoi tempi, ci conta bene spesso delle favole, oppure con favolose particolarità sconcia i fatti veri, in quest'anno i Fiorentini, mirando da gran tempo di mal occhio la vicina città di Fiesole, con inganno finalmente se ne fecero padroni. Nel dì solenne di san Romolo, protettore dei Fiesolani, mentre quel popolo era intento alla festa, spedirono [90] i Fiorentini colà una mano de' loro giovani segretamente armati, che presero le porte, e diedero campo all'esercito d'essi Fiorentini d'impadronirsi di quella città, con ismantellarla poi tutta, e ridurre quel popolo a Firenze. Questo racconto passò dipoi in tutte le storie fiorentine, non mancando nondimeno altri scrittori moderni che tengono succeduto un tal fatto nell'anno 1024. Credane il lettor ciò che vuole. Quanto a me, vo assai lento a persuadermi cotali bravure in questi tempi, nei quali le città d'Italia non aveano per anche nè facoltà nè uso di muover l'armi da sè, nè di distruggersi l'una l'altra. Molto meno credo che in questi tempi, come vuole Scipione Ammirati [Ammirati, Istor. Fiorent.] con altri, fosse duca di Toscana Bonifazio marchese, padre della contessa Matilda. Niuna pruova di questo viene addotta; e senza pruove l'asserir cose antiche, non è diverso dal fabbricar nelle nuvole. Leggesi sotto quest'anno una magnifica donazione fatta ai canonici di Ferrara da Ingone, vescovo di quella città, con uno strumento scritto [Antiquit. Ital., Dissert. LXV.], pontificatus domni nostri Sergii summi pontificis et universalis papae in apostolica sacratissima beati Petri sede anno primo, regnante vero domno Enrico rege a Deo coronato, pacifico, magno, in Italia septimo (dovrebbe essere sexto) die tertia mensis februarii, Indictione octava. Ferrariae. Si osservi come in Ferrara sono contati gli anni di Arrigo re d'Italia. In questi tempi, per la Toscana specialmente e pel ducato di Spoleti, san Romoaldo abbate spargeva odore di gran santità, edificava monisteri, e dilatava l'ordine religioso che si chiamò camaldolese, e fu una riforma del benedettino in Italia. Abbiamo da Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] nell'anno presente, che Curcua patrizio, governatore degli Stati posseduti dai Greci in Italia, diede fine a' suoi giorni, e in luogo suo venne a quel governo Basilio catapano nel mese [91] di marzo con un corpo di milizie tratte dalla Macedonia. Aggiugne questo scrittore che Syllistus incendit multos homines in civitate Trani. Da un altro testo si ha che Langobardia (così chiamavano i Greci, come già si accennò, gli Stati loro in Italia) rebellavit a Caesare (cioè dal greco Augusto) opera Melo ducis. Isque accurrens praeliatus est Barum contra Barenses, ubi ipsi obierunt. Questo Melo di nazion longobarda, siccome c'insegna Leone ostiense [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 37.], barensium civium, immo totius Apuliae primus, et clarior erat, strenuissimus valde ac prudentissimus vir. Sed quum superbiam, insolentiamque, ac nequitiam Graecorum, qui non multo antea, tempore scilicet primi Octonis, Apuliam sibi Calabriamque, sociatis in auxilium suum Danis, Russis, et Gualanis, vindicaverunt, Apuli ferre non possent, cum eodem Melo, et cum Datto quodam aeque nobilissimo, ipsiusque Meli cognato, tamdem rebellant. Che strepitose conseguenze si tirasse seco questa ribellion dei Pugliesi, l'andremo a poco a poco scorgendo. Abbiamo da Ademaro [Ademarus, in Chron. apud Labbe.] e da Glabro [Glaber Rodulfus, in Chronico.] che circa questi tempi i Saraceni infierirono sotto varii pretesti contra dei Cristiani abitanti in Gerusalemme, con ucciderne assaissimi, e forzarli ad abiurare la fede di Cristo. Diroccarono eziandio la basilica del santo Sepolcro con varie altre chiese. Era allora Gerusalemme sottoposta al califa ossia al sultano dell'Egitto, e non già ai Turchi. Fecero ancora i Saraceni dimoranti in Italia, oppure in Sicilia, una battaglia, per attestato del suddetto protospata, coi Greci a Monte Peloso, non lungi dal distretto di Bari, unde peremptus est dux, senza sapersi se dei Greci o dei Mori.

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Anno di Cristo MXI. Indizione IX.
Sergio IV papa 3.
Ardoino re d'Italia 10.
Arrigo II re di Germania 10, d'Italia 8.

Già ho accennata la ribellione dei Pugliesi, capo de' quali era Melo, con essersi sottratti al dominio dei Greci. Scrive Romualdo salernitano [Romualdus Salern., in Chron. l. 6 Rer. Ital.]: Anno MXI, Indictione IX, fames validam Italiam obtinuit. Quo tempore Mel catipanus cum Normannis Apuliam impugnabat. Ecco il catipanus o catapanus, adoperato invece di capitanus, o capitaneus. Ma questo storico anticipa di troppo la venuta dei Normanni a guerreggiare in Puglia. Potrebbe ben essere che nell'anno presente seguisse l'assedio di Bari fatto da Basilio generale dei Greci, ed accennato da Leone ostiense. In un testo di Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] pare che tale assedio sia narrato all'anno precedente. In un altro è posto sotto l'anno 1013. Forse anche la ribellione dei Pugliesi non divampò se non in quest'anno, oppure nel seguente, perchè lo storico greco Curopalata [Curopalata.] mette nei primi mesi dell'anno presente alcune disgrazie che servirono di preludio. Comunque sia, abbiamo dall'Ostiense [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 37.], che ancorchè entro essa città di Bari assistesse Melo alla difesa, pure quel popolo vilmente sosteneva il peso degli assalti; e però dopo un mese d'assedio trattarono di rendersi e di dar lo stesso Melo in mano de' Greci. Ebbe Melo conoscenza di questa trama, e la fortuna di salvarsi segretamente in compagnia di Datto, con rifugiarsi in Ascoli, città che s'era anch'essa ribellata. Quivi fu di nuovo assediato, laonde una notte gli convenne fuggire anche di là insieme con Datto, e ritirarsi a Benevento. Poscia andò a Salerno, [93] indi a Capoa, meditando sempre le maniere di liberar la sua patria dalla tirannia de' Greci, e studiandosi di muovere que' principi in aiuto suo. Ebbe nuova guerra in quest'anno il re Arrigo con Boleslao duca di Polonia [Annalista Saxo. Hermannus Contractus, in Chron.]. Con gran solennità fece il re Arrigo [Marianus Scotus, in Chron. Ditmar., Chron., lib. 6.] dedicare anche nel presente anno (se pure non fu piuttosto nel seguente) la chiesa di Bamberga. Giovanni patriarca d'Aquileia con più di trenta vescovi fece quella sacra funzione. Ci somministra a quest'anno il Guichenon [Guichenon, Bibliothec. Sebus Centur. II, cap. 10.] una donazione fatta dal re Ardoino a san Siro, cioè alla cattedrale di Pavia, pro anima patris nostri Doddonis, et pro anima patrui nostri domni Adalberti, rogante domno Willelmo marchione carissimo consobrino germano nostro. Tale atto fu scritto anno dominicae Incarnationis MXI, tertio kalendas aprilis, Indictione IX. Actum Bobii in episcopali palatio. È osservabile che non compariscono qui gli anni del suo regno. Scorgiamo poi che il dominio di esso re Ardoino si stendeva anche nella città di Bobbio, situata sulla Trebbia, ventiquattro miglia sopra di Piacenza. Se è vero questo documento, converrà dire che prima dell'anno 1014, cioè prima di quel che pensasse l'Ughelli [Ughell. Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Bobiens.], fosse creato il primo vescovo di Bobbio. Ma Ditmaro [Ditmarus, Chron., lib. 7.], storico di questi tempi, ci assicura che quel vescovo fu istituito nell'anno 1014, e però fondamento giusto ci è di dubitare della legittimità di questo documento. Qualora poi si potesse provare, come pensò il suddetto Guichenon [Guichenon, Histoire de la Maison de Savoye, tom. 2.], che Berengario II re d'Italia avesse avuto un figliuolo chiamato Doddone ossia Oddone, noi potremmo [94] dedurre dal documento suddetto, che il re Ardoino fosse nipote di lui, e per pretensioni ereditarie avesse conseguito la corona d'Italia. Perciocchè in tal caso Adalberto, zio paterno d'esso Ardoino, sarebbe quel medesimo che abbiam veduto re d'Italia, scacciato da Ottone il Grande. E Guglielmo marchese, qui nominato, sarebbe Otton Guglielmo figliuolo di esso re Adalberto, che in questi tempi tuttavia vivente era conte ossia duca di Borgogna. Ma io non so che Berengario II avesse se non tre figliuoli, cioè Adalberto, Conone, ossia Corrado, e Guido; e qui poi si tratta di un documento che non è affatto sicuro. Per testimonianza del padre Mabillone [Mabillonius, Annal. Benedict. ad hunc annum.], in quest'anno, undecima die decembris, anno Sergii papae tertio, tenuto fu un placito in Roma davanti a Giovanni patrizio, e a Crescenzio prefetto della città, in cui Guido abbate del monistero di Farfa vinse una casa di ragione del suo monistero. Resta a noi ignoto come allora si regolasse il governo di Roma. Era in questi tempi console e duca di Napoli Sergio IV mentovato da Leone ostiense, e in un documento da me dato alla luce [Antiquit. Italic., Disser. V, pag. 195.].


   
Anno di Cristo MXII. Indizione X.
Benedetto VIII papa 1.
Ardoino re d'Italia 11.
Arrigo II re di Germania 11, di Italia 9.

Scrive Ermanno Contratto [Ermannus Contractus, in Chron.] che in quest'anno fu chiamato da Dio all'altra vita Corrado duca di Carintia. Questi era figliuolo di Ottone, duca parimente di Carintia e marchese della marca di Verona, da noi menzionato di sopra, e fratello di Brunone, cioè del già papa Gregorio V. Lasciò dopo di sè un figliuolo appellato anch'esso Corrado. Ma il re [95] Arrigo, forse perchè questo principe si trovava in età non per anche capace da governar popoli, conferì il ducato suddetto della Carintia ad Adalberone, giacchè non erano per anche stabilite le leggi feudali usate oggidì. Ho io prodotto un placito [Antichità Estensi, P. I, cap. 11.] tenuto nell'anno seguente fuori di Verona da esso Adalberone, chiamato ivi Adalperio dux istius marchiae. Se Ottone fu nello stesso tempo duca di Carintia e marchese di Verona, e tale veggiamo ancora che fu il suddetto Adalberone, per conseguenza intendiamo che anche Corrado duca di Carintia, morto in quest'anno, dovette essere marchese di Verona. Andavano allora congiunti questi due governi. Fra i documenti pubblicati dal padre Bacchini [Bacchini, Istor. del Monist. di Polirone nell'Append.] nella Storia del monistero di Polirone abbiamo una donazione fatta ad esso monistero da Bonifazio marchese, padre della contessa Matilda, esistente in Pigognaga, oggidì terra del Mantovano. Le note son queste: Henricus gratia Dei rex, anno regni ejus Leo propitio, in Italia nono, VIII kalendas augustus, Indictione decima, cioè nell'anno presente. Egli s'intitola nella seguente forma: Ego in Dei nomine Bonifacius marchio, filius domni Theudaldi itemque marchio qui professo sum ex natione mea lege vivere Langobardorum. Han creduto il Sigonio, il Fiorentini ed altri moderni che Tedaldo marchese, padre d'esso Bonifazio, cessasse di vivere nell'anno 1007. Ma non trovandosi qui segno alcuno che Tedaldo fosse morto, cioè non comparendo il quondam, usitata parola per tale effetto; ed essendo simile questa formola all'altra che abbiam veduto nella donazione fatta dal medesimo marchese Bonifazio nell'anno 1004, quanto a me, sospendo la credenza della di lui morte in quell'anno. Per altro abbiam già osservato introdotto il costume, che vivente ancora il padre marchese, i figliuoli talvolta venivano decorati del [96] medesimo titolo per concessione, credo io, degli imperadori ossia dei re d'Italia. Abbiamo nella Cronica del monistero di Volturno [Chronic. Vulturn., P. II, tom. 1. Rer. Ital.] una bolla data da papa Sergio IV in favor di quell'insigne monistero, con queste note: Data V kalendas martii, anno Deo propitio, pontificatus domni nostri Sergii sanctissimi quarti papae, sedente anno tertio, Indictione supradicta decima, cioè nell'anno presente. Altri atti del medesimo papa spettanti al marzo e all'aprile di quest'anno son citati dal padre Mabillone, ed uno del dì 16 di giugno del cardinal Baronio. Però ragionevolmente dopo il padre Papebrochio pensò il padre Pagi, che questo pontefice passasse a miglior vita prima dell'agosto dell'anno presente, e che immediatamente gli succedesse Benedetto VIII, il quale in fatti si truova papa nel dì 2 d'esso mese d'agosto. Ciò costa da una carta d'accordo seguito fra Guido abbate di Farfa [Chronic. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.] et inter Johannem. Domini gratia, ducem atque marchionem, necnon et Crescentium, Dei nutu, honorabilem comitem germanum ipsius, de curte, quae vocatur sancti Getulii. Fu stipulato quello strumento nello stesso monistero di Farfa, anno Deo, propitio, pontificatus domni nostri Benedicti summi et universalis octavi papae primo, Indictione X, mense augusto, die XXII. La moglie di Crescenzio conte viene appellata Hitta illustrissima ducatrice.

Non sappiam bene se il monistero di Farfa posto nella Sabina, il quale nei tempi addietro era compreso nel ducato di Spoleti, fosse in questi tempi suggetto al temporal dominio dei papi. Ne ho io sospetto, al vedere mentovati nei cataloghi anteposti alla cronica di Farfa Leo dux sabinensis, Rayno dux sabinensis, e Joseph dux sabinensis, con trovarsi poi degli altri che altro non portano se non il titolo di comes sabinensis. I primi paiono ministri del papa, gli altri dell'imperadore, ossia del re d'Italia. Per altro, [97] essendosi finora osservato che il dux et marchio soleva indicare chi era duca di Spoleti e marchese di Camerino, inclinerei a credere che quel Johannes dux et marchio avesse goduto amendue quei governi, succeduto forse ad Ugo già marchese di Toscana. Leggesi poi nel Bollario casinense [Bullar. Casinens., tom. 2, Constit. LXXVI.] un diploma del re Arrigo, dato pridie idus maij, anno dominicae Incarnationis MXII, Indictione decima, domni vero Henrici regis secundi regnantis X. Actum Pavenberg, cioè in Bamberga. Conferma egli alla badia di Firenze le corti, quas quondam Bonifacius marchio per chartulas offersionis eidem tradidit monisterio, cioè donate, come di sopra vedemmo nell'anno 1009, da Bonifazio marchese figliuolo di Adalberto conte, vivente secondo la legge ripuaria, e differente dal padre della contessa Matilda. Siccome ho io con chiari documenti provato [Antichità Estensi, P. I, cap. 14 e 15.], da Oberto I marchese e conte del sacro palazzo, progenitore dei principi della casa d'Este, nacque Oberto II marchese; e questi ebbe due figliuoli, cioè Adalberto, ossia Alberto Azzo I, ed Ugo, amendue marchesi, vivente ancora il padre. Truovansi questi in Casal maggiore, terra di lor dominio, in quest'anno, dove fanno una donazione al vescovato di Cremona. Sono ivi appellati: Nos in Dei nomine Azzo et Ugo germanis, et filii Auberti marchio, qui professi sumus ex natione nostra lege vivere Longobardorum. Ipso namque genitor noster nobis consentiente, ec. Si sottoscrivono Azo, Ugo marchio, Otbertus marchio, cioè il loro vivente padre. Lo strumento si vede scritto: Enricus gratia dei rex, anno regni ejus, Deo propitio, hic in Italia octavo, VI kalendas martii, Indictione decima, cioè nell'anno presente. In un altro strumento parimente di quest'anno, scritto IX kalendas martii, sono chiamati Azo et Ugo germanis, et filii Uberti marchio. In un altro documento dell'anno 1011, sexto die mensis madii, Indictione IX, [98] Adelaide, ossia Adela comitissa et conjux Azoni marchio, compera varii beni. La stessa in un altro, stipulato sesto die mensis septembris dell'anno presente, dona beni posti in comitatu Auciense (oggidì lo Stato pallavicino tra Parma e Piacenza) al vescovato di Cremona. Quivi è appellata Adela comitissa, Conjus Azoni marchio, ec. ipso namque jugale et Mundoaldo meo mihi consentiente, et mihi cui supra Azoni praedictus, Otbertus genitor meus, similiter mihi consentiente. Col lume di sì fatti documenti andremo vedendo la continuazione dei principi appellati poscia marchesi d'Este. Ma papa Benedetto VIII poco di quiete potè godere nella sedia pontificia. Ditmaro [Ditmarus, Chronic., lib. 6, in fin.] ci fa sapere che egli nell'elezione ebbe per concorrente un certo Gregorio, il quale restò bensì allora inferiore nei voti, ma da lì a non molto divenne superiore nella forza, in maniera che papa Benedetto fu costretto ad uscire di Roma. Andossene egli in Germania a trovare il re Arrigo per raccomandarsi, alla di lui protezione, e celebrò con esso lui in Palithi il santo Natale. Allora fu che si concertò di creare imperadore Arrigo. Ne ardeva egli di voglia, e il papa conosceva anch'egli la necessità di mettere un Augusto sulle teste troppo allora caparbie e sediziose de' Romani. Quando e come tornasse il papa in Roma, prima che vi giugnesse Arrigo, non è a noi ben noto.


   
Anno di Cristo MXIII. Indizione XI.
Benedetto VIII papa 2.
Arduino re d'Italia 12.
Arrigo II re di Germania 12, d'Italia 10.

Già si è veduto che Ardoino re d'Italia avea ripigliato il dominio di Pavia e d'altre città, e si può credere che il Piemonte tutto aderisse a lui. Non abbiamo storia d'Italia che ci dia lume per gli avvenimenti d'allora. Contuttociò è facile ed insieme giusto l'immaginare che [99] durasse molto la guerra fra Ardoino e quei della sua fazione dall'una parte, e le città aderenti al re Arrigo dall'altra. Il solo Arnolfo, storico milanese di questo secolo [Arnulphus, Hist. Mediol., lib. 1, cap. 16.], ci ha lasciato due parole bastanti a farci conghietturare il resto. Così egli scrive: Verumtamen reassumtis interim viribus Ardoinus juxta posse ultionem exercet in perfidos. Siquidem postea Vercellensium urbem cepit, Novariam obsedit, Cumas invasit, multaque alia demolitus est loca sibi contraria. Siccome vedremo, pare che ciò avvenisse nell'anno seguente, come ancora osservò il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 8.], quantunque Arrigo allora fosse venuto in Italia, e fosse creato imperadore. Puossi ben conghietturare da questo che non dovettero godere gran calma le città aderenti in Lombardia ad Arrigo prima della di lui seconda venuta in Italia. Ora qui due importanti punti cominciano a trasparire nella storia d'Italia. L'uno è parer verisimile che da questi torbidi avesse principio la gara e l'odio implacabile che andrem da qui innanzi osservando fra le due nobilissime città di Milano e Pavia; giacchè la prima teneva per Arrigo, e l'altra per Ardoino: gara facile e familiare fra le città vicine, e massimamente se potenti, ma accresciuta fra queste due per la suddetta discordia, e per le pensioni dure che tengono dietro alla guerra. L'altro è che i popoli della Lombardia per questa occasione e necessità cominciarono ad imparare a maneggiar le armi da sè stessi, o per offendere altrui, o per difendere le proprie cose; il che loro inspirò animi più grandi, ed anche dell'orgoglio, di modo che presto li vedremo alzar la testa sin contro i sovrani, e tendere a gran passi alla libertà, e conseguirla in fine con un considerabile cambiamento di governi in Italia. Ma prima di narrar la seconda venuta del re Arrigo, raccoglieremo alcune altre poche notizie che riguardano l'anno presente. Leggesi una donazione [100] fatta da papa Benedetto VIII a Guido abbate di Farfa [Antiquit. Ital., Dissert. LVI.] anno, Deo propitio, pontificatus domni Benedicti summi pontificis et universalis papae VIII in sacratissima sede beati Petri primo, Indictione XI, mense junio, die II. In quest'anno parimente die quinto mense madio, Indictione XI, Adalberone duca di Carintia, e marchese della marca di Verona, tenne un placito [Antichità Estensi, P. I, cap. 11.] in comitatu veronense in loco et fundo monasterii sancti Zenonis, non longe prope muros civitatis Veronense, dove fu decisa una causa in favore del nobilissimo monistero di san Zacheria di Venezia. Perchè quivi si trattava di una corte posta nel territorio di Monselice, di cui erano padroni allora i marchesi Alberto Azzo I ed Ugo fratelli, antenati della casa d'Este, perciò anch'essi v'assisterono, e il notaio scrisse la carta ex jussione domni Azoni et Ugoni marchionis. Abbiamo, oltre a ciò, un altro placito, tenuto dai suddetti due marchesi in Monselice (segno del loro dominio in quella riguardevol terra), anno domni Henrici regis hic in Italia decimo die mense madio, Indictione XI. Il suo principio è questo: Dum in Dei nomine in comitatu patavensi et in judiciaria montisillicana in praedicto loco Montesilice in mansione publica resideret domnus Azo et Ugo germanis marchiones, ec. Nelle sottoscrizioni si legge Adelbertus, qui Azo vocatur, ec. Ugo marchio, ec. Però cominciamo a scorgere in que' paesi i principi progenitori della casa d'Este, forse per eredità loro pervenuta da Ugo marchese di Toscana. Ed è ben verisimile che già possedessero Este, Rovigo, ed altre terre e castella che troveremo, andando innanzi, di loro giurisdizione. Dopo avere il re Arrigo dato buon sesto agli affari della Germania, e stabilita qualche concordia con Boleslao duca di Polonia, determinò di tornare per la seconda volta in Italia. Doveano essere frequenti e caldi gl'inviti che venivano dalle città di Lombardia, travagliate [101] dalle armi del re Ardoino. Ma quel che più stava a cuore al re Arrigo, era la protezione impresa di papa Benedetto VIII, e la brama di vedersi in capo la corona imperiale. Però sul finir dell'autunno [Annalista Saxo, et Annales Hildesheim.] colla regal consorte Cunegonda e con un possente esercito, al dispetto delle piogge dirotte e delle inondazioni dei fiumi, comparve in Italia; ed arrivato a Pavia, quivi Natale Domini honorifice celebravit. Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.] scrive, che esso re in quest'anno fu in Ravenna, dove confermò abbate del monistero di santo Adalberto vicino al Po san Romoaldo, sommamente da lui venerato per la sua santità. Ho io pena a credere succeduto nell'anno presente un tal fatto. Contuttociò si vegga all'anno seguente. L'ingresso poi d'esso Arrigo in Pavia, senza che gli scrittori facciano menzione di opposizione alcuna, porge a noi motivo di credere che i Pavesi atterriti dalle forze di Arrigo tornassero, prima che egli arrivasse, alla di lui divozione senza farsi pregare, ed ottenessero il perdono.


   
Anno di Cristo MXIV. Indizione XII.
Benedetto VIII papa 3.
Arrigo II re di Germania 13, imperadore 1.
Ardoino re d'Italia 13.

Da Pavia, non ostante il verno, passò il re Arrigo a Ravenna, dove, per attestato dell'Annalista sassone [Annalista Saxo.], raunato un concilio, fece eleggere arcivescovo (se pur non era prima eletto) Arnoldo ossia Arnaldo suo fratello. Dacchè in quella città mancò di vita Federigo arcivescovo (probabilmente nell'anno 1004), un certo Adelberto avea senza legittima elezione e con male arti occupata quella sedia archiepiscopale, e detenuta finora. Poscia in Roma fece il re Arrigo consacrare da papa Benedetto VIII [102] questo suo fratello [Ditmarus, Chronic. lib. 7.]. Volle anche far degradare il suddetto Adalberto; ma alle preghiere di molte persone pie alteri praefecit ecclesiae, nomine Aricia. L'Annalista sassone dice: Arecinae praefecit ecclesiae. Crede il padre Mabillone ch'egli fosse creato vescovo d'Arezzo, ma presso l'Ughelli nulla si trova di lui. Sarebbe mai qui mentovata la Riccia, che in questi tempi godesse l'onore del vescovato? Poscia continuò il re Arrigo alla volta di Roma il suo viaggio. Secondo la testimonianza di Glabro Rodolfo [Glaber, Hist. lib. 1, in fine.], papa Benedetto VIII gli venne incontro: il che ci fa intendere che esso papa era già rimesso sul trono pontifizio. Ditmaro scrive che il papa l'aspettò a san Pietro: e questo era il costume. Abbiamo poi nei testi d'esso Ditmaro e dell'Annalista sassone che si fece la solenne coronazione imperiale di Arrigo e di Cunegonda sua moglie VI kalendas martii, cioè nel dì 24 di febbraio, die dominica. Ma non essendo caduto quel dì in domenica nell'anno presente, il padre Pagi con ragione pretende [Pagius, in Crit. Baron.] che la magnifica funzione si facesse XVI kalendas martii, cioè nel dì 14 di febbraio, giorno veramente di domenica. Abbiamo da Ditmaro che in quella solennità l'Augusto Arrigo, secondo fra i re, e primo fra gl'imperadori, comparve a senatoribus duodecim vallatus, quorum sex rasi barba, alii prolixa, mystice incedebant cum baculis. Prima di entrar nella basilica vaticana, secondo il costume, fu interrogato se voleva essere avvocato e difensore della Chiesa romana, e fedele al papa e ai suoi successori. Rispose con gran divozione di sì. Dopo di che ricevette colla moglie l'unzione e la corona imperiale. Nota il medesimo Ditmaro, e dopo lui l'Annalista sassone, che Giovanni figliuolo di Crescenzio, apostolicae sedis destructor, muneribus suis et promissionibus phaleratis regem palam [103] honoravit; sed imperatoriae dignitatis fastigium eum ascendere multum timuit, omnimodisque id prohibere clam tentavit. Abbiam trovato di sopra all'anno 1012 a Giovanni duca e marchese, sospettato da me duca di Spoleti, fratello di Crescenzio conte. Forse qui si parla di lui. Non amavano i Romani in que' tempi di avere sopra di sè un imperadore, perchè senza questo freno faceano ballare i papi come loro piaceva. Ed è anche da osservare ciò che il suddetto Ditmaro scrive [Ditmarus, lib. 6, in fine.]: Rex Henricus a papa Benedicto, qui tunc prae ceteris antecessoribus suis maxime dominabatur, mense februario in urbe Rumulea cum ineffabili honore suscipitur. A mio credere, vuol dire che i Romani aveano per molti anni addietro ritagliata di molto l'autorità temporale dei papi in Roma. Ma dacchè papa Benedetto ebbe fatto ricorso al re Arrigo, e se ne tornò a Roma, per paura d'esso re i potenti romani dovettero cedergli, in guisa che egli esercitava più di molti suoi antecessori la temporal signoria. Oppure gli Ottoni Augusti, e massimamente (per quanto vo io sospettando) il terzo, aveano accorciato non poco il temporale dominio dei romani pontefici, con averlo poi ricuperato il suddetto papa Benedetto VIII dal piissimo imperadore Arrigo regnante. A quest'anno rapporta il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccles.] il diploma che si pretende dato dall'Augusto Arrigo alla Chiesa romana, per confermare ad essa i suoi Stati temporali; e veramente ad altro anno che a questo non dee appartenere. Ma esso è una copia informe senza l'anno in cui fu dato, e senza gli anni del regno dell'imperio. Contiene eziandio varie notizie che patiscono difficoltà, siccome prima d'ora ho io altrove accennato [Piena Esposizione per la Controversia di Comacchio.]. Conviene aggiugnere qui ciò che osservò il padre Mabillone colle seguenti [104] parole [Mabill., Annal. Benedict. ad ann. 1014.]: Baronius ad hoc tempus revocat privilegium romanae Ecclesiae ab eodem imperatore concessum. At subscriptiones quaedam satis ostendunt, hoc esse posterioris temporis, quippe cui subscribit Richardus abbas fuldensis, qui vix ante annum MXXII hanc praefecturam iniit. Così colla sua solita modestia quell'insigne letterato, volendo anch'egli significare che il privilegio suddetto è finto, oppure interpolato.

Nell'ottavo giorno dopo la coronazione insorse una strepitosa rissa fra i Romani e Tedeschi sul ponte del Tevere, e molti caddero estinti dall'una parte e dall'altra. Si trovò essere stati autori di tale sconcerto germani tres, Hug, Hecil, Ecilin, non so se tre Tedeschi o tre fratelli. Furono presi, incarcerati, e poi condotti fra le catene in Germania. Che anche Arrigo, primo di questo nome fra gl'imperadori, godesse al pari de' suoi predecessori la sovranità in Roma, si raccoglie dal suo nome, enunziato con quello de' papi nelle monete e negli atti pubblici di Roma, e dall'avere anch'egli amministrata pubblicamente giustizia in essa città. Pubblicò il padre Mabillone [Idem, ibidem.] un insigne placito del medesimo Augusto, in cui per ordine suo fu decretato il possesso del castello di Bucciniano ad Ugo abate di Farfa. Igitur (quivi si legge) quum memoratus Heinricus Romam venisset, et intra basilicam beati Petri apostoli resideret ad legem et justitiam faciendam, ec. Da Roma s'incamminò l'Augusto Arrigo alla volta di Pavia. Ch'egli venisse per la Toscana, lo raccolgo da due diplomi da me pubblicati [Antiquit. Italic., Dissert. XVIII et LXII.], e dati nel medesimo luogo del contado di Pisa, il primo in favore del monistero antichissimo delle monache oggidì appellate di santa Giustina di Lucca, e l'altro in favore de' canonici d'Arezzo. Le note cronologiche son queste: Datum anno dominicae Incarnat. MXV, Indictione [105] XII, anno domni Heinrici imperatoris Augusti regnorum XII, imperii ejus I. Actum in comitatu pisano in villa, quae dicitur Fasiano. Io, nel pubblicar tali diplomi, li rapportai all'anno 1015, senza esaminare se in quell'anno Arrigo potesse soggiornare in Toscana. Ora veggo che appartengono al presente anno, ed essere quivi usato l'anno pisano, che nove mesi prima del nostro ha il suo principio. Dalla Toscana passò Arrigo a Ravenna, dove lasciò il fratello, cioè Arnolfo arcivescovo, il quale [Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Archiepiscop. Ravenn.] quartodecimo anno post millesimum divinitus mortalitatis assumtae, sub imperio clementissimi Augusti domni Henrici in tertio (si dee scrivere primo) anno, pridie kalendarum majarum, tenne un concilio provinciale in Ravenna, in cui annullò varii atti dell'usurpatore Adalberto. In passando poi per Piacenza l'imperadore confermò i suoi beni alla badia di Tolla con un diploma [Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.], dato anno dominicae Incarnationis MXIV, indictione XII, anno vero domni Heinrici regni ejus XIII, imperii autem primo. Actum Placentiae. Ancor qui, come in tanti altri d'esso Arrigo, manca il giorno e il mese. Giunto a Pavia, celebrò ivi la santa Pasqua, e diede un diploma in favore del monistero di san Salvatore. Actum Papiae [Bullar. Casinense, tom. 2, Constit. LXXVIII.]. Quivi ancora, septimo die mensis madii, davanti a lui tenne un placito Ottone conte del palazzo, da me dato alla luce [Antichità Estensi, P. I, cap. 14.] coll'intervento di Oberto ed Anselmo fratelli marchesi. Poscia s'inviò verso la Germania, e passando per Verona, confermò i suoi privilegii alle monache di santa Giulia di Brescia [Antiquit. Italic., Dissert. XXVIII.]. Lo stesso fece in favore della badia di san Zenone di Verona con diploma dato XII kalendas junii (si osservi qui il giorno e mese) anno dominicae Incarnationis MXIIII, Indictione XII, anno domni Heinrici imperatoris Augusti regnantis XII, imperii vero ejus I. [106] Actum Veronae. Un altro suo diploma [Antiq. Italic., Dissert. XIX.] in favore del monistero veronese di santa Maria all'Organo è dato VIIII kalendas junii, Indictione XII, ec. Actum Liciana. Leggesi parimente un placito tenuto in quest'anno [Ibidem, Dissert. VIII.], quarto die mensis madii, in Pavia da Ottone conte del palazzo. Papa Benedetto VIII anch'egli in questo anno confermò al monistero di Farfa il castello di Bucciniano con bolla data [Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.] XV kalendas augusti, anno domni Benedicti papae octavi tertio, imperante domno Henrico, anno ejus primo. Se così era nell'originale, abbiamo di qui che questo pontefice dovette ottenere il papato prima del dì 18 di luglio dell'anno 1012. Ma non è cosa certa, perchè di sopra si legge scriptum in mense augusti. In fatti tenne questo papa un bel placito nel dì 2 di agosto dell'anno presente, per ricuperare il castello suddetto; e tal documento si legge presso il padre Mabillone e nella suddetta Cronica di Farfa. Ci somministra ancora la medesima Cronica un placito senza data, ma probabilmente circa quest'anno tenuto da Rainerius marchio, et dux in turri de Corgnito. Il trovarsi intorno a questi tempi Rinieri marchese di Toscana, fa ch'io il creda il medesimo enunciato in quella carta.

Arrivò felicemente l'Augusto Arrigo a Bamberga, e vi celebrò la festa di Pentecoste. Ma appena aveva egli messo il piede fuori d'Italia, che il re Ardoino più feroce che mai ripigliò l'armi, e ricominciò la guerra. È da sapere, per testimonianza di Ditmaro [Ditmarus, Chronic., lib. 6 et seq.], che esso Ardoino, all'avviso che Arrigo con gran potenza calava di nuovo in Italia, ben conoscendo di non poter cozzare con un re sì poderoso, gli spedì incontro degli ambasciatori, con esibirsi pronto a rinunziare la corona, purchè gli concedesse un certo contado. Il buon re, lasciatosi condurre da alcuni suoi consiglieri, rigettò l'offerta; ma egli [107] ad magnum suis familiaribus provenire damnum id postea persensit. Racconta dipoi lo stesso storico, che uscito d'Italia l'imperadore, Ardoino, che dianzi era stato ritirato in un forte castello, vercellensem invasit civitatem, Leone ejusdem episcopo vix effugiente. Omnem quoque hanc civitatem comprehendens, iterum superbire coepit. Abbiam veduto di sopra, colla testimonianza di Arnolfo storico, ch'egli non solamente prese Vercelli, ma assediò anche Novara, Cumas invasit, multaque alia demolitus est loca sibi contraria. Prestarono aiuto in questa mossa d'armi ad Ardoino anche i marchesi, progenitori della casa d'Este, forse perchè parenti suoi, sapendo noi che Berta figliuola del marchese Oberto II fu maritata [Antichità Estensi, P. I, cap. 13.] con Odelrico Manfredi, marchese celebre di Susa, il qual, forse era della casa del re Ardoino. Dei danni inferiti da questa guerra ne toccò la sua parte alla chiesa di Pavia, quam ipsi in suis pertinentiis igne et rapinis vehementer devastaverunt; perciò quel vescovo o clero in quest'anno ricorse all'Augusto Arrigo in Germania, chiedendo giustizia e compenso. Egli dunque con suo diploma, dato anno Incarnationis dominicae MXIIII, Indictione XII, anno vero domni Henrici imperatoris Augusti regni XIII, imperii vero primo. Actum Solega (non so che luogo sia questo), dopo avere esposto, Ubertum comitem filium Hildeprandi, Otbertum marchionem et filios ejus, et Albertum nepotem illius, postquam nos in regem et imperatorem elegerunt, et post manus nobis datas, et sacramenta nobis facta, cum Dei nostroque inimico Arduino regnum nostrum invasisse, rapinas, praedas, devastationes ubique fecisse, ec.: erano secondo le leggi incorsi nella pena della vita, e tutti i lor beni devoluti al fisco: assegna perciò alla chiesa di Pavia una tenuta di beni spettanti ad essi marchesi in San Martino in Strada e in altri siti. Succedette di più, benchè io non sappia se in questo oppure in alcuno dei susseguenti [108] anni, cioè che [Arnulfus., Hist. Mediolanens., lib. 1, c. 18.] l'Augusto Arrigo marchiones Italiae quatuor, Ugonem, Azonem Adelbertum, et Obizonem captione una constrinxit. Nè dice già esso Arnolfo, come scrisse trecento anni dipoi Gualvano Fiamma [Flamma, in Manipulo Flor.], ch'egli facesse anche tagliar loro la testa. Solamente scrive che gli ebbe prigioni. Ma che per la sua innata clemenza lor poscia rendesse non solamente la libertà, ma anche gli Stati, l'abbiam di certo dal veder da lì innanzi fiorire in Italia questi medesimi principi, come costa dai documenti da me dati alla luce nella Antichità estensi. E ne resta inoltre la positiva asserzione dell'autore della Cronica novaliciense [Chron. Novalic., P. II, tom. 2 Rer. Ital.], che scrisse in questo secolo, laddove parlando di Arrigo primo imperadore, così favella: Marchiones autem italici regni sua calliditate capiens, et in custodia ponens, quorum nonnulli fuga lapsi, alios vero post correctionem ditatos muneribus dimisit. Si noti quest'ultima particolarità. Già abbiam veduto che i marchesi Ugo ed Alberto Azzo I erano figliuoli di Oberto II marchese, ed Alberto (lo stesso è che Adalberto) Azzo II fu figliuolo di Azzo I, tutti principi della casa d'Este, ma non per anche chiamati marchesi d'Este, quantunque anche allora possedessero la nobil terra d'Este, che negli antichi tempi fu città.

In quest'anno 1014 e poi nel 1016 in due strumenti di Rodolfo re di Borgogna, si comincia a vedere un Bertoldo conte, chiamato da altri Beroldo, da cui il Guichenone e gli altri storici del Piemonte fanno discendere la real casa di Savoia. Allora i conti, siccome perpetui governatori di qualche città, entravano nel ruolo dei principi. Però nel regno di Borgogna, ossia Arelatense, si hanno a cercare gli antenati del medesimo Bertoldo. Truovasi dipoi in quelle parti Umberto ossia Uberto conte, e questi è asserito figlio d'esso Beroldo. Dal medesimo Umberto [109] discende la suddetta real famiglia. E questa, dappoichè con istendere ampiamente il suo dominio in Italia, qui da tanti secoli gloriosamente regna, ed ora maggiormente risplende per la saviezza e valore del regnante Carlo Emanuello re di Sardegna, duca di Savoia, e principe del Piemonte, meriterebbe bene che penna più sicura di quella del Guichenone diradasse le tenebre che tuttavia restano nella genealogia dei primi discendenti da esso conte Beroldo, e più accuratamente ne cercasse gli ascendenti, e mostrasse il vero tempo in cui passarono in essa gli ampii Stati della celebre casa dei marchesi di Susa. Si può certamente con ragion presumere che la nobiltà d'esso conte si stendesse anche nei secoli addietro, e non avesse già si corti principii, come ha preteso il tedesco Eccardo.


   
Anno di Cristo MXV. Indizione XIII.
Benedetto VIII papa 4.
Arrigo II re di Germania 14, imperadore 2.

Terminarono in quest'anno tutte le bravure e le sconsigliate speranze del re Ardoino, non già come immaginò Gualvano Fiamma, e dopo lui il Sigonio [Sigonius, de Regno Italiae, lib. 8.], perchè l'arcivescovo di Milano Arnolfo con un gagliardo esercito assediasse Asti, ed obbligasse Ardoino disperato a farsi monaco; ma perchè cadde gravemente infermo, e dovette finalmente intendere quanto sieno caduchi i regni della terra. Ad ultimum (scrive di lui Arnolfo storico milanese di questo secolo [Arnolf., Hist. Mediolan., lib. 1. cap. 16.]) labore confectus, et morbo, privatus regno, solo contentus est monasterio nomine Fructeria (ossia Fructuaria nella diocesi allora di Ivrea) ibique depositis regalibus super altare, sumtoque habitu paupere, suo dormivit in tempore. Ma una tal risoluzione fu da lui presa solamente allorchè ebbe perduta la speranza di poter più vivere: che così usavano allora anche i gran signori [110] sul fine dei loro giorni, per comparire davanti a Dio diversi da quello che erano stati in vita. Il tempo della sua morte fu a noi conservato dall'Annalista sassone [Annalista Saxo.] con queste parole all'anno presente: Interim Hardwigus, nomine tantum rex, perdita urbe Vercelli, quam expulso Leone episcopo diu injuste tenuerat, infirmatur, radensque barbam (che tutti i secolari solevano allora portare) et monachus factus, tertio kalendas novembris obiit, sepultus in monasterio, cioè di Fruttuaria. Il padre Mabillone [Mabill., Annal. Benedict., ad hunc ann.] avvertì che la morte di Ardoino vien registrata nel Necrologio di Dijon XIX kalendas januarii. Così restò libero da questo impaccio in Italia l'imperadore Arrigo, fra il quale e Boleslao duca di Polonia durava intanto la discordia e la guerra in Germania. Tenuto fu un bel placito in questo anno da papa Benedetto VIII in Roma, di cui ci arricchì il medesimo padre Mabillone. Ha le seguenti note [Chronic. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.]: Pontificatus domni nostri Benedicti summi pontificis et universalis octavi papae, ec. quarto, imperante domno nostro Heinrico piissimo imperatore Augusto, ec. anno II, Indictione XIV, quarto die decembris. La lite era di beni fra Ugo abbate di Farfa, et domnum Romanum consulem et ducem, et omnium Romanorum senatorem, atque germanum praenominati domni pontificis. Si veggono mentovati in esso placito Johannes domini gratia urbis Romae praefectus, Albericus consul germanus praedicti praesulis, ec. La dignità di prefetto della città di Roma, sì cospicua negli antichi secoli, pare che si rimettesse in piedi sotto gl'imperadori Ottoni. Anche a' tempi di Pippino e Carlo Magno patrizii di Roma la medesima illustre dignità ivi si osserva. Geroo proposto reicherspergense, scrittore del secolo susseguente [Apud Balozium, Miscellan., lib. 5, pag. 64.], in una lettera scritta ad Henricum presbyterum cardinalem, ci avvertì che dai senatori [111] romani si conoscevano le cause civili solamente, e che grandiora urbis et orbis negotia longe superexcedunt eorum judicia, spectantque ad romanum pontificem, sive illius vicarios, Lino et Cleto consimiles; itemque ad romanum imperatorem, sive illius vicarium URBIS PRAEFECTUM, qui de sua dignitate respicit utrumque, videlicet domnum papam, cui facit hominium, et domnum imperatorem, a quo accipit suae potestatis insigne, scilicet exertum gladium. Sicut enim hi, quorum interest exercitum campo ductare, congrue investiuntur per vexillum, sic non indecenter ex longo usu praefectus urbis ab imperatoribus cognoscitur investitus per gladium contra malefactores urbis exertum. Praefectus vero urbis desuper sibi dato gladio tunc legitime utitur ad vindictam malorum, laudem vero bonorum, quando exinde tam domno papae, quam domno imperatori ad honorificandum sacerdotium et imperium famulatur, promissa vel jurata utrique fidelitate, ec. Tale era in quei tempi il governo di Roma e del suo ducato. Ho io pubblicato un bel placito [Rer. Ital. P. II, tom. 1, pag. 11.], che ci fa conoscere che Bonifazio marchese, padre della celebre contessa Matilda, non meno che del fu marchese Tedaldo suo padre, signoreggiava in Ferrara. Fu esso tenuto, pontificatus domni nostri Benedicti summi pontificis anno quarto, regni vero Henrici regis, qui antea regnabat, quam coronam imperii suscepisset, undecimo (questa è l'epoca del regno di Italia), sed postquam coronam imperii suscepisset, secundo, in Dei nomine, die XIV mensis decembris, Indictione XIV. Ferrariae. La lite era fra Martino abbate del monistero di san Genesio di Brescello ed Ugo vescovo di Ferrara, a cagione del monistero di san Michele Arcangelo, posto in essa città di Ferrara. Secondo l'abuso di quei tempi, si venne all'esibizion del duello, ma in fine il vescovo si diede per vinto.

[112]


   
Anno di Cristo MXVI. Indizione XIV.
Benedetto VIII papa 5.
Arrigo II re di Germania 15, imperadore 3.

Perchè l'anno preciso in cui succedette un movimento d'armi in Lombardia, resta incognito, mi fo lecito di riferirlo qui. L'abbiamo da Arnolfo storico milanese [Arnulfus, Histor. Mediolanens lib. 1, cap. 18.]. Narra egli che il vescovo d'Asti, perchè favorì le parti del re Ardoino, cadde in disgrazia dell'Augusto Arrigo, e però venuto a Milano, quivi sino alla morte stette ascoso: Dederat imperator, vivente ipso, et abjecto, episcopatum cuidam Olderico fratri Mainfredi marchionis eximii, cioè di Manfredi marchese di Susa, marito di Berta, figliuola del marchese Oberto II progenitore dei marchesi d'Este. Arnolfo arcivescovo di Milano, non parendo a lui giusta la deposizione del predetto vescovo, conseguentemente ricusò di consecrare Olderico, chiamato in alcuni documenti Alrico. Ma questi confidando nella potenza sua e del marchese Manfredi suo fratello, se n'andò a Roma, dove con false rappresentanze ottenne dal papa la consecrazione, che apparteneva di diritto all'arcivescovo di Milano. Irritato da tali atti Arnolfo arcivescovo, scomunicò in un concilio esso Olderico. Poscia, raunato un numeroso esercito, andò, insieme co' suoi vassalli, a mettere l'assedio alla città di Asti, e vi colse dentro non meno Olderico, che il marchese suo fratello. Si osservi come in Lombardia si cominciano a raunare eserciti e a far guerra, senza dipendere dall'imperadore, nè dai suoi ministri. Strinse egli tanto quella città, che furono costretti gli assediati a capitolare come volle l'arcivescovo. E fu ben dura la capitolazione: cioè tre miglia lungi da Milano, nudis incedendo vestigiis episcopus codicem, marchio canem bajulans, ante fores ecclesiae beati Ambrosii reatus proprios devotissime sunt confessi. Per attestato [113] di Ottone frisingense [Otto Frisingensis, lib. I, cap. 28 de Reb. Gest. Frider.], se qualche nobile commettea tal fallo che meritasse la morte, secondo l'antica consuetudine dei Franzesi e Suevi, ad confusionis suae ignominiam, canem dei comitatu in proximum comitatum gestare cogebatur. Depose Olderico il baston pastorale e l'anello sopra l'altare di sant'Ambrosio, che gli furono poi restituiti. E il marchese Manfredi offerì alla chiesa una buona somma d'oro. Ciò fatto, coi piedi nudi per mezzo alla città andarono alla metropolitana, dove ebbero pace dall'arcivescovo, clero e popolo. Se crediamo all'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Astens.], Odelrico, ossia Olderico, fu intruso nell'anno 1008, e nel seguente legittimamente eletto, laddove Tristano Calco, il Sigonio e il Puricelli fanno succeduta questa scena chi nell'anno 1014, e chi nel 1015 o nel 1016. Il Guichenon [Guichenon, Bibliot. Sebus., Centur. II, cap. 39.] porta un diploma del regnante Arrigo Augusto, dato in favore del monistero di Fruttuaria nell'anno 1014, in cui fra le altre cose conferma, quae dederunt Manfredus marchio, et Berta ejus uxor, et fratres ejusdem Manfredi, idest Alricus epicopus, ec. Adunque Alrico ossia Olderico godea nell'anno 1014 pacificamente il vescovato d'Asti. Contuttociò sembra a me tuttavia scuro il tempo di tale avvenimento. Perchè, come mai nell'anno 1008, tempo in cui era tuttavia vivente e in forze il re Ardoino, decadde il vescovo d'Asti che il favoriva; e come potè il re Arrigo lontano mettere un altro vescovo in quella città? Arnolfo inoltre dice che l'imperadore diede quella chiesa ad Olderico. Arrigo non prese la corona romana se non nell'anno 1014. E però altri han creduto che non già Arrigo, ma Ardoino promovesse Olderico a quella chiesa. Nè il diploma del Guichenon è documento esente da difficoltà, mancandovi [114] l'anno dell'imperio e il luogo, e venendo chiamato Everardo archicappellano, che negli altri diplomi è detto archicancelliere. Intorno a ciò nulla io decido, bastando a noi di tenere la sostanza del fatto. Ho io rapportato un placito [Antiquit. Ital., Dissert. VI.], tenuto anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi millesimo sexto decimo, anno vero imperii domni Henrici imperatoris tertius, mense hoctubri, Indictione quartadecima. Il suo principio è questo: Dum Raginerius marchio et dux tuscanus placitum celebraret in civitate Aretina cum Hugone comite ipsius comitatus, etc. Or vengano moderni scrittori a volerci persuadere che alcuni anni prima Bonifazio marchese, padre della contessa Matilda, era stato creato duca e marchese della Toscana. Basta questo documento per farci conoscere che in ciò s'ingannarono. Noi troviam qui chi in questi tempi governava la Toscana coi titoli di duca e di marchese, cioè Rinieri, da noi anche veduto di sopra. Nè si toglievano i loro governi ai duchi, marchesi e conti senza qualche grave delitto. Vedremo a suo tempo, quando probabilmente il marchese Bonifazio ottenne la signoria ossia il governo della Toscana. Egli in tanto signoreggiava nelle parti della Lombardia, e specialmente in Mantova, dove il trovò con Richilda, di lui moglie, san Simeone romito [Vita S. Symeonis, apud Mabill., Saecul. VI, Benedict., Par. I.], che da qualche tempo s'era fermato nel monistero di Polirone, scuola allora di grande esemplarità, in tempo che uno di quei lioni, quos principes magnificentissimo alebat sumtu ac pompa, era fuggito dal serraglio con gran terrore dei cittadini, e fu da quel servo del Signore ricondotto al suo luogo. Ed appunto nell'anno presente, come si ha dall'autore contemporaneo della di lui Vita, esso Simeone passò al regno dei beati anno dominicae Incarnationis MXVI, Indictione XIV, septimo kalendas augusti, romani imperii [115] monarchiam obtinente Henrico primo Augusto, ducatus quoque principatum triumphante (parola, a mio credere, scorretta) Bonifazio glorioso duce ac principe. Trattossi poi in Roma della di lui canonizzazione, e resta tuttavia intorno a ciò una lettera scritta da papa Benedetto VIII Bonifacio gratia Dei marchioni inclyto.

E per conto d'esso papa, di lui si racconta un fatto strepitoso accaduto in quest'anno, la cui memoria fu a noi conservata da Ditmaro [Ditmarus, Chron., lib. 7.]. Vennero i Saraceni con un grande stuolo di navi alla città di Luni, che allora era della provincia della Toscana, e la presero, essendone fuggito il vescovo. Quivi s'annidarono, scorrendo poi tutto il vicinato, e svergognando le donne di quei contorni. Ciò udito, papa Benedetto non perdè tempo a mettere in armi quanti popoli potè per terra e per mare, affin di cacciarli. Spedì un'armata navale davanti a Luni, affinchè quegli infedeli non potessero scappare coi loro legni. Ebbe nondimeno la fortuna di salvarsi a tempo in una barchetta il re loro, che probabilmente era Mugetto, occupator della isola di Sardegna. Gran difesa, grande strage dei Cristiani fecero per tre dì quei Barbari; ma finalmente rimasero rotti, e fu sì ben compiuta la festa, che neppur un d'essi vi restò che la potesse contare. Alla loro regina, che fu ivi presa, neppure si perdonò. La sua conciatura da testa, ricca d'oro e di gemme, che ben valeva mille lire, fu inviata in dono all'imperadore Arrigo dal papa. Il padre Pagi [Pagius, in Critic., Baron.], dopo aver anch'egli contato questo avvenimento, aggiugne una cosa che potrebbe farci maravigliare, se non sapessimo che non v'ha scrittore, per grande che sia, il quale non sia soggetto a prendere dei granchi, ed anche a grossolanamente ingannarsi: cioè scrive: Luna autem, hodie Luca appellata, civitas libera, a qua aliquot loca pendent. Sa [116] ogni Italiano pratico alquanto di storia, o di geografia, che la città di Luni, da alcuni secoli scaduta alla sboccatura della Magra, nulla ha che fare con Lucca, ed esserci tuttavia il vescovo di Luni, abitante nella città di Sarzana, con bella diocesi, diversa dal lucchese. L'impresa suddetta d'essa città di Luni la credo io accennata negli Annali pisani colle seguenti parole [Annal. Pisani, tom. 4 Rer. Ital., pag. 107 et 167.]: Anno MXVI Pisani et Januenses fecerunt bellum cum Mugeto, et vicerunt illum. Negli altri Annali, ove è scritto sotto quest'anno: Pisani et Januenses devicerunt Sardineam, v'ha dell'errore; e si conosce da quel che siegue, perciocchè solamente nell'anno seguente i Pisani e Genovesi andarono in Sardegna. Alle cose dette di sopra aggiugne Ditmaro che il re dei Mori, da me creduto Mugetto, irritato per la perdita suddetta, inviò al papa un sacco di castagne, volendo significare che altrettanti soldati (sarebbono stati ben pochi) nella state ventura avrebbe spedito contra dei Cristiani. Il pontefice in contraccambio gli mandò un sacchetto di miglio, per fargli conoscere che non era figliuol di paura. Nè voglio tacere che il soprammentovato marchese Bonifazio e Richilda sua moglie (figliuola di Giselberto conte del sacro palazzo in Italia, e non già di Giselberto fratello di Cunegonda allora imperadrice), tutti e due gran cacciatori di beni e Stati, ricorsero in quest'anno all'imperadore Arrigo per ottenere la metà della corte di Trecenta, oggidì sul Ferrarese, colla metà del castello e sue dipendenze, sicut a Berengario et Hugone filiis Sigefredi comitis, nostro imperio rebellantibus hactenus visa sunt possideri. Li donò Arrigo ad essa Richilda con un diploma dato [Antiquit. Ital., Dissert. XIX.] anno dominicae Incarnationis millesimo decimo sexto, Indictione XIIII anno domni Henrici regni XIII, imperii ejus III. Actum Panvembero (ossia Pavemberg, cioè, come voglio credere, [117] in Bamberga). Fu di parere il Sigonio [Sigonius, de Regno Italiae, lib. 8.] che le nozze di Richilda col marchese Bonifazio seguissero nell'anno 1021. Ecco quanto prima era contratto il lor matrimonio. Nè già in occasion d'esse nozze si fece quella battaglia che viene accennata da Donizone, come si pensò il suddetto Sigonio, ma in qualche altra congiuntura, siccome diremo. Nell'anno presente sì, per attestato dell'Annalista sassone [Annalista Saxo.], l'Augusto Arrigo tenne una gran dieta in Argentina, dove anche si trovò Rodolfo re di Borgogna, con sottoporre il suo regno all'imperio romano. Vo io pensando che allora si stabilissero quelle tre leggi d'esso Arrigo che si leggono fra le longobardiche [Rer. Ital., P. II, tom. 1.]; giacchè nella prefazione si dice che furono fatte in civitate Argentina, quae vulgari nomine Straburge appellatur, coll'intervento degli arcivescovi di Milano e di Ravenna, dei vescovi d'Argentina, Piacenza, Como, ec., ed anche dei marchesi e conti d'Italia. Abbiamo inoltre da Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] che in quest'anno civitas Salernum obsessa est a Saracenis per mare et per terram, et nihil profecerunt. Se si ha a credere a Leone Ostiense [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap 37.], fu in questa occasione che i Normanni, dei quali parleremo all'anno seguente, capitando dal viaggio di Terra santa a Salerno, furono in aiuto di Guaimario III principe di quella terra, e colla loro prodezza obbligarono que' Barbari a levare l'assedio. Ma Guglielmo pugliese, siccome vedremo, diversamente ne parla.


   
Anno di Cristo MXVII. Indizione XV.
Benedetto VIII papa 6.
Arrigo II re di Germania 16, imperadore 4.

Il Tronci ne' suoi Annali pisani, non so su qual fondamento, scrisse che i Pisani, [118] fatta nell'anno 1014 una grossa armata, sbarcarono nella Sardegna, vennero alle mani coll'esercito de' Mori, il misero in rotta, e s'impadronirono di quell'isola, dopo esserne fuggito il re di que' Barbari Mugetto. Meritano ben più fede gli antichi Annali di Pisa [Annal. Pisani, pag. 107 et 167, tom. 6 Rer. Ital.], che sotto il presente anno raccontano quell'impresa. Se n'era tornato in Sardegna Mugetto, fortunatamente scampato da Luni, tutto nelle furie contra de' Cristiani di quell'isola, molti de' quali fece barbaramente crocifiggere. Erasi anche messo in pensiero di fabbricar in quell'isola una forte città. Benedetto papa intanto, che l'avea cominciata bene, volle finirla meglio. Spedì per suo legato a Pisa il vescovo d'Ostia, per animare quel popolo a cacciar fuori di Sardegna Mugetto. Lo stesso probabilmente fece a Genova, dacchè confessano gli stessi Annali di Pisa che anche i Genovesi concorsero a quell'impresa. Passarono infatti in Sardegna questi due popoli con tutte le lor forze, obbligarono Mugetto a salvarsi colla fuga in Africa, e presero il possesso di quell'isola. Soggiungono quegli Annali che il papa investì d'essa Sardegna i Pisani. Ma non tardò a nascere discordia fra gli stessi conquistatori, perchè il buon boccone faceva gola a tutti. Si sforzarono i Genovesi di cacciarne i Pisani; ma i Pisani, che in questi tempi erano più forti, li spinsero fuori di tutta l'isola, e ne restarono padroni. Tale principio ebbe la potenza della città di Pisa, tuttochè non apparisca ch'essa per anche avesse acquistata la libertà, perchè era tuttavia suggetta ai duchi, ossia ai marchesi della Toscana. Cominciò anche in Puglia per questi tempi una bella danza, che parve cosa da nulla sul principio, ma ebbe col tempo delle mirabili conseguenze. Era venuto, per testimonianza di Guglielmo pugliese [Gullielmus, Apulus, Poem. de Normann., lib. I.], nell'anno precedente dalla [119] Normandia un pugno di quella gente per sua divozione al monte Gargano, dove san Michele Arcangelo era in gran venerazione. Quivi per accidente trovatosi Melo, quel potente e savio cittadino di Bari che s'era ribellato a' Greci, appena ebbe egli adocchiati questi uomini, bella e nerboruta gente, che tenuto con esso loro discorso della bellezza di quel paese, della dappocaggine de' Greci, e della facilità di vincerli e di farsi gran signori, gl'invogliò di seco imprendere guerra in quelle parti contra del dominio greco. Presero essi tempo, tanto che tornassero alle lor case ed invitassero altri compagni all'impresa. Venuti in quest'anno senz'armi, ne furono ben forniti da Melo, e dopo aver preso riposo, portarono la guerra addosso ai Greci. Era allora generale de' Greci in quelle contrade Turnichio, appellato da altri Andronico, che senza dimora uscito in campagna colle sue forze, mense maii, come ha Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.], fecit praelium cum Melo et Nortmannis. Questa prima battaglia pare che fosse favorevole a Melo. Si tornò a combattere nel dì 22 di luglio, e, secondo il testo d'esso Lupo Protospata, benchè restasse morto nel conflitto Leone Paziano, che in luogo del catapano Turnichio comandava l'armata de' Greci, pure vi restò sconfitto Melo co' Normanni. Ma forse quel testo è guasto. Guglielmo pugliese, autore di maggior credito in questo, attesta che Melo e i Normanni ne uscirono vincitori, senza raccontar altro che un solo fatto d'armi. Gran credito che s'acquistarono con ciò que' pochi, ma valentissimi Normanni; gran bottino che fecero. Anche l'Anonimo casinense [Anonymus Casinenis, tom. 5, Rer. Ital.], ossia Alberico monaco, scrive sotto il presente anno: Normanni Melo duce coeperunt expugnare Apuliam.

Abbiamo da Girolamo Rossi [Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5.] che un riguardevol placito fu in quest'anno tenuto in Ravenna da Pellegrino cancelliere [120] e messo Henrici imperatoris, e da Tadone conte, messo anch'egli del medesimo Augusto, anno Benedicti papae quinto, Henrici imperatoris in Italia anno tertio, die XV februarii, Indictione XV, Harnaldo gratia Dei sanctissimo et coangelico archiepiscopo sanctae ravennatis ecclesiae. In esso placito il suddetto Pellegrino apprehendens manibus virgam, misit eam in manibus suprascripto Harnaldus gratia Dei sanctissimo et coangelico archiepiscopo, et investivit ipsum et ecclesiam ravennatem, ex parte Henrici imperatoris de omni fisco et de omni publicare ravennate, sive ripae aut portae, et de comitatu bononiense et comitatu corneliense (Imola) et comitatu faventino, et comitatu.... et comitatum ficoclense (Cervia) cum omni fisci, et publicis eorum comitatibus, ec. Noi abbiamo bensì presso del cardinal Baronio i diplomi di Lodovico Pio, di Ottone I e del regnante Arrigo I Augusto, ne' quali si veggono confermati alla Chiesa romana l'esarcato di Ravenna, il ducato di Spoleti, il ducato di Benevento con altri paesi. Ma essendosi per disgrazia perduti gl'originali, e non rapportandosi se non le copie, suggette a molte alterazioni, secondo il bisogno e l'interesse delle persone, non porgono esse bastante lume per quetar l'intelletto. E tanto poi meno, se con esse combattono fatti certi e documenti, sui quali non cadano sospetti. Già s'è veduta più d'una pruova che da gran tempo l'esarcato era divenuto parte del regno d'Italia, forse per qualche convenzione seguita fra la santa sede e gl'imperadori. Ne abbiamo ancor qui una pruova chiara. Altrettanto pure s'è osservato del ducato di Spoleti. Per conto poi del ducato di Benevento, neppur convien disputarne. E a comprovare quanto s'è detto della Romagna, servirà anche ciò che scrisse san Pier Damiano [Petrus Damian., in Vita S. Mauri Caesen., cap. I.] circa l'anno 1060. Eo tempore quum adhuc romana Ecclesia spatiosius multo quam NUNC jura protenderet, [121] et inter cetera caesenate oppidum possideret, ec. Adunque a' tempi del Damiano Cesena non apparteneva più al dominio temporale de' papi. Chi ne fosse padrone, l'abbiamo già veduto. Ho io prodotta una carta di livello di un porto, dato dal soprammentovato Arnaldo arcivescovo di Ravenna a Pietro abbate della Pomposa [Antiq. Italic., Dissert. LVI.], creduta da me spettante all'anno seguente 1018; ma siccome ho poi avvertito per più esatta collazione fatta coll'originale, essa appartiene a quest'anno. Ivi sono le seguenti note: Anno, Deo propitio, pontificatus domni Benedicti summi pontificis, et universalis papae VIII, ec. quinto; sed et imperante domno Heinrico magno imperatore in Italia anno quarto, die XX mensis februarii, Indictione XV. Abbiamo qui l'anno 1017. Adunque Arrigo I fra gl'imperadori avea nell'anno 1014 e nel dì 20 di febbraio già ricevuta la corona imperiale. Di esso Pietro abbate è fatta menzione nella Vita di san Guido abbate della Pomposa [Mabillon., Saecul. VI Benedict., P. I.]. In quest'anno parimente s'incontra un placito [Antiquit. Italic., Dissert. V.], che domnus Adelpeyro dux istius marchiae Carentanorum, et Rambaldus comes istius comitatu tervisianense, unitamente tennero in comitatu tervisianense in villa Axilo non multum longe ad castro Axilo, de subtus, in cui contra del monistero di santa Giustina di Padova fu decisa una lite in favore del monistero delle monache di san Zacheria di Venezia. Abbiamo qui che la nobil terra di Asolo era in questi tempi del contado di Trivigi. Leggesi inoltre sotto il presente anno una donazione [Antiquit. Ital., Dissertat. XX.] fatta nel mese di marzo al monistero di Nonantola da Bonifacius Marchio, filius bone memorie Teudaldi, qui fuit itemque marchio, et Richelda conjuge ejus jugalibus, filia bone memorie Giselberti, qui fuit comes palatii, qui professi sumus legem vivere Longobardorum.

[122]


   
Anno di Cristo MXVIII. Indizione I.
Benedetto VIII papa 7.
Arrigo II re di Germania 17, imperadore 5.

Se vogliamo riposar sulla fede di Girolamo Rossi [Rubeus, Histor. Ravenn.], seguitato dall'Ughelli, Arnaldo arcivescovo di Ravenna, fratello dell'Augusto Arrigo, compiè il corso de' suoi giorni nel 19 di novembre dell'anno seguente, ed ebbe per successore Eriberto. Ma, secondo l'Annalista sassone [Annalista Saxo.], egli mancò di vita nell'anno presente. Potrebbono le carte pecore dell'archivio di Ravenna mettere in chiaro qual di queste asserzioni sia vera. Ed è da sperarlo, dacchè il padre don Pietro Paolo Ginanni abbate benedettino con infaticabil premura va raccogliendo le antiche memorie di quella città nobilissima. Aveva anche diligentemente osservato il signor Sassi [Saxius, in Notis ad Sigon. de Regno Ital.] che Arnolfo II arcivescovo di Milano cessò di vivere, non già nell'anno 1019, come si pensò il Sigonio, non già nell'anno 1015, come si ingegnò di provar l'autore delle annotazioni all'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 4.], ma bensì nell'anno presente 1018. Infatti il suddetto Annalista sassone sotto quest'anno medesimo scrive: Mediolanensis archiepiscopus obiit, et praepositus ejusdem ecclesiae Heribertus successit, cioè Eriberto de loco Antimiano, come si ha da' suoi strumenti, arcivescovo famoso fra quei di Milano, che fece, siccome vedremo, sudare il ciuffo all'imperador Corrado. Ch'egli ancora ottenesse in quest'anno la cattedra milanese, si compruova con un placito tenuto in Belasio [Antiquit. Italic., Dissert. LXX.], territorio di Como, da Anselmo messo dell'imperadore Arrigo, anno imperii domni Henrici imperatoris quinto, mense november, Indictione secunda. Produssi io questo documento [123] come scritto nell'anno 1019. Ora m'avveggo che appartiene all'anno presente, perchè l'indizione seconda ebbe principio nel settembre. Quivi domnus Aribertus sanctae mediolanensis ecclesiae archiepiscopus, et Albericus sanctae cumensis ecclesiae episcopus, citati e presenti, cedono alle loro pretensioni sopra certe terre in favore del monistero di sant'Ambrosio di Milano, e del suo abbate Gotifredo. Erano gli Augusti greci adirati non poco contra di Melo ribello del loro imperio, per la guerra da lui mossa in compagnia de' Normanni contro la Puglia di lor giurisdizione. Però, secondochè s'ha da Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chron.], spedirono in quest'anno al comando delle lor armi in Italia, ossia per loro catapano o capitano, Basilio soprannominato Bugiano, uomo di gran senno ed attività. Romoaldo salernitano [Romualdus Salern., Chron., tom. 7 Rer. Ital.] scrive che costui portò seco un gran tesoro, cioè il principal nerbo per ben fare la guerra. Aggiugne dipoi ch'esso Basilio anno MXIII (va scritto MXVIII), Indictione I, fece rifabbricar nella Puglia l'antica città di Ecana (si dee scrivere Eclana), che anticamente ebbe i suoi vescovi, e le impose il nome di Troia. Noi sappiamo da Mario mercatore e da altri antichi scrittori che Giuliano fiero difensor di Pelagio, e confutato nei suoi mirabili libri da santo Agostino, fu vescovo eclanense. Camillo Pellegrino pretese che la moderna città di Frigento sia succeduta all'antichissima Eclana. L'Olstenio e il cardinal Noris [Noris., Hist. Pelagian., lib. I, cap. 18.], crederono che Eclana fosse il luogo appellato poscia Quintodecimo. Sembra ora che si possa con più fondamento aderire alla opinione di Romoaldo salernitano, autore vivuto cinquecento anni prima e pratico di que' paesi, allorchè attesta che la moderna città di Troia fu l'antica Eclana, o vogliam dire Eclano. Oltre a questa città fabbricò il suddetto [124] Basilio Draconaria, Fiorentino, ed altri luoghi forti nella provincia che oggidì si nomina Capitanata. Aggiugne il già citato Protospata che Ligorius Tepotriti (leggo Tepotiriti, cioè conservatore del luogo) fecit praelium Trani, et occisus est ibi Joannatius Protospata. Et Romoald captus est, et in Constantinopolim deportatus est. Sono scure tali notizie, ma bastano a farci comprendere la continuazion della guerra in Puglia fra i Greci e i Pugliesi ribellati. Viene citata sotto il presente anno dal padre Mabillone [Mabill., in Annal. Benedictin. ad hunc ann.] una donazione fatta da Giovanni duca e console di Gaeta al monistero di san Teodoro di quella città: il che ci fa conoscere chi fosse allora principe di Gaeta.


   
Anno di Cristo MXIX. Indizione II.
Benedetto VIII papa 8.
Arrigo II re di Germania 18, imperadore 6.

Sotto il presente anno scrive Ermanno Contratto [Hermannus Contract., in Chronico, edit. Canis.] che Conradus adolescens filius Conradi quondam ducis Carentani (e marchese ancora della marca di Verona) auxiliante patruele suo Conrado, postea imperatore, Adalberonem tunc ducem Carentani apud Ulmam pugna victum fugavit. Abbiam veduto di sopra che questo Adalberone era anch'egli duca di Carintia, e insieme marchese di Verona. L'aveva con lui il giovinetto Corrado, quasichè gli avesse Adalberone rubati quegli Stati che, se non di giustizia, almeno per introdotto costume doveano toccare a lui dopo la morte del padre suo Corrado. È da credere che Adalberone possedesse ancora degli Stati in Germania, e che per cagion d'essi tra lor seguisse il conflitto suddetto. Per attestato di Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.], Bugiano generale dei Greci venne a battaglia in [125] questo medesimo anno circa il dì primo d'ottobre coll'armata di Melo, e gli diede una rotta tale, che non potè più risorgere. Leone ostiense [Leo Ostiensis, Chronic., lib. 2, cap. 37.] lasciò scritto che Melo col soccorso de' Normanni avea dinanzi riportate tre vittorie de' Greci primo apud Arenolam, secundo apud civitatem (Marsicum la chiama Angelo della Noce), tertio apud Vaccariciam campestri certamine dimicans, tribus eos vicibus vicit, multosque ex his interficiens, et usque Tianum eos constringens, omnes ex hac parte, quas invaserant, Apuliae civitates et oppida recepit. Quarta demum pugna apud Cannas Romanorum clade famosas, Bojani catapani insidiis et ingeniis (macchine di guerra) superatus, universa, quae facile receperat, facilius perdidit. Appresso racconta, essere stata fama che di dugentocinquanta Normanni, aiutatori di Melo, non ne rimanessero in vita se non dieci, e che la vittoria nondimeno costò ben cara ai Greci. Melo disperato, non sapendo più dove rivolgere le sue speranze, dopo avere raccomandato i pochi Normanni, che gli restavano, a Guaimario III principe di Salerno, e a Pandolfo IV principe di Capua, imprese il viaggio di Germania, o per muovere l'imperadore Arrigo a venire in persona in Italia, o almeno per ottenere da lui un poderoso soccorso di milizie. Ecco come di quest'ultimo fatto d'armi parla Guglielmo pugliese [Guilielmus Apulus, de Norman., lib. 1.].

Vicinus Cannis qua defluit Aufidus amnis,

Circiter octobris pugnatur utrimque calendas,

Cum modica non gente valens obsistere Melus,

Terga dedit magna spoliatus parte suorum,

Et puduit victum patria tellure morari.

Samnites adiit superatus, ibique moratur,

Post Alemannorum petiit suffragia regis

Henrici, solito placidus qui more precantem

Suscipit, auxilii promittens dona propinqui.

Leggesi una cessione fatta delle decime di quattro pievi al vescovato di Cremona [Antiq. Ital., Dissert. VI.] da Bonefacius marchio filius [126] quondam Teotaldi itemque marchio, et Richilda filia quondam Giselberti comitis, nell'anno presente. Bonifazio è il padre della contessa Matilda. Vo io credendo che appartenga ancora all'anno presente un diploma, spedito dall'imperadore Arrigo in favore del monistero di Monte Casino e dell'abbate Atenolfo [Gattola, Hist. Monast. Casinens. P. I.]. Le note son queste: Datum III idus julii, anno dominicae Incarnationis millesimo vigesimo, Indictione secunda, anno domni Heinrici regis decimo septimo, imperii vero ejus quinto. Actum Radesbone. Se crediamo al padre Gattola, il diploma è originale; ma io ho pena a crederlo. La indizione seconda accenna l'anno presente. Come poi sia l'anno MXX, se non ricorriamo all'anno pisano, non si sa capire. E resta poi da mostrare come in Germania avesse luogo l'era pisana. Posto ancora che sia l'anno nostro MXIX, non si accorda con esso l'anno XVII del regno, nè il quinto dell'imperio.


   
Anno di Cristo MXX. Indiz. III.
Benedetto VIII papa 9.
Arrigo II re di Germania 19, imperadore 7.

L'anno fu questo in cui papa Benedetto VIII andò in Germania a trovar l'imperadore Arrigo, che l'aspettava in Bamberga. Il Sigonio, il Baronio, l'Hoffmanno, e soprattutto il padre Pagi hanno preteso che questa andata del pontefice accadesse nell'anno precedente 1019, e che mal si sieno apposti coloro che la riferiscono all'anno presente, con citare per la loro sentenza Lamberto da Scafnaburgo, Mariano Scoto, gli Annali d'Ildeseim e l'abbate Urspergense. Ma non ha fatta assai riflessione il padre Pagi a questo punto di storia. Mariano Scoto, se ben si guarda, a quest'anno [Marianus Scotus, in Chron.] appunto parla del viaggio di papa Benedetto. E si conosce che le stampe hanno alterato i testi di Lamberto e dell'Urspergense, [127] e degli Annali d'Ildeseim. Dico, si conosce, perchè ivi la morte di sant'Eriberto arcivescovo di Colonia si mira nei loro testi stampati all'anno 1020, quando è fuor di dubbio che avvenne nell'anno 1021, come confessa lo stesso padre Pagi. Però gli autori suddetti si dee credere che abbiano posta l'andata del papa nel presente anno 1020, e nel seguente la morte di sant'Eriberto. Che poi veramente il papa in quest'anno si portasse a Bamberga, l'abbiamo da Ermanno Contratto [Ermannus Contractus, in Chron., edition. Canisii.] nell'edizion migliore e più copiosa del Canisio, da Sigeberto [Sigebertus, in Chron.], dall'Annalista sassone [Annalista Saxo.], dal Cronografo sassone [Chronographus Saxo.], da Alberico monaco dei tre Fonti e da altri storici. Lo stesso si scorge dell'antica Vita dello stesso santo Arrigo [Vita S. Henrici inter Acta Sanctor. Bolland., ad diem 14 julii.] pubblicata dal Gretsero e da altri. Quivi è scritto che il papa invitato dall'imperadore, in proximo aprili Alemanniam intravit, omnibusque civitatibus illius regionis peragratis, tempore, quo condixerat, Babengerg locum adire disposuit. Venit ergo V feria majoris hebdomadae, hora sexta, sacris pontificalibus vestimentis indutus, ec. Questo minuto racconto fa conoscere che l'autor d'essa vita prese un tal fatto da buone notizie, e probabilmente da quella che scrisse Adelboldo, giunta a noi troppo mancante. Ma se papa Benedetto entrò d'aprile in Alemagna, ed arrivò nel giovedì santo a Bamberga, adunque nell'anno presente arrivò colà, e non già nel precedente. Perciocchè nell'anno 1019 la Pasqua cadde nel dì 20 di marzo, e in quest'anno si celebrò essa nel dì 17 d'aprile. Nè voglio tacere che viene anche citata la Vita di san Meinwerco vescovo di Paderbona [Vita S. Meinwerci apud Leibnitium, tom. 1, Scriptor. Brunswic.], per comprovar l'opinione [128] dei suddetti sostenitori dell'anno 1019. Ma quella Vita, quando anche dicesse ciò che pretendono, essendo scritta nel secolo susseguente, non può chiamarsi un testimonio infallibile di quel che cerchiamo. Oltre di che, fors'anche quella va d'accordo coll'opinione mia, scorgendosi che il medesimo autore all'anno susseguente mette il passaggio a miglior vita del suddetto santo Eriberto, ii qual pure viene stabilito nell'anno 1021. Fra l'altre cose che aggiugne l'autore della Vita suddetta di santo Arrigo imperadore, racconta che nel mattutino di Pasqua il patriarca d'Aquileia recitò la prima lezione, l'arcivescovo di Ravenna la seconda, e il papa la terza. E che poscia il pontefice medesimo VIII kalendas maii basilicam in honore sancti Stephani consecravit; e lo stesso ancora abbiamo dall'autor della Vita di san Meinwerco. Il dì 24 d'aprile qui enunziato più s'accorda colla mia suddetta opinione. Saggiamente osservò il cardinal Baronio che fra i motivi per li quali andò volentieri papa Benedetto, ancor quello vi dovette essere di commuovere l'Augusto Arrigo a condurre o spedire una buona armata per far argine ai progressi dei Greci. Circa il dì primo di ottobre nell'anno precedente era succeduta, come dicemmo, la disfatta del picciolo esercito di Melo. Tutto perciò andava a seconda dei Greci, i quali non solamente ricuperarono quanto aveano perduto, ma eziandio ritirarono nel loro partito Pandolfo II, principe di Capua. Scrive l'Ostiense [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 38.]: Quum capuanus princeps latenter faveret constantinopolitano Basilio, fecit interim fieri claves aureas, et misit ad illum, tam se, quam civitatem capuanam, immo universum principatum ejus per haec imperio contradens.

Davano negli occhi e gran gelosia recavano a papa Benedetto questi maneggi ed avanzamenti de' Greci, che stendevano il loro dominio fino ad Ascoli; e [129] se mettevano il piede anche sopra il principato di Capua, già se li sentiva alle porte di Roma. Nè era già da sperare che i greci Augusti avessero voluto lasciare ai papi, se si fossero impadroniti di Roma, quella signoria che, secondo i patti cogl'imperadori d'Occidente, da più di due secoli godevano. Però dovette il buon papa sollecitare, per quanto potè, l'Augusto Arrigo ad impiegar le sue forze contra di quella nazione, nemica ancora dei Latini, la quale aspirava allora a dei gran voli. Abbiamo anche da Glabro [Glaber, Chronic., lib. 3, cap. 1.] che Rodolfo normanno fuggito da Normandia a Roma con alquanti compagni, andò a trovar papa Benedetto VIII per contargli i suoi guai. Ma il papa coepit ei querelam exponere de Graecorum invasione romani imperii, e indusse que' Normanni a militar contra di loro. Portò intanto la disgrazia che Melo trovandosi in Germania per muovere quella corte contra de' Greci, infermatosi quivi nell'anno presente, cessò di vivere. L'abbiamo da Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.]; e Guglielmo pugliese [Guilielmus Apulus, lib. i, de Normann.] l'attesta anch'egli scrivendo d'esso Melo, e dell'onore fattogli alla sepoltura, le seguenti parole:

At Melus regredi praeventus morte nequivit;

Henricus sepelit rex hunc, ut regius est mos;

Funeris exsequias comitatus ad usque sepulcrum,

Carmine regali tumulum decoravit humati.

Nella Cronica del Protospata egli è appellato dux Apuliae, nè senza ragione. Questo titolo gliel diede l'Augusto Arrigo per premio del già operato, e per animarlo ad operare di più: il che è da avvertire per intendere se gli Augusti avessero donato ai papi il ducato di Benevento; e con ciò va concorde il suddetto passo di Glabro col seguente. Abbiamo nella Vita di esso santo imperadore [Vita S. Henrici, cap. 3, in Actis Sanct. ad diem 14 julii.], [130] benchè non con tutta l'esattezza, che esso imperadore Apuliam a Graecis diu possessam, romano imperio recuperavit, et eidem provinciae Ismaelem (vuol dire Melo) ducem praefecit, qui postea in babenbergensi loco mortuus, et in capitulo majoris monasterii sepultus requiescit in Domino. Oltre a ciò, sappiamo dal Protospata che in quest'anno i Saraceni assediarono la città di Bisignano, e la sottomisero al loro dominio: sicchè e Greci e Mori malmenavano forte quelle contrade. Specialmente poi in questi tempi si studiavano i principi e gran signori di pelare or soavemente or violentemente le chiese. La maniera soave era quella di prendere i loro beni e castella a livello con promettere un annuo canone, e intanto donar qualche terra in proprietà ad essi luoghi sacri, per indurre i vescovi e gli abbati col picciolo presente vantaggio a livellar essi beni, l'usufrutto dei quali mai più non soleva arrivare a consolidarsi col diretto dominio. Uno dei gran cacciatori di tali beni già ho detto che era il marchese Bonifazio, padre poscia della gloriosa contessa Matilda. Può essere motivo di stupore l'osservare quante castella, corti, chiese, ec. egli carpisse al solo vescovato di Reggio. Ne ho io pubblicata la lista [Antiquit. Ital., Dissert. XXXVI.]. Altrettanto, o poco meno, dovette egli fare co' vescovi di Modena, Parma, Cremona, Mantova, ed altre città circonvicine. Ed in questo anno appunto egli ottenne a livello da Warino ossia Guarino vescovo di Modena medietatem de monte uno, qui dicitur Barelli, ubi antea castrum edificatum fuit, cum fossatum in parte circumdatum.


   
Anno di Cristo MXXI. Indizione IV.
Benedetto VIII papa 10.
Arrigo II re di Germania 20, imperadore 8.

Ardevano di voglia i Greci di aver in lor mano Datto, che già dicemmo uno dei principali della Puglia ribellati alla [131] lor signoria, e parente del defunto Melo. Dopo l'infelice battaglia di Canne, per attestato dell'Ostiense [Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 37 et 38.], s'era egli ritirato colla sua famiglia sotto la protezione di Atenolfo abbate di Monte Casino. Ma poscia papa Benedetto VIII, perchè il conosceva fedele all'imperadore Arrigo, il mise alla custodia della torre del Garigliano, quam idem papa tunc retinebat, con alcuni Normanni. Che fece il catapano greco Boiano (lo stesso è che Bugiano) per averlo? Guadagnò con danari Pandolfo II principe di Capua, acciocchè gli permettesse di prendere il misero Datto. All'improvviso dunque arrivato colle sue soldatesche sotto quella torre, cominciò a tormentarla con assalti e macchine. Per due giorni si difesero quei di dentro, ma in fine colla torre rimasero presi. Alle preghiere dell'abbate Atenolfo, lasciò Bugiano la libertà ai Normanni; ma Datto [Lupus Protospata, in Chronico.] fra le catene e sopra un asinello condotto a Bari nel dì 15 di giugno, a guisa de' parricidi, chiuso in un sacco di cuoio, fu gittato in mare. Secondo gli Annali di Pisa [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.], avea Mugetto re de' Mori, oppure, come io credo, corsaro potente, preso nell'anno precedente castel Giovanni (forse in Sardegna) che era sotto l'arcivescovo di Milano. Nell'anno presente poi con poderosa armata di navi tornò in Sardegna. Allora i Pisani, tirati in lega i Genovesi contra di questo comune nemico, fatto un grande sforzo di navi e di gente, il cacciarono dall'isola, e maggiormente poscia attesero a stabilirsi e fortificarsi in quella vasta isola. Il ricco tesoro d'esso Mugetto, venuto alle lor mani, fu da essi ceduto ai Genovesi in pagamento delle loro spese e fatiche. Il Tronci storico pisano scrive [Tronci, Annal. Pisan.] che Mugetto in quest'anno s'impadronì di nuovo della Sardegna, e che nel seguente ne fu cacciato. E qui combattono gli storici di Pisa con quei di Genova, pretendendo [132] i primi che niun diritto acquistassero i Genovesi sopra la Sardegna, e gli altri sostenendo il contrario; intorno a che li lasceremo duellare. Se parimente vogliam credere al Tronci suddetto, i Pisani divisero poi quell'isola in quattro giudicati, che furono dati in governo a quattro nobili pisani, cioè di Cagliari, di Gallura, di Arborea e di Torri, volgarmente detto Sasseri. E tali giudici arrivarono a tanto fasto, che furono anche nominati regi, e le loro mogli regine. Ma temo io forte che non sieno assai sicure tali notizie, dappoichè ho altrove fatto vedere [Antiquit. Ital., Dissert. V et XXXII.] che in questo medesimo secolo vi era in Sardegna la division dei giudicati, e che quei giudici usavano anche liberamente il titolo di re: il che punto non conviene a chi unicamente fosse stato governatore di quelle contrade per la repubblica pisana. Oltre di che, non v'ha negli atti di quei giudici o re menomo vestigio di dipendenza da Pisa. Anzi da un fatto narrato dall'Ostiense [Leo Ostiensis, Chron. lib. 3, cap. 23.] circa l'anno 1063 si scorge che i Pisani miravano con invidia i Sardi, ed aveano nemicizia con Barasone re di quell'isola. Però si può sospettare che molto più tardi la potenza dei Pisani fissasse il piede nella Sardegna; o almeno meriterebbe questo punto d'essere più sodamente chiamato ad esame. L'insulto fatto alla torre del Garigliano, colla presa e morte crudele di Datto, dovette far rinforzare le istanze e preghiere di papa Benedetto VIII all'Augusto Arrigo, perchè accorresse alla difesa dell'Italia orientale che era in manifesto pericolo di perdersi. Perchè Arrigo, siccome scrive Leone ostiense [Idem, ibidem, lib. 2.] reputans secum, fore ut Graeci amissa Apulia ac principatu, Romam quoque maturarent, Italiamque totam simul amitteret, determinò di tornare, e ben armato, in Italia. Comunemente il Sigonio, il Baronio, il padre Pagi ed altri hanno scritto ch'egli venisse solamente nell'anno seguente.

[133] Ma si ha a tenere per certo che la sua calata fu nell'autunno dell'anno presente, sotto il quale Ermanno Contratto [Ermannus Contract., edition. Canisii.] racconta che Henricus imperator in Italiam expeditionem movit. E l'Annalista sassone [Annalista Saxo apud Eccardum.] aggiugne ch'egli Natale Domini celebravit in Italia. Abbiamo inoltre documenti che ce ne assicurano. Ho io prodotto un insigne placito [Antichità Estensi P. 1, cap. 14.], da lui stesso tenuto in Verona, anno praedicti Domni Heinrici gloriosissimi imperatoris Deo propicio, hic in Italia, octavo, sexta die mensis decembris, Indictione V, cominciata nel settembre di quest'anno. Degno è d'essere rapportato qui il principio di quell'atto: Dum in Dei nomine foris, et non multum longe urbis veronensis, in solario proprio beatissimi sancti Zenonis confessori Christi, quod est constructum juxta praedictum monasterium sancti Zenonis confessoris Christi, in caminata dormitoria ad regalem imperium in judicio resideret domnus gloriosissimus Heinricus Romanorum imperator Augustus, unicuique justitias faciendas, hac deliberandas, residentibus cum eo domnus Popo sanctae aquilejensis ecclesiae patriarcha. Fermiamoci qui per dire che non meritava censura il Sigonio, per avere scritto che Arrigo passò in Italia cum Piligrino coloniensi, et Poppone aquilejensi praesulibus, con pretendersi che non Poppone patriarca di Aquileia, ma bensì Poppone allora arcivescovo di Treveri, ignorato dal Sigonio, quegli fosse che accompagnò in tale spedizione l'imperadore. Perchè l'Ostiense chiamò arcivescovo questo Poppone, perciò si è creduto che sbagliasse il Sigonio. Il Browero [Brovverus, Annal. Trevirens., tom. I.] anch'egli (e poscia il padre Mabillone [Mabillon., in Annal. Benedictin.]), fondato solamente sopra quella parola dell'Ostiense, quasichè il patriarca d'Aquileia non fosse anch'egli arcivescovo, si figurò che il suo Poppone venisse in Italia, e seco menasse [134] un grosso corpo di truppe. Ma noi qui abbiam chiaramente Poppone patriarca d'Aquileia al corteggio dell'imperadore, e non già l'arcivescovo di Treveri, e però salda saldissima resta l'asserzion del Sigonio. Seguitano le parole del placito: Pelegrinus coloniensis, Eribertus mediolanensis, sanctarum dei ecclesiarum archiepiscopis, Johannes veronensis, Leo vercellensis, Siginfredus placentinus, Henricus parmensis, Arnaldus tervianensis (di Trivigi), Ermingerius cenedensis, Rigizo feltrensis, Ludovicus bellunensis, Ugo marchio, ec. De' marchesi d'Italia non si trovò in tale occasione a corteggiare Arrigo, se non Ugo, uno degli antenati della casa d'Este, di cui tornerà occasion di parlare. Fra i pochi che sottoscrissero, si legge ancora Ugo marchio. Era, come abbiam veduto, l'imperadore in Verona nel dì 6 di dicembre. Io il trovo nel dì 10 d'esso mese in Mantova, ciò constando da un suo diploma, dato da esso Augusto in favore d'Itolfo vescovo di quella città, e da me pubblicato [Antiquit. Ital., Dissert. LXXIII.], le cui note guaste, da me allora non esaminate, conviene ora raddirizzare. Tali sono esse nella copia ch'io n'ebbi: Data IIII idus decembris, Indictione V, anno dominicae Incarnationis MXX, anno domni Heinrici regnantis XVIII, imperii vero VII. Actum Mantuae in palatio ejusdem episcopi. L'indizione V cominciata nel settembre ci dà a conoscer che nell'originale sarà stato scritto anno dominicae Incarnationis MXXI, ec. regnantis XX, imperii VIII.


   
Anno di Cristo MXXII. Indizione V.
Benedetto VIII papa 11.
Arrigo II re di Germania 21, imperadore 9.

Nel gennaio dell'anno presente col suo poderoso esercito continuò l'Augusto Arrigo il suo viaggio alla volta della Puglia [Leo Ostiensis. Chron., lib. 2, cap. 39.]. Per la marca di Camerino inviò [135] il patriarca Poppone con quindicimila combattenti contra de' Greci; e per quella di Spoleti e del ducato romano spedì Piligrino, ossia Piligrimo arcivescovo di Colonia, con altri ventimila armati verso Monte Casino e verso Capua, ad oggetto di prendere Atenolfo abbate e il principe di Capua Pandolfo IV suo fratello, amendue proclamati come segreti fautori dei Greci, e che avessero tenuta mano alla morte di Datto. L'abbate non volle aspettar questo turbine, e se ne fuggì ad Otranto con disegno di passare a Costantinopoli. Ma imbarcatosi e colto da una fiera burrasca, lasciò con tutti i suoi la vita in mare. Saputasi dall'arcivescovo la di lui fuga, per timore che Pandolfo principe non gli scappasse dalle mani, con isforzata marcia arrivò sotto Capua, e la cinse d'assedio. Allora Pandolfo, che sapea d'essersi colle sue iniquità comperato l'odio dei Capuani, anzi era informato che macchinavano di tradirlo, la fece da disinvolto; ed affidato si venne a mettere in mano dell'arcivescovo Piligrino, con dire che gli dava l'animo di giustificarsi delle imputazioni disseminate contra di lui. Intanto l'Augusto Arrigo era passato all'assedio di Troia, città che, quantunque non fossero per anche terminate le incominciate fortificazioni, pure tante n'avea, e sì copioso presidio di Greci, che si accinse ad una gagliarda difesa. Sotto a quella città fu a lui presentato il principe di Capua, il quale poco mancò che non vi lasciasse la testa, perchè condannato a morte dal pieno consiglio. Ma cotanto si adoperò l'arcivescovo di Colonia, geloso del salvocondotto a lui dato, che gli guadagnò la vita. Posto nondimeno in catene, fu dipoi menato prigione in Germania. Ma non si dee tralasciare, che prima d'imprendere l'assedio di Troia, l'imperadore Arrigo, per attestato di Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chron.], giunse di marzo a Benevento, dove da Landolfo principe, e, come lasciò scritto [136] Epidanno [Hepidannus, Annal. brev. inter Scriptor. Rer. Alem.], a Beneventanis gratulantibus honorifice ac magnifice suscipitur, e fu riconosciuto ivi per sovrano. Di questo ancora ci restano buone testimonianze ne' documenti di quelle contrade, vedendosi il suo nome nei pubblici contratti d'allora, e trovandosi dei placiti tenuti da lui per l'amministrazione della giustizia in quelle parti. Uno di questi si legge nella Cronica del monistero del Volturno [Chronic. Vulturn., P. II, tom. 1 Rer. Ital.], tenuto in territorio beneventano in locum, qui nominatur ad Campum de Petra, ibique in praesentia domni Henrici serenissimi imperatoris, ec. Fu scritto quel giudicato anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi sunt MXXII, et imperante domno Henrico serenissimo imperatore Augusto, anno imperii ejus, Deo propitio in Italia octavo, et dies mense februarii per Indiction. IV (scrivi V). Actum in territorio beneventano. Un altro placito tenne nel mese di marzo di quest'anno in Balva domnus Ambrosius, qui est missus et capellanus domni Henrici imperatoris Augusti. Un altro parimente in essa Cronica si legge, tenuto nell'aprile dell'anno presente da Leone vescovo di Vercelli, e da un altro vescovo deputati a praeclara potestate serenissimi Einrici Augusti, in territorio beneventano juxta ecclesiam sancti Petri apostoli, situs propinquo hanc Beneventi civitatem, ec. Ci fa anche vedere un diploma d'esso Augusto in favore del monistero di santa Sofia di Benevento, rapportato dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 8 in Archiepisc. Benev.], che il medesimo soggiornava in Benevento VI idus martii. Posesi dunque l'imperadore all'assedio della città di Troia, valorosamente difesa da quei cittadini e dalla guarnigione greca, di modo che per tre mesi convenne tener ivi il campo con gran disagio degli assedianti e non minore degli assediati. Radolfo Glabro [Glaber, Hist., lib. 3, cap. 1.], storico di questi tempi, descrive [137] un tal assedio. Era tormentata la città dai mangani e da altre macchine di guerra. Uscirono i cittadini, e ne fecero un falò: perlochè montato forte in collera l'imperadore, fece prepararne dell'altre coperte di crudo cuoio, e continuar le offese. Indarno furono invitati i difensori alla resa con buone condizioni: s'ostinarono essi, perchè lor si faceva credere imminente un gagliardo soccorso. Per questo impazientatosi l'imperadore, gli uscì di bocca, che se potea mettere il piede in quella città, volea mandar tutti quanti a fil di spada. Ma non potendo più i cittadini, allora si rivolsero a chiedere misericordia: al qual fine spedirono fuori della città un romito con dietro tutti i lor fanciulli in processione, che gridavano Kyrie, eleyson, cioè, Signore, abbiate pietà. Arrigo colle lagrime agli occhi ordinò che si rimandassero in città. Tornò il dì seguente il romito coi fanciulli e colle stesse voci, ed, uscito l'imperadore dal suo padiglione, non potè reggere a quel tenero spettacolo, e perdonò a quei cittadini, con che abbattessero quella parte delle mura che aveano fatta resistenza alle sue macchine, e che poi le rifacessero. Lasciato dunque ivi presidio, e presi gli ostaggi, se ne venne a Capua, dove, per attestato dell'Ostiense [Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 42.], diede quel principato a Pandolfo conte di Tiano, senza che s'oda che papa Benedetto VIII pretendesse ivi giurisdizione alcuna temporale. Creò ancora conti, non si sa di qual luogo, Stefano Melo e Pietro, nipoti del già defunto Melo duca di Puglia, co' quali allogò quei pochi Normanni che erano restati in quelle contrade.

Di là passò in compagnia del romano pontefice al monistero di Monte Casino, dove seguì l'elezione di Teobaldo abbate, consecrato poscia dal papa. Pativa l'imperadore dei gravi dolori, e ne fu guarito per intercessione di san Benedetto; per la qual grazia fece dei ricchi regali a quell'insigne santuario. Rapporta [138] il padre Gattola [Gattola, Hist. Monaster. Casinens. P. I.] un diploma, da lui dato allo stesso monistero, con queste note: Anno ab Incarnatione Domini MXXII, Indictione V, anno vero domni Heinrici Romanorum imperatoris Augusti secundi regnantis XXI, imperantis autem nono. Actum in Monte Casino. Non dia fastidio ad alcuni il veder ivi sottoscritto il cancellier Teodorico vice Ebbonis papembergensis episcopi et archicapellani, quando negli altri diplomi questo vescovo di Bamberga porta il nome di Eberardo e di arcicancelliere; perciocchè Ebbone è lo stesso nome di Eberardo; ed egli era anche arcicappellano dell'imperadore, se pure in questi tempi non era lo stesso il grado di arcicancelliere e di arcicappellano. Leggesi inoltre una lettera del medesimo Augusto a papa Benedetto, in cui gli raccomandò efficacemente il monistero imperiale di Monte Casino, sottoscritto colle stesse note cronologiche. Tutti i sopra narrati avvenimenti appartengono all'anno presente; e se il Sigonio li riferì all'anno seguente, non si dee già argomentare che in lui mancasse la diligenza, ma bensì che gli mancarono molte storie e documenti, de' quali noi godiamo ora, disotterrati dagli eruditi. Lo stesso dee dirsi del cardinal Baronio, il quale si figurò che l'imperadore Arrigo si trattenesse sino all'anno seguente in Italia, quando è fuor di dubbio oggidì ch'egli in questo se ne tornò frettolosamente in Germania. Ma prima di accennare il suo viaggio convien qui avvertire, avere scritto Epidanno [Hepidannus, in Annal. brev.], monaco di san Gallo in questo secolo, che l'Augusto Arrigo Trojam, Capuam, Salernum, Neapolim, urbes imperii sui ad Graecos deficientes ad deditionem coegit. Che anche Guaimario III principe di Salerno, atterrito dall'esempio di Capua, riconoscesse per suo sovrano l'imperadore, niuna difficoltà ho a crederlo. Leggesi tuttavia un diploma [Antiq. Ital., Dissert. V.] d'esso Arrigo, conceduto ad [139] Amato II arcivescovo di Salerno, dove è chiamato fidelis noster, dato pridie kalendas junii, Indictione V, cioè nell'anno presente coll'Actum Troje. Potrebbe solo dubitarsi di Napoli. Ma abbiamo ancora Ermanno Contratto che lo conferma con iscrivere sotto il presente anno [Hermannus Contract., in Chron. edit. Canis.]: Beneventum intravit, Trojam oppidum oppugnavit et cepit; Neapolim, Capuam, Salernum, aliasque eo locorum civitates in deditionem omnes accepit.

Era già insorta, durante l'assedio di Troia, la peste, oppure una epidemia nell'esercito dell'Augusto, e questo aveva anche servito a lui di maggiore impulso a perdonare a quel popolo, per isbrigarsi da que' contorni. Si mise dunque in viaggio alla volta della Germania, e dovette passare per la Toscana; avendo io pubblicato un suo diploma [Antiquit. Italic., Dissert. LXIII.] in favore dei Benedettini di Arezzo, dato X kalendas augusti, anno Incarnationis dominicae MXXII, Indictione V, anno domni Heinrici regnantis secundi XXI, imperii vero VIIII. Actum Privaria in comitatu lucense. Perchè a cagion de' calori d'Italia crebbe nell'armata imperiale l'epidemia, che ne fece grande strage, Arrigo in fretta e con poche guardie Alpium cacumina citato transgreditur cursu, come s'ha dall'Annalista e dal Cronologo Sassoni [Annalista Saxo. Chronograph. Saxo.], e, giunto in Germania, raunò un numeroso concilio di vescovi. Crede il padre Solerio della compagnia di Gesù [Acta Sanctor. Bollandi ad diem 14 julii.] che tal concilio sia stato quello di Salingenstad, pubblicato dal Labbe nel tomo IX de' concilii, e tenuto nel dì 12 d'agosto dell'anno presente. Ma se Arrigo, come abbiam veduto, nel dì 25 di luglio era tuttavia nel territorio di Lucca, resterebbe da esaminare come egli potesse compiere in tempo sì stretto il suo viaggio in Germania, e l'adunamento di tanti prelati a quel concilio. Oltre di che, in Salingenstad non si trovò se non l'arcivescovo [140] di Magonza con cinque suoi suffraganei: laddove quel di Arrigo fu composto di moltissimi vescovi. Nel mese di dicembre dell'anno presente il marchese Bonifazio padre della contessa Matilda, insieme con Richilda contessa sua moglie, prese a livello da Landolfo vescovo di Cremona due corti [Antiq. Ital., Dissert. XXXVI.] cum castro inibi habente, e colla lor pieve; ed all'incontro egli cedette al vescovo la corte di Piadena, patria del celebre storico Bartolomeo Platina. Assistè al contratto Tadone conte di Verona. E in questi tempi fiorì nel monistero della Pomposa Guido abbate rinomato per la sua santità, siccome ancora Guido monaco di patria aretino, a cui ha non poche obbligazioni il canto fermo, da lui riformato ed insegnato colle sue regole. Trovasi tuttavia scritto a penna un suo trattato de musica col titolo di Micrologus, di cui ancora fa menzion Donizone nella vita della contessa Matilda.


   
Anno di Cristo MXXIII. Indizione VI.
Benedetto VIII papa 12.
Arrigo II re di Germania 22, imperadore 10.

Secondochè abbiam dal predetto Donizone [Donizo, in Vita Comitiss. Mathild., lib. 1, cap. 5 et 6.], ebbe il marchese Bonifazio, padre della poco fa mentovata Matilda, due fratelli. L'uno fu, non Tebaldo, come scrisse il padre Pagi [Pagius, in Crit. ad Annales Baron.], ma Teodaldo ossia Tedaldo, che vescovo di Arezzo vien lodato da quello storico per la sua religione, continenza ed avversione ai simoniaci. Questi nell'anno presente fece una donazione ai Benedettini d'Arezzo [Antiquit. Italic., Dissert. XXXVI.], mense augusti, Indictione sexta, da me data alla luce. L'altro, cioè Corrado, era giovane di molto fuoco. Cercarono gli emuli di questa famiglia di mettere la discordia fra esso lui e [141] Bonifazio fratello maggiore, ma loro non venne fatto. Non si sa poi nè il tempo nè il perchè si fece una gran raunata di gente ex regno toto contra di questi due fratelli, che venne a trovarli sino a Coviolo, un miglio e mezzo lungi da Reggio. Quivi seguì un sanguinoso fatto d'armi. Bonifazio vi fece di molte prodezze; pure gli convenne ritirarsi, quand'ecco uscire di un bosco il fratello Corrado con cinquecento cavalli, che l'incoraggì a tornare in campo contra de' nemici. Rinforzossi la battaglia, e finalmente dai due fratelli fu messa in rotta l'armata nemica. In quel conflitto riportò Corrado una ferita, che fu bensì curata; ma perchè il giovane non s'ebbe riguardo alcuno da lì innanzi nel giocare e mangiare, da lì a più anni, post plures annos, come si ha da Donizone (e non già in quel fatto d'armi, come scrisse il Sigonio), essa ferita il portò all'altro mondo nel dì 13 di luglio dell'anno 1030.

Anni terdeni tunc Verbi mille sereni.

Ci porta questo a conoscere che oramai i popoli della Lombardia cominciavano a farsi guerra l'uno all'altro, senza dipendere dai ministri imperiali che governavano il regno d'Italia e le particolari città. Il che non vuol dire che i conti e marchesi perdessero la loro autorità sopra de' popoli; ma anch'essi coi lor popoli faceano guerra agli altri, e, come si può credere, senza chiederne licenza all'imperadore: il che in addietro non leggiamo che si praticasse. E di qui avvenne che a poco a poco andò crescendo l'ardimento ne' Lombardi, con giugnere finalmente, siccome vedremo, ad erigere in repubblica le loro città. Confermò in quest'anno l'Augusto Arrigo al monistero di Monte Casino, e a Tebaldo abbate di quel sacro luogo, tutti i suoi privilegii con diploma dato [Gattola, Hist. Monaster. Casinens., Part. I.] II nonas januarii, anno dominicae Incarnationis MXXIII, anno vero domni Henrici [142] regnantis XXI, imperii vero ejus VIIII, Indictione sexta. Actum Poderbrunnon, cioè in Paderbona. Ci ha anche conservato il registro di Pietro Diacono, esistente in quell'insigne badia, il diploma con cui esso imperadore nonis januarii, Indictione VI, anno Domini MXXIII, concedette principibus inclitis nostris, quidem fidelibus dilectis Pandulfo et Johanni filio ejus, principatum Capuae cum omnibus ad eum pertinentibus, ita videlicet ut avus ejus Pandulfus tenuit, exceptis abbatibus imperialibus sancti Benedicti de Monte Casino et sancti Vincentii. Leggesi ancor questa concessione presso il padre abbate Gattola, ed è degna di attenta considerazione. Nella copia del diploma, con cui lo stesso Arrigo primo tra gli imperadori si dice che nell'anno 1014 confermò alla Chiesa romana i di lei Stati, leggiamo in partibus Campaniae Sora, Arces, Aquinum, Arpinum, Theanum, Capuam, città componenti il principato di Capua. Quando ciò fosse stato, non si può già credere sì privo di memoria, nè sì mancante di religione Arrigo I, imperadore santo, ch'egli avesse dopo investito d'essa Capoa e del suo principato Pandolfo e Giovanni suo figliuolo. E se pur fatto l'avesse, avrebbe reclamato il romano pontefice: del che niun vestigio apparisce. Che dunque si ha da dire della copia del diploma dell'anno 1014 rapportata dal cardinal Baronio? Abbiamo poi da Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chron.] che in quest'anno venit Raya (ossia Rayca) cum Saffari Criti Barum mense junii, et obsedit eam uno die. Et amoti exinde comprehenderunt pelagianum oppidum. Et fabricatum est castellum in Motula. Erano questi due assediatori di Bari Pugliesi ribelli ai Greci, e riuscì loro di prendere la terra di Pelagiano, ossia di Corigliano, come ha un altro testo. Sotto quest'anno Poppone, patriarca d'Aquileia, per quanto narra il Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Italic.], fidatosi nell'appoggio dell'imperadore, mosse lite al [143] patriarca di Grado davanti a papa Benedetto, chiamandolo usurpatore di quel titolo, e pretendendolo soggetto alla sedia sua. Accadde che per dissensioni nate in Venezia fu obbligato Ottone Orseolo doge di ritirarsi in Istria come esiliato in compagnia di Orso patriarca di Grado suo fratello. Si prevalse Poppone di tal congiuntura per entrare coll'armi in Grado, e dopo avere spogliato ed abbattuto più di una chiesa ed alcuni monisteri, quivi lasciò una guarnigione di suoi soldati. A questo colpo si ravvidero i Veneziani, (e forse nell'anno seguente), richiamato il doge col patriarca fratello, passarono con grandi forze a Grado, e ripigliarono quella città ed isola, con iscacciarne le genti del patriarca d'Aquileia.


   
Anno di Cristo MXXIV. Indizione VII.
Giovanni XIX papa 1.
Corrado II re di Germania e d'Italia 1.

Mancarono in quest'anno alla repubblica cristiana i suoi due primi luminari, cioè il papa e l'imperadore. Forse il primo fu papa Benedetto VIII che terminò il suo pontificato, per quanto si crede, nel mese di giugno, come osservò il padre Pagi [Pagius, ad Annal. Baron.]. Ebbe per successore Giovanni XIX, soprannominato Romano, fratello del predefunto Benedetto, ma papa screditato da Glabro [Glaber, Hist. Mediolan., lib. 4, cap. 1.] e dal cardinal Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.], perchè di laico ch'egli era coll'intercessione della pecunia guadagnati i voti, salì sul trono pontificio. Uno eodemque die et laicus et pontifex fuit, dice Romoaldo salernitano [Romuald. Salern., Chron., tom. 7 Rer. Ital.]; il che fu contra gli antichi canoni. Che l'assunzione sua seguisse per la prepotenza dei conti Tuscolani, lo scrive il porporato Annalista, del che io non veggo le pruove. Glabro solamente attesta che fu l'efficace mezzo dell'oro che il portò in [144] alto: e questo dire, se è vero, ferisce chiunque l'elesse. Quanto all'imperadore, abbiamo da Wippone [Wippo, in Vita Conradi Salici.], da Ermanno Contratto [Hermannus Contractus, edit. Canis.], e da altri antichi storici ch'egli fu chiamato da Dio ad un regno migliore nel dì 13 di luglio dell'anno presente, e gli fu data sepoltura nella sua prediletta città di Bamberga. Imperadore, le cui molte virtù, e massimamente l'insigne pietà, coronata da varie gloriose azioni, meritarono ch'egli fosse scritto nel catalogo de' santi, con celebrarsene anche la festa nel dì 14 d'esso mese, giorno probabilmente della sua sepoltura. Consegnò egli prima di morire ai parenti l'imperadrice Cunegonda sua moglie, vergine, per quanto la fama divulgò, quale l'avea ricevuta; principessa anch'ella dotata di sì luminose virtù, che non men del marito arrivò a conseguir la laurea dei santi. Per gloria di lei, e per documenti delle strane vicende, alle quali sono esposti anche i migliori, non si vuol tacere che così santa principessa [Vita S. Cunegund., cap. 2.] fu accusata d'infedeltà all'Augusto suo consorte. Si esibì ella di provare l'innocenza sua colla pruova del fuoco, usata in que' secoli d'ignoranza; e però co' piedi nudi senza lesione alcuna passeggiò sopra dodici ferri roventi. Ma di questo gran fatto, nè della verginità di Cunegonda noi non abbiamo testimonio alcuno contemporaneo che incontrastabilmente ce ne assicuri; ed ella potè senza di questo essere principessa di rara santità. Le vite de' Santi scritte lungo tempo dopo la lor morte son suggette a varii riguardi, perchè la fama, che cresce in andare, aggiugne talvolta quello che non fu.

Venne dunque colla morte di santo Arrigo a vacare l'imperio romano col regno della Germania e dell'Italia. L'essere egli mancato senza prole, aprì il campo alle pretensioni di varii principi, e per [145] conseguente alla discordia. Secondo l'attestato di Wippone, storico di quei medesimi tempi [Wippo, in Vit. Conradi Salici.], i due principali concorrenti furono due Canoni, cioè due Corradi, i quali per distinzione erano appellati, a cagion dell'età, l'uno il maggiore, l'altro il minore, cugini germani. Era nato il maggiore da Arrigo duca della Franconia, il secondo da Corrado, che vedemmo duca di Carintia e marchese di Verona, amendue fratelli ancora di Gregorio V papa. Ottone avolo dei suddetti due cugini, figliuolo di Liutgarda nata da Ottone il Grande, fu anche egli duca di Franconia. Però questi due principi, siccome discendenti dal sangue di Ottone I Augusto, furono creduti i più propri per succedere; e fra questi due competitori fu amichevolmente conchiuso che quegli sarebbe re, il quale riportasse più voti. Cadde pertanto l'elezione in Corrado il maggiore, figliuolo d'Arrigo, che fu poi appellato per soprannome il Salico. Scrivono che Arrigo Augusto nell'ultima sua infermità consigliò i principi ad eleggere questo, siccome principe di gran valore e senno. E non furono già i sette elettori che diedero il re alla Germania, ma bensì tutti i vescovi, duchi e principi di quel regno che concorsero nella scelta di lui, come attesta il medesimo Wippone. Vi furono invitati anche i principi d'Italia, ma non giunsero a tempo. Nel dì 8 di settembre in Magonza seguì la coronazione germanica di Corrado il Salico; e per allora si tacque il minore Corrado, benchè mal contento d'essergli stato posposto. Ma appena il popolo di Pavia ebbe intesa la morte del santo imperadore Arrigo, che, ravvivando la non mai estinta rabbia per l'atroce danno inferito da lui, o, per dir meglio, dai suoi soldati alla loro città, nè sapendo qual altra vendetta fare, proruppero in una sollevazione, e corsi ad atterrare il palazzo regale, lo ridussero in un monte di pietre. Tunc Papienses in ultionem incensae urbis, regium, [146] quod apud ipsos erat, destruxere palatium: sono parole di Arnolfo storico milanese [Arnulfus, Hist. Mediol., lib. 2, cap. 1.]. Udiamo anche Wippone [Wippo, in Vit. Conradi Salici.]: Erat, dice egli, in civitate papiensi palatium a Theodorico rege miro opere conditum, ac postea ab imperatore Ottone tertio nimis adornatum. Questo è il palazzo che, secondo Wippone, diruparono i Pavesi. Ne dubito io. Siccome abbiam veduto all'anno 1004 restò incenerito nella sedizione insorta in Pavia il regal palazzo, e i Pavesi furono condannati a rifarlo, oppure a fabbricarne un nuovo. Così di Arrigo scrive Ugo flaviniacense [Ugo Flaviniacens., in Chron. ad ann. 1013.]: Papiam veniens, ab eis miri operis palatium sibi construi fecit. Questo dunque, e non già il palazzo di Teoderico, dianzi rovinato, dovette più verisimilmente restar nell'anno presente vittima del furor de' Pavesi. Per altro motivo ancora (bisogna confessarlo) s'indusse quel popolo a tal risoluzione, perciocchè i regali palagi, siccome altrove abbiam detto, solevano essere fuori delle città primarie, affine appunto di schivar gli accidenti funesti che per sua mala sorte provò Pavia; e perciò rincresceva al popolo pavese di vedere il suo piantato nel cuore della loro città. Totumque palatium (seguita a dire Wippone) usque ad imum fundamenti lapidem eruebant, ne quisquam regum ulterius infra civitem illam palatium ponere decrevisset.


   
Anno di Cristo MXXV. Indizione VIII.
Giovanni XIX papa 2.
Corrado II re di Germania 2.

Non mancarono principi d'Italia che, concordi nel genio col popolo di Pavia, abborrivano di aver più in Italia re, o imperadori tedeschi, i quali doveano forse parer loro troppo gravosi. Fra questi specialmente ci fu Maginfredo marchese chiarissimo di Susa, con Alrico vescovo d'Asti suo fratello, e i marchesi progenitori della casa d'Este, cioè Ugo ed Alberto [147] Azzo I. Siccome osservò il Beslì [Beslius, de vera orig. Hugon. Reg.], si voltarono essi a Roberto re di Francia, esibendo a lui la corona del regno d'Italia; e quando a lui non piacesse, almeno ad Ugo suo figliuolo, già dichiarato collega nel regno. Ma egli non se ne volle impacciare, perchè non gli piaceva di tirarsi addosso una guerra col re Corrado. Glabro [Glaber, lib. 3, cap. 9.] scrive, in parlando del medesimo Ugo, che ubique provinciarum percitus peroptabatur a multis, praecipue ab Italis, ut sibi imperaret, in imperium sublimari. E nei versi fatti sopra la morte di lui:

Omnis quem prona proscebat Italia,

Caesar ut jura promeret regalia.

Perduta questa speranza, e tanto più perchè esso giovinetto Ugo fu rapito dalla morte in quest'anno nel dì 17 di settembre, passarono que' marchesi a tentare Guglielmo IV duca d'Aquitania, oppure suo figliuolo Guglielmo V. Fulberto vescovo di Chartres così ne scrive a Roberto re di Francia [Folbertus, Epistol. 54 et 55.]: Guillelmo Pictavorum comes (lo stesso è che il duca d'Aquitania) herus meus loquutus est mihi nuper dicens, quod postquam Itali discesserunt a vobis, diffisi, quod vos regem haberent, petierunt filium suum ad regem. Quibus ille invitus coactusque respondit, tamdem acquiescere se voluntati eorum. Ma per non imbarcarsi male a proposito, fece il duca Guglielmo avvisare per mezzo del conte d'Angiò il re Roberto dell'esibizion fattagli dagli Italiani; e ch'egli l'accetterebbe, qualora il re volesse secondarlo e muovere all'armi i duchi della Lorena contro il re Corrado: al qual fine gli offeriva una buona somma di danaro. Nè questo gli bastò. Volle in persona venir egli in Italia, per meglio scandagliare gli animi e le forze di questi principi. Ma qui non trovando quella concordia che occorreva in un affare di tanta importanza, [148] e non gli piacendo certe condizioni che si dimandavano dai principi italiani, se ne tornò in Guienna, e si diede a disfare la tela ordita. In una lettera [Fulbertus, Epistol. 58.], da lui scritta a Maginfredo marchese, gli dice: Quod coeptum est de filio meo, non videtur mihi ratum fore, nec utile, neque honestum. Gens enim vestra infida est. Insidiae graves contra nos orientur. Però il prega di rompere con buon garbo questo negozio. Odasi ancora Ademaro, monaco di santo Eparchio, che nella sua Cronica scrive: [Apud Labbe Bibliothec. MSS. tom. I.] At vero Langobardi, fine imperatoris (Henrici) gavisi, destruunt palatium imperiale, quod erat Papiae, et jugum imperatorium a se excutere volentes, venerunt multi nobiliores eorum coram pictavam urbem ad Willelmum ducem Aquitanorum, et eum super se regem constituere cupiebant. Qui prudenter cavens cum Willelmo comite Engolismae Langobardorum fines penetravit, et diu placitum tenens cum ducibus Italiae, nec in eis finem (o piuttosto fidem) reperiens, laudem et honorem eorum pro nihilo duxit. Leone, vescovo di Vercelli, uno di quelli fu che si sbracciò non poco per tirare in Italia l'amico suo duca d'Aquitania. Leggesi una lettera faceta del duca ad esso Leone, nella quale venendo poi al serio, scrive [Fulbert., Epist. 126.]: Longobardos non arguo deceptionis, quam in me exercere vellent. Quantum enim in ipsis fuit, partum erat mihi regnum Italiae, si unum facere voluissem, quod nefas judiravi: scilicet, ut ex voluntate eorum episcopos, qui essent Italiae, deponerem, et alios rursus illorum arbitrio elevarem. Sed absit, me rem hujusmodi facere, ec. Ecco quanta fosse la pietà e saviezza di quel principe.

In occasione di questi trattati passò, come vedemmo, in Francia Ugo marchese, uno degli antenati estensi, per indurre il re Roberto ad accettar la corona d'Italia, e, passando per la città di Tours, quivi si fermò per due giorni affin di [149] soddisfare alla divozione sua verso san Martino. Questa notizia ci è somministrata da una carta dell'archivio di quei canonici, dove si legge [Martene, Thesaur. nov. Anecdot. tom. I, pag. 51.]: Orta est querela canonicorum sancti Martini, circa quosdam marchiones Italiae, Bonifacium videlicet, Albertum, et Aczonem, Otbertum, et Hugonem, propter terras beati Martini de Italia, quas injuste tenebant. Quorum Hugo accidit, ut in terra legationis causa Robertum Francorum regem adiret, et per sanctum beati Martini locum transiret, ec. Siccome ho altrove dimostrato, erano questi principi della famiglia de' marchesi appellati poscia d'Este. Soddisfece il marchese Ugo a que' canonici. Ora il negoziato fin qui esposto de' principi d'Italia per iscuotere il giogo tedesco per la maggior parte fu fatto nel precedente anno, e terminò poi nel presente. Tra perchè abortirono le speranze concepute di avere un re dalla parte della Francia, e perchè l'unire e tener unite tante teste, era cosa più che difficile, Eriberto arcivescovo di Milano, il primo fra' principi di Lombardia, prese il partito suo, e, seguitato da moltissimi altri, andò in Germania a darsi al re Corrado, e a promettergli la corona del regno italico, ogni volta ch'egli calasse in Italia. L'abbiamo da Arnolfo storico milanese [Arnulf., Hist. Mediol., lib. 2, cap. 1.]. Factum est (scrive egli) ut simul convenientes in commune tractarent de constituendo rege primates. Diversis itaque in diversa trahentibus, non omnium idem fuerat animosus. Interque talia fluctuante Italia, suorum comparium declinans Heribertus consortium, invitis illis ac repugnantibus adiit Germaniam, solus ipse regem electurus teutonicum. Quumque Teutones sibi Chuonradum eligerent, eumdem ipsum laudavit, omniumque in oculis coronavit. Ma non sussiste che Eriberto intervenisse all'elezion germanica, e molto meno che egli coronasse Corrado, nè che v'andasse solo. Un autore meglio informato, che [150] era allora in corte d'esso Corrado, cioè Wippone [Wippo, in Vita Conradi Salici.], ci assicura che il suo re, venuto alla città di Costanza, quivi celebrò la Pentecoste, che cadde nel dì 6 di giugno dell'anno presente. Ibi archiepiscopus mediolanensis Heribertus cum ceteris optimatibus italici regni occurrebat, et effectus est suus, fidemque sibi fecit per sacramentum et obsidum pignus, ut quando veniret cum exercitu ad subjiciendam Italiam, ipse eum reciperet, et cum omnibus suis ad dominum et regem publice laudaret, statimque coronaret. Similiter reliqui Langobardi fecerant (fecerunt) propter (praeter) Ticinenses, qui et alio nomine Papienses vocantur, quorum legati aderant cum muneribus et amicis, molientes ut regem pro offensione civium placarent, quamquam id adipisci a rege juxta votum suum nullo modo valerent. Tenevasi offeso il re, perchè i Pavesi avessero demolito il palazzo imperiale. E questi dicevano: Chi abbiamo noi offeso? Finchè l'Augusto Arrigo è vivuto gli siamo stati ubbidienti e fedeli. Morto lui, non avendo noi re, nè obbligo verso chi non era per anche nostro re, abbiamo smantellato un palazzo, su cui niun, fuorchè noi, aveva diritto. Ma Corrado non l'intendeva così, pretendendo che se moriva il re, il regno nondimeno vivo restava; e che quel palazzo era del re d'Italia e non de' Pavesi. Per questo motivo senza pace se ne tornarono indietro gli ambasciatori di Pavia. Reliqui vero Italici amplissimis donis a rege honorati in pace dimissi sunt. Nè già i Pavesi ricusavano di rifabbricare quel palazzo regale che era loro di gloria, ma lo volevano fuor di città. Corrado all'incontro lo voleva dentro, come prima. In ciò consisteva la lor discordanza. In questo anno propriamente, siccome osservò il padre Mabillone [Mabill., Annal. Benedict.], ed io ancora [Rer. Ital., tom. VI. Praefat. ad Vit. Abbat. Cavens.], ebbe principio il celebre monistero della Cava nel principato [151] di Salerno per cura di Guaimario III principe di quelle contrade. Il suo primo abbate fu santo Adelferio ossia Alferio. Abbiamo ancora da Leone Ostiense [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 58.] e dall'Anonimo casinense, che in quest'anno Pandolfo IV principe di Capua, già condotto prigione in Germania dal defunto Arrigo Augusto, ad intercessione dello stesso Guaimario, ottenne la sua libertà, e tornossene tutto umile e mansueto, secondo le apparenze, in Italia, con accignersi dipoi a ricuperare il perduto principato.


   
Anno di Cristo MXXVI. Indizione IX.
Giovanni XIX papa 3.
Corrado II re di Germania 3, d'Italia 1.

Ancorchè nell'anno addietro tendessero alla ribellione, e facessero varii movimenti contra del re Corrado, il giovine Corrado duca di Franconia, Ernesto duca di Alemagna, ossia di Suevia, e Guelfo conte suevo, figliastro del medesimo Ernesto, e Federigo duca di Lorena [Hermannus Contractus, in Chron.] con altri probabilmente mossi da Roberto re di Francia, che già faceva conto di pescare nel torbido: pure, tal fu l'industria e il senno d'esso re Corrado, che seppe quietar questi rumori, e dissipare in gran parte le alleanze tramate contra di lui. Però non sì tosto si vide quieto in Germania, che si accinse a calare in Italia, per prevalersi della buona disposizione che avea trovato ne' principi di Italia e nel romano pontefice in favore di lui. Per attestato di Arnolfo storico [Arnulf., Histor. Mediolanens., lib. 2, cap. 2.], l'arcivescovo Eriberto gli avea già guadagnati gli animi di quasi tutti, parte con fatti e parte con isperanze di premii. Per tanto s'incamminò egli alla volta dell'Italia, seco menando un poderoso esercito [Wippo, in Vit. Conradi Salici.]. Per Verona passò a Pavia, e trovando chiuse le porte di quella città [152] andò a Vercelli, dove celebrò la santa Pasqua nel dì 10 di aprile. In ipsis diebus paschalibus Leo ejusdem civitatis antistes, vir multum sapiens, mundum cum pace reliquit, cui Ardericus mediolanensis canonicus successit. Adunque circa il tempo della quaresima, come vuole Ermanno Contratto, dell'anno presente era allora Leone vescovo di Vercelli; pertanto è da vedere come l'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 4.] metta in questi tempi vescovo di quella città Pietro, tenuto ivi per santo, con dire ch'egli morì nel dì 13 di febbraio di quest'anno 1026. Secondo il suddetto storico Arnolfo, veniens Conradus Italiam, ab Heriberto archiepiscopo, ut moris est, coronatur in regno. Vogliono gli storici milanesi ch'egli fosse coronato nella basilica di santo Ambrosio, allora fuori di Milano. Buonincontro, storico di Monza, aggiugne [Bonincontr., Chronic. Modoet. tom. 12 Rer. Ital.] che questo re ab Henrico archiepiscopo Mediolani, primo in Modoetia, postea Mediolani in sancto Ambrosio coronatur. Neppur sapea questo scrittore che allora sedea nella cattedra di santo Ambrosio Eriberto arcivescovo: laonde neppur noi sappiamo cosa sia da credergli in questo particolare. La verità si è, che la coronazione in re d'Italia si dee tenere per certa; ma, per conto del tempo e del luogo, questo tuttavia resta involto nelle tenebre. Persistendo poi Corrado in non volere dar pace ai Pavesi, fece loro quanta guerra potè nel territorio d'essi, con incendiar le castella e le chiese, e far morire di ferro o di fuoco i poveri contadini rifuggiti in que' sacri luoghi, con tagliar tutte le viti e far altre simili azioni abbominevoli e scellerate per un re cristiano, perchè contro quella parte di popolo che niuna colpa avea nel delitto, benchè il buon Wippone le racconti quasi come gloriose prodezze del re Corrado. Ma non si mise egli a far l'assedio di Pavia, perchè la conobbe città forte e piena di popolo, e però capace di far lunga [153] e vigorosa resistenza. Racconta Guiberto [Wibertus, Vita S. Leonis IX, lib. 1, cap. 7.] nella Vita di san Leone IX papa, che questi in età di ventitrè anni, chiamato allora Brunone, correndo l'anno 1025, vice sui pontificis Herimanni in expeditione Conradi imperatoris (suo zio) Longobardiam, et maxime super Mediolanum tunc rebellem, est profectus. S'ingannò Guiberto, e volle dir Pavia; perciocchè Milano era tutto allora per Corrado.

Attese esso re per qualche tempo a sottomettere alcuni gran signori, collegati co' Pavesi, cioè Adalberto marchese e Guglielmo, ed altri principi in quei contorni, con desolare un lor castello chiamato Orba verso i confini oggidì dell'Alessandrino. Passò dipoi a Ravenna, e, come scrive il suddetto Wippone, cum magna potestate ibi regnavit: il che sempre più ci assicura che Ravenna col suo esarcato era allora, anzi da gran tempo, compresa nel regno d'Italia. Ma anche in Ravenna si attaccò una zuffa tra que' cittadini e gl'indiscreti Tedeschi, per la quale fu in armi tutta la città, e si combattè alla disperata fra l'una parte e l'altra, e ne seguì una non picciola strage, colla peggio in fine de' Ravennati. Lo stesso re Corrado, udito il rumore, si fece armare, domandò il cavallo, ed uscì fuor del palazzo. Ma veggendo scappare i cittadini, e salvarsi nelle chiese e nei nascondigli, misertus eorum, quia ex utraque parte sui erant, exercitum de persequutione civium revocavit. Nel dì seguente davanti a lui i primi della città co' piedi nudi e colle spade nude in mano, per segno d'essere degni del taglio della testa, comparvero a chiedere il perdono, e l'ottennero. Grandi furono in quest'anno i calori nell'Italia, e molte perciò le malattie. Affine di custodir la sanità, il re ultra Atim fluvium propter opaca loca et aeris temperiem in montana secessit, ibique ab archiepiscopo mediolanensi per duos menses et amplius regalem victum sumtuose habuit. Che fiume sia questo Ati, nol so. Credo guasta la parola. Parrebbe Athesis, [154] cioè l'Adige; ma le spese a lui fatte sì magnificamente da Eriberto arcivescovo m'inclinano piuttosto a crederlo un luogo del Milanese. Celebrò finalmente in Ivrea la festa del santo Natale, e non già in Ravenna, come si pensò il Sigonio. Riportò in quest'anno Ingone vescovo di Modena la conferma de' beni e privilegii della sua chiesa da esso Corrado con un diploma pubblicato, ma non senza scorrezioni, dal Sillingardi [Sillingard. Calalog. Episcop. Mutinens.] e dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 2.]. Le note son tali nell'originale: Data XIII kalendas julii anno dominicae Incarnationis MXXVI, Indictione nona, anno vero domni Conradi secundi regnantis primo. Actum Cremonae. L'anno primo del regno d'Italia si vede qui adoperato. Si dee anche correggere un diploma d'esso Corrado, dato in Piacenza in favore del monistero di san Salvatore di Pavia [Bullar. Casinens.], e conceduto in quest'anno, e non già nell'anno MXXIII.

Era mancato di vita dopo cinquanta anni d'imperio Basilio imperadore dei Greci nel precedente anno 1025, ed era restato solo imperadore Costantino suo fratello. Pensò questi nell'anno presente alla conquista della Sicilia, che da tanti anni languiva sotto la tirannia de' Saraceni. La spedizione sua è narrata da Lupo Protospata con queste parole [Lupus Protospata, in Chronico.]. Despotus Nicus (forse Andronicus) in Italiam descendit cum ingentibus copiis Russorum, Wandalorum, Turcarum, Bulgarorum, Brunchorum, Polonorum, Macedonum, aliarumque nationum ad Siciliam capiendam. Captum est autem Rhegium, et ob civium peccata destructum est a Vulcano catapano, et Basilius imperator obiit anno secundo. Si dee scrivere Constantinus, come osservò Camillo Pellegrini. La morte di questo imperadore, succeduta nell'anno seguente a dì 9 di novembre, e la peste entrata nell'esercito de' Greci mandò a male tutta quell'impresa. Oreste [155] è chiamato da Cedreno il generale de' Greci, spedito, secondo lui, in Sicilia, quand'anche era vivo Basilio Augusto. Sconvolse in quest'anno la discordia la città di Venezia [Dandulus, in Chronico, tom. 12 Rer. Ital.]. Perchè Ottone Orseolo doge non volle investire Domenico Gradonico ossia Gradenigo juniore, eletto vescovo di quella città, alzossi contra del doge una potente fazione che il depose, e, tagliatagli la barba, il mandò in esilio a Costantinopoli. Orso patriarca di Grado suo fratello, siccome sospetto, fu anche egli in tal congiuntura cacciato dalla sua sedia. In luogo del bandito Ottone venne eletto Pietro Barbolano ossia Centranico. Ma poca quiete provò egli, parte perchè di tanto in tanto si formavano delle sedizioni contra di lui, e parte perchè Poppone patriarca di Aquileia, assistito dagli aiuti del re Corrado, infestava i confini de' Veneziani. Anzi lo stesso Corrado, senza voler confermare gli antichi patti, si mise anch'egli a perseguitare e danneggiar i Veneziani. Secondo l'Anonimo casinense [Anonymus Casinensis, tom. 5 Rer. Ital. Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 58.], Pandolfo IV ritornato libero dalle carceri di Germania, e andando dietro alla ricupera del suo principato di Capoa, uniti tutti i suoi seguaci e fautori, ottenne anche un rinforzo considerabile di armati da Boiano ossia Bugiano generale dell'armi greche, e da Guaimario III principe di Salerno, marito di Gaitelgrima sua sorella. Ebbe anche dalla sua Rainulfo e Arnolfo capi de' Normanni, e i conti di Marsi. Con questo sforzo di gente mise l'assedio a Capoa, che durò, chi scrive sei mesi, e chi un anno e mezzo. Pandolfo conte di Tiano, giù creato principe di Capoa da Arrigo I Augusto, finchè ebbe forza, difese la città; ma in fine la necessità il costrinse a renderla. Affidato dal catapano de' Greci, insieme con Giovanni suo figliuolo e con tutti i suoi aderenti fu condotto a Napoli, e lasciato in libertà. Così Pandolfo IV tornò ad essere principe di Capoa, e dichiarò [156] suo collega nel principato Pandolfo V suo figliuolo. Fu chiamato da Dio in quest'anno nel dì 30 di agosto a miglior vita Bononio abbate di Lucedio nella diocesi di Vercelli. Le sue insigni virtù ed azioni di rara pietà, accompagnate da miracoli, indussero Arderico vescovo di Vercelli a riconoscerlo per santo: il che fu anche approvato dal sommo allora pontefice Giovanni XIX. Nacque Bononio in Bologna, e quivi nel monistero di santo Stefano per alquanti anni visse monaco. La Vita di lui, scritta da autore contemporaneo, si legge presso il padre Mabillone [Mabill., Saecul. VI Benedict., P. I.].


   
Anno di Cristo MXXVII. Indizione X.
Giovanni XIX papa 4.
Corrado II re di Germania 4, imperadore 1.

Nel febbraio dell'anno presente dovette muoversi il re Corrado alla volta di Roma, dove, secondo i maneggi e il concerto seguito fra loro, papa Giovanni XIX era per concedergli la corona imperiale. Un suo diploma [Antiquit. Ital., Dissert. XLV.], dato probabilmente nel febbraio di quest'anno, benchè manchi il mese e il giorno, ci fa vedere in Verona appellato solamente re lo stesso Corrado, cioè non per anche nomato imperadore. Rinieri marchese di Toscana, per quanto ne lasciò scritto Wippone [Wippo, in Vit. Conradi Salici.], con tutta quella provincia, non avea voluto per anche riconoscerlo per re, e stava forte nella ribellione. A quella volta marciò Corrado colla sua armata, cioè con un possente esorcismo per costrignerlo all'ubbidienza. Infatti Rinieri, dopo essersi tenuto chiuso in Lucca per pochi giorni, vedendo la malparata, venne finalmente ad arrendersi. L'esempio di Lucca e del marchese servì a ridurre in breve la Toscana tutta a suggettarsi. Ci mancano documenti per conoscere se dopo questo fatto seguitasse [157] il marchese Rinieri a reggere la Toscana, oppure s'egli fosse deposto, e in luogo di lui creato duca di Toscana Bonifazio marchese, padre dell'inclita contessa Matilda. Inclino io a credere che Bonifazio profittasse di tal congiuntura. Andossene dipoi Corrado a Roma, e quivi nel mercordì santo con sommo onore e magnificenza fu accolto da papa Giovanni e da tutti i Romani. Poscia in die sancto Paschae, qui eo anno VII calendas apriles terminabatur, a Romanis ad imperatorem electus (doveano dunque concorrere anche i Romani col papa all'elezion dell'imperadore) imperialem benedictionem a papa suscepit,

Caesar et Augustus romano nomine dictus.

Ricevette eziandio la sacra unzione e coronazione la regina Gisela sua moglie, figliuola di Erimanno duca di Alemagna. Fu quella gran funzione onorata dalla presenza di due re, cioè di Rodolfo III re di Borgogna, e di Canuto ossia Cnuto re d'Inghilterra, in mezzo ai quali l'Augusto Corrado se ne tornò al palazzo. Ma anche in Roma succedette il medesimo che era avvenuto in Ravenna. Mi sia permesso il dirlo, doveano ben essere allora indisciplinati, barbarie bestiali i Tedeschi. Per ogni picciolo rumore correvano a far laghi di sangue, e sfoggiavano nella crudeltà: dal che poi venne che si tirarono addosso l'odio degl'Italiani, e ne stancarono la pazienza, siccome vedremo. Per un vil cuoio di bue in un dì di quella settimana nacque contesa fra un Romano e un Tedesco, e vennero ai pugni. Invece di spartirli, diede all'armi tutto l'esercito imperiale, e i Romani anch'essi ricorrendo per difesa alle armi loro, fecero una pazza resistenza; ma in fine convenne loro dar alle gambe, et innumerabiles ex illis perierunt. Nel dì seguente i così maltrattati Romani, ante imperatorem venientes, nudatis pedibus, liberi cum nudis gladiis, servi cum torquibus vimineis circa collum, quasi ad suspensionem [158] praeparati, ut imperator jussit, satisfaciebant. Queste furono le allegrezze e consolazioni de' Romani. Se vogliam credere ad Arnolfo storico milanese di questo secolo [Arnulfus, Mediolan. Hist., lib. 2, c. 3.], accadde in occasione della stessa coronazione anche una rissa fra Eriberto arcivescovo di Milano ed Eriberto arcivescovo di Ravenna. Quest'ultimo arditamente si mise alla destra di Corrado. L'arcivescovo di Milano, ciò veduto, e sentendo che il corteggio de' suoi Milanesi, che era grande, incominciava a fare tumulto, e poteane succedere scandalo, saviamente si ritirò. Accortosene Corrado, fermò il passo e disse, che siccome toccava all'arcivescovo di Milano di dare la corona al re d'Italia, per cui si saliva all'imperio; così convenevol cosa era che quel medesimo presentasse il re al papa per ricevere dalle di lui mani la corona imperiale; e però, tolta la man destra all'arcivescovo di Ravenna, giacchè se ne era ito quel di Milano, per parere del pontefice Giovanni XIX, fece supplire le di lui veci ad Alderico vescovo di Vercelli, suffraganeo dell'arcivescovo. Intanto i Milanesi, altercando co' Ravennati, vennero con essi alle mani, e ne seguirono molte ferite, e crebbe sì fattamente la mischia che lo stesso arcivescovo di Ravenna fu obbligato a mettersi in salvo colla fuga. Da lì poi a pochi giorni in un concilio tenuto dal papa fu deciso che l'arcivescovo di Ravenna avesse da cedere la mano a quel di Milano. Lite nondimeno che non finì, e noi la vedremo risorgere all'anno 1047. Abbiamo un diploma di Corrado Augusto [Chron. Farfense, P. I, tom. 2, Rer. Ital.], in cui conferma tutti i suoi beni al monistero di Farfa, dato V kalendas martii, anno dominicae Incarnationis MXXVII, anno vero domni Conradi regnantis III, imperii quoque I. Actum Romae: il che maggiormente ci assicura del tempo della sua coronazione. Ch'egli abitasse fuori di Roma in civitate leoniana, si raccoglie da un suo diploma, dato nonis aprilis [159] dell'anno presente, e da me tolto alle tenebre [Antiquit. Italic., Dissert. LXV.].

L'attività di questo imperadore nol lasciò consumare inutilmente il tempo in Roma. Però da lì a poco marciò egli coll'armata a Benevento e a Capoa; ed esse città, coll'altre di quella contrada, sive vi, sive voluntaria deditione, sibi subjugavit. Diede anche licenza ai Normanni che si trovavano in quelle parti, di abitarvi, e difendere i confini dai tentativi de' Greci. Ciò fatto, ritornò a Roma, e si avviò alla volta dell'Alpi. Era egli in Ravenna nel dì 3 di maggio, e in Verona nel dì 24 di esso mese, come consta da due suoi diplomi pubblicati dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 in Episcop. Patav. et Veronens.], e da uno riferito dal padre Celestino nella Storia di Bergamo. Tanto fece, che in questi viaggi ebbe nelle mani Tasselgardo italiano, grande spogliator delle chiese e delle vedove; e colla sua morte sopra un patibolo liberò non so qual provincia dagl'insulti di costui. Filii Taselgardi quondam comitis si veggono nominati all'anno 1029 nella Cronica del monistero di Farfa [Chronic. Farf. P. II, tom. 2 Rer. Ital.]. In uno strumento ancora da me pubblicato [Antiquit. Italic., Dissert. XIX.], e scritto nell'anno 1045, si trova Tesselgardus comes filius bonae memoriae Tesselgardi comitis ex civitate Beneventi. Sembra che del medesimo personaggio si parli in tali memorie. Mentre queste cose passavano in Italia, Guelfo conte della Suevia, dives in praediis, potens in armis, turbò la quiete della Germania. Impadronitosi della città di Augusta, devastolla, e diede il sacco al tesoro di quel vescovo. Oltre a Corrado duca di Franconia, che faceva di molti preparamenti, anche Ernesto duca d'Alemagna ossia della Suevia, benchè figliastro dell'imperadore, prese l'armi contra di lui. L'arrivo di Corrado ad Augusta dissipò tutti i disegni di que' principi. Guelfo, Ernesto [160] e Corrado vennero all'ubbidienza, e colla prigionia e coll'esilio di qualche tempo pagarono la pena della lor ribellione. Racconta Wippone [Wippo, in Vit. Conradi Salici.], che Corrado per biennium omnes Ticinenses afflixit, donec omnia quae precepit omni dilatione postposita compleverunt. Però si può credere che i Pavesi in quest'anno, indotti a rifabbricar entro la lor città il palazzo regale, tornassero in grazia dell'Augusto Corrado. Circa questi tempi, per quanto si raccoglie da Arnolfo storico [Arnulf., Hist. Mediol., lib. 2, cap. 6.], venne a morte il vescovo di Lodi, e quel popolo, secondo l'antico rito, elesse il successore. Ma Eriberto arcivescovo di Milano, che in ricompensa delle tante fatiche e spese fatte per esaltare l'imperador Corrado, e per potere signoreggiar egli sotto l'ombra di lui in Lombardia, avendo fra gli altri privilegii ottenuto da esso Augusto di poter dare a Lodi quel vescovo che gli piacesse, scelse e conservò vescovo di quella città Ambrosio, uno de' suoi cardinali: che allora molte chiese d'Italia, massimamente le maggiori, avevano i lor cardinali al pari della chiesa romana. Sdegnati i Lodigiani per questa novità, che era anche contra de' canoni, gli fecero la testa. Ma il feroce arcivescovo, messa insieme un'armata, lor mosse guerra, prese all'intorno le lor terre e castella, e portò l'assedio alla stessa città di Lodi. Non potendo di meno que' cittadini, cedettero alla forza, accettarono Ambrosio vescovo, il qual poscia fece ottima riuscita; ma di là nacque un odio implacabile de' Lodigiani contra de' Milanesi, il qual poscia partorì immense ruberie, incendii, e stragi per moltissimi anni avvenire. Credesi che in questo anno terminasse i suoi giorni e le sue mirabili fatiche san Romoaldo abbate istitutore dell'ordine camaldolese, in età di cento venti anni, come lasciò scritto san Pier Damiano [Petrus Damian., in Vita S. Romualdi.]. V'ha chi crede che il Damiano, autore avvezzo a credere e [161] spacciare il mirabile dappertutto, senza avvedersene abbia accresciuto di troppo gli anni di questo santo. Ma intorno a ciò son da vedere le dissertazioni camaldolesi del padre abbate Grandi, celebre letterato, che dottamente ha esaminato questo punto [Grandi, Dissertationes Camaldulenses.]. S'ebbe a male Pandolfo IV, dopo avere ricuperato il principato di Capoa [Anonymus Casinensis, tom. 5 Rer. Ital.], che Sergio duca di Napoli avesse dato ricovero nella sua città a Pandolfo di Tiano, cioè al vinto emulo. E senza di questo, che non fa il mantice dell'ambizione ne' potenti signori [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 58.]? Quando men Sergio se l'aspettava, eccoti Pandolfo colla sua armata volare all'assedio di Napoli, e strignere talmente quella città, che l'obbligò alla resa. Sergio ebbe maniera di fuggirsene; e Pandolfo di Tiano scappò anch'egli a Roma, dove miseramente terminò i suoi giorni. A niuno de' principi longobardi era mai riuscito nei secoli addietro di mettere il piede in Napoli. Questa fu la prima volta, ma Pandolfo neppur egli potè lungamente sostenere una tal conquista, siccome diremo. Nella Cronica del Volturno [Chron. Vulturnense, P. II, tom. 1 Rer. Ital.] si vede che Pandolfo IV e suo figliuolo Pandolfo V contavano nel mese di marzo e di aprile dell'anno seguente 1028 l'anno primo ducatus neapolitani.


   
Anno di Cristo MXXVIII. Indizione XI.
Giovanni XIX papa 5.
Corrado II re di Germania 5, imperadore 2.

Avea nell'anno precedente terminato il corso di sua vita Arrigo duca di Baviera [Annalista Saxo, Hermannus Contractus, in Chron.]; però l'Augusto Corrado scelse per quel ducato la persona più cara ch'egli avesse, cioè il suo stesso figliuolo Arrigo. In quest'anno poscia gli procurò una maggior dosa d'onore, con farlo eleggere [162] re di Germania in età di soli undici anni. La sua coronazione fu solennemente fatta in Aquisgrana nel dì 14 di aprile, cioè nel giorno santo di Pasqua. Abbiam veduto di sopra che Corrado duca di Franconia, ossia di Wormacia, cugino dell'imperadore, restò escluso dal trono imperiale. Da lì innanzi non si quietò giammai, e fece guerra contra d'esso imperadore per più anni, ma con suo grave discapito. Alla perfine l'Augusto Corrado, in riguardo massimamente della parentela, ed anche per compensarlo dei danni a lui recati, perchè gli avea smantellate tutte le sue fortezze, il rimise in sua grazia, gli restituì tutti i suoi stati di Germania; e poi, siccome diremo all'anno 1035, gli fece anche una considerabil giunta e regalo. Chi dopo la morte di Ugo marchese di Toscana, succeduta sul fine dell'anno 1001, succedesse a lui nel governo del ducato di Spoleti e della marca di Camerino, e reggesse quel paese fino a questi dì, non l'ho saputo finora discernere per mancanza di documenti. Nelle giunte da me pubblicate alla Cronica del monistero di Casauria [Chron. Casaur., P. II, tom. 2 Rer. Ital.], noi troviamo chi in quest'anno fosse duca di Spoleti e marchese di Camerino, cioè un altro Ugo. Veggonsi due placiti, tenuti l'uno nella città di Penna, e l'altro nella città di Marsi, anno ab Incarnatione Domini MXXVIII, et imperante domno Chonrado gratia Dei imperatore Augusto, anno imperii ejus in Italia primo, et die mensis januarii, per Indictionem X. Nell'originale sarà stato Indict. XI. Era presidente ad essi placiti Ugo dux et marchio. La pena imposta ai trasgressori è di mille libbre d'oro ottimo, medietatem ad partem imperatoris, et medietatem ad partem praedicti sancti monasterii di Casauria: parole indicanti il dominio dell'imperadore in quella contrada, e che per conseguente ivi si parla del ducato di Spoleti, oppur della marca di Camerino, ossia di Fermo. Probabilmente questo Ugo ebbe per padre Bonifazio juniore duca di [163] Spoleti, come ho conghietturato altrove [Antiq. Ital. Dissert. VI, pag. 987, et Dissert. XV, pag. 855.].

Circa questi tempi succedette quanto lasciò scritto Glabro storico [Glaber, Hist., lib. 4, c. 2.], benchè con qualche imbroglio di cronologia. Cioè in un castello, appellato Monforte, nella diocesi d'Asti, pieno di molti nobili, s'era introdotta un'eresia, con rinnovar i riti dei pagani e de' Giudei. Per quel che dirò, furono costoro piuttosto manichei, giacchè questa mala razza s'era di soppiatto molto prima introdotta in Italia e in Francia, e pur troppo in tutti e due questi regni avea sparse di grandi radici coll'andare degli anni. Saepissime tam Mainfredus marchionum prudentissimus, quam frater ejus Alricus, astensis urbis praesul, in cujus scilicet dioecesi locatum habebatur hujusmodi castrum, ceterique marchiones, ac praesules circumcirca creberrimos illis assultus intulerunt. Ciò che avvenisse di quel castello e di quegli eretici, Glabro lo lasciò nella penna. Ma ne parla ben diffusamente Landolfo seniore [Landulfus senior, Hist. Mediolan. lib. 2, cap. 27.], storico milanese del presente secolo, con dire che Eriberto arcivescovo in questi tempi di Milano, trovandosi in Torino, udì l'eresia degli abitanti del castello di Monforte. Fatto prendere un di coloro, appellato Girardo, volle intendere da lui in che consistesse la setta e credenza di quel popolo. Allegramente espose costui i suoi dommi, e chiaro si scorge che era la eresia de' manichei. Allora Eriberto spedì le sue milizie a quel castello, e fece prendere tutti quanti quegli abitatori, e specialmente la contessa di quel luogo. Fattili condurre a Milano, cercò tutte le vie di ridurli a ravvedimento, ma in vece d'abiurare i loro errori, si misero a sedurre chiunque andava a visitarli. Perciò fu loro intimata la morte, se non ritornavano alla vera fede di Cristo. Alcuni, almeno in apparenza, la [164] abbracciarono; ostinati gli altri vivi furono bruciati. Ma giacchè abbiam parlato qui di Odelrico Magnifredo, ossia Manfredi marchese di Susa, da noi altre volte menzionato, ed onorato da altri scrittori di questi tempi coll'elogio di principe prudentissimo, bene sarà il ricordare ch'egli fondò in quest'anno (come costa da uno strumento presso l'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 4.]) il convento delle monache di santa Maria di Caramania, oggidì nella diocesi di Torino, insieme con Berta contessa sua moglie. Con queste parole si veggono essi enunziati: Nos in Dei nomine Odelricus, qui miseratione Dei Magnifredus marchio scilicet nominatus, filius quondam Magnifredi similiter marchionis, et Berta, auxiliante Deo, jugales, filia quondam Auberti itemque marchionis. Dal che si scorge che Berta sua moglie fu figliuola del marchese Oberto II, progenitore della casa d'Este. Hassi ancora all'anno seguente la fondazione fatta da questi due piissimi consorti, e da Alrico vescovo d'Asti, fratello d'esso marchese, della badia di san Giusto di Susa [Antichità Estensi, P. I, cap. 13.], in cui si vede che Berta avea per fratelli Adalberto marchese, Azzo ed Ugo, che appunto si trovano in questi tempi figliuoli del suddetto marchese Oberto II. Da Azzo vengono i principi estensi.


   
Anno di Cristo MXXIX. Indizione XII.
Giovanni XIX papa 6.
Corrado II re di Germania 6, imperadore 3.

Mordeva il freno Sergio duca di Napoli, perchè cacciato fuori del suo nido da Pandolfo IV principe di Capua, e studiava tutte le vie di rientrare in casa. Dopo due anni e mezzo ch'egli era esule [Anonymus Casinens., tom. 5 Rer. Italic. Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 58.], gli venne fatto di ricuperare il suo principato, e per conseguente o sul fine di quest'anno, oppur nell'anno seguente. [165] Probabilmente gli prestarono aiuto per mare i Greci, perchè Napoli fin qui s'era sempre tenuta salda sotto la sovranità degl'imperadori d'Oriente, benchè i suoi duchi, appellati anche maestri de' militi, godessero una piena signoria in quella città e nelle sue dipendenze. Sembra anche certo che a tale impresa concorressero in aiuto suo i Normanni, i quali andavano crescendo in quelle contrade; gente che sapeva pescare nel torbido, e seguitava senza scrupolo ora l'uno, ora l'altro di que' principi, anteponendo sempre chi gli dava o prometteva di più. Nè mancavano a Sergio dei partigiani nella stessa città di Napoli; e però ne tornò felicemente in possesso. Si sa ch'egli donò un delizioso e fertile territorio fra Napoli e Capoa (senza fallo per guiderdone del buon servigio), ai Normanni con crear conte Rainulfo capo de' medesimi, e imparentarsi seco. Allora fu che i Normanni si diedero a fabbricar case in quel sito che a poco a poco divenne una città chiamata Aversa, di cui fu il primo conte il predetto Rainulfo, e che servì di baluardo da lì innanzi contro la potenza de' principi di Capoa. Il trovarsi poi così ben agiati e favoriti in Italia i Normanni, e la fama delle lor delizie portata in Normandia, andava facendo venire di colà nuovi compagni nella Campania a partecipar della fortuna e felicità de' lor nazionali. Abbiamo da Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] che in quest'anno fu mandato in Italia per catapano ossia generale de' Greci Cristoforo, e che Bugiano con Oreste se ne tornò a Costantinopoli. Aggiugne il suddetto Cronista che mense julii venit Potho catapanus, fecitque pugnam cum Rayca in Baro. Tanto son corte queste memorie, che non si arriva a distinguere nè le persone, nè le azioni succedute in que' paesi. Tuttavia assai traluce dello Anonimo barense [Anonymus Barensis, Chron., tom. 5 Rer. Italic.], che dopo la morte di Melo questo Rayca si fece capo dei Pugliesi [166] ribelli ai Greci. Abbiamo di nuovo sotto quest'anno memoria di Ugo marchese, uno degli antenati della casa di Este, in uno strumento dato alla luce dal Campi [Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1 Append.] e scritto colle note seguenti: Conradus gratia Dei imperator Augustus, anno imperii ejus, Deo propitio, secundo, X kalendas februarii, Indictione XII, che indicano l'anno presente. Egli è quivi chiamato Ugo marchio filius bonae memoriae Oberti, qui fuit item marchio. È magnifica la compra ch'egli fa di una gran quantità di beni, ascendenti secondo la misura a diecimila iugeri, che, secondo il Campi, danno centoventimila pertiche. Fra questi beni posti ne' territorii di Pavia, Piacenza, Parma e Cremona, si contano varii castelli, rocche, corti e chiese, che si trovano poi confermate nell'anno 1077 da Arrigo III, detto il IV, alla casa d'Este. Così coll'una mano raunava questo principe delle ricchezze, ma coll'altra ne faceva anche parte ai sacri luoghi. Perciocchè in quest'anno appunto, oppure nel 1038, come vuole il Campi, si osserva in un altro suo strumento [Antichità Estensi, P. I, cap. 12.] che egli dona alla cattedrale di Piacenza due porzioni della decima di Portalbero, e la terza alla chiesa di santa Maria de ipso loco Portalbero. Molt'altri effetti della sua pietà e munificenza verso le chiese ci ha nascoso il tempo; ma non ci è ignoto che egli magnificamente arricchì l'antica badia della Pomposa, situata oggidì nel distretto di Ferrara, e governata dal vivente allora Guido abbate, uomo santo, di cui si è parlato di sopra. Arrigo II fra gl'imperadori in un suo diploma, da me dato alla luce nelle Antichità estensi, e scritto nel settembre dell'anno 1045, chiama essa badia ab Ugone marchione magnifice ditatam, e le conferma quidquid sibi junior Ugo marchio filius Uberti dedit. L'anno in cui questo principe mancò di vita, è a noi ignoto. Probabilmente non molto sopravvisse dopo l'anno presente. Ebbe [167] moglie, ma non apparisce ch'egli lasciasse dopo di sè figliuoli: laonde la sua eredità pervenne al marchese Alberto Azzo I suo fratello, se era vivo, oppure al marchese Alberto Azzo II suo nipote, del quale comincieremo a parlar da qui innanzi. Fu di parere l'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Archiepiscop. Ravenn.], che Eriberto arcivescovo di Ravenna passasse a miglior vita nell'anno 1027. Non ne adduce alcuna pruova. Ben certo è per uno strumento addotto da Girolamo Rossi [Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5.], che si truova in quest'anno, anno quarto Johannis papae, imperante Chuonrado anno tertio, die XI aprilis, Indictione XII, arcivescovo di quella città Gebeardo. In vece di anno quarto, avrà avuto la pergamena anno V, oppure VI, e il Rossi per isbaglio avrà letto anno IV. Egli stesso confessa, che nell'anno seguente 1030 a dì 6 di giugno correva tuttavia l'anno VI di papa Giovanni XIX. In un documento, da me dato alla luce [Antiquit. Ital., Dissert. VI, pag. 341.], torna a farsi vedere il marchese di Susa Odelrico Magnifredo, ossia Manfredi, il quale si protesta figliuolo di un altro Magnifredo marchese. Di questo principe avremo occasion di parlare in breve.


   
Anno di Cristo MXXX. Indizione XIII.
Giovanni XIX papa 7.
Corrado II re di Germania 7, imperadore 4.

Insorse in quest'anno guerra fra l'imperador Corrado e Stefano primo re d'Ungheria, principe santo, per colpa non già degli Ungheri, ma bensì dei Bavaresi lor confinanti [Annales Hildesheim. Wippo, in Vita Conradi Salici.]. Mosse Corrado un potente esercito a quella volta, e giunse fino al fiume Rab. Seguirono saccheggi ed incendii sì nell'Ungheria che nella Baviera. Ma il buon re Stefano, a cui non piaceva questa brutta musica, e che si trovava [168] anche inferiore di forze, con una ambasciata spedita al giovinetto re Arrigo dimandò pace; e questi dall'Augusto Corrado suo padre l'ottenne. Circa questi tempi Pandolfo IV principe di Capoa, ingrato ai benefizii a lui compartiti da Dio, tornò ad imperversar come prima contra del nobilissimo monistero di Monte Casino, nulla curando che quel sacro luogo fosse sotto l'immediata signoria e protezion degl'imperadori [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 58 et seq.]. Chiamò a Capoa Teobaldo abbate con invito di gran benevolenza, e il forzò a non partirsi da quella città. Si fece giurar fedeltà da tutti i sudditi di quella badia, distribuì ai Normanni, allora suoi aderenti, una parte delle castella dipendenti da esso monistero, e diede l'altra in governo ad un certo Todino, uno de' famigli del monistero, che aspramente cominciò a trattare i poveri monaci. In una parola fu ridotto a tal miseria quel sacro luogo, che un giorno i monaci disperati presero la risoluzione d'andarsene tutti in Germania a' piedi dell'imperadore per implorar aiuto, e si misero in viaggio. Avvisato di ciò il suddetto Todino, corse, e tante preghiere e promesse adoperò, che li fece tornare indietro. Abbiamo dagli Annali pisani [Annali Pisani, tom. 6 Rer. Ital.] che in quest'anno in Nativitate Domini Pisa exusta est. Di simili incendii di città italiane in questi secoli noi ne andremo trovando da qui innanzi non pochi. Non erano allora molte d'esse città fabbricate colla durevolezza e pulizia de' nostri tempi. Molto legname concorreva a farle, e in molti di quegli edifizii duravano ancora i tetti coperti di paglia, siccome ho io altrove accennato [Antiq. Ital., Dissert. XXI.]. Però non è da stupire, se attaccato il fuoco in un luogo, facilmente si diffondesse la fiamma sino a prendere la maggior parte delle città. Abbiam parlato di sopra con lode di Magnifredo marchese di Susa. Non si vuol ora tacere un fatto narrato dall'autore della Cronica della [169] Novalesa [Chron. Novalic., P. II, tom. 2 Rer. Ital., pag. 760.]. Secondo gli abusi di questi secoli barbari, avea l'imperador Corrado, stando in Roma, conferita la badia della Novalesa al nipote di santo Odilone abbate di Clugnì, il quale per essere giovinetto, dopo averle recato non lieve danno, la concedette in benefizio (probabilmente per danari) ad Alberico vescovo di Como. Questo prelato ingordo Taurinum veniens, egit arte callida cum marchione Maginfredo, et fratre suo Adelrico praesule (d'Asti), datoque multo pretio, ut abbatem caperent: quod et fecit. Nel dì seguente i cittadini di Torino, che amavano ed apprezzavano forte quell'abbate, fecero una gran raunata per levarglielo dalle mani. Sed praedictus marchio cum turba militare praevaluit, interdicens illis, ne quid offenderent. Può essere che sel meritasse l'abbate. Ne ho io fatta menzione, acciocchè il lettore osservi come in questi tempi la città di Torino dovea essere sotto la giurisdizione del marchese Magnifredo o Manfredi. In quest'anno trovandosi l'imperador Corrado in Ingeleim XVIII kalendas aprilis, anno Chuonradi regnantis sexto, ejusdemque imperii tertio [Bullar. Casinense, tom. 2, Constit. LXXXV.], confermò i suoi beni e diritti alla badia di santa Maria di Firenze, con dichiararla badia imperiale e regale.


   
Anno di Cristo MXXXI. Indizione XIV.
Giovanni XIX papa 8.
Corrado II re di Germania 8, imperadore 5.

Scrive Romoaldo salernitano [Romuald. Salernit., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.] che anno MXXX, Indictione XIII Johannes princeps Salerni defunctus est anno principatus sui LVII, et successit ei Guaymarius filius ejus. Ma è fallato il testo, e in vece di Johannes avrà scritto Romoaldo Guaymarius, cioè Guaimario III principe di Salerno. Anche l'Anonimo barense [170] presso il Pellegrini mette all'anno 1030 la morte di questo principe. In un testo di Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chron.] essa viene riferita all'anno 1029. Ma il suddetto Camillo Pellegrini portò opinione che Guaimario III conducesse la sua vita fino all'anno presente 1031, parendogli che si possa ciò ricavare da alcuni antichi strumenti. Abbiamo inoltre tanto dall'Anonimo barense [Anonym. Barensis, tom. 5 Rer. Ital.], quanto dal Protospata suddetti, che mense junii comprehenderunt Saraceni Cassianum, cioè la piccola città di Cassano nella Calabria; e che nel dì 3 di luglio Poto catapano de' Greci venne a battaglia con quegli infedeli, e restò sconfitto con lasciarvi egli la vita. Passò alla gloria de' beati in quest'anno san Domenico abbate del monistero di Sora, appellato da Leone ostiense [Leo Ostiensis in Chron., lib. 2, cap. 62.] mirabilium patrator innumerum, et caenobiorum fundator multorum. Il Sigonio, e dopo lui Angelo dalla Noce [Angelus de Nuce, in Notis ad Chron. Leonis Ostiensis.] abbate casinese stimarono Domenico Sorano lo stesso che san Domenico Loricato. Ma andarono lungi dal vero. Certo è che furono due persone diverse. Il Loricato volò al cielo nell'anno 1061, come dirittamente osservò il cardinal Baronio [Baron., in Annal. et in Martyrologio.]. Ossia che si pentissero finalmente i Veneziani dell'aspro trattamento da lor fatto ad Ottone Orseolo lor doge; oppure che s'infastidissero del governo di Pietro Barbolano a lui sustituito nel ducato; oppure, come è più probabile, che prevalesse la fazion degli Orseoli: certo è, per attestato del Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], ch'essi preso in questo anno il suddetto Pietro doge, senza saponata gli levarono la barba, e vestitolo da monaco, il mandarono in esilio a Costantinopoli. Quindi inviarono alla stessa città di Costantinopoli Vitale vescovo di Torcello con bello accompagnamento a ricondurre di colà Ottone [171] Orseolo, per rimetterlo sul trono ducale. Intanto diedero il governo della terra ad Orso Orseolo patriarca di Grado, e fratello d'esso Ottone, uomo di gran senno e generosità, il quale per un anno e due mesi fece da vice-duca con molta sua lode.

Due diplomi ho io dato alla luce [Antiquit. Italic., Dissert. VIII et XIX.], che in quest'anno ottenne dall'Augusto Corrado Ubaldo vescovo di Cremona, amendue dati III kalendas martii, anno dominicae Incarnationis MXXXI, Indictione XIIII, anno autem domni Chuonradi secundi regnantis VI, imperantis vero IIII. Actum Goslare. In tutti e due questi documenti è notato l'anno sesto del regno, e conseguentemente pare adoperata l'epoca del regno d'Italia. Ma di qui risultando che la coronazione italica di Corrado sarebbe seguita prima del dì 26 di febbraio dell'anno 1026, converrà meglio interpretare Ermanno Contratto [Ermannus Contractus, in Chron.], allorchè ad esso anno 1026 scrive che Corrado circa tempus quadragesimae cum exercitu Italiam adiit. Diede fine in questo anno in Fiscanno alla sua santa vita Guglielmo abbate di Dijon in Francia [Mabillon., in Annal. Benedictin.], celebre nella storia monastica per le sue virtù e per la fondazione di varii monisterii, fra' quali quello di san Benigno di Fruttuaria in Piemonte, e per avere introdotta la riforma in assaissimi monisteri, massimamente di Francia. Glabro Rodolfo [Glaber, in Vita Wilielmi Divion. apud Mabillon.] suo contemporaneo, nella vita che scrisse di lui, attesta, tale essere stata la fama e stima d'esso Guglielmo abbate, ut cunctas Latii ac Galliarum provincias ipsius amor ac veneratio penetraret. Nam reges ut patrem, pontifices ut magistrum, abbates et monachi ut archangelum, omnes in commune ut Dei amicum, suaeque praeceptorem salutis habebant. Ne ho fatta menzione, perchè egli senza dubbio fu di nascita italiano. Secondo la [172] testimonianza del medesimo Glabro, egli nacque nell'isola di san Giulio della diocesi di Novara, nel tempo stesso che Ottone il Grande assediò Willa moglie di Berengario re d'Italia in quell'isola del lago d'Orta: il che, siccome abbiam veduto, succedette nell'anno 962. Ottone stesso, dopo la presa di quel luogo, il tenne al sacro fonte. Non s'ingannò Glabro in iscrivendo ch'egli morì nell'anno presente 1031, in età d'anni settanta; ma ingannossi bene il padre Mabillone [Mabill., Annal. Benedict., ad ann. 987.], volendo qui correggere Glabro, quasichè Guglielmo avesse dovuto nascere nell'anno 961, perchè molto ben si verifica che egli fosse nato nel 962, e che nel presente 1031 egli fosse entrato nell'anno settantesimo di sua età, benchè sia vero che Berengario morì molto più tardi di quel che suppose Glabro. Se vogliam credere a Sigeberto [Sigebertus in Chron.], in quest'anno Robertus et Richardus (nobili normanni) minuendae domo multitudinis caussa, hoc tempore a Normannia digressi, Apuliam expetunt, et Italis inter se dissidentibus, dum alteri contra alterum auxilium praestant, hac opportunitate Italos callide et fortiter debellant, et successus urgendo suos nomen suum dilatant, et futurae prosperitatis sibi viam parant. Se, come io credo, e si raccoglie da altro susseguente luogo, Sigeberto vuole che Roberto Guiscardo nell'anno presente dalla Normandia passasse in Puglia, egli racconta delle favole. Nè in questi tempi fu guerra in Puglia, nè fra i principi di quelle contrade, e noi vedremo a suo tempo quando esso Roberto venne in Italia. Ma forse parla di un diverso Roberto quello storico.


   
Anno di Cristo MXXXII. Indizione XV.
Giovanni XIX papa 9.
Corrado II re di Germania 9, imperadore 6.

Cessò di vivere in quest'anno Rodolfo III re di Borgogna, soprannominato [173] il Dappoco, senza lasciar figliuoli. Aveva egli per cura del santo imperadore Arrigo riconosciuto per dominio dipendente dall'imperio il suo regno [Ditmarus, Chronic., lib. 7.]; oppure perchè ciò si pretendeva fatto nei tempi insino di Arnolfo re di Germania, egli venne a soggettarlo di nuovo all'imperio. L'imperador Corrado maggiormente strinse questo affare, usando anche della forza, con indurre Rodolfo a promettere di aver per successore in quel regno o lui, o in suo luogo il giovane Arrigo re, con pretenderlo ancora per le ragioni di Gisela o Gisla imperadrice sua moglie, nipote del suddetto Rodolfo [Wippo, in Vita Conradi Salici.]. Ed era ben vasto e fiorito quel regno, perchè da Basilea si stendeva fino ad Arles e a Marsilia, con abbracciare la Provenza, Lione, il Delfinato ed altri paesi [Guatherus Ligurio., lib. 5.]. Ne fu portata la corona coll'altre regali insegne, e massimamente colla lancia di san Maurizio, all'Augusto Corrado. Ma Odone II conte ossia duca di Sciampagna perchè figliuolo di Berta sorella del defunto re Rodolfo, pretendendo a quella eredità, si prevalse della congiuntura che esso re imperadore si trovava impegnato coll'armi nella Schiavonia, o, per meglio dire, nella Polonia contra di Misicone re oppure duca di quelle contrade; ed entrò in possesso della Borgogna. Perciò Corrado s'andò preparando per fare nell'anno seguente una disgustosa danza nel regno a lui rapito. Abbiamo spettante a quest'anno un documento che ci scuopre chi fosse ne' tempi presenti duca e marchese della Toscana. Pubblicò l'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 3 in Episcop. Faesulan.] la fondazione de' canonicati fatta nella sua chiesa da Jacopo vescovo di Fiesole. Anno dominicae Incarnat. MXXXII, imperii domni Conradi Augusti V, Indictione XV. Dice di far quell'opera per la salute degl'imperadori, e specialmente di Arrigo I fra gli [174] Augusti, che l'avea promosso a quella chiesa. Necnon pro salute Conradi serenissimi imperatoris felicis memoriae (così dicevano altri ancora de' principi viventi) suaeque conjugis Gislae Augustae, et filii ejus II. necnon Bonifacii serenissimi ducis et marchionis Tusciae. Sicchè probabil cosa è che fin nell'anno 1027 Rinieri marchese di Toscana, volendo cozzare col re Corrado, con essere poi necessitato a rendersi, decadesse da quel ducato, e che sulle rovine di lui si alzasse il marchese Bonifazio, padre della gran contessa Matilda. Comunque sia, l'abbiamo duca della Toscana in questi tempi. Tornarono nell'anno presente gli ambasciatori [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], spediti dal popolo di Venezia a Costantinopoli, per ricondurre di colà il già esiliato lor doge Ottone Orseolo, colla nuova ch'egli avea dato fine alla sua vita in quella città. Il perchè Orso patriarca di Grado suo fratello, stato vice-doge per un anno e due mesi, rinunziò il governo. Col favore di poca parte di popolo s'intruse nel ducato Domenico Orseolo, e male per lui, perciocchè non andò molto, che formatasi una potente sollevazione contra di lui, ebbe fatica a salvarsi con ritirarsi a Ravenna, dove lasciò poi le sue ossa. Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.] mette la sua fuga e morte nell'anno 1024. Merita ben più fede in questo Andrea Dandolo, diligente scrittore delle cose della patria sua. Fu dunque creato doge di Venezia Domenico Fabianico, che allora si trovava in esilio; con che cessarono tutte le fazioni e discordie de' Veneziani. Questi, soggiugne il Dandolo, a Costantino Augusto protospatarius ordinatus est. Ma dovea dire da Romano Argiro, il quale nell'anno 1028 era succeduto a Costantino nell'imperio d'Oriente. Per attestato di Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] e dell'Anonimo Barense [Anonym. Barensis, Chron., tom. 5 Rer. Ital.], in quest'anno il medesimo Romano imperador [175] de' Greci mandò per Catapano, ossia governator generale dei suoi Stati in Italia, Costantino protospata, chiamato ancora Opo.


   
Anno di Cristo MXXXIII. Indizione I.
Benedetto IX papa 1.
Corrado II re di Germania 10, imperadore 7.

Oltre a quest'anno non passò la vita di Giovanni XIX. Non ci è noto il giorno e mese in cui egli cessò di vivere. Ben sappiamo che ebbe nel mese di giugno per successore nella cattedra di s. Pietro Benedetto IX. Adunque uno strumento accennato da Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.], dove si legge il suo anno terzo nel dì 25 di giugno dell'anno seguente, patisce delle difficoltà. Aggiungo di più, che nel Bollario casinense e negli Annali benedettini del padre Mabillone si truovano documenti, secondo i quali parrebbe che esso Benedetto IX avesse conseguito il pontificato nell'anno precedente, e non già nel presente. Tali nondimeno e tanti sono gli altri che ci assicurano aver egli solamente in quest'anno conseguita la dignità pontificia, che non credo si possa dipartire dall'opinione suddetta. Ora noi troviamo questo pontefice sommamente screditato nella storia ecclesiastica. Egli è appellato da Glabro [Glaber, His., lib. 4, cap. 5.] nepos duorum, Benedicti atque Johannis (romani pontefici), puer ferme decennis, intercedente thesaurorum pecunia, electus a Romanis. Non par notizia sicura ch'egli fosse di età sì tenera. Dicono ancora che si chiamava prima Teofilatto. Anche di questo io dubito, sembrando, per le notizie da me addotte altrove, che non egli, ma Benedetto VIII suo zio portasse questo nome. Ha ben ragione di dar qui nelle smanie il cardinal Baronio [Baron., in Annal. Eccles.] contra di questo mostro, con saviamente confutare dipoi i nemici della Chiesa cattolica, [176] che di qui prendono motivo di sparlare della Chiesa romana. Non lasciarono mai, nè lasciano le chiese, e specialmente quella che è capo di tutte, d'essere sacrosante venerabili, ancorchè talvolta ministri indegni ne giungano al governo. Così durò anche allora in tutti i savii cristiani la venerazione dovuta alla Sede apostolica, tuttochè ciascun disapprovasse e l'ingresso e la vita di questo pontefice, che fu veramente esecrabile e sporca. I vizii de' sacri pastori non son già vizii delle loro sedie. Passa anche il cardinale Annalista a riprovare, e meritamente, i principi del secolo, qualor vogliano metter mano nell'elezione de' sommi pontefici. Ma è da vedere se questo fosse il luogo di dar questo ricordo ai principi. Pare piuttosto ch'egli dovesse ricordare ai suoi elettori di aver gli occhi solamente a Dio e al bene della Chiesa, e non già allo splendor dell'oro, nè a' proprii vantaggi. Nella elezione di Benedetto IX niun principe ebbe mano. L'oro fu il principe che fece eleggerlo, e da questo tiranno, e non da violenza di principe alcuno, si lasciarono questa volta abbagliare il clero e popolo romano. Abbiamo da Vittore III papa [Victor III papa, Dialog., lib. 3.] che questo Benedetto di nome, ma non di fatti, cujusdam Alberici filius (Magi potius Simonis, quam Simonis Petri vestigia sectatus) non parva a patre in populum profligata pecunia, summum sibi sacerdotium vendicavit. Cujus quidem post adeptum sacerdotium vita quam turpis, quam foeda, quam exsecranda exstiterit, horresco referre. Ma allora pur troppo la simonia facea grande strage non in Roma solo, ma per tutta la Cristianità. Ed essa più facilmente ancora mettea le zampe nell'elezion de' papi, perchè a questa interveniva anche il popolo secolare. Lodiamo Dio che questa mal erba, sempre detestata, sempre fulminata dalla Chiesa cattolica, truovò da lì a pochi anni degli zelantissimi papi che seriamente attesero a sradicarla; e lodiamolo, perchè a miglior ordine ridotta la [177] elezion de' romani pontefici, non più si veggono nella sedia di san Pietro personaggi che, in vece di edificare distruggano, nè vescovi nelle altre chiese mancanti affatto di quelle belle doti che san Paolo desidera ed esige in ogni sacro pastore della Chiesa di Dio.

Nel gennaio dell'anno presente si trovava in Basilea l'imperador Corrado, come costa da un suo diploma pubblicato da me [Antiquit. Ital., Dissert. XI.]. In quello stesso mese, per attestato di Wippone [Wippo, in Vita Conradi Salici.], egli mosse l'armata sua verso il regno della Borgogna, per ispossessarne Odone conte ossia duca di Sciampagna. Arrivato nel giorno della Purificazion della Vergine al monistero Paterniaco, quivi da buona parte dei grandi d'esso regno fu riconosciuto per re, e ne ricevette la corona nel giorno stesso. S'accinse ancora all'assedio di alcune castella; ma sì fiero e straordinario fu il freddo in quelle parti, che convenne desistere e ritirarsi. Tornossene dunque indietro, e trovandosi nel castello Turcico, vennero ad inchinarlo la vedova regina di Borgogna Ermengarda, con altri non pochi Borgognoni, i quali aveano fatta la via d'Italia per timor di Odone. Venuta poi la state, l'imperadore, in vece di portar l'armi contro il regno della Borgogna, andò a dirittura a cercar Odone in casa sua, cioè nella Sciampagna, dove sì terribil guasto diede, che Odone per necessità venne a trovar Corrado con tutta umiltà, e a chiedere perdono, con promettere quello che, siccome uomo di mala fede, non voleva eseguire. Contento di questo, se ne tornò in Germania Corrado. Immaginossi il cardinal Baronio [Baron., in Annal. Eccles.], per un passo mal inteso di Glabro, ch'esso Augusto calasse in quest'anno in Italia. Ciò è troppo lontano dal vero, come avvertì il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron. ad annum 1038.]. Anche il padre Daniello [Daniel, Histoire de France.], sinistramente [178] interpretando un altro passo di Glabro, si credette che il popolo di Milano, ribellatosi all'Augusto Corrado, spedisse nell'anno presente ambasciatori ad offerir la corona d'Italia al predetto Odone. Ciò seguì molto più tardi, siccome vedremo. Erano in questi tempi i Milanesi sommamente attaccati e fedeli all'imperadore. Nè si vuol tacere che, per attestato del suddetto Glabro [Glaber, Histor., lib. 4, cap 5.], in questo anno cominciò per la prima volta ad udirsi il nome della Tregua di Dio, proposta dai vescovi delle provincie di Arles e di Lione, che poi fu stabilita più tardi, ed anche abbracciata da molti in Italia. Erano allora non meno in Francia che in Italia in uso le guerre private: cioè permettevano le leggi il potersi vendicare dei nemici, dacchè il fallo era patente e conosciuto da' pubblici ministri. Però le discordie e vendette si tramandavano ai figliuoli e nipoti; frequentissimi erano gli ammazzamenti, e i più camminavano coll'armi, pronti sempre alla difesa ed offesa. Fu perciò in questi tempi fatta parola, e poi conchiuso nell'anno 1041, che in alcuni giorni di qualsivoglia settimana [Hugo Flaviniacens., in Chronico.] per amore di Dio niuno osasse di far danno alla vita o alla roba de' suoi nemici. Fu imposta la scomunica e l'esilio a chi, accettata questa tregua, la trasgredisse dipoi. Susseguentemente fu in alcun luogo abbreviato il termine della tregua con altre regole, delle quali è da vedere il Du-Cange [Du-Cange, in Glossar. Latinit.]. Ne parla anche Landolfo seniore [Landulfus Senior. Mediol., Hist., lib. 2. cap. 30.], storico milanese di questo secolo, ma con qualche differenza, scrivendo che a' tempi d'Eriberto arcivescovo, lex sancta, atque mandatum novum et bonum e coelo, ut sancti viri asseruerunt, omnibus Christianis tam fidelibus quam infidelibus data est, dicens: Quatenus omnes homines secure ab hora prima Jovis usque ad primam horam diei lunae, cujuscumque culpae forent, [179] sua negotia agentes permanerent. Et quicumque hanc legem offenderent, videlicet Treguam Dei, quae misericordia Domini nostri Jesu Christi terris noviter apparuit; procul dubio in exsilio damnatus per aliqua tempora poenam patiatur corpoream. At qui eamdem servaverit, ab omnium peccatorum vinculis Dei misericordia absolvatur. Fu saggiamente pensata e introdotta la tregua di Dio dai vescovi di Francia; ma Landolfo ci fa intendere ch'essa era venuta dal cielo, secondo il costume di que' tempi, ne' quali ogni pia istituzione si spacciava come miracolosa e mandata dal cielo con qualche rivelazione. In quest'anno IX kalendas februarii trovandosi l'Augusto Corrado in Basilea, confermò con suo diploma [Antiquit. Ital., Dissert. XI.] tutti i beni e diritti del monistero pavese di san Pietro in Coelo aureo.


   
Anno di Cristo MXXXIV. Indizione II.
Benedetto IX papa 2.
Corrado II re di Germania 11, imperadore 8.

Si credeva l'imperador Corrado di avere in pugno il regno della Borgogna, chiamato anche arelatense, perchè Arles era una delle città primarie d'esso. Ma Odone duca di Sciampagna, mancando alle promesse, seguitò a signoreggiarne una parte, e ad inquietare il rimanente [Wippo, in Vita Conradi Salici. Hermannus Contract., in Chronic. Sigebertus, in Chronico.]. Videsi dunque l'Augusto Corrado forzato a ripigliar le armi, e per non avervi più a tornare, raunò una potente armata in Germania, e un'altra d'Italiani ordinò che marciasse a quella volta. Exspeditis Teutonicis et Italicis, Burgundiam acute adiit. Teutones ex una parte, ex altera archiepiscopus mediolanensis Heribertus, et ceteri Italici, ductu Huperti comitis de Burgundia, usque Rhodanum fluvium convenerunt. Parla qui nominatamente Wippone di Eriberto arcivescovodi Milano, che andò come capitano di [180] quella spedizione secondo gli abusi di questi tempi. A tale impegno si può attribuire l'aver egli in quest'anno mense martii, Indictione II, provveduto a' suoi temporali affari per tutte le disgrazie che potessero avvenire, con fare l'ultimo suo testamento. Leggesi questo dato alla luce dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 6 in Episcop. Mediolanens.] e dal Puricelli [Puricellius, Monument. Basil. Ambrosian.], dove egli fece una gran quantità di legati pii alle principali chiese, e a tutti i monisteri di Milano sì di monaci che di monache. Convien ora aggiugnere, che, oltre ad Eriberto, si distinse in quell'impresa Bonifazio duca e marchese di Toscana, padre della contessa Matilda. Arnolfo [Arnulf., Hist. Mediolan., lib. 2.], storico milanese, allora vivente, così ne parla: E vicino autem Italiae cum optimatibus ceteris electi duces incedunt, scilicet praesul Heribertus, et egregius marchio Bonifacius, duo lumina regni. Ducentes Langobardorum exercitum, Jovii montis ardua juga transcendunt, sicque vehementi irruptione terram ingredientes, ad Caesarem usque perveniunt. Si dovea tuttavia preparare per questa spedizione il marchese Bonifazio nel dì 17 di marzo, decimosexto kalendas aprilis dell'anno presente; imperciocchè, stando in Mantova, ivi fece una permuta di varie castella e poderi con un certo Magifredo. Hassi questa nelle Antichità Italiche [Antiq. Ital., Dissert. XI.]. Ora l'imperador Corrado con tanto sforzo di gente prese la città di Ginevra, e in essa Geroldo principe di quel paese, siccome ancora Burcardo arcivescovo di Lione, uomo scellerato e sacrilego, se crediamo ad Ermanno Contratto. In somma tal terrore portò in quelle contrade, che non vi restò persona che non si rendesse a lui, o non fosse esterminata da lui, con venire alle sue mani tutto quel regno. Dopo di che per l'Alsazia se ne tornò in Germania. Appartiene all'anno presente un diploma di Corrado Augusto, [181] inserito da Girolamo Rossi nella sua Storia di Ravenna [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.], con cui concede alla chiesa di essa città e al suo arcivescovo Gebeardo (andato anche egli, come si può immaginare, colle sue genti alla guerra) comitatum faventinum cum omni districtu suo, et regali placito et judicio, omnibusque publicis functionibus, angariis, ec. hactenus juri regis legaliter attinentibus. Fu esso dato pridie kalendas maii, Indictione II, anno dominicae Incarnationis MXXXIV, anno autem domni Chuonradi secundi, regni decimo, imperii vero octavo. Actum Ratisponae. Era allora in possesso del contado di Faenza Ugo conte di Bologna. Per cagione dunque del privilegio suddetto, esso Ugo conte nel dì 25 di giugno dell'anno presente cedette pubblicamente all'arcivescovo Gebeardo il suddetto intero contado di Faenza, con riceverne poi l'investitura della metà dal medesimo prelato. Questi son segni chiarissimi che l'esarcato di Ravenna era in questi tempi, come anche l'abbiam veduto per tanti anni addietro, sotto il dominio immediato dei re d'Italia, senza che apparisca che più vi avessero dominio o vi pretendessero i romani pontefici. Non meno dell'Augusto suo padre si segnalò il giovanetto re Arrigo, suo figliuolo in quest'anno, con avere riportate due vittorie contro i Boemi, e messo al dovere Olderico duca di quella provincia, ed altri ribelli all'imperador suo padre. Seguì nell'anno presente, oppure nell'antecedente, uno strumento fra Ingone vescovo di Modena [Antiquit. Ital., Dissert. 1.] e Bonifazio chiaramente appellato marchio et dux Tusciae. il vescovo dà a Bonifazio e a Richilda sua moglie due castella, cioè Clagnano e Savignano, a titolo di livello; e i due consorti cedono al vescovato di Modena le due corti di Bajoaria (oggidì Bazovara) e del fossato del re colle loro castella. Confermò l'Augusto Corrado, non so se in questo o in altro anno, i suoi beni alla [182] badia di Firenze con diploma, pubblicato dal padre Puccinelli [Puccinelli, Cron. della Badia Fiorent.], e dato II nonas maii, Indictione II, anno dominicae Incarnationis MXXXIV, anno autem domni Chuonradi secundi regnantis X, imperii vero VIII. Actum Radesbonae. Queste note cronologiche sono scorrette.


   
Anno di Cristo MXXXV. Indizione III.
Benedetto IX papa 3.
Corrado II re di Germania 12, imperadore 9.

Secondochè s'ha da Ermanno Contratto [Ermannus Contractus, in Chron. edition. Canisii.], nell'anno presente Adelbero dux Carentani et Histriae (marchese ancora della Marca di Verona) amissa imperatoris gratia, ducatu quoque privatus est. Wippone [Wippo, in Vit. Conradi Salici.] parla di questo fatto all'anno 1028, e scrive che esso Adalberone fu mandato in esilio. Diede poscia l'imperadore nell'anno seguente, per attestato del medesimo Ermanno Contratto, il ducato di Carintia e d'Istria, e per conseguente anche la Marca veronese, a Corrado duca di Franconia suo cugino, cioè a quel medesimo ch'era stato suo concorrente alla corona, ed avea poscia portate le armi contra di lui. Corrado, padre di questo Corrado, avea anch'egli, per quanto altrove s'è detto, dianzi goduto questi medesimi Stati. Nota inoltre il suddetto Wippone che in questa maniera, cioè colla giunta di un tal regalo, dux Chuno (lo stesso è che Corrado) fidus et bene militans imperatori, et filio ejus Heinrico, regi, quousque vixit permansit. Dagli Annali pisani [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.] abbiamo che in questo anno Pisani fecerunt stolum magnum (cioè un'armata navale, onde la voce italiana stuolo), et vicerunt civitatem Bonam in Africa, et coronam regis imperatori dederunt. Scrisse inoltre il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 8.] nell'anno 1050 che dai medesimi [183] Pisani fu fatta una spedizione in Africa, e presa la città di Cartagine, del che si può dubitare, quantunque il Tronci [Tronci, Annal. Pisani.] con altri moderni sotto quell'anno parli di tale impresa, con descriverla come s'egli vi si fosse trovato presente. A quest'anno poi il prefatto Tronci racconta che i Pisani ebbero per assedio la città di Lipari, con aver fatto un grosso bottino in quell'isola. Questo nol dovettero sapere i suddetti antichi Annali pisani, perchè neppure una parola ne dicono. Poscia, secondo il medesimo Tronci, accadde nell'anno 1036 la conquista di Bona: il che per conto del tempo non s'accorda co' suddetti Annali pisani, e piuttosto sarebbe da credere che ciò avvenisse nell'anno 1035, perchè i Pisani di nove mesi anticipano l'anno nostro volgare. Del resto Bona, città dell'Africa, è l'antica Hippona, di cui fu vescovo il glorioso sant'Agostino dottore della Chiesa. Si turbò gravemente in quest'anno la quiete della Lombardia. Ermanno Contratto [Hermannus Contractus, in Chron.] ne parla con queste parole così: In Italia minores milites contra dominos suos insurgentes, et suis legibus vivere, eosque opprimere volentes, validam conjurationem fecere. Medesimamente Wippone scrive che in questi tempi seguì una confusione non prima udita in Italia, perchè congiurarono tutti i valvassori d'Italia e i militi gregarii contra de' loro signori, e tutti i minori contra de' maggiori, col non lasciare senza vendetta, se dai signori veniva lor fatta cosa ch'essi riputassero di loro aggravio; e diceano: Si imperator eorum nollet venire, ipsi per se legem sibimet facerent. Dovette il Sigonio leggere in qualche testo, o autore, regem in vece di legem, perchè scrive, che conjurarunt, se non passuros quemquam regnare, qui aliud, quam quod ipsis luberet, sibi imponeret. È confusa nell'edizion d'Epidanno, fatta del Goldasto, la cronologia di questi tempi, veggendosi ivi posticipati i fatti di sei anni. Però sotto l'anno [184] 1041 egli [Epidannus, in Annal. tom. 1 Rer. Alamann.] parla di questa cospirazione de' militi inferiori contra dei lor signori, e de' servi contra de' loro padroni. Ma nell'edizion del Du-Chesne troviamo ciò riferito all'anno presente.

Che significasse il nome di valvassori si raccoglie facilmente dai libri de' Feudi. I più nobili una volta tra i vassalli erano i duchi, marchesi, conti, arcivescovi, vescovi ed abbati, i quali a dirittura riconoscevano dai re ed imperadori i loro feudi e le loro dignità temporali. Questi poi solevano concedere in feudo castella o altri beni ai cospicui nobili privati, per avere alle occorrenze il loro servigio nelle guerre e nelle comparse onorevoli. E a questi nobili si dava il nome di valvassori maggiori e di capitanei. Similmente poi questi nobili infeudavano corti e poderi ad altri men nobili, per aver anche eglino dei seguaci e aderenti ne' lor bisogni. E questi ultimi venivano distinti col nome di valvassori minori, ossia di valvassini. Ora insorsero dissapori, e poscia aperta dissensione e rottura fra i signori e i lor vassalli subordinati, pretendendo gli ultimi d'essere oltre al dovere aggravati dai primi. E tal briga aprì il campo anche ai servi (da noi ora chiamati schiavi) di rivoltarsi contra de' lor padroni, quasichè troppo aspramente fossero da loro trattati. L'origine nondimeno di questi disordini pare che si debba attribuire ad Eriberto arcivescovo di Milano. Non mancavano a lui molte virtù, ma queste si miravano contaminate dalla superbia, talmente che egli puzzava alquanto di tiranno. Tutto voleva a suo modo, nè a lui mettevano freno o paura le leggi. Lo confessa lo stesso Arnolfo [Arnulfus, Hist. Mediolan., lib. 2, cap. 10.], storico milanese, che potè forse conoscerlo, con dire che multis prosperatus successibus praesul Heribertus, immoderate paululum dominabatur omnium, suum considerans, non alienum animum. Unde factum est, ut quidam urbis milites, vulgo walvassores nominati, clanculo illius insidiarentur operibus; adversus [185] ipsum assidue conspirantes. Comperta autem occasione, cujusdam potentis beneficio (così tuttavia si nominavano quei che ora appelliamo feudi) privati: subito proruunt in apertam rebellandi audaciam, plures jam facti. Si studiò a tutta prima l'arcivescovo colle buone di quetare l'insorto tumulto; ma nulla con ciò profittando, mise mano alle brusche con dar di piglio alle armi. Seguì entro la stessa città di Milano un conflitto, in cui le genti dell'arcivescovo restarono superiori, e convenne ai vinti di ritirarsi colla testa bassa, ma col cuore pregno d'ira, fuori della città. Allora fu che con costoro si unirono i popoli della Martesana e del Seprio, fecesi anche in altri contadi cospirazione ed unione; ma sopra tutti trasse a questo rumore il popolo di Lodi, troppo esacerbato per la violenza lor fatta dall'arcivescovo stesso in volere dar loro un vescovo, siccome abbiam detto di sopra. Ciò che partorisse una tal discordia lo vedremo fra poco. Crede il Sigonio [Sigonius, de Regno Italiae, lib. 8.] che l'esempio de' valvassori milanesi servisse di stimolo anche al popolo di Cremona per rivoltarsi in questo anno contra di Landolfo loro vescovo, cacciar lui di città, dirupare il di lui palazzo, che era ridotto in forma di fortezza, e per maltrattare alla peggio i di lui canonici. Ma nulla ebbero che fare coi movimenti de' Milanesi quei di Cremona; erano anzi accaduti molti anni prima; e, se crediamo all'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Cremonens.], il vescovo Landolfo cessò di vivere nell'anno 1030. Di questo Landolfo così scrive Sicardo [Sicardus, Chron., tom. 7 Rer. Ital.], vescovo anch'egli di Cremona: Temporibus Henrici Claudi, capellanus ejus nomine Landolphus Cremonae fuit episcopus, qui monasterii sancti Laurentii, et cremonensis populi fuit acerrimus persequutor. Quocirca populus ipsum de civitate ejecit, et palatium (non già oppidum, come ha il Sigonio), turribus et duplici muro [186] munitum, destruxit. Proinde licei episcopio multa conquisierit, tamen multa per superbiam, multa per inertiam perdidit. Nomina poscia Sicardo per successore di Landolfo nel vescovato Baldo, cioè Ubaldo, ai tempi di Corrado Augusto, qui quoque monasterium sancti Laurentii persequutus est, et apud Lacum obscurum impugnatus est.


   
Anno di Cristo MXXXVI. Indizione IV.
Benedetto IX papa 4.
Corrado re di Germania 15, imperadore 10.

Bollivano più che mai le dissensioni, anzi le guerre fra Eriberto arcivescovo di Milano e i suoi valvassori ribelli: nella qual briga s'erano mischiati i valvassori di altri vescovi e principi, e il popolo di Lodi mal soddisfatto di Eriberto. Però ad un luogo fra Milano e Lodi appellato la Motta (si chiamavano così le fortezze fabbricate al piano sopra un'alzata di terra fatta a mano), oppure, come abbiamo da Arnolfo storico milanese [Arnulf., Hist. Mediol., lib. 2, cap. 10.], nel Campo Malo, così anticamente chiamato, si venne fra l'una parte e l'altra ad una campale battaglia, che riuscì molto sanguinosa [Hermannus Contract., in Chron.]. Fra gli altri che tennero la parte dell'arcivescovo, non so se per proprio interesse, oppure per far servigio ad esso arcivescovo, si contò Alrico vescovo d'Asti, fratello di Maginfredo marchese di Susa. Nè solo egli intervenne a quel fatto d'armi, ma, come un san Giorgio dovette anch'egli volere far prova del suo valore con iscandalosa risoluzione, vietando i sacri canoni agli ecclesiastici, e massimamente ai vescovi, l'andare alla guerra per combattere. Gli costò nondimeno cara, perchè ne riportò una ferita, per cui da lì a non molto morì. La notte fece fine al furore delle spade. Soffersero molto amendue gli eserciti, ma la peggio fu dalla parte dell'arcivescovo. Questi torbidi di Lombardia tenevano in agitazione l'animo dell'Augusto [187] Corrado: e ossia ch'egli conoscesse troppo necessaria la sua presenza per quetarli, oppure, come vuole Arnolfo, ch'egli ne fosse pregato e sollecitato dall'arcivescovo Eriberto, determinò di tornare in Italia. Pertanto, dopo aver data in moglie al re Arrigo suo figliuolo Cunichilda (Cunelinda è chiamata da Wippone [Wippo, in Vita Conradi Salici.], e negli Annali d'Ildeseim [Annales Hildesheim.] Cunichild nomine, in benedictione Cunigund dicta), figliuola di Canuto re d'Inghilterra, con esso re Arrigo verso il fine dell'anno mosse alla volta d'Italia, seco menando una poderosa armata. Giunse a Verona per la festa del santo Natale, e quivi la solennizzò [Epidannus in Annal.]. Era esso imperadore nel dì 5 di luglio in Nimega, quando, a petizione dell'imperadrice Gisla, di Pilegrino arcivescovo di Colonia, ac Bonifatii nostri dilecti marchionis [Antiq. Ital., Dissert. LXX.], cioè del duca di Toscana, che dovea trovarsi in Germania, confermò i privilegii al monistero delle monache di san Sisto di Piacenza. Parimente l'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 3 in Episcop. Clusin.] rapporta un diploma d'esso Augusto, dato in favore del monistero di san Salvatore di monte Amiato della diocesi di Chiusi, anno dominicae Incarnationis MXXXVI, regni vero domni Conradi II regnantis tertio, imperii ejus nono, Indictione IV. Actum in civitate Papia. In vece dell'anno III del regno si dee scrivere XIII. Ma che in quest'anno arrivasse l'Augusto Corrado a Pavia, ho io difficoltà a crederlo. Nè sul fine di quest'anno correva l'anno IX dell'imperio, ma bensì l'anno X. Però quel diploma ha bisogno di chi rimetta al suo sito l'ossa alquanto slogate.

Crede il Fiorentini (non so con qual fondamento) che in quest'anno venisse a morte Richilda, moglie del suddetto marchese Bonifazio, donna di gran pietà e liberalità verso i poveri e verso i [188] sacri templi e monisteri [Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 1.]. Abbiamo presso il padre Bacchini [Bacchini, Istoria di Polirone.] una donazione da lei fatta nel dì 28 d'aprile dell'anno precedente 1035 alla chiesa di Gonzaga, subtus confirmante donnus Bonefacius marchio jugale et Mundoaldo meo. Sappiamo da Donizone [Donizo, in Vita Comitiss. Mathild., lib. 1, cap. 8 et seq.] che questa piissima principessa terminò i suoi giorni, senza lasciar figliuoli, in Nogara, terra del Veronese, ed ivi ebbe la sua sepoltura. Potrebbe essere che l'andata del vedovo marchese Bonifazio in Germania servisse a lui per intavolare un secondo matrimonio con Beatrice figliuola di Federigo duca della Lorena superiore, e di Matilda nata da Ermanno duca di Suevia, parente degl'imperadori e dei re di Francia. Credo io tuttavia incerto l'anno in cui seguì un tale accasamento del marchese Bonifazio. Contuttociò, perchè egli avea passato di molto il mezzo del cammino della sua vita, può parer probabile ch'egli non perdesse tempo a cercar altra moglie che l'arricchisse di prole, e che per conseguente si effettuassero in quest'anno le di lui seconde nozze. Veggonsi esse descritte dal suddetto Donizone con tali colori, che, se è vero tutto, convien confessare che era superiore ad ogni altro principe d'Italia la di lui magnificenza e ricchezza. Andò Bonifazio con sontuoso treno a prenderla in Lorena; i suoi cavalli portavano suole d'argento, attaccate con un solo chiodo. Ebbe in dote assai terre e ville in Lorena. Condotta Beatrice in Italia, per tre mesi nel luogo di Marego sul Mantovano si tenne corte bandita. Pel popolo v'erano pozzi di vino; alle tavole piatti e vasi tutti d'oro e d'argento; prodigiosa quantità di strumenti musicali e di mimi a' quali

dedit insignis dux praemia maxima.

Il che ci fa conoscere già introdotto il costume, che durò poi per più secoli, [189] che a simili feste concorrevano in folla tutti i buffoni, giocolieri, cantambanchi e simili, che portavano via de' grossi regali. Di che ragguardevoli doti fosse poi ornata la duchessa Beatrice, l'andremo vedendo nel proseguimento della storia. Io non so se arrivasse in quest'anno, oppure prima, al fine di sua vita Odelrico Maginfredo ossia Manfredi marchese di Susa, da me più volte menzionato di sopra. Aveva egli data in moglie ad Erimanno (lo stesso è che Ermanno) duca di Suevia, ossia di Alemagna, una sua figliuola, cioè Adelaide, che fu poi principessa celebre nella storia. Nè avendo lasciato maschi dopo di sè, Erimanno per le ragioni della moglie pretese quella Marca, e l'ottenne per grazia dall'imperador Corrado. Heremannus dux Alamanniae marcham soceri sui Meginfredi ab imperatore accepit: sono parole di Ermanno Contratto [Hermannus Contract., in Chron.].


   
Anno di Cristo MXXXVII. Indizione V.
Benedetto IX papa 5.
Corrado II re di Germania 14, imperadore 11.

Non piccioli furono gli sconvolgimenti della Lombardia in quest'anno. Dopo avere l'Augusto Corrado celebrato in Verona il santo Natale [Wippo, in Vit. Conradi Salici.], se non prima, certo sul principio di quest'anno, passando per Brescia e Cremona, come scrisse Ermanno Contratto, arrivò a Milano, dove con gran magnificenza l'accolse Eriberto arcivescovo nella chiesa di santo Ambrosio. Nello stesso giorno chiunque si pretendeva aggravato da esso arcivescovo, tumultuosamente comparve colà, chiedendo con alte grida giustizia. Fece lor sapere l'imperadore, che avendosi a tenere in breve una generale dieta in Pavia, quivi udrebbe le lor doglianze e ragioni. Infatti si tenne quella dieta. Un Ugo conte con altri esposero gli aggravi loro inferiti dal suddetto arcivescovo. [190] Corrado, amicissimo di lui, ma più della giustizia, ordinò ch'egli soddisfacesse. Ricusò Eriberto di farlo; anzi, se vogliam prestar fede al Cronografo sassone [Chronographus Saxo apud Eccardum.], con alterigia grande rispose, che de' beni trovati nella sua chiesa, o da lui acquistati, non ne rilascerebbe un briciolo per istanza o comandamento di chi che fosse. Avvisato che almeno eccettuasse l'imperadore, tornò a parlare nel medesimo tuono. Allora l'Augusto Corrado s'avvide che dalla durezza di Eriberto erano procedute le sollevazioni dianzi accennate; perciò gli fece mettere le mani addosso. Così raccontano questo sì strepitoso affare gli autori tedeschi, per giustificar la risoluzione presa dall'Augusto Corrado; nè vi manca probabilità, perchè Eriberto era uomo di testa calda e facea volentieri il padrone, senza mettersi pena delle altrui querele. Ma Arnolfo milanese [Arnulf., Hist. Mediol., lib. 1, cap. 12.], che scrisse prima del fine di questo secolo la storia sua, in altra maniera descrisse questo avvenimento, con dire, che giunto Corrado a Milano, avendo tolto all'arcivescovo il già concedutogli privilegio, per altro abusivo, di dare a Lodi quel vescovo che a lui piaceva, il popolo di Milano con alte grida sparlò contro l'imperadore, che se ne offese non poco. E perciocchè credette autore del tumulto esso Eriberto, aspettò d'averlo in Pavia, cioè lontano dal suo popolo, ed allora il mise sotto le guardie. Questo racconto porta forse più dell'altro tutta l'aria di verisimiglianza, al vedere che dipoi lo stesso popolo di Milano, lasciando andare le precedenti gare, imprese con incredibile zelo la difesa del suo pastore. In effetto seguita a dire esso Arnolfo, che all'avviso della prigionia d'Eriberto, mediolanensis attonita inhorruit civitas, proprio viduata pastore, dolens ac gemens a puero usque ad senem. O quae Domino preces, quantae funduntur et lacrymae! Si adoperarono il clero, la nobiltà e il popolo [191] per liberarlo; si venne anche ad una convenzione, per cui fu promesso dall'imperadore di rilasciarlo, e a questo fine se gli diedero ostaggi; ma, ciò non ostante, continuò Corrado a tenerlo prigione, con determinazione di mandarlo in esilio. Nè di ciò contento, essendo state molto dipoi portate delle accuse contra de' vescovi di Vercelli, Cremona e Piacenza, Corrado fattili prendere, gli esiliò: azione riprovata dallo stesso Wippone, con dire: Quae res displicuit multis, sacerdotes Christi sine judicio damnari. Anzi soggiugne che lo stesso re Arrigo suo figliuolo in segreto detestò la risoluzione presa dal padre contra dell'arcivescovo e dei tre suddetti vescovi, persone tanto venerabili fra i cristiani, e pur condannate e punite senza processo e senza una legale sentenza. Altri autori, che riferirò fra poco, mettono più tardi la disgrazia di questo prelato. Fu dunque consegnato l'arcivescovo Eriberto a Poppone patriarca d'Aquileia e a Corrado duca di Carintia e marchese di Verona, acciocchè ne avessero buona custodia. Il condussero essi a Piacenza, o piuttosto fuori di Piacenza presso al fiume Trebbia sotto buona guardia; e intanto l'imperadore se n'andò a Ravenna, dove celebrò la santa Pasqua nel dì 10 d'aprile, con ispedire i suoi messi a far giustizia per tutto il regno. Nel dì 5 di maggio del presente anno si truova Ermanno arcivescovo di Colonia, che per ordine di esso Augusto tiene un placito [Antiquit. Ital., Dissert. XXXI.] nel borgo d'Arbia del contado di Siena. Un altro placito tennero nel dì primo di marzo, per testimonianza di Girolamo Rossi [Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5.], Arrigo ed Ugo messi dell'imperador Corrado nel territorio d'Osimo.

Mentre soggiornava esso augusto in Ravenna, gli venne la disgustosa nuova che Eriberto arcivescovo di Milano era fuggito. Wippone scrive che, postosi uno de' familiari dell'arcivescovo nel di lui letto, ingannò le guardie; e in questo [192] mentre Eriberto, travestito e salito sopra un cavallo, che gli fu condotto, spronò forte finchè fu in sicuro. Il Cronografo sassone [Cronographus Saxo apud Eccardum.] attribuisce il colpo ad un monaco che solo era stato lasciato a' servigii d'esso arcivescovo. Ma par bene che più fede in questo si possa prestare a Landolfo seniore, storico milanese di questo secolo. Secondo lui [Landulfus Senior., Hist. Mediol., lib. 2, cap. 22 et seq.], Eriberto, che ben conosceva la ghiottoneria de' Tedeschi, e quanta parzialità avessero pel vino, spedì con buone istruzioni un suo fedele alla badessa di san Sisto di Piacenza, per concertare la maniera di rimettersi in libertà. Inviò essa all'arcivescovo venti some di varie carni e dieci carra di diversi squisiti vini. Può essere che fossero meno, e certo non occorreva tanto al bisogno. Fu fatta una sontuosa cena: tutte le guardie si abboracchiarono ben bene; il sonno col ronfare tenne dietro ai votati bicchieri; e nel più proprio tempo l'arcivescovo se la colse felicemente con trovare in Po una barca preparata che il condusse in salvo. Arrivato a Milano, non si potrebbe esprimere la gioia di quel popolo: segno ch'egli era ben veduto e stimato da tutti. Ma neppur si può dire quanto affanno e rabbia recasse all'Augusto Corrado la fuga d'Eriberto. Tosto immaginò la ribellione di Milano, nè si ingannò. Corse coll'esercito suo ad assediare quella città, città forte di mura e di torri, città ricca di popolo, e popolo risoluto di difendere fino all'estremo il suo pastore. Vedesi ampiamente descritto quell'assedio dal suddetto Landolfo seniore; e sappiamo da Wippone e da Ermanno Contratto, ch'esso durò, non già per tutto quest'anno, nè pel susseguente, come scrisse il Cronografo sassone, e, prima di lui, l'autore degli Annali d'Ildeseim, ma solamente poche settimane. Perciocchè Milano si trovò osso troppo duro, si andò intanto sfogando la rabbia tedesca sopra le castella e ville di quel [193] territorio. La terra di Landriano specialmente rimase un monte di pietre. Nel dì dell'Ascensione fecero una vigorosa sortita i Milanesi, e nel fiero combattimento, per attestato di Arnolfo [Arnulfus., Hist. Mediol., lib. 2, cap. 13.], fra gli altri un nobile tedesco (forse quel nipote dell'imperatore di cui parla il suddetto Landolfo) et Wido italicus marchio, signifer regius, inter media tela confixi sunt. Probabilmente questo Guido marchese era uno degli antenati della casa d'Este, e fratello del marchese Alberto Azzo I progenitore d'essi Estensi, per quanto ho io detto altrove [Antichità Estensi, P. I, cap. 13.]. Di lui si ha memoria in uno strumento dell'anno 1029, accennato dal Guichenon nella Storia genealogica della real casa di Savoia. Ora accadde, che trovandosi l'imperadore Corrado nel sacro dì della Pentecoste all'assedio di Corbetta, castello poco distante da Milano, all'improvviso s'alzò un temporale sì furioso di pioggia, gragnuola e fulmini, che andarono per terra tutte le tende dell'esercito [Wippo in Vita Conradi Salici. Chronographus Saxo, Arnulf., Hist. Mediol. Landulfus. Senior, Hist. Mediol.], e vi restò, oltre a molti uomini, estinta una prodigiosa quantità di cavalli e di armenti con isbalordimento universale di tutta l'armata. Fu creduto miracoloso un sì funesto accidente, e che santo Ambrosio in questa maniera liberasse la città [Sigebertus, in Chronico.] e l'arcivescovo dall'ingiusta persecuzion di Corrado. Certo di più non ci volle, perchè l'imperadore, veggendo sì conquassata l'armata sua, si ritirasse a Cremona. Io non so bene se prima o dopo l'assedio suddetto, ovvero se esso durante, l'arcivescovo Eriberto facesse una spedizione ad Odone conte ossia duca di Sciampagna, cioè a quel medesimo che avea disputato il regno della Borgogna all'Augusto Corrado.

Certa è la spedizione, per attestato di Glabro Rodolfo [Glaber, Hist., lib. 3, cap. 7.], degli Annali [194] d'Ildeseim [Annales Hildesheim.] e d'altri autori. Esibivano questi legati lombardi il regno d'Italia ad esso Odone, il quale intanto volendo profittare della lontananza dell'imperadore, con una possente armata entrò nella Lorena, prese il castello di Bar, e fece un mondo di mali dovunque arrivò. Volle la sua disgrazia che Gozelone duca di Lorena, con forze grandi ito ad incontrarlo, gli diede battaglia, e lo sconfisse, con restar trucidato il medesimo Odone. Stavano aspettando gli ambasciatori italiani l'esito di quella guerra, per far calar esso Odone in Italia: al che si mostrava egli dispostissimo. Ma inteso il suo miserabil fine, e perdute tutte le speranze riposte in lui, se ne tornarono indietro coll'afflizione dipinta ne' loro volti. Peggio ancora ai medesimi avvenne. Imperciocchè, siccome abbiamo dal Cronografo sassone [Chronographus Saxo apud Leibnitium.] e dall'Annalista sassone [Annalista Saxo apud Eccardum.], socrus Herimanni Suevorum ducis, legatorum conventum rescivit, missisque satellitibus suis, omnes simul comprehensos, reique veritatem confessos, imperatori, ubi in publico conventu, eisdem praenominatis tribus episcopis praesentibus, consederat, transmisit. La suocera di Erimanno duca di Suevia era Berta, vedova del fu Maginfredo marchese di Susa, e sorella dei marchesi Ugo, Alberto Azzo I, e Guido, antenati della casa d'Este, siccome ho dimostrato altrove [Antichità Estensi, P. I.]. I tre vescovi accusati furono, siccome già dissi, quei di Vercelli, Cremona e Piacenza, che perciò ebbero a patire l'esilio in Germania. Ma già s'è veduto coll'autorità di Wippone, il più accreditato storico delle imprese di Corrado Augusto, esser questo già succeduto prima, e che irregolare fu la lor condanna, e dispiacque fino al re Arrigo figliuolo del medesimo imperadore: il quale Augusto, per far dispetto all'arcivescovo Eriberto, diede nell'anno seguente la chiesa di Milano ad un canonico [195] di quella cattedrale per nome Ambrosio, e pare eziandio che il facesse consacrare in Roma. Male nondimeno per questo ambizioso canonico, perchè mai arrivò a sedere in quella cattedra; e i Milanesi, che tennero sempre saldo per Eriberto, devastarono tutti quanti i di lui beni [Wippo, in Vita Conradi Salici.]. Venne papa Benedetto a ritrovar Corrado in Cremona. Fu ricevuto con grande onore, e dopo aver trattato de' suoi affari, se ne tornò a Roma, senza che apparisca il motivo di questo suo viaggio, se pur non fu quello che ci additerà Glabro all'anno seguente. Passò l'imperadore la state nelle montagne per ischivare il soverchio caldo di quest'anno, e sul finire d'esso venne a Parma, dove solennizzò la festa del santo Natale. Ma in questa città ancora avvenne la solita calamità, di cui sarà permesso ai Tedeschi di darne la colpa ai cittadini, e a me di credere che provenisse dalla poca disciplina, avidità o bestialità allora dei medesimi lor nazionali. Nello stesso dì del Natale s'attaccò rissa fra essi Tedeschi e i Parmigiani. Vi restò morto Corrado coppiere dell'imperadore. Perciò fu in armi tutto l'imperiale esercito, e col ferro e col fuoco infierì contro della misera città. Volle inoltre l'imperadore, cessato che fu l'incendio, che si smantellasse una gran parte delle mura della città, onde imparassero i popoli italiani a lasciarsi mangiar vivi dagli oltramontani. Con tali notizie non so io accordare ciò che scrive Donizone con dire [Donizo, in Vit. Mathild., lib. 1, cap. 10.] che l'imperadore Corrado assediò Parma, e che gli furono uccisi alcuni de' suoi più cari. Perciò ordinò a Bonifazio marchese di Toscana di accorrere colle sue truppe, per espugnare l'ostinata città. Appena comparve egli, che cadde il cuore per terra ai Parmigiani, e corsero a buttarsi a' piedi dell'imperadore. Poscia Bonifazio giurò fedeltà ad esso Augusto, il quale ordinò:

.... quod Marchia serviet ipsi.

[196] E all'incontro Corrado anch'egli giurò di conservar la vita e la dignità absque dolo al medesimo Bonifazio: cosa veramente insolita, di modo che lo stesso poeta soggiugne:

Nullus dux unquam meruit tam foedera culta.

In charta scriptum jusjurandum fuit istud.

Pare che Donizone avesse sotto gli occhi la carta di un tal atto. Nè si vuol tacere che in questo anno, trovandosi lo stesso imperadore in Canedolo juxta flumen Padi [Antiquit. Italic., Dissert. XI.], nel dì 31 di marzo confermò i suoi privilegii ad Itolfo vescovo di Mantova. Inoltre fece quella legge spettante ai feudi che si truova fra le longobardiche e nel libro quinto de' Feudi. La data d'essa, da me scoperta, è tale: V kalendas junii, Indictione V, anno dominicae Incarnationis MXXXVIII (così dee scrivere MXXXVII, o qui è adoperato l'anno pisano), anno autem domni Chuonradi regis XIII, imperantis XI. Actum in obsidione Mediolani. Confermò il medesimo Augusto al monistero di san Teonisto del Trivigiano i suoi beni e privilegii con diploma [Ibid., Dissert. XXX.] dato II idus julii, anno dominicae Incarnationis MXXXXII, Indictione V, anno autem domni Chuonradi secundi regni XIII, imperii XI. Actum Veronae ad sanctum Zenonem.


   
Anno di Cristo MXXXVIII. Indizione VI.
Benedetto IX papa 6.
Corrado II re di Germania 15, imperadore 12.

Cessato il rigore del verno, marciò nella primavera di quest'anno l'Augusto Corrado per la Toscana alla volta di Roma coll'esercito suo. Se vogliamo credere a Glabro [Glaber, Hist., lib. 4, cap. 8.], ebbe bisogno della di lui venuta Benedetto IX papa, perchè alcuni de' baroni romani tramavano congiure [197] ed insidie contra la di lui vita. Sed minime valentes, a sede tamen propria expulerunt. Tam pro hac re, quam aliis insolenter patratis, imperator illuc proficiscens, propriae illum sedi restituit. Niun altro autore abbiamo che parli di questa cacciata e restituzione d'esso pontefice. Quivi fece che il papa fulminò la scomunica contra di Eriberto arcivescovo di Milano. Ma altro recipe ci volea che questo per guarire quella cancrena. Eriberto co' Milanesi tranquillamente seguitò a difendersi. Passò dipoi Corrado a Monte Casino [Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 65.], dove da que' monaci gli fu rinfrescata la memoria de' tanti aggravii e danni recati al loro imperial monistero da Pandolfo IV principe di Capoa, con disprezzo dell'augusta sua maestà: lamenti anche molto prima portati al di lui trono. Per questo avea già spedito l'imperadore a Capoa i suoi legati, con intimare a quel malvagio principe il risarcimento e la restituzione di tutto ai monaci casinesi. Si trovò indurato l'animo di Pandolfo nell'antica malizia: laonde Corrado, dopo essere stato a Monte Casino, passò colle armi alla volta di Capoa nuova, e v'entrò nella vigilia della Pentecoste, cioè nel dì 15 di maggio. Erasi ritirato Pandolfo nella forte rocca di sant'Agata; ma per tornare in grazia dell'imperadore, gli fece esibir trecento libbre d'oro, e per ostaggi una figliuola e un nipote: offerta che fu accettata. Poco nondimeno stette a scoppiare che Pandolfo tuttavia macchinava delle novità per la voglia e speranza di ricuperar la città, subitochè se ne fosse partito Corrado. Il perchè esso imperadore col parere de' principali di Capoa diede quel principato a Guaimario IV principe di Salerno, cioè ad un principe, a cui non mancassero forze per sostener quell'acquisto. Così tolta la speranza a Pandolfo di rientrare in casa, egli, dopo aver lasciato Pandolfo V suo figliuolo con buona guarnigione nella [198] rocca suddetta, se ne andò a Costantinopoli per implorare dal greco Augusto aiuto o di gente o di danaro. Ma prevenuto Michele, allora imperadore, dai messi spediti da Guaimario, in vece di soccorso, il mandò in esilio, dove stette finchè s'udì la morte dell'imperador Corrado. Ad intercessione ancora d'esso Guaimario, l'Augusto suddetto diede l'investitura del contado di Aversa a Rainolfo normanno. E perchè era andato crescendo il corpo de' Normanni a cagion d'altri che andavano di tanto in tanto sopravvenendo, con esser poi insorte dissensioni fra i vecchi stabiliti in quelle contrade e i nuovi venuti [Wippo, in Vit. Conradi Salici.], Corrado colla sua autorità le troncò o compose. Ma intanto sopravvenuta la bollente state, entrò la peste, oppure una feroce epidemia nell'esercito imperiale, in maniera che la morte cominciò a mietere senza ritegno le vite de' soldati tedeschi, avvezzi a clima troppo diverso. Questa disavventura fece affrettar i passi dell'imperador Corrado, dappoichè egli ebbe fatta una visita a Benevento, per tornarsene in Germania; ma coll'armata sua marciava del pari il malore con fiera strage dei minori ed anche de' maggiori. Fra questi ultimi specialmente fu compianta da tutti la morte di Cunichilda regina, nuora d'esso Augusto [Hermannus Contractus, in Chron. Annal. Saxo apud Eccard.], a cui tenne dietro l'altra di Erimanno duca di Suevia, figliastro dell'imperadore, perchè nato in prime nozze dall'imperadrice Gisla. Noi vedemmo questo principe divenuto anche marchese di Susa pel suo matrimonio con una figliuola del già marchese Maginfredo, cioè, secondo tutte le verisimiglianze, con Adelaide principessa di gran senno e ornata di rare virtù, la quale è certo, per testimonianza di san Pier Damiano [Petrus Damian., Opusc. XVIII.], che ebbe due mariti, e che sotto il dominio d'essa plures episcopabantur antistites. Restò perciò vedova essa Adelaide, e d'essa avremo [199] occasion di riparlare andando innanzi. Nè vo' lasciar di dire che l'imperador Corrado, nell'andare in quest'anno a Roma, si trovò VII kalendas martii ad viam Vinariam (Vivinaia) in comitatu Lucensi, siccome costa da un suo diploma da me dato alla luce [Antiq. Ital., Dissert. XL et XLI.], e spedito in favore del capitolo de' canonici di Lucca. Vedesi il medesimo Augusto dipoi XIII kalend. aprilis anno dominicae Incarnationis MXXXVIII, Indictione VI, anno domni Chuonradi regni XIIII, imperii XIII (si dee scrivere XI) juxta Perusium in monasterio sancti Petri, come s'ha da un suo diploma da me pubblicato, e confermatorio dei beni del monistero di san Sisto di Piacenza. Stando poscia esso Augusto in Benevento nonis junii di quest'anno, regnantis quartodecimo, imperantis tertiodecimo (dovrebbe essere duodecimo), Indictione sexta, confermò i suoi privilegii al monistero di Monte Casino, come s'ha dalla storia casinese del padre Gattola [Gattola, P. I Hist. Casin. Access.]. Abbiamo ancora un diploma suo dato in favore della badia di Firenze [Bullar. Casinense, tom. 2, Constit. LXXXVI.] X kalendas augusti dell'anno presente, anno regni XIV, imperii XIII. Vidalianae, cioè in Viadana, oggidì del contado di Mantova. Come ancor qui e come in altri due sopraccennati diplomi, s'incontri l'anno XIII dell'imperio, quando allora correa solamente l'anno XII, lascerò esaminarlo ad altri. Abbiamo inoltre due placiti tenuti in Vivanaia nel contado di Lucca da Cadaloo cancelliere dell'imperadore [Antiquit. Italic., Dissert. VI et IX.] intus curte domnicata domni Bonifatii marchio et dux per data licentia domni Conradi imperatoris, qui ibi aderat, octavo kalendas martii dell'anno presente. Se dice il vero uno strumento che sono per riferire, mancò di vita in quest'anno Ingone vescovo di Modena, e gli succedette Guiberto, il quale non tardò a fare un contratto con Bonifazio, appellato ivi marchio et dux Tusciae [Ibidem, Dissert. XXXVI.], dandogli a livello [200] tre corti, cioè Bazani cum castro et capella sancti Stephani; Liviciani cum castro et capella sanctorum martyrum Adhelberti et Antonini; et sanctae Mariae in castello cum rocha et ecclesia, ec. Dal che sempre più s'intende che le corti anticamente abbracciavano un buon territorio con parrocchia, e sovente con castello. Diede all'incontro il marchese Bonifazio in proprietà e a titolo di donazione al vescovato di Modena tre corti, cioè di Gavello, forse quella che è oggidì sul Mirandolese; di Panzano cum castro et capella, e di Ganaceto colla porzione a lui spettante de castro et capella infra eodem castro in honore sanctorum martyrum Georgii et Resmi (forse Erasmi); e inoltre varii poderi nelle pievi di Pulinago e di rocca Pelago, cum rocca, quae nominatur Flumenalbo, ec, ascendenti alla somma di mille cinquecento iugeri. Le note cronologiche sono queste: Chuonradus gratia dei imperator Augustus, anni imperii ejus hic in Italia duodecimo, XV kalendas octobris, Indictione sexta, continuata sino al fine dell'anno.

Era ne' precedenti anni insorta discordia fra i due fratelli saraceni Abulafar e Abucab, governatori della Sicilia [Cedren., in Compend. Histor.]. Si venne all'armi, ed Abulafar superato, ebbe ricorso a Michele imperador greco per ottener soccorso. Prese quell'Augusto pe' capelli questa congiuntura per isperanza di ritorre la Sicilia ai Saraceni, e con una buona armata spedì in Italia, oltre a Michele Duciano e Stefano patrizii, anche Giorgio Maniaco, famoso generale d'armi de' Greci in questi tempi. Costoro unirono al loro esercito quanti Longobardi e Normanni poterono allettare con ingorde promesse a quell'impresa, e passarono in Sicilia. Felice fu il loro ingresso colla presa di Messina, e poi di Siracusa, dove specialmente si distinse Guglielmo figliuolo di Tancredi d'Altavilla, venuto dalla Normandia a cercar fortuna con altri Normanni [201] in Puglia [Guafrid. Malaterra, Hist., lib. 1. Leo Ostiensis, lib. 2.]. Le sue prodezze gli acquistarono il soprannome di Ferrodibraccio. Intanto venuto dall'Africa un gran rinforzo di gente, i Saraceni siciliani formarono un'armata di circa cinquanta mila combattenti. Maniaco andò coraggiosamente colla sua gente ad assalire quegl'infedeli al fiume Remata, e diede loro una gran rotta, alla quale tenne dietro la presa di tredici piccole città di quell'isola, colla più bella apparenza del mondo di ridur tutta la Sicilia all'ubbidienza del greco Augusto. L'autore della Vita di san Filareto monaco siciliano, che fiorì in questi tempi, racconta [Vita S. Philaret., in Act. Sanct. ad diem 6 aprilis.], che, oltre alla bravura de' Greci, anche un vento gagliardo che soffiava in faccia a' nemici, servì a mettere i Saraceni in rotta, e che il governator saraceno di Sicilia se ne fuggì ignominiosamente con pochi de' suoi. Aveano coloro sparsa per la campagna gran copia di triangoli acuti di ferro, sperando di rovinar la cavalleria de' Greci; ma erano ferrati in maniera i cavalli greci, che punto loro non nocque l'insidiosa invenzione de' nemici, la quale sappiamo che in altre guerre fece un buon giuoco. Secondo la Cronica casauriense [Chron. Casauriense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.], in questi tempi si truova ne' contorni di quel monistero il giovane Trasmondo marchese, il quale, a mio credere, governava allora la marca di Camerino, essendochè in essa marca era compreso quel monistero. Se ciò è vero, dovea essere mancato di vita quell'Ugo duca e marchese che vedemmo all'anno 1028. In una carta dell'anno 1056 da me pubblicata [Antiquit. Ital., Dissert. VI.] si truova domna Willa inclita comitissa, reclita quondam domni Ugo gloriosissimo, qui fuit dux et marchio. Questa fu sua moglie.

[202]


   
Anno di Cristo MXXXIX. Indizione VII.
Benedetto IX papa 7.
Arrigo III re di Germania e d'Italia 1.

Fu questo l'ultimo anno della vita dell'imperador Corrado. Aveva egli fatto un viaggio nel regno della Borgogna, dove que' popoli accettarono per loro re l'unico di lui figliuolo Arrigo. Trovandosi poi in Colonia, confermò ed accrebbe i privilegii ad Ingone vescovo di Modena, con cui il crea conte di Modena. Il diploma, già accennato dal Sigonio sotto il presente anno, e da me dato intero alla luce, ha le seguenti note [Antiquit. Ital., Dissertat. LXXI.]: Datum XVII kalendas aprilis, anno dominicae Incarnationis MXXXVIII, Indictione VII, anno autem domni Chuonradi regni XIIII, imperii XII. Actum Colonia. Ma io truovo qui degl'intoppi. Pare fallato l'anno, e che si deggia scrivere MXXXVIIII; e così l'intese il Sigonio. Ma v'ha anche dell'errore negli anni del regno; e quando si volesse questo diploma riferire all'anno precedente, Corrado allora dimorava in Italia, e non già in Colonia. Oltre di che, quando sussista la carta additata nell'anno precedente, era già succeduto Guiberto ad Ingone nel vescovato di Modena prima dell'anno presente 1039. Però che dee dire di questo diploma il saggio lettore? Ito poscia l'imperadore Corrado ad Utrecht nella Frisia [Wippo, in Vita Conradi Salici. Hermannus Contract., in Chron. Annales Hildesheim.], quivi celebrando la festa della Pentecoste, fu sorpreso da dolori, che nel lunedì seguente, cioè nel dì 4 di giugno, il condussero al fine de' suoi giorni. Era dianzi stato eletto e coronato re di Germania il suddetto Arrigo III suo figliuolo, soprannominato il NERO a cagion della barba, e come suo successore fu immediatamente riconosciuto da tutti. Una curiosa novella cominciò ad avere spaccio nel secolo susseguente intorno alla [203] persona d'esso re Arrigo. Gotifredo da Viterbo pare che fosse il primo a darle credito [Godefridus Viterbiensis, in Panth.]. Eccone, per ricreazion di chi legge, un transunto. Caduto in disgrazia di Corrado Augusto un Lupoldo conte, si ritirò colla moglie a vivere incognito in una capanna in mezzo ad una selva. Questa favola, passata poi in Italia, fu applicata in altri termini ad alcune nobili case dagl'impostori genealogisti. Ora accadde che Corrado, smarrito nella caccia, giunse a quel tugurio una notte, e vi prese riposo. Nello stesso tempo partorì la moglie di Lupoldo un maschio, e Corrado, al sentirlo vagire, intese una voce dal cielo che gli disse: Corrado, questo fanciullo sarà tuo genero ed erede. Levatosi per tempo l'imperadore, ordinò a due suoi famigli di prendere quel bambino e d'ucciderlo. N'ebbero compassione, e il lasciarono vivo sopra di un albero. Passò di là un certo duca, che il prese ed allevò, e veggendolo crescere in bellezza e senno, l'adottò per figliuolo. Dopo alcuni anni guatando l'imperadore questo giovinetto, gli venne sospetto che fosse il medesimo di cui avea comandata la morte, forse perchè seppe come era stato trovato dal duca; e con apparenza di volerlo onorare, l'arrolò fra' suoi cortigiani. Un dì poscia scrisse all'imperadrice Gisla una lettera, in cui gli ordiva di farne immediatamente uccidere il portatore, e la diede al giovinetto Arrigo con ordine di presentarla in mano d'essa Augusta. Andò questi; ma addormentatosi per viaggio in una chiesa, il prete d'essa adocchiata quella lettera, gliela tolse di saccoccia ed aprì. Per compassione il buon prete ne scrisse un'altra con ordine all'imperadrice che, alla comparsa di quel giovane, immantinente gli desse in moglie la comune lor figliuola. Andò il giovane, senza nulla sapere dell'operato dal prete, e presentata la lettera, non tardò a divenir genero dell'imperadore. Bel suggetto per una tragedia, purgato che fosse da varii [204] inverisimili, ma per conto della storia, avvenimento inventato di peso, essendo fuor di dubbio, secondo l'autorità di più scrittori contemporanei, che Arrigo III nacque da Corrado e Gisla Augusti, ed ebbe due mogli l'una Cunichilde morta nell'anno precedente, e poscia nell'anno 1045 Agnese figliuola di Guglielmo duca di Poitiers. Benchè poi non fosse costume di contare in Italia gli anni del regno italico, nè dell'imperio, se non dopo le coronazioni; pure mi prendo io la libertà di cominciar qui l'epoca del di lui regno in Italia, al vedere che una carta riferita dal Campi [Campi, Istor. di Piacenza tom. 1 Append.], e scritta in Piacenza, ha queste note: Anno ab Incarnatione Domini MXLIV, anno regni donni Henrici rex hic in Italia quinto, nono kalendas aprilis, Indictione XII, il che fa bastevolmente intendere che almeno i Pavesi ed altri popoli d'Italia, anche senza la coronazione italiana, non tardarono molto a ricevere esso Arrigo III per re. Un'altra carta piacentina nell'anno seguente MXLV ha l'anno sesto del regno d'Arrigo. Così nel Bollario casinense [Bullarium Casinense, Constit. LXXXIX.] e presso l'Ughelli [Ughellius, Ital. Sacr., tom. 4, in Episcop. Bergam.] si truovano diplomi dati da esso re alle chiese d'Italia coll'epoca suddetta. Ho io parimente pubblicata [Antiquit. Italic., Dissert. LXXI.] una lettera di Adalgerio, cancellarius et missus gloriosissimi regis Henrici, cujus vice in regno sumus, a tutto il popolo di Cremona, con cui gli ordinava d'intervenire al placito di Ubaldo vescovo di quella città. Contuttociò potrebbe essere che solamente all'anno susseguente si desse principio all'epoca del regno d'Italia, cioè dappoichè Eriberto arcivescovo di Milano, siccome vedremo, andò a riacquistar la grazia del medesimo re Arrigo. Nè mancano documenti italiani di questi tempi, ne' quali niuna menzione è fatta del regno d'esso Arrigo.

[205] Avea l'Augusto Corrado portato con seco in Germania un implacabil odio contra d'esso Eriberto, nè altro potendo fare, avea incaricato i principi d'Italia, cioè i vescovi, marchesi e conti di far aspra guerra a Milano. In fatti alla primavera di quest'anno si raunarono armi ed armati da varie parti per eseguire la di lui volontà e vendetta; ma punto non si sgomentò Eriberto [Arnulf., Hist. Mediol., lib. 2, cap. 16.]. Preparò egli buona copia di munizione da bocca e da guerra; chiamò in città tutti i distrettuali dal grande fino al picciolo; ed allora fu ch'egli inventò il carroccio; tanto poscia usato e decantato ne' secoli susseguenti in Lombardia. Questo era un carro condotto da buoi con un'antenna alzata che aveva sulla cima un pomo dorato con due stendardi bianchi. Nel mezzo v'era l'immagine del Crocifisso. Uno stuolo de' più forti gli stava alla guardia, e conducendosi questo carro in mezzo all'esercito, colla sua vista accresceva coraggio ai combattenti. Di molte baruffe si fecero in tal congiuntura, ed era per seguirne peggio, quando all'improvviso giunta la nuova della morte di Corrado, tutto l'esercito nimico si levò e sbandò con tal confusione, che ad alcuni costò la vita. Eriberto ne dovette ben cantare il Te Deum. Abbiamo da Ermanno Contratto [Hermannus Contractus, in Chronico.] e da Wippone [Wippo, in Vit. Conradi Salici.] che in questo anno nel dì 13 d'ottobre parimente mancò di vita Corrado duca di Franconia, di Carintia e d'Istria: con che venne eziandio a vacare la marca di Verona. Avrebbe forse potuto pretendere ad essa Adalberone, che prima di lui l'aveva goduta, e ne fu cacciato; ma anch'egli pagò il suo debito alla natura nell'anno presente. Se ad alcuno fosse ne' sei o sette anni seguenti conferita quella marca, non l'ho potuto finora scoprire. Erano nella più bella positura gli affari de' Greci in Sicilia, e pareva già vicino il fortunato giorno, in cui quell'isola nobilissima restasse [206] libera dal giogo de' Saraceni. Ma la greca avidità e superbia tagliò il corso agli ulteriori progressi, e rovinò anche gli acquisti fatti per la cagione che son per narrare. Gran cosa avea promesso Giorgio Maniaco ai Longobardi e Normanni, suoi ausiliarii a quell'impresa. Quando si fu a partire il bottino, anche essi ne pretesero, come era il dovere, la lor parte. Nulla poterono ottenere. Inviarono Ardoino nobile longobardo a Maniaco per farne nuova istanza; e questi, forse perchè parlò con troppo calore, altro non riportò che strapazzi e bastonate. Voleano i Longobardi e Normanni correre all'armi e farne vendetta; ma il saggio Ardoino, per attestato di Guaifredo Malaterra [Gaufrid. Malaterra, Hist., lib. 1.], li consigliò a dissimular lo sdegno; ed accortamente ricavata licenza di poter tornare in Calabria, imbarcatosi con tutti i suoi aderenti, felicemente si ridusse a Reggio di Calabria in terra ferma. Allora fu ch'essi, preso per lor capitano esso Ardoino, si diedero a far vendetta dell'ingratitudine de' Greci, con devastar tutto quanto poterono delle terre possedute da essi Greci in quella provincia. Ma Guglielmo pugliese [Guillielmus Apulus, Hist. lib. 1.], Cedreno ed altri scrivono, che non da Maniaco in Sicilia, ma da Doceano, ossia Dulchiano, catapano de' Greci in Puglia, fu maltrattato esso Ardoino, il quale era allora suo luogotenente. Di qui ebbe principio la rovina del dominio greco in Italia. Riuscì ancora in quest'anno a Guaimario IV principe di Salerno e di Capoa [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 65.] di sottomettere al suo dominio coll'aiuto dei Normanni il ducato di Amalfi. Lo stesso vien confermato dalla Cronichetta d'Amalfi [Antiq. Ital., tom. 1, pag. 211.], da cui impariamo, che essendo fuggiti a Napoli Giovanni e Sergio suo figlio, duchi di quella città, Mansone fratello d'esso Giovanni occupò quel principato. Ma essendo da li a quattro anni ritornato esso Giovanni [207] da Napoli, dopo aver preso ed accecato il suddetto Mansone, tornò a comandar le feste; per poco tempo nondimeno, perchè Guaimario s'impadronì di quella allora molto ricca città. La tenne egli per cinque anni e sei mesi, dopo i quali Mansone, tuttochè cieco, ricuperò quel ducato, e regnò dipoi altri nove anni.


   
Anno di Cristo MXL. Indizione VIII.
Benedetto IX papa 8.
Arrigo III re di Germania e d'Italia 2.

Fondato sopra l'autorità di Galvano Fiamma scrisse il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 8.], che il re Arrigo dopo la morte del padre fu sollecito a spedir ambasciatori in Italia ad Eriberto arcivescovo di Milano, per chiedere la corona del regno italico di presente, e buona amicizia in avvenire. Sembra a me più verisimile che Eriberto cercasse egli la grazia del nuovo regnante, e che il maneggio si terminasse nell'anno presente. Meritano d'essere qui riferite le parole dell'Annalista sassone [Annalista Saxo apud Eccardum.]. Dopo aver egli detto che Arrigo solennizzò la Pasqua in Ingeleim, seguita a scrivere così: Illuc etiam post Pascha metropolitanus mediolanensis adveniens, et de omni sua controversia, quam contra imperatorem Conradum exercuit, satisfaciens, interventu principum gratiam regis promeruit, et iterum juramentis pacem fidemque se servaturum affirmavit: sicque regem Agrippinam prosecutus, inde ad patriam cum pace simul et gratia regis remeavit. Pertanto venne sempre più a stabilirsi in Italia il dominio del re Arrigo III, quantunque non resti memoria della di lui elezione in re d'Italia, la quale è da credere che seguisse in qualche dieta dei principi in Pavia o nel precedente anno o nel presente, Truovasi menzionata anche da Arnolfo [Arnulph., Hist. Mediol. lib. 2, cap. 17.] la riconciliazione suddetta, e si vede presso il Campi [Campi, Istor. di Piacenza, tom. I, Append.] una [208] donazione fatta dal suddetto arcivescovo alla badia di Tolla sul Piacentino, scritta anno MXL domni Henrici regis primo, nostri autem archiepiscopatus XXII, Indictione VIII, Actum in Castro Cassano. Fa egli menzione in quel documento dei passati suoi travagli, e riconosce da Dio e dall'intercessione de' santi la sua liberazione. Ebbe in quest'anno il re Arrigo guerra col duca di Boemia, ma con isvantaggio de' suoi. Seguitarono intanto i Longobardi i Normanni, che s'erano ritirati dalla Sicilia, a prendere terre e a dare il guasto nel dominio de' Greci in Puglia; e perciocchè non aveano alcun sicuro ricovero in quelle parti, dopo aver presa Melfi ossia Melfia nel dì di Pasqua, la fortificarono in maniera da non temere l'orgoglio de' Greci. Leone ostiense [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 67.] scrive che Rainolfo normanno, conte di Aversa, con patto di aver la metà delle conquiste, diede aiuto ad Ardoino nemico d'essi Greci con trecento de' suoi Normanni. Nè qui si fermò la bravura di questa gente. Presero anche Venosa, Ascoli e Lavello. Abbiamo inoltre da Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] che nel mese di marzo Arigo, figliuolo di quel Melo che abbiam veduto capo della sollevazion dei Pugliesi contra de' Greci, assediò Bari, e se ne impadronì. Ma se qui andavano male gli affari dei Greci, peggio ancora camminavano in Sicilia [Cedren., in Comp. Hist.]. Ripigliate le forze, i Saraceni aveano messa insieme un'armata di terra, con cui sperando di riacquistar le città perdute, si accamparono nella pianura di Dragina. Giorgio Maniaco, valente generale di terra per l'imperadore greco, nulla prezzando costoro, presentò lor la battaglia, con aver prima ordinato a Stefano patrizio, marito d'una sorella dell'imperadrice, e general di mare, di star bea attento colla sua flotta, acciocchè niuno de' Barbari fuggisse: tanto si teneva egli in pugno la vittoria. Infatti mise in rotta il nemico, e ne fece [209] buona strage; ma il general moro ebbe la fortuna di salvarsi con una barchetta per mare. Per questa negligenza di Stefano si trovò sì irritato Maniaco, che il regalò di qualche bastonata, e lo strapazzò, chiamandolo soprattutto uom vile e traditore, Stefano, che stava bene alla corte, scrisse colà che Maniaco macchinava di usurpare per sè la Sicilia; e questo bastò perchè venisse ordine di mandarlo ne' ferri con Basilio patrizio a Costantinopoli: il che fu eseguito, con restare al comando dell'armi il suddetto Stefano. La dappocaggine ed avidità di costui diede campo ai Mori di riaversi e di ricuperare a poco a poco coll'aiuto degli stessi Siciliani le città e fortezze perdute, a riserva di Messina che si sostenne. All'assedio di questa città con tutte le lor forze passarono i Mori. Catalaco Ambusto comandante della piazza, mostrando timore, per tre di niun movimento fece, di maniera che i Mori notte e dì ad altro non pensavano che a sollazzarsi, in bere, in danze e in altre allegrie. Nel dì della Pentecoste Ambusto, animati i suoi alla pugna, diede improvvisamente addosso agli assedianti, colla cavalleria giunse fino al padiglione d'Apolafare, general de' Mori, che, colto colle spade ubbriaco, morì senza saper di morire. Chi de' Saraceni non ebbe buone gambe vi lasciò la vita; e nel bottino si truovò tanta quantità d'oro, d'argento, perle e pietre preziose che, se vogliamo crederlo, si misuravano a moggia. Ma con tutta questa fortuna i Greci, per mancanza del loro generale, nulla più acquistarono, e Stefano se ne fuggì in Calabria. Aggiunse in quest'anno Guaimario IV ai suoi principati di Salerno, di Capoa e d'Amalfi anche il ducato di Sorrento [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 65.]. Quanto al re Arrigo, egli interdisse a Walderico, abbate del monistero cremonese di san Lorenzo, l'alienarne e livellarne i beni senza licenza di Ubaldo vescovo di quella città. Questo era il mestiere di molti abbati cattivi di questi tempi. Fu dato il [210] diploma [Antiquit. Italic., Dissert. LXXII.] XVI kalendas februarii, Indictione VII anno MXL in Augusta, per consiglio Kadeloi episcopi atque cancellarii nostri. E però di qui veniamo a conoscere che Cadaloo, famoso per le sue ribalderie nella storia ecclesiastica, dovette conseguire il vescovato di Parma, non già nell'anno 1046, come volle l'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 2, in Episcop. Parmens.], ma bensì nell'anno precedente 1039.


   
Anno di Cristo MXLI. Indizione IX.
Benedetto IX papa 9.
Arrigo II re di Germania e d'Italia 3.

Era in questi tempi sconvolta la reggia di Costantinopoli per la prepotenza dell'imperadrice Zoe, che faceva e disfaceva a suo talento gl'imperadori; e però anche le membra dell'imperio greco risentivano i malori del capo. Al governo della Puglia e Calabria [Cedrenus, in Compend. Hist.] era stato inviato Doceano o Dulchiano catapano dell'Augusto Michele Paflagone, che in quest'anno finì i suoi giorni, con avere per successore Michele Calafata, il quale durò ben poco, e lasciò l'impero a Costantino Monomaco. Questo Doceano moriva di rabbia al vedere i progressi dei Normanni nella Puglia [Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 67.], e però fece quanto sforzo potè per desiderio di opprimerli e di cacciarli da Melfi. Gli era anche venuto qualche rinforzo di gente dal Levante. Nulla sbigottito per questo Ardoino, capitano allora de' Normanni, adunò anch'egli le sue truppe; e, quantunque troppo inferiore di gente [Lupus Protospata, in Chronico. Guilielmus Apulus, lib. 1.], pure intrepidamente venne alle mani coi Greci nel mese di marzo presso al fiume Labento, e toccò la vittoria ai pochi, ma valorosi. Allora i Normanni, per tirar dalla sua gli abitatori di quelle contrade, [211] elessero per loro capo Atenolfo fratello di Pandolfo III principe allora di Benevento, e arditamente nel mese di maggio presso il fiume Ofanto, e, secondo Cedreno, in vicinanza del famoso luogo di Canne, s'azzuffarono coll'esercito greco, e di nuovo lo sbaragliarono. Accadde che quel medesimo fiume, dianzi secco, allorchè i Greci il passarono, all'improvviso si gonfiò d'acque in tal guisa, che dei Greci in volerlo ripassare più ne rimasero ivi affogati, che non erano restati tagliati a pezzi nel campo dalle spade nemiche. Secondo Lupo Protospata, Doceano si salvò in Bari: segno che Argiro avea ricuperata quella città con intelligenza de' Greci, oppure che non la tenne. Gran bottino fecero in tal congiuntura i vittoriosi Normanni. Succedette parimente in quest'anno un'altra considerabile impresa, di cui parlerò all'anno seguente. Ben si può credere che i vincitori dovettero saper profittare della lor fortuna con sottomettere nuove terre in Puglia al loro dominio. Anche in Lombardia cominciò la discordia a scompaginar la buona armonia del popolo di Milano. Mi sia lecito il parlarne sotto quest'anno col Sigonio, tuttochè si possa dubitare che al susseguente appartenga questo funesto avvenimento, scritto da Arnolfo e Landolfo seniore [Arnulf., Histor. Mediolan., lib. 1, cap. 18. Landulf. Senior, Hist. Mediolan., lib. 2, cap. 26.], storici milanesi di questo secolo.

Era composta la nobiltà di Milano dei militi che tutti godevano qualche feudo, e si dividevano in capitanei e valvassori, siccome ancora d'altri che non aveano già feudi, ma per grosse tenute di beni, e per dignità ed uffizii erano potenti. Maltrattavano, aggravavano i militi il popolo minore, cioè gli artisti e l'altra plebe; e andò tanto innanzi la loro indiscretezza, che infine il popolo ruppe la pazienza e il rispetto dovuto ai maggiori con tale scissura, che la piaga durò dipoi ne' secoli avvenire, ora aperta, [212] ora cicatrizzata, ma non mai ben saldata. Abbiam veduto all'anno 1035 una simile rottura in Milano, che poi si quetò per allora. Fu un giorno malamente bastonato o ferito da un milite, ossia da un cavaliere, un plebeo. Trasse al rumore altra gente plebea; ne seguì un conflitto, e poscia un'unione giurata di tutto il basso popolo contra de' nobili, da' quali più non si voleva lasciar calpestare. Il peggio fu che Lanzone, uomo nobile, si mise alla lor testa: il che sommamente dispiacque al corpo della nobiltà. La guerra passata avea addestrata all'armi anche la plebe, e però, stando sì l'una come l'altra parte in sospetto e in guardia, un dì per un piccolo rumore tutti corsero all'armi, e si cominciò per le piazze per le strade un'aspra battaglia. Chi all'aperto, e chi dalle finestre e dai tetti combatteva, e a moltissime case fu attaccato il fuoco. Era di troppo superiore il numero dell'inferocito popolo: laonde furono obbligati i nobili a cercare scampo con fuggirsene dalla città insieme colle lor mogli e figliuoli. L'arcivescovo Eriberto, affinchè non si credesse ch'egli favorisse il partito della plebe contra dei nobili, molti de' quali erano suoi vassalli, giudicò bene anch'egli di ritirarsi fuor di Milano. Siccome apparisce da un documento da me dato alla luce [Antiquit. Italic., Dissert. XLI.], in quest'anno si truova nel Bondeno la moglie di Bonifazio duca e marchese di Toscana, Beatrice contessa, la quale è detta filia quondam Frederici, senza specificare, come era il costume, che suo padre fosse duca. Ma benchè quella carta si dica scritta nell'anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi millesimo quadragesimo primo, die XIII martii, pure è difettosa, perchè seguita l'indizione decima; e però o l'anno è fallato, e sarà il seguente; ovvero l'indizione dev'essere la nona. Confermò in quest'anno il re Arrigo tutti i diritti e beni della chiesa d'Asti a Pietro vescovo di quella città con [213] diploma [Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Episcop. Astens.] dato VII idus februarii anno dominicae Incarnationis MXLI, Indictione VIII (si dee scrivere VIIII) anno domni Henrici tertii regis, ordinationis ejus XIII, regni II. Actum in Aquisgrani palatio. Con altro diploma parimente concedette il contado di Bergamo ad Ambrosio vescovo di quella città [Ibidem in Episc. Bergomens.] nonis aprilis, Indictione IX, anno domni Henrici regnantis II, ordinationis vero ejus XXIII (scrivi XIII). Actum Moguntiae. Così a poco a poco cominciarono i vescovi di Lombardia ad acquistare anche il governo temporale e il dominio delle loro città. Se l'oro faccia tutto oggidì, nol so dire: allora certo aveva questa virtù.


   
Anno di Cristo MXLII. Indizione X.
Benedetto IX papa 10.
Arrigo III re di Germania e d'Italia 4.

Bolliva più che mai fra i nobili usciti di Milano e il basso popolo, restato padrone della città, l'odio, la discordia e la guerra. Ci assicura Landolfo seniore [Landulfus Senior, Hist. Mediolan., lib. 2, cap. 26.] che l'arcivescovo Eriberto si tenne neutrale in sì fiera congiuntura. Ora i nobili, avendo tirato nella lor fazione i popoli della Martesana e del Seprio, si fortificarono in sei terre all'intorno della città, e ne formarono un blocco, senza permettere che alcuno vi portasse dei viveri; nè giorno passava in cui non seguisse qualche badalucco o combattimento tra la plebe e i fuorusciti, con mortalità continua d'amendue le parti. Guai se talun cadeva nelle mani del nemico; non iscansava la morte, o una prigionia peggior della morte. Aveva il greco Augusto Michele Paflagone prima di morire richiamato dall'Italia Doceano ossia Dulchiano, già catapano, riconosciuto per inutile, anzi dannoso maestro di [214] guerra [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 67. Lupus Protospata, in Chron.], e in sua vece inviato in Puglia un figliuolo di Bugiano, soprannominato, per quanto s'ha dall'Ostiense, Exaugusto, o Annone, secondo il Malaterra. Costui seco condusse un numeroso stuolo di Greci e di Barbari; ma venuto a battaglia nel precedente anno coi Normanni a' dì 5 di settembre sotto Monte Piloso, o, come vuol Cedreno, in vicinanza di Monopoli, non ebbe miglior fortuna del suo predecessore. Restò ivi con una memorabile sconfitta tagliato a pezzi quasi tutto l'esercito suo. Fu fatto prigione egli stesso, e donato dai Normanni ad Atenolfo lor capitano, il quale ne fece traffico coi Greci, e ne ricavò una buona somma d'oro: azione nondimeno che irritò non poco i Normanni, e fu cagione che gli levarono il baston del comando. Abbiamo dal Protospata, che Argiro barense, figliuolo del celebre Melo, fu in quest'anno dichiarato princeps et dux Italiae, cioè della Puglia e Calabria; ma senza dire chi gli desse questo titolo, cioè se i Greci, o i Normanni. Certo è, per attestato di Guglielmo pugliese [Guilielmus Apulus, lib. 1.] e di Leone ostiense, che i Normanni Argiro Meli filium sibi praeficientes, ceteras Apuliae civitates partim vi capiunt, partim sibi tributarias faciunt. Ma non istaremo molto a vedere questo medesimo Argiro e i Normanni uniti coi Greci. Intanto l'imperador Michele Calafata, succeduto a Michele Paflagonenell'anno addietro, imputando all'imperizia e dappocaggine de' capitani le fiere percosse date dai Normanni alle armate sue, si avvisò di spedire in Italia Giorgio Maniaco [Cedrenus. Guiliemus Apulus.], cioè quel medesimo che vedemmo dopo le vittorie riportate in Sicilia mandato in ceppi a Costantinopoli. Costui venne, uomo superbo, uomo oltre ad ogni credere crudele. Appena giunto ad Otranto, trovò che i Normanni erano già divenuti padroni di tutta la [215] Puglia, o l'aveano divisa tra loro [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 67.]. A Guglielmo Bracciodiferro era toccata la città d'Ascoli. Lupo Protospata scrive [Lupus Protospata, in Chron.] che Guilielmus electus est comes Materae. A Drogone suo fratello toccò Venosa; ad Arnolino, Lavello; ad Ugo, Monopoli; Trani a Pietro; Civita a Gualtiero; Canne a Ridolfo; a Tristano, Montepiloso; Trigento ad Erveo; Acerenza ad Asclittino; ad un altro Ridolfo, Santo Arcangelo; Minervino a Rainfredo. Anche Ardoino ebbe la parte sua. E Rainolfo conte di Aversa ottenne la città di Siponto col Monte Gargano. Melfi restò comune a tutti, città diversa da Amalfi. Così noi miriamo andar crescendo a gran passi la fortuna e potenza de' Normanni in quelle contrade. Ora Maniaco diede principio alle sue imprese con impadronirsi di Monopoli e di Matera. Fin le donne e i fanciulli furono barbaramente tagliati a pezzi, nè si perdonò a' monaci e preti: tanta era la barbarie di costui. In questo mentre Argiro, preso per generale dai Normanni, s'impossessò di Giovenazzo, e per un mese tenne assediata la città di Trani. Scrive Lupo Protospata che la città di Bari reversa est in manus imperatoris nell'anno presente. Non s'intende bene, per la brevità delle parole di questo scrittore, come passassero quegli affari. Veggasi all'anno seguente, e verrà qualche lume a queste tenebre.


   
Anno di Cristo MXLIII. Indizione XI.
Benedetto IX papa 11.
Arrigo III re di Germania e d'Italia 5.

Da un documento da me pubblicato [Antiquit. Italic., Dissert. LXVI.] noi ricaviamo che Adalgerio, cancelliere e messo del re Arrigo, tenne un placito in Pavia nel monistero di san Pietro in coelo aureo, al quale intervennero Eriberto arcivescovo di Milano, Rinaldo vescovo di Pavia, Riuprando vescovo di [216] Novara, Litigerio vescovo di Como e Adelberto conte. Fu scritto quel giudicato anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi millesimo quadragesimo tertio, regni vero domini Heinrici regis hic in Italia V, decimotertio kalendas madias, Indictione undecima. Ma dovrebbe essere l'anno IV del regno, prendendo il principio dell'epoca sua dalla morte di Corrado suo padre. Tristano Calco e il Puricelli che, fondati su questo documento, scrissero essere in quest'anno venuto in Italia il re Arrigo, presero un grosso abbaglio. Quivi non è vestigio alcuno di tal venuta, e vi si oppone ancora il silenzio delle storie. Seguitarono in questo anno ancora i nobili fuorusciti milanesi a tenere bloccata la città di Milano, con succedere frequentissimi conflitti fra essi e il popolo di quella città, da cui valorosamente si resisteva ai loro sforzi. Non men crudele danza continuava nella Puglia. Era stato balzato dal trono di Costantinopoli nell'anno addietro Michele Calafata, e in luogo suo innalzato Costantino Monomaco, che prese per moglie l'imperadrice Zoe, cioè la sconvolgitrice di quell'imperio [Guilielmus Apulus, Hist., lib. 1.]. Passava un'antica nimicizia fra esso Costantino e Giorgio Maniaco generale in Italia dell'armi greche. Prevedendo costui la sua rovina sotto un imperadore sì mal affetto verso di lui, parte per disperazione, parte per gli stimoli dell'ambizione, s'appigliò ad un'arditissima risoluzione con farsi proclamare imperador de' Greci, e prenderne le insegne. Cedreno accenna [Cedren., in Compend. Histor.] che per cagion di Romano Duro, suo nemico e prepotente alla corte di Costantinopoli, Maniaco si ribellò. Infatti l'Augusto Monomaco avea spedito in Italia Pardo protospatario con ordine di spogliar Maniaco del comando. Ma lo scaltro Maniaco seppe così bene fare, che spogliò lui della vita e delle gran somme d'oro portate da esso Pardo in Italia, e se ne servì per regalar le truppe, e maggiormente [217] adescarle nel suo partito. Abbiamo poi da Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] che Maniaco andò sotto Bari, ma nol potè trarre alla sua devozione. V'era dentro Argiro figliuol di Melo, che nè per minacce, nè per promesse volle indursi a sottomettersi a lui. Tentò anche di guadagnare i Normanni, ma non gli riuscì. Tutto questo pare succeduto nell'anno precedente. L'imperadore Costantino, a cui scottava forte la ribellion di Maniaco, nè trovava mezzi per ismorzar questo fuoco, si rivolse anch'egli ad Argiro e ai Normanni; ed esibite loro delle ingorde condizioni, e massimamente, come si può credere, la conferma delle loro conquiste, li tirò dalla sua. Dall'Anonimo Barense, da me dato alla luce [Antiquit. Ital., Dissert. I.], si raccoglie che vennero ad Argiro lettere imperiali Foederatus, et Patriciatus, et Catapani, et Vestatus (forse Sebastatus). Portarono anche i messi imperiali dei magnifici regali per Argiro e per li Normanni. Tutto avrebbe dato il Monomaco per liberarsi da questo competitor dell'imperio. Argiro, ch'era da gran tempo all'assedio di Trani, ed avea fatta fabbricare una mirabil torre di legnami per espugnar la terra, tosto indusse i Normanni a ritirarsene, e a far preparamenti in favore di Costantino Monomaco contra di Maniaco. Scrisse a Rainolfo conte di Aversa per nuovi aiuti; e, raccolta un'armata di settemila persone, tutta gente di somma bravura ed avvezza alle vittorie, con Guglielmo Ferrodibraccio s'inviò in questo anno alla volta di Taranto, dove s'era chiuso Maniaco, non osando tenere la campagna contra de' pochi, ma formidabili Normanni. Taranto era città fortissima; prenderla per assalto si conosceva impossibile; nè i Greci voleano uscire a battaglia. Però dopo qualche tempo se ne tornarono indietro i Normanni. Saputo poi che Maniaco se n'era ito ad Otranto, e che contra di lui era venuta una flotta greca condotta da Teodoro patrizio [218] e catapano, accorsero anch'essi per terra all'assedio di quella città. Maniaco, veggendo la malparata, ebbe la fortuna di potersi salvare per mare e di andarsene a Durazzo. Ma poco durò la sua buona sorte, perchè sorpreso dai soldati dell'Augusto Monomaco, terminò la sua tragedia con restare ucciso in quelle contrade; oppure, come vuol Cedreno, benchè vincitore, morì di una ferita. Il capo suo, portato a Costantinopoli, empiè di consolazione tutta quella corte. Otranto si diede ad Argiro, il quale dopo questa impresa licenziò tutti i Normanni, e se ne tornò glorioso alla città di Bari. In quest'anno ancora, per attestato del Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], avendo finiti i suoi giorni Domenico Flabanico doge di Venezia, gli succedette in quel principato Domenico Contareno. Constantinus Augustus hunc ducem magistrali sede decoravit, sono parole d'esso Dandolo, significanti che dal greco augusto fu dichiarato questo doge magister militum, come erano i duchi di Napoli, cioè generale d'armata. Rapporta l'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 in Venet. Patriarch.] la fondazione da lui fatta in quest'anno, insieme con Domenico patriarca di Grado e con Domenico vescovo olivolense, ossia di Venezia, del monistero di san Niccolò in Lido, con ivi ordinare Sergio abbate. Passò in questo anno alle seconde nozze il re Arrigo III, con prendere per moglie, nel dì d'Ognissanti [Hermannus Contractus. Lambertus Scafnaburgensis. Chron. Andegavense.], Agnese figliuola di Guglielmo duca di Poitiers. Negli Annali d'Ildeseim [Annales Hildesheim.] si parla all'anno seguente di questo fatto, ma con errore. A tali nozze fu un gran concorso di buffoni, giocolieri e ciarlatani, tutti credendo, come era l'uso di quei secoli, di riportarne de' bei regali. Ma Arrigo, ridendosi di quel ridicolo costume, tutti li lasciò colle mani piene di mosche, e ne dovette riportar [219] molte maledizioni da quella canaglia, ma insieme molte lodi dai buoni e saggi.


   
Anno di Cristo MXLIV. Indizione XII.
Gregorio VI papa 1.
Arrigo III re di Germania e d'Italia 6.

Per tre anni, secondo l'attestato di Arnolfo storico [Arnulf., Hist. Mediol., lib. 2, cap. 19.], durò il blocco di Milano, già intrapreso dai nobili fuorusciti contro le plebe di quella città. Terminò esso, a mio credere, piuttosto nel presente anno che nel precedente, come si figurò il Sigonio. Eccone la maniera, di cui siam tenuti a Landolfo seniore [Landulfus Senior, Histor. Mediol., lib. 2, cap. 26.], altro storico milanese di questo secolo. Erasi ridotta per sì lungo contrasto in somme miserie quella nobil città, perchè troppo scemato il popolo a cagion dei tanti combattimenti e delle malattie sofferte, e massimamente perchè un'orrida fame era succeduta alla mancanza dei viveri. Pareano scheletri camminanti quei che erano restati in vita. Ora Lanzone capitan d'esso popolo, allorchè vide tendente al precipizio la fortuna de' suoi, nè rimaner loro speranza di soccorso, preso seco molto oro ed argento, segretamente se ne andò in Germania ad implorar il patrocino del re Arrigo. Il trovò molto adirato contra di Eriberto arcivescovo, perchè il supponeva autore di sì scandalosa division de' Milanesi, e insieme della ribellione, giacchè niuna delle due fazioni ubbidiva più agli ordini d'esso re. Purchè Lanzone si obbligasse di ricevere nella città di Milano quattromila cavalli tedeschi, promise il re Arrigo di aiutar la plebe contra dei nobili, e contra qualunque persona che volesse molestarla. A tutto acconsentì Lanzone, e fu determinato il tempo della spedizion dell'armata. Con queste buone nuove tornato a Milano rimise il cuore [220] in corpo ai macilenti suoi seguaci, con gaudio incredibile di tutti, e con sua gran lode. Ma questo Lanzone, siccome personaggio ben provveduto di senno, ed amante della patria, stette poco a riconoscere a che pericolo si esponesse la città, e non men la fazione contraria che la sua. Fors'anche avea consigliatamente operato tutto per condurre alla pace i nobili ostinati. Perciò segretamente s'abboccò con alquanti nobili fuorusciti; e rappresentato loro quanto a tutti potea avvenire per così fiera disunione, non trovò difficoltà a stabilire una buona pace e concordia: con che rientrarono i nobili in Milano, e deposto ogni spirito di vendetta, attesero sì i grandi che i piccioli a vivere per allora con buona armonia, benchè poco fossero disposti gli animi dell'una parte verso dell'altra. Tal fine ebbe quella scandalosa discordia. Conoscendo Poppone patriarca di Aquileia quanto fosse agevole, nella corruzione in cui si trovava allora la corte romana per cagione di un papa pieno di vizii, l'ottenere quel che si voleva [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], tanto s'adoperò, che ne riportò un decreto, che la chiesa di Grado, benchè da più secoli smembrata, dovesse riconoscere per suo metropolitano il patriarca aquileiense. Negli ultimi mesi adunque dell'anno presente portatosi con gente armata a Grado, diede il sacco a quanto vi era di buono; ed appunto con barbarica crudeltà attaccò il fuoco alle chiese e alla città, e ne fece un falò. Domenico Contareno doge ed Orso patriarca di Grado, commossi da sì empio insulto, ne scrissero lettere assai calde a papa Benedetto, e spedirono apposta a Roma i lor messi per implorar giustizia e ristoro. Furono trovate così buone le lor ragioni, che si venne nel sinodo romano ad abolire il privilegio surrettiziamente ottenuto, con obbligo di restituire il maltolto. Ed allora il doge di Venezia si studiò di rifabbricare l'abbattuta città di Grado. Tornati che furono alle lor [221] case i Normanni dopo la morte di Maniaco, Guaimario IV principe di Salerno e di Capoa, mal sofferendo che Argiro sotto l'ombra del greco imperadore usasse il titolo di principe di Bari e di duca d'Italia, determinò di fargli guerra. Aveva esso Guaimario preso il titolo di duca di Puglia e Calabria, quasichè questo gli somministrasse diritto sopra quelle provincie. Ora avendo egli condotti al suo soldo i Normanni che aveano abbandonato Argiro, portò le sue armi contro della Calabria. Cosa ivi facesse, non si sa. Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] solamente nota che Guaimario insieme con Guglielmo Bracciodiferro, capo de' Normanni, vi fabbricò il castello di Squillaci. Guglielmo pugliese aggiugne [Guilielmus Apulus, Hist., lib. 2.] ch'egli passò con quelle forze sotto Bari, e vi mise l'assedio, con intimarne la resa ad Argiro. Ma Argiro facendo buona guardia alla città, nè volendo cimentarsi a combattimento alcuno, il lasciò minacciar quanto volle. Però veggendo Guaimario di consumare indarno e tempo e danari intorno a quella città, dopo aver saccheggiato tutto il paese, se ne ritornò indietro colle trombe nel sacco.

Patì una fiera confusione e burrasca in quest'anno la Chiesa romana [Vict. III Papa, Dialog., lib. 3. Hermannnus Contractus, in Chron. Leo Ostiensis, Petrus Damiani, et alii.]. Erano arrivate al colmo le disonestà, le ruberie e gli ammazzamenti di papa Benedetto IX, in maniera che il popolo romano, non potendo più tollerar questo mostro, il cacciò fuori di Roma, ed elesse papa, canonica parvipendentes decreta, Giovanni vescovo sabinense, che prese il nome di Silvestro III. Questi comandò le feste solamente tre mesi, perchè colla forza de' suoi parenti risorto Benedetto IX, risalì sul trono, scomunicò e cacciò il sustituito Silvestro. Ma continuando nelle sue iniquità Benedetto, e scorgendo più che mai irritati contro di lui i Romani, [222] rinunziò al pontificato, con venderlo simoniacamente a Giovanni chiamato Graziano, arciprete romano, il quale assunse il nome di Gregorio VI. In questo miserabile stato cadde allora la santa Chiesa romana, non per la prepotenza di principe alcuno, ma per la disunione ed avarizia del popolo romano, che avendo mano nell'elezione de' papi, facilmente sturbava chiunque del clero serbava il timore di Dio, ed avrebbe forse saputo canonicamente provvedere al bisogno della santa Sede. Sforzasi il cardinal Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.] di provare che Gregorio VI fu riconosciuto per legittimo papa, e lodato da molti per le sue virtù; nè questo si mette in dubbio. Ma il padre Pagi [Pagius, ad Annal Baron. ad hunc annum.] pruova che Graziano, cioè Gregorio VI comperò anch'egli, cioè simoniacamente acquistò il romano pontificato, e che, per non essere sui principii noto questo peccaminoso ingresso d'amendue que' papi, fu ad essi prestata ubbidienza, nè per questo rimasero esclusi dai cataloghi de' romani pontefici. Comunque sia, noi fra poco vedremo che non tardò Iddio a sovvenir la Chiesa, e a liberarla dagli scandali con darle dei legittimi e buoni pontefici. Gioverà anche alla storia d'Italia l'accennar qui [Hermannus Contractus, in Chron. Annalista Saxo.], che venuto a morte in quest'anno Gozelone ossia Gotolone, duca della Lorena inferiore lasciò quel ducato a Gozelino suo figliuolo, soprannominato il Dappoco. Ma il re Arrigo, tuttochè gliel'avesse promesso, conferì quel ducato ad un Adalberto. Non seppe digerir questo torto Gotifredo il Barbato, altro figliuolo del suddetto Gozelone, e già duca della Lorena mosellanica ossia superiore, giovane di nobilissima indole, e peritissimo dell'arte militare. Perciò ribellatosi al re Arrigo, fece gran guasto e strage di gente fino al Reno, non salvandosi dal di lui furore se non chi si rifugiò nelle fortezze, o si [223] riscattò con danari. Noi vedremo questo principe in Italia da qui ad alcuni anni operator d'altre imprese. Finì sua vita in quest'anno Gebeardo arcivescovo di Ravenna, mentre dimorava nel monistero della Pomposa [Hermannus Contractus, in Chron. Rubeus, Hist., Ravenn. lib. 5.], godendo ivi della pia conversazione di Guido abbate, uomo di santa vita. Fu occupata quella chiesa da un certo Widgero; ma, siccome vedremo, ne decadde dopo due anni. Nè voglio lasciar di dire, aver Bennone nel zibaldone d'imposture e calunnie caricata la mano sopra il suddetto papa Benedetto IX, e che san Pier Damiano, in vigore d'una delle rivelazioni che anticamente erano alla moda, il cacciò nel profondo dell'inferno. Ma essersi trovato a' dì nostri chi con antichi documenti fa vedere che esso Benedetto IX, a persuasione di san Bartolommeo abbate di Grottaferrata, rinunziò il pontificato, ed avendo vestito l'abito monastico in quel monistero, attese a far penitenza dei suoi falli, finchè Dio il chiamò all'altra vita; e però non meritar fede chi tanto sparla del suo fine, e di penitente ch'ei fu, cel vuole far credere impenitente e dannato. Come poi s'accordino tali notizie colle parole dette da san Leone IX papa, prima di morire, nell'anno 1054, intorno ad esso Benedetto IX, io lascerò che altri lo decida. Resta forte allo scuro la storia italiana e romana in questi tempi.


   
Anno di Cristo MXLV. Indizione XIII.
Gregorio VI papa 9.
Arrigo III re di Germania e d'Italia 7.

Se si ha a prestar fede a Guglielmo malmesburiense [Willielmus Malmesburiensis, de gest. Reg. Angl. lib. 2.], papa Gregorio VI trovò sì distratti e desolati per colpa dei suoi antecessori i beni e gli stati della Chiesa romana, che appena gli restava da vivere. Erano sì assediati i cammini [224] dai ladri ed assassini, che niun pellegrino osava più di passare a Roma, se non in buona carovana. Le obblazioni che si facevano alle chiese romane degli Apostoli e Martiri venivano tosto rapite dai potenti scellerati. Il pontefice prima colle buone, poi colle scomuniche cercò di metter fine a tanti abusi ed iniquità. Nulla valse questo rimedio. Unì dunque fanti e cavalli armati, che colle spade sterminarono gran parte di quella mala razza, e per tal via ricuperò molti poderi e città tolte alla Chiesa romana. Aperti ancora ed assicurati i cammini, tornarono i pellegrini a frequentar le chiese di Roma. Ma i Romani, avvezzi a vivere di rapina, non poteano soffrir sì fatti regolamenti, e chiamavano sanguinario il papa, e indegno di dir messa, e in ciò andavano d'accordo col popolo ancora i cardinali. Ma io non so che mi credere di questo racconto del Malmesburiense, al vedere ch'egli vi attacca varie favole intorno alla morte di questo papa, e un lungo ragionamento di lui, che sicuramente è finto, e resta smentito dalla storia. Quel solo che si può credere, si è il miserabile stato delle rendite della santa Sede in questi tempi sì abbondanti d'iniquità. Così li trovò anche il santo papa Leone IX fra quattro anni, siccome vedremo. Sul principio di quest'anno diede fine a' suoi giorni Eriberto arcivescovo di Milano, lodatissimo dagli storici milanesi [Landulfus, Hist. Mediolan., lib. 2, cap. 32.], ma chiamato tiranno da i Tedeschi. Ermanno Contratto [Hermannus Contract., in Chron.] il fa morto nell'anno 1044, il Puricelli [Puricellius, Monument. Basil. Ambrosian.] nel 1046. Ma nel suo epitaffio, che dee meritar più fede, si legge:

OBIIT ANNO DOM. INC. MXLV. XVI. DIE

MENSIS IANVARII, INDIC. XIII.

Lo stesso abbiamo da Landolfo seniore, storico milanese di questi tempi. Però nell'ultimo suo testamento, riferito dal [225] suddetto Puricelli, è scritto anno ab Incarnatione Domini millesimo quadragesimo quinto, mense decembris, Indictione XIII, si dee credere adoperata l'era pisana, che anticipa di nove mesi l'anno volgare, oppure l'anno nuovo cominciò nel Natale del Signore. Insomma quel testamento dee appartenere all'anno 1044, ne' cui ultimi mesi correva l'indizione XIII. Ebbe il corpo di Eriberto sepoltura nel monistero di san Dionisio, da lui fabbricato ed arricchito presso alla città di Milano. Venne il clero e popolo di quella città all'elezione del successore, e, per attestato di Landolfo seniore [Landulfus Senior, Hist. Mediol., lib. 3, cap. 2.], quatuor majores ordinis viros sapientes, optimae vitae bonaeque famae elegerunt, quibus electis universae civitatis ordines ipsos ad imperatorem (non era peranche imperadore) Henricum, qui noviter surrexerat, noviterque populum ipsum a majorum manibus liberaverat, summa cum diligentia direxerunt. Galvano Fiamma [Gualvaneus Flamma, in Chron. Major. MS., cap. 763.] nomina questi quattro eletti. Ed ecco la maniera che si teneva in tempi tanto sconcertati dell'Italia, allorchè occorreva l'elezione de' vescovi. Si lasciava al clero e popolo un'ombra dell'antico diritto, con permettere loro di eleggere e nominar quattro personaggi, uno de' quali poi soleva essere prescelto dal re d'Italia, ossia dall'imperadore. Ma talor succedeva che i re ed imperadori, rompendo questo ordine, eleggevano fuor degli eletti chi più era loro in grado. Ciò appunto avvenne in questa congiuntura.

Trovavasi alla real corte in Germania Guido da Velate, villa del Milanese, uomo di bassa lega, per quanto lasciò scritto Arnolfo [Arnulf., Hist. Mediol., lib. 3, cap. 1.], con dire: Sustulit eum de gregibus, et de post foetantes accepit eum. Come egli si aiutasse, non è ben noto o certo. Sappiam solamente che il re Arrigo, anteponendolo ai quattro eletti, il dichiarò arcivescovo di Milano. Se crediamo al suddetto Fiamma, Guido era [226] stato eletto dalla parte dei nobili di Milano, e ne dà qualche fondamento Landolfo seniore: il che pare che possa giustificar la risoluzione presa dal re Arrigo. Aggiugne di più, che questo Guido era suo segretario; del che si può dubitare. Resta incerto quando egli entrasse in possesso della cattedra ambrosiana. Nel Codice estense di Arnolfo è notato l'anno 1046, ed Ermanno Contratto mette in un anno la morte di Eriberto, e nel susseguente l'elezione di Guido. Non sembra molto probabile questa opinione, perchè quando sussista la morte di Eriberto nel gennaio dell'anno presente, difficilmente potè restare per sì lungo tempo vacante la chiesa di Milano. Venuto in Italia Guido, fu mal ricevuto dal clero della metropolitana, e durò fra essi una gran discordia; ma per paura del re mostrarono di acquetarsi, e l'accettarono per loro pastore. Da questo fatto poi con sicurezza raccogliamo che i Milanesi erano tornati in grazia del re Arrigo, e riconoscevano la di lui autorità e signoria. Concedette esso re in questo anno un privilegio al monistero delle monache di santa Giulia di Brescia, pubblicato dal Margarino [Bullar. Casin., tom. 2, Constit. LXXXIX.], e dato anno dominicae Incarnationis MXLV, Indictione XIII, undecimo kalendas augusti, ordinationis vero domni Henrici XIII (dovrebbe essere XVII), regni vero VI (si scriva VII). Actum Trajectula. Parimente con altro suo diploma dato in Augusta, [Antiquit. Ital., Dissert. LXXIV.] ma senza il giorno e il mese, confermò tutti i beni e diritti della chiesa di Mantova a Marciano vescovo di quella città. Secondo Ermanno Contratto [Hermannus Contract., in Chron.], Gotifredo duca di Lorena, veggendo di non poter sostenere la sua ribellione, andò in quest'anno a gittarsi ai piedi del re Arrigo, e per salutar penitenza fu posto in prigione. Sigeberto [Sigebert., in Chron.] aggiugne, che con dare per ostaggio il figliuolo, riacquistò la libertà; ma essendo [227] mancato di vita esso suo figliuolo, egli tornò a ribellarsi, e a devastar paesi come prima. L'Annalista sassone [Annalista Saxo.] mette questo fatto sotto l'anno seguente. Abbiamo anche un'indubitata pruova che s'era ristabilita la buona armonia fra il re Arrigo e il popolo di Milano, perciocchè troviamo al governo di quella città nell'anno presente il ministro imperiale. E questi fu il marchese Alberto Azzo II progenitore de' principi estensi. Ciò costa da due placiti tenuti nel novembre di quest'anno in essa città, e da me dati alla luce [Antiquit. Ital., Dissert. XLV.], ne' quali domnus Azo marchio, et comes istius civitatis rende giustizia con imporre la pena di mille mancosi d'oro da pagarsi medietatem camerae domni regis. Per attestato del Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], Salomone re d'Ungheria fece ribellare la città di Zara ai Veneziani. Ma insorta poi guerra civile fra quel re e i suoi fratelli, Domenico Contareno doge di Venezia si servì di tal congiuntura per ricuperar circa questi tempi la suddetta città. Nulladimeno essendo Salomone stato eletto re d'Ungheria molto dipoi, dovrebbe questo avvenimento riferirsi non all'anno secondo di quel doge, ma assai più tardi. Romoaldo salernitano [Romuald. Salernit., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.] scrive che nell'anno presente Drogone conte dei Normanni prese la città di Bovino, e la mise a sacco. Nell'anno appresso fu essa rifabbricata, ma da lì a poco un incendio la rovinò.


   
Anno di Cristo MXLVI. Indizione XIV.
Clemente II papa 1.
Arrigo III re di Germania 8, imperadore 1.

Abbiamo da Ermanno Contratto [Hermannus Contract., in Chron.] che Widgero eletto e non consecrato arcivescovo di Ravenna, dopo aver per due anni incirca occupata quella chiesa e [228] commesse varie crudeltà e cose improprie, chiamato in Germania dal re Arrigo, fu da esso deposto. Celebrò Arrigo la Pentecoste in Aquisgrana, dove se gli presentò Gotifredo duca della Lorena, per chiedergli misericordia de' suoi falli, nè solamente l'ottenne, ma anche il ducato, da cui era decaduto per le già enunziate ribellioni. Sarà cura d'altri il vedere se questa umiliazione di Gotifredo sia diversa dalla narrata nell'anno precedente. Si credeva Arrigo di aver terminate le guerre coll'Ungheria, che gli aveano dato tanto da fare negli anni addietro, e parendogli di lasciar quieta la Germania, determinò sull'autunno di quest'anno la sua venuta in Italia, per dar sesto agli affari di queste contrade, e massimamente di Roma, dove desiderava di prendere la corona dell'imperio. Era per viaggio con un esercito numeroso, quando sentì sconvolto di nuovo il regno dell'Ungheria; ma non istette per questo, e seguitò l'impreso cammino. Arrivato a Pavia, tenne ivi un concilio, oppure una dieta. Verisimile cosa è che in tal congiuntura egli ricevesse in Milano la corona ferrea dalle mani di Guido arcivescovo. Passò dipoi a Piacenza, dove venne a trovarlo Graziano, cioè papa Gregorio VI, che fu accolto con onore, e rimandato con belle parole alla sua residenza. Sul finir di novembre noi troviamo esso re in Lucca, dove fece una donazione [Antiquit. Ital., Dissert. LVI.] VII kalendas decembris, anno dominicae Incarnationis MXLVI, Indictione XIV, anno autem domni Henrici III, ordinationis ejus XVIII, regni vero VIII. Actum Lucae. Giunto Arrigo a Sutri alquanti giorni prima del santo Natale, quivi fece raunare un gran concilio di vescovi, e v'inviò anche papa Gregorio, acciocchè fosse presidente di quella sacra adunanza. Non mancò egli di andarvi, colla speranza che abbattuti gli altri due papi, egli resterebbe solo sul trono. Abbiamo dall'Annalista sassone [Annalista Saxo.], avere un romito (è molto che non dicessero [229] un angelo) inviato al re Arrigo questo ricordo:

Una Sunamitis nupsit tribus maritis.

Rex Henrice, Omnipotentis vice

Solve connubium triforme dubium.

Ora in esso concilio fu esaminata la causa di tutti e tre i papi, cioè di Benedetto IX, di Silvestro III e di Giovanni VI, e trovato che con male arti e colla simonia aveano conseguito il pontificato, furono tutti deposti, o, per dir meglio, dichiarato nullo ed illegittimo il loro papato. Il cardinal Baronio, che teneva non già simoniaco, ma vero e legittimo papa Gregorio VI, crede ch'egli spontaneamente rinunziasse, e chiama una detestanda prosunzione quella del re Arrigo, quasichè egli il facesse deporre, perchè senza suo consentimento fosse stato eletto dai Romani. Ma cotal pretensione difficilmente potè avere Arrigo, perchè essendo solamente re, niun diritto aveva egli sopra la città e i fatti di Roma. Quel che più importa, meritano qui ben più d'essere uditi gli antichi storici [Chronograph. S. Benigni. Hermannus Contract., in Chron. Pandulfus Pisanus. Arnulfus Hist. Mediol.] che dicono convinto di simonia anche il suddetto Gregorio VI. Sopra tutto si legga quello che ne scrive Leone vescovo ostiense [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 79.] e cardinale, informatissimo di quegli affari, il quale non ha difficoltà di dire che il re Arrigo, caelitus inspiratus, de tanta haeresi sedem apostolicam desiderans expurgare, Sutri restitit, et super tanto negotio deliberaturus, universale ibi episcoporum concilium fieri statuit, ec. Nè s'avvide il saggio Baronio ch'egli disavvedutamente dava una mentita ad un insigne e santo papa di questo medesimo secolo, cioè a Vittore III, stato prima abbate di Monte Casino col nome di Desiderio. Questi ne' suoi dialoghi, i quali si veggono pur anche citati da esso porporato Annalista, scrive [Victor III. Dialogor., lib. 3.] che [230] Benedetto IX Joanni archipresbytero, non parva ab eo accepta pecunia, summum sacerdotium tradidit. Aggiugne, che Arrigo tres illos, qui injuste apostolicam sedem invaserant, cum consilio et auctoritate totius concilii juste depettere instituit, e che Gregorio VI agnoscens se non posse juste honorem tanti sacerdotii administrare, ex pontificali sella exsiliens, ac semetipsum pontificalia indumenta exuens, postulata venia, summi sacerdotii dignitatem deposuit. Altrettanto si ricava da una bolla di Clemente II papa, successore del medesimo Gregorio, e da Bonizone vescovo di Sutri in questo secolo, le parole dei quali son riferite dal padre Pagi [Pagius, in Annal. Baron. ad ann. 1044.]. Ma se giustamente operò Arrigo, e, per confessione dello stesso Baronio, inventum est plane remedium, opportunum, quum metu et reverentia imperatoris cessarint violentae illae intrusiones, crebro, ut vidimus, per comites tusculanos sacrilege iteratae: come mai si viene ad insultare alla memoria di questo re, autore giusto d'un rilevantissimo beneficio? Anche Sigismondo imperadore si sbracciò per far deporre tre papi, e lode, non biasimo conseguì da tutti. Veggansi gli encomii che san Pier Damiano [Petrus Damian., Opusc. VI, cap. 36.] diede per questo allo stesso imperadore Arrigo. Fu poscia condotto in Germania il deposto Gregorio VI, e quivi terminò i suoi giorni, non si sa bene in qual città o monistero. Sappiamo bensì che il celebre Ildebrando, di cui avremo a parlare non poco, il seguitò, ma contra sua voglia, in quell'esilio. Dopo il concilio di Sutri entrò in Roma il re Arrigo, e raunatosi tutto il clero e popolo romano nella basilica vaticana co' vescovi stati al suddetto concilio, restò eletto, per consentimento di tutti, sommo pontefice Suidgero vescovo di Bamberga, personaggio cospicuo per la sua pietà e letteratura, il quale con gran ripugnanza accettò e prese il nome di Clemente II. E ciò, perchè non si trovò nel clero romano chi fosse creduto [231] degno di sì sublime ministero. Crede il cardinal Baronio che questo fosse velamentum fraudis, et adinventus praetextus, quod eligeretur peregrinus, eo quod Romae non reperiretur idoneus: nam quis magis idoneus ipso Gregorio, quem viri sanctissimi atque doctissimi ejus temporis summis laudibus praedicarunt? Ma ne vuol egli il Baronio saper più di Vittore III papa, e di Leone cardinale e vescovo d'Ostia, viventi in questo tempo, e ben informati di quegli affari, ed amendue chiaramente attestanti che non erat tunc talis reperta persona, quae digne posset ad tanti honorem sufficere sacerdotii? Nè d'esso certamente parrà mai degno il suddetto Gregorio, dacchè fu convinto d'essere entrato simoniacamente nella sedia di san Pietro. Lo stesso san Pier Damiano, che sulle prime, per non sapere il mercato fatto, cotanto lodò esso Gregorio, poscia di lui scrisse [Petrus Damian., Opuscul. XIX, cap. 11.]: Super quibus, praesente Henrico imperatore, quum disceptaret postmodum synodale concilium, quia venalitas intervenerat, depositus est. Che se Martin Polacco ed altri storici lontani da questi tempi scrissero che Clemente II fu invasor apostolicae sedis, non meritano d'essere ascoltati, perchè Clemente fu eletto da tutto il clero e popolo romano. Nel Natale del Signore fu consecrato esso papa Clemente II, e nel giorno medesimo con gran pompa fu acclamato imperador de' Romani Arrigo, terzo fra i re di Germania, e secondo fra gl'imperadori. Ricevette non men egli che l'Augusta sua consorte Agnese l'imperial corona dalle mani del novello pontefice. E così, come erano coronati, insieme col papa [Hermannus Contractus, in Chron.], e fra i viva e l'accompagnamento del popolo romano e delle altre nazioni, amendue passarono al palazzo del Laterano. Celebratissimo era in questi tempi il monistero della Pomposa, oggidì nel distretto di Ferrara, monistero antichissimo, ma sommamente [232] arricchito da Ugo marchese, uno degli antenati della casa d'Este, ed illustrato in maniera da Guido abbate santo, che Guido aretino monaco, ristoratore del canto fermo, in una sua lettera rapportata dal cardinal Baronio all'anno 1022 [Baron., in Annal. Ecclesiast.], nominando il monistero pomposiano, ebbe a dire: Quod modo est per Dei gratiam, et reverentissimi Guidonis industriam in Italia primum. Era l'abbate Guido in istima grande presso il re Arrigo e però, siccome costa dalla Vita di lui, scritta da un monaco contemporaneo, e data alla luce dai padri Bollando [Bolland., in Act. Sanctorum.] e Mabillone [Mabill., Saecul. VI Benedict., P. I.], ebbe ordine da esso re nell'anno presente di andare incontro ai messi reali, spediti in Italia per fare i preparamenti necessarii per la venuta del re medesimo, perchè Arrigo intendeva di valersi in tutto del parere del santo abbate. Andò Guido a Parma, indi a Borgo san Donnino, dove infermatosi passò a miglior vita nel dì 31 di marzo, dopo aver governato per quarantotto anni il suo monistero. Racconta Donizone [Donizo, in Vit. Mathild., lib. 1, cap. 14.] che Bonifazio duca e marchese di Toscana, e signore di Ferrara, una volta l'anno andava alla Pomposa per farvi la confessione de' suoi peccati, perchè allora era poco in uso il frequentare i confessionarii:

Fratres ac abbas ejus delicta lavabant,

Ecclesiae quorum solito dabat optima dona,

Rex etenim numquam dedit ullus ibi meliora.

E perciocchè, secondo l'abuso comune di questi tempi corrotti, i re, i principi e i vescovi vendevano, cioè conferivano le chiese per danari, il santo abbate Guido diede al marchese Bonifazio una buona disciplinata, e gli fece promettere di guardarsi in avvenire da questo abbominevole e sacrilego mercato:

Qua de re Guido sacer abbas arguit, immo

Hunc Bonifacium, ne venderet amplius, ipsum

[233]

Ante Dei matris altare flagellat amaris

Verberibus nudum, qui deliciis erat usus.

Pomposae vovit tunc abbatique Guidoni,

Ecclesiam nullam quod per se venderet unquam.

Abbiamo da Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] che in quest'anno Argiro figliuol di Melo, patrizio e duca della Puglia, andò a Costantinopoli, dove Guglielmo pugliese [Gulielmus Apulus, lib. 2.] attesta che ricevette grandi onori e commissione dal greco Augusto di trovar maniera di scacciare di Puglia i Normanni, che ogni dì più divenivano potenti ed insolenti, e recarono ancora in questi tempi non poche molestie e danni alle castella ed ai beni di Monte Casino. Intanto, secondo il suddetto Protospata, Eustasio, catapano de' Greci in Italia, richiamò tutti i banditi da Bari, e li fece ritornare alla lor patria. E nel dì 8 di maggio, essendo ito coll'esercito suo a Trani per assalire i Normanni, col riportarne una rotta imparò a conoscer meglio e a rispettare quella valorosa nazione. Ma una grande perdita fecero in questo anno anche i Normanni, perchè la morte rubò loro Guglielmo Bracciodiferro, capo de' medesimi, il cui solo nome era terror de' nemici. Drogone suo fratello fu creato conte, ed ebbe tutti i di lui Stati. Non so se a quest'anno, oppure alla prima venuta di Arrigo in Italia, appartenga ciò che narra Donizone [Donizo., in Vit. Comitiss. Mathild., lib. 1, cap. 12.]. Cioè, che trovandosi esso re in Mantova, Alberto visconte di quella città, cioè vicario in essa del marchese e duca di Toscana Bonifazio, gli donò del suo cento cavalli (cosa non facile a credersi) e dugento astori per la caccia degli uccelli. Di sì sterminato dono si maravigliarono forte il re e la regina, conoscendo da questo che gran signore doveva essere il marchese, quando al suo servigio avea degli uffiziali sì ricchi. Volle l'imperadore tener seco questo Alberto alla sua tavola; ma egli se ne scusò con dire di [234] non aver mai osato di mangiare alla mensa del suo padron Bonifazio. Avendogli nondimeno data licenza Bonifazio, pranzò col re, e ne riportò varii doni di pelliccie, usatissime in questi tempi, le quali poi presentò egli tutte al duca Bonifazio suo signore col cuoio di un cervo ripieno di danari, affine di placarlo. In questo secolo e nei precedenti ogni città aveva il suo conte, cioè il suo governatore, ed ogni conte il suo visconte, cioè il suo vicario: onde poi vennero varie nobili famiglie appellate dei visconti. In questo anno, secondochè si può ricavare dal suddetto Donizone, Beatrice, duchessa di Toscana, partorì al suddetto Bonifazio suo consorte la contessa Matilda, i cui fatti la renderono poi celebre nella storia d'Italia. Avea prima partorito un maschio appellato Federigo, ma egli non sopravvisse molto al padre. Circa questi tempi, per quanto abbiamo dall'autore della Vita di san Severo vescovo di Napoli [Vita S. Severi Episcop. in Act. Sanctorum Neapol., ad diem 30 aprilis.], Giovanni duca di Napoli e della Campania andò ad assediar Pozzuolo, e quivi stette accampato gran tempo, ma senza apparire qual esito avesse quell'assedio.


   
Anno di Cristo MXLVII. Indizione XV.
Clemente II papa 2.
Arrigo III re di Germania 9, imperadore 2.

Il vizio della simonia, siccome abbiamo detto, inondava allora tutta l'Italia. Clemente II papa, animato dal suo zelo e dalle premure dell'imperadore Arrigo, che al pari del pontefice desiderava tolta dalla Chiesa di Dio questa infamia, celebrò un concilio in Roma contra de' simoniaci, di cui fa menzione san Pier Damiano [Petrus Damian., Opusc. XIX, cap. 27 et 36.]; ma gli atti son periti. È da vedere come da esso san Pier Damiano venga esaltato l'imperadore Arrigo, per la cura che egli si prese di estirpare la [235] simonia nei regni a lui consegnati da Dio, e massimamente in Italia, con recedere affatto dal pessimo esempio de' suoi predecessori. E perciocchè pur troppo i Romani aveano in addietro per amore della pecunia conculcate le leggi di Dio e della Chiesa nelle elezioni dei papi, dal che erano seguiti tanti scandali, e si mirava ridotta in tanta povertà la santa Chiesa romana; esso re obbligò il clero e popolo di Roma che non potesse eleggere e consecrar papa alcuno senza l'approvazione sua. Et quoniam, dice san Pier Damiano, ipse anteriorum tenere regulam noluit, ut aeterni regis praecepta servaret, hoc sibi non ingrata divina dispensatio contulit, quod plerisque decessoribus suis eatenus non concessit: ut videlicet ad ejus nutum sancta romana Ecclesia nunc ordinetur, ac praeter ejus auctoritatem apostolicae sedi nemo prorsus eligat sacerdotem. Anche Glabro Rodolfo ed Ugo flaviniacense attestano questa pia premura dell'Augusto Arrigo contro la simonia; e perciocchè la corruzion del secolo era allora grande, ed esso imperadore, pieno d'ottimi sentimenti, altro non desiderava che il ben della Chiesa, fu allora creduto utile e necessario il ripiego suddetto. Ma perchè ad un padre buono succedette un figliuolo cattivo che cominciò ad abusarsi di questa autorità, e il clero e popolo romano si diede allo studio e alla pratica delle virtù, cessò questo bisogno, e fu giustamente rimessa in piena libertà del clero romano l'elezion de' sommi pontefici, che da molti secoli s'usa, ed è da desiderare che sempre duri, ma che nello stesso tempo cessino le scandalose lunghezze dei conclavi, e le private passioni de' sacri elettori in affare di tanta importanza per la Chiesa di Dio. In esso concilio insorse nuova lite di precedenza fra gli arcivescovi di Ravenna e di Milano, e il patriarca di Aquileia; e la sentenza fu data in favore del ravennate. Di questo fatto altra testimonianza non abbiamo, fuorchè una bolla di papa Clemente II, accennata dal [236] Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.] e pubblicata dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Archiepisc. Ravenn.], la qual veramente ha tutta l'apparenza di non essere finta, ed avrebbe anche maggior credito se non le mancasse la data. Tuttavia il Puricelli la crede una finzione, e noi abbiamo due storici milanesi di questo secolo, che nulla ne parlano, cioè Arnolfo e Landolfo seniore. Anzi il secondo scrive [Landulf. Senior, Histor. Mediol. lib. 3, cap. 3.] che in un concilio tenuto (non so se nell'anno 1049, oppure nel 1050) da san Leone IX avvenne la controversia della precedenza fra gli arcivescovi di Milano e di Ravenna, e che, Deo annuente, ecclesia ambrosiana per Guidonem sedem ipsam viriliter devicit, et religiose hodie et semper tenebit. Ed Arnolfo [Arnulf., Hist. Mediol.] anch'egli attesta che nel concilio romano Guido arcivescovo di Milano fu onorevolmente trattato ab apostolico tunc Nicolao, cujus dextro positus est in praesenti synodo latere: forse nell'anno 1059. Oltre a ciò, Benzone scismatico vescovo d'Alba, che visse sotto il re Arrigo IV, figliuolo di questo imperadore, nel panegirico, ossia nella satira pubblicata dal Menckenio [Benzo, cap. 4 Panegyr., tom. 1 Rer. German. Menck.], scrive, che quando il re va a prendere la corona imperiale, eum sustentat ex una parte papa romanus, ex altera parte archipontifex ambrosianus. Oltre di che, Domenico patriarca d'Aquileia in una sua lettera, scritta circa l'anno 1054, e pubblicata dal Cotelerio [Coteler, Monument. Graec., tom. 2.], scrive d'essere in possesso di sedere alla destra del papa.

Dimorava tuttavia in Roma l'imperadore Arrigo, allorchè confermò tutti i suoi beni al monistero di san Pietro di Perugia con un diploma [Bullar. Casinens., tom. 1, Constit. XC.], dato III nonas januarii, anno dominicae Incarnationis MXLVII, Indictione XV, anno autem domni Heinrici tertii, ordinationis [237] ejus XVIII, regnantis VIII, imperantis autem primo. Actum Romae. Un altro ne diede pel monistero di Casauria [Chron. Casaur., P. II, tom. 2 Rer. Ital.] kalendis januarii. Actum ad Columna civitatem, onde prese il cognome la nobilissima casa Colonna. Uscito Arrigo di Roma, dopo aver preso nonnulla castella sibi rebellantia, come s'ha da Ermanno Contratto [Ermannus Contract., in Chron. Leo Ostiens., Chron., lib. 1, cap. 80.], passò a Monte Casino, dove, accolto con grande onore da quei monaci, lasciò molti regali, e con un diploma, portante il sigillo d'oro, confermò tutti i diritti e beni di quell'insigne monistero. Abbiamo questo diploma dal padre Gattola [Gattola, Hist. Monaster. Casinens., tom. 1. Accession.], e si vede dato tertio nonas februarii, anno dominicae Incarnationis MXLVII, Indictione XV, anno autem domni Heinrici tertii, ordinationis ejus decimo octavo, regnantis quidem octavo, sed imperantis primo. Actum Capuae. A Capoa appunto da Monte Casino se n'andò l'imperadore. Ossia che Guaimario IV principe di Salerno, il quale dall'Augusto Corrado avea anche ottenuto il principato di Capoa, non fosse molto in grazia dell'Augusto Arrigo; oppure che avesse fatto gran progresso nella corte e nell'animo di lui Pandolfo IV già principe di Capoa, deposto dal suddetto Corrado: egli è fuor di dubbio che Arrigo trattò la restituzion d'esso Pandolfo nel principato di Capoa, e che Guaimario gliel rinunziò con riceverne una buona somma d'oro. Presentaronsi anche all'imperadore i Normanni, cioè Drogone conte di Puglia, e Rainolfo conte di Aversa; e i regali a lui fatti di molti destrieri e danari produssero buon effetto; perciocchè ne riportarono l'imperiale investitura di tutti i loro Stati. Da Capoa s'incamminò alla volta di Benevento; ma, secondo Ermanno Contratto, essendo stata ingiuriata dai Beneventani la suocera dell'imperadore, nel passare per colà in venendo dalla [238] divozione del monte Gargano, i Beneventani temendo lo sdegno d'esso imperadore, nol vollero ricevere, e si ribellarono. Conduceva Arrigo allora poche truppe con seco, per averne rimandate la maggior parte in Germania; e veggendo che gli mancavano le forze per procedere ostilmente contra di quel popolo, altro ripiego non seppe trovare che di farli scomunicare da papa Clemente, suo compagno in quel viaggio. Tenne esso Augusto (ma non si sa in qual giorno) nel contado di Fermo un placito, riferito dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., in Episcop. Asculan.]. Intanto l'imperadrice Agnese venuta a Ravenna, quivi gli partorì una figliuola. Inviossi dipoi l'Augusto Arrigo alla volta della Germania, e trovandosi in san Flaviano nel dì 13 di marzo, diede un altro privilegio in favore del monistero di Casa Aurea [Chron. Casauriens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.]. Passato dipoi a Mantova nel dì 19 d'aprile, giorno di Pasqua, celebrò con gran solennità la festa. Quivi gravemente s'infermò, ma riavuto si fece venir da Parma il corpo di san Guido abbate della Pomposa, morto nel precedente anno, e glorificato da Dio con molti miracoli, e seco dipoi lo condusse in Germania. Mentre l'imperadore in Mantova si trovò, dovette succedere quanto vien raccontato da Donizone [Donizo, in Vita Mathild., lib. 1, cap. 13.]. Era divenuta alquanto sospetta ad esso imperadore la troppa potenza di Bonifazio duca e marchese; e però gli cadde in pensiero di farlo arrestare, allorchè egli veniva all'udienza, con ordinare alle guardie di lasciarlo passare con non più di quattro persone, e di chiudere incontanente le porte. Lo scaltro Bonifazio v'andò coll'accompagnamento di una buona comitiva de' suoi provvisionati, tutti provveduti d'armi sotto i panni. Costoro, a veder le porte serrate dopo Bonifazio, le sforzarono, nè vollero mai perdere di vista il padrone, il quale scusò questa insolenza con dire francamente al re che l'uso di sua casa [239] era d'andar sempre accompagnato dai suoi. Arrigo tentò ancora di sorprenderlo di notte; ma avea che fare con uno che anche dormendo tenea gli occhi aperti, e però se ne andò senza far altro che ringraziarlo del buon trattamento. Nel dì primo di maggio Cadaloo vescovo di Parma ottenne dall'Augusto Arrigo in Mantova il titolo e la dignità di conte di Parma [Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Episcop. Parmens.]. E nel dì 8 di maggio riportò Alberico abbate del nobil monistero di san Zenone di Verona dall'imperadore un privilegio [Antiq. Ital., Dissert. LXXII.], dato VIII idus maii, anno dominicae Incarnat. MXLVII, Indict. XV, anno autem domni Heinrici tertii, ordinationis ejus XVIII, regnantis VIII, secundi imperatoris primo. Actum Folerni. Era esso Augusto in Trento nel dì 11 di maggio, come apparisce da altro suo diploma dato ai canonici di Padova [Ibidem, Dissert. XVIII.] colle stesse note.

Fin quando si trovava l'imperadore in Roma, cioè o sul fine del precedente o sul principio del presente anno, egli diede per arcivescovo alla chiesa di Ravenna Unfredo suo cancelliere, e il fece consecrare dal papa. Giunto poscia a Spira, dove collocò il corpo del suddetto san Guido abbate, quivi celebrò la festa della Pentecoste, e tenne una dieta de' principi. Allora fu ch'egli conferì il ducato della Carintia e la marca di Verona a Guelfo III conte, di nazione suevo, e di casa nobilissima e rinomata in Germania, figliuolo del fu Guelfo II conte. Non ho io saputo discernere nelle Antichità estensi [Antichità Estensi, P. I, cap. 2.], se in occasion della venuta in Italia di questo principe, oppure molto prima, Alberto Azzo II, marchese e progenitor de' principi estensi, prendesse in moglie Cunegonda, sorella d'esso Guelfo III. Pare che l'Urspergense [Urspergensis, in Chronico.] dica che prima, con iscrivere che Guelfo II [240] genuit et filiam Chunzam (lo stesso è che Cunegonda) nomine, quam Azzoni ditissimo marchioni Italiae dedit in uxorem. Di queste nozze parla eziandio l'antico autore della Cronica di Weingart [Apud Leibnitium, Rer. Brunswic., tom. 1.]. Coll'imperadore era ito in Germania anche Clemente II papa, e ritornato poscia per mala sua ventura in Italia, mentre si trovava in romanis partibus sul principio d'ottobre, cadde infermo, e si sbrigò da questa vita. Corse voce, e forse non mal fondata, ch'egli morisse di veleno, fattogli dare da Benedetto IX già papa, ai cui vizii noti non è inverisimile che s'aggiugnesse ancora questa nuova scelleraggine. Mense junii (sono parole di Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.], ma si dee scrivere octobris) dictus papa Benedictus per poculum veneno occidit papam Clementem. Altrettanto ha Romoaldo salernitano [Romualdus Salern., tom. 7 Rer. Ital.]. Nè sussiste l'asserzione di Leone ostiense [Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 81.], che questo papa terminasse i suoi giorni ultra montes. Fu ben portato a Bamberga il suo cadavero, ma e romanis finibus, come ha ancora l'autore della Vita di santo Arrigo imperadore [Acta Sanctor. Bolland. ad diem 14 julii.]. Essendo stato finora ignoto il luogo dove questo pontefice terminasse i suoi giorni, ho io il piacere di poterlo rilevare. Alle mani del padre don Pietro Paolo Ginanni abbate benedettino, diligentissimo ricercatore delle antiche memorie di Ravenna sua patria, capitarono negli anni addietro due bolle originali. La prima è del suddetto papa Clemente II, data VIII calendas octobris, Indictione I, cioè nel dì 24 di settembre dell'anno presente, mentre egli si trovava gravemente infermo nel monistero di san Tommaso apostolo ad Aposellam, vicino a Pesaro. In essa dona egli a Pietro abbate di quel monistero la terra di san Pietro, pro salute animae suae. La seconda bolla è di papa Nicolò II, data nel dì 16 d'aprile dell'anno 1060, in cui per intercessionem [241] domni Petri Damiani hostiensis episcopi, confratris nostri, conferma al predetto abbate la terra di san Pietro, quam domnus papa Clemens, qui ibi obiit, obtulit praedicto monisterio. Resta perciò chiaro in qual parte d'Italia venisse a morte il soprallodato papa Clemente II. Ora il già deposto Benedetto IX papa, udita ch'ebbe la morte di Clemente, col mezzo dei suoi parenti potentissimi in Roma, tanto s'adoperò, che per la terza volta tornò ad occupare la sedia di san Pietro, e la occupò per otto mesi e dieci giorni. Vedesi in quest'anno un placito tenuto in Broni, diocesi di Piacenza, da Rinaldo messo del signor imperadore, al quale intervennero ancora Anselmo ed Azzo marchesi, l'ultimo dei quali, antenato de' marchesi d'Este, già da noi s'è veduto all'anno 1045 conte di Milano. Questo documento si legge presso il Campi [Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.], ed è autentico. Ma non così un diploma rapportato dal medesimo storico, e attribuito ad Arrigo III re, come dato nell'anno presente. Non può sussistere quell'atto.


   
Anno di Cristo MXLVIII. Indizione I.
Damaso II papa 1.
Arrigo III re di Germania 10, imperadore 3.

Non mancarono i Romani, per attestato di Lamberto da Scafnaburgo [Lambertus Scafnaburgensis, in Chron.], di spedire ambasciatori all'Augusto Arrigo per riferirgli la morte di papa Clemente II, eique successorem postulantes; e questi si trovarono in Palitì, dove esso imperadore celebrò la festa del santo Natale nell'anno precedente. Ma perciocchè Benedetto IX s'era di nuovo intruso nella cattedra pontificia, si dovettero trovar difficoltà a mandare un papa nuovo a Roma. Però solamente nel luglio di questo anno fu eletto per successore del defunto Clemente Poppone vescovo, non già d'Aquileia, come ha l'Annalista sassone, [242] Alberico monaco dei tre Fonti ed altri ma bensì di Brixen ossia di Bressanone nel contado del Tirolo. Egli è chiamato da Ermanno Contratto episcopus brixiensis: il che da alcuni vien creduto error de' copisti, in vece di brixinensis; ma que' cittadini anche presso altri scrittori si veggono appellati brixienses. Prese questi il nome di Damaso II, e, secondo il cardinal Baronio, mandato a Roma dall'imperadore, suffragiis omnium electus et comprobatus, consecratus fuit. Da quali autori prendesse il porporato Annalista tal notizia, non l'ho potuto scorgere; e certo par verisimile che Arrigo, prima d'inviare a Roma esso Poppone, se l'intendesse col clero e popolo romano. Ciò non ostante, non lascio io di sospettare che Arrigo potesse qui prevalersi troppo dell'autorità sua, con lasciare in tal elezione poco arbitrio ai Romani. Ermanno Contratto [Hermannus Contractus, in Chron.] scrive che Poppo brixiensis (brixinensis) episcopus ab imperatore electus Romam mittitur, et honorifice susceptus. Sospetto io inoltre che cominciassero allora ad alterarsi gli animi de' Romani, perchè gli antichi imperadori greci e franchi, secondo i canoni, aveano lasciata sempre loro in libertà l'elezion de' nuovi papi, con riserbarsene solamente l'approvazione prima di consecrarli. Ma l'Augusto Arrigo neppur lasciò loro libero il diritto dell'elezione, dacchè gli aveva obbligati a non procedere ad essa senza il suo beneplacito. Doveva anche rincrescere loro il veder provveduta la Chiesa romana di pontefici forestieri, senza prenderli dal grembo loro, benchè noi abbiamo osservato molti papi presi dall'Oriente ne' secoli addietro. Veggasi Ottone Frisingense [Otto Frisingensis, lib. 6, cap. 32 Chron.], che conferma quanto io vo sospettando. Che sconvolgimenti partorisse dipoi questa mutazione di disciplina, l'andremo vedendo nel proseguimento della storia. Venne dunque il novello papa Damaso II verso Roma nel mese di luglio dell'anno presente, essendosi, [243] come è da credere, ritirato il falso pontefice Benedetto IX. Ma poco potè egli godere della sua dignità, perchè dopo soli 23 giorni di pontificato passò all'altra vita in Palestrina. Questa sì repentina morte fece correre dei sospetti che il veleno anche a quest'altro papa avesse abbreviati i giorni. Restò vacante nel rimanente dell'anno la Chiesa romana.

Seguitava intanto nel regno germanico la ribellione di Gotifredo duca della Lorena superiore. Avvenne che in questo anno Adalberto, già creato duca della Lorena inferiore, venuto a battaglia con esso Gotifredo, restò sconfitto ed ucciso in quel fatto d'armi. Abbiamo poi dal Bollario casinese [Bullarium Casinense, tom. 2, Constit. XCI.] che l'imperadore Arrigo concedette al monistero delle monache di santa Giulia di Brescia un privilegio, dato VI nonas maii, anno vero dominicae Incarnationis MXLVIII, Indictione I, anno autem domni Heinrici regis tertii, imperatoris secundi, ordinationis ejus XX, regnantis quidem IX, imperantis vero II. Actum Turegum, cioè in Zurigo, oppure in Turgau. Fu più volte in quella terra o città l'imperadore Arrigo, ed in quest'anno ancora vi celebrò l'Ascension del Signore. Certo è, secondochè ho dimostrato nelle Annotazioni alle leggi longobardiche [Rerum Italic., P. II, tom. 1.], ch'egli in esso luogo tenendo una gran dieta de' principi italiani (in qual anno, nol so), pubblicò tre leggi che si leggono nel corpo d'esse leggi longobardiche. Una specialmente merita attenzione. Sapevasi che molti in questi sì corrotti secoli erano levati dal mondo veneficio, ac diverso furtivae mortis genere, cioè non già con fattucchierie, ma col veleno, e con altre maniere occulte: che questa è la forza della parola veneficium. Ditmaro ed altri storici anch'essi asseriscono che in questi tempi l'Italia era troppo screditata per l'uso del veleno. Perciò fu determinata la pena della morte contra gli operatori di sì orrida iniquità. Rinnovò in quest'anno ancora [244] esso Augusto i suoi privilegii al monistero di san Pietro di Bremido con diploma spedito [Antiquit. Ital., Dissertat. LXX.] XIII kalendas maii, anno vero dominicae Incarnationis MXLVIII, Indictione I, anno autem domni Heinrici regis tertii, imperatoris secundi, ordinationis ejus XX, regnantis quidem IX, imperantis vero II. Actum in Ulmo. Sarà la città di Ulma. Truovo io tali sconcerti nei diplomi intorno agli anni dell'ordinazione di Arrigo, che non ho voluto il fastidio di riveder questi conti.


   
Anno di Cristo MXLIX. Indizione II.
Leone IX papa 1.
Arrigo III re di Germania 11, imperadore 4.

Abbiamo dal Cronografo di san Benigno [Dachery, Spicileg., tom. 2 nov. edition. Albericus Monach., in Chronico.] che i Romani innamorati delle doti di Alinardo arcivescovo di Lione, fecero istanza all'imperadore Arrigo per averlo papa. Alinardo, ciò saputo, perchè non gli dovea piacere l'aria di Roma, si guardò di capitare alla corte imperiale, finchè non udì creato un novello pontefice romano. Questi fu Brunone vescovo di Tullo, parente dell'imperadore. Non si potea scegliere personaggio più fatto secondo il cuore di Dio: tanta era la sua pietà, il suo zelo, la sua attività, la prudenza, il sapere [Wibert., in Vita S. Leonis IX, lib. 2, cap. 1.]. Trovavasi l'imperadore Arrigo in Vormazia nel dicembre dell'anno antecedente, dove tenne una gran dieta di vescovi e principi. Si trattò in essa di provveder di un nuovo pontefice la santa Chiesa romana. Non se l'aspettava Brunone; tutti i voti concorsero in lui, ed egli, colto così all'improvviso, dimandò tempo a pensarvi tre giorni. Dopo i quali ripugnando a tale elezione, con isperanza di schivare questo sì pesante onore, fece in pubblico la confessione de' suoi mancamenti; ma indarno, perchè stettero tutti [245] costanti in volerlo papa. V'erano presenti i legati romani. In fine si arrendè, ma con protestare che non accettava la carica qualora non vi concorresse l'elezione e il consentimento del clero e popolo di Roma, non ignorando egli ciò che in tale proposito aveano ordinato i sacri canoni. Gli furono date le insegne pontificali, e dopo aver celebrate le feste del santo Natale nella sua chiesa di Tullo, con singolare umiltà vestitosi da pellegrino, sul principio dell'anno presente si mise in viaggio verso Roma, avendo in sua compagnia il celebre monaco Ildebrando, che fu poi papa Gregorio VII. Arrivò egli a Roma sul principio della quaresima [Wibert. Bruno. Leo Ostiensis, in Chron. Anselmus, in Itiner., etc.], ed ivi ancora solennemente fu eletto e applaudito dal clero e popolo romano, e consecrato papa, con prendere il nome di Leone IX. Nè perdè tempo ad operare. Dopo la domenica in Albis tenne gran concilio di vescovi in Roma contro de' simoniaci. Poscia, chiesta licenza ai Romani, sen venne a Pavia, e quivi nella settimana dopo la Pentecoste celebrò un altro concilio. Indi passò a trovare l'imperadore in Sassonia per informarlo dello stato d'Italia e de' bisogni della Chiesa. Un altro concilio assai numeroso fu da lui tenuto nella basilica di san Remigio di Rems, e poscia un altro in Magonza, dove si trovò ancora l'imperadore. In questi tempi durando la ribellione di Gotifredo duca di Lorena, con cui aveva unite le sue forze anche Baldovino conte di Fiandra [Hermannus Contractus, in Chron.], papa Leone, ad istanza dell'imperadore, amendue gli scomunicò. Più che l'armi temporali servirono le spirituali per mettere il cervello a partito di Gotifredo; e però egli sen venne supplichevole ad Aquisgrana a' piedi dell'imperadore, e coll'aiuto del buon papa ottenne il perdono de' suoi falli. Seguitò Baldovino a far guerra, ma dopo aver lasciato dare un gran guasto al suo paese dall'armata imperiale, finalmente [246] trattò di pace, e diede a tal fine gli ostaggi. Dopo queste imprese Leone IX per la città d'Augusta e per la Baviera sul finir dell'anno venne alla volta d'Italia, ed arrivò a celebrar la festa del Natale in Verona. Confermò esso papa in quest'anno i suoi privilegii al monistero di Farfa con sua bolla [Chronic. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.], data in Roma IV kalendas marti, anno pontificatus domni Leonis noni papae primo, Indictione II. E l'imperadore Arrigo concedette a Berardo vescovo di Padova, e a' suoi successori, la licenza di battere moneta [Antiquit. Italic., Dissert. XXVII.], secundum pondus veronensis monetae. Il diploma fu dato XVI kalendas maii, anno dominicae Incarnationis MXLVIIII, Indictione II. Anno domni Henrici tertii regis, imperatoris secundi, ordinationis ejus XX, regni quidem X, imperii vero III. Actum Goslariae. Torno a dire che gli anni dell'ordinazion di Arrigo sono confusi in varii diplomi: e però lascerò ad altri la cura di accertar questa epoca e di correggere gli errori. Circa questi tempi ancora abbiamo da Cedreno [Cedren., Compend. Histor.] un avvenimento importantissimo per la storia d'Italia, cioè che i Turchi, gente di nazione unnica, o vogliam dire della gran Tartaria, uscirono dalle porte del Caucaso, e cominciarono le lor terribili conquiste con levare ai Saraceni la Persia, e darsi poscia ad infestar l'imperio de' Greci. Non mi stendo a dirne di più per ora, riserbando quel che occorrerà al resto della storia.


   
Anno di Cristo ML. Indizione III.
Leone IX papa 2.
Arrigo III re di Germania 12, imperadore 5.

Giunto che fu a Roma il santo pontefice Leone IX, e sbrigato da varii affari, in questo anno (e non già nel precedente, come lasciò scritto Leone ostiense [Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 81.]) passò in Puglia, parte per sua [247] divozione [Wibertus, in Vita S. Leonis, lib. 2, cap. 4.], parte per quetar le discordie insorte fra i Normanni e i popoli di quelle contrade, che si sentivano gravati non poco da quella gente straniera. Fu nell'aprile a Monte Casino, a san Michele del Monte Gargano, e a Benevento, dove di nuovo scomunicò quel popolo, perchè ribello all'imperadore. Tenne un concilio in Siponto, dove depose due arcivescovi convinti di simonia. Tornato a Roma, sul principio di maggio celebrò un altro concilio nella basilica lateranense, dove furono condannate le perverse dottrine di Berengario franzese intorno al sacramento dell'altare. Fioriva in questi tempi in Normandia nel monistero di Becco il celebre Lanfranco, priore allora d'esso sacro luogo, di nascita italiano, perchè nato di nobili parenti in Pavia. Essendo passata fra lui e il suddetto Berengario qualche lettera, fu egli chiamato in Italia, e tanto in esso concilio lateranense, quanto in quello di Vercelli susseguentemente tenuto nel settembre di questo anno dal medesimo papa, giustificò sè stesso, e restò carissimo a tutta la corte pontificia. Servì questo accidente a maggiormente accrescere la fama della letteratura e pietà di Lanfranco, il quale col tempo divenne abbate di Becco, e poscia arcivescovo santo di Canturberì in Inghilterra. Era insorta qualche contesa fra papa Leone e Unfredo arcivescovo di Ravenna spalleggiato da alcuni della corte imperiale. Però in esso concilio di Vercelli il papa gli sospese il ministro episcopale, oppure, come vuol Wiberto, lo scomunicò. Tornò egli dipoi alla sua Chiesa di Tullo per farvi la traslazione del corpo di san Gerardo, già vescovo di quella città. Passò in questo anno nel dì 12 d'aprile a miglior vita sant'Adalferio ossia Alferio, fondatore e primo abbate dell'insigne monistero della Cava nel principato di Salerno, la cui Vita, insieme con quella di tre altri abbati suoi successori, si legge fra gli scrittori da me raccolti delle cose [248] d'Italia [Rer. Ital., tom. 6.]. Se si vuol prestar fede agli Annali pisani, in quest'anno [Annal. Pisan., tom. 6 Rer. Ital., pag. 167.] Mugetto, re de' Saraceni africani, con un potente esercito tornò in Sardegna, e cacciatine i Pisani, attese a fabbricarvi delle città, e prese la corona di quel regno. Pisani vero, cum romana Sede firmata concordia cum privilegio et cum vexillo sancti Petri accepto, invaserunt regem, et ceperunt illum et totam terram, et coronam imperatori dederunt. Et Pisa fuit firmata de tota Sardinea a romana Sede. Ma al vedere che de' vari autori di questo secolo, i quali han parlato dei fatti gloriosi di san Leone IX papa, niuno parla di questo, che pur sarebbe tornato cotanto in onore del medesimo; pare che si possa dubitare dell'impresa suddetta, o almeno delle sue circostanze. Nacque nell'anno presente nel dì 12 di novembre all'Augusto Arrigo un figliuolo maschio [Hermannus Contractus, in Chron.], partoritogli dall'imperadrice Agnese. Fu questi poi Arrigo quarto fra i re, e terzo fra gl'imperadori, per cui cagione vedremo a suo tempo sconvolta tutta l'Italia e la Germania.

Cessò di vivere in questi tempi Pandolfo IV principe di Capoa [Camillus Peregrin., Hist. Princip. Langobard.]. Leone ostiense il fa portato via dai diavoli, citando un'apparizione fatta ad un servo di Dio napoletano. Ma, siccome il padre Angelo della Noce osservò, probabilmente questa fu una giunta fatta alla Cronica dell'Ostiense, ed altri ciò scrissero di Pandolfo Capodiferro, tanti anni prima defunto. Nei secoli dell'ignoranza gran voga aveano somiglianti visioni e dicerie. Pandolfo V suo figliuolo restò padrone di quel principato, con avere per collega Landolfo V suo proprio figliuolo. Ho io rapportato altrove un diploma dell'Augusto Arrigo [Antiquit. Italic., Dissert. LXIII.], come dato in quest'anno in favore del monistero di san Zenone di Verona. Le note cronologiche sono [249] queste: Data III idus novembris, anno dominicae Incarnationis ML, Indictione IIII, anno domni Heinrici tertii regis, imperatoris autem secundi, ordinationis ejus XXIIII, regni quidem XIII, imperii vero IIII. Actum Veronae. Perchè era tuttavia attaccato alla pergamena il sigillo di cera, e nel novembre dell'anno presente potea correre l'Indictione IV, senza farne altro esame, lo credei documento originale e sicuro. Ma se sta così nella pergamena, nè è succeduto errore in copiarlo, non so io ora accordarlo colla verità della storia. Che l'imperador fosse in Italia in quest'anno, niuno degli antichi lo scrive, ed io lo credo falso. Sono anche discordi fra loro l'anno XIII del regno e il IV dell'imperio. Sarebbe da vedere se potesse riferirsi all'anno 1055 col confronto dell'originale. Siccome apparisce da un documento da me dato alla luce [Antichità Estensi, P. I, cap. 11.], in quest'anno il marchese Alberto Azzo II, progenitore de' principi estensi, si truova conte della Lunigiana. Egli è qui appellato Albertus, qui Aczo vocatur, marchio et comes istius Lunensis comitato, filius bonae memoriae itemque Alberti similiterque Aczo, et marchio et comes. In Lunigiana era il forte de' beni e Stati posseduti dagli antichi marchesi, appellati poscia marchesi d'Este. Sotto quest'anno (seppure non fu nel 1054) si legge una lettera di Argiro duca d'Italia a Berardo abbate di Farfa [Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.], in cui egli si rallegra d'essere stato ammesso alla confraternità e partecipazion delle orazioni e de' meriti di quei buoni monaci. Il titolo suo molto spezioso e degno d'osservazione è questo: Ego Argiro Dei providentia magister vestis, et dux Italiae, Calabriae, Siciliae, Paflagoniae. Molto più antico è il rito di simili confraternità fra i monaci, ed esso dura tuttavia.

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Anno di Cristo MLI. Indizione IV.
Leone IX papa 3.
Arrigo III re di Germania 13, imperadore 6.

Trovaronsi l'infaticabil Leone IX papa e l'imperadore Arrigo in Augusta, dove insieme celebrarono la festa della Purificazione della santa Madre di Dio. In tal occasione, per attestato di Ermanno Contratto [Hermannus Contract., in Chron.], l'imperadore rimise in grazia del papa Unfredo arcivescovo di Ravenna. Ma Wiberto [Wibertus, Vit. Leonis IX., lib. 2, cap. 7.] aggiugne una particolarità: cioè che Unfredo fu chiamato da Arrigo ad Augusta, e dopo aver restituito al papa alcuni beni ingiustamente occupati, fu forzato a chiedere l'assoluzion delle censure. Inginocchiossi egli a' piedi del santo pontefice, e perchè tutti i prelati assistenti interposero le lor preghiere in favor di lui, Leone con alta voce disse: A misura della sua divozione Dio gli conceda l'assoluzione di tutti i suoi falli. Nel levarsi Unfredo in piedi, fu osservato, che quasi burlandosi del papa, e tuttavia gonfio di superbia, sogghignava. Vennero le lagrime agli occhi al buon pontefice, e con voce bassa disse ad alcuni che gli stavano intorno: Oimè, questo miserabile è morto. Poco stette Unfredo a cader malato, ed appena ricondotto in Italia, diede fine alla vita e all'alterigia sua. Ermanno Contratto lasciò scritto, essere corsa voce ch'egli morisse attossicato, perchè la sua morte fu improvvisa. Ma s'egli morì, come vuole il Rossi, nel dì 22 di agosto, gran tempo corse fra la di lui andata in Germania e la morte sua. Tornato a Roma papa Leone, quivi celebrò dopo Pasqua un nuovo concilio, dove fra l'altre cose scomunicò Gregorio vescovo di Vercelli, imputato d'adulterio con una vedova già sposa di un suo zio. Non si trovava questo vescovo in Roma, e nulla perciò potè rispondere per sè. [251] Ma avvertito della censura contra di lui fulminata, se nel volò a Roma, ed avendo promessa soddisfazione, se ne tornò assoluto e contento a casa. Questo ne' tempi susseguenti fece gran figura negli affari secolareschi d'Italia, siccome vedremo. Andò poscia il santo pontefice all'insigne monistero di Subiaco, da dove essendo fuggito Attone ossia Azzo abbate, a cui dovea rimordere la coscienza, egli diede per abbate a que' monaci Umberto, nato in Francia, e le cui imprese, parte buone e parte cattive, si leggono nella Cronica di Subiaco [Chron. Sublacense, tom. 24 Rer. Ital.], da me data alla luce. È notabile quanto ivi è scritto: cioè che il papa in quella congiuntura Sublacenses ad se convocavit in monasterio, quorum et requirens instrumenta chartarum, notavit falsissima, et ex magna parte ante se igne cremari fecit. Di queste merci non furono privi una volta altri monisteri e chiese: il che sia detto senza pregiudizio degli innumerabili altri autentici documenti che si trovano nei loro archivii.

Doveano in questi tempi avere i monaci di Farfa chi li perseguitava nella corte pontificia; e probabilmente uno dei lor nemici era Giovanni vescovo della Sabina, che mosse di molte pretensioni contra di quell'insigne monistero. Scrissero i monaci una lettera al buon pontefice con esporgli le prerogative di quel sacro luogo, e pregarlo di non badare ai detrattori. Sumus enim (dicono essi) plus minus quingenti vestri oratores [Chron. Farfens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.]: il che, per mio avviso, si dee intendere non de' soli monaci abitanti in Farfa, ma degli altri ancora che erano ne' monisteri e priorati sottoposti. Nel concilio romano si agitò la lite fra i monaci e il suddetto vescovo. Finalmente papa Leone IX confermò al monistero farfense tutti i suoi privilegii con una bolla, in cui si fa sentire il suo cuore pien di divozione verso la santissima Vergine, data III idus decembris per manus Federici diaconi sanctae [252] romanae Ecclesiae bibliothecarii, vice domni Herimanni archicancellarii, et coloniensis archiepiscopi, anno domni Leonis IX papae tertio, Indictione V, cominciata nel settembre dell'anno presente. Crede il padre Mabillone [Mabillonius, Annal. Benedictin. ad hunc annum.] che Ermanno arcivescovo di Colonia fosse arcicancelliere di papa Leone IX, nelle cui sole bolle si truova questa novità. Era il medesimo Ermanno arcicancelliere dell'imperio in questi giorni. Wiberto scrive [Wibertus, in Vita Leonis IX, lib. 2, cap. 5.] che papa Leone diede officium cancellarii sanctae romanae Sedis a lui e ai suoi successori. Confermò parimente il santo pontefice tutti i suoi diritti al monistero casauriense con altra bolla [Chron. Casauriens., P. II, tom. 2 Rer. Ital.], data X kalendas julii, ec. anno domni Leonis IX papae II (dee essere III), Indictione IV. Io tralascio altre bolle dello stesso papa, il quale, per testimonianza dell'Ostiense [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 84.], in quest'anno andò a Capoa, a Benevento e a Salerno. In tal congiuntura è credibile che succedesse ciò che preventivamente aveva asserito il medesimo Ostiense, cioè ch'egli assolvesse dalla scomunica il popolo di Benevento. Tanti passi dell'ottimo pontefice verso quelle parti erano tutti per trovar, se era mai possibile, qualche rimedio o freno all'insolenza, crudeltà ed avidità incredibile de' Normanni, ogni dì più potenti e gravosi alla Puglia e alle vicinanze, e Cristiani più di nome che di fatti. In una lettera [Wibertus, in Vita Leonis IX, lib. 2, cap. 10.] scritta da esso papa all'imperador di Costantinopoli gli espone, come costoro ammazzavano, tormentavano que' miseri abitanti, neppur perdonando alle donne e a' fanciulli; spogliavano ancora ed incendiavano le chiese; e che per quante esortazioni e minacce avesse egli adoperato, nulla si mutavano i loro perversi costumi. Però s'era egli abboccato con Argiro catapano de' Greci per reprimere questa mala [253] gente, ed implorava anche il braccio dello stesso Augusto greco. In quest'anno appunto scrive Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] che arrivò, cioè da Costantinopoli tornò in Puglia, Argiro figliuolo di Melo e duca di Italia per gli Greci. Volle entrar in Bari, ma gli fu negato da Adralisto, Romoaldo e Pietro fratelli, capi di una fazion contraria. Finalmente il popolo di Bari al dispetto de' contradittori l'ammise in quella città. Se ne fuggì Adralisto; gli altri due fratelli presi, furono inviati in carcere a Costantinopoli. Drogone conte e capo de' Normanni fu in quest'anno ucciso da un suo compare, e succedette Unfredo conte, suo fratello, nel governo di quegli Stati. Noi troviamo battezzato in quest'anno nella città di Colonia il fanciullo Arrigo, figliuolo dell'imperadore Arrigo, e tenuto al sacro fonte da Ugo abbate di Clugnì, uomo santo. Da un documento che io diedi alla luce [Antiquit. Italic., Dissert. V, pag. 217.] apparisce che in questi tempi Guaimario IV e Gisolfo II suo figlio erano principi di Salerno, e duchi di Amalfi e Sorriento.


   
Anno di Cristo MLII. Indizione V.
Leone IX papa 4.
Arrigo III re di Germania 14, imperadore 7.

Era stata in addietro l'Ungheria tributaria dell'imperio germanico; ma essendo insorte liti, e cessato il pagamento, si venne ad un'aspra guerra fra l'imperadore Arrigo ed Andrea re d'Ungheria. Il santo papa Leone, per desiderio di rimettere la concordia fra que' principi cristiani, si portò in quest'anno di nuovo in Germania per trattar di pace. Ermanno Contratto scrive [Hermannus Contractus, in Chronico.] ch'egli vi andò per le istanze del re Andrea; fece desistere l'imperadore dall'assedio di un castello; e trovatolo dispostissimo ad un accordo, già si credeva di avere in pugno la pace. Ma Andrea sconciamente il [254] burlò: laonde il papa fulminò contra di lui la scomunica. Se ciò sussiste, è cosa da stupir come Wiberto conti tutto al rovescio questa faccenda, con dire [Wibert., Vita S. Leonis IX, lib. 1, cap. 4.] che gli Ungheri erano pronti a pagare il tributo, purchè ottenessero il perdono dei trascorsi passati. Sed quia factione quorumdam curialium, qui felicibus sancti viri invidebant actibus, sunt Augusti aures obturatae precibus domni apostolici, ideo romana respublica subjectionem regni hungarici perdidit, et adhuc dolet finitima patriae praedis et incendiis devastari. Arrigo vicecancelliere dell'imperadore fu in quest'anno da lui promosso all'arcivescovato di Ravenna; ma, secondo il Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.], non ottenne la conferma e il pallio dal papa, se non nell'anno seguente con bolla data VI idus aprilis, anno pontificatus IV, Indictione VI. Sotto specie d'intronizzar questo novello arcivescovo, fu inviato a Ravenna anche Nizone vescovo di Frisinga, uomo pien di vizii, e che per qualche tempo mostrò di pentirsi e di abbracciar la vita monastica, ma in breve tornò alla vita di prima. Costui, giunto a Ravenna, quivi, colto da morte improvvisa, lasciò le sue ossa. Al suddetto Arrigo arcivescovo scrisse il suo libro ossia opuscolo intitolato Gratissimus san Pier Damiano, o, come si dovrebbe dire, Pietro di Damiano, nato nella città stessa di Ravenna, e gran luminare di santità e letteratura in Italia per questi tempi. Uno ancora dei motivi per gli quali s'indusse a tornare quest'anno in Germania il santo pontefice, fu, secondo l'Ostiense [Leo Ostiens., Chron. lib. 2, cap. 84.], per impetrar degli aiuti dall'imperadore contra de' Normanni di Puglia, le avanie e crudeltà dei quali egli non potea più sofferire. Un diploma, che si legge pubblicato nelle mie Antichità italiane [Antiquit. Italic., Dissert. XXXX, pag. 641.], ci fa vedere nel giugno di quest'anno in Zurigo l'imperadore Arrigo, che concede al clero di Volterra, [255] fra gli altri privilegii, quello di poter decidere le liti col duello. Era allora troppo in uso questa barbarica e detestabil usanza, accresciuta dipoi nell'andare innanzi dai cacciatori di puntigli. Per isradicarla molto s'è fatto; ma al mondo non mancheranno mai dei pazzi. Ho io pubblicato un contratto seguito in questo anno fra Bonifazio duca e marchese di Toscana, signore di Mantova, Ferrara ed altre città, e Otta badessa di santa Giulia di Brescia. Fu scritta quella carta [Antiquit. Ital., Dissertat. LXVI.] anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi millesimo quinquagesimo secundo, Enricus gratia Dei imperator Augustus, anno imperii ejus sexto, quarto kalendas aprilis, Indictione quinta. Ma poche settimane dipoi sopravvisse Bonifazio. Mentre egli da Mantova passava a Cremona, per mezzo di un ombroso bosco, fu ferito con una saetta, ossia con un dardo attossicato, e di quel colpo morì. His diebus marchio Bonifacius (son parole di Arnolfo milanese [Arnulfus, Hist. Mediolan., lib. 3, cap. 3.] autore contemporaneo) dum nemus transiret opacum, insidiis ex obliquo latentibus, venenato figitur jaculo. Heu senex ac plenus dierum, maturam mortem exiguo praeoccupavit. Il Fiorentini scrive [Fiorentini, Memor. di Matild., lib. 1.] che egli non molto carico d'anni morì; ma non avea veduto Arnolfo, scrittore più informato di lui. E se Bonifazio si truova marchese fin l'anno 1004, convien dire che egli fosse vecchio nell'anno presente. E qui si dee notare che nell'edizione della storia d'esso Arnolfo fatta dal Leibnizio sopra un testo milanese, si legge marchio Montisferrati Bonifacius. Ma il manuscritto estense più antico degli altri non ha Montisferrati; e quella è una giunta di qualche ignorante, siccome già osservai [Rerum Italic. Scriptor., tom. 3.] nella prefazione al medesimo Arnolfo.

Abbiamo da Donizone il tempo preciso della morte di questo principe, laddove [256] scrive, ma accortamente tacendo ch'essa fosse violenta [Donizo, in Vita Mathild., lib. 1.]:

Ipse die sexta maii post quippe kalendas

Deseruit terram, quem Christus ducat ad ethram,

Quando defunctus, terrae datus, estque sepultus,

Tunc quinquaginta duo tempora mille Dei stant.

Fu seppellito il di lui corpo in Mantova: perlocchè si legge presso il suddetto Donizone una curiosa altercazione fra quella città e la rocca di Canossa, dove pretendeva il buon monaco canossino Donizone che se gli dovesse dar sepoltura presso de' suoi antenati. Da altre memorie ancora da me rapportate nella prefazione al medesimo Donizone apparisce, aver la buona gente creduto che non nascesse erba nel luogo dove Bonifazio fu ferito. Certamente questo principe non era un santo. Anzi egli s'acquistò il brutto nome di tiranno presso i Tedeschi. Ermanno Contratto, vivente allora (se pure al suo testo non fu fatta qualche giunta), scrive sotto quest'anno [Hermannus Contractus, in Chronico.]: Bonifacius ditissimus Italiae marchio, immo tyrannus, insidiis a duobus exceptus militibus, sagittisque vulneratus et mortuus, Mantuae sepelitur. E il Fiorentini osserva [Fiorentini, Memorie di Matilde, lib. 1.] che in tre privilegii da Arrigo IV e V e Lottario, susseguenti imperadori, conceduti al popolo di Lucca, si legge: Consuetudines etiam perversas, a tempore Bonifacii marchionis duriter iisdem hominibus impositas, omnino interdicimus, et ne ulterius fiant praecipimus. Lasciò Bonifazio dopo di sè tre figliuoli a lui nati dalla duchessa Beatrice, cioè Federigo (appellato Bonifazio dal continuatore di Ermanno Contratto), Beatrice e Matilda, tutti tre di tenera età, e perciò bisognosi della madre. In questo anno ancora, per testimonianza dell'Ostiense [Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 85.] e di Romoaldo salernitano [Romualdus Salernit., Chron., tom. 7 Rer. Ital.], Guaimario IV principe di Salerno, per una [257] congiura fatta contra di lui da alcuni suoi parenti e da altri malcontenti, con più ferite tolto fu di vita; e il suo cadavero obbrobriosamente strascinato lungo il lido del mare. Salerno colla rocca restò in potere de' congiurati; ma Guido duca di Sorrento, e fratello d'esso Guaimario chiamati in aiuto i Normanni, da lì a cinque giorni ricuperò quella città; installò nel principato Gisolfo II figliuolo del trucidato principe, e fece morir quattro di lui parenti con trentasei altri, tutti rei di quel misfatto. Fermossi tutto quest'anno in Germania il santo papa Leone, ed in Vormazia celebrò la festa del Natale in compagnia dell'imperadore. Allora fu, secondo Ermanno Contratto, ch'egli fece istanza perchè fosse restituita sotto il dominio della Chiesa romana la ricca badia di Fulda con altre poste in quelle contrade, le quali ne' tempi addietro furono donate a san Pietro, e pagavano censo a Roma. Altrettanta premura ebbe pel vescovato di Bamberga, di cui Arrigo I Augusto avea fatto un dono alla Chiesa romana, e pagava anch'essa annualmente a Roma un cavallo bianco e cento marche d'argento. L'imperadore all'incontro, mosso da egual brama di poter disporre di quel vescovato e dello suddette badie, propose piuttosto un cambio, e questo fu accettato dal papa: cioè Leone rinunziò ad Arrigo i suoi diritti sopra quelle chiese, ed Arrigo in contraccambio gli cedette molti suoi Stati nelle parti di là da Roma. L'Ostiense scrive [Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 84.] che tunc inter ipsum apostolicum et imperatorem facta est commutatio de Benevento et bambergensi episcopio, ma senza dichiarare se fosse ceduta la sola città di Benevento col suo territorio, come gode oggidì la Sede apostolica, oppure anche il principato, di buona parte nondimeno del quale erano stati prima investiti i Normanni: e senza dire con qual titolo e patti cedesse tali Stati. Il Sigonio [Sigonius, de Regno Italiae, lib. 8.] dice nomine vicariatus. [258] Così egli interpretò le parole dell'Ostiense [Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 46.], laddove scrive che Leo nonus papa vicariationis gratia Beneventum ab Heinrico Conradi filio recepit. Da questo cambio poi deduce il padre Pagi [Pagius, in Annal. Baron.] che non sussista quanto ha Eutropio prete presso il Goldasto, con dire che Carlo Calvo avea distratto Benevento dall'imperio romano, e concedutolo ai pontefici romani. E si può similmente dedurre che neppure Lodovico Pio, Ottone I ed Arrigo I imperadori avessero mai conceduto loro esso ducato di Benevento.


   
Anno di Cristo MLIII. Indizione VI.
Leone IX papa 5.
Arrigo III re di Germania 15, imperadore 8.

Implorò in questi tempi papa Leone più che mai l'assistenza dell'Augusto Arrigo per liberar la Puglia dal giogo dei Normanni, i quali, per quanto scrive Ermanno Contratto [Hermannus Contractus, in Chron.], viribus adaucti, indigetes bello premere coeperunt, injustum dominatum invadere, haeredibus legitimis castella, praedia, villas, domus, uxores etiam, quibus libuit, vi auferre, res ecclesiarum deripere, postremo divina et humana omnia (prout viribus plus poterant) jura confundere, nec jam apostolico pontifici, nec ipsi imperatori, nisi tantum verbo tenus cedere. Guglielmo pugliese diversamente parla della condotta de' Normanni, e ci vorrebbe far credere che da Argiro duca d'Italia per l'imperadore greco provenissero specialmente tanti lamenti in parte falsi contra de' Normanni, dappoichè non gli era riuscito nè con danari nè con promesse di tirarli fuor d'Italia al servigio de' Greci. Secondo lui [Guillelmus Apulus, lib. 2 Poem.], la gente di Puglia

. . . . . . varias deferre querelas

Coepit, et accusat diverso crimine Gallos.

[259]

Veris commiscens fallacia nuntia mittit

Argirous papae, precibusque frequentibus illum

Obsecrat, Italiam quod libertate carentem

Liberet, ac populum discedere cogat iniquum.

Ma non era papa Leone uomo da lasciarsi in tal congiuntura ingannare. Egli stesso soggiornava in lor vicinanza, e più volte era stato sul fatto, cioè in quelle contrade medesime, e potea ben sapere se i Normanni fossero sì o no una specie di masnadieri. Vedremo che mai non si quetarono, infinattantochè non ispogliarono i signori di que' paesi de' loro Stati. Guglielmo storico, allorchè i Normanni furono nel colmo della potenza, scrisse per piacere alla stessa nazion dominante; però non par sicura la testimonianza sua. Ora l'imperadore diede alcune delle sue soldatesche al papa; molte altre ne ottenne esso papa da diversi signori; e con queste brigate s'unì una gran ciurma di scellerati e banditi, tutti condotti dall'avidità e speranza di far buon bottino. Nel mese di febbraio con questa gente calò in Italia il buon pontefice, conducendo seco Gotifredo duca di Lorena, e Federigo suo fratello che fu poi papa Stefano X, e molti cherici e laici esercitati nel mestier della guerra, per valersene contro i Normanni [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.]. Ma prima di arrivar egli giù dall'Alpi, Gebeardo vescovo allora di Aichstet, di nazion bavarese, avendo fatto ricorso all'imperadore, tanto disse e tanto fece, che il ridusse a richiamare il grosso corpo di truppe imperiali già spedite in aiuto del papa, in maniera che altro non vi restò di quell'esercito che un battaglione di cinquecento persone [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 90.]. Se n'ebbe poscia ben bene da pentire lo stesso Gebeardo, dacchè divenne anch'egli pontefice romano col nome di Vittore II, per le insolenze che, non men di papa Leone IX, dovette sofferir dai Normanni di Puglia, senza poterli reprimere. Giunto a Mantova papa Leone nella quinquagesima, [260] per attestato di Wiberto [Wibertus, Vita S. Leonis IX, lib. 2, cap. 4.], determinò di tener quivi un concilio. Erano accorsi ad ossequiar il papa varii vescovi di Lombardia, a' quali faceva paura il rigore e zelo del santo pontefice: che ben sapeano di aver de' mancamenti da renderne conto. Però alla lor suggestione fu attribuita una rissa insorta fra i familiari d'essi prelati e quei del papa, in tempo appunto che si celebrava il concilio. Corse alla porta della basilica il santo padre; volavano le saette e i sassi, e fu egli stesso in pericolo della vita per salvare i suoi domestici, che si rifugiavano verso la di lui persona, e senzachè gli aggressori si guardassero dal ferire chi andava a nascondersi sotto le vesti pontificali. Si quetò con difficoltà il tumulto, ma fu esso cagione che si sciolse il concilio; e ciò non ostante il misericordioso pontefice diede nel dì seguente l'assoluzione agli autori di tale iniquità. Andossene a Roma san Leone [Hermannus Contractus, in Chron.], e dopo Pasqua tenne quivi un nuovo concilio [Leo IX, Epistol. II, tom. 9 Concilior. Labbe.], dove fu posto fine alle vecchie liti che bollivano fra i patriarchi di Aquileia e di Grado, chiamato nuova Aquileia; cioè fu deciso che quel di Grado fosse indipendente dall'altro, e vero metropolitano dell'Istria e delle isole di Venezia. Anche il Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] ne fa menzione, ma con supporre ciò seguito in un precedente sinodo, mentre aggiugne che papa Leone visitò dipoi Venezia per divozione verso san Marco. Ciò probabilmente accadde nell'ultimo suo ritorno dalla Germania sul principio dell'anno corrente.

Ciò fatto, ardendo pure il santo papa di desiderio di liberar la Puglia dalla crudele ed insaziabil nazione dei Normanni, mosse l'esercito preparato contra di loro. Era questo composto, secondochè abbiamo da Guglielmo pugliese [Guillelmus Apulus, lib. 2 Poem. de Normann.], [261] de' pochi Tedeschi ch'egli avea potuto ritenere al suo soldo, cioè di settecento Suevi, oltre alla canaglia de' facinorosi, venuta di Germania, condotti da Guarnieri, che probabilmente fu il primo marchese di questo nome della marca d'Ancona. V'erano inoltre moltissime brigate d'Italiani armati, raccolte da Roma, Spoleti, Camerino, Fermo, Ancona, Capoa, Benevento ed altri luoghi. Non sussiste, a mio credere, che Goffredo o Gotifredo duca di Lorena fosse il generale di questa impresa. Piuttosto è da credere Rodolfo, eletto già principe di Benevento, per quanto s'ha da Leone ostiense [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 87.]. Consisteva poi l'armata de' Normanni, secondo il medesimo autore, in tremila cavalli e poca fanteria, ma tutta gente forte, agguerrita, e che non conosceva paura. I condottieri di questa, divisa in tre squadre, furono Unfredo conte e capo d'essi Normanni, Riccardo conte di Aversa, Roberto soprannominato Guiscardo, cioè Astuto, poco dianzi venuto di Normandia a trovare il fratello Unfredo, cioè quel medesimo Roberto che vedremo a suo tempo padrone di quasi tutto il regno ora di Napoli e di parte della Sicilia. Tralascio altri nominati da esso storico pugliese. Dal medesimo bensì e da Ermanno Contratto [Hermannus Contractus, in Chron.] abbiamo che i Normanni, veggendo sì grande apparato di guerra contra di loro, e sè di forze troppo disuguali, spedirono ambasciatori al papa, offerendosi umilmente al servigio e all'ubbidienza di lui, e di riconoscere in feudo dalla santa Sede gli Stati da lor posseduti. Ma non fu accettata l'offerta, non già per alterigia del papa pieno d'umiltà e nemico di spargere il sangue cristiano, ma per cagion dei superbi Tedeschi, i quali s'opposero, deridendo la piccola statura de' Normanni, e figurandosi d'averli già vinti col solo terrore. Costoro indussero suo malgrado il papa a comandar loro che, deposte le armi, se ne tornassero al loro paese; altrimente [262] andrebbono tutti a fil di spada. A questa sì aspra risposta non seppero accomodarsi i Normanni, ed abbracciando i consigli della disperazione, risoluti piuttosto di morir cadauno onoratamente coll'armi in mano, che di accettare un così vergognoso partito, si prepararono alla battaglia. Fors'anche furono i primi ad assalire improvvisamente l'oste nemica. Si fece questa giornata campale presso Civitella nella provincia di Capitanata nel dì 18 di giugno [Gaufrid. Malaterra, Histor., lib. 1, cap. 10.]. A Riccardo conte di Aversa, che guidava la prima schiera, riuscì facile lo sbrigliare le mal disciplinate milizie italiane, ed inseguirle con loro non picciola strage. S'affrontò Unfredo conte coi Tedeschi, e trovò quivi duro il terreno, in guisa che per la morte di molti de' suoi era vicino a cedere, quando il valoroso Roberto colla sua schiera di riserva accorse in aiuto del fratello, e fece delle mirabili prodezze. Tornato poi Riccardo dalla caccia degli Italiani, finì la festa con la morte di quasi tutti i Tedeschi, i quali vi lasciarono ben la vita, ma la fecero costar cara ai vincitori. Papa Leone, dopo questa disgrazia afflittissimo, si salvò colla fuga in Civitella, che fu ben tosto assediata dai Normanni. Secondo Gaufrido Malaterra, quegli abitanti, per non aver danno da quella feroce nazione, misero il papa fuori della città. Guglielmo Pugliese scrive che non vollero riceverlo nella città, temendo di disgustare i Normanni, di modo ch'egli venne nelle mani de' Normanni stessi. Volle Dio che costoro si ricordassero di esser Cristiani, nè obbliassero il rispetto dovuto al vicario di Cristo. Perciò, lungi dal fargli oltraggio alcuno, corsero a baciargli i piedi, e a chiedergli perdono ed assoluzion delle colpe. Il papa li benedisse, ed ottenne d'esser condotto a Benevento: il che con tutto onore di lui eseguirono. Quivi si fermò egli per molto tempo, cioè per tutto quest'anno e parte del seguente, ma senza essergli permesso di tornarsene indietro. L'Ostiense scrive [263] che entrò in Benevento nel dì 23 di giugno. Non fu lodata dai zelanti cattolici d'allora questa impresa di papa Leone, ed anzi fu creduto che Dio permettesse ciò per insegnare ai capi della Chiesa e agli altri sacri ministri di non intervenire ai sanguinosi spettacoli della guerra. Occulto Dei judicio, dice Ermanno Contratto, sive quia tantum sacerdotem spiritalis potius quam pro caducis rebus pugna decebat; sive quod nefarios homines quam multos ad se ob impunitatem scelerum vel quaestum avarum confluentes, contra itidem scelestos secum ducebat; sive divina justitia alias, quas ipsa novit, ob caussas nostros plectente.

Disapprovò sommamente tal fatto anche san Pier Damiano, con giugnere infino a negare ai papi il diritto di far guerra: perlochè si meritò la censura del cardinal Baronio. Ma son certo che neppur lo stesso Baronio seppe approvar l'andata in persona di questo buon pontefice alla guerra, massimamente contra di gente cristiana. Anche la spada temporale conviene ai sommi pontefici, come principi temporali; ma questa, per sentimento di papa Gregorio IX, pro ecclesia manu saecularis principis eximenda est [Gregor. IX, in Epist. ad Germ. Constant.]. E Brunone vescovo di Segna [Bruno Episc., in Vit. Leonis IX.] scrive ch'egli andò super Normannos praeliaturus, zelum quidem Dei habens, sed non fortasse scientiam. Utinam ispe per se illuc non ivisset, sed solummodo illuc exercitum pro justitia defendenda misisset! Riposossi di poi il papa in Benevento, come in città sua. Secondo la Cronichetta dei duchi di quella città, pubblicata dal Pellegrini [Apud Peregrin., Hist. Princip. Langobard.], Pandolfo V e Landolfo V principi di Benevento aveano tenuto quel principato, usquedum venit domnus papa Leo in Beneventum mense augusti, Indictione IV, anno Domni MLI, et exsiliati sunt. E ciò avvenne prima del cambio di Benevento con Bamberga. Pare che solamente dopo esso cambio un certo Rodolfo fosse creato dal [264] papa principe di Benevento: il che quando sia certo, abbastanza si conosce che non la sola città, ma anche il principato era stato ceduto a papa Leone IX; il che tuttavia è difficile a credersi, perchè allora i papi non concedevano ai lor vassalli il titolo di principe, significante in questi tempi un signore indipendente, o un figlio di sovrano. Oltre alla battaglia suddetta, abbiamo dall'Anonimo barense [Anonymus Barensis, tom. 5 Rer. Ital.] che un'altra ne succedette ed anche prima, e forse nell'anno precedente. Ecco le sue parole all'anno 1052, nel quale vien anche riferito il fatto d'armi dell'esercito pontifizio. Argiro (duca l'Italia per l'imperador greco) ibit (in vece d'ivit) in Siponto per mare. Deinde Umfreda (conte e capo dei Normanni) et Petrone cum exercitu Normannorum super eum, et fecerunt bellum, et ceciderunt de Longobardis ibidem. Ipse Argiro semivivus exsiliit plagatus, et ibit incivitate Vesti. Poscia all'anno presente narra che lo stesso Argiro spedì il vescovo di Trani a Costantinopoli per ragguagliar quella corte de' sinistri avvenimenti delle cose d'Italia. Guglielmo pugliese aggiugne [Guillelmus Apulus, lib. 2 Poem.] che per queste disavventure Argiro cadde dalla grazia del greco imperadore, sospettandolo forse d'intelligenza coi Normanni, oppure riguardandolo come uomo inetto al governo. Fu perciò mandato in esilio, dove, dopo lungo tempo cruciato dalla poca sanità e dalle amarezze dell'animo, diede fine alla sua vita. Abbiamo nondimeno da Leone Ostiense [Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 10.] che Argiro tuttavia nell'anno 1058 era Barensium magister, e che solamente in quell'anno egli andò a Costantinopoli, e in tal congiuntura è da credere che restassero liberi i Normanni da questo emulo, che tanto s'era maneggiato per la loro rovina. In quest'anno [Hermannus Contractus, in Chron.] l'imperadore Arrigo, tenuta una gran dieta in Tribuaria, fece eleggere re di Germania e suo successore il fanciullo Arrigo IV suo [265] figliuolo. E perciocchè Corrado duca di Baviera s'era collegato con Andrea re d'Ungheria nemico del romano imperio, gli tolse quel ducato, e lo diede allo stesso novello re suo figliuolo. Ho io rapportato altrove [Antiquit. Ital., Dissert. LXX.] la conferma de' privilegii fatta dall'Augusto al monistero delle monache del Senatore di Pavia. Il diploma si dice dato XI kalendas maii, anno dominicae Incarnationis MLIIII, Indictione VI, anno autem domni Heinrici tertii regis, imperatoris secundi, ordinationis ejus XXV, regni quidem XIII, imperii vero VII. Actum Turego. Probabilmente l'originale avrà anno dominicae Incarnationis MLIII, perchè veramente l'indizione e l'altre note indicano l'anno presente, se pure non fu quivi adoperato l'anno pisano. Ribellatisi in quest'anno gli Amalfitani al cieco Mansone loro duca [Ibidem, tom. 1, pag. 211.], l'obbligarono a fuggire, ed allora risorse il deposto Giovanni suo fratello, il quale seguitò poi a governar quel popolo per sedici anni.


   
Anno di Cristo MLIV. Indizione VII.
Leone IX papa 6.
Arrigo III re di Germania 16, imperadore 9.

Passò il verno in Benevento il santo pontefice Leone IX, ma in mezzo all'afflizione, perchè egli, secondochè scrive Lamberto da Scafnaburgo [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.], dappoichè fu liberato dall'assedio de' Normanni, cunctos dies, quibus supervixit tantae calamitati, in luctu et moerore egit. Ed Ermanno Contratto scrive [Hermannus Contractus, in Chron.] ch'egli ridotto in Benevento, quivi si fermò, nec fuit redire permissus. Non dice chi gl'impedisse il ritorno. Possiamo con tutta ragione sospettare che i Normanni; ma ciò non s'accorderebbe col Malaterra [Gaufrid. Malaterra, lib. 1 Hist.] là dove racconta che papa Leone loro non solamente restituì la sua grazia, ma concedette ancora in feudo tutti gli Stati [266] posseduti, e quegli eziandio che potessero acquistare in Calabria e in Sicilia; giacchè la Sicilia tuttavia gemeva sotto il giogo de' Maomettani Saraceni. Spedì il buon papa nel gennaio di quest'anno a Costantinopoli per suoi legati Umberto cardinale, Pietro arcivescovo d'Amalfi, e Federigo diacono cardinale, cancelliere della santa romana Chiesa e fratello di Gotifredo duca di Lorena, a cagione delle liti insorte in questi tempi fra le Chiese latina e greca, le quali andarono a terminare in un deplorabile scisma. Se ne può informare il lettore dagli Annali ecclesiastici del cardinal Baronio, e da altri scrittori di sì fatte materie. Ma le afflizioni dell'animo ridondarono ancora sopra il corpo del buon pontefice [Wibertus, in Vita Papae Leonis IX, lib. 2, cap. 7.]. Infermatosi, ebbe nondimeno tanto vigore che celebrò messa pubblicamente nell'anniversario della sua ordinazione, cioè nel dì 12 di febbraio. Crescendo poscia il malore, di colà si partì nel dì 12 di marzo per tornarsene a Roma, e gli prestarono in tal congiuntura buona scorta ed ogni possibil servigio i Normanni. Se crediamo al Malaterra, lo stesso conte Unfredo il condusse con tutto onore fin dove piacque al papa. Leone ostiense lasciò scritto [Leo Ostiensis, in Chron., lib. 2, cap. 87.] che l'accompagnò fino a Capoa, dove esso pontefice si fermò per dodici giorni, e preso poi seco Richerio abbate di Monte Casino, continuò il suo viaggio fino a Roma. Nè passarono molti giorni che fu chiamato da Dio a godere delle sue rare virtù e gloriose fatiche il premio in cielo nel dì 19 d'aprile dell'anno presente. Dio attestò coi miracoli la santità di questo buon pontefice, il quale benchè poco vivesse e in tempi tanto corrotti, pure gran cose operò, e gareggiò in attività e zelo co' primi pontefici della Chiesa di Dio. Veggansi le Vite di lui scritte da Wiberto e da Brunone vescovo di Segna, e gli Atti de' Padri Bollandisti al dì 19 d'aprile.

[267] Succedette in quest'anno, se pur non fu nel precedente, in Italia un matrimonio che disturbò forte la corte imperiale in Germania, Gotifredo, ossia Goffredo duca di Lorena, che, secondo Lamberto scafnaburgense [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.], era già venuto in Italia con papa Leone, oppure, come ha Ermanno Contratto [Hermannus Contractus, in Chron.], Italiam latenter adiens nell'anno presente, trattò e conchiuse le sue nozze con Beatrice, vedova del fu marchese e duca di Toscana Bonifazio, e, secondochè hanno alcuni conghietturato, concertò anche l'accasamento di Gotifredo il Gobbo suo figliuolo con Matilda figliuola di essa Beatrice, allora di età assai tenera. Lamberto e Sigeberto [Sigebertus, in Chron.] scrivono effettuato il matrimonio di Beatrice nell'anno precedente. Ermanno Contratto ne parla solamente in questo, terminando con sì fatta notizia e colla morte propria la Cronica sua. Altrettanto ha Bertoldo da Costanza [Bertold. Constantinensis, in Chron.]. Per tal via lo scaltro Goffredo (son parole di Lamberto) Beatricem accipiens, marcham (di Toscana) et ceteras ejus possessiones conjugii praetextu sibi vindicavit. A questo avviso s'allarmò non poco l'Augusto Arrigo, primieramente perchè vedeva intaccato di troppo il suo diritto, mentre, secondo le leggi, o secondo le consuetudini, Beatrice per essere donna, ed anche solamente vedova, non potea pretendere di comandare nel ducato della Toscana, e, benchè avesse figliuoli, apparteneva all'imperadore il darne l'investitura al maschio. Secondariamente, perchè Gotifredo, stato finora nemico dell'imperadore, e personaggio di gran senno e maneggio, era creduto capace di sconvolgere tutta l'Italia, e di sottrarla al dominio degli Augusti tedeschi. Vedemmo grande la potenza del marchese Bonifazio anche in Lombardia, dove possedeva tante fortezze e beni: tutto venne in potere di Goffredo, e però non erano ingiusti i sospetti [268] e timori d'Arrigo, il quale fin d'allora pensò a rimediarvi; e noi il vedremo venire nell'anno seguente apposta per questo in Italia. Dopo la vittoria riportata contra dell'esercito pontifizio non istettero punto i Normanni colle mani alla cintola. Per testimonianza di Guglielmo pugliese [Guillelmus Apulus, lib. 2 Poem.], niuna città restò in Puglia che non si sottomettesse al loro dominio, o non si obbligasse di pagar loro tributo. Unfredo conte e capo d'essi fece allora aspra vendetta degli uccisori di Drogone suo fratello, e forzò all'ubbidienza le città di Troia, Bari, Trani, Venosa, Otranto, Acerenza, ed altre terre. Ma questo storico diede qui negli eccessi, con attribuire tutte queste prodezze e conquiste ad Unfredo. Certamente parte d'esse succedette dipoi. Mandò ancora, per testimonianza di lui, Roberto Guiscardo suo fratello a far delle conquiste in Calabria. Uomo di mirabil accortezza e bravura era Roberto, e perciò seppe ben profittarne. Fors'anche fece più di quel che si aspettava o voleva Unfredo; e quindi nacque lite fra loro, di maniera che un dì, trovandosi insieme a pranzo, Unfredo gli fece mettere le mani addosso, e, sguainata la spada, era in procinto d'ucciderlo, se non fosse stato trattenuto da Gocelino. Restò Roberto in prigione per qualche tempo, finchè, deposto lo sdegno, Unfredo non solamente gli restituì la libertà ed amicizia primiera, ma gli concedette ancora quanto esso Roberto avea acquistato ed era per acquistare in Calabria, con dargli anche un buon soccorso di cavalleria. Di più non vi volle perchè Roberto, parte colle astuzie, parte colla forza, slargasse in quelle contrade i confini del suo dominio. Abbiamo la conferma de' privilegii data dall'Augusto Arrigo a Benedetto vescovo di Adria [Antiquit. Italic., Dissert. LXXIII.] II idus februarii, anno dominicae Incarnationis MLIIII, Indictione VII. Actum Turegum. Le altre note han bisogno d'essere ritoccate.

[269]


   
Anno di Cristo MLV. Indizione VIII.
Vittore II papa 1.
Arrigo III re di Germania 17, imperadore 10.

Per quanto s'ha da Leone ostiense [Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 89.], fu spedito in Germania dal clero e popolo romano Ildebrando, allora suddiacono della santa Chiesa romana, acciocchè impetrasse dall'imperadore la libertà di eleggere a nome d'essi Romani un nuovo papa, il creduto da lui più degno, giacchè in Roma dicono che non si trovava persona atta a sì gran ministero. Scelse egli Gebeardo vescovo di Aichstet, prelato di gran prudenza e facoltoso, col consenso degli stessi Romani, e presentollo all'imperadore, il quale non sapeva indursi a concederlo, perchè l'amava assaissimo, e il riputava troppo necessario ne' suoi consigli. Ripugnava anche lo stesso Gebeardo, non so se per umiltà, oppure per paura di sua vita in mezzo agl'Italiani. Arrigo ne propose degli altri; ma Ildebrando stette fisso nell'elezione fatta, e condusse in Italia Gebeardo. Questi, giunto a Roma canonicamente eletto ossia confermato dai Romani, assunse il nome di Vittore II, e fu consecrato papa nel dì 13 d'aprile, cioè dopo essere stata vacante la santa Sede quasi un intero anno. Dacchè seguì il matrimonio fra Gotifredo Barbato, duca di Lorena, e Beatrice duchessa di Toscana, cominciarono a fioccar le lettere alla corte imperiale sì da Roma che da altre parti d'Italia [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.], rappresentanti l'esorbitante accrescimento di potenza in Italia d'esso Gotifredo; e che, se non si rimediava per tempo, correa pericolo questo regno di staccarsi da quello della Germania. Non trascurò questi avvisi l'Augusto Arrigo, e sul principio dell'anno presente colla sua armata calò in Italia per dar sesto a questi affari. Egli era in Verona [270] nel dì 7 d'aprile, come consta da un suo diploma pubblicato dal Margarino [Bullar. Casinense, tom. 2, Constit. XCVI.]. E nel dì 16 d'esso mese celebrò la Pasqua in Mantova. Non giudicò bene Gotifredo, siccome principe assai accorto, di presentarsi all'imperadore, ma gli mandò incontro ambasciatori al di lui arrivo in Italia con grandi proteste di fedeltà. Poscia fece tener loro dietro la moglie Beatrice, figurandosi che il di lei sesso e la parentela stretta coll'imperadore l'esenterebbono da ogni insulto e gastigo. In fatti andò essa, ma non senza interni timori; ebbe difficilmente udienza, ed avutala, disse quante ragioni seppe per giustificar sè e il marito. Ma con tutto questo, perchè il matrimonio era seguito senza participazione e consentimento dell'imperadore con principe creduto pubblico nemico dell'imperio, fu essa ritenuta sotto guardia e come ostaggio, senza far caso del salvocondotto ch'ella avea prima procurato ed ottenuto, per quanto ha il Continuatore d'Ermanno Contratto [Continuator Hermanni Contracti.]. Fece studio l'imperadore per aver nelle mani anche il piccolo Federigo figliuolo del fu marchese Bonifazio e di Beatrice (chiamato Bonifazio dal suddetto storico) che potea con qualche ragione pretendere alla successione nel ducato della Toscana, affin di levare ogni pretesto al duca Goffredo di amministrare il governo di quegli Stati. Ma mentre chi avea cura di questo piccolo principe va cercando di non esporlo al duro trattamento che provava la duchessa sua madre, egli se ne morì, e liberò Arrigo da questo pensiero. Essendo già premorta Beatrice sua sorella, restò erede di quell'ampio patrimonio l'unica prole rimasta in vita de' figliuoli del marchese Bonifazio e di Beatrice, cioè la celebre contessa Matilda, che allora si trovava in età di otto anni, e verisimilmente si assicurò da ogni violenza con ritirarsi nella sua inespugnabil rocca di Canossa sul Reggiano. [271] Il Fiorentini scrive [Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 1.] ch'essa era allora colla madre: il che difficilmente m'induco io a credere. Nel dì 5 di maggio si trovava l'Augusto Arrigo ne' celebri prati di Roncaglia sul Piacentino, dove, secondo il consueto, si raunava, all'arrivo dei re e degl'imperadori, la dieta dei principi d'Italia, siccome costa da un suo placito ivi tenuto, da me dato alla luce [Antiquit. Ital., Dissert. XXXIX, pag. 645.], che merita attenzione, perchè gli avvocati di Guido vescovo di Luni, avendo una lite pel castello di Aghinolfo con un Gandolfo, volevano deciderla col duello alla presenza dello stesso Augusto e di varii vescovi, se non che amichevolmente si acconciò l'affare. Di questa dieta fa menzione anche Arnolfo storico milanese nel lib. III, cap. 6, con dire che in essa marchionem Adelbertum, de quo nimia fuerat proclamatio, cum aliis flagitiosis, ferreis jubet vinciri nexibus. Non ho potuto chiarire se questo principe fosse della schiatta dei marchesi poscia appellati estensi.

Perchè gl'interessi della Toscana stavano forte a cuore all'Augusto Arrigo, ed anche perchè il novello papa Vittore avea intimato un concilio da tenersi in Firenze, colà s'inviò egli, e trovossi col pontefice in quella città per la festa della Pentecoste [Continuator Hermanni Contracti, in Chron.]. Fu celebrato in Firenze il suddetto concilio, e quivi di nuovo condannata l'eresia di Berengario e la simonia, e vietata l'alienazione dei beni ecclesiastici. Non ci restano gli atti di quella sacra adunanza. Inviò anche lo zelante papa in Francia, o in questo anno, ovvero nel seguente, il celebre Ildebrando, suddiacono allora, siccome dissi, della santa romana Chiesa, per estirpare la simonia, male in questi tempi gravemente radicato per tutta la Cristianità. Vi operò egli delle mirabili cose, che si leggono nella storia ecclesiastica. In quest'anno ancora, per asserzione di [272] Lamberto da Scafnaburgo [Lambert. Schafnaburgensis, in Chronico. Annalista Saxo et alii.] e d'altri, accadde che dalla mano sacrilega di un suddiacono fu posto del veleno nel calice quando il suddetto pontefice era dietro a celebrar messa. Miracolosamente volle Dio che il buon papa dopo la consecrazione non potesse alzare il calice. Allora egli col popolo in orazione pregò Dio di rivelar la cagione di questa novità: ed eccoti essere preso dal demonio l'empio autore dell'iniquità, che confessò il suo delitto. Fece Vittore chiudere quel calice in un altare col vino attossicato; e rinnovò col popolo le preghiere a Dio, finchè il suddiacono si vide liberato dal demonio. Havvi chi crede essere provenuto un tale attentato da quel tristo di Teofilatto, che dianzi abbiam veduto sotto il nome di Benedetto IX sulla cattedra di san Pietro, il quale già deposto era tuttavia vivente, per quanto consta dalle parole dette dal santo papa Leone IX prima di morire nell'anno precedente [Acta Sanctorum Bolland., in Vita S. Leonis IX.]. Ma se sussiste ciò che si è detto di sopra all'anno 1044 d'esso Benedetto IX, sopra di lui non dovrebbe cadere un tal sospetto. Che l'Augusto Arrigo fosse in Firenze nel dì 6 di giugno dell'anno presente, possiamo anche provarlo colla conferma de' privilegii de' canonici di Parma, da me pubblicata [Antiquit. Italic., Dissert. XXIII.], e data VIII idus junii, anno dominicae Incarnationis MLV, Indictione VIII, anno autem domni Heirici tercii regis, imperatoris autem secundi, ordinationis ejus XXVII, regni quidem XVI, imperii vero VIIII. Actum vero Florentiae. Accadde in quest'anno il ritorno in Italia di Federigo cardinale, cancelliere della Sede apostolica, già spedito a Costantinopoli dal santo papa Leone IX, dove con vigore apostolico sostenne la dottrina della Chiesa romana contra di Michele Cerulario, principale autore di un deplorabile [273] scisma [Leo Ostiensis, Chron., lib. 2, cap. 89.]. Fama corse ch'egli portasse da quella corte un gran tesoro, ed avvertitone l'imperadore Arrigo, per sospetto che Federigo, siccome fratello di Gotifredo duca di Lorena, cioè di una persona odiata non poco da esso augusto, avesse tramata col greco imperadore qualche lega in pregiudizio dell'imperio germanico, scrisse al papa di prenderlo e cacciarlo in prigione. Ne fu segretamente avvertito Federigo, e, per sottrarsi alla persecuzione d'Arrigo, corse al monistero di Monte Casino, e quivi si fece monaco. Leone ostiense, autore di questo racconto, avea detto nel capitolo precedente che Federigo in passando pel territorio teatino o sia di Chieti, Trasmondo conte di quella città l'avea spogliato di quanto egli portava seco, lasciandolo poi in libertà, con grave scandalo ed ingiuria della sede apostolica. Aggiugne il suddetto Ostiense [Idem, ibid., lib. 2, cap. 92 et 94.], che essendo mancato di Vita Richerio abbate di Monte Casino, in suo luogo fu eletto dai monaci un di loro appellato Pietro. Se l'ebbe a male papa Vittore II, il quale per altro amava poco i monaci, e ne fece gran querela, perchè senza sua saputa avessero eletto un abbate. Mandò apposta colà Umberto vescovo e cardinale con ordine di adoperar le scomuniche; ita ad subjugandam sibi violenter abbatiam animum papa intenderat: quum numquam aliquis ante illum romanorum pontificum hoc attemptaverit; sed libera ab initio permanente, abbatis quidem electio monachis, papae vero sacratio tantummodo pertinuerit. Furono perciò in armi i sudditi della badia; ma non finì la faccenda, che Pietro eletto abbate rinunziò a quella dignità nell'anno 1057, siccome vedremo.

Se si ha a credere a Lamberto da Scafnaburgo [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.], l'Augusto Arrigo aveva, almeno in apparenza, mostrato di accettar [274] le scuse e proteste d'esso Goffredo, per timore specialmente ch'egli, unendosi coi Normanni, non isconvolgesse tutta l'Italia. Tuttavia essendosi ritirato Goffredo in Lorena, mal soddisfatto al vedere ritenuta dall'imperadore Beatrice sua moglie, concepì Arrigo dei sospetti ch'egli potesse tentar delle nuove ribellioni, ed in quest'anno appunto, secondo Sigeberto [Sigebertus, in Chronico.], Baldovino conte di Fiandra cum Godefrido avunculum suum Fridericum ducem intra Androverpum obsidet. Perciò Arrigo determinò di ritornare in Germania, dappoichè l'Italia restava in una buona calma. Era egli sul Ferrarese verso il fine d'agosto, siccome consta dal diploma da me dato alla luce [Antiquit. Italic., Dissert. LXVIII.], in cui conferma al popolo di Ferrara i lor privilegii. Le note cronologiche son queste: VIII kalendas septembris, anno dominicae Incarnationis MLV, Indictione VIII, anno autem domni Henrici tertii regis, imperatoris autem secundi, ordinationis ejus XXVII, regni quidem XVII, imperii vero VIIII. Actum ad Pontem: forse il Ponte oggidì appellato di Lagoscuro sul Po. Nel dì 15 d'ottobre si truova lo stesso Augusto in Mantova, dove spedisce un diploma in favore de' canonici di Cremona colle suddette note [Ibidem. Dissertat. IX et XIII.]. Parimente in Verona nel dì 11 di novembre ratificò i privilegii del monistero di san Zenone, posto allora fuori di quella città, con diploma da me pubblicato altrove [Antichità Estensi, P. I, cap. 2.]. Leggonsi ancora tre placiti tenuti in questo anno da Guntero cancelliere e messo dell'imperadore, uno nel contado di Firenze presso il fiume Arno, in loco, qui nominatur Omiclo, nel dì 14 di giugno; il secondo in civitate Mantua in lobia soleriata, quae fuit marchionis Bonifacii, XV kalendas novembris; il terzo nella villa di Volarno del contado di Verona nel dì 15 di novembre. Per la Baviera passò l'Augusto Arrigo a Turgau negli Svizzeri, dove celebrò la festa del [275] santo Natale [Continuator Hermanni Contracti, in Chron.], ibique Othonis marchionis filiam (appellata Berta) aequivoco suo filio desponsavit, cioè ad Arrigo IV, allora fanciullo di pochi anni. Altri non è questo Ottone marchese che il marchese di Susa, cioè il marito di Adelaide celebre marchesana di quelle contrade. Oltre ad altri scrittori, Lamberto scafnaburgense [Lambertus Schafnaburgensis, in Chronico.] all'anno 1066 fa menzione delle nozze d'esso Arrigo IV et Berthae reginae filiae Ottonis marchionis Italorum. L'Annalista sassone [Annalista Saxo apud Eccardum.] la chiama filiam Ottonis marchionis de Italia, et Adeleidis, quae soror erat comitis, qui agnominatus est de monte Bardonis in Italia. Quest'ultimo è una favola. Appartiene ancora al presente anno un avvenimento di grande importanza per la nobilissima casa d'Este. Nel suddetto diploma dato ai monaci di san Zenone vien mentovato Welpho gloriosus dux, cioè duca della Carintia, e marchese della marca di Verona. L'autore della Cronica di Weingart [Chronic. Weingart., tom. 1 Scriptor. Brunsvicens.] e l'abbate urspergense [Conradus Abbas Urspergensis, in Chron.] raccontano che questo principe essendo ito ad aspettare ne' prati di Roncaglia l'imperadore, che vi si dovea trovare in un giorno determinato, dopo averlo aspettato indarno tre dì, impazientatosi, fece alzar le bandiere colle sue genti, e se ne tornò a casa. E tuttochè per via trovasse l'imperadore che veniva, nè per preghiere, nè per minacce vi fu maniera di farlo tornare indietro. Mise anche l'imperadore Arrigo una esorbitante contribuzion di danaro a' Veronesi, e la riscosse. Sopravvenne il duca Guelfo, e, saputo un sì pesante aggravio imposto a' suoi sudditi, fece tal fuoco presso del medesimo Augusto, che l'obbligò a rifondere quel danaro. Il Continuatore di Ermanno Contratto scrive che Gebeardo vescovo di Ratisbona, et Welphus dux licentiam repatriandi ab Italia impetraverunt, militesque eorum, illis (ut ajunt) [276] ignorantibus, contra imperatorem conjuraverunt. Ma in questo medesimo anno lo stesso duca Guelfo III, giovane di spiriti eccelsi, suis, et omni populo flebili morte praeventus, apud altorfense coenobium sepultus est. In lui ebbe fine la famosa ed antichissima famiglia de' principi guelfi, se non che fors'anche era in vita Cunegonda sua sorella, moglie di Alberto Azzo II marchese, progenitore de' principi estensi. Da questo matrimonio era nato un figliuolo appellato Guelfo IV. E contuttochè i monaci di Weingart, ossia delle vigne, in Altorf, prevalendosi del momento felice della mortal malattia d'esso Guelfo IV, l'avessero indotto a lasciar tutti i suoi Stati e beni della Suevia, che erano di grande estensione, al lor monistero; pure Ermengarda madre di lui, tuttavia vivente, chiamò in Germania il nipote Guelfo IV figliuolo della figliuola e del marchese Azzo e, fatto probabilmente conoscere informe e nullo il testamento del figliuolo, fece passare in esso suo nipote tutta l'ampia eredità della casa de' Guelfi. Ecco le parole dell'Urspergense: Mater ejusdem (di Guelfo III duca) hanc distributionem fieri non permisit; sed potius de Italia revocavit filium praefati Azzonis nepotem suum Welphonem quartum, eumque heredem omnium possessionum ejusdem generis instituit. Altrettanto ha la Cronica di Weingart presso il Leibnizio. È punto importante alla storia dell'Italia e della Germania, perchè il sangue de' principi estensi per mezzo di questo principe si propagò e divenne, siccome diremo, gloriosissimo in Germania, discendendo per diritta linea da esso Guelfo IV la reale ed elettoral casa di Brunsvic, siccome da un altro figlio di esso marchese Azzo la linea de' marchesi d'Este. Quando mancasse di vita la suddetta Cunegonda, moglie del marchese Alberto Azzo, non l'ho potuto scoprire. Ben so che fu seppellita nella badia della Vangadizza presso all'Adigetto, posseduta per più secoli dai monaci camaldolesi; e il suo epitaffio, a me comunicato dal [277] celebre letterato don Guido Grandi camaldolese, fu già da me dato alla luce [Antiquit. Ital., Dissert. LI.]. Abbiamo dalla Cronica antica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], che quella città nel dì di san Lorenzo di quest'anno restò da un terribil incendio in gran parte consumata. Fu anche guerra fra i Pisani e Lucchesi; Pisani vero vicerunt illos, se crediamo agli antichi Annali di Pisa [Annales Pisani, tom. 6 Rer. Ital.]; e la battaglia succedette in un luogo detto Vaccoli presso di Lucca. Scrive ancora il Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] che riuscì a Domenico Contareno doge di Venezia di riportare (probabilmente in quest'anno) dall'imperadore Arrigo la conferma de' patti antichi col regno d'Italia.


   
Anno di Cristo MLVI. Indizione IX.
Vittore II papa 2.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 1.

Desiderò l'imperadore Arrigo che papa Vittore andasse a ritrovarlo in Germania, e questi vi andò, ricevuto con sommo onore in Goslaria [Continuator Hermanni Contracti, in Chron. Sigebertus, in Chronico. Lambertus Schafnaburgensis, in Chron. Marianus Scotus, in Chron.], dove insieme celebrarono la festa della Natività di santa Maria con pompa mirabile, perchè vi intervennero quasi tutti i principi tedeschi, sì ecclesiastici che secolari, e il patriarca d'Aquileia. Ma quest'anno riuscì ben funesto per varii disastri, cioè per la morte di molti di que' principi, per la carestia che afflisse non poco i popoli, per gli affari della guerra che andavano alla peggio, e per una dissensione col re di Francia. Ne concepì l'Augusto Arrigo non poca malinconia, dopo di che fu assalito da una febbre perniciosa, che in sette giorni il fece passare all'altra vita nel dì 5 di ottobre, assistito specialmente dalla presenza del romano pontefice. Era egli in età di trentanove anni, nè mancò [278] prima di morire di perdonare ad ognuno, di restituire il maltolto, e di chiedere perdono a tutti. Dodechino scrive [Dodechinus, in Chron., ann. 1106.] che egli in jecore cervi mortem comederat. Forse allora corse il sospetto di veleno, facile a nascere nelle morti immature dei regnanti. Raccomandò egli a tutti i principi, ma principalmente al sommo pontefice Vittore, il piccolo suo figliuolo Arrigo IV di età d'anni sei, mettendolo sotto la protezione della Chiesa romana. In fatti contribuì non poco il papa, affinchè il re fanciullo fosse di nuovo eletto e confermato re di Germania. La cura e tutela di lui restò, col consiglio e consentimento de' primati, appoggiata all'imperadrice Agnese, principessa di molto senno e di non minore pietà, che si diede ad allevarlo con saggia e profittevol educazione. Ma convien pure dirlo per tempo: la morte troppo frettolosa di Arrigo III e la minorità del re suo figliuolo furono il principio d'immensi malanni sì in Italia che in Germania, e di un orribile sconvolgimento di cose, con essersi specialmente sciolto il freno alle ingiustizie, alle ribellioni, alle guerre civili. E qui comincia il periodo di avvenimenti, che fecero a poco a poco mutar faccia anche all'Italia, siccome andremo vedendo. Per allora la savia condotta dell'Augusta Agnese impedì che non seguisse tumulto o novità alcuna; ma non andò molto che, tolte a lei le redini del governo, si scatenarono i vizii, nè ci fu ritegno all'inondazion de' mali e allo sconcerto dei regni. Che Arrigo IV, per elezione o precedentemente procurata dal padre, o dopo la di lui morte ottenuta, cominciasse tosto, benchè non coronato, a dominare in Italia, si raccoglie da varii atti di giurisdizione da lui esercitati in queste contrade. Nell'anno presente [Antiquit. Ital., Dissert. XV.], imperante domnus Enricus filius quondam domni Chonradi imperatoris anno decimo, die quartodecimo mense genuarius, Indictione nona, Willa inclita contessa, relicta quondam [279] domni Ugo gloriosissimo, qui fuit dux et marchio, manomette Clariza figliuola di Uberto da Castel Poderoso. Per quanto io credo, quest'Ugo duca e marchese già defunto era stato duca di Spoleti e marchese della marca di Camerino, siccome accennai all'anno 1028. Rapporta l'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. I in Episc. Asculan.] all'anno presente un diploma dato dal sopraddetto Arrigo imperadore in favor di Bernardo vescovo d'Ascoli, le cui note cronologiche affatto guaste son tali: Datum VI kalendas junii, anno dominicae Incarnationis MLVI, Indictione IX, anno domni Henrici tertii, ordinationis ejus XXVIII, regni vero XVIII, imperii II (oppure XI). Actum Florentiae. Ma quel diploma sarà dato nell'anno precedente sul fine di maggio, allorchè Arrigo fu in Firenze, e a tenore di ciò si debbono acconciar quelle note.


   
Anno di Cristo MLVII. Indizione X.
Stefano IX papa 1.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 2.

Per tutto il verno si fermò il papa Vittore in Germania [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.], ed insieme col fanciullo re Arrigo IV solennizzò la festa del santo Natale in Ratisbona. Opera sua fu, per testimonianza di Sigeberto [Sigebertus, in Chron.], che nel presente anno Baldovino conte di Fiandra e Goffredo duca di Lorena comparissero ad una gran dieta tenuta in Colonia, e quivi fossero rimessi in grazia del re e dell'imperadrice lor madre. In tale occasione Goffredo [Albericus Monachus, in Chronico.] liberamente riebbe la duchessa Beatrice sua moglie, e con esso lei se ne tornò al governo della Toscana e degli altri Stati d'Italia. Anche il pontefice Vittore II, dopo avere colla sua prudenza messo qualche buon sesto alla quiete della Germania, sen venne in Italia. Da una lettera a lui scritta [280] da san Pier Damiano [Petrus Damian., lib. 1, Epist. 5.] si raccoglie che esso papa portò seco un'ampia autorità e plenipotenza per regolar gli affari del regno italico, e mantenerlo alla divozione del piccolo re Arrigo. Introduce esso Pier Damiano Cristo Signor nostro a parlargli così: Ego te quasi patrem imperatoris esse constitui, ec. Ego claves totius universalis Ecclesiae meae tuis manibus tradidi, ec. Et si pauca sunt ista, etiam monarchias addidi. Immo sublato rege de medio, totius imperii vacantis tibi jura permisi. Prima ancora, cioè nell'anno precedente, e vivente l'Augusto Arrigo, era ad esso papa raccomandato e commesso il governo d'Italia. In pruova di ciò resta un atto pubblicato dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 Append. Episcop. Ascol.], cioè un placito tenuto da esso papa Vittore II in comitatu aprutiensi ante castrum de la Vitice, ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi anni sunt millesimi quinquagesimi sexti, et dies istius (parola scorretta) et mensis julius per Indictione nona. Quivi egli è chiamato Victorius sedis apostolicae praesul urbis Romae Dei gratia Italiae egregius universali PP. regimine successus, marcam firmanam et ducatum spoletinum. Non furono copiate colla dovuta attenzione queste parole, ma assai trasparisce ch'esso papa avea il governo o di tutta l'Italia, o almeno della marca di Fermo e del ducato di Spoleti. Ed acciocchè si conosca chi fosse tuttavia il sovrano di quegli stati, si osservi che il papa fecit mittere bandum de parte regis Henrici, et de sua parte, ec., ut si qui rebellis aut contemptor extiterit, ec., sciat se compositurum ad partem camerae regis libras quinquaginta, et ad partem camerae suae alias quinquaginta libras, etc. Già si accennò che nell'anno 1055 Federigo fratello del duca Goffredo avea vestito l'abito monastico in Monte Casino. Era venuto papa Vittore a Firenze, colà invitato dal duca; e, per attestato di Leone [281] ostiense [Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 94.], Federigo, che più non avea paura del defunto imperadore, si portò anche egli a Firenze, per far le sue doglianze contro di Trasmondo conte di Chieti, da cui era stato empiamente svaligiato nel suo ritorno da Costantinopoli. Trasmondo fu scomunicato dal papa, e, per ottener l'assoluzione, restituì non solo tutto il rapito, ma ancora il castello di Frisa, già lasciato al monistero casinese dalla di lui moglie. Quindi fu mossa lite contra di Pietro eletto abbate d'esso monistero, e spedito colà Umberto cardinale per esaminar l'elezione di lui. Avendo egli rinunziato, i voti dei monaci, probabilmente per insinuazione dello stesso cardinale, si unirono ad eleggere il suddetto Federigo, personaggio per altro degnissimo di quel ministero, perchè dotato di religiosa perfezione e di singolari virtù. Nè mancò il duca Goffredo di procacciargli anche dei più splendidi onori. In effetto il papa nelle quattro tempora di giugno creò esso Federigo cardinale del titolo di san Grisogono, confermando nello stesso tempo a lui il grado di abbate, e alla badia casinese tutti i suoi privilegii con bolla pubblicata dal padre Mabillone [Mabillon., in Annal. Benedictin., tom. 4 in Append.].

Fra poco si partì alla volta di Roma il novello porporato per quivi prendere il possesso della sua chiesa titolare, quando eccoti, pochi giorni dopo il suo arrivo, colà giugnervi anche Bonifazio, cardinale e vescovo d'Albano, colla nuova che papa Vittore era mancato di vita in Firenze nel dì 28 di giugno. Cominciarono dunque i Romani a trattar dell'elezione del successore, e nel dì 2 d'agosto con voti unanimi del clero e popolo restò eletto il medesimo cardinal Federigo, che assunse il nome di Stefano IX, perchè correva in quel dì la festa di santo Stefano papa e martire. Lamberto da Scafnaburgo [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.] notò come cosa considerabile l'unione [282] ed allegria de' Romani in tal congiuntura, con dire: Nec quisquam sane multis retro annis laetioribus suffragiis, majore omnium exspectatione, ad regimen processerat romanae Ecclesiae. Applicossi tosto questo zelantissimo papa alla riforma della disciplina ecclesiastica con tenere più di un concilio, dove condannò i maritaggi de' preti latini, le nozze illecite, le simonie ed altri pubblici e comuni disordini di que' corrotti secoli. Per la festa di santo Andrea si portò a Monte Casino, dove con tutto vigore cercò di svellere l'abuso de' monaci proprietarii. Tornato a Roma, quum romana febre jamdudum langueret, s'aggravò talmente il suo male circa la festa del santo Natale, che credette d'essere giunto al fine de' suoi giorni. Allora fu che, col consiglio dei priori, elesse abbate di Monte Casino Desiderio, uomo incomparabile, ed uno dei più splendidi ornamenti di quel sacro luogo, con dichiararlo anche suo nunzio alla corte dell'imperadore d'Oriente, inviandolo colà insieme con Stefano cardinale e Mainardo, poscia vescovo di Selva Candida. Abbiamo da Romoaldo salernitano [Romualdus Salern., Chron., tom. 7 Rer. Ital.] che in quest'anno terminò i suoi giorni Goffredo conte de' Normanni, lasciando per suo successore Bagelardo ossia Abailardo suo figliuolo, valoroso milite. Ma Roberto Guiscardo fratello di Goffredo, la cui ambizione non conobbe mai limiti, s'impadronì di tutti i di lui Stati, e ne cacciò il nipote. Questo Goffredo, il cui nome è alterato nel testo di Romoaldo, altro non è che Unfredo conte e capo dei Normanni in Puglia, del quale abbiam favellato più volte in addietro. La sua morte è riferita all'anno precedente da Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.]. Guglielmo Pugliese aggiugne [Guilielmus Apulus, lib. 2 Poem.] che Roberto Guiscardo, dopo i funerali del fratello,

Ad Calabros rediit, Cariati protinus urbem

Obsidet, hac capta reliquas ut terreret urbes.

[283] Quest'assedio appartiene all'anno seguente. Nel presente [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.] cominciarono i baroni della Sassonia, siccome mal soddisfatti del defunto imperadore Arrigo, a macchinare delle novità contra del di lui figliuolo Arrigo. Accolsero con grande ansietà Ottone fratello di Guglielmo marchese, e trattarono infino di alzar lui al trono, e di levar di vita il re fanciullo. Diedesi principio alla sollevazione; ma, rimasto estinto in un incontro il suddetto Ottone, per allora si quetò il tumulto, e continuò nell'animo de' Sassoni la medesima avversione ad Arrigo IV. In quest'anno ancora il nuovo papa Stefano ben conoscente della rara virtù e letteratura di Pier Damiano, dall'eremo il chiamò a Roma, e l'alzò al grado di cardinale e di vescovo d'Ostia [Johann. Laudensis, in Vit. S. Petri Damian., cap. 6.]. Ripugnò forte ad accettar queste dignità il santo monaco, con resistere finchè potè alle preghiere d'esso papa e di molti vescovi; ma l'intimazione della scomunica, se non ubbidiva, quella fu che in fine l'espugnò. Provvide ancora esso pontefice la Chiesa vacante di Lucca di un vescovo, che poi divenne celebre, cioè di Anselmo da Badagio milanese, il qual poscia nella sedia di san Pietro fu chiamato Alessandro II. Circa quest'anno parimente ebbe cominciamento lo scisma del clero di Milano, di cui parleremo negli anni seguenti. Una bolla del suddetto pontefice, data non già nell'anno 1058, ma bensì nel presente 1057, fu da me pubblicata [Antiquit. Ital., Dissert. LXX.], in cui determina che gli ecclesiastici non sieno tirati al foro secolare, nè sieno loro imposte gravezze dai laici. Le note son queste: Datum Romae per manum Humberti sanctae ecclesiae Silvae Candidae episcopi et bibliothecarii sanctae romanae et apostolicae Sedis, anno pontificatus domni Stephani noni papae primo, XV kalendas novembris, Indictione undecima, cominciata nel settembre. A quest'atto intervennero [284] Anselmo vescovo di Lucca, Benedetto vescovo di Veletri, Bonifazio vescovo d'Albano, Umberto vescovo di Selva Candida, Pietro vescovo lavicano, ed Ildebrando cardinale suddiacono della santa romana Chiesa.


   
Anno di Cristo MLVIII. Indizione XI.
Benedetto IX papa 1.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 3.

Se avesse Dio conceduta più lunga vita al pontefice Stefano IX, potevano aspettarsi da lui di grandi imprese non meno di pietà che di politica. Racconta Leone marsicano [Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 99.] ch'egli mandò ordine a Monte Casino di portare con gran fretta e di nascosto a Roma tutto il tesoro di quel sacro luogo in oro ed argento, promettendo in breve di rifare il danno e con usura. Il motivo di tale novità era ignoto; ma fu creduto ch'egli fosse dietro a mettere nel capo del duca Goffredo suo fratello le corone del regno d'Italia e del romano imperio. Disponebat autem fratri suo duci Gotifredo apud Tusciam in colloquio jungi, eique, ut ferebatur, imperialem coronam largiri; demum vero ad Normannos Italia expellendos, qui maximo illi odio erant, una cum eo reverti. Ma l'uomo propone e Dio dispone. Non ebbe egli tempo da effettuar questo disegno, il quale, se pure è vero, avrebbe portato una gran taccia al nome suo presso la nazione germanica, ma sarebbe forse stato la salute dell'Italia, con risparmiarle tanti sconcerti che poscia avvennero per cagione di un re fanciullo allora e poi carico di vizii. Fu portato al papa il tesoro casinense, ma ben mal volentieri, dai monaci. Una visione raccontata al papa, e gli scrupoli insorti nella di lui delicata coscienza, furono cagione ch'egli ordinasse che tutto quell'oro ed argento fosse ricondotto al suo monistero. Maggiormente intanto si aggravava la di lui malattia; e però, unito [285] il clero e popolo romano, l'obbligò a promettere che, in caso di sua morte, non passerebbono all'elezione del nuovo papa finchè non fosse tornato di Germania Ildebrando cardinale suddiacono della Chiesa romana, e abbate di san Paolo, chiamato da Lamberto [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.] vir et eloquentia et sacrarum literarum eruditione valde admirandus. Era questi stato inviato per comun parere da Roma all'imperadrice Agnese per gli affari e bisogni occorrenti di questi pericolosi tempi. Andossene poi il pontefice Stefano a Firenze in Toscana a trovare il fratello, e vi trovò anche la morte, che il portò a miglior vita nel dì 29 di marzo, assistito nella malattia dal santo abbate di Clugnì Ugo. Dio onorò la sua sepoltura con varii miracoli. A questa nuova il popolo romano, che non s'era mai saputo accomodare ad aver pontefici tedeschi, e specialmente eletti dall'imperadore, tuttochè i cinque ultimi venuti di colà fossero stati personaggi santi, o almeno assai benemeriti della Chiesa romana, fece tosto un gran broglio per creare un papa romano. Gregorio figliuolo d'Alberico, conte tuscolano ossia di Frascati, unito con altri potenti di Roma [Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 101.], e guadagnata con danari buona parte del clero e popolo, corse in tempo di notte con assai gente armata alla chiesa, e quivi tumultuariamente fece eleggere papa Giovanni vescovo di Veletri, soprannominato poi Mincio (parola forse tratta dal franzese mince, che significava leggiere e balordo, e potè dar l'origine alla parola oggidì usata di mincione, minchione), il quale assunse il nome di Benedetto X. Era uomo privo affatto di lettere, per attestato di san Pier Damiano. A questa sregolata elezione, contraria ai sacri canoni, e fatta anche senza il consentimento della corte germanica, cioè contra del giuramento intorno a ciò prestato al defunto imperadore Arrigo III, e contra del forte divieto fatto dall'ultimo defunto papa Stefano IX: a [286] questa elezione, dissi, con tutto vigore si oppose il suddetto san Pier Damiano vescovo d'Ostia cogli altri cardinali. Protestarono, intimarono scomuniche; ma indarno tutto. Furono essi astretti a fuggirsene e a nascondersi per timor della vita; e il popolo, giacchè non si potea avere il vescovo ostiense, a cui apparteneva la consecrazione del nuovo pontefice, per forza obbligò l'arciprete d'Ostia, uomo ignorante, a consecrare questo illegittimo e simoniaco papa: cosa anche essa affatto ripugnante alla disciplina della Chiesa.

Giunto in Germania l'avviso della morte del papa, e nello stesso tempo quel della novità commessa in Roma, non tardò l'imperadrice Agnese a rimandare in Italia il cardinale Ildebrando con ordine di andar di concerto col duca Gotifredo per provvedere a questi disordini. Intanto arrivò a quella corte, per attestato di Lamberto, un'ambasceria di que' Romani che non aveano acconsentito all'intrusione di Mincio, rappresentandosi pronti ad osservare verso il re figliuolo quella fedeltà che aveano mantenuta verso l'Augusto suo padre, e pregando caldamente il re di mandar loro quel papa che gli piacesse, perchè ognuno abborriva l'intruso. Si trattò dunque di eleggere un pontefice legittimo, e s'accordarono insieme nella città di Siena, dove fu celebrato un concilio, i primati tanto romani che tedeschi [Cardinal. Aragon., in Vita Nicolai II, Par. I, tom. 3 Rerum Italicarum.], per alzare al trono pontifizio Gherardo vescovo di Firenze, di nascita borgognone, personaggio per senno e per ottimi costumi degno di sì sublime dignità. Si attese nel rimanente dell'anno a preparar la forza, e a far negoziati per atterrar l'usurpatore della cattedra di san Pietro: il che, ebbe compimento nell'anno seguente, siccome diremo. Nel presente, per testimonianza del Malaterra [Gaufrid. Malaterra, Hist., lib. 1, cap. 30.], fu nella Calabria una terribil carestia e mortalità. Era [287] già venuto in Italia Ruggieri, minor fratello di Roberto Guiscardo, giovane che per valore, per eloquenza, per accortezza non avea pari. Si diede anch'egli, col consenso del fratello, a far delle conquiste nella Calabria, la metà della qual provincia gli fu o promessa o conceduta da esso Roberto. In quest'anno ancora il medesimo Roberto, vedendosi salito in tanta potenza, sdegnò d'aver più per moglie Alberada, che gli avea partorito un figliuolo appellato Marco, e con altro nome Boamondo, principe che divenne col tempo assai celebre e glorioso. Trovate perciò ragioni o pretesti di parentela, la ripudiò; ed ansioso di nozze più illustri, prese per moglie Sigelgaita figliuola del defunto Guaimario IV principe di Salerno. Ma Guglielmo Pugliese [Guillelmus Apulus, lib. 2 Poem.] riferisce all'anno seguente queste nozze, alle quali a tutta prima Gisolfo II, allora principe regnante di Salerno, e fratello di Sigelgaita, si mostrò renitente; ma poi condiscese, per non tirarsi addosso la nimicizia di quella fiera nazione, e perchè guadagnò nel contratto alcune castella. In quest'anno V idus junii, Indictione XI, dimorando in Firenze il duca Gotifredo, accordò ai canonici di Arezzo la sua protezione [Antiquit. Italic., Dissert. XVII.]. Diedero unitamente tal privilegio Gottifredus divina favente clementia dux et marchio, et Beatrix ejus conjux. Parimente il medesimo duca XVI kalendas januarii, Indictione XII, cioè ai dì 17 di dicembre dell'anno presente, mentre risedeva in giudizio intus casa, quae est sala de palatio de civitate lucense, confermò ad Anselmo vescovo di Lucca, che fu poi papa Alessandro II, la chiesa di santo Alessandro, et misit bannum domni imperatoris (benchè non per anche Arrigo IV godesse questo titolo) super eodem Anselmo episcopus, per maggior sicurezza di lui.

[288]


   
Anno di Cristo MLIX. Indizione XII.
Niccolò II papa 1.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 4.

Sul principio di quest'anno il nuovo eletto pontefice, che assunse poscia il nome di Niccolò II, s'inviò da Firenze alla volta di Roma, fiancheggiato dalle milizie di Goffredo duca di Lorena e Toscana, principe allora potentissimo in Italia. Fermossi a Sutri, perchè la possanza de' conti di Tuscolano era grande nella città. Quivi raunò un concilio di vescovi per trattare della deposizion di Mincio, ossia di Benedetto X falso pontefice [Cardinal. Aragon., in Vita Nicolai II, Par. I, tom. 3 Rerum Italicarum.]. Non aspettò Mincio la forza, ma spontaneamente depose le insegne pontificali, e si ritirò alla propria casa. Ciò inteso, l'eletto papa Niccolò, tenuto consiglio coi cardinali, senza accompagnamento di soldatesche e con tutta umiltà entrò in Roma, dove, accolto onorevolmente dal clero e popolo, fu intronizzato: dal qual tempo ha principio l'epoca del suo pontificato. Da lì poscia a pochi giorni si presentò a' suoi piedi Mincio, chiedendo perdono, con allegar per iscusa che gli era stata usata violenza, confessando nondimeno il suo fallo per aver mancato al giuramento. In pena del suo reato restò degradato dall'ordine episcopale e sacerdotale, e confinato in santa Maria Maggiore. Fece poscia papa Niccolò un viaggio nella marca di Camerino sul principio di quaresima, e in tal occasione creò cardinale Desiderio, insigne abbate di Monte Casino. Trovossi il medesimo papa in Spoleti VI nonas martii, e quivi confermò i privilegii al monistero del Volturno [Chron. Vulturnense, P. II, tom. 1 Rer. Ital.]. Era egli VIII idus martii in Osimo, dove fece la suddetta grazia a Monte Casino. Raunò un numeroso concilio di cento tredici vescovi [289] nella basilica lateranense [Tom. 9 Concilior. Labbe, pag. 1099.], correndo il mese d'aprile, in cui fu stabilito un salutevol decreto intorno all'elezione dei romani pontefici, da farsi in Roma principalmente da' cardinali, e poi dal restante clero e popolo, salvo debito honore et reverentia dilecti filii nostri Henrici, qui impraesentiarum rex habetur, et futurus imperator, Deo concedente, speratur, sicut jam concessimus, et successoribus illius, qui ab apostolica Sede personaliter hoc jus impetraverint. Nella Cronica del monistero di Farfa [Chron. Farfens. P. II, tom. 2 Rer. Ital.], da me data alla luce, si legge questo decreto più copioso che nella raccolta de' concilii, perchè v'ha il catalogo di tutti i cardinali e vescovi assistenti al medesimo concilio. E qui si legge qualche giunta allo suddette parole: cioè sicut jam mediante ejus nuntio Longobardiae cancellario W. concessimus, et successorum illius, qui ab hac apostolica sede personaliter hoc jus impetraverint, ad consensum novae electionis accedant. Quel cancelliere dovrebbe essere Wibertus, cioè Giberto, che fu poi arcivescovo di Ravenna ed antipapa, ma che non era già allora arcivescovo di Ravenna, in guisa che quel Wibertus archiepiscopus, che si legge nelle sottoscrizioni, sarà arcivescovo d'altra chiesa, se pur quel nome non è scorretto. Forse ivi era scritto Wido, cioè Guido arcivescovo di Milano. In questa maniera il papa rimise ne' termini dell'antica consuetudine, da noi per più secoli osservata, l'elezion de' romani pontefici, confermandola ai cardinali e al clero e popolo romano, ma con riserbarne l'approvazione al regnante imperadore, prima di consecrarlo. Prevalendosi inoltre della minorità del re Arrigo, fece diventar questo un privilegio personale, accordato dalla santa sede all'imperadore: il che non s'udì mai in addietro. E i Greci e i Franchi e i Tedeschi Augusti fin qui aveano sostenuto che questa fosse una prerogativa dell'alto loro dominio in Roma, e in concedere gli Stati al romano pontefice si riserbavano per [290] patto questo da lor preteso diritto. Non potea però pretenderlo Arrigo IV, perchè fin qui egli non era imperadore. Vero è che vedremo da qui a non molto che fu rivocato anche questo medesimo decreto di papa Niccolò II. In esso concilio romano Berengario abiurò per la prima volta la sua eresia, e furono proibite non meno le simonie che i matrimonii ossia i concubinati dei preti. Abbiamo dalla Vita di questo pontefice [Cardin. de Aragon., P. I, tom. 3 Rer. Ital.], raccolta dal cardinale Niccolò d'Aragona, che i Normanni gli spedirono ambasciatori con pregarlo di venire in Puglia, promettendogli ogni soddisfazione. V'andò in fatti papa Niccolò dopo le feste di Pasqua, e, per attestato di Leone Ostiense [Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 13.] e di Guglielmo Pugliese [Guillelmus Apulus, lib. 2 Poem.], celebrò un concilio nella città di Melfi in Puglia, e non già in Amalfi, come han supposto alcuni,

Praesulibus centum jus ad synodale vocatis.

Namque sacerdotes, levitae, clericus omnis

Hac regione palam se conjugio sociabant.

Intervenne a quel concilio anche Riccardo I conte d'Aversa, che poi fu principe di Capua coll'espulsione di Landolfo V. Questi era di nazione normanna, e cognato di Roberto Guiscardo mercè del matrimonio contratto con Fridesinna di lui sorella. Passò il papa a Benevento, e fuori di quella città sul principio d'agosto tenne un altro concilio, di cui si vede fatta menzione nella Cronica suddetta del monistero di Volturno. Fra gli altri che vi si trovarono, si conta Ildebrando cardinale suddiacono. Ma dopo questo concilio egli ci comparisce davanti promosso a più alto grado, cioè creato cardinale arcidiacono della santa romana Chiesa. In una bolla spedita dal medesimo papa Niccolò II nel dì 14 di ottobre del presente anno in favore del monistero di s. Pietro di Perugia, e pubblicata dal padre Margarino [Bullarium Casinense, tom. 2, Constit. CI.], egli si sottoscrive: [291] Hildebrandus qualiscumque archidiaconus sanctae romanae Ecclesiae.

Dopo questi concilii attese il vigilantissimo papa a stabilire un accomodamento coi Normanni. In vece di volerli nemici, da uomo saggio se li fece amici; e il tempo mostrò i frutti del suo senno, perchè i Normanni divennero lo scudo de' romani pontefici, e li sostennero in più occasioni, e li misero in piena libertà e indipendenza dagl'imperadori. Concedette dunque papa Niccolò in feudo a Roberto Guiscardo gli Stati da lui conquistati in Puglia e Calabria, e il resto che si potesse da lui conquistare non solo in quelle contrade, ma anche in Sicilia, dandogli il titolo di duca di Puglia, Calabria e Sicilia. Guglielmo Pugliese anch'egli scrive:

Robertum donat Nicolaus honore ducali;

notizie nondimeno che è difficile d'accordarle con Leone Ostiense [Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 16.], il quale lasciò scritto che Roberto, dopo la presa della città di Reggio in Calabria, ex tunc coepit dux appellari. Anche il Malaterra scrisse lo stesso. Reggio fu presa solamente nell'anno 1060. Comunque sia, vien riferito dal cardinal Baronio [Baron., in Annal. ad hunc annum.] il giuramento di fedeltà ch'esso Roberto prestò al suddetto pontefice, con obbligarsi di pagare ogni anno alla santa Sede dodici denari di moneta pavese per ogni paio di buoi. Cercano alcuni con qual titolo papa Nicolao desse tale investitura ai Normanni, che fu la primordiale del regno appellato oggidì di Napoli, e v'aggiugnesse anche la Sicilia, su cui conservavano il lor diritto i greci imperadori. Certo è che in questi tempi si facea molto valere la donazion di Costantino, nata, per quanto si può credere, nel secolo ottavo dell'era nostra volgare. Nè forse per l'ignoranza d'allora alcuno s'accorgeva ch'ella fosse un documento apocrifo, talmente che s. Leone IX papa [292] nella lunga lettera scritta a Michele Cerulario patriarca di Costantinopoli nell'anno 1053 [Leo IX, Epist. I, tom. 9 Concilior. Labbe.], cioè pochi anni prima, la produsse quasi tutta, e massimamente quelle parole: Tam palatium nostrum, quam romanam urbem, et omnes Italiae, seu occidentalium regionum provincias, loca et civitates saepefato beatissimo pontifici et patri nostro Silvestro universali papae contradentes atque relinquentes, ei vel successoribus ipsius pontificibus potestatem et ditionem firmam imperiali censura per hanc divalem jussionem et pragmaticum constitutum decernimus desponendo, atque juri sanctae romanae Ecclesiae concedimus permansura. Fece anche gran caso di tal donazione alcuni anni dappoi san Pier Damiano in un suo dialogo [Petrus Damian., Opusc. 4.]. Non c'è ora persona dotta che non sappia essere quella una fattura de' secoli posteriori; ma nol sapeano, nè se n'accorgeano i Romani di questi tempi. Sembra ancora che circa questi medesimi tempi fossero dati fuori con delle giunte i diplomi di Lodovico Pio, di Ottone I e di Arrigo I Augusti in favore della Chiesa romana, dove è parlato di Benevento, della Calabria, della Sicilia e d'altri paesi, coerentemente agl'interessi di questi tempi, ma con discordia da quei de' secoli precedenti. Potrebbesi credere che su tali fondamenti si piantasse il principio dei diritti che da allora fin qua, cioè per tanti secoli, gode la Sede apostolica sopra le due Sicilie, nelle quali ha stabilito una sì autentica e giusta sovranità e prescrizione, contra di cui non si può allegare ragione alcuna. Oltre di che, può anche darsi che non mancassero al pontefice Niccolò II altre più sussistenti ragioni di dedizione spontanea, e di cessione anche dalla parte dell'imperio. Certamente, per attestato del Continuatore di Ermanno Contratto [Continuator, Hermanni Contrac., in Chron.], Arrigo II imperadore avea conceduto al santo papa Leone IX pleraque in [293] ultra romanis partibus ad suum jus pertinentia pro cisalpinis in concambium datis. Comunque sia, noi sappiamo da san Pier Damiano [Petrus Damian., Opuscul. 4.] che la corte germanica con assai vescovi nel conciliabolo di Basilea, dappoichè passò a miglior vita papa Niccolò II, cassò omnia quae ab eo fuerunt statuta; e perciò resta luogo di dubitare che in Germania fosse disapprovato questo fatto di papa Niccolò. Diede anche lo stesso pontefice l'investitura di Capua e del suo principato a Riccardo I [Leo Ostiens., in Chron. lib. 3.] cognato di Roberto Guiscardo, tuttochè non ne fosse per anche in possesso. Ciò fatto, perchè non potea sofferire il magnanimo papa che i capitani e potenti romani, e massimamente i conti di Tuscolo, ossieno Tuscolani, avessero occupato tanti beni patrimoniali e Stati della Chiesa romana, con tener anche in certa guisa come schiavi i pontefici romani [Cardinal. de Aragon., in Vita Nicolai III.], cominciò a valersi del flagello de' Normanni stessi per mettere in dovere que' nobili suoi ribelli. Ritornato dunque a Roma, spedì un esercito di quella gente masnadiera addosso a Palestrina, a Tuscolo, ora Frascati, a Nomento, a Galeria. Furono messi a sacco tutti quei luoghi fino a Sutri, e forzati que' nobili all'ubbidienza del papa, e con ciò liberata Roma dalla lor tirannia.

Abbiamo dal Continuatore d'Ermanno Contratto [Continuator Hermanni Contracti, in Chron.] che in quest'anno, orto inter Mediolanenses et Ticinenses bello, multi ex utraque parte ceciderunt. Di questa guerra fece menzione Arnolfo storico milanese [Arnulf., Hist. Mediolan., lib. 3, cap. 5 et 6.] de' correnti tempi, con dire che i Pavesi non vollero ricevere un vescovo dato loro dal fanciullo re Arrigo, tuttochè fosse stato anche consecrato dal papa. Altrettanto fecero poco appresso parimente gli Astigiani, con rifiutare un vescovo da loro non eletto. Per interessi [294] ancora civili la discordia avea avvelenato il cuor de' Pavesi e Milanesi. Gran tempo era che fra quelle due città popolatissime e le maggiori del regno di Italia, bolliva una segreta gara ed invidia, ancorchè ognun sapesse che Milano andava innanzi a Pavia. Niuna d'esse volea cedere all'altra: e quindi per essere confinanti, nascevano bene spesso ammazzamenti d'uomini, saccheggi ed incendii. Si venne ad una palese rottura. I Pavesi, conoscendosi inferiori di forze, assoldarono delle truppe forestiere, e diedero il guasto a' confini del Milanese. Uscirono in campo anche i Milanesi, avendo tirati in loro lega i Lodigiani; ed ancorchè parte della loro armata sotto l'arcivescovo Guido guerreggiasse in altre parti, pure vennero ad un fatto d'arme, che riuscì sanguinosissimo per l'una e per l'altra parte, specialmente per la morte d'assaissima nobiltà. Restò il campo in potere de' Milanesi. Il luogo della battaglia si chiamava fin da' vecchi tempi Campo morto. Sicchè noi cominciamo a vedere le città di Lombardia far leghe e guerre, e mettersi in libertà: il che andò a poco a poco crescendo: tutti effetti della minorità, cioè dell'impotenza del re Arrigo IV. Era negli anni addietro nato in Milano un grave scisma, che ogni dì più andava prendendo fuoco; perciocchè principalmente nel clero di quella insigne città s'era introdotto l'abuso che i preti e diaconi assai notoriamente prendevano moglie: il che in buon linguaggio vuol dire che viveano nel concubinato. Questo morbo era familiare per l'Italia, ed aveva infestata anche la stessa città di Roma: colpa per lo più de' vescovi poco attenti alla lor greggia, e talvolta ancora tinti della medesima pece. L'esempio della Chiesa greca facea loro credere lecito l'ammogliarsi, senza volere far caso della disciplina costantemente osservata fin dai primi secoli della Chiesa latina, in cui fu sempre vietato ai preti e diaconi il prendere moglie, o, se prima le aveano, l'uso delle medesime. Contra di questi [295] incontinenti e scandalosi ministri dell'altare, a' quali, benchè impropriamente, si attribuisce l'eresia de' Nicolaiti, alzò bandiera Arialdo diacono, uomo zelantissimo dell'onor di Dio e della sua Chiesa, ed egli fu che commosse il popolo contra di loro. Guido arcivescovo, fautore dei preti, nel concilio di Fontaneto proferì sentenza di scomunica contra di Arialdo e di Landolfo nobile laico suo collega. Ma questo non servì se non ad accrescere il tumulto e l'ira di una parte del popolo. Arnolfo e Landolfo seniore, storici milanesi di questi tempi [Arnulfus et Landulfus Senior, Hist. Mediolan., tom. 6 Rerum Italicar.], ed avvocati dell'incontinenza del clero ambrosiano di allora, diffusamente parlano di quella tragedia. Ora l'indefesso papa Niccolò, informato da più parti di così strepitoso disordine, spedì in quest'anno, se pure non fu nel fine del precedente, due suoi legati a Milano per cercarne i rimedii. Questi furono Pier Damiano, santo e celebratissimo cardinale e vescovo d'Ostia, ed Anselmo da Badagio milanese, già creato vescovo di Lucca. Andarono essi anche per isradicare il vizio della simonia, di cui era patentemente reo l'arcivescovo, giacchè egli a niuno conferiva gli ordini ecclesiastici senza farsi pagare. Trovarono essi delle opposizioni, e contra di loro si venne anche ad una sollevazione de' parziali degli ecclesiastici. Pure per la saviezza ed eloquenza del Damiano quetati i rumori, quell'arcivescovo confessò il suo fallo, ed accettò la penitenza impostagli. Così fecero anche gli altri, con restar proibita da lì innanzi la simonia e l'ammogliarsi dei sacri ministri dell'altare. Vien distesamente narrato questo fatto dal medesimo san Pier Damiano in una sua relazione [Petrus Damian., Opusc. 5.], e a lungo ne parlano il cardinal Baronio [Baron., Annal. Ecclesiast.] e il Puricelli [Puricellius, Vita S. Arialdi.]. Dopo questo l'arcivescovo Guido andò al concilio romano, dove [296] ebbe buon trattamento dal papa, alla cui destra fu posto, e, giurata a lui ubbidienza, se ne tornò lieto a casa. Ma Pier Damiano in ricompensa delle sue fatiche fu spogliato dal papa de' suoi benefizii, e ricevette altri affronti, per li quali modestamente dimandò licenza di rinunziare al suo vescovato d'Ostia. Nell'anno presente, secondo Guglielmo Pugliese [Guillel. Apulus, lib. 2 Poem.], Roberto Guiscardo duca di Puglia s'impadronì delle città di Cariati, Rossano, Cosenza e Geraci nella Calabria. E Gotifredo duca di Lorena e Toscana, intitolato dux et marchio, con Arnaldo vescovo e conte, tenne due placiti nel contado di Arezzo, anno dominicae Incarnationis MLIX, regnante Genrico rege, mense junio, Indictione XIII [Antiquit. Ital., Dissertat. VI et XVII.]. Dal che si raccoglie che Gotifredo avea molto bene assunto il governo della Toscana, e il titolo di marchese di quella provincia, e che non ne fosse già semplice amministratore a nome della moglie e di Matilda sua figliuola, come ha creduto taluno. Inoltre ne ricaviamo, ch'egli riconosceva per re d'Italia Arrigo IV. In uno d'essi documenti comparisce Rainerius filius Ugicionis ducis et marchionis, cioè di quell'Uguccione che a' tempi di Corrado I Augusto era stato duca e marchese della Toscana.


   
Anno di Cristo MLX. Indizione XIII.
Niccolò II papa 2.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 5.

Fece il pontefice Niccolò o sul fine del precedente, o sul principio di questo anno, una scappata a Firenze, quando sussista una sua bolla in favor delle monache di santa Felicita VI idus januarii, rapportata dall'Ughelli [Ughellius, Ital. Sacr., tom. 3.]. Portatosi poi al monistero di Monte Casino, quivi creò cardinal diacono Oderisio figliuolo di Odecrisio conte di Marsi. Depose Angelo vescovo d'Aquino, e in luogo suo ordinò [297] Martino monaco cassinense di nazion fiorentino. Anche Pietro, altro monaco di quel monistero, di nazion ravennate, fu consecrato vescovo di Venafro e d'Isernia. Ed allora fu, secondo Leone Ostiense [Leo Ostiensis, Chronic., lib 3, cap. 15.] ch'egli creò duca di Puglia, Calabria e Sicilia Roberto Guiscardo. Nulla altro di rilevante, operato da questo valoroso pontefice nell'anno presente, è giunto a nostra notizia, se non che egli andò al monistero di Farfa, dove nel mese di luglio consecrò varii altari, e diede poi a quel sacro luogo la conferma de' privilegii [Antiquit. Ital., Dissert. LXX.]. Intanto Stefano cardinale, da lui spedito in Francia, tenne un concilio nella città di Tours [Labbe, Concil., tom. 9.], dove alcuni canoni spettanti alla disciplina ecclesiastica furono pubblicati. Per quanto s'ha da Guglielmo Pugliese [Guilliel. Apul., lib. 2 Poem.], si scoprì forse nell'anno presente una congiura di dodici conti contra del suddetto Roberto Guiscardo, ordita spezialmente da Goffredo, Gocelino e Abailardo, normanni nobili, tutti malcontenti di lui, perchè egli tutto volea per sè. Abailardo, fra gli altri, nipote d'esso Roberto, non potea sofferire di vedersi spogliato da esso suo zio degli Stati che erano di Unfredo conte suo padre. De' congiurati chi fu preso, chi si salvò colla fuga. Ma io non accerto che in quest'anno succedesse tale attentato, perchè Guglielmo narra i fatti senza assegnarne il tempo. Sotto l'anno presente bensì racconta il Malaterra [Gaufrid. Malaterra, lib. 1, cap. 3.] che i due fratelli Roberto Guiscardo e Ruggieri, ansanti dietro alla conquista di Reggio, capitale della Calabria, si portarono nel tempo di state all'assedio di quella città. Resisterono un pezzo i Greci padroni, ma in fine a patti di buona guerra si arrenderono, e quel presidio passò a Squillaci. Fu questo castello assediato anch'esso, ed obbligato alla resa da Ruggieri. Nella Cronichetta [298] amalfitana [Antiquit. Ital., tom. 1, pag. 213.] abbiamo di più: cioè che il Guiscardo ridusse in suo potere anche la città di Cosenza, con che tutta la Calabria venne sotto il dominio di lui, ed allora fu ch'egli, secondo il suddetto Malaterra, prese il titolo di duca. Leone Ostiense [Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 16.] è del medesimo sentimento, siccome dicemmo, con aggiugnere che il Guiscardo, dopo la presa di Reggio, venne con tutte le sue forze in Puglia addosso la città di Troia, e se ne impadronì. La Cronichetta d'Amalfi mette prima alla presa di Troia, e poi della Calabria. Con questi sì prosperosi successi camminava a gran passi la fortuna e il valore del Guiscardo, e veniva mancando il dominio de' Greci in quelle parti. Giovanni Curopalata [Curopalata, in Histor.], autore per altro poco conoscente, onde scendesse Roberto Guiscardo confessa che dopo la perdita di Reggio altro non restava in mano de' Greci che Bari, Idro, Gallipoli, Taranto, Brindisi ed Hora, cioè, a mio credere, Oria, con altri castelletti. La gloria nondimeno di tante conquiste de' Normanni in Calabria è dovuta in parte a Ruggieri di lui fratello, altro eroe di quella nazione e famiglia. Due bolle di papa Niccolò II, date nel mese di maggio dell'anno presente, in conferma de' privilegii dell'insigne monistero delle monache di santa Giulia di Brescia, si leggono nel Bollario casinense [Bullarium Casinense, Constit. CII et CIII.]. Ho anch'io dato alla luce un documento [Antiquit. Ital., Dissert. LXXII.], scritto anno ab Incarnatione Domini MLX, ipso die kalendas decembris, Indictione XIII, da cui apparisce che nella città di Firenze ante praesentia domni Nicolai papa sede sancti Petri romanensis ecclesiae, et Ildibrandus abbas monisterio sancti Pauli, Guglielmo conte soprannominato Bulgarello restituisce alcune castella a Guido vescovo di Volterra. Ma è da vedere, se questa carta appartenesse piuttosto al [299] primo dì di dicembre dell'anno precedente, in cui poteva e soleva anche più ordinariamente correre l'Indizione XIII. Al vedere che Ildebrando è chiamato solamente abbate di san Paolo, potrebbe far sospettare adoperato qui l'anno pisano.


   
Anno di Cristo MLXI. Indizione XIV.
Alessandro II papa 1.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 6.

In quest'anno ancora il pontefice Niccolò II volle visitar la chiesa di Firenze ch'egli aveva ritenuta e governata anche durante il suo pontificato; ma quivi venne a trovarlo la morte circa il dì 22 di luglio: pontefice benemerito della santa Sede, e degno di maggior vita. Tanto più fu deplorabile la perdita di lui, perchè le tennero dietro de' gravissimi sconcerti, che furono preludii anche d'altre maggiori calamità. Attesta Leone Ostiense [Leo Ostiensis., lib. 3, cap. 21.] che gran dissensione e tumulto insorse in Roma intorno all'elezione di un novello papa; ed è certo che restò vacante la sedia di san Pietro circa tre mesi. V'era un partito che tenea per l'osservanza delle prerogative o pretese accordate al re di Germania Arrigo; ed un altro che escludeva ogni dipendenza da lui. Di quest'ultimo probabilmente era capo l'intrepido cardinale Ildebrando, arcidiacono della santa romana Chiesa, a cui non piacque mai che gl'imperadori avessero ingerenza alcuna nell'approvazione, non che nell'elezione dei sommi pontefici. Capi dell'altro, per quanto ragionevolmente va congetturando il cardinal Baronio, erano i conti di Tuscolo, ossia di Frascati, mal soddisfatti di quanto avea operato contra di loro il defunto papa Niccolò. Se vogliamo ascoltare il Continuatore di Ermanno Contratto [Continuator Hermanni Contracti, in Chron.], dopo la morte d'esso papa, Romani coronam, et alia munera Enrico regi transmiserunt, eumque pro eligendo [300] summo pontifice interpellaverunt. Tale spedizione dovette essere fatta dalla fazione de' suddetti conti Tuscolani. Non mancò il collegio dei cardinali di spedire anch'esso un'ambasciata alla real corte di Germania [Petrus Damianus, Opuscul. 4.], e fu scelto per tale incumbenza Stefano, uno dei più accreditati fra loro, in cui concorreva

Nobilitas, gravitas, probitas et mentis acumen.

Andò questi, ma per la cabala e malvagità dei cortigiani sette giorni passeggiò l'anticamera del re senza poter vedere la di lui faccia, nè presentargli le lettere credenziali. Veduta ch'egli ebbe questa mala aria, sene tornò indietro a Roma, dove rappresentò l'incivil trattamento che gli era stato fatto. Allora fu che il cardinale Ildebrando, tenuto consiglio cogli altri cardinali e coi nobili romani del suo partito, propose di eleggere papa Anselmo da Badagio, di patria milanese, e vescovo allora di Lucca, uomo di gran bontà e zelo ecclesiastico, e che forse non s'aspettava questa promozione. Chiamato a Roma, venne immediatamente consecrato ed intronizzato col nome di Alessandro II, senza voler aspettare consenso alcuno dal re Arrigo. E qui appunto tornarono i Romani ad esercitare l'intera loro libertà nell'elezion de' sommi pontefici, con ricuperare eziandio l'altra di non aspettar l'assenso degli Augusti per la consecrazione: indipendenza mantenuta poi fino a' dì nostri, quando, per tanti secoli addietro, sotto gl'imperadori greci, franchi e tedeschi, era durato il costume, o diciamo, se così si vuole, l'abuso, che l'elezion bensì restasse libera al clero e popolo romano, ma che non si devenisse alla consecrazione senza il beneplacito e l'approvazione degli Augusti. Avea il solo predefunto Arrigo II fra gl'imperadori oltrepassato i confini de' suoi predecessori, con obbligare i Romani che neppur potessero eleggere il novello papa senza il [301] consentimento suo. Da Niccolò II era stato ultimamente corretto questo eccesso, con tornar le cose al rito antico. Ma i Romani, offesi del poco conto che s'era fatto alla regal corte di Stefano cardinale loro ambasciatore, neppur vollero accomodarsi al decreto d'esso papa Niccolò, decoroso anche pel re Arrigo, perchè risoluti di rompere ogni catena, e di ricuperar la piena lor libertà in fare i papi, praticata sempre mai ne' primi quattro secoli della Chiesa. Nè già operarono senza aver ben preparati i mezzi umani per sostener la loro risoluzione. Era in lor favore Gotifredo duca di Toscana, principe allora potentissimo in Italia. Faceano anche capitale del soccorso de' Normanni, che aveano giurata fedeltà alla Sede apostolica; e più ne faceano di Riccardo principe di Capoa, divenuto anch'esso vassallo della Chiesa romana. Sappiamo da Leone Ostiense [Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 21.] che Desiderio abbate di Monte Casino e cardinale se ne andò in tal congiuntura a Roma cum principe. Credette il cardinal Baronio [Baron., Annal. Ecclesiast.] che questo principe fosse Roberto Guiscardo. Ma si dee intendere di Riccardo, nel cui principato era Monte Casino. Roberto s'intitolava allora duca, e non principe.

Ora appena giunse alla corte germanica l'avviso dell'eletto ed intronizzato Alessandro II, che l'imperadrice Agnese ne restò amareggiata, e i suoi ministri diedero nelle smanie, esagerando l'affronto fatto al re col non aver voluto aspettare il suo assenso, e coll'essersi messo sotto i piedi il decreto di papa Niccolò, sul quale unicamente si potea fondare la pretension di Arrigo: giacchè solamente chi era imperadore coronato avea in addietro avuta mano nell'approvazion de' papi eletti, e non già chi era unicamente re d'Italia, come in questi tempi veniva riconosciuto Arrigo IV, benchè non per anche avesse ricevuta la [302] corona di questo regno. Degno nondimeno di osservazione è, che in alcune lettere e diplomi Arrigo IV non per anche imperadore usa il titolo di Romanorum rex: il che vuol significar qualche cosa, nè si truova usato da' suoi predecessori. Accadde in questo mentre che i vescovi di Lombardia dopo la morte di papa Niccolò II fecero broglio fra loro per aver un papa di tempra men rigoroso dei precedenti zelantissimi papi, il quale sapesse un po' più compatire le lor simonie ed incontinenze, e con dire una ridicolosa proposizione, cioè che il papa non si dovea prendere, nisi ex paradiso Italiae, cioè della Lombardia [Cardinal. de Aragon., Vit. Alexandr. II, P. II, tom. 3 Rer. Ital.]. Spedirono a tal fine in Germania alcuni dell'ordine loro, affinchè si maneggiassero per ottener questo intento. Ora trovandosi un gran caldo in quella corte, e soffiando in quel fuoco Ugo Bianco, già cardinale, e poi ribello della Chiesa romana, non fu loro difficile il proporre e far dichiarare papa, cioè antipapa, contra tutte le regole, nella festa de' santi Simeone e Giuda, Cadaloo, chiamato Cadalo, vescovo di Parma, uomo ricco di facoltà, ma più di vizii, che si dicea condannato in tre concilii a cagion della sua vita troppo contraria al carattere di sacro pastore. Ne fecero perciò gran festa tutti i simoniaci e concubinarii di Lombardia. Le scene occorse dipoi si veggono descritte dalla penna satirica di Benzone, il quale s'intitola vescovo d'Alba nel Monferrato, ma vescovo scismatico, che forse non dovette mai essere ricevuto da quel popolo, e perciò neppure fu conosciuto dall'Ughelli. Era costui gran partigiano dell'antipapa Cadaloo. Il panegirico da lui fatto ad Arrigo IV, che fu dato alla luce dal Menchenio [Menckenius, Rer. Germanicar., tom. 1.], e da me vien creduto la stessa opera che Gualvano Fiamma [Galvaneus Flamma, in Politia MSta.] circa l'anno 1335 citò sotto nome di Chronica Benzonis [303] episcopi albensis, è una stomacosa satira contra di papa Alessandro II e d'Ildebrando cardinale, sostegno in questi tempi della Chiesa romana, da mettersi coll'altra infame e piena di bugie che abbiamo di Bennone falso cardinale, e ribello della Chiesa romana. Narra esso Benzone d'essere stato inviato per ambasciatore del re Arrigo a Roma, per intimare a papa Alessandro la ritirata dal trono pontificio, ma con trovar ivi chi non avea paura. In tale stato eran gli affari della Chiesa romana in questi tempi.

Intanto dopo la conquista della Calabria il valoroso conte Ruggieri mirava con occhio di cupidigia ed insieme di compassione la vicina misera Sicilia posta sotto il giogo degli empii Saraceni, e cominciò a meditarne la conquista [Gaufridus Malaterra, lib. 2, cap. 1. Noweirius, in Hist. Arab. Siciliae apud Pagium.]. La buona fortuna portò che si rifuggì presso di lui in Reggio Benhumena, ammiraglio saraceno della Sicilia, maltrattato e perseguitato da Bennameto, uno de' principi di quell'isola. Questi gli fece conoscere assai facili i progressi in Sicilia, dacchè essa era divisa fra varii signorotti mori, ed offerì il suo aiuto per l'impresa. Ruggieri adunque sul fine del carnovale dell'anno presente con soli centosessanta cavalli passò il Faro per ispiar le forze de' Mori nell'isola, diede una rotta ai Messinesi, fece gran bottino verso Melazzo e Rameta; poi felicemente si ricondusse in Calabria, dove per tutto il mese di marzo e d'aprile attese a far preparamenti per portare la guerra in Sicilia. A questa danza invitato il duca Roberto Guiscardo suo fratello [Malaterra, lib. 2, cap. 8.], colà si portò con buon nerbo di cavalleria, ed anche con un'armata navale. Presentivano veramente i Mori la disposizione dei due fratelli normanni, e però accorsero da Palermo con una flotta assai più numerosa per impedire il loro passaggio. Ma l'ardito Ruggieri con cento [304] cinquanta cavalli per altro sito passò lo Stretto, e trovata Messina con poca gente, perchè i più erano iti nelle navi moresche, se ne impadronì: il che fece ritirar le navi nemiche, e lasciò aperto il passaggio a quelle di Roberto Guiscardo, il quale colà sbarcò colle sue soldatesche. Nel testo di Gaufrido ossia Goffredo Malaterra questa sì gloriosa conquista per cui dopo 230 anni si rialberò la croce nella città di Messina, si vide riferita all'anno precedente 1060. Ma io credo fallato quell'anno, portando la serie del racconto che la presa di Messina accadesse nell'anno presente. Venne poi un grosso esercito di Mori e Siciliani, raunato da Bennameto, ad assalire il picciolo de' Normanni, ma restò da essi sbaragliato colla morte di diecimila di quegl'infedeli. Non è già vietato il credere assai meno. Diedero il sacco dipoi i due fratelli principi normanni a varie castella e contrade di quell'isola sino a Girgenti, colla presa di Traina, finchè, venuto il verno, si ritirarono a' quartieri. Se crediamo a Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.], in quest'anno ancora Roberto Guiscardo s'insignorì d'Acerenza. Ma probabilmente ciò avvenne l'anno antecedente, al vedere che questo scrittore mette all'anno seguente l'innalzamento al pontificato di Alessandro II, che pure appartiene all'anno presente.


   
Anno di Cristo MLXII. Indizione XV.
Alessandro II papa 2.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 7.

Null'altro avea fatto nel verno di quest'anno l'antipapa Cadaloo che ammassar gente armata e danaro per passare a Roma con disegno di cacciarne il legittimo successor di san Pietro, e di farsi consecrare, se crediamo al continuator d'Ermanno Contratto [Continuator Hermanni Contracti, in Chron.]. Alcuni [305] il pretendono già ordinato papa, perchè vescovo egli era, e che avesse assunto il nome di Onorio II, ma ne mancano le prove. E s'egli non mutò nome, segno è che neppur fu colle cerimonie ordinato pontefice. Con tali forze arrivò Cadaloo a Roma nel dì 14 di aprile (Benzone scrive che vi giunse VIII kalendas aprilis), e si accampò coll'esercito suo nei prati di Nerone. Nella Vita di papa Alessandro II, a noi conservata dal cardinal d'Aragona [Card. de Aragon., Vit. Alexandri II, P. I, tom. 3 Rer. Ital.], troviamo che molti capitani e nobili romani guadagnati coll'oro si dichiararono del partito di Cadaloo; ciò vien confermato da Leone Ostiense [Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 21.] e dall'autore di un'altra Vita di esso papa Alessandro [Vit. Alexandri II, P. II, tom. 3 Rer. Ital.], da cui impariamo che molti giorni dopo la esaltazion di esso papa, Romani, quorum mala consuetudo semper fuit, eum odio habere coeperunt, e furono essi gl'incitatori della venuta di Cadaloo. Uno de' principali, ma volpe vecchia, era Pietro di Leone, la cui famiglia fece anche dipoi gran figura in Roma. Da Benzone [Benzo, in Panegyric. Henrici IV, tom. 1 Rer. Germ., Menchenii.] è chiamato Giudeo: il che probabilmente vuol dire che era nato tale, ma poi fatto cristiano. Non mancavano in Roma a papa Alessandro degli aderenti ed affezionati, e verisimilmente aveva egli anche procurato degli aiuti da Riccardo principe di Capua. Si venne dunque ad una battaglia, che riuscì sanguinosa, e finì colla peggio della fazione del legittimo papa. Poco nondimeno durò l'allegrezza di Cadaloo, perchè chiamato a Roma Gotifredo duca di Toscana, comparve colà in aiuto del pontefice Alessandro con sì numerose squadre e forze tali, che restò come assediato l'antipapa; e se volle uscirne salvo, gli convenne adoperar preghiere e grossi regali col duca, il quale si contentò di lasciargli aperta la porta per tornarsene libero, ma spogliato e colla [306] testa bassa, a Parma. Benzone descrive a lungo questi fatti, ma se con fedeltà, nol saprei dire. Certamente da san Pier Damiano vien sospettato che il duca Gotifredo non operasse con tutta lealtà ed onoratezza o in questa o nelle seguenti congiunture. All'incontro Benzone scrive che il medesimo duca fece venire i Normanni a Roma a difesa del papa; Camerinum et Spoletum invasit (il che è degno d'attenzione), plures Comitatus juxta mare tyrannice usurpavit. Per totam Italiam, quos voluit, ad regis inimicitias incitavit. Aggiugne inoltre, essere egli stato quegli che mosse Annone arcivescovo di Colonia a rapire il giovinetto re Arrigo. E Lamberto da Scafnaburgo [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.] osserva, come fosse scandaloso il vedere che laddove anticamente si fuggivano i vescovati, ora si faceano battaglie, e si spargeva il sangue cristiano per conseguirli: e vuol dire del papato. Ho detto che Annone rapì Arrigo IV. Intorno a che si ha da sapere che fin qui esso re era stato sotto il governo dell'imperadrice Agnese, la quale regolava gli affari unicamente coi consigli di Arrigo vescovo di Augusta, personaggio ben accorto, che, ad esclusion degli altri pretendenti, avea saputo introdursi nella grazia di lei. Era savia, era pia principessa Agnese: tuttavia non potè schivar la maldicenza degli altri principi invidiosi della fortuna del vescovo augustano, perchè sparsero voce d'illecita familiarità fra lei e quel prelato. Il perchè Annone arcivescovo di Colonia, col consenso di molti altri principi, tolse all'Augusta madre il giovinetto Arrigo, ed assunse colla di lui tutela il governo degli Stati. La maniera da lui tenuta per far questo colpo la sapremo fra poco, richiedendo ora la voce sparsa contro l'onor dell'imperadrice Agnese, che io premunisca i lettori con avvertirli della malvagità che allora più che mai era in voga. Facile è l'osservare che i tempi di guerra son tempi di bugie; ma non si può dire abbastanza, [307] quanto larga briglia si lasciasse in queste e nelle seguenti discordie fra il sacerdozio e l'imperio, alla bugia, alla satira, alla calunnia. Le più nere iniquità s'inventarono e sparsero dei papi, de' cardinali, de' vescovi da chi era loro contrario; ed altre vicendevolmente si spacciarono dai mal affetti contra di Arrigo IV e di tutti i suoi aderenti. Però sta ai prudenti lettori il camminar qui con gran riguardo, prestando solamente fede a ciò che si trova patentemente avverato dalla misera costituzion d'allora.

Nè già si può fallare in credendo che Arrigo IV si scoprì col tempo principe d'indole cattiva, incostante e violento, e che tutti i vizii presero in lui gran piede per qualche difetto della madre, ma più per l'educazion seguente; e che la vendita de' vescovati, delle abbazie e dell'altre chiese, cioè la simonia, era un mercato ordinario di que' sì sconcertati tempi, per colpa specialmente della corte regale di Germania, in cui più potea l'amore dell'oro che della religione, e troppo regnava l'abuso, non però nato allora, di uguagliar lo spirituale al temporale. Ora, o sia che i maneggi segreti della corte di Roma, o quei del duca Gotifredo disponessero in Germania un ripiego per liberar la Chiesa dalla vessazione dell'indegno Cadaloo; oppure che il suddetto Annone arcivescovo, prelato tenuto in concetto di santa vita, con altri principi lo trovasse ed eseguisse, per mettere fine allo scisma: certo è, che in quest'anno, essendo ito esso arcivescovo pel Reno a visitare il re Arrigo, giovane allora di circa tredici anni, dopo il desinare l'invitò a veder la nave suntuosissima che l'avea condotto colà. Vi andò, di nulla sospettando il semplice giovanetto, ed entrato che fu, si diede tosto di mano ai remi. Sorpreso da quest'atto il picciolo re, temendo che il conducessero a morire, si gettò nel fiume; ma fu salvato dal conte Ecberto, che saltò anche esso nell'acqua. Su quella nave adunque pacificato con carezze fu condotto a Colonia, [308] dove restò sotto il governo di quel saggio prelato, al quale dai principi ne fu accordata la tutela. L'imperadrice Agnese, trafitta da questo inaspettato colpo, e ravveduta de' falli commessi in patrocinar l'antipapa, determinò di dare un calcio al mondo, e passando dipoi a Roma, accettò la penitenza che le fu data da papa Alessandro II. Per testimonianza di san Pier Damiano [Petrus Damian., Opusc. 4 et in Opusc. 18.], non tardò l'arcivescovo di Colonia Annone a dare, per quanto era in sua mano, la pace alla Chiesa; perciocchè, raunato un concilio in Osbor, dove intervennero lo stesso re Arrigo e una gran copia di vescovi oltramontani ed italiani, nello stesso dì 28 di ottobre, in cui Cadaloo era stato nell'anno precedente eletto contro i canoni papa, fu egli anche deposto, o, per dir meglio, riprovato e condannato. Avea precedentemente il medesimo Pier Damiano scritta una lettera di fuoco al predetto Cadaloo, chiudendola con alcuni versi, e dicendo in fine [Petrus Damian., lib. 1, Epist. 20, et in Opusc. 18.]: Diligenter igitur intende, quod dico:

Fumea vita volat, mors improvisa propinquat,

Imminet expleti praepes tibi terminus aevi.

Non ego te fallo: caepto morieris in anno.

Visse anche dopo l'anno predetto Cadaloo. Pier Damiano, veggendo che non avea colto nella predizione, cercò uno scampo, con dire ch'egli s'era inteso della morte civile, cioè della di lui deposizione, e non già della morte naturale. Se i suoi versi ammettano tale scappata, non tocca a me il giudicarne. Certo confessa egli che per questo gli fecero le risa dietro i suoi avversarii. Levò ancora esso arcivescovo Annone il posto di cancelliere d'Italia a Guiberto, che parimente col tempo divenne arcivescovo di Ravenna ed antipapa, e lo diede a Gregorio vescovo di Vercelli, uomo nondimeno macchiato anch'esso di vizii: il che fa conoscere che il re Arrigo, benchè [309] non per anche coronato in Italia, pur ci era riconosciuto per padrone.

Non so io già se in questi tempi sia ben regolata la cronologia di Lupo Protospata. Ben so aver egli scritto [Lupus Protospata, in Cronico.] che Roberto Guiscardo duca s'impadronì in quest'anno della città d'Oria, e di nuovo prese Brindisi, e lo stesso miriarca (forse il suo governatore). È da vedere ancora, se appartenga all'anno presente, come ha il testo di Gaufrido Malaterra [Gaufrid. Malaterra, lib. 2, cap. 21.] la discordia insorta fra esso duca Roberto e il conte Ruggieri. Benchè Roberto promesso avesse ad esso suo fratello di cedergli la metà della Calabria, pure non si veniva mai a questa sospirata cessione. A riserva di Melito, che era in man di Ruggieri, in tutto il resto delle conquiste l'ambizioso ed insaziabil Roberto la facea da signore. Però Ruggieri, presa occasione dal recente suo matrimonio, fece istanza a Roberto per l'esecuzion delle promesse, affine di poter dotare decentemente la nuova sua sposa Erimberga, chiamata da altri Delizia, o Giuditta. Ricavandone solo parole, e non fatti, si ritirò forte in collera da lui, e gli intimò la guerra, se in termine di quaranta giorni nol soddisfacea. La risposta che gli diede Roberto, fu di portarsi coll'armata ad assediarlo in Melito. Ma con tutte le prodezze fatte dall'una e dall'altra parte, nulla profittò Roberto. Anzi Ruggieri, uscito una notte di Melito, gli occupò la città di Gierace per trattato fatto con quei cittadini. Allora Roberto tutto fumante d'ira corse all'assedio di Gierace; e siccome personaggio d'incredibile ardire, una notte ben incappucciato (che già era in uso il cappuccio anche fra i secolari) segretamente fu introdotto nella città da uno di questi potenti cittadini per nome Basilio. Per sua disavventura restò scoperto, e preso a furia di popolo; vide poco di poi trucidato Basilio, impalata sua moglie, e si credeva anch'egli spedito. Con belle parole gli [310] riuscì di fermar la furia del popolo, e fu cacciato in prigione. Ne andò la nuova all'esercito suo; ma non sapendo che si fare i suoi capitani per liberarlo, miglior consiglio non seppero trovare che di spedirne incontanente l'avviso al conte Ruggieri, scongiurandolo che accorresse per salvare il fratello. Non si fece pregare il magnanimo Ruggieri; corse tosto co' suoi a Gierace, e chiamati fuor della città i capi, tanto disse colle buone e colle minaccie, che fece rimettere in libertà il fratello. Questo accidente e la costanza di Ruggieri produsse buon effetto, perchè dopo qualche tempo Roberto gli accordò il dominio della metà della Calabria. Passò dipoi Ruggieri in Sicilia, dove essendosi ribellato da lui il popolo di Traina, fece delle maraviglie di patimenti e di bravure contra di quei cittadini e dei Saraceni accorsi in loro aiuto, tantochè ne riacquistò veramente la signoria. Crede Camillo Pellegrini [Camillus Peregrinius, Hist. Princip. Langobard.] che Riccardo I conte di Aversa, figliuolo di Ascilittino normanno, e non già fratello di Roberto Guiscardo duca, come immaginarono il Sigonio e il padre Pagi all'anno 1074, occupasse fin l'anno 1058 il principato di Capoa, citando sopra di ciò l'Ostiense [Leo Ostiensis, Chron., lib. 3, cap. 16.]. A quell'anno ancora nella Cronichetta amalfitana [Antiquit. Ital., tom. 1, pag. 213.] è scritto che Riccardo fu creato principe di Capoa insieme con suo figlio Giordano. Certo è bensì che Niccolò II papa nell'anno 1059, gli concedette l'investitura di quel principato, ma non apparisce che ne fosse allora totalmente in possesso. Imperciocchè è da sapere che, secondo il suddetto Ostiense, invogliatosi tempo fa Riccardo di quella bella contrada, messo l'assedio a Capoa, vi fabbricò tre bastie all'intorno. Ma Pandolfo V principe, che v'era dentro, collo sborso di settemila scudi d'oro l'indusse a ritirarsene. Mancato poi di vita esso Pandolfo (non so in qual [311] anno), e succedutogli Landolfo V suo figliuolo, eccoti di nuovo Riccardo colle sue armi sotto Capoa. Tanto la strinse, che si venne nell'anno presente ad una capitolazione, per cui Landolfo se n'andò via ramingo, e i cittadini riceverono per loro principe Riccardo, ma con ritenere in lor potere le porte e le torri della città. Dissimulò per allora l'accorto Riccardo, e contentossi di questo. Poi rivolte le sue armi all'acquisto delle città e castella di quel principato, gli riuscì nello spazio di quasi tre mesi d'insignorirsi di tutto. Ciò fatto, intimò a' Capuani la consegna delle torri e porte, e perchè gliela negarono, strettamente assediò quella città. Spedirono bensì i Capuani al re Arrigo in Germania il loro arcivescovo per ottener soccorso; ma non avendo egli riportato se non parole, furono dalla fame astretti a far le voglie di Riccardo, anno dominicae Incarnationis MLXII quum jam per decem circiter annorum curricula Normannis viriliter repugnassent. Però, quantunque esistano più diplomi di questo principe, da' quali costa aver egli assunto fin dall'anno 1058, o 1059, il titolo di principe di Capoa, con associar ancora Giordano I suo figliuolo al dominio; nientedimeno solamente in quest'anno egli ottenne la piena e libera signoria di quel principato. Così cessò di regnare anche ivi la schiatta de' principi longobardi, e sempre più crebbe la potenza de' principi normanni. Da lì a poco, attaccatosi una notte il fuoco alla città di Tiano, probabilmente con premeditato consiglio, v'accorse nel mattino seguente Riccardo, e colla fuga di que' conti se ne impossessò. Parimente scrive Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernitanus, Chron., tom. 7 Rer. Ital.] che in quest'anno esso principe intravit terram Campaniae, obseditque Ceperanum, et usque Soram devastando pervenit. Ci ha conservata l'autore della Cronichetta amalfitana [Antiquit. Ital., tom. 1, pag. 213.] una notizia; cioè che, per ordine dell'imperadore, [312] Gotifredo marchese e duca di Toscana col suo esercito venne contra di Riccardo, e che seguirono fra loro varii fatti d'armi presso di Aquino, in guisa tale che fu obbligato Gotifredo a tornarsene indietro con poco suo gusto e men guadagno.


   
Anno di Cristo MLXIII. Indizione I.
Alessandro II papa 3.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 8.

Fioriva in questi tempi Giovanni Gualberto abbate, istitutore de' monaci di Vallombrosa [Andreas Parmensis, in Vit. S. Johann. Gualberti. Acta Sanctorum Bolland. ad diem 12 Julii.], personaggio di sommo credito per la santità de' suoi costumi, non meno entro che fuori della Toscana. Era stato creato vescovo di Firenze Pietro di nazione pavese; e perciocchè allora dappertutto faceva grande strepito il vizio della simonia, i monaci vallombrosani, sospettando ch'egli fosse entrato nella sedia episcopale mediante il danaro, cominciarono a diffamarlo per simoniaco, e mossero un gran tumulto nel popolo di quella città. Andrea monaco genovese [Andreas Januensis, in Vit. S. Johaan. Gualberti.] lasciò scritto, che portatosi da Roma a Firenze Teuzone Mezzabarba per visitare il vescovo suo figliuolo, i furbi Fiorentini con interrogazion suggestiva gli dimandarono, quanto avesse pagato per ottener la mitra a Pietro; e che il buon Lombardo confessasse di avere speso tremila libbre in regalo al re Arrigo IV per sortire il suo intento. Ma avendo questo monaco scritta quella vita nell'anno 1419, siccome osservò il padre Guglielmo Cupero della compagnia di Gesù, e nulla di questa importante particolarità parlando gli autori più antichi, si può ben sospenderne la credenza. Era dubbiosa la simonia di quel vescovo, e tale non sarebbe stata se si fosse potuto allegar la confession di suo padre. Certo è che i monaci suscitarono [313] fieramente il popolo contra del vescovo, e andarono sì innanzi, che san Pier Damiano mosso dal suo zelo impugnò la penna contra di loro. Anche il duca Gotifredo sosteneva il vescovo e minacciava di far ammazzare e monaci e cherici che contrariassero a quel prelato, e gli levassero l'ubbidienza. Fu inviato appunto colà dal pontefice Alessandro esso santo Pier Damiano per procurar di estinguere un sì pericoloso incendio. In vece di pacificar gli animi di quella gente, diede ansa a que' monaci di sparlare anche di lui, quasichè fosse fautore de' simoniaci, e specialmente gli tagliò i panni addosso uno dei più arditi di loro per nome Teuzone, ubbriaco di uno zelo indiscreto. Ma qui non finì la faccenda, siccome vedremo. Benchè in Germania fosse stato riprovato l'antipapa Cadaloo, pure costui non si arrendeva in Italia. Anzi nell'anno presente, raunata nuova gente e dei buoni contanti, spalleggiato dai vescovi allora sregolati della Lombardia, si avviò di nuovo alla volta di Roma, sperando maggior fortuna che nell'anno precedente [Cardinal. de Aragon., in Vita Alexand. II, P. I, tom. 3 Rer. Ital. Leo Ostiensis, Chron., lib. 3, cap. 20.]. Ci fu sospetto che Gotifredo duca di Toscana segretamente il favorisse. Certo è che non gli mancarono assistenze in Roma stessa, perchè molti de' nobili romani si dichiararono per lui. Gli fu dunque aperto l'adito nella città leonina; anzi dicono che gli fu consegnata anche la fortezza di Castel Sant'Angelo. Tempore post alio quorumdam ex urbe ope et Consilio Romam, quam novam perhibent, ingressus, conscendit arcem Crescentii: così ancora Arnolfo storico milanese [Arnulf., Hist. Mediolanensis., lib. 3, c. 17.], che allora scriveva le storie sue. Ma ciò pare che succedesse in altra forma, siccome dirò. Sappiamo bensì ch'egli s'impadronì al suo arrivo della basilica vaticana, ma non già resta notizia ch'egli vi prendesse colle cerimonie il manto papale, secondo il costume; perchè appena s'udì in Roma [314] come egli v'era entrato, che la mattina seguente diede alle armi il popolo romano, e corso colà in furia, tal terrore cacciò in corpo ai soldati di lui, che presero vilmente la fuga, e lasciarono il loro idolo solo soletto. Sarebbe caduto Cadaloo in mano de' Romani, se non fosse stato Cencio figliuolo del prefetto di Roma, uomo di perduta coscienza, che allora l'accolse nella fortezza di Crescenzio, cioè in Castello Sant'Angelo, e gli promise assistenza. Quivi restò l'antipapa assediato dai Romani per ben due anni, con sofferirvi stenti ed affanni incredibili: degno pagamento della smoderata ed empia sua ambizione. Un concilio di cento vescovi fu in quest'anno tenuto da papa Alessandro II, dove furono fatti varii decreti contra de' simoniaci e de' preti concubinarii. Ne esistono alcuni atti presso il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccl.] e nelle raccolte de' concilii.

Intanto in Germania crescevano gli abusi, profittando ogni prepotente dell'età immatura del re Arrigo IV [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.]. L'educazione di lui fu sul principio appoggiata agli arcivescovi di Colonia e Magonza, cioè ad Annone e Sigefredo. Ma loro tolse la mano Adelberto arcivescovo di Brema, che coll'arte dell'adulazione si rendè arbitro del giovanetto re, ed occupò in tal maniera due delle migliori abbazie di Germania. Per far poi tacere gli altri, due ancora ne diede all'arcivescovo di Colonia, che non si fece scrupolo di questo, ed una a quel di Magonza, ed altre ai duchi di Baviera e di Suevia, cioè ad Ottone e Ridolfo. Così mal allevato il re, non è maraviglia se andò crescendo in que' vizii che tanto diedero poi da sospirare ai buoni. Secondochè abbiamo da Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.], in quest'anno Roberto Guiscardo duca di Puglia e Calabria tolse ai Greci la città di Taranto. Ma neppure stava in ozio il valoroso conte [315] Ruggieri di lui fratello in Sicilia. Per attestato del Malaterra [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital., pag. 168.], in questo medesimo anno formarono i Musulmani mori e i Siciliani un potente esercito, e vennero ad accamparsi presso al fiume Ceramo. Erano circa trenta cinque mila, e il conte non avea che cento trenta sei cavalli, ossieno pedoni, da opporre a sì gran piena di gente. Contuttociò, implorato l'aiuto di Dio e spedito innanzi Serlone suo nipote, diede loro addosso, e in poco d'ora mise in iscompiglio e fuga quegl'infedeli. Fu detto che comparve un uomo di rilucenti armi guernito sopra bianco cavallo, con bandiera bianca sopra d'un'asta, che si cacciò dove erano più folte le schiere de' nemici, e fu creduto san Giorgio. Quindici mila di coloro rimasero estinti sul campo; nel dì seguente volarono i Cristiani alla caccia di venti mila pedoni, che s'erano salvati colla fuga nelle montagne e nelle rupi, e per la maggior parte gli uccisero. Si può ben temere che Gaufrido Malaterra monaco, il quale solamente per relazione altrui scrisse queste cose dopo molti anni, si lasciasse vendere delle favole popolari in formar questo racconto che ha troppo dell'incredibile, ed egli perciò se volle concepirlo, fu obbligato a ricorrere ai miracoli. La vittoria nondimeno è fuor di dubbio; le spoglie de' nemici furono senza misura; e il conte avendo trovato fra esse quattro cammelli, li mandò in dono a papa Alessandro, il quale si rallegrò assaissimo di così prosperosi avvenimenti contra de' nemici della croce, e spedì anch'egli a Ruggieri la bandiera di san Pietro, per maggiormente animarlo a proseguir quell'impresa. Trafficavano in questi tempi i mercatanti pisani in Sicilia, massimamente in Palermo, città capitale, piena allora di ricchezze. Avendo essi ricevute varie ingiurie da que' Mori, raunarono una possente flotta per farne vendetta, ed esibirono la loro alleanza al [316] conte Ruggieri per assediar Palermo, essi per mare, ed egli per terra. Ma perciocchè non potè così presto Ruggieri accudire a quell'impresa, a vele gonfie andarono ed urtar nella catena che serrava il porto di Palermo, e la ruppero. Entrati nel porto, se crediamo agli Annali pisasi [Gaufrid. Malaterra, lib. 2, cap. 33.], Civitatem ipsam ceperunt. Ma ciò non sussiste. Il Malaterra ci assicura essere accorsa tanta moltitudine di Musulmani e cittadini per difesa della città, che i Pisani, contenti di portar via, come in trionfo, la catena spezzata, se ne tornarono a casa. Egli è bensì fuor di dubbio ch'essi, trovate in quel porto sei navi di ricco carico, cinque ne diedero alle fiamme, e la più ricca seco menarono a Pisa, del cui immenso tesoro si servirono dipoi per dar principio alla magnifica fabbrica del loro duomo. Di questa gloriosa impresa resta tuttavia la memoria in versi, incisa in marmo nella facciata di quel maestoso tempio, che si legge stampata presso molti scrittori. Nè quivi si parla della presa della città di Palermo, ma sì ben delle navi bruciate, e della ricchissima menata via: con aggiugnere, che sbarcati dipoi i Pisani fuor di Palermo, vennero alle mani coll'armata de' Saraceni, e ne fecero un gran macello; dopo di che, alzate le ancore, se ne tornarono tutti festeggianti a Pisa. Andò poscia il conte Ruggieri con dugento soldati, ossieno cavalli, a bottinare verso la provincia di Grigenti: che questo era il suo mestiere, per poter pagare ed alimentar la sua gente. Parte dei suoi cadde in un'imboscata di settecento Mori, che loro tolse la preda, e li mise in fuga. Ma sopraggiunto Ruggieri, sbaragliò i nemici, e ricuperata la preda, allegramente la condusse a Traina. Dovette in quest'anno Riccardo, principe normanno di Capoa, insignorirsi ancora della città di Gaeta, perchè da lì innanzi egli e Giordano suo figliuolo nei diplomi si veggono intitolati duchi di Gaeta.

[317]


   
Anno di Cristo MLXIV. Indizione II.
Alessandro II papa 4.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 9.

Fu creduto in addietro che correndo quest'anno, Annone arcivescovo di Colonia fosse spedito a Roma per terminare lo scisma, e che susseguentemente fosse tenuto il famoso concilio di Mantova, in cui seguì la total depressione di Cadaloo. Ma Francesco Maria Fiorentini [Fiorentini, Memorie di Matilde, lib. 1.], e poscia più profondatamente il padre Pagi [Pagius, Crit. ad Annal. Baron.], han dimostrato doversi riferire all'anno 1067 tali fatti. Perchè nulladimeno Lamberto da Scafnaburgo [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.] parla sotto quest'anno dell'andata di esso Annone a Roma, fu il Pagi d'avviso che due volte egli imprendesse tal viaggio, l'una in questo e l'altra nell'anno suddetto. Ma il racconto di Lamberto, se si avesse da attendere, porterebbe che Annone fosse venuto molto prima di questo anno, dacchè egli successivamente narra che Cadaloo, dopo la partenza di Annone in Italia, tentò la sua fortuna colle armi contra di papa Alessandro. Nè ci resta vestigio di azione alcuna fatta in questa prima pretesa venuta di Annone. Però, quanto a me, credo che questo scrittore imbrogliasse qui il suo racconto, e che non s'abbia a credere se non un sol viaggio di lui, del quale, parleremo all'anno 1067. E tanto più perchè tuttavia seguitarono in quest'anno i Romani a tener bloccato e ristretto Cadaloo in Castello Sant'Angelo. Se fosse venuto a Roma Annone con commissioni del re, avrebbe messo fine a quella gara. Per le notizie che accenna il suddetto Fiorentini, veniamo in cognizione che papa Alessandro, il quale, imitando gli ultimi suoi predecessori, riteneva tuttavia il vescovato di Lucca, si portò nel presente anno a visitar quella chiesa, e quivi si [318] fermò per più mesi. Tolomeo lucchese, vescovo di Torcello [Ptolomaeus Lucensis, Annal. et Hist. Eccl., lib. 19, tom. II Rer. Ital.], racconta una particolarità degna d'osservazione: cioè che questo papa per maggior sua sicurezza si ritirò in tempi tali a Lucca, con accordar varii privilegii alla medesima città. Nam primo tribuit ei bullam plumbeam pro sigillo communitatis, ut habet dux Venetorum (l'usavano anticamente anche altri principi). Ecclesiam sancti Martini (cattedrale di Lucca) speciali decorat gratia, ut canonicos dictae Ecclesiae mitratos habeat in processione regulari, et sicut cardinales incedant, sicut Ravennae, et ecclesiae sancti Jacobi, quae Compostellana vocatur. Ampliò Benedetto XIII papa in questi ultimi tempi la dignità di quella chiesa con dare il titolo di arcivescovo al suo sacro pastore. In quest'anno ancora Domenico Contareno, intitolato Dei gratia Venetiae Dalmatiaeque dux, imperialis magister [Antiquit. Italic., Dissert. LXIII.], insieme con Giovanni abbate del monistero dei santi Ilario e Benedetto, situato in territorio olivolensi super flumen, quod dicitur Hune, concede l'avvocazia di quel sacro luogo ad Umberto da Fontannive. Dal che si raccoglie che Olivolo, città una volta episcopale, era in terra ferma. In quest'anno ancora Adelasia ossia Adelaide marchesana di Susa, e vedova di Oddone ossia Ottone marchese, fondò il monistero di santa Maria di Pinerolo per l'anima sua [Guichenon, Hist. Eccl.], et Manfredi marchionis genitoris mei, et Adalrici episcopi Barbani mei, et Bertae genitricis meae, et anima domni Oddonis marchionis viri mei, cujus exitus sit mihi luctus, ec. Lo strumento fu stipulato anno Domini nostri Jesu Christi MLXIV, octavo die mensis septembris nella città di Torino. Perchè non avea per anche Arrigo IV re ricevuta la corona, perciò di lui non si fa memoria nè in questo documento, nè in molti altri d'Italia. Abbiamo poi da Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chron.] [319] che in quest'anno la città di Matera venne alle mani del duca Roberto Guiscardo nel mese d'aprile. Passò egli dipoi con alquante soldatesche in Sicilia in aiuto del conte Ruggieri suo fratello. Uniti amendue scorsero senza contrasto l'isola depredando il paese, e piantarono l'assedio a Palermo. Gran guerra fecero alla lor gente le tarantole, e dopo aver consumato tre mesi inutilmente sotto quella città, si ritirarono, ma ricchi assai di bottino.


   
Anno di Cristo MLXV. Indizione III.
Alessandro II papa 5.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 10.

Dopo aver sofferto l'antipapa Cadaloo infiniti incomodi ed affanni per due anni nel Castello di Sant'Angelo, perchè ivi assediato sempre o bloccato dai Romani, forse perchè si slargò il blocco, o altra via per fuggire se gli aprì, cercò nell'anno presente di mettersi in libertà [Cardinal. de Aragon., in Vit. Alexandri II.]. Ma gli convenne comperarla con trecento libbre d'argento da quel medesimo Cencio figliuolo del prefetto di Roma, che fin allora lo avea salvato dalle mani del popolo romano con ricoverarlo in quella fortezza. Però svergognato segretamente ne uscì; e malconcio di sanità e senza soldi con un semplice ronzino e un solo famiglio, tanto cavalcò, che arrivò a Berceto sul Parmigiano, nè più gli venne voglia di veder le acque del Tevere. Racconta Leone Ostiense [Leo Ostiensis, Chron., lib. 3, cap. 23.] che circa questi tempi Barasone uno dei re della Sardegna fece istanza a Desiderio cardinale ed abbate di Monte Casino, per aver dei monaci da fondare un monistero nelle sue contrade. Lo zelantissimo abbate sopra una nave di Gaeta v'inviò dodici dei suoi religiosi con un abbate, ben provveduti di sacri arnesi, di libri, di reliquie e d'altre suppellettili. Ma i Pisani, maxima Sardorum invidia ducti, presero e bruciarono [320] quella nave, e tutto tolsero ai poveri monaci. Ci fa ben vedere questo fatto che i Pisani non per anche signoreggiavano in Sardegna. Barasone ne dimandò, e n'ebbe soddisfazion da loro; dopo di che ottenne due altri monaci da Monte Casino, co' quali fondò un monistero. Altrettanto fece un altro re di quell'isola chiamato Torchitorio, colla fondazione di un altro monistero. Poscia il papa e il duca Gotifredo tanto operarono, che i Pisani soddisfecero al monistero casinense, e gli promisero in avvenire rispetto ed amicizia. L'aver taluno creduto che solamente nel secolo seguente i giudici della Sardegna prendessero il titolo di re, viene smentito da questi atti e da altre pruove da me recate nelle Antichità italiane [Antiquit. Italic., Dissert. V et XXXII.]. Un altro fatto vien raccontato da esso Ostiense che ci servirà a far conoscere la diversità delle cose umane. Perchè erano nati degli sconcerti nel monistero dell'isola di Tremiti, dipendente dal nobilissimo di Monte Casino, il saggio e santo abbate Desiderio ne levò via Adamo abbate, e diede quell'abbazia a Trasmondo figliuolo di Oderisio conte di Marsi. Furono imputati quattro monaci tremitensi dai lor compagni di aver tentata la ribellion di quell'isola. Di più non ci volle perchè il giovane Trasmondo abbate facesse cavar gli occhi a tre d'essi, e tagliar ad uno la lingua. Al cuore dell'abbate casinense Desiderio, uomo pieno di mansuetudine e di carità, fu una ferita la nuova di questo eccesso, sì per la disgrazia di chi avea patito, come per la crudeltà di chi avea dato quell'ordine, e principalmente poi per l'infamia di quel sacro luogo. Però frettolosamente accorse colà, mise sotto aspra penitenza Trasmondo, e poscia il cacciò di colà. Ma quel che è da stupire, diverso fu il sentimento d'Ildebrando cardinale ed arcidiacono allora della santa romana Chiesa, che fu poi papa Gregorio VII. Sostenne egli che Trasmondo [321] aveva operato non da crudele, ma da uomo di petto, non aver trattato, come sel meritavano, que' maligni; e gli conferì anche in premio una migliore abbazia, cioè la casauriense; anzi da lì a non molto il fece ancora vescovo di Balva. Era allora il cardinale Ildebrando il mobile principale della corte pontificia. Nulla si facea senza di lui, anzi pareva che tutto fosse fatto da lui: tanto era il suo senno, l'attività e zelo, con cui operava, benchè fosse assai piccolo di statura, e l'apparenza del corpo non rispondesse alla grandezza dell'animo. Giacchè il cardinal Baronio [Baron., Annal. Eccles. ad ann. 1061.] non ebbe difficoltà a produrre alcuni acuti versi di san Pier Damiano, neppur io l'avrò per qui replicarli. Così egli scriveva al medesimo Ildebrando, suo singolare amico:

Papam rite colo, sed te prostatus adoro.

Tu facis hunc Dominum: Te facit ille Deum.

In un altro distico, anche più pungente, dice dello stesso Ildebrando.

Vivere vis Romae? clara depromito voce:

Plus Domino, papae, quam domno pareo papae.

Il che ci fa conoscere, chi fosse allora il padrone di nome, e chi di fatti in Roma.

Fu in quest'anno fatto cavaliere il re Arrigo IV [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.], cioè ricevette egli l'armi militari dalle mani dell'arcivescovo di Brema con quella solennità che era da molti secoli in uso, e durò molti altri dappoi. E fin d'allora si scoprì il suo mal talento contra di Annone arcivescovo di Colonia, perchè gli stava sempre davanti gli occhi il pericolo corso, allorchè quel prelato il rapì alla madre. Ma per buona fortuna essa sua madre, cioè l'imperadrice Agnese, avendo fatta una scappata da Roma in Germania, quetò per allora l'animo vendicativo del figliuolo. Attesero nell'anno presente [Gaufridus Malaterra, lib. 2, cap. 37.] i due fratelli [322] normanni Roberto duca e Ruggieri conte ad espugnare qualche castello che tuttavia si sottraeva al loro dominio nella Calabria. Costò loro quattro mesi l'assedio del solo di Argel, e convenne in fine ammettere quegli abitanti ad una discreta capitolazione. In questi tempi il sopraddetto insigne abbate di Monte Casino e cardinale Desiderio attese indefessamente a fabbricar una suntuosa basilica in quel sacro luogo [Leo Ostiensis, Chron., lib. 3, cap. 18 et seq.]: al quale fine chiamò dalla Lombardia, da Amalfi e da altri paesi, e fin da Costantinopoli, dei valenti artefici di musaici, di marmi, d'oro, di argento, di ferro, di legno, di gesso, di avorio e d'altri lavorieri: il che servì ancora ad introdurre o a propagar queste arti in Italia. Troviamo eziandio che nell'anno presente seguitava la città di Napoli a riconoscere la sovranità dei greci Augusti, ciò apparendo da una concession di beni [Antiquit. Italic., Disset. V.] fatta da Giovanni II arcivescovo di quella città, e da Sergio V, il quale si vede intitolato eminentissimus cousul et dux, atque Domini gratia magister militum. Lo strumento fu stipulato imperante domino nostro duce Constantino magno imperatore, anno quinto, die XXII mensis julii, Indictione tertia, Neapolis. Se tali note non son fallate, prima di quel che credette il padre Pagi [Pagius, ad Annal. Baron.], Costantino duca ascese sul trono di Costantinopoli. A quest'anno ancora appartiene un placito pubblicato dal Campi [Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1 Append.], e tenuto nel dì primo di luglio in Piacenza nella corte propria di Rinaldo messo del signor re, dove in judicio residebat domnus Dionisius episcopus sanctae placentinae ecclesiae, et comes vius comitatu placentino, sive missus domni regis una cum domnus Cuniberto episcopus sanctae taurinensis ecclesiae, ec. Serva ancora questo atto a comprovare il dominio del re Arrigo, tuttochè non per anche coronato, in Italia; e che anche il vescovo di Piacenza, [323] al pari di tanti altri prelati, era divenuto conte, cioè governatore della sua città.


   
Anno di Cristo MLXVI. Indizione IV.
Alessandro II papa 6.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 11.

Dimenticossi ben presto Riccardo principe di Capoa d'essere vassallo della santa Sede, e di aver giurata fedeltà ad essa sotto papa Niccolò II. Egli, a guisa degli altri principi normanni, che mai non si quetarono finchè non aveano assorbito chi stava loro vicino, e dopo ciò pensavano ad ingoiar gli altri, a' quali s'erano appressati: veggendo che tutto gli andava a seconda, cominciò anche a stendere le sue conquiste sopra le terre immediatamente sottoposte nel ducato romano ai papi. E Lupo Protospata scrive [Lupus Protospata, in Chron.] ch'esso Riccardo intravit terram Campaniae, obseditque Ceperanum, et comprehendit eum, et devastando usque Romam pervenit. Accostato che si fu a Roma [Leo Ostiensis, Chron., lib. 3, cap. 25.], pretese d'essere dichiarato patrizio, cioè avvocato della Chiesa romana: dignità fino da' tempi di Pipino re di Francia conservata sempre negl'imperadori, e dignità che portava seco primato, o almeno gran considerazione nell'elezione de' romani pontefici. Di questa mena fu avvertito il re Arrigo IV, e per abbatterla, ed insieme con disegno di levar dalle mani rapaci de' Normanni le terre di san Pietro, e di prendere in tal occasione la corona dell'imperio dalle mani del papa, unì insieme una forte armata, e giunse fino ad Augusta, risoluto di calare in Italia. Il costume era che il marchese di Toscana, allorchè il re germanico era per venire in queste parti, andasse ad incontrarlo colle sue milizie. Aspettò Arrigo per qualche tempo che il duca Gotifredo comparisse; ma non veggendolo mai [324] venire, anzi avvisato ch'egli era ben lontano di là, tra il dispetto a cagione di questa mancanza, e forse anche per qualche sospetto della fede di lui, desistè dalla sua spedizione, e se ne tornò indietro. Intanto esso duca con possente esercito era corso a Roma per reprimere l'insolenza di Riccardo e de' suoi Normanni. Tale era il credito del duca Goffredo, tali le forze sue, che i Normanni sbigottiti si ritirarono più che di fretta, abbandonando la Campania romana; se non che Giordano figliuolo del suddetto Riccardo con un buon corpo di gente si fortificò in Aquino per far testa all'armata nemica. Presentossi Goffredo co' suoi circa la metà di maggio sotto quella città, accompagnato in quella spedizione dallo stesso papa e dai cardinali, e per diciotto giorni stette accampato intorno alla medesima, con essere succedute varie prodezze sì dall'una parte come dall'altra. Ma per accortezza di Guglielmo Testardita, che andò innanzi indietro, si conchiuse un abboccamento fra esso duca Goffredo e Riccardo principe al ponte già rotto di sant'Angelo di Todici. Fama corse che il duca più da una grossa somma di danaro, che dalle parole di Riccardo si lasciasse ammansare; e però da lì a poco piegate le tende, se ne tornò colla sua gente in Toscana. Si lasciò vedere in quegli stessi giorni una gran cometa, di cui fanno menzione altri storici sotto il presente anno, e mostrò la sua lunga coda per più di venti giorni. Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernit., Chron., tom. 7 Rer. Italic.], che sotto questo medesimo anno parla del predetto fenomeno, aggiugne che Roberto Guiscardo circa gli stessi giorni cepit civitatem Vestis, apprehenditque ibi catapanum nomine Kuriacum (cioè Ciriaco). Nella Cronichetta amalfitana [Antiquit. Italic., tom. 1, pag. 253.] l'acquisto della città del Vasto è trasportato nell'anno seguente, e quel catapano vien ivi chiamato Bennato. Abbiamo da Gaufrido [325] Malaterra [Gaufrid. Malaterra, lib. 2, cap. 38.] che in questi tempi il conte Ruggieri facea continue scorrerie in Sicilia addosso ai Mori, con riportarne quasi sempre buon bottino, e con tale speditezza, che non potea esser mai colto da loro. Fabbricò eziandio la fortezza di Petrelia con torri e bastioni: fortificazione che servì a lui non poco per conquistare il resto della Sicilia.

Fin qui avea tenuto saldo contra del clero concubinario di Milano e contra de' simoniaci Arialdo diacono di quella chiesa, non già fratello di un marchese, ma bensì di chi portava il soprannome di Marchese; ecclesiastico pieno di zelo per la disciplina ecclesiastica, e che insieme con Erlembaldo nobile laico commoveva il popolo contra de' cherici scandalosi, e contra dello stesso arcivescovo Guido. Passò Arialdo a Roma, e tali doglianze e pruove dovette portare contra d'esso arcivescovo, fautore de' preti concubinarii, e creduto simoniaco, che il pontefice Alessandro II fulminò la scomunica contra di lui. Tornato Arialdo a Milano, e divulgate le censure, gran tumulto ne succedette nel dì della Pentecoste, perchè ito alla chiesa l'arcivescovo, sollevossi contra di lui, oppur prese l'armi in favore d'Arialdo quella plebe che teneva il di lui partito, e dopo aver bastonato l'arcivescovo, e lasciatolo come morto, corsero tutti a dare il sacco al di lui palazzo [Arnulfus Hist., Mediol., lib. 3, cap. 18.]. Questo accidente svegliò non poca commozione ne' vassalli ed altri aderenti dell'arcivescovo i quali, risolverono di farne vendetta sopra Arialdo. Non veggendosi egli sicuro, travestito se ne fuggì, ma non potè lungo tempo sottrarsi alle ricerche de' suoi persecutori. Tradito da un prete, presso il quale s'era rifuggito, fu messo in mano dei soldati dell'arcivescovo, che condotto sul Lago maggiore, quivi crudelmente gli levarono la vita nel dì 28, oppure, come altri vogliono, nel dì 27 di giugno dell'anno presente. Non mancarono miracoli in attestazione [326] della gloria ch'egli conseguì in cielo, e fu poco dipoi registrato fra i santi martiri dalla Sede apostolica. Abbiamo la sua vita scritta dal beato Andrea Vallombrosano suo discepolo; e il Puricelli [Puricellius, de SS. Arialdo et Herlembaldo.], scrittore accuratissimo e benemerito della storia di Milano, diede tutto alla luce, ed illustrò i fatti sì d'esso Arialdo che di Erlembaldo. Veggansi ancora gli Atti de' Santi bollandiani [Acta Sanctorum Bollandi, ad diem 27 Junii.]. Arnolfo e Landolfo seniore, storici milanesi di questi tempi, svantaggiosamente parlarono d'esso Arialdo, perchè avversarii di lui, e protettori del clero, allora troppo scostumato. In quest'anno ancora passò alla gloria de' beati san Teobaldo romito franzese della schiatta nobile dei conti di Sciampagna. Succedette la sua morte nel luogo di Solaniga presso a Vicenza, dove per più anni egli era dimorato, menando una vita austera in orazioni e digiuni. Il sacro suo corpo fu rapito dai Vicentini; ma nell'anno 1074 furtivamente tolto, fu portato al monistero della Vangadizza presso l'Adicetto, dove è oggidì la terra della Badia. Abbiamo la sua vita [Mabill., Saecul. Benedict., VI, P. II.] scritta da Pietro abbate di quel sacro luogo, e persona contemporanea, che assistè alla di lui morte. Ne parla anche Sigeberto [Sigebertus, in Chron.], oltre a molti altri. In quest'anno ancora non potendo più sofferire i vescovi e principi della Germania [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.] che Adelberto arcivescovo di Brema, uomo pien d'alterigia, si abusasse dell'ascendente preso sopra il giovane re Arrigo coll'operar tutto di cose che gli tirarono addosso l'odio di tutti: congiurati in Triburia, intimarono ad Arrigo o di depor la corona, o di licenziare da sè Adelberto. Perchè egli volle fuggire, gli misero le guardie intorno, e poi vituperosamente cacciarono l'arcivescovo bremense, e fu consegnato il re sotto il governo di Annone [327] arcivescovo di Colonia, e di Sigefredo arcivescovo di Magonza [Adam Bremensis, Hist., lib. 3, cap. 37.]. Annone attese ad innalzar tutti i suoi parenti ed amici alle prime dignità, e fra gli altri promosse alla chiesa archiepiscopale di Treveri, che venne a vacare in questo anno, Conone, cioè Corrado suo parente, e gli fece dar l'anello e il baston pastorale dal re Arrigo, con inviarlo poscia a Treveri, per esser ivi intronizzato. Restò talmente disgustato ed irritato il clero e popolo di quella città, per vedersi privato dell'antico suo diritto d'eleggere il proprio pastore, che diede nelle smanie, e ne avvenne poi che, arrivato colà Conone, Teoderico conte e maggiordomo della chiesa di Treveri gli fu addosso con una mano d'armati, e, dopo qualche mese di prigionia, il fece precipitar giù da un'alta montagna, dove lasciò la vita. Fu questi, non so come, riguardato dipoi qual martire; e Lamberto scrive che alla sua tomba succedeano moltissimi miracoli. Ma non dovette far grande onore all'arcivescovo Annone, che fu poi anch'egli venerato per santo, una promozion tale, perchè ingiuriosa a quel popolo e contraria ai sacri canoni.


   
Anno di Cristo MLXVII. Indizione V.
Alessandro II papa 7.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 12.

Non men che Milano era in confusione la città di Firenze in questi giorni a cagion de' monaci vallombrosani, che sosteneano aver Pietro da Pavia vescovo conseguita quella chiesa coll'aiuto della regina pecunia. Per mettere fine a sì lunga dissensione che avea già partorito varii scandali, ebbero le parti ricorso a san Giovanni Gualberto. Fece egli quanto fu in sua mano per indurre il vescovo a confessare il suo fallo; ma indarno. Propose dunque la sperienza ossia il giudizio del fuoco: che allora simili modi di tentar Dio non erano vietati, anzi parea [328] talvolta che Dio gli autenticasse coi miracoli. Questa sregolata pruova nondimeno non avea voluto concedere nell'anno antecedente papa Alessandro II in occasione di visitar la Toscana. Comandò dunque l'abbate san Giovanni Gualberto che un suo monaco dabbene, appellato Giovanni, passasse pel fuoco, e con tal pruova chiarisse se Pietro era simoniaco sì o no. A due cataste di legna preparate per tal funzione fu attaccato il fuoco, ed allorchè era ben formato ed alto il fuoco, animosamente vi passò per mezzo il monaco Giovanni, co' piedi nudi senza nocumento alcuno, e senza che neppur restasse bruciato un pelo del suo corpo. Il fatto prodigioso si vede descritto del popolo fiorentino in una lettera [Epistol. Populi Florentini ad Alexandr. Papam, in Vita S. Johannis Gualberti.] a papa Alessandro, riferita anche dal cardinal Baronio [Baron., in Annal. Eccl.], il quale giudicollo accaduto nell'anno 1063. Ma il padre Mabillone [Mabill., Annal. Benedict. ad hunc annum.] scoprì con altre memorie che tal pruova accadde nel mese di febbraio nel mercordì della prima settimana di quaresima dell'anno presente, in cui la Pasqua cadde nel dì 8 di aprile. Il vescovo Pietro si sa che, preso l'abito monastico, in quello piamente terminò i suoi giorni; e che il monaco Giovanni fu dipoi creato cardinale e vescovo d'Albano, appellato da lì innanzi Giovanni igneo, quasi uomo di fuoco, e adoperato dalla santa Sede in ambascerie di grande importanza.

Tuttavia durava l'ostinazion dell'antipapa Cadaloo, e se non potea far più guerra coll'armi al legittimo pontefice Alessandro II, gliela facea colla disunione delle chiese, seguitando alcuni vescovi, spezialmente Arrigo arcivescovo di Ravenna, a sostenere la di lui fazione. Per terminare questa abbominevol gara, e per salvare con qualche apparenza il decoro della corte germanica, fu data l'incumbenza ad Annone arcivescovo di [329] Colonia di venire in Italia [Nicol. Cardinal. de Aragon., in Vita Alexandri II, Part. I, tom. 3 Rer. Italicar.]. Passò egli por Lombardia e Toscana a Roma senza fermarsi, e quivi ammesso all'udienza del papa, in presenza de' cardinali, con aria mansueta e modesta disse: Come mai, o confratello Alessandro, avete voi ricevuto il papato senza ordine e consentimento del re mio signore? Lungo tempo è che tale licenza s'ottiene dai re e principi. E qui cominciando dai patrizii dei Romani e dagl'imperadori, alcuni ne nominò, per ordine e consenso de' quali erano saliti gli eletti sulla sedia di san Pietro. Allora saltò su il cardinal Ildebrando arcidiacono coi vescovi e cardinali, e disse all'arcivescovo, che, secondo i canoni, non era permesso ai re d'aver mano nell'elezione de' romani pontefici, e addusse molti testi dei santi Padri, e massimamente l'ultimo decreto di papa Niccolò II sottoscritto da cento tredici vescovi, di maniera che l'arcivescovo restò, o mostrò di restar soddisfatto: benchè veramente neppur fosse stato osservato il decreto d'esso Niccolò pontefice. Dopo di che pregò il papa di voler tenere per questa causa un concilio in Lombardia, per quivi giustificar pienamente l'elezione sua. Il che, quantunque paresse contro il costume, e contrario al decoro d'un romano pontefice, tuttavia, considerata la cattiva costituzion de' tempi, e per desiderio di dar la pace alla Chiesa, fu accordata e scelta la città di Mantova per celebrarvi il concilio. Che in quest'anno fosse il medesimo celebrato, e non già nel 1064, come altri ha creduto, l'hanno già dimostrato Francesco Maria Fiorentini [Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 1.] e il padre Pagi [Pagius, in Crit. ad Annal. Baron.] coll'autorità di Sigeberto e di Landolfo juniore storico milanese. Egli è da dolersi che non sieno giunti fino a' dì nostri gli atti di quel concilio. Pure sappiamo che v'intervennero tutti i vescovi di Lombardia, eccettochè Cadaloo, il quale, [330] benchè ne avesse ordine dall'arcivescovo di Colonia, non ardì di presentarsi a quella sacra assemblea, dove il pontefice Alessandro II talmente provò la legittimità della sua elezione e rispose alle calunnie inventate dai malevoli contra di lui, che i vescovi di Lombardia, di suoi avversari che erano prima, gli diventarono amici ed ubbidienti. Fra le altre cose, quei che veramente in Lombardia erano rei di simonia, aveano opposto il medesimo vizio all'elezione di lui. Lo attesta anche Landolfo seniore [Landulphus Senior, Histor. Mediolan., lib. 3, cap. 18.], ma con una man di favole, che non occorre confutare, perchè smentite dall'evidenza. Il papa, secondo il costume dei suoi predecessori, si purgò di questa taccia col giuramento; e bisogno neppur ve n'era, perchè egli fu papa di somma virtù e di raro zelo contro la simonia, ed eletto spezialmente per cura del cardinale Ildebrando, cioè del maggior nemico che si avesse mai quell'esecrabil vizio. Restò dunque atterrato Cadaloo, il quale nondimeno, per testimonianza di Lamberto [Lambertus Schafnaburgensis, in Chronico.], finchè visse, non volle mai cedere all'empie sue pretensioni.

Da Mantova passò papa Alessandro alla sua patria Milano, dove si studiò di riformar gli abusi per quanto potè, e di metter pace fra il clero e popolo. A tal fine quivi lasciò, oppure mandò due cardinali [Arnulf., Hist. Mediol., lib. 3, cap. 19.], cioè Mainardo vescovo di Selva Candida e Giovanni, che fecero nel dì primo d'agosto alcune utili e savie costituzioni contra de' simoniaci e cherici concubinarii, e promossero la pace e concordia fra i cittadini. Leggonsi tali costituzioni negli Annali del cardinal Baronio e nelle annotazioni alla storia di Arnolfo milanese [Rer. Ital. tom. 4, pag. 32.]. La pace nondimeno prese piede in Milano. Erlembardo Cotta, uomo nobile e potente, assistito dal braccio di Roma, seguitò a far aspra guerra [331] all'arcivescovo Guido, con pretenderlo simoniaco ed illegittimo pastore: il che continuò gli sconcerti, descritti da Arnolfo e da Landolfo seniore, storici milanesi di questi tempi, ma parziali, come già abbiam detto, de' preti concubinarii, e massimamente il secondo, ne' cui scritti la bugia e l'insolenza trionfano. Questi fra l'altre cose scrive [Landulf. Senior., Hist. Mediolan., lib. 3, cap. 29.] che Erlembaldo sibimet vexillum, milites (cavalleria) et pedites, exinde qui scalas ad capiendas domos, machinasque diversas ordinavit; praeterea balistas ac fundibularios, ec. Questi avvenimenti ci fanno assai conoscere che allora Milano non dovea lasciarsi regolare da ministro alcuno del re, e che a poco a poco il popolo s'incamminava a quella libertà che vedremo andar crescendo negli anni seguenti. Nella vita di papa Alessandro II, a noi conservata da Niccolò cardinale d'Aragona [Rerum Italicar., P. I., tom. 3.], si legge che dopo il concilio di Mantova esso pontefice se ne ritornò tutto lieto a Roma, e che nello stesso tempo i Normanni occuparono la città di Capoa, e che Ildebrando cardinale chiamò in aiuto Goffredo duca di Toscana, il quale accorso con un immenso esercito, e colla contessa Matilda sua figliastra, ricuperò essa città di Capoa, e la restituì alla Chiesa romana. Potrebbe ciò far credere tenuto il concilio di Mantova prima dell'anno presente, giacchè abbiam veduto succeduta nel presente anno la guerra della Campania. Ma non è sicuro in questo il racconto di quello scrittore, dacchè egli fa ricuperata Capoa, quando è fuor di dubbio che Riccardo principe di quelle contrade seguitò ivi a tener sua signoria; nè l'Ostiense, scrittore di questi tempi, dà alcun segno che Capoa venisse in potere della Chiesa romana. Forse vuol dire che Riccardo di nuovo si accordò col papa, e gli giurò omaggio anche per la città di Capoa. In fatti si legge una bolla d'esso papa in favore di Alfano [332] arcivescovo di Salerno, pubblicata dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 7 in Archiepisc. Salernit.], e data Capuae IV idus octobris, per manus Petri sanctae romanae Ecclesiae subdiaconi et bibliothecarii, anno VII pontificatus domni Alexandri papae, Indictione VII. Credette il Sigonio che tal documento appartenesse all'anno seguente 1068, ma io lo credo scritto nell'ottobre dell'anno presente. Ora da esso apparisce che il papa entrò in Capoa, e pacificamente vi dimorò; ma quivi continuò anche Riccardo il suo dominio. La guerra fatta dal duca Gotifredo in terra di Lavoro, abbiam veduto di sopra che è riferita nella Cronichetta amalfitana all'anno 1058. Fin qui la città di Bari, capitale della Puglia, anzi degli Stati che aveano già in Italia gl'imperadori d'Oriente, città forte e città piena di ricchezze, avea fuggito il giogo de' Normanni. Ma da gran tempo vi facea l'amore Roberto Guiscardo duca, e l'anno fu questo ch'egli ne determinò la conquista. Però con un copioso esercito per terra e con una flotta navale per mare si portò ad assediarla. Non concordano gli autori nell'assegnar l'anno in cui egli diede principio a quest'assedio. Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] e l'Anonimo barense [Anonymus Barensis, in Chron.] di ciò parlano all'anno seguente, e per quello che andremo vedendo, dee preponderare l'asserzion loro a quella di Gaufredo Malaterra [Malaterra, lib. 2, cap. 40.] e di Romoaldo salernitano [Romualdus Salern., tom. 7 Rer. Ital.], che lo mettono in quest'anno. Leone ostiense [Leo Ostiensis, lib. 2, cap. 16.] scrive che Roberto prima di mettersi a così difficile impresa, s'era impadronito della città d'Otranto. Si risero a tutta prima i Baritani della venuta dell'esercito nemico; e con ingiurie e col far mostra delle lor cose più preziose si faceano beffe dei Normanni. Ma Roberto, senza curarsene punto, attendeva a preparar tutto quanto parea più [333] spediente per vincere una sì orgogliosa città. In quest'anno [Annal. Saxon. Berthold. Constantinensis. Alber. Monan. et alii.] il re Arrigo IV celebrò le sue nozze in Triburia con Berta figliuola del già Oddone e della celebre Adelaide marchesi di Susa. Pietro marchese, fratello d'essa Berta, per quanto s'ha da un documento rapportato dal Guichenon [Guichenon, Histor. Genealog. de la Maison de Savoye, tom. 3.], tenne un placito nell'anno 1064 nella villa di Cambiana. Ma riuscì ben infelice il matrimonio suddetto, perchè troppo era già alterato da' vizii l'animo di questo re.


   
Anno di Cristo MLXVIII. Indizione VI.
Alessandro II papa 8.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 13.

Non avea di buona voglia il re Arrigo presa per moglie la regina Berta, e ne cominciò ben presto a far conoscere a lei, anzi al pubblico tutto, l'avversione. Se si ha a credere a Brunone scrittore della guerra sassonica [Hist. Belli Saxon. apud Freherum.], autore contemporaneo, ma nemico d'esso re e parziale de' Sassoni, da cui non discorda Bertoldo da Costanza [Bertholdus Constantinensis, in Chron.], già Arrigo era arrivato ad una strana sfrenatezza di costumi, e perduto nella libidine, senza curarsi più della moglie, tuttochè giovane, bella e savia, e cercando in tutt'altre parti pastura alle sue voglie impudiche. Cominciò pertanto a desiderare di liberarsi da questo legame, e gli cadde in pensiero di far tentare da un suo confidente l'onestà di essa regina. Con tale audacia e costanza costui ne parlò a Berta, ch'ella s'avvide non poter egli senza consentimento del marito tenerle di sì fatti ragionamenti. Mostrò dunque d'arrendersi, e concertò di ammetterlo nel buio della notte. Ciò riferito ad Arrigo, all'ora prefissa venne con costui o per sorprendere la moglie ed aver legittimo [334] motivo di separarsene, ovvero con pensier di levarle la vita. Per paura che appena introdotto nella camera il compagno, si serrasse l'uscio, volle egli essere il primo ad entrare, e fu ben riconosciuto da Berta, che tosto diede il catenaccio alla porta ed escluse l'altro, infingendosi di non conoscere il marito. Erano preparate tutte le sue damigelle con bastoni e scanni, che se gli avventarono addosso, gridando la regina: Ah figliuolo di rea femmina, come hai avuto tanto ardire di entrar qua? Fioccavano le bastonate; e benchè egli dicesse d'essere il re, Berta replicava ch'egli mentiva, perchè suo marito non aveva bisogno di cercar furtivamente ciò che gli era dovuto di ragione. Insomma tante gliene diedero, che il lasciarono mezzo morto: ed egli senza palesare ad alcuno questo accidente, e fingendone altra cagione, per un mese attese a guarire in letto. Così operava, o almen si dicea che operasse lo sconsigliato re, il quale, oltre gli eccessi della sua libidine, commetteva ancora di quando in quando delle crudeltà, e fece quanto potè per disgustar i popoli della Turingia e Sassonia: il che fu principio d'aspre guerre in quelle contrade. Ciò nondimeno che maggiormente dispiaceva al romano pontefice e a tutti i buoni, era il vender egli pubblicamente i vescovati e le badie a chi più offeriva, e più a d'uno lo stesso benefizio, e a gente anche per altro indegna del sacro ministero.

Attesta il Fiorentini, fondato su molte carte esistenti nell'archivio archiepiscopale di Lucca [Fiorentini, Memor. di Matilde, lib. 1.], che il pontefice Alessandro II si trattenne in Lucca, cioè nell'antico suo diletto vescovato, che egli tuttavia governava, sul principio di luglio fino al principio di dicembre. In un continuo allarme erano in questi tempi i Saraceni e i popoli restati loro sudditi in Sicilia, perchè l'indefesso conte Ruggieri ora in questa ora in quella parte faceva delle scorrerie, e metteva tutto il paese in contribuzione. Non sapendo essi come [335] più vivere in mezzo a tanti affanni, secondochè lasciò scritto Gaufredo Malaterra [Malaterra, Hist., lib. 2, cap. 41.], misero insieme un grosso esercito, ed in quest'anno allorchè Ruggieri comparve verso Palermo a bottinare, gli furono addosso all'improvviso nel luogo di Michelmir, e il serrarono da tutte le parti. Alla vista di costoro, il conte, animata con breve ragionamento e schierata la sua picciola armata, la spinse contro ai nemici, e tal macello ne fece, che (se pur si ha in ciò da credere alla esagerazione di quello storico) non vi restò chi potesse portarne la nuova a Palermo. Trovaronsi fra il bottino dei colombi chiusi in alcune sportelle, e Ruggeri chiestone conto, venne a sapere, essere uso de' Mori il portar seco tali uccelli, per potere, allorchè il bisogno lo richiedeva, informar la città degli avvenimenti, con legare al collo o sotto l'ali d'essi un polizzino, e dar loro la libertà. Dura tuttavia quest'uso in alcune parti del Levante, e celebre fu fra i Romani nell'assedio di Modena. Fece il conte scrivere in arabico in un poco di carta il successo infelice de' Mori, e i colombi sciolti ne portarono tosto a Palermo la nuova, che empiè di terrore e pianto tutta quella cittadinanza. Abbiamo da Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] che Roberto Guiscardo duca di Puglia in quest'anno assediò la città di Montepeloso, e veggendo che indarno vi spendeva il tempo, andò con pochi sotto Obbiano ossia Ojano, e l'ebbe in suo potere. Romoaldo Salernitano [Romualdus Salern., tom. 7 Rer. Ital.] lo chiama Ariano. Poscia per tradimento di un certo Gotifredo s'impadronì da lì a non molto anche di Montepeloso. Osserva il Malaterra [Gaufrid. Malaterra, lib. 2, cap. 39.] che quella città era di Goffredo da Conversano, nipote dello stesso Roberto, perchè figliuolo di una sua sorella, il quale valorosamente l'avea con altre castella conquistato senza aiuto del duca, e però [336] non si credeva obbligato a servirgli, come il duca esigeva. Ma l'ambizion di Roberto non solea guardare in faccia nè a parenti nè ad amici, e però gli tolse quella città, benchè dipoi gliela rendesse con giuramento di omaggio. Si può nondimeno dubitare che per conto del tempo si sia ingannato il Protospata; imperocchè tanto il Malaterra quanto Guglielmo Pugliese [Guillelmus Apulus, lib. 3.] rapportano questo fatto prima che Roberto imprenda l'assedio di Bari, a cui, siccome abbiam veduto, egli diede principio nell'anno precedente, e continuollo ancora nel presente. Tuttavia anche Romoaldo salernitano sotto quest'anno riferisce la presa di Montepeloso nel dì 6 di febbraio, correndo l'indizione sesta.


   
Anno di Cristo MLXIX. Indizione VII.
Alessandro II papa 9.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 14.

Arrivò in quest'anno il giovanil furore e l'avversione conceputa dal re Arrigo contra di Berta sua moglie [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.], a trattare di ripudiarla; al qual fine adescò con varie promesse Sigefredo arcivescovo di Magonza, per averlo favorevole in questo affare. Perchè non v'era legittimo alcun fondamento di divorzio, s'inorridirono a tal proposizione gli altri vescovi e magnati. Pertanto si determinò di tenere un concilio in Magonza, nella settimana dopo la festa di san Michele, dove si risolverebbe ciò che fosse di dovere. Avvisato intanto papa Alessandro II di questo mostruoso disegno del re, per impedirlo, spedì suo legato in Germania san Pier Damiano, che benchè oppresso dagli anni, ed anche mal soddisfatto della corte di Roma, pure non ricusò di assumere questo faticoso viaggio ed impiego. L'arrivo del legato mise in costernazione il re, e guastò i disegni del concilio e tutte le misure dell'arcivescovo di Magonza. In Francofort [337] diede Arrigo udienza al legato apostolico, che gli espose gli ordini del papa di guardarsi da sì scandalosa azione, troppo riprovata dai sacri canoni, e obbrobriosa alla gloria di sua maestà. A tenore del legato parlarono ancora quasi tutti i principi di quell'assemblea, in guisa che per necessità e vergogna, ma sempre di mal cuore, Arrigo smontò dalla sua pretensione, dicendo che avrebbe fatto forza a sè stesso per portare quel peso, giacchè non avea la maniera di sgravarsene. Che da lì innanzi passasse buona armonia fra esso re e la moglie Berta, si può riconoscere dall'avergli ella partorito figliuoli, e dall'averlo costantemente seguitato ne' suoi viaggi. Continuava intanto l'assedio di Bari, che con gran vigore veniva difeso dai cittadini e da Stefano Paterano uffiziale speditovi da Costantinopoli, ed uomo di molta probità e valore. Ma neppur cessava Roberto per mare e per terra, con quante macchine da guerra erano allora in uso, di tormentare la città, adoperando anche larghe promesse e fiere minacce, tutto nondimeno senza far frutto. Veggendo i Baritani e il loro governatore tanta ostinazione in Roberto, e che la vettovaglia andava scemando di troppo, s'avvisarono di liberarsi in altra maniera da questo pertinace nemico. Trovavasi in Bari un sicario, uomo di non ordinario ardimento, che prese l'assunto di tendere insidie al duca Roberto, e di levargli la vita [Guillelmus Apulus, lib. 2. Gaufrid. Malaterra, lib. 2, cap. 11.]. Altro non era il padiglione d'esso Roberto che una baracca o capanna formata di travicelli, e circondata da rami d'alberi fronzuti. Essendosi l'assassino finto uno dei suoi, verso la sera mentre il duca era per andare a cena, di dietro ad essa capanna gli tirò una saetta avvelenata, che gli toccò bensì le vesti, ma non già il corpo, ed ebbe quell'assassino la fortuna di salvarsi colla fuga nella città. Servì questo accidente per aprir gli occhi a Roberto e a' suoi, i quali tosto chiamati i muratori [338] gli fecero fabbricare una casa, dove egli potesse dimorar con sicurezza.

A quest'anno il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 9.] riferisce un concilio, tenuto da papa Alessandro in Salerno, al quale, oltre a molti vescovi ed abbati, intervennero anche Gisolfo principe di quella città, Roberto Guiscardo duca, e il conte Ruggieri suo fratello. Ma nè in quest'anno, nè in quel luogo fu celebrato un tal concilio, se è vero, come io credo, il documento recato dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 7 in Archiepisc. Salernit.], che è l'unico testimonio a noi restato di questa sacra adunanza. Parla ivi il pontefice del sinodo, quae sexto pontificatus nostri anno apud Melphim celebrata est in ecclesia beati Petri Apostolorum principis, quae est ejusdem civitatis sedes episcopatus, die calendarum augustarum, a cui furono presenti i suddetti principi. L'anno sesto di papa Alessandro correa nel dì primo d'agosto dell'anno 1067, se pur egli contò gli anni dal dì della sua intronizzazione. E in Melfi, e non già in Salerno, si dice tenuto quel concilio. In questi tempi si vivea scomunicato dal papa Arrigo arcivescovo di Ravenna, per la cui riconciliazione inutilmente aveva adoperato i suoi buoni uffizii san Pier Damiano appresso il romano pontefice. Peggio anche passava in Milano a Guido arcivescovo, perchè Erlembaldo Cotta, nobile zelantissimo, dopo aver ricevuto da Roma la bandiera di san Pietro, colle armi temporali gli facea guerra: del che parlano gli storici milanesi Arnolfo e Landolfo seniore. Ora, siccome osservò il Puricelli [Puricellius, in Vita S. Herlembaldi, cap. 28.], nell'anno presente accadde, che trovandosi quel prelato, siccome persona creduta simoniaca, angustiato da tanti affanni, ed oramai per le malattie e per la vecchiaia in pessimo stato, s'indusse a rinunziar la chiesa a Gotifredo suddiacono, uno degli ordinarii, cioè de' canonici della metropolitana, il quale, inviato l'anello e il pastorale in Germania, [339] mediante lo sborso di buona somma di danaro, fu approvato per arcivescovo di Milano dal re Arrigo, ma non già dalla Sede apostolica, la quale fulminò contra di lui le sacre censure, e neppur fu accettato dal popolo milanese. Era seguita fra lui e Guido una convenzione verisimilmente di pagare al vecchio una ragionevol pensione. Ma avendo Erlembaldo mosse l'armi anche contra di questo simoniaco successore della cattedra ambrosiana, e mancando a lui i mezzi da soddisfare al convenuto, Guido accordatosi con Erlembaldo, tentò di ripigliare l'arcivescovato, e se ne tornò a Milano, dove burlato miseramente terminò poscia i suoi giorni nell'anno 1071. Essendo morto senza prole Erberto conte e principe del Maine in Francia, s'impadronì di quella provincia Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia, e poi re d'Inghilterra. Ma quei popoli, malcontenti di avere un tal padrone, chiamarono alla signoria di quegli Stati il marchese Alberto Azzo II progenitore de' principi estensi. S'ha dunque a sapere, per testimonianza di Orderico Vitale [Ordericus Vitalis, Hist. Eccl., lib. 4.], che scrivea le sue storie circa l'anno 1130, che esso Erberto ebbe tre sorelle. Una earum data est Azzoni marchisio Liguriae, cioè al suddetto marchese Azzo. Il suo nome fu Garsenda, siccome ho dimostrato altrove [Antichità Estensi, P. I, cap. 3.]. Dal primo matrimonio con Cunegonda dei Guelfi avea questo principe avuto un figliuolo, cioè Guelfo IV, che vedremo in breve creato duca di Baviera, ascendente della real casa di Brunswich. Da questo altro matrimonio colla principessa del Maine ricavò due maschi, cioè Ugo e Folco, dal secondo de' quali viene la ducal casa d'Este. Abbiamo dunque dalle Vite de' vescovi, date alla luce dal padre Mabillone [Mabill., Analect., tom. 3, cap. 33.], che forse circa questi tempi i primati del Maine mittentes in Italiam, Athonem quemdam marchisium cum uxore et filio, qui vocabatur Hugo venire fecerunt, [340] seque et civitatem, et totam simul regionem eidem marchisio tradiderunt. Andò il marchese Azzo, s'impadronì di tutto il Maine, e vi lasciò signore il figliuolo Ugo. Ma nel 1072 di nuovo s'impadronì di quel principato il suddetto re d'Inghilterra Guglielmo. Di ciò ho io parlato più diffusamente nelle Antichità estensi [Antichità Estensi, P. I, cap. 27.]. A Giovanni duca di Amalfi [Antiquit. Ital., tom. 1, pag. 211.] succedette nell'anno presente Sergio suo figliuolo.


   
Anno di Cristo MLXX. Indizione VIII.
Alessandro II papa 10.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 15.

Mancò di vita Gotifredo Barbato duca di Lorena e Toscana; ma non è sì facile l'accordar gli scrittori intorno all'anno della sua morte. Bertoldo da Costanza [Bertold. Constantiensis, in Chron.] la mette nell'anno 1069, succeduta nella vigilia del santo Natale: nel che è seguitato dal Fiorentini nelle Memorie di Matilda [Fiorentini, Memor. di Matild., lib. 1.], e dal padre Mabillone [Mabill., Annal. Benedict.]. Ma Lamberto da Scafnaburgo [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.], Sigeberto [Sigebertus, in Chron.], l'Annalista sassone [Annalista Saxo apud Eccardum, tom. 1 Corp. Hist.] ed altri, ai quali aderì il cardinal Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.] col padre Pagi [Pagius, ad Annal. Baron.] la riferiscono all'anno presente. E se si potesse con franchezza riposare sopra una memoria informe recata dallo stesso Fiorentini, si dovrebbe credere veramente passato all'altra vita nell'anno presente. Ma non sembra finora ben deciso questo punto. Anche la breve Cronica di san Vincenzo di Metz [Labbe, Nova Bibliot., tom. 1, pag. 345.] all'anno 1069 riferisce la di lui morte. Vo io credendo derivata questa sconcordanza degli storici dall'anno che terminava [341] colla vigilia del santo Natale, cominciando il nuovo nel dì seguente. Dovette mancare questo principe nella notte che divideva l'uno anno dall'altro. Presso gli storici suddetti egli si truova ornato di molti elogi, e fu da taluno appellato Gotifredo il Grande, a distinzione degli altri duchi di Lorena di questo nome. Morì appunto in Lorena, ed ebbe sepoltura in Verdun, con lasciar vedova per la seconda volta Beatrice duchessa di Toscana, e un figliuolo di lui nato dalle prime nozze, per nome Gozelone, ossia Gotifredo, giovine di gran talento, ma gobbo: il che servì a lui di soprannome per distinzione dagli altri. Ossia che vivente il padre, o che dopo la sua morte si conchiudesse l'affare, certo è che fra questo giovane principe, cioè Gotifredo il Gobbo e la contessa Matilda, unica figliuola di Bonifazio già duca e marchese di Toscana e della suddetta Beatrice, seguì matrimonio; e noi vedremo in breve questo principe, già succeduto al padre nel ducato della Lorena, esercitar anche in Italia l'autorità di duca di Toscana per ragione di Matilda sua moglie. Non erano per anche divenuti ereditarii i ducati e gli altri governi d'Italia, talmente che le donne ancora vi succedessero; ma la potenza e la costituzion de' tempi avea già introdotto questo costume. L'abbiamo parimente osservato in Adelaide marchesana di Susa, principessa d'animo virile. Vien creduto dal Guichenon [Guichenon, Histoire de la Maison de Savoye, tom. 1.], che a questa Adelaide appartenga una Memoria riferita dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 4, in Episc. Astens.], ed estratta dalla Cronica del monistero di Fruttuaria, cioè la seguente: Anno Domini MLXX, mense majo capta fuit et incensa civitas astensis ab Alaxia comitissa astensi: nella quale occasione il suddetto Ughelli fu d'avviso che Adelaide facesse ricevere a quel popolo per suo vescovo Girlemo, fin qui rigettato dagli Astigiani. Leggesi una simil Memoria [342] nelle Croniche d'Asti [Chron. Astens., tom. 9 Rer. Ital.], ma con diversità, dicendosi ivi che la città d'Asti fu presa in quest'anno, nono kalendas maii a comitissa Alaxia; et ab ea tota succensa fuit de anno MXCI decimo quinto kalendas aprilis; et eodem anno dicta comitissa obiit. Alassia e Adelaide sono lo stesso nome; ma se è vero questo incendio, non dovette già questo entrare nel catalogo de' suoi elogi. In quest'anno ancora diede fine a' suoi giorni Odelrico duca e marchese di Carintia [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron. Annalista Saxo apud Eccardum, tom. 1 Corp. Histor.]. Soleva in addietro andare unito col governo della Carintia quello ancora della Marca di Verona; ma non so dire s'egli godesse nello stesso tempo di questa, nè chi fosse ora presidente d'essa Marca. Ebbe per successore Bertoldo ossia Bertolfo. Nè si dee tacere, per gloria dell'Italia, che in quest'anno da Guglielmo re d'Inghilterra e duca di Normandia, soprannominato il Conquistatore, fu creato arcivescovo di Cantorberì e primate dell'Inghilterra il beato Lanfranco di nazione pavese, personaggio celebre nella storia ecclesiastica non meno per la sua letteratura, che per le sue gloriose azioni. Appoggiato il Sigonio [Sigionius, de Regno Ital., lib. 4.] alle Croniche moderne di Pisa, scrisse che in quest'anno i Pisani portarono la guerra in Corsica: del che offesi i Genovesi, con dodici galere andarono a bloccar la bocca di Arno; ma usciti in armi i Pisani, ne presero sette nel dì di san Sisto d'agosto. Non sono indubitate cotali notizie. Gli antichi Annali di Pisa [Annales Pisani, tom. 6 Rer. Ital.] altro non dicono, se non che sorse gran guerra fra i Pisani e Genovesi. L'avidità del commercio diede moto all'invidia, all'odio, e poscia alle guerre fra queste due nazioni; e andando innanzi, ne vedremo de' lagrimevoli effetti. Neppur lasciò passare l'anno presente papa Alessandro senza rivedere la sua diletta chiesa di Lucca, dove, secondo le [343] memorie allegate da Francesco Maria Fiorentini [Fiorentini, Memorie di Matilde, lib. 1.], nel dì 6 di ottobre solennemente consecrò la cattedrale di san Martino, nuovamente fabbricata in quella città, e confermò i privilegii a quel vescovato.

V'ha chi crede che in quest'anno giugnesse Roberto Guiscardo duca ad insignorirsi della capital della Puglia, cioè di Bari [Gaufrid. Malaterra, lib. 2, cap. 43. Guillelm. Apulus, lib. 3.]. Già cominciava ad assottigliarsi forte la vettovaglia in quella città, e Roberto più che mai si mostrava risoluto di forzarla a cedere. Spedirono perciò que' cittadini un messo a Costantinopoli con lettere compassionevoli a Romano Diogene imperadore, per implorare soccorso. Nè lo chiesero in vano. Romano, messa insieme una buona flotta di navi con soldatesche e viveri, ne diede il comando a Gocelino normanno, che disgustato e ribello del duca Roberto, era alcuni anni prima passato alla corte imperiale d'Oriente, ed avea fatta ivi gran fortuna colla sua bravura. Tornato il messo a Bari, e segretamente entrato, riempiè di allegrezza quel prima disperato popolo coll'avviso del vicino aiuto, e loro ordinò di stare attenti per far dei fuochi la notte, allorchè si vedesse avvicinare la flotta de' Greci. Ma s'affrettarono essi di troppo. La stessa notte cominciarono ad accendere de' fuochi nelle torri e in altri siti della città: il che osservato dai Normanni, servì loro d'indizio, che aspettassero in breve qualche aiuto per mare. Per buona ventura il conte Ruggieri alle premurose istanze del fratello Roberto era anch'egli dalla Sicilia venuto a quell'assedio, menando seco un poderoso naviglio. Fu a lui data commission di vegliare dalla banda del mare, nè passò molto che si videro da lungi molti fanali, segni indubitati di navi che venivano alla volta di Bari. Allora l'intrepido Ruggeri, imbarcata la gente sua, con leonina ferocia volò incontro ai Greci, [344] i quali credendo che i Baritani per l'allegrezza venissero a riceverli, non si prepararono alla difesa. Andarono i Normanni a urtar sì forte ne' legni nemici, che una delle navi normanne, dove erano cento cinquanta corazzieri, si rovesciò, e restò cogli uomini preda dell'onde. Ma il valoroso Ruggieri adocchiata la capitana, perchè portava due fanali, andò a dirittura ad investirla, e la sottomise con far prigione il generale Gocelino, che poi lungamente macerato in una prigione, quivi miseramente morì. Questa presa, e l'avere affondata un'altra nave de' Greci, mise in rotta e fuga tutto il rimanente con gloria singolare de' Normanni, che in addietro non s'erano mai avvisati di esser atti a battaglie navali, e cominciarono allora ad imparare il mestiere. Nè di più vi volle perchè i cittadini di Bari trattassero e concludessero la resa della città al duca Roberto, che trattò amorevolmente non solo essi, ma anche la guarnigion greca, e il lor generale Stefano, con rimandar poi tutti essi Greci liberi al loro paese. Se veramente in quest'anno, oppure nel seguente, Roberto Guiscardo facesse così importante conquista, si è disputato fra gli eruditi. Chiaramente scrive Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] ch'egli entrò vittorioso in Bari nel dì 15 d'aprile dell'anno 1071; e a lui si attiene il padre Pagi [Pagius, in Crit. ad Annal. Baron.], con osservare, che, per testimonianza di Guglielmo Pugliese, durò tre anni quell'assedio, e che, per conseguente, esso dovette aver principio nell'anno 1068. Gaufredo Malaterra [Malaterra, lib. 2, cap. 43.] all'incontro scrive che Bari venne alle mani di Roberto nell'anno presente 1070, e Camillo Pellegrini [Peregrin., Hist. Princip. Langobard.] si sottoscrisse a tale opinione. Stimò il padre Pagi poco sicura la cronologia del Malaterra, senza osservare che non è di miglior tempera quella di Lupo Protospata, dacchè troviamo da esso storico posticipata di un [345] anno la caduta dal trono di Romano Diogene Augusto. Anche Romoaldo Salernitano nella Cronica sua [Romualdus Salernitanus, Chron., tom. 7 Rer. Ital.], siccome ancora la Cronichetta amalfitana [Antiquit. Ital., tom. 1, pag. 213.] mettono sotto quest'anno la presa di Bari. Tuttavia l'autorità dell'Ostiense [Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 30.] sembra bastante a decidere questo punto; cioè a persuaderci che veramente nell'anno seguente il vittorioso Roberto, dopo un assedio di circa quattro anni, mettesse il piede in Bari. Vedremo in breve ciò ch'egli ne dice. Vennero in questo anno a Roma, per attestato di Lamberto [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.], gli arcivescovi di Magonza e Colonia Sigefredo ed Annone, ed Ermanno vescovo di Bamberga. Probabilmente ci conta favole quello storico con dire che Ermanno accusato di simonia, con preziosi regali placò il papa. Alessandro, pontefice di rara virtù, non era personaggio da lasciarsi in tal guisa sovvertire. Aggiugne quello storico che a tutti e tre poi fece esso pontefice un'acerba riprensione, perchè simoniacamente vendessero gli ordini sacri. Non dovea per anche Annone arcivescovo essere giunto a quella santità, di cui parlano gli storici dei secoli susseguenti. Era in questi tempi un gran faccendiere Gregorio vescovo di Vercelli, e cancelliere di Arrigo IV re di Germania e d'Italia. Da lui ottenne egli nell'anno presente varii casali posti nel contado di Vercelli per la sua chiesa [Antiquit. Italic., Dissert. XIII, pag. 738.], con esser ivi espresso donato ancora servitium, quod pertinet ad comitatum: il che fa intendere che si andava sempre più pelando e sminuendo l'autorità e il provento spettante ai conti governatori delle città, di modo che a poco a poco si ridusse quasi in nulla il distretto di esse città, e la signoria de' conti urbani. Ma dacchè si misero in libertà le stesse città, colla forza, siccome vedremo, ripigliarono e sottomisero al loro dominio non [346] meno i conti territoriali ed altri nobili possidenti castella indipendenti dalla lor giurisdizione, ma stesero le mani anche alle castella possedute dalle chiese.


   
Anno di Cristo MLXXI. Indizione IX.
Alessandro II papa 11.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 16.

L'intruso e simoniaco arcivescovo di Milano Gotifredo, giacchè era stato rigettato dal popolo [Arnulf., Hist. Mediolan., lib. 3, cap. 21.] con molti suoi fazionarii, andò a ritirarsi in Castiglione, castello, pel sito montuoso, per le mura e torri, e per altre fortificazioni, creduto allora inespugnabile, circa venti miglia lungi da Milano. Ne usciva spesso la sua gente a provvedersi di viveri alle spese dei confinanti, col commettere ancora non pochi ammazzamenti. Non volendo il popolo di Milano tollerar più questo aggravio, misero insieme un esercito, e con tutto il bisognevole passarono ad assediar quella rocca, risoluti di liberarsi da quella vessazione. Mentre durava un tale assedio, o accidentalmente, o per opera di qualche scellerato, si attaccò il fuoco in Milano in tempo appunto che soffiava un gagliardissimo vento, nel dì 19 di marzo dell'anno presente. Fece un terribil guasto l'incendio, riducendo in un mucchio di pietre una quantità immensa di case, ed anche di sacri templi, fra i quali soprattutto fu deplorabile la rovina della basilica di san Lorenzo, una delle più belle d'Italia, di maniera che Arnolfo storico esclamò con dire: O templum, cui nullum in mundo simile! Nelle storie milanesi questo orribile incendio si vede appellato il fuoco di Castiglione. All'avviso di sì fiera calamità, la maggior parte dei Milanesi che erano all'assedio di Castiglione, corse alla città per visitar le sue povere famiglie: del che accortisi gli assediati, e cercato qualche rinforzo di amici, dopo Pasqua fecero una vigorosa sortita addosso ai pochi rimasti a quello [347] assedio. Ma Erlembaldo con tal valore sostenne gli assalti, che furono obbligati a retrocedere. Dopo di che Gotifredo non veggendosi più sicuro, si fece condurre altrove: con che cessò la guerra contra di quel castello. Essendo poi mancato di vita il vecchio arcivescovo Guido, Erlembaldo andò disponendo le cose per far eleggere un successore, dopo aver fatto giurare il popolo di non mai accettare il simoniaco Gotifredo; e procurò che da Roma venisse un legato, per dar maggior peso a tale elezione. Avea l'infaticabil abbate di Monte Cassino Desiderio già compiuta la fabbrica della sua magnifica basilica [Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 30.]; e desiderando di consecrarla con ispecial onore, invitò a tal funzione il buon papa Alessandro, che non mancò d'andarvi. Incredibile fu il concorso de' popoli a quella divota solennità. Fra gli altri vi si contarono dieci arcivescovi, quaranta quattro vescovi, Riccardo principe di Capua, con Giordano suo figlio e Rainolfo suo fratello, Gisolfo principe di Salerno co' suoi fratelli, Landolfo principe di Benevento, Sergio duca di Napoli e Sergio duca di Sorrento. Nam dux Robertus Panormum eo tempore oppugnabat, ideoque tantae solemnitati interesse non potuit, come scrive l'Ostiense. Seguì la suddetta consecrazione nel primo giorno di ottobre; e però questo passo dell'Ostiense ci dee convincere che nell'anno presente, e non già nel precedente 1070, si arrendè al duca Roberto la doviziosa ed importante città di Bari, e che, per conseguente, sono scorretti i testi del Malaterra e di Romoaldo salernitano.

Hassi dunque a sapere, che appena si fu impadronito il duca suddetto di quella città nell'aprile del presente anno, ed ebbe dato sesto a quel governo, che per le istanze del conte Ruggieri suo fratello, a cui era principalmente dovuta la gloria di una tal conquista, egli si dispose a passare in Sicilia, per formare l'assedio di Palermo, capitale di quell'isola insigne. Le dissensioni e guerre civili [348] fra gli stessi Mori, che aveano in addietro facilitato a Ruggieri il conquistar ivi non poco paese, animarono maggiormente i due normanni eroi a tentar così bella impresa, per accrescere in uno stesso tempo il loro dominio, e liberar dal giogo saracenico quell'antichissima ed illustre città. Lo stesso Malaterra [Malaterra, lib. 2, cap. 43.], da cui non discorda Guglielmo pugliese [Guillelmus Apulus, lib. 3.], attesta che Roberto dopo la presa di Bari, brevi iterum expeditionem versus Salernum summovet; e che essendo dimorato ne' mesi di giugno e luglio in Otranto per fare i preparamenti della nuova guerra, si portò dipoi a Reggio di Calabria, e indi passò in Sicilia, fingendo di voler andare contro l'isola di Malta. A tal fine sbarcò a Catania, dove si trovava il conte Ruggieri, città che, secondo l'Ostiense [Leo Ostiens., lib. 3, cap. 16.], fu da loro sottomessa in quest'anno; ma poi con tutte le forze di terra e di mare eccolo piombare addosso alla città di Palermo, assediandola da tutte le parti. Anche la Cronichetta amalfitana ha, che il Guiscardo, dopo aver preso Bari, inde movens exercitum in Siciliam ire preparavit (forse properavit) obseditque Panormum. L'anno fu questo in cui la nobilissima casa appellata poi d'Este vide uno de' suoi principi stabilito in uno de' primi gradi d'onore e di potenza in Germania. Già dicemmo all'anno 1055 che Guelfo IV, figliuolo del marchese Alberto Azzo II e di Cunegonda de' Guelfi, fu chiamato in Suevia a prendere l'ampia eredità de' principi guelfi [Abbas Urspergensis, in Chron.], missis in Italiam legatis da Imiza avola sua materna. Accadde, per testimonianza di Bertoldo da Costanza, [Bertoldus Constantiensis, in Chron.] di Lamberto [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.] e d'altri scrittori, che Ottone duca di Baviera nell'anno precedente si ribellò contra al re Arrigo, e per questa cagione si espose ad un'aspra guerra. Avea Guelfo IV sposata una figliuola di [349] esso duca; però coll'armi, e in quante altre maniere potè, aiutò per un pezzo il suocero. Ma allorchè vide andare a precipizio gli affari di lui, pensò ai casi proprii, nè risparmiò oro, argento e beni allodiali affine di ottenere dal re quell'insigne ducato, maggiore allora di gran lunga che oggidì. Infatti, per valermi delle parole del suddetto Lamberto e dell'Annalista sassone [Annalista Saxo apud Eccardum, tom, 1 Corp. Hist.], per interposizione di Rodolfo duca di Suevia, cognato del re Arrigo, Welf vir illustris, acer, et bellicosus, filius Azzonis marchionis Italorum, ducatum Bavariae suscepit. Da questo principe, che fece tanta figura, e cotanto si segnalò nelle guerre di questi tempi, viene a dirittura la linea estense guelfa dei duchi di Brunswich, Luneburgo e Wulfembettel, che all'elettorato germanico oggi unisce la corona del regno della gran Bretagna. Così il marchese Alberto Azzo II tuttavia vivente vide stabilita ed innalzata in Germania la discendenza sua, la quale pur tuttavia gloriosamente si mantiene e fiorisce anche in Italia nell'altra linea de' marchesi di Este duchi di Modena, ec., discendente da Folco marchese, fratello del medesimo duca Guelfo. Oltre a quest'anno non arrivò la vita di Domenico Contareno doge di Venezia [Dandul. in Chron., tom. 12. Rer. Ital.], ed in suo luogo fu alzato al trono ducale Domenico Silvio, e col confalone dato gli fu il possesso della dignità.


   
Anno di Cristo MLXXII. Indizione X.
Alessandro II papa 12.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 17.

Portò opinione Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.], seguitato anche in ciò dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 2 in Archiepisc. Ravenn.], che Arrigo arcivescovo di Ravenna desse fine alla sua vita nell'anno 1070: il cardinal [350] Baronio [Baron., in Annales Ecclesiast.] credette che nell'anno presente. Ma più probabile a me sembra che prima di quest'anno egli sloggiasse dal mondo; perciocchè sappiamo, che essendo morto scomunicato esso Arrigo [Acta Sanct. Bolland., ad diem 23 februarii.], e trovandosi il popolo di Ravenna incorso in molte censure, papa Alessandro giudicò bene d'inviar colà san Pier Damiano ravennate di patria, tuttochè avanzato forte nella vecchiaia, per dar sesto a quella sì sconcertata chiesa. V'andò il santo uomo, fu con grande allegria ricevuto, riconciliò tutto quel popolo, e, dopo aver trattato d'altri affari, si rimise in cammino. Ma appena giunto ad un monistero posto fuori della porta di Faenza, quivi fu preso dalla febbre che, ogni dì più invigorendosi, il fece passare a miglior vita nel dì 22 di febbraio dell'anno presente [Bertold. Constantiensis, in Chron.]. Questi viaggi ed azioni, esigendo tutti del tempo, a me fanno credere che almeno nell'anno precedente lo scomunicato Arrigo cessasse di vivere. Fu poi sustituito in suo luogo, per elezione del re Arrigo, Guiberto dianzi suo cancelliere in Italia, uomo pieno d'ambizione, e nato per flagello della Chiesa di Dio. Papa Alessandro, che assai ne conosceva lo spirito turbolento, mal volentieri condiscese a consecrarlo; ma, secondochè sta scritto nella Vita d'esso pontefice [Nicol. Card. de Aragon., in Vita Alex. II Papae.] gli predisse che dalla santa Sede riceverebbe il gastigo delle sue voglie ambiziose. Ho detto che Dio chiamò a sè san Pier Damiano: debbo ora aggiugnere che mancò in lui un gran lume ed ornamento della Cristianità, mercè della scienza e del raro zelo che in tutte le azioni sue si osservò, e tuttavia si osserva ne' libri suoi, vivi testimoni ancora di un felicissimo e piissimo ingegno, nei quali solamente si può desiderare più parsimonia nelle allegorie, e più cautela in credere [351] e spacciar tante visioni e miracoli, alcuni de' quali possono anche far dubitare dei veri. Abbiamo da Arnolfo, storico milanese [Arnulf., Hist. Mediolanens., lib. 3, cap. 23.] di questi tempi, che nel presente anno per cura di Erlembaldo, capo in Milano della fazione opposta alla simonia e all'incontinenza del clero, alla presenza di Bernardo legato della Sedia apostolica, e nel dì dell'Epifania, fece eleggere dai suoi parziali arcivescovo di Milano Attone, ossia Azzo, tantummodo clericum, ac tenera aetate juvenculum, invito clero, et multis ex populo. Perchè questo novello arcivescovo venne poi approvato da papa Gregorio VII, il Puricelli fu d'avviso ch'egli non potesse avere sì poca età, come suppone Arnolfo, il qual pure era allora vivente, e scriveva di questi fatti. Ma oltre al potersi dire che juvenculus non vuol dire età che escluda il vescovato, le scabrose congiunture d'allora dovettero giustificare l'aver eletto arcivescovo chi si potea; perchè i più saggi ed attempati verisimilmente fuggirono una dignità accompagnata dai pericoli di disgustare il re, e d'incontrar la persecuzione della fazion parziale del re medesimo. Infatti poco durò l'allegrezza di Attone. Mentre egli passava co' suoi ad un lauto convito, con cui si voleva solennizzare l'acquisto di sì riguardevole mitra, fu in armi la fazione contraria, ed entrata nel palazzo mise tutto sossopra. Si nascose Attone a questo rumore, ma scoperto e preso, fu indegnamente trattato anche con delle percosse. E se volle salvar la vita, gli convenne salire in pulpito nella chiesa, e con alta voce rinunziare all'elezione fatta di lui. Si nascosero tutti i suoi fautori; il legato apostolico anch'egli corse gran pericolo, perchè gli furono stracciate le vesti, laonde malconcio si sottrasse alla furia del popolo. In tal confusione era la città di Milano. Gotifredo ed Attone fuori di Milano non consecrati, e senza goder le rendite della chiesa, gran tempo stettero campando del proprio, [352] e chiusi nelle lor case di campagna. Intanto si tenne in Roma un concilio, in cui venne approvata l'elezione di Attone, e scomunicato Gotifredo.

Nell'agosto dell'anno precedente fu, siccome dicemmo, intrapreso l'assedio di Palermo dagl'invitti due fratelli normanni Roberto e Ruggieri. Seguirono molti assalti e fatti d'armi sotto quella città. Venne anche in soccorso de' Palermitani un grosso rinforzo di Mori [Guillelm. Apulus, lib. 3. Malaterra, lib. 2, cap. 45.]; ma non attentandosi coloro di assalire per terra l'esercito cristiano, vollero tentar la loro fortuna per mare. Gl'intrepidi Normanni accettarono la sfida, e nella battaglia navale menarono così ben le mani, che riuscì loro di prendere alcune delle navi moresche, altre ne affondarono, e il restante di esse fu costretto alla fuga. Dopo cinque mesi dunque di faticoso assedio, Roberto fece dare un dì due furiosi ma finti assalti da due parti alla città nuova posta nella penisola; ed egli allorchè vide ben impegnati i cittadini nella difesa di que' due siti, diede co' suoi una scalata ad un altro sito, e fortunatamente v'entrò colla sua gente. Ritiraronsi perciò i Palermitani e Mori nella vecchia città, e conoscendo che non v'era più speranza di resistere a questo torrente, la mattina seguente i primati dimandarono di capitolare: cioè esibirono la resa della città, purchè ai Musulmani (e tali doveano essere quasi tutti allora quei cittadini o Siciliani o Mori) fosse permesso di vivere liberamente nella loro legge maomettana. A braccia aperte fu accettata la loro esibizione colla condizione suddetta; laonde il duca e il conte vittoriosi presero il possesso di quella nobil città, non già nel mese di giugno, come ha il testo scorretto di Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chron.], ma bensì nel dì 10 di gennaio dell'anno presente, e dopo soli cinque mesi d'assedio, come ha l'Anonimo barense [Anonymus Barensis, apud Peregrin.], con cui va d'accordo [353] Romoaldo salernitano [Romualdus Salernit., tom. 7 Rer. Ital.]. Diede dipoi Roberto Guiscardo, secondochè lasciò scritto Leone ostiense [Leo Ostiensis, lib. 3, cap. 16.], l'investitura di tutta la Sicilia al conte Ruggieri suo fratello, ritenendo nondimeno in suo potere la metà di Palermo e di Messina. Ma per quanto osservò l'abate Carusi [Carusi, Stor. di Sicil., P. II.], nobile storico delle cose di Sicilia, in questo ultimo punto non si appose al vero l'Ostiense, perchè Roberto si riservò il pieno dominio delle suddette due città, e il resto concedette al fratello. La Cronichetta amalfitana [Antiquit. Ital., tom. 1, pag. 213.], che all'anno seguente riferisce la conquista di quella città, aggiugne che il Guiscardo di colà portò a Troia varie porte di ferro e molte colonne di marmo co' lor capitelli in segno della sua vittoria. Ci accertano le memorie citate dal Fiorentini [Fiorentini, Memorie di Matilde, lib. 1.] che in quest'anno ancora papa Alessandro soggiornò in Lucca nel mese d'agosto e nei tre seguenti. Vedesi parimente un placito [Antiquit. Italic., Dissert. XXXI.] tenuto da Beatrice duchessa di Toscana, e da Matilda sua figliuola nel territorio di Chiusi: anno dominicae Incarnationis millesimo septuagesimo secundo, septimo idus junii, indictione decima, al quale intervennero i due conti di Chiusi Rinieri e Bernardo coi vescovi di Chiusi e di Siena. Finì di vivere in quest'anno [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.] Adalberto arcivescovo di Brema, che fin qui era stato primo ministro del re Arrigo IV; persona già in odio a tutti, perchè o complice o autore di molte iniquità da esso re commesse. Fu uomo di rigida continenza, e celebrava la messa con gran compunzione e lagrime; ma senza avvedersi che la molta sua alterigia, vanità ed altri vizii offuscavano di troppo e guastavano le sue poche virtù. Tanto il re Arrigo pregò Annone arcivescovo di Colonia, prelato di rara probità, che volesse assumere il medesimo grado, che quantunque non [354] poco egli ricusasse, pure v'acconsentì. E in effetto cominciò il pubblico governo sotto questo insigne prelato a prendere miglior faccia colla retta amministrazione della giustizia, col castigo dei cattivi, e con altri ottimi regolamenti. Ma durò ben poco questo sereno. Troppo violento, troppo avvezzato al mal fare era il re Arrigo. Fugli ancora supposto che Ridolfo duca di Suevia suo cognato macchinasse contro la sua corona, ed era per vedersi una scena eguale a quella della Baviera. Ma avendo Ridolfo fatto venire in Germania l'imperadrice Agnese sua suocera, questa così efficacemente s'interpose tra il figliuolo e il genero, che ne seguì per ora la pace.


   
Anno di Cristo MLXXIII. Indizione XI.
Gregorio VII papa 1.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 18.

Non potè molto durarla Annone arcivescovo di Colonia alla corte del re Arrigo [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.]. Egli edificava con una mano, e il re distruggeva con tutte e due. Però non potendo più sopportare le sregolatezze del re, facendo valere la scusa della sua avanzata età, tanto disse, che ottenne di potersi liberar dalla corte, e di ritirarsi alla sua chiesa. Allora fu che Arrigo, vedendosi come tolto di sotto all'aio, lasciò la briglia a tutte le sue passioni, dandosi maggiormente in preda alle lascivie, e nulla curandosi, se riduceva alla disperazione i popoli della Turingia e Sassonia, con fabbricar tutto dì delle rocche in quel paese, con permettere alle guarnigioni di prendere colla forza il sostentamento dai poveri villani, e con proteggere le pretensioni dell'arcivescovo di Magonza, che volea contro il costume esigere le decime da que' popoli. Andarono perciò delle gravi doglianze a Roma contra di Arrigo, ed esposte furono tutte le di lui infamie, e spezialmente la vendita delle chiese: il che soprattutto [355] dispiaceva al romano pontefice. Quindi cominciarono i Sassoni a ribellarsi, voltando l'armi loro contra delle fortezze fabbricate in lor pregiudizio dal re. Si aggiunse che Ridolfo duca di Suevia, Bertolfo duca di Carintia, e il novello duca di Baviera Guelfo IV [Bertholdus Constantiniensis, in Chron.], veggendo sprezzato alla corte il savio ed onorato lor parere, se ne ritirarono. In somma l'indomito cervello e furor giovanile di Arrigo tutto andava facendo per perdere l'amore non men dei grandi che dei piccoli, e per mettere la confusione in Germania: il che pur troppo gli venne fatto. Intanto papa Alessandro, se dobbiamo credere all'Urspergense [Abbas Urspergens., in Chron.], spedì lettere ad esso re, vocantes eum ad satisfaciendum pro simoniaca haeresi, aliisque nonnullis emendatione dignis, quae de ipso Romae fuerant audita. Ma non potè il buon pontefice Alessandro proseguir più oltre questi disegni, perchè Dio il chiamò a sè nel dì 21 d'aprile: pontefice per la sua pietà, umiltà, eloquenza e zelo, non inferiore ai migliori [Marianus Scotus, in Chronico. Donizo. Paul. Benried., in Vit. Gregorii VII et alii.]. Si raccontano ancora varii miracoli operati da Dio per intercessione di lui. Appena fu nel giorno seguente data sepoltura al defunto papa, che i cardinali con tutto il clero e popolo concordemente acclamarono papa il cardinale Ildebrando che prese il nome di Gregorio VII, e si rendè poi celebre a tutti i secoli avvenire. Resistè egli finchè potè, ma bisognò darla vinta al quasi furor del popolo, che non ammise dilazione. Nè ci volea di meno in questi tempi sì sconcertati della Chiesa di Dio, che il petto forte di questo virtuoso, dotto ed incorrotto pontefice, per correggere spezialmente gli abusi delle simonie e dell'incontinenza del clero, che troppo piede aveano preso dappertutto. Non volle ommettere il saggio eletto tutti i riguardi dovuti al re Arrigo, per procurare, se mai era possibile, di mantener la concordia, [356] e per eseguir in parte anche il decreto di papa Niccolò II, nel quale anch'egli aveva avuta mano. Cioè spedì tosto i suoi messi in Germania coll'avviso al re della sua elezione, e per quanto si ha dalla Vita di lui, a noi conservata da Niccolò cardinal d'Aragona [Card. de Aragon., in Vit. Gregor. VII, ibid.], pregandolo, come avea fatto anche san Gregorio il Grande, di non prestar l'assenso a tale elezione. Quod si non faceret, certum sibi esset, quod graviores et manifestos ipsius excessus impunitos nullatenus toleraret. Se è vera la parlata di questo tenore (del che potrà talun dubitare), bisogna ben dire che il re Arrigo dovette qui fare un grande sforzo al suo mal talento per consentire, siccome è certo che consentì, ma non così tosto. Lamberto da Schafnaburgo [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.], senza parlare dei messi suddetti, e dopo avere esaltato l'integrità e l'altre virtù che concorrevano in questo pontefice, scrive che il di lui inflessibile zelo ed ingegno acre fece paura ai vescovi che si trovarono allora alla corte, ben consapevoli di varii lor mancamenti, dei quali poteva egli un giorno chiedere conto. Perciò esortarono Arrigo di dichiarar nulla l'elezione di lui, giacchè fatta senza conoscenza ed ordine suo. Ma dovette prevalere il parer dei più saggi, e il re si contentò d'inviare a Roma il conte Eberardo con ordine di conoscere come era passato il fatto; e se trovasse già consecrato il papa novello, di protestare di nullità qualunque atto fatto. Andò questo uffiziale, fu cortesemente accolto, dimandò conto dell'operato, e l'eletto pontefice rispose, che contro sua volontà, non ostante l'opposizione sua, era stato eletto dal clero e popolo; ma che non s'era lasciato sforzare a prender anche l'ordinazione, volendo prima essere assicurato che il re e i principi germanici avessero prestato l'assenso all'elezione sua. Questa umile risposta, rapportata al re Arrigo, il soddisfece, e però diede tosto ordine che fosse consecrato. Et statim Gregorium [357] Vercellensem episcopum italici regni cancellarium ad urbem transmisit, quatenus autoritate regia electionem ipsam confirmaret, et consecrationi ejus interesse studeret. Lamberto scrive ch'egli fu consecrato nell'anno seguente nel giorno della Purificazione di santa Maria. Ma è un errore, a mio credere, de' suoi copisti. Tanto dalla Vita di lui conservata dal cardinal d'Aragona, quanto dal registro delle lettere del medesimo papa [Tom. 10. Concilior. Labbe.], chiaramente costa che fu celebrata la di lui consecrazione nella festa de' principi degli Apostoli, cioè nel dì 29 di giugno dell'anno presente.

Già aveano prese l'armi i popoli della Sassonia e Turingia, perchè niuna giustizia poteano ottenere dal re. Ed egli inviperito volea procedere colla forza; ma gli arcivescovi di Colonia e Magonza, i vescovi d'Argentina e Vormazia, e i duchi di Baviera, di Suevia, dell'una e dell'altra Lorena e di Carintia ricusarono di somministrar gente, non parendo loro convenevole di andare all'oppressione di popoli innocenti. Non istette per questo Arrigo di marciare armato contra di que' popoli; ma più di quel che credeva li trovò forti e risoluti di vincere o di morire. E intanto fra vari principi della Germania, stomacati di tanti vizii di Arrigo, si cominciarono delle segrete pratiche per liberare il regno da un re che tendeva alla sua distruzione. Nel precedente anno era venuto in Italia Gozelone, ossia Gotifredo il Gobbo, duca di Lorena, tra il quale e Matilda, contessa e insieme duchessa insigne di Toscana, già dicemmo contratto matrimonio. Si disputa da varii scrittori se fra essi si conservò il celibato: quistione difficile a risolversi senza chiare testimonianze degli antichi, da chi è troppo lontano da que' tempi. In questi governavano la Toscana e gli altri Stati del fu marchese Bonifazio la duchessa Beatrice, e la suddetta contessa Matilda sua figliuola. Ora che Matilda, morto che fu il padrigno Goffredo, cominciasse ad esercitare [358] o sola o colla madre Beatrice la suddetta autorità, lo deduco da un placito tenuto dalla medesima in quest'anno [Antiquit. Italic., Dissert. X.], sexto idus februarii, Indictione undecima, extra muros lucensis civitatis, in burgo, qui vocatur Sancti Fridiani. Ivi essa è intitolata domna Mactilda marchionissa, hac ducatrix, filia bonae memoriae Bonefatii marchionis. È osservabile in quel documento che Flaiperto giudice vien chiamato missus domini imperatoris: eppure Arrigo IV non era giunto per anche alla corona dell'imperio, nè s'intitolava imperadore. Il notaio, usato a questa antica formola, non dovette badar molto al titolario d'allora. Un altro placito tenne in quest'anno la duchessa Beatrice [Ibid., Dissert. VI.] in civitate Florentia infra palatium de domo Sancti Johanni, cioè nel palazzo del vescovo. La carta è scritta anno Domini nostri Jesu Christi septuagesimo secundo post mille, quinto kalendas martii, Indictione undecima. Qui è adoperata l'epoca fiorentina, che comincia l'anno nuovo nel dì 25 di marzo, e l'indizione XI fa conoscere che si parla dell'anno presente 1075, il quale, secondo lo stile fiorentino, era tuttavia anno 1072. In esso documento si vede intimato il bando domni regis, e non già dell'imperadore. Troviamo poi la duchessa Beatrice [Antiquit. Italic., Dissert. XI.] cum praeclara filia mea Mathilda nell'anno presente, Indictione XI, in die sabbati, quod est quarto idus augusti, in festivitate sancti Laurentii martyris, che fa una donazione al monistero di san Zenone di Verona. Lo strumento fu stipulato in monasterio sancti Zenonis in refectorio. Dissi venuto in Italia Gotifredo il Gobbo prima dell'anno presente. Ne fa fede un altro placito riferito dal Fiorentini [Fiorent., App. Memor. di Matil., pag. 150.], e tenuto dalla duchessa Beatrice in civitate pisense in palatio domni regis, una cum Gotifredo duce et marchione, XVI calendas februarii, Indictione XI. E di qui ancora [359] impariamo che il giovine Gotifredo in vigore del suo matrimonio colla contessa Matilda fu anch'egli ammesso al governo della Toscana e degli altri Stati. Leggesi poi una lettera [Gregor. VII, lib. 1, Ep. 4.] a lui scritta dal nuovo papa Gregorio eletto, in cui gli significa la sua elezione e il buon animo ed affetto paterno ch'egli tuttavia conservava verso del re Arrigo. Pruova il cardinal Baronio [Baron., in Annal. Eccl.] che in quest'anno esso papa andò a Benevento, dove Landolfo VI principe di quella città gli prestò giuramento di fedeltà e vassallaggio. Passò anche a Capua, dove Riccardo I principe fece un atto simile per riconoscere suo sovrano il romano pontefice.


   
Anno di Cristo MLXXIV. Indizione XII.
Gregorio VII papa 2.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 19.

Abbiamo dalla Vita di san Gregorio VII nella raccolta di Niccolò cardinale d'Aragona [Rerum Italicar., P. I, tom. 3.], ch'esso pontefice spedì in Germania l'imperatrice, non già B, ma A, cioè Agnese madre del re Arrigo, con Gherardo vescovo d'Ostia, Uberto vescovo di Palestrina, Rinaldo vescovo di Como, e col vescovo di Coira. Tale spedizione, per attestato di Bertoldo da Costanza [Bertholdus Constantiensis, in Chron.] e di Lamberto da Scafnaburgo [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.], appartiene all'anno presente. Furono questi legati ben accolti dal re dopo Pasqua in Nuremberga; esposero le paterne ammonizioni di papa Gregorio; ottennero che fossero cacciati di corte cinque nobili cortigiani già scomunicati; ma poc'altro di sostanza. Diede ben buone parole il re, e promise d'emendarsi; poscia li rispedì con tutto onore e ben regalati. Contra de' Sassoni seguitava intanto il maltalento del feroce re, i cui atti ed avvenimenti si veggono [360] diffusamente scritti dal suddetto Lamberto. E benchè il papa si fosse esibito mediatore per comporre quelle rabbiose differenze, e s'affaticassero anche varii principi della Germania per indurlo a placarsi, egli non la sapeva intendere. Perchè le forze allora gli mancarono, infine come tirato pel capestro acconsentì alla pace, e con delle condizioni di suo poco onore, essendosi stabilito in quell'accordo che si smantellerebbono tutte le fortezze da lui fabbricate in pregiudizio di quei popoli. Mosse anche una furiosa lite al santo arcivescovo di Colonia Annone, e pochi erano que' principi ch'egli non credesse suoi nemici, o non facesse tutto il possibile per inimicarseli. Tenne in quest'anno il pontefice Gregorio VII un gran concilio in Roma, al quale intervennero assaissimi vescovi, ed inoltre, come s'ha da Cencio camerario presso il Baronio, e dal cardinal d'Aragona [Cardinal. de Aragon., in Vit. Gregorii, VII.], egregia comitissa Mathildis, Aczo marchio, et Gisulfus salernitanus princeps non defuere. Parlasi qui del famoso marchese Alberto Azzo II progenitore delle due linee de' principi di Brunswich e di Este. Anche il papa suddetto scrisse in questo anno [Gregor. VII, lib. 2, Ep. 9.] a Beatrice duchessa di Toscana che il marchese Azzo avea promesso al papa nel sinodo di rendere conto del suo matrimonio con Matilda sorella di Guglielmo vescovo di Pavia, e vedova del marchese Guido, diversa da Matilda la gran contessa e duchessa di Toscana. Secondo le mie conghietture, doveva essere premorta a questo principe la contessa Garsenda sua seconda moglie, ed egli volle prenderne la terza, cioè la suddetta Matilda [Antichità Estensi, P. I, cap. 4.]. Ma riputandosi eglino parenti, ne fu portata la denunzia a Roma. Fece il suo dovere il papa; ma non sappiamo qual fine avesse un tal affare. Certo è aver fallato alcuni scrittori della vita della gran contessa Matilda, in credere che di lei parlasse il papa in quella [361] lettera. Ora in esso concilio [Lambertus Schafnaburgensis, in Chronico.] fu pubblicata la deposizione de' preti concubinarii; decretato che niuno potesse ascendere agli ordini sacri, se non prometteva la continenza; e fulminata di nuovo con terribili anatemi la simonia. Portati in Germania questi decreti, gran rumore ne fece il clero dissoluto di quelle contrade; e pertinaci in voler sostenere l'inveterato abuso, eccitarono anche dei fieri tumulti contra di que' vescovi, che si accinsero a pubblicarli e a farli accettare. Parimente sappiamo che in questo concilio il pontefice Gregorio pubblicò la scomunica [Card. de Aragon., in Vit. Gregor. VII.] contra di Roberto Guiscardo duca di Puglia, non già, come suppose il cardinal Baronio, perchè egli dopo la presa di Salerno avesse portata la guerra contro la Campania, e messo l'assedio a Benevento, essendo più tardi succedute tali imprese. Vo io sospettando piuttosto, che citato Roberto Guiscardo a rinnovare il giuramento di fedeltà, e a prendere l'investitura de' suoi Stati, come aveano fatto i principi di Benevento e di Capoa, nè comparendo, si tirasse addosso le censure della Sede apostolica. In una lettera scritta a Beatrice e a Matilda nell'ottobre seguente, lo stesso papa Gregorio significa loro che Roberto prometteva di prestare il suddetto giuramento.

Era tornato il duca Roberto dopo la presa di Palermo, portando seco un gran tesoro in Puglia, alla città di Melfi [Guillelmus Apulus, lib. 3.], dove i baroni tutti concorsero a baciar quell'invitta mano e a congratularsi. Ma fra essi non comparve Pietro normanno, che dominava in Trani ed in altre terre, nè avea dianzi voluto condur le sue genti all'impresa di Palermo, spacciandosi indipendente dal duca. Ma Roberto non potea sofferire chi in quelle parti non piegava il capo ai suoi voleri, e nol riconosceva per padrone. Fece dunque l'assedio [362] di Trani, e l'obbligò alla resa [Chron. Amalfitan., tom. 1 Antiquit. Ital., pag. 213.]. L'esempio di questa città fu seguitato da Giovenazzo, da Bussiglia e da altre terre. Tuttavia fatto in una baruffa prigione esso Pietro, sperimentò che la magnanimità non era l'ultima delle virtù di Roberto, perchè riebbe la libertà, ed anche le sue terre, a riserva di Trani, con obbligo di riconoscerle in vassallaggio dal duca. Anche Ruggieri conte di Sicilia [Gaufridus Malaterra, lib. 3, cap. 7.], ansiosissimo di aggiugnere alle sue conquiste l'importante castello di san Giovanni, con fortificare un vicino castello, cominciò a strignerlo, ben persuaso, che l'acquisto di quella fortezza gli faciliterebbe quello del rimanente della Sicilia. Intanto i corsari tunesini sbarcati a Nicotera nella notte della vigilia di san Pietro, parte di quei cittadini uccisero, parte colle donne e coi figliuoli condussero schiavi. Era stato nell'anno precedente conferito il vescovato di Lucca ad Anselmo nipote del defunto papa Alessandro II, e di patria senza dubbio milanese, uomo di santa vita e di sì eminente prudenza, che papa Gregorio VII il deputò poscia per consigliere della contessa Matilda, e il dichiarò suo vicario in Lombardia. Merita ben questo illustre personaggio che se ne faccia menzione. Sua cura tosto fu di volere riformar gli abusi introdotti fra i canonici della cattedrale di Lucca, come s'ha dalla di lui vita [Acta Sanctorum Bolland., ad diem 18 mart.] scritta da un autore contemporaneo, cioè dal suo penitenziere: abusi che erano in questi tempi assai familiari anche nell'altre chiese d'Italia; ma per quante esortazioni e minacce adoperasse, nulla potè ottener da essi. A qual precipizio si conducessero quegli ecclesiastici per questo affare, lo vedremo a suo luogo. Credette il cardinal Baronio [Baron., Annal. Ecclesiast.] che in questo anno fossero eglino citati al concilio romano, ma ciò avvenne molto più tardi. [363] È anche degno d'osservazione, che stranamente prosperando i Turchi nell'imperio cristiano d'Oriente, Gregorio VII volle commuovere i principi e i re d'Occidente a formare un'armata da spedire colà per opporsi ai progressi di que' Barbari [Gregor. VII, lib. 2, Epist. 31 et 37.]; ma niun successo ebbero le di lui premure. Questa è la prima volta che si cominciò a parlar di crociate contro gl'infedeli d'Oriente. Scrisse ancora papa Gregorio delle lettere fulminanti contro Filippo re di Francia a cagione di molti suoi eccessi, fra' quali entrò quello d'aver estorte immense somme di danaro ai mercatanti italiani che trovò iti a una fiera di Francia. Durava tuttavia la pia frenesia di rubare i corpi de' santi, ansando tutti di aver presso di sè que' sacri depositi. In quest'anno appunto riuscì ai monaci della Vangadizza sull'Adigetto di rubare ai Vicentini il corpo di san Teobaldo romito, che già dicemmo morto nell'anno 1066. Portato il sacro pegno al loro monistero, siccome costa dalla storia della sua traslazione [Mabill., Saecul. Benedict. VI P. II.], fu esso onorato da Dio con assai miracoli, con essersi anche trovato ad essi presente il marchese Alberto Azzo II progenitore della casa d'Este. Contigit, illustrem virum Azonem marchionem, illius videlicet monasterii possessorem, advenire, et sicut ante gesta solo auditu, sic eadem visu cognoscere. Da lì a qualche tempo arrivò alla Vangadizza Rodolfo fratello del medesimo santo per ottenerne delle reliquie, e ne fece premurose istanze al marchese Azzo. Ma questi rispondea, se nolle tanti pretii thesauro regionem suam depauperare, et alienam ditare. Finalmente gliene concedette una parte. Nel diploma, con cui Arrigo IV nell'anno 1077 confermò gli Stati ad esso marchese Azzo, ed a Ugo e a Folco suoi figliuoli, siccome io altrove [Antichità Estensi, P. I, cap. 7.] osservai, si vede il monistero della Vangadizza, oggidì bella terra appellata la Badia, [364] posseduto allora dalla casa d'Este. Ma io non avvertii, che anche questo bel passo egregiamente compruova la verità d'esso diploma, perchè quel buon principe sommamente si rallegrò di avere ottenuto il sacro corpo di san Teobaldo, quod se suaeque ditionis populum in adventu beati et omni laude celebrandi, confessoris Teobaldi visitaverit. Ed ecco dove era allora il principal soggiorno del marchese Azzo estense. Le premure di papa Gregorio VII fecero che in quest'anno nel mese di settembre Domenico Silvio doge di Venezia e duca della Dalmazia fece un assegno di beni alla chiesa patriarcale di Grado. Il diploma, sottoscritto dai vescovi suffraganei, fu da me dato alla luce [Antiquit. Ital., Dissert, V.].


   
Anno di Cristo MLXXV. Indizione XIII.
Gregorio VII papa 3.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 20.

Un altro insigne concilio romano nel fine di febbraio fu in quest'anno celebrato da papa Gregorio VII [Concil. Labbe tom. 9.], in cui lo zelantissimo pontefice per la prima volta pubblicamente proibì sotto pena di scomunica le investiture de' vescovati e delle abbazie che i re davano agli ecclesiastici, con porgere loro il pastorale e l'anello. S'era da molti anni introdotta questa novità, e coll'essere divenuta dipendente dalla volontà dei sovrani temporali, che in que' tempi erano di coscienza guasta, la collazion delle chiese e dignità ecclesiastiche, s'era aperta una larga porta alla simonia. Infatti si conferivano queste dai re a chi le comperava colla lunga servitù alle corti, o colle adulazioni, e più sovente a chi più largamente offeriva regali e danaro. Venivano con ciò a cader bene spesso le chiese in mano di chi meno le meritava, restando neglette le persone degne. Furono anche in esso concilio confermati i decreti contra de' cherici concubinarii. [365] Di nuovo eziandio fu scomunicato Roberto Guiscardo, il quale in questi tempi tenea segrete pratiche col re Arrigo, e nello stesso tempo dava buone parole al papa di volersi suggettare a tutti i di lui voleri. Ora il decreto suddetto intorno alle investiture, siccome parea che sminuisse di troppo l'autorità già usurpata dai monarchi, così fu la scintilla che accese dipoi la funesta guerra fra il sacerdozio e l'imperio. Sulle prime non ne fece doglianza o risentimento alcuno il re Arrigo, perchè incerto dell'esito della guerra da lui impresa contra de' Sassoni; anzi scrivea lettere di tutta sommessione e buona volontà al papa. Appena ne uscì egli vittorioso, che cominciò i suoi strepiti contro la Sede apostolica. Mosse egli dunque nell'anno presente le sue armi contro i popoli della Sassonia e Turingia [Lambertus Schafnaburgensis, in Chr. Bertholdus Constatiens., in Chron.], dopo aver tanto operato colle lusinghe e promesse, che avea tirato nel suo partito i primi principi della Germania, cioè Ridolfo duca di Suevia, Guelfo duca di Baviera, Goffredo il Gobbo duca di Lorena, e Bertoldo duca di Carintia, i quali accorsero tutti colle lor genti a secondarlo in quell'impresa. Verso la metà di luglio seguì una sanguinosa battaglia fra l'esercito di Arrigo e quel de' Sassoni, e fu disputata un pezzo la vittoria; ma in fine andarono rotti i Sassoni, con essere nondimeno costato caro questo trionfo all'armata regale, in cui perì molta nobiltà, specialmente della Baviera e Suevia. Fama fu che restassero sul campo circa ventimila persone. Furono, siccome dissi, cagione questi fortunati successi che il re Arrigo, dianzi cotanto mansueto col romano pontefice, prendesse un'altr'aria, e cominciasse a farla da sprezzante, con ammetter anche alla sua corte e familiarità que' ministri che dianzi erano stati scomunicati dalla Sede apostolica. Intanto i Sassoni non lasciavano intentato mezzo alcuno per ottener pace e grazia dal re, il quale sempre più infellonito contra d'essi, e gonfio per [366] la passata fortuna, nulla meno macchinava che l'intera loro schiavitù e rovina. Però affine di esterminarli intimò una nuova spedizion contra di loro, ed era con lui Goffredo duca di Lorena con sì grosso corpo di gente scelta, che uguagliava il resto dell'esercito del re [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.]. Ma gli altri duchi, Radulfus scilicet dux Suevorum, Welf dux Bajoariorum, Bertholdus dux Carentinorum, regi auxilium suum petenti denegaverunt: poenitentes, ut ajebant, superiori expeditione in irritum fusi tanti sanguinis, offensi etiam regis immiti atque implacabili ingenio, cujus iracundiae incendium nec lacrymae Saxonum, nec inundantes campis Thuringiae rivi sanguinis restinguere potuissent. Ciò non ostante, s'interposero tanti per la pace, che i Sassoni s'arrenderono alla volontà del re, il quale cacciò in esilio la maggior parte dei lor capi e baroni, e trattò il resto alla peggio.

Succedette in quest'anno nel martedì santo, giorno 30 di marzo, un nuovo terribile incendio nella città di Milano, descritto da Arnolfo milanese [Arnuf., Hist. Mediolan., lib. 4. cap. 8.], scrittore di vista. E fu come cosa miracolosa, perchè insorto nell'aria un vapore che vomitava fiamme, attaccò il fuoco alle case che si erano salvate nel precedente incendio, e alle già rifabbricate: con divario nondimeno dall'altro, perchè questo distrusse più chiese, a fra l'altre le due basiliche metropolitane, cioè la mirabil estiva di santa Tecla, e l'invernale di santa Maria, con quelle di san Nazario e di santo Stefano. Il danno di quella città fu incredibile. Non ostante sì terribil disgrazia, Erlembaldo seguitava a far guerra al clero incontinente di quella città, ed impedì anche nell'anno presente il battesimo solenne che si solea fare in tutte le cattedrali nel sabbato santo. Irritati per questo i nobili, e guadagnata parte della plebe, vennero alle mani colla gente di Erlembaldo, ed egli in quella zuffa restò morto, e fu poi riguardato qual martire [367] e riconosciuto per santo, avendo anche Iddio con varii miracoli onorata la di lui sepoltura. Il Puricelli ne scrisse la vita. Dopo ciò il popolo di Milano, il quale, esaminati ben questi fatti, pare che già avesse assunta qualche forma di repubblica, ma con riconoscere tuttavia il comando e l'autorità del re Arrigo, unito col clero, spedì un'ambasciata al re medesimo per avere un arcivescovo [Idem, lib. 5, cap. 5.]. Giacchè egli era pentito di aver dato per arcivescovo ai Milanesi Goffredo, fu da lui eletto Tedaldo suddiacono milanese, che era suo cappellano, e il mandò a Milano, dove trovò buona accoglienza non men presso il clero, che presso il popolo, avido sempre di cose nuove. Si videro allora in un medesimo tempo, e non senza scandalo, tre arcivescovi di Milano, cioè Gotifredo consecrato, ma esiliato; Attone sostenuto e consecrato da papa Gregorio VII, e vivente in Roma, e Tedaldo ultimamente sopraeletto agli altri due. Fece quanto potè il papa per impedire la consecrazion di Tedaldo; ma i vescovi suffraganei attaccati al re Arrigo, ad onta di lui, il consecrarono. Corse in quest'anno un gran pericolo lo stesso pontefice Gregorio [Pandulfus Pisanus, et Cardinal. de Aragon., in Vit. Greg. VII. Lambertus Schafnaburg., in Chron.]. Aveva egli pubblicata la scomunica contra di Cencio figliuolo di Stefano già prefetto di Roma, ma non già, a mio credere, prefetto anche egli d'essa città, uomo prepotente sì per la sua dignità e nascita, come per le sue grandi ricchezze, usurpator de' beni delle chiese, ed amico del duca di Puglia Roberto Guiscardo. Istigato costui dalle segrete insinuazioni di Guiberto arcivescovo di Ravenna, che già aspirava al papato, allorchè papa Gregorio nella notte del santo Natale di questo, e non già del seguente anno, celebrava la messa a santa Maria Maggiore, entrato con gente armata, il prese, e staccatolo dal sacro altare, seco il trasse ad una sua [368] torre. Paolo benriedense [Paulus Benriedens., in Vit. S. Greg. VII P. I, tom. 3 Rer. Ital.] aggiunge che esso papa riportò una ferita in quella funesta occasione. Si sparse tosto per la città la nuova di tanta empietà, a cui tutti inorridirono; e il popolo romano, dato di piglio all'armi, fatto il giorno, in furia corse alla torre di Cencio, e quivi con fuoco, con catapulte e con altri ingegni di guerra cominciò a batterla sì forte, che Cencio prevedendo in breve la propria rovina, si gettò a' piedi del papa, implorando, non che misericordia, aiuto per salvarsi. Allora il clementissimo pontefice affacciatosi ad una finestra, fece fermar gli assalti e l'ira del popolo; e tratto dalla torre, se ne tornò fra le acclamazioni di tutti a terminar la messa a santa Maria Maggiore; segno o che non era ferito, o che la ferita dovette essere ben leggera.

Furono poi dal popolo devastati e confiscati tutti i beni dell'empio insieme e pazzo Cencio che ebbe la fortuna di poter fuggire colla moglie e co' figliuoli. Gli aveva il papa imposto la penitenza di fare il viaggio di Gerusalemme. Arnolfo milanese [Arnulf. Hist. Mediolanens., lib. 5, cap. 6.], scrittore di questi tempi, ci assicura, non essere passato l'anno, che costui morì soffocato da un'ulcera nella gola. Lo attesta anche Bertoldo da Costanza [Berthold. Constantiensis in Chron.], con dire che Cencio nei primi mesi dell'anno 1077 andò a Pavia menando prigione Rainaldo vescovo di Como, per essere ricompensato dal re Arrigo, e che quivi morendo all'improvviso, trovò quel guiderdone che meritavano le di lui scelleratezze. Approdarono inaspettatamente in quest'anno i Mori in Sicilia alla città di Mazzara [Gaufrid. Malaterra lib. 3, cap. 9.], e trovando i cittadini mal preparati a questa visita, entrarono per forza nella città. Posero anche l'assedio al castello situato nella pianura della città e vi stettero sotto ben otto giorni. Informato di [369] ciò il conte Ruggieri, entrò di notte con uno stuolo d'armati in esso castello, e la seguente mattina uscì addosso ai nemici. Moltissimi di coloro restarono sul campo, gli altri incalzati, come poterono il meglio, si salvarono alle navi. Se si ha a prestar fede agli Annali pisani [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.], nella festa di san Sisto di agosto dell'anno presente presero i Pisani la città di Almadia, ed obbligarono Firmino re d'essa a pagar tributo da lì innanzi a Pisa, et coronam romano imperatori assignaverunt. Possiam fidarci poco d'essi Annali, ne' quali all'anno 1077 si torna a dire che i Pisani presero Almadia in Africa, e ciò parimente nel dì di S. Sisto. Ed altri Annali pisani riferiscono questo fatto all'anno 1088, dove ne tornerò io a parlare. Trovavasi nell'anno presente Beatrice duchessa di Toscana in San Cesario, distretto di Modena, dove nel dì 8 di giugno [Antiquit. Italic., Dissert. V.] compose una differenza insorta fra Eriberto vescovo di Modena ed Alberto di Bazovara per la canonica di Cittanuova. Leggesi parimente un placito tenuto da essa Beatrice [Ibid., Dissert. XVII.], appellata gloriosissima comitissa, e da Matilda sua figliuola in civitate Florentia in via prope ecclesia sancti Salvatoris juxta palatio de domni sancti Battista, anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi septuagesimo quinto post mille, nonas martii, Indictione tertiadecima. Qui è l'anno fiorentino. Se s'ha da credere alla Cronichetta amalfitana [Chron. Amalfitan., tom. 1. Antiq. Ital., pag. 214.], nell'anno presente Roberto Guiscardo s'impadronì della città di santa Severina in Calabria.


   
Anno di Cristo MLXXVI. Indizione XIV.
Gregorio VII papa 4.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 21.

Fu sopra gli altri funesto l'anno presente, perchè principio dell'abbominevol [370] guerra fra il sacerdozio e l'imperio. Fin qui avea il pontefice Gregorio usate tutte le maniere più efficaci, ma insieme dolci, per impedir la rottura, saldo nondimeno in voler abolita l'empia usanza di vendere i vescovati, ed eseguito il decreto formato contra le investiture delle chiese date dai principi laici. Ma il re Arrigo, insuperbito per li buoni successi della guerra di Sassonia, più che mai continuava il commercio simoniaco, e comunicava cogli scomunicati dalla santa Sede. In una lettera scritta il dì 8 di gennaio dell'anno presente [Gregor. VII, lib. 1, Epist. 10.], con esso lui si doleva il papa, perchè avesse dato contro le promesse l'arcivescovato di Milano a Tedaldo, ed inoltre conferite le chiese di Fermo e di Spoleti a persone incognite al medesimo papa: segno che il ducato di Spoleti e la marca, appellata già di Camerino e talvolta di Fermo o d'Ancona, erano ritornati, dopo la morte di Goffredo Barbato duca di Lorena e Toscana, all'ubbidienza del re Arrigo. Ora il pontefice Gregorio, siccome personaggio di cuore intrepido, non mancò di scrivergli delle lettere più vigorose delle passate, e di avvertirlo, che s'egli non mutava registro, sarebbe forzata la santa Sede ad escluderlo dalla comunion de' fedeli. A questo fine gl'inviò nuovamente dei legati, che furono accolti con disprezzo. Fece l'infuriato re tenere una gran dieta in Vormazia nella domenica di settuagesima, dove intervennero tutti i vescovi ed abbati mal intenzionati verso il papa. Sopraggiunse ancora Ugone il Bianco cardinale, che di nuovo ribellatosi dalla Chiesa romana, comparve colà con lettere finte del senato romano, de' cardinali e d'altri vescovi, che richiedevano la deposizion di Gregorio VII e l'elezione di un nuovo papa. Di più non occorse, perchè il re Arrigo in essa dieta coi vescovi suddetti formassero un decreto, in cui dichiararono illegittimo pontefice e scomunicato [371] papa Gregorio. Dopo di che [Bertholdus Constantiensis, in Chron.] spedì Arrigo i suoi messi con lettere in Lombardia e nella marca di Fermo per significare a tutti la risoluzion presa, e per sommuovere ciascuno contra di lui. Fu eziandio data ad un Rolando cherico di Parma l'imcumbenza di portare alla Chiesa romana una lettera fulminante e un ordine spedito in qualità di patrizio a papa Gregorio di scendere dal trono pontifizio, per dar luogo all'elezione di un altro papa. Arrivò questo Rolando a Roma in tempo che si celebrava un concilio numeroso nella basilica lateranense [Paulus Benriedens., in Vit. Gregor. VII, cap. 69.], ed entrato nella sacra assemblea arditamente, dopo aver presentate al papa le lettere, con alta voce gl'intimò di lasciare in quel punto la cattedra pontificia, e al clero romano di portarsi per la Pentecoste alla corte, per ricevere dalle mani del re un vero papa, perchè il presente era un lupo. Alzossi allora Giovanni vescovo di Porto, gridando che fosse preso quel temeriario; e il prefetto di Roma colla milizia, sguainate le spade, corsero sopra di lui per levarlo di vita; e l'avrebbono fatto, se, interpostosi il papa, non lo avesse salvato dalle loro mani. Ventilata dipoi nel concilio la causa, ed animato il pontefice dall'assistenza della duchessa Beatrice e della contessa Matilde, che stendevano la lor possanza sopra buona parte d'Italia, e dalla disposizione in cui sapea che erano i più riguardevoli principi della Germania, dichiarò scomunicato e decaduto dal regno Arrigo IV, con assolvere tutti i di lui sudditi dal giuramento di fedeltà: risoluzione che, quantunque non praticata da alcuno de' suoi predecessori, pure fu creduta giusta e necessaria in questa congiuntura.

Morì nell'anno presente sul fine di febbraio, e di morte violenta, Gozelone ossia Goffredo il Gobbo, duca di Lorena e Toscana, da noi veduto marito della contessa [372] Matilde [Lambertus Schafnaburgensis, in Chronico. Bertholdus Constantiensis, in Chronico. Bruno, de Bell. Saxon.]. Ito egli una notte al luogo adattato pei bisogni del corpo, che dovea ben essere fabbricato alla balorda, da un uomo che stava in agguato (fu detto per ordine di Roberto conte di Fiandra) di sotto con una freccia fu sì mortalmente ferito nelle natiche, che, secondo Lamberto, da lì a sette giorni, o, secondo Bertoldo, la stessa notte gli convenne morire, ed anche senza i sacramenti, se si ha a credere a Brunone scrittor della guerra di Sassonia. Per la sua bravura e prudenza vien lodato non poco da esso Lamberto. Fu gran partigiano del re Arrigo IV, e però sospetto e poco caro a papa Gregorio VII, e a Beatrice e Matilde. Ma potea ben risparmiare il Fiorentini [Fiorentini, Memorie di Matilde, lib. 1.] di farlo anche autore della nera congiura ed insolenza di Cencio romano contra la sacra persona di papa Gregorio, perchè nessun giusto fondamento di questa taccia a noi porge l'antica storia. Essendo egli morto senza prole, Arrigo investì del ducato della Lorena Corrado suo proprio figliuolo, e diede la marca d'Anversa a Gotifredo figliuolo del conte Eustachio, e cugino del defunto Gotifredo, il quale col tempo divenne re di Gerusalemme. Restò con ciò senza marito la contessa Matilde, e non andò molto ch'ella si vide tolta anche la madre. Terminò il corso di sua vita la duchessa Beatrice nel dì 18 di aprile nella città di Pisa, come consta dai versi di Donizone [Donizo, in Vit. Mathildis, lib. 1, cap. 20.]:

Octo decemque dies aprilis dum sinit ire

Christi post ortum vera de Virgine corpus

Anno milleno bis terno septuageno.

Principessa di gran pietà, di egual prudenza e d'animo virile, che si tenne sempre attaccata alla santa Sede, ma senza perdere il rispetto al re Arrigo, anzi con essere mediatrice di concordia [373] e pace fra lui e il pontefice Gregorio. La maggior gloria nondimeno di Beatrice fu l'aver messa al mondo, e mirabilmente educata in tutte le virtù e nella cognizion delle varie lingue, la contessa Matilde, la quale rimasta sola al governo della Toscana e degli altri aviti suoi Stati, cominciò a far conoscere i suoi rari pregi nelle fiere rivoluzioni che andrò da qui innanzi accennando. Nè si dee tacere che il monaco Donizone s'adirò contra di Pisa, perchè quivi, e non in Canossa, fu seppellita la duchessa Beatrice. I suoi versi ci faran conoscere conoscere, come allora fosse mercantile la città di Pisa [Donizo, in Vit. Mathildis, lib. 1, cap. 20.]:

..... Dolor heic me funditus urit,

Quum tenet urbs illam, qua non est tam bene digna.

Qui pergit Pisas, videt illic monstra marina,

Haec urbs Paganis, Turchis, Libycis quoque,

Parthis,

Sordida. Chaldaei sua lustrunt littora tetri.

Sordibus a cunctis sum munda Canossa, sepulcri

Atque locus pulcher mecum. Non expedit urbes

Quaerere perjuras, patrantes crimina plura.

Che voglia dire con queste ultime parole Donizone, non si può ben intendere. Ma ben si capisce che Pisa era in questi tempi un famoso emporio e porto franco, dove erano ammessi gl'infedeli orientali ed africani: il che parve a Donizone un'indegnità, e perciò più meritevole la sua patria Canossa, per cagione della sua purità in materia di religione.

Le determinazioni prese in Roma contro del re Arrigo, quelle furono che finirono di determinare i primi principi della Germania a ritirarsi dal re Arrigo scomunicato, e a seriamente divisare dei mezzi di rimettere la quiete in quelle contrade [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron. Berthold. Constant., in Chron.]. E giacchè vedeano più che mai ostinato il re nelle sue violenze e in altri vizii, passarono a liberar sè stessi e i popoli da un principe nato solamente per rendere infelici i suoi sudditi. I primarii dunque che l'abbandonarono, furono [374] Ridolfo duca di Suevia, Bertoldo duca di Carintia e Guelfo duca di Baviera, il cui padre, cioè il marchese Alberto Azzo II, signore d'Este, di Rovigo e di altri Stati in Italia, parzialissimo fu sempre anch'egli della santa Sede, e dovea ben promuovere gl'interessi d'essa presso il figliuolo duca. Andò a dismisura crescendo il loro partito, e v'entrarono moltissimi vescovi. In una dieta da essi tenuta in Tribuna dopo la metà d'ottobre, dove intervennero anche i legati della santa Sede, fu progettato di creare un nuovo re. Arrigo venuto alla villa di Oppeneim, fra cui e Tribuna scorreva il Reno, affine di schivar l'imminente nembo, spediva di tanto in tanto legati, con promettere emendazion di vita, soddisfazioni, benefizii; e perchè niun si fidava di un principe che tante volte avea mancato alle promesse, e venivano rigettate le di lui belle parole, non lasciò egli indietro sommissione e preghiera alcuna per placarli. Finalmente gli fu accordato del tempo, e conchiuso che al romano pontefice sarebbe rimesso questo affare, e che esso papa sarebbe pregato di trovarsi in Augusta per la Purificazione di santa Maria; ed esaminate le ragioni dell'una e dell'altra parte, si starebbe al giudicato di sua Santità, con altre condizioni da eseguirsi al presente, che io tralascio. Non così fecero i più dei vescovi di Lombardia [Cardin. de Aragon., Vit. Greg. VII.]. Erano stati eglino scomunicati insieme con Guiberto arcivescovo di Ravenna nell'ultimo concilio romano, e da papa Gregorio. Però esso Guiberto, e Tedaldo arcivescovo di Milano con altri vescovi scismatici, raunato un conciliabulo in Pavia, scomunicarono anch'essi lo stesso papa Gregorio. Questo partito a sè favorevole in Italia fece risolvere il re Arrigo di non aspettare in Germania la venuta del pontefice romano, ma di portarsi egli a dirittura ad implorare la di lui misericordia di qua dall'Alpi. E tanto più credette migliore questo spediente, perchè temeva di soccombere nella dieta [375] germanica alla folla di tanti accusatori delle sue enormità, delle quali ben sapeva di non avere scusa; e che gli riuscirebbe più facile lungi da tanti suoi avversarii di guadagnare il romano pontefice. Ma perciocchè i duchi di Baviera, Suevia e Carintia aveano chiuso con gente armata i passi per i quali si cala in Italia, egli colla moglie Berta e col piccolo figliuolo Corrado, accompagnato da pochi, prese il cammino della Borgogna [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.], e celebrò il santo Natale in Besanzone. Continuando poscia il viaggio, quum in locum, qui Civis dicitur, venisset, obviam habuit socrum suam (cioè Adelaide marchesana di Susa) filiumque ejus Amedeum nomine, quorum in illis regionibus et autoritas clarissima et possessiones amplissimae, et nomen celeberrimum erat. Non saprei dire se qui si parli della terra di Civasco. Fu onorevolmente ricevuto da essi Arrigo IV; ma se volle continuare il viaggio, gli convenne conceder loro cinque vescovati d'Italia contigui ai loro Stati: senza di che non voleano lasciarlo passare. Parve ciò duro al re, ma i suoi interessi più premurosi il fecero cedere a tali istanze. Il Guichenone [Guichenon, de la Maison de Savoye, tom. 1.] pretende che questi vescovati fossero in Borgogna, e forse il Bugey. Ma Lamberto chiaramente scrive quinque Italiae episcopatus. Talmente era in questi tempi cresciuta la fama e potenza di Roberto Guiscardo duca di Puglia, Calabria e Sicilia, che Michele Duca imperadore d'Oriente concertò di avere una di lui figliuola per moglie di Costantino Duca Porfirogenito Augusto suo figliuolo e collega nell'imperio. Giovanni Zonara attesta [Zonaras, Annal., tom. 2, pag. 288. Guillelm. Apulus, cap. 3. Malaterra, lib. 3, cap. 13.] che la figliuola fu condotta a Costantinopoli, e, secondo l'uso de' Greci, le fu posto il nome di Elena. Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chron.] nota anch'egli sotto l'anno presente le suddette nozze. Ed aggiugne che Ruggieri conte di Sicilia e [376] fratello d'esso Roberto fece prigione un nipote del re d'Africa, che era venuto in Sicilia a Mazzara comandante di cento cinquanta legni. Ma questa sarà l'impresa medesima che il Malaterra [Malaterra, lib. 3, cap. 10.] mette sotto l'anno precedente, e, per conseguente, potrebbe anche essere accaduto il matrimonio nobilissimo della figliuola di Roberto Guiscardo in esso anno. Resto io in dubbio se in questi tempi il medesimo Roberto facesse l'impresa di Salerno, come vuole Romoaldo salernitano [Romualdus Salernitanus, Chron., tom. 7. Rer. Ital. Malaterra, lib. 3, cap. 10.], oppure nel seguente, dove ne parleremo. In Sicilia avea lasciato esso conte Ruggieri per suo luogotenente Ugo di Gircea, marito di una sua figliuola bastarda. Questi, voglioso di segnalarsi con qualche bella impresa, benchè ne avesse un divieto dal conte, insieme con Giordano, figliuolo anch'esso illegittimo d'esso Ruggieri, diede addosso a Benavert saraceno governatore di Siracusa. Ma caduto in una imboscata, vi lasciò la vita co' suoi, e Giordano appena si salvò con pochi. Affrettò per questa disavventura il conte Ruggieri il suo ritorno in Sicilia, e fece per allora quella vendetta che potè, con dare il sacco a qualche castello e paese de' Mori vicini.


   
Anno di Cristo MLXXVII. Indizione XV.
Gregorio VII papa 5.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 22.

Secondo il concerto, s'era messo in viaggio il pontefice Gregorio con disegno d'andare alla dieta già intimata da tenersi in Augusta nel principio di febbraio di quest'anno [Lambert. Schafnaburgensis, in Chronico. Cardinal. de Arag., in Vita Gregorii VII.]. Uno dei più atroci verni che mai sieno stati, si provava allora in Lombardia. Contuttociò l'animoso pontefice si mise in viaggio, e, scortato dalla contessa Matilde, arrivò fino a Vercelli: [377] quando eccoti nuova che il re Arrigo era giunto in Piemonte. Infatti dopo incredibili patimenti aveva egli valicate le Alpi piene di ghiacci e nevi, e corso più volte pericolo della vita colla moglie e col figliuolo; ma per timore che passasse l'anno dopo la scomunica contra di lui fulminata, egli si espose ad ogni rischio e fatica, tantochè pervenne in Italia. Sparsasi la fama del suo arrivo, corsero a visitarlo ed onorarlo i vescovi simoniaci di Lombardia e i conti; ed in breve si vide alla sua corte un conflusso innumerabil di gente. Ora non sapendo il papa se Arrigo venisse o con buona o con cattiva intenzione, tenuto consiglio, giudicò bene di retrocedere e di ritirarsi colla contessa Matilda alla di lui inespugnabil rocca di Canossa sul Reggiano. Colà comparvero molti vescovi e laici di Germania, venuti per disastrose ed inusitate strade a chieder l'assoluzion della scomunica, e dopo qualche giorno di penitenza l'ottennero. Vi comparve ancor il re Arrigo, e fatta chiamar la contessa Matilde ad un abboccamento, eam precibus ac promissionibus oneratam ad papam transmisit, et cum ea socrum suam (Adelaide marchesana di Susa) filiumque ejus (Amedeo) Azzonem etiam marchionem (dal quale abbiam detto che discende la real casa di Brunswich e la ducale d'Este) et abbatem cluniacensem (Ugo), et alios nonnullos ex primis Italiae Principibus, quorum auctoritatem magni apud eum momenti esse non ambigebat, obsecrans, ut excomunicatione absolveretur, ne principibus teutonicis, qui ad accusandum eum stimulo invidiae magis quam zelo justitiae exarsissent, temere fides haberetur. Somma fatica si durò da tutti per muovere il papa a commiserazione ed accordo. Lasciossi in fine piegare, purchè Arrigo deponesse le regali insegne, e desse veri segni di pentimento. Seguì pertanto quella scena, che fece allora e dipoi grande strepito, e farallo anche nei secoli avvenire: cioè fu ammesso Arrigo entro la seconda cinta di muro di quella [378] rocca, che tre ne avea. Quivi accompagnato da tutti, senza alcun segno dell'esser suo di re, con veste di lana, co' piè nudi, mentre un eccessivo freddo regnava sopra la terra, restò un giorno, e poi l'altro, ed anche il terzo, con farlo ivi digiunare sino alla sera. Tempo viene talvolta che la superbia, primo mobile dei regnanti, cede il trono all'interesse. Dopo i tre dì, e come scrive Donizone [Donizo, in Vita Mathild., lib. 2, cap. 1.]:

Ante dies septem, quam finem Janus haberet,

Ante suam faciem concessit papa venire

Regem, cum plantis nudis a frigore captis.

Cioè nel dì 25 di gennaio diede il papa udienza ad Arrigo, che prostrato a' suoi piedi, dimandò misericordia de' suoi falli. Celebrò il pontefice la messa, e presa la sacra ostia nelle mani, perchè i suoi nemici lo spacciavano per simoniacamente asceso al papato, si purgò da questa calunnia. Esibì ad Arrigo di fare altrettanto, s'egli si credeva innocente, e non reo di tante accuse prodotte contra di lui. Ma egli con varie scuse se ne guardò. Fu poscia al pranzo col pontefice, il quale lo avea ben assoluto della scomunica, ma con lasciare in sospeso l'affare del regno, e rimettere ai principi germanici e ad una dieta il decidere s'egli dovesse deporre la corona, oppure ritenerla. Dopo ciò il papa venne a Reggio, dove si trovava Guiberto arcivescovo di Ravenna, il più maligno degli avversarii del papa, con gli altri vescovi simoniaci, aspettando il compimento delle promesse di Arrigo.

Convien ora sapere, essersi appena inteso in Lombardia come era passato il congresso del re col papa in Canossa [Lambertus Schafnaburgensis, in Chron.], che infinite mormorazioni ed insolenze si sparsero non men contra dello stesso pontefice, trattandolo da tiranno, da omicida, da simoniaco, quanto contra d'Arrigo, perchè sì vilmente si fosse suggettato ad un sì indegno trattamento. Fu proposto di creare Corrado figliuolo di [379] Arrigo, benchè di tenera età, re: tutti fuggivano, o vilipendevano Arrigo, e le città gli serravano le porte in faccia. Ora tra per questo, e perchè non già di buon cuore, ma per necessità de' suoi affari, egli avea fatta quella concordia col papa, se ne pentì egli ben presto. Gli stava a' fianchi il suddetto Guiberto con altri vescovi scomunicati, a' quali non fu difficile il fargli ritrattare il fatto, e ricominciar lo sprezzo delle condizioni già accettate, e la nemicizia col papa. In questa maniera ricuperò Arrigo a poco a poco la buona grazia de' vescovi e dei popoli della Lombardia [Paulus Benried., in Vita Greg. VII, c. 86.]. Ma non potè ottenere dal papa la licenza d'essere coronato re d'Italia colla corona ferrea in Monza. Riassunse nondimeno le insegne di re, benchè si fosse obbligato col papa di vivere in maniera privata, finchè in Germania fosse decisa la di lui causa. Un suo diploma da me pubblicato [Antiquit. Italic., Dissert. XXXI, pag. 948.] cel fa vedere in Pavia nel dì 3 d'aprile dell'anno presente. Se s'ha a credere a Donizone [Donizo, lib. 2, cap. 1.], egli tentò ancora di tirare il papa ad una conferenza, con disegno di prenderlo. Ma avvertitane la contessa Matilde, fece sventare la mina e condusse il papa alle montagne. Fece Arrigo prendere anche Geraldo vescovo d'Ostia, mandato dal papa per suo legato a Milano. Di tutto questo andò avviso in Germania. Non volle poi Arrigo portarsi alla dieta intimata a Forcheim, come avea data parola. Vi si trovarono bensì i legati del papa, e quivi i duchi Ridolfo, Guelfo e Bertoldo, gli arcivescovi di Magonza e di Maddeburgo, e i vescovi di Virtzburg, di Metz e di altre chiese, i quali trattarono della maniera di restituir la pace, come essi credevano, o almen desideravano, alla Germania; e fu risoluto di creare un nuovo re [Bruno, Histor., Bell. Saxon.]. Fu dunque eletto Ridolfo duca di Suevia, tuttochè egli resistesse un pezzo [380] ad accettar questa pericolosa dignità. A buon conto nello stesso giorno della sua consecrazione, che fu il dì 26 di marzo dell'anno presente [Bertholdus, Constantiensis, in Chron.], si sollevò contra di lui una sedizione in Magonza. Quel che è più strano, apparisce dalle lettere di papa Gregorio [Gregor. VII, lib. 4, Epistol. 23, 24, 28.] che esso pontefice non approvò l'elezion di Ridolfo, e si riserbò la conoscenza di tal causa, per decidere a chi de' due contendenti fosse dovuta la corona; del che poi fece gravi doglianze la fazione d'esso Ridolfo, scrivendone al medesimo papa. Ricorse in questi tempi Arrigo al medesimo pontefice, implorando il suo aiuto contra di Ridolfo usurpatore della corona. Ebbe per risposta, che non si potea soddisfarlo, mentre esso Arrigo teneva tuttavia prigione s. Pietro nel suo legato Geraldo, il quale poi diede fine alle sue miserie, chiamato da Dio a miglior vita sul principio di dicembre dell'anno presente. Ora il pontefice, dopo essersi fermato per tutto giugno in Bibianello, Carpineto e Carpi, terre del Reggiano, allora della contessa Matilde, e in Figheruolo sul Po; chiarito abbastanza che l'animo di Arrigo, lungi dall'essersi mutato, era disposto a far peggio, s'incamminò per la Toscana alla volta di Roma. Il re Arrigo anch'egli seppe trovar via di penetrare in Germania, dove raunato un picciolo esercito, cominciò la guerra contra del nuovo re Ridolfo [Bertholdus, Constantiensis, in Chron.]. Morì nel dì 14 di dicembre in quest'anno l'imperadrice Agnese sua madre in Roma, lasciando dopo di sè il concetto di molta pietà e prudenza. Mancarono anche in questo anno di vita Sigeardo patriarca d'Aquileia (a cui fu surrogato Arrigo canonico d'Augusta) ed Imbricone vescovo d'Augusta, fautore di Arrigo. Ma quel che dovette far più rumore, fu la morte di Gregorio vescovo di Vercelli, cancelliere in Italia d'esso re. Aveva egli intimata una dieta del regno da tenersi ne' prati [381] di Roncaglia circa il dì primo di maggio dell'anno avvenire, con disegno, se mai potea, di deporre il papa; ma una morte improvvisa prima di quel dì troncò le sue trame, e senza lasciargli tempo di penitenza.

Secondo Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chron.], in quest'anno Roberto Guiscardo duca di Puglia fece l'acquisto importante della città e del principato di Salerno. Ma per conto dell'anno è da maravigliarsi come cotanto discordino fra loro gli scrittori. L'anonimo casinense [Anonymus Casinens., in Chron.] accenna questo fatto all'anno 1075; Romoaldo salernitano [Romualdus Salernit., in Chron.] all'anno 1076. Quantunque io non vegga stabili nella lor cronologia questi autori, forse per difetto de' loro testi alterati dai copisti, pure stimo più verisimile che all'anno presente s'abbiano da riferir tali avvenimenti, per le ragioni che andremo adducendo. Erano in questi tempi gli Amalfitani sotto Gisolfo principe di Salerno [Guillelmus Apulus, lib. 3.], ed aggravati da lui oltre il dovere e costume con dei tributi. Ricorsero essi a Roberto Guiscardo, che a bocca aperta stava aspettando l'opportunità e uno specioso pretesto per insignorirsi di quel nobile paese. Avendo egli presa ben volentieri la lor protezione, fece con ambasciata sapere a Gisolfo suo cognato che trattasse più umanamente quel popolo. Sdegnosamente gli rispose Gisolfo. Allora Roberto, che avea delle nimicizie con Riccardo I principe di Capoa, stabilì con esso lui pace, e fra le condizioni gl'impose di aiutarlo nell'impresa di Salerno. Infatti amendue colle lor forze e colle macchine militari posero l'assedio a Salerno per terra e per mare. Abbiamo da Pietro diacono [Petrus Diaconus, Chron. Casin., tom. 3, cap. 45.] continuator dell'Ostiense, che presentita questa guerra papa Gregorio, che amava non poco Gisolfo, gli spedì Desiderio abbate di Monte Casino per esortarlo a [382] trattar di pace; ma che Gisolfo neppur gli volle dare risposta. Dappoichè fu intrapreso l'assedio, tornò l'abbate casinense, e fatto abboccar Riccardo principe di Capoa con Gisolfo, gli consigliarono tutti di venire a concordia col duca Roberto. Egli più che mai pertinace nulla si curò del loro parere. Crebbe la fame nell'assediata città a tal segno, che il povero popolo si ridusse a cibarsi delle carni più immonde; e non potendo più reggere, aprirono le porte ai Normanni octavi tempore mensis. Ritirossi il principe Gisolfo nella torre o rocca fortissima, fabbricata sulla cima del monte. Stretto ancor ivi, finalmente fu forzato a rendersi a patti di buona guerra, ed ebbe la libertà d'andarsene. Soggiunge Pietro diacono che papa Gregorio il fece governatore della Campania. Dopo la presa di questa città, ch'era allora delle più belle e deliziose d'Italia, e celebre spezialmente per la scuola della medicina, colà per questo concorrendo anche gli oltramontani bisognosi di guarigione, il duce Roberto vi fece fabbricar nella pianura un castello inespugnabile. Anche nella Cronichetta amalfitana [Antiquit. Ital., tom. 1, pag. 214.] l'acquisto di Salerno è attribuito all'anno presente. Diedesi ad esso duca anche Amalfi, città allora mercantile al sommo, piena d'oro, piena di popolo e di navi. Di essa così scrive Guglielmo pugliese [Guillelmus Apulus, lib. 3.]:

Huc et Alexandri diversa feruntur ab urbe

Regis et Antiochi. Haec (ratibus) freta plurima transit.

Hic (an heic?) Arabes, Indi, Siculi noscuntur et Afri:

Haec gens est totum prope nobilitata per orbem,

Et mercanda ferens, et amans mercata referre.

Gaufredo Malaterra [Gaufridus Malaterra, lib. 3, cap. 3.] aggiugne che nel tempo medesimo dell'assedio di Salerno il duca Roberto entrò in possesso d'Amalfi, ed ebbe al suo servigio parte degli stessi Amalfitani contra di Salerno. Meritano ben più fede tali autori, che la [383] Cronichetta amalfitana, in cui all'anno 1074 è riferita la presa di Amalfi, con dirsi ivi ancora, che essendo morto Sergio duca di quella città, gli succedette Giovanni suo figlio, ma per poco tempo, perchè ne fu spogliato da Roberto Guiscardo.

Abbiamo ancora dal suddetto Malaterra che in quest'anno il conte Ruggieri assediò per mare e per terra in Sicilia la città di Trapani, e la forzò alla resa. Veggonsi varii atti di Arrigo IV e dei suoi ministri, prima ch'egli tornasse in Germania. Cioè confermò egli al monistero di san Salvatore di Pavia i suoi beni [Bullar. Casinense, tom. 2, Constit. CXIV.], III nonas aprilis anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi MLXXVII, Indictione XV, anno autem ordinationis quidem domni Henrici quarti regis XXVI, regni vero XXIV. Actum Papiae. Trovavasi egli in Piacenza XIII kalendas martii, dove tenne un placito [Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1, Append.], e giudicò in favore di quella cattedrale. Probabile è ancora che appartenga a quest'anno il diploma da me dato alla luce [Antichità Estensi, P. I, cap. 7.], in cui conferma Ugoni et Fulchoni germanis, Aczonis marchionis filiis, cioè del marchese Azzo II progenitore dei principi estensi, i loro Stati posti nei contadi di Gavello, Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Cremona, Parma, Lunigiana, Arezzo, Lucca, Pisa, Piacenza, Modena e Tortona; fra' quali specialmente vengono annoverati Este, Rovigo, Montagnana, Casal Maggiore del Cremonese, Pontremoli della Lunigiana, e la terra Obertenga in Toscana, de' quali Stati ho io abbastanza favellato nelle Antichità estensi. Tre placiti ancora tenuti dai suoi ministri in Verona e in Padova si trovano da me pubblicati nelle Antichità italiche [Antiquit. Ital., Dissert. IX et XXXI.]. Ma quel che è più glorioso per la nobilissima casa d'Este, in quest'anno (s'io ben mi appongo) Roberto Guiscardo duca, dopo aver maritata, come già accennammo, una figliuola nell'imperador [384] d'Oriente, un'altra ne diede ad Ugo figliuolo del sopraddetto marchese Azzo. Ne fa menzione Guglielmo pugliese [Guillelmus Apulus, lib. 3 Poemat.] con dire che dopo la presa di Salerno venne il duca alla città di Troia, e che fermatosi ivi,

Nobilis advenit lombardus Marchio quidam,

Nobilibus patriae multis comitantibus illum;

Axo vocatus erat. Secum deduxit Hugonem

Illustrem natum. Ducis ut filia detur

Exigit, in sponsam. Comites, proceresque vocari

Quoque facit super his dux consulturus ab urbe.

Horum consiliis Roberti filia nato

Traditur Axonis, ec.

Poscia aggiugne che si fecero di gran feste e conviti per quelle nozze, e che Roberto sollecitò tutti i suoi baroni a regalar gli sposi: il che non essendo stato praticato nelle nozze della precedente figliuola, rattristò quei nobili. Tuttavia contribuirono tutti, e molto più fece egli.

Iis generum donans, addens sua, classe parata

Ad sua cum magno, patremque remisit honore.

In qual credito fosse allora la casa di Este, si può abbastanza dedurre anche da questo. Cessò di vivere nel novembre di quest'anno Landolfo VI principe di Benevento [Chronic. S. Sophiae apud Peregrinium.]; laonde Roberto Guiscardo duca, voglioso anche di questa conquista, si portò all'assedio di quella città. Se poi meritano fede gl'imbrogliati Annali pisani [Annali Pisani, tom. 6 Rer. Ital.], quel popolo unito co' Genovesi, passato in Africa, vi prese duas magnificas civitates Almadiam et Sibiliam in die sancti Sixti. Io so bene che una Siviglia è in Ispagna. Che un'altra ne fosse in Africa, non l'ho per anche letto. Il Tronci [Tronci, Annali Pisani.] ne parla all'anno 1087, e dice che presero le città di Damiato e di Libia: tutte notizie che mancano di sicuri fondamenti. Veggasi l'anno 1088, al quale si dee riferire sì fatta impresa.

[385]


   
Anno di Cristo MLXXVIII. Indizione I.
Gregorio VII papa 6.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 23.

Tanto il re Arrigo quanto il nuovo re Ridolfo si studiavano di aver favorevole nella loro terribil gara il romano pontefice, e a questo fine gli spedirono i loro legati [Paulus Benriedens., in Vit. Greg. VII.]. Papa Gregorio perciò tenne un concilio in Roma nella prima settimana di quaresima, dove essendo concorsi circa cento tra arcivescovi e vescovi, fu stabilito di spedire in Germania i legati apostolici per conoscere da qual parte fosse la ragione e il torto. Quivi furono ancora di nuovo scomunicati Tedaldo, appellato da alcuni Tebaldo, arcivescovo di Milano, Guiberto arcivescovo di Ravenna, Ugo Bianco cardinale ribello della Chiesa romana, con altri vescovi. Degno di osservazione si è ciò che seguitano a dire quegli Atti [Concilior. Labbe, tom. 10.]: Excommunicamus omnes Northmannos, qui invadere terram sancti Petri laborant, videlicet marchiam firmanam, ducatum spoletanum, et eos, qui Beneventum obsident, et qui invadere et depraedari nituntur Campaniam, et maritima, atque Sabinos, necnon et qui tentant urbem romanam confundere. Di qui può apparire che la marca di Fermo, ossia di Camerino o d'Ancona, il ducato di Spoleti, erano o posseduti dalla Chiesa romana, o almen pretesi di sua ragione dal papa: il che, come fosse succeduto, non l'ho potuto finora conoscere. Debbonsi ancora notar quelle parole: et eos, qui Beneventum obsident. Intorno a che convien ora dire, che sbrigato dalla conquista di Salerno il duca Roberto, mal soddisfatto del romano pontefice, che dianzi l'avea scomunicato, cominciò nell'anno precedente la guerra contra le terre della Chiesa nella Campania [Petrus Diac., lib. 3 Chron., cap. 45.]. Fu perciò di nuovo pubblicata [386] la scomunica contra di lui e del suddetto Riccardo, e papa Gregorio, collecto exercitu, super eos ire disponit, come s'ha da Pietro Diacono. Ciò riferito al duca Roberto, si ritirò in fretta col principe Riccardo a Capoa, e andò a mettere l'assedio a Benevento, nel mentre che Riccardo principe di Capoa imprese quello di Napoli. Tutto ciò avvenne nell'anno antecedente. Continuò Riccardo l'assedio di Napoli per molti mesi, ed avea anche ridotta quella città a mal partito [Camillus Peregr., in Not. ad Protos.], quando sopraggiuntagli la morte nel dì 15 d'aprile, liberò i Napoletani dalle sue branche. Fu principe, per attestato della Cronichetta amalfitana [Antiquit. Italic., tom. 1.], alto di statura, di bell'aspetto, di gran coraggio ed avvedutezza, benigno coi fedeli, terribile contro i perfidi ribelli. Ebbe per successore nel principato di Capoa Giordano I suo figliuolo. Ci fa assai intendere il suddetto concilio che nel principio della quaresima tuttavia durava l'assedio di Benevento, fatto dal duca Roberto: perlochè fu di nuovo fulminata contra di lui la scomunica. Ma appena Giordano fu succeduto al padre, che insorse la discordia fra il duca Roberto e lui. Abbracciò esso Giordano la difesa delle terre della Chiesa e dei Beneventani [Petrus Diacon., Chron., lib. 3, cap. 45.], da' quali ebbe un regalo di quattromila e cinquecento bisanti, o vogliam dire scudi d'oro. Uscito perciò in campagna, secondochè s'ha da Pietro Diacono, fece ribellare molti de' conti e vassalli contra di Roberto, arrivò sotto Benevento, e distrusse tutte le fortificazioni fatte dal duca per prendere quella città. Bari con Trani ed altre città si ribellarono al Guiscardo. Abailardo suo nipote, perchè figliuolo di Unfredo, al quale avea Roberto occupata tutta l'eredità, fu uno de' più vigorosi congiurati contra dello zio Guiscardo. Seguirono perciò varii incontri d'armati, e varii assedii raccontati da Guglielmo pugliese [Guillelmus Apulus, Poem., lib. 3.], dopo i quali [387] finalmente fu fatta pace tra esso Roberto e Giordano. Servì questa concordia per abbattere tutte le speranze del nipote Abailardo, il quale se ne fuggì a Costantinopoli, e quivi diede fine alla vita. Ricuperò Roberto Bari, Trani, Santa Severina, e l'altre terre [Petrus Diac., Chron. lib. 3, cap. 45.] che s'erano ribellate. Ascoli, Monte di Vico ed Ariano ritornarono alle mani sue; ed era per fare altri progressi, quando Desiderio abbate di Monte Casino s'interpose, e trattò di pace fra il pontefice e lui. Abbiamo dalla Vita di Gregorio VII papa, a noi tramandata da Niccolò cardinale d'Aragona [Cardinalis de Aragonia, in Vit. Greg. VII.], che venerabilis pontifex receptis nuntiis Roberti Guiscardi egregii Normannorum ducis, versus Apuliam post octavas Pentecostes iter arripuit, et cum ipso apud Aquinum colloquium habuit. Congrua itaque ab eo satisfactione suscepta, prius a vinculo excommunicationis eum absolvit, et consequenter fidelitatem et homagium ejus recepit. Postmodum vero jam assumtum in specialem beati Petri militem, de totius Apuliae et Calabriae ducatu per vexillum Sedis apostolicae investivit. Guglielmo pugliese scrive che questo abboccamento e concordia seguì in Benevento, e non già in Aquino; ed essere corsa voce che il papa, per impegnar meglio nella sua difesa Roberto Guiscardo, gli fece sperare la corona del regno d'Italia [Guillelmus Apulus, lib. 3.]:

Romani regni sibi promisisse coronam

Papa ferebatur.

Parimente Riccardo cluniacense [Richardus Cluniacensis, in Chron., in Antiq. Ital.] conferma questa voce con asserire che papa Gregorio aveva intenzione di crear imperadore esso Roberto, o Boamondo suo figliuolo. Tornava il conto ad esso pontefice, nel pericoloso cimento, in cui egli si trovava per la nemicizia del re Arrigo, non solo di non aver nemico il potentissimo ed invitto duca di Puglia, [388] ma anche di averlo amico e difensore ne' bisogni. Il tempo fece vedere che senza questo appoggio minacciava rovina il suo pontificato.

Ma non tutti questi avvenimenti si compierono nell'anno precedente e nel presente. Siccome vedremo, parte d'essi appartiene all'anno seguente 1079. Certamente si allontanò dal vero il cardinal Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.], allorchè pose l'assedio suddetto di Benevento nell'anno 1074. Già abbiam veduto che nel concilio romano dell'anno presente si fa menzione del medesimo assedio, non per anche sciolto. Ma neppure il padre Pagi [Pagius, Crit. ad Annal. Baron.] colpì nel segno, allorchè pretese che nell'anno 1077 Roberto duca si abboccasse col papa, e ne riportasse l'assoluzione. Papa Gregorio per tutto il giugno del 1077 si trattenne nelle montagne del Reggiano, siccome costa dalle lettere d'esso pontefice. Nel dì 15 d'agosto era in Firenze, e nel primo giorno di settembre in Siena. Ma abbiam veduto che papa Gregorio si mosse di Roma post octavas Pentecostes, per andare ad Aquino a trattar di pace con Roberto. Essendo venuta l'ottava della Pentecoste nell'anno 1077 prima della metà di giugno, come potè egli mai passar da Roma ad Aquino in quel tempo, se, siccome abbiam detto, egli per tutto giugno si fermò in Lombardia? Adunque la riconciliazion di Roberto dee essere succeduta più tardi, e vedremo che non s'ingannò il Baronio in differirla sino all'anno 1080. Oltre di che, Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.] all'anno 1078 scrive: Robertus dux obsedit Beneventum, sed ejus obsidio dissipata est a Rodulpho Pipino comite, (cioè, come stimò il Pellegrini [Peregrin., in Notis ad Protospatam.], da Rainolfo zio del principe di Capoa Giordano) et hoc anno obiit Richardus princeps, mentre assediava Napoli. Anche Romoaldo salernitano [Romuald. Salern., in Chron., tom. 8 Rer. Ital.] e l'autore della [389] Cronichetta amalfitana [Antiquit. Italic, tom. 1.] attestano che Riccardo morì durante quell'assedio Indictione prima, cioè nell'anno presente. E che anno primo, postquam cepit Salernum, Robertus dux Beneventum obsedit. Certo è che nello stesso tempo furono fatti que' due assedii, e però nell'anno presente. Il che vien ancora confermato dall'antica Cronichetta di santa Sofia, pubblicata dal suddetto Pellegrini [Peregrin., Hist. Princ. Langobard.], dove si legge: Robertus dux obsedit Beneventum XIV kalendas januarii, usque VI idus aprilis, unde expulsus est cum omnibus suis Indictione I. L'indizione prima correa nell'anno presente. Ora essendo fuori di dubbio l'aggiustamento del papa con Roberto Guiscardo, seguito dappoichè fu sciolto l'assedio di Benevento, per conseguente non nell'anno 1077, come immaginò il padre Pagi, ma molto più tardi si dee credere succeduto. Finalmente si noti che l'autore della Vita di san Gregorio VII [Card. de Aragon., P. I, tom. 3 Rer. Ital.] ci somministra il filo per accertarci dell'anno, in cui seguì l'accordo suddetto. Cioè scrive egli che fra i due re contendenti Arrigo IV e Ridolfo, horribili bello acriter utrimque commisso, caesa sunt multa millia hominum hinc inde. Soggiugne appresso: Et iterum peccatis exigentibus inter eosdem reges horribiliter est pugnatum, ubi maxima virorum fortium multitudo cecidit. Spedì papa Gregorio i suoi legati in Germania per quetar, se mai era possibile, così atroce tempesta. Ma i due re vennero alla terza battaglia. Iterum inter eosdem reges acriter est pugnatum, et multa millia hominum, maxime Bohemorum, caesa sunt.

Dopo questi tragici avvenimenti continua quell'autore a dire che papa Gregorio, portatosi ad Aquino, fece l'accordo con Roberto Guiscardo. Non essendo succedute tali battaglie se non nell'anno presente e nel 1080, nel quale ancora furono spediti in Germania i suddetti legati, [390] vegniamo in fine a conoscere che nell'anno stesso 1080, come volle il Baronio, Roberto Guiscardo tornò all'ubbidienza del romano pontefice. Abbiam detto che succederono sanguinosissimi fatti d'armi fra Arrigo e Ridolfo in Germania. Nel primo, per testimonianza di Bertoldo [Bertholdus Constantiensis, Chron. August., tom. 1 Freheri.], restò vincitore e padrone del campo Ridolfo; e nel secondo, accaduto nel dì 17 d'agosto di quest'anno, la vittoria restò incerta, essendo costata la vita a più migliaia di persone. Fra gli altri vi fu ucciso Wernero arcivescovo di Maddeburgo, e presi Bernardo arcidiacono della Chiesa romana, Sigifredo arcivescovo di Magonza, e Adalberto vescovo di Vormazia: il che non si può mai intendere senza orrore, non essendo le guerre e le battaglie un mestier convenevole a persone ecclesiastiche. L'autore della Cronica di Maddeburgo presso il Meibomio [Chronic. Magdeburg., tom. 2, apud Meibomium.] e l'Annalista sassone [Annalista Saxo, apud Eccardum.] pretendono che questa seconda battaglia riuscisse molto più favorevole ai Sassoni e a Ridolfo, che ad Arrigo. Verso l'Ognissanti esso re Arrigo, rinforzato di gente, portò la guerra negli Stati di Guelfo duca di Baviera, e di Bertoldo duca di Carintia, tutti e due fedeli fautori del papa e del re Ridolfo [Bertholdus Constantiensis, in Chron.]. Nel qual tempo venne a morte esso duca Bertoldo con grave danno del suo partito. In questo anno poi Ruggieri conte di Sicilia per terra e per mare bloccò [Gaufrid. Malaterra, lib. 3, cap. 15.] la città di Taormina, e dopo molte fatiche se ne impadronì. Tenuto fu un altro concilio in Roma da papa Gregorio dopo la metà di novembre, in cui troviamo fulminate molte scomuniche, e nominatamente contra Niceforo Botoniata imperador di Costantinopoli, che avea usurpato quel trono a Michele e a Costantino Porfirogenito, genero del duca Roberto, la cui figliuola [391] fu rimandata al padre. Per questi sì frequenti concilii di papa Gregorio doveano poco attendere alle lor gregge i sacri pastori. Intervennero a quest'ultimo i legati de' due re contendenti, promettendo amendue di fare una dieta, dove si deciderebbe la lor controversia.


   
Anno di Cristo MLXXIX. Indizione II.
Gregorio VII papa 7.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 24.

In quest'anno ancora papa Gregorio celebrò nel mese di febbraio un numerosissimo concilio in Roma [Concil. Labbe, tom. 10.], dove intervenne l'eresiarca Berengario, e ritrattò le perverse sue dottrine intorno al sacramento dell'altare. Furono confermate le sacre censure contra Tedaldo arcivescovo di Milano, Sigefredo vescovo di Bologna, Rolando vescovo di Trevigi, e contra i vescovi di Fermo e Camerino. Trovossi alla medesima sacra assemblea Arrigo novello patriarca di Aquileia, il quale, quantunque promosso a quella chiesa da Arrigo IV, pure umilmente si suggettò alla Sede apostolica, e promise di non aver comunione con gente scomunicata. Si dolsero in quel sinodo del re Arrigo i legati del re Ridolfo, a cagion delle guerre e violenze ch'egli promoveva in Germania [Cardinal. de Aragon., in Vita Gregor. VII.]. Perlochè il pontefice Gregorio destinò per suoi legati al congresso, da tenersi in Germania, Pietro Igneo cardinale e vescovo d'Albano, Odelrico vescovo di Padova (Paolo Benriedense scrive [Paulus Benriedens., in Vita Gregor. VII.] che fu Alemano vescovo di Passavia) e il suddetto patriarca d'Aquileia. Andarono essi; ma perchè non vollero alle istanze di Arrigo scomunicare il re Ridolfo, senza frutto se ne tornarono a Roma, con riferire al papa la disubbidienza d'esso Arrigo e l'ubbidienza del re Ridolfo. Era intenzione del pontefice di trasferirsi egli in [392] persona in Germania, per decidere quello spaventoso litigio; ma il re Arrigo, troppo diffidando di lui, a questo non volle dar mano. Continuò in quest'anno la guerra fra essi re [Annalista Saxo, apud Eccardum.]. Ridolfo andò contro la Vestfalia, e costrinse que' popoli alla sua ubbidienza. Arrigo portò la guerra nella Suevia contra di Ridolfo. Aggiugne il Cronografo sassone [Chronographus Saxo, apud Leibnitium.] che bellum fit iterum inter Rodulphum et Henricum hyeme nimis aspera, ubi in primo congressu Saxones (uniti con Ridolfo) terga vertunt. Ma uno squadron d'essi Sassoni, mentre gli altri erano occupati nella mischia, diede il sacco agli alloggiamenti del re Arrigo. In questa maniera si andava desolando la misera Germania per l'arrabbiata contesa di quei due regnanti. Per altro non dovette succedere alcun fatto strepitoso, al vedere che Bertoldo da Costanza non ne parla. Gli Annali pisani [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.], che non meritano, a mio credere, gran fede nelle cose antiche, mettono sotto quest'anno la guerra fra i pisani e i Genovesi. Dai primi fu abbruciata la terra di Rapallo, ed incontratesi le lor flotte nel dì 13 di maggio, la genovese si salvò colla fuga. In quest'anno ancora Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chron.] scrive che intravit Petronus (Pietro vien chiamato da Guglielmo pugliese) in Tranum. Et Barum rebellavit, ejecto exinde praeside ducis. Et Bajalardus filius Umfredae comprehendit Asculum. Però se fosse stabile l'asserzione di questo istorico, noi avremmo che parte di que' fatti che ho riferito nell'anno precedente, presi da Pietro Diacono, sarebbono da attribuire all'anno presente. Ma all'osservare ch'esso Lupo racconta come succeduta in questo medesimo anno la caduta di Michele Duca dal trono di Costantinopoli, e l'usurpazione di Niceforo Botoniata, che pur si crede creato imperador d'Oriente nell'anno precedente, [393] si potrebbe restar dubbioso intorno al tempo di tali fatti. Ma l'Anonimo barense [Rerum Italicarum, tom. 5.] presso Camillo Pellegrini, dopo aver narrata all'anno 1078 l'assunzione al trono del Botoniata, anch'egli nel presente 1079 scrive che mense februarii die III stante rebellavit Bari ab ipso duce, et dirutum castello de Portanova. Nella stessa guisa l'autore di un'antica Cronichetta normannica, da me data alla luce [Ibid., tom. 5, pag. 278.], parla di que' fatti. Anno MLXXIX Petronius comes intravit iterum Barim. Abagilardus comes (nipote di Roberto Guiscardo) ivit super Trojam, et fugavit Boamundum filium Roberti ducis, et obsedit, et cepit Asculum. Et iterum Robertus recuperavit eum. Postea factum est praelium ibidem, et fugatus est Abagilardus cum militibus suis, et fugit in Constantinopolim, et ibi mortuus est inimicus duci Roberto. Ecco dunque che gli avvenimenti raccontati tutti in un fiato da Pietro Diacono, continuatore della Cronica casinense, succederono in parte nell'anno presente, e fra questi la ribellione di Bari. Ancora al conte Ruggieri si ribellarono in Sicilia le terre di Jato e Cenisi [Ganfrid. Malaterra, lib. 3, cap. 20.]. Le assediò egli amendue nello stesso tempo; e costrinse quegli abitanti ad implorare il perdono, che non fu loro negato.

Confermò in quest'anno il re Arrigo i suoi privilegii alla chiesa di Padova e al vescovo Olderico con un diploma [Antiquit. Italic., Dissert. XIX.] dato X kalendas augusti, Indictione II, anno dominicae Incarnationis MLXXVIIII, anno autem regni domni regis Henrici quarti XXIII. Actum Ratispone. Nella copia, di cui mi son servito, si leggeva D. Paduanae ecclesiae episcopus. Ma si dee scrivere Uld., cioè Uldericus. E di qui può apparire che esso Olderico non fu spedito per suo legato dal pontefice Gregorio. Ho io parimente pubblicata una convenzione seguita nel dì 31 di [394] maggio [Antichità Estensi, P. I, cap. 7.] inter marchionem Azonem, et Ugonem et Fulconem germanos, filios ejusdem marchionis Azonis, e il capitolo dei canonici di Verona, in vigore di cui essi canonici diedero a livello al marchese e a' suoi figliuoli la corte di Lusia, villa di grande estensione. Si vede che il marchese Azzo estense pensava a bene stabilire ed ingrandire in Italia i figliuoli del secondo matrimonio, giacchè Guelfo IV figlio del primo letto e duca di Baviera era giunto ad una riguardevol potenza in Germania. Questo Ugo è il medesimo che avea sposata la figliuola del duca di Puglia Roberto. Raccogliesi poi da una lettera scritta da papa Gregorio a Desiderio abbate di monte Casino [Gregor. VII, Epist. 11, lib. 9.], che Arrigo IV anch'egli si maneggiò per ottenere una figliuola d'esso Roberto Guiscardo duca in moglie di Corrado suo primogenito, con esibirsi d'investire Roberto della marca di Fermo, et rex duci marchiam tribuat. Ma il saggio papa dovette fare in maniera che questo trattato andò per terra. Nè si dee tacere che (probabilmente in quest'anno) esso duca Roberto maritò un'altra figliuola con Raimondo II conte potentissimo di Barcellona e di altre città. Ne parla, oltre ad altri autori, Guglielmo pugliese [Guillelmus Apulus, lib. 4. Anonym., de Gest. Comit. Barcin. apud Baluz.] come di un fatto accaduto prima che seguisse la concordia fra il papa ed esso duca:

Partibus Esperiae, quem Barcilona tremebat,

Venerat insignis comes hanc Raymundus ad urbem;

Ut nuptura ducis detur sibi filia, poscit.

Il padre Pagi [Pagius, in Critic. ad Annal. Baron.] credette contratto questo matrimonio prima dell'anno 1077. Ma se son ben concertati i tempi di quei fatti presso il suddetto storico, tali nozze debbono appartenere all'anno presente.

[395]


   
Anno di Cristo MLXXX. Indizione III.
Gregorio VII papa 8.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 25.

Crebbero in quest'anno gli affanni alla Germania e all'Italia per la funestissima guerra insorta fra il sacerdozio e fra i due emuli re Arrigo e Ridolfo. Il primo, figurandosi di trovar a dormire i Sassoni, nel dì 27 di gennaio dell'anno presente andò colla sua armata ad assalirli [Bertholdus Constant., in Chron. Bruno, Hist. Bell. Saxon.]. Si fece un sanguinoso fatto d'armi, in cui (che che ne dica la Cronica augustana) fu obbligato ad una vergognosa fuga Arrigo con tutti i suoi. Ridolfo ne spedì per mezzo dei suoi legati a Roma la lieta nuova, ed insieme fece esporre le doglianze sue contra di Arrigo, che sempre più sconvolgeva e desolava la Germania, e mostravasi disubbidiente al romano pontefice. Diedero motivo tali avvisi e lamenti a papa Gregorio di apertamente dichiararsi in favore del re Ridolfo. Perciò nel concilio VII tenuto in Roma nel dì 9 di marzo, dopo avere rinnovate le scomuniche contra gli arcivescovi di Milano e di Ravenna, dichiarò legittimo re del regno germanico Ridolfo, e fulminò la scomunica e la sentenza di deposizione contra di Arrigo, usando le più forti espressioni, per esprimere in ciò l'autorità dei sommi pontefici, e colla stessa franchezza dicendo: Ipse autem Henricus cum suis fautoribus in omni congressione belli nullas vires, nullamque in vita sua victoriam obtineat. Mandò esso papa a Ridolfo una corona d'oro, dove si leggeva questa iscrizione:

PETRA DEDIT PETRO, PETRVS DIADEMA RODVLPHO.

Essendo volata in Germania la nuova di questa risoluzione [Marianus Scotus, in Chron. Otto Frisigen., in Cron. Sigebertus, in Chron. et alii.], crebbe a dismisura [396] la rabbia del re Arrigo, nè mancarono perversi consiglieri che il trassero all'ultimo degli eccessi. Fece egli pertanto raunare un conciliabolo di trenta vescovi scismatici, e di molti signori sì di Germania che d'Italia, suoi fautori, in Brixen, o sia Bressanone sul Tirolo, e gl'indusse con empia ed affatto irregolar procedura a dichiarar deposto Gregorio VII dal papato, e ad eleggere in suo luogo Guiberto arcivescovo di Ravenna, già più volte scomunicato, il quale assunse dipoi il nome di Clemente III. Era costui cittadino di Parma di gran nobiltà, e da molti vien creduto della nobil casa di Correggio. Scrive Donizone [Donizo, in Vit. Mathild., lib. 1, cap. 1.] che di tre figliuoli di Sigefredo lucchese, ascendente della contessa Matilde,

Fiunt Parmenses duo fratres, ambo potentes.

Dat Guibertinam minimus, primus Baratinam,

Progenies ambas grandes, et honore micantes.

Da essa schiatta gibertina sembra che discendesse il suddetto antipapa. Aspirava da gran tempo alla cattedra di san Pietro esso Guiberto, uomo, quanto privo dello spirito ecclesiastico, altrettanto provveduto di mondana politica. Il primo de' suoi pensieri era l'ambizione, l'ultimo il timore di Dio. L'esaltazione di questo mal uomo succedette nel dì 25 di giugno. Nel decreto di tale elezione, rapportato dall'abbate urspergense [Urspergensis, in Chron.], si spacciarono non poche stomachevoli calunnie contra di papa Gregorio, suggerite da Ugo il Bianco cardinale scomunicato, e che si leggono anche nell'empia diceria delle scismatico Bennone. Scrisse dipoi Arrigo allo stesso Gregorio pontefice e al popolo romano lettere infami per avvisarli dell'idolo ch'egli avea introdotto nella casa di Dio. Fu inoltre spedito in Italia il novello antipapa, per tirare nel suo partito tutti i simoniaci e i nemici del vero papa; nè a lui fu difficile di trovarne molti e di mettere insieme un'armata.

Il presentimento di questo colpo, e gli [397] avvisi di quel che andava succedendo in Germania, quegli sproni dovettero essere che finalmente indussero e ad affrettarono papa Gregorio a rilasciare la sua severità contra di Roberto Guiscardo duca di Puglia, Calabria e Sicilia, ed accordarsi con lui. Roberto anch'egli si trovava in qualche disordine per le molte città che gli s'erano ribellate, e gli era utile l'accomodarsi ai voleri del papa. Però il pontefice post octavas Pentecostes, circa il dì 7 di giugno, siccome abbiamo detto di sopra, andossene ad Aquino [Cardinal de Aragon., in Vit. Gregor. VII.], accompagnato da Giordano principe di Capoa, e quivi riconciliatosi con Roberto, l'assolvè dalle censure, e diedegli l'investitura di tutti quegli Stati che gli erano stati conceduti da Niccolò II e da Alessandro II pontefici predecessori, con aggiugnere: De illa autem terra, quam injuste tenes, sicut est Salernus, et Amalfia, et pars Marchiae Firmanae, nunc te patienter sustineo in confidentia Dei omnipotentis et tuae bonitatis, ec. Probabilmente questo era stato il punto principale che avea fin qui ritardata la pace fra loro. Giurò all'incontro fedeltà ed omaggio al papa il duca Roberto, con promettere ancora di pagar ogni anno alla Chiesa romana dodici denari di moneta pavese per ogni paio di buoi di tutti i suoi Stati. Già s'è, a mio credere, assai dimostrato di sopra all'anno 1078 non sussistere l'opinione del padre Pagi, che tal riconciliazione seguisse nell'anno 1077, e star forte quella del Sigonio e del cardinal Baronio, da' quali fu riferita al presente anno 1080. Aggiungo ora, che gli atti d'essa investitura e del giuramento di Roberto son posti fra le lettere del libro ottavo di Gregorio VII, che riguardano gli affari di quest'anno. E nella lettera settima d'esso libro il pontefice dà avviso a tutti i fedeli di aver parlato cum duce Roberto et Jordane, ceterisque potentioribus Nortmannorum principibus, che gli aveano promesso soccorso contra di ognuno in difesa della Chiesa romana, [398] con palesar eziandio la risoluzione presa di marciare con un'armata contra di Ravenna, per liberar quella chiesa e città dalle mani dell'empio Guiberto, già alzato dalla perfidia al sacrilego grado di antipapa. Finalmente abbiamo dalla Cronichetta normannica da me pubblicata [Chron. Normann., tom. 5 Rer. Ital., p. 278.], che anno MLXXX Robertus dux amicatus est cum Gregorio papa in mense junio, et confirmata fuit ab illo omnis terra, quam habebat Robertus dux in Apulia, Calabria et Sicilia. Guglielmo pugliese anch'egli narra [Guillelm. Apulus, Poemat., lib. 4.] sotto il presente anno la concordia suddetta; anzi la fa succeduta dopo la morte del re Ridolfo: nel che egli s'inganna. Dalla stessa Cronichetta abbiamo che il duca Roberto nell'aprile di quest'anno ricuperò la città di Taranto e Castellaneta. Presentossi ancora coll'esercito sotto Bari, e colla fuga di Petronio conte tornò ad impadronirsene. Fece anche lo stesso della città di Trani. Notizie tutte confermate da Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chron.] e dall'Anonimo barense [Anonymus Barensis, apud Peregrin.]. Era già stato, siccome accennai, da Niceforo Botoniata precipitato dal trono imperiale d'Oriente Michele Parapinacio con Costantino suo figliuolo, e genero del duca Roberto, ed obbligato a prendere l'abito di monaco. Una curiosa scena avvenne in quest'anno. Eccoti comparire in Puglia davanti il duca Roberto un uomo vilmente vestito, che si spaccia per Michele imperator deposto, e chiede aiuto contro l'occupator dell'imperio, spezialmente rappresentando che la sua rovina era proceduta dalla parentela contratta con esso Roberto, principe troppo odiato da' Greci. Fu accolto con grande onore, vestito di abiti imperiali, e trionfalmente condotto per la città. Credette, o mostrò di credere il duca Roberto che costui veramente fosse il deposto Michele. Anna Comnena [Anna Comnena, in Alexiad., lib. 1.] sostiene nella sua Storia [399] che questa fu una finzione, procurata da Roberto stesso, principe che in astuzie politiche non avea pari, per prendere da ciò pretesto di assalire la monarchia dei Greci. Gaufredo Malaterra [Gaufrid. Malaterra, lib. 3, cap. 13.], tuttochè Normanno, pure anch'egli inclina a credere che questo Michele fosse un tiro di politica e una fantasima atta a commuovere i popoli alle imprese che Roberto, sbrigato dalle guerre civili, andava già macchinando, e alle quali cominciò nell'anno presente a prepararsi. Da una lettera di papa Gregorio [Gregor. VII, lib. 8, Epist. 6.] si scorge che anche a lui fu fatta credere la venuta in Italia dell'Augusto Michele. Il Malaterra suddetto mette la comparsa di questo fantoccio nell'anno 1077, ma i più nell'anno presente 1080, nel quale comparve in Sicilia Raimondo conte di Provenza a chiedere per moglie Matilda figliuola primogenita del conte Ruggieri. Furono con gioiosa solennità celebrate quelle nozze, e lo sposo contento condusse la moglie alle sue contrade. Ebbero maniera i Saraceni di rientrare in questo anno nella città di Catania per tradimento di Bencimino governator d'essa, musulmano di professione, ma creduto di gran fede da Ruggieri. Udita questa dispiacevol nuova, non perdè tempo Giordano figliuolo del conte Ruggieri ad accorrere colà con un piccolo corpo di cavalleria. Trovò schierati i Saraceni sotto quella città, gli assalì con incredibil valore, e talmente li riempiè di terrore, che, non credendosi sicuri neppure nella città, l'abbandonarono con ritirarsi in Siracusa.

Intanto in Germania avvenne una terribile mutazion di cose [Marianus Scotus, in Chron. Bertholdus Constant., in Chron. Bruno, Hist. Bell. Saxon. et alii.]. Nel dì 15 di ottobre seguì la quarta battaglia campale fra i due re Arrigo e Ridolfo. Gran varietà si truova fra gli scrittori nella descrizion di essa, chi sostenendo che furono messi in fuga i Sassoni, e chi essersi [400] dichiarata la vittoria per loro. Quel che è certo, in quel conflitto restò mortalmente ferito, e di lì a non molto morì il re Ridolfo. L'autore della Vita di Arrigo IV presso il Reubero [Auctor. Vit. Henrici IV, apud Reuberum.] pretende ch'egli fosse ucciso da' suoi medesimi soldati, guadagnati con danaro del re Arrigo. Questo colpo sconcertò sommamente gli affari della lega cattolica non solo in Germania, ma anche in Italia, ed espose alle dicerie de' nemici il pontefice Gregorio VII. Se merita fede Sigeberto [Sigebertus, in Chron.], avea predetto esso papa che in quest'anno sarebbe morto il falso re, intendendo di Arrigo, ma in vece sua finì di vivere il re Ridolfo. Potrebbe essere una favola; ma certo egli, scrivendo a tutti i fedeli [Gregor. VII, lib. 8, Epist. 7 et 9.], avea fatto loro sperare, nefandorum perturbationem merita ruina cito sedandam, et sanctae Ecclesiae pacem et securitatem (sicut de divina clementia confidentes promittimus) proxime stabiliendam. Si raccoglie lo stesso da altre sue lettere. Però fecero grande schiamazzo i partigiani di Arrigo per l'avvenimento tutto contrario alle promesse o speranze pontificie. Loro ha già risposto il cardinal Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.], e meritano intorno a ciò d'esser lette anche le riflessioni dell'abbate Fleury [Fleury, Hist. Eccl., tom. 13, dans la Pref.]. A questo infausto accidente un altro se ne aggiunse in Italia. Risoluta la celebre contessa Matilda di sostener gl'interessi del romano pontefice, e di tentare, secondo il concerto fatto, di cacciar da Ravenna l'antipapa Guiberto, avea raunate le sue forze nel territorio di Mantova, città allora a lei ubbidiente. Ma fu anche in armi quasi tutta la Lombardia in aiuto di Arrigo, e con un potente esercito si portò alla Volta, luogo del Mantovano [Bertold. Constantiensis, in Chron.]. Quivi vennero alle mani le due armate, e a quella della contessa toccò la rotta nel dì 15 di ottobre, cioè nel giorno stesso in cui seguì l'altro infelice conflitto [401] della Germania, dove il re Ridolfo perdè la vita. Leggesi parimente nella Vita di Gregorio VII [Cardinal. de Aragon., Vit. Gregor. VII, part. I, tom. 3 Rer. Italic.], che dopo la morte di Ridolfo evolutis paucis diebus, Henricus filius ejus (di Arrigo IV) cum exercitu llustris comitissae Mathildis pugnavit. Et quia, sicut fieri solet, varius est eventus belli, victoriam habuit. Che Enrico, ossia Arrigo, sia questo figliuolo del re Arrigo IV, non truovo io scrittore che me l'additi. Forse quello (dice il Fiorentini [Fiorentini, Memor. di Matild., lib. 1.]), che senza nome presso Donizone morì poi nell'assedio di Montebello. Certamente non fu Arrigo V, poscia imperadore, perchè si crede nato solamente nell'anno seguente. A me è ignoto se Arrigo IV avesse de' figliuoli bastardi. Nondimeno improbabil cosa non sarebbe che ne avesse avuto. Fece in quest'anno la suddetta contessa Matilde una donazione al monistero di san Prospero, oggidì di san Pietro, dei Benedettini di Reggio. La carta fu scritta [Antiquit. Italic., Dissert. XXII.] anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi millesimo octuagesimo, die IX mensis decembris, Indictione tertia. L'indizione corre qui sino al fine dell'anno; ma potrebbe dubitarsi che fosse qui adoperato l'anno pisano, e che lo strumento appartenesse all'anno precedente, nel cui settembre cominciò a correre l'Indizione III. Tenne inoltre essa contessa un placito in Corneto, terra del contado di Toscanella [Mabill., Annal. Benedict.], VII kalendas aprilis, Indictione III, dove decise la lite d'una chiesa in favore di Berardo abbate di Farfa.


   
Anno di Cristo MLXXXI. Indizione IV.
Gregorio VII papa 9.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 26.

Insuperbito il re Arrigo per le felicità nel precedente anno occorse all'armi sue, [402] calò nel presente con molte forze in Italia [Berthold. Constantiensis, in Chron. Annalista Saxo.]; e siccome uomo infaticabile e fervido nel mestier della guerra, dopo aver celebrata la Pasqua in Verona, s'inviò a Ravenna, dove si preparò per passare a Roma, fingendo di voler pace, ma consigliatamente per tentare, se potea, d'intronizzar nella sedia di san Pietro lo scomunicato Guiberto. Confessò in una sua lettera Gregorio VII [Gregor. VII, lib. 9, Ep. 3.] che la maggior parte de' suoi, atterriti dalle prosperità d'Arrigo, il consigliava di far pace, e massimamente perchè Arrigo prometteva di gran cose. Eravi anche apparenza che la contessa Matilda, quasi unico antemurale della parte cattolica in Italia, per difetto non già di volontà, ma di forze, avesse da cedere alla potenza d'Arrigo. Contuttociò mirabil fu la costanza ed intrepidezza di Gregorio; nè si lasciò egli mai piegare ad alcuna viltà. Animo a lui fra i mezzi umani faceva la speranza di essere soccorso da Roberto Guiscardo, e il vedere i Romani concordi per sostenerlo. Se si ha a credere agli storici fiorentini, Arrigo assediò inutilmente Firenze dall'aprile fino al dì 21 di luglio. Il Villani [Giovanni Villani, lib. 4, cap. 23. Ammirati, Istor. di Firenze, cap. 1.] scrive che nel dì 12 d'aprile terminò quell'assedio. Comunque sia, certo è che comparve circa la Pentecoste coll'esercito e coll'antipapa a Roma il re Arrigo [Cardinal. de Aragonia, in Vita Gregor. VII.]. Trovò quella città ben disposta alla difesa, e fu non men egli che Guiberto onorato di quanti ingiuriosi titoli e villanie seppe inventare la satirica facondia di quel popolo. Accampossi nel prato di Nerone, aspettando pure di far qualche bel colpo; ma inutilmente tutto, perchè odiato da' Romani tutti. Intanto gli aderenti suoi di Lombardia faceano guerra alle terre della contessa Matilda, devastando paesi, assediando castella, ma con ritrovar dappertutto nelle di lei genti il coraggio della medesima principessa. [403] Ne fa menzion Donizone [Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2, cap. 1.], ma con tacerne una a lui svantaggiosa, discoperta nondimeno dall'avveduto Fiorentini [Fiorentini, Memor. di Matild., lib. 1.]. Cioè, che in questi tempi cotanto prevalse in Lucca la fazione degli scismatici, istigata principalmente da alcuni scapestrati del clero, che quella città si ribellò alla contessa Matilda e si diede ad Arrigo. Ciò si ricava dai diplomi di esso re, dati in quest'anno a que' cittadini, e alle chiese di essa città, de' quali fa anche menzione Tolomeo da Lucca [Ptolom. Lucens., Annal., tom. 1 Rerum Ital.]. Di questa ribellione eziandio siamo assicurati dall'autore della Vita di santo Anselmo vescovo di Lucca, il quale in tal congiuntura fu cacciato dalla sua sedia, e si ricoverò sotto la protezion di Matilde, senza più potere ricuperar quella chiesa, in cui fu intruso al dispetto dei sacri canoni un Pietro diacono, fiero fomentatore del partito del re. Intanto i Sassoni e varii principi e vescovi di Germania, co' quali Arrigo aveva indarno trattato di tregua, per potere con più sicurezza far guerra a papa Gregorio, tennero una solenne dieta [Bertholdus Constantiensis, in Chron.], con eleggere in essa un re nuovo, cioè Ermanno di Lucemburgo Lorenese, nella vigilia di san Lorenzo. Non è in questo luogo da seguitare il Baronio nè il p. Pagi, che fidatisi di Mariano Scoto, della Cronica d'Ildeseim, e di qualche altro minore storico, differirono sino all'anno seguente la promozione di Ermanno. Bertoldo da Costanza, uno dei migliori scrittori di questi avvenimenti, ci assicura ch'egli fu promosso alla corona in quest'anno. Così ha anche Sigeberto [Sigebertus, in Chron.], così la Cronica di Augusta [Chron. Augustan.]; e, quel che più importa, Brunone storico contemporaneo della guerra di Sassonia [Bruno, Hist. Bell. Saxon.], e che ne termina la descrizione in quest'anno, scrive che in natali sancti Stephani protomartyris, a Sigefredo [404] moguntinae sedis archiepiscopo Hermannus in regem venerabiliter est unctus, quum jam MLXXXII annus Incarnationis dominicae fuisset inceptus. Cominciavano i Tedeschi nel Natale del Signore l'anno nuovo. Perciò alcuni autori mettono il principio del suo regno nell'anno seguente, perchè egli fu coronato nella festa di santo Stefano. Mariano Scoto negli ultimi tre anni della sua Cronica ha degli anacronismi che non si possono salvare. E forse quella è una giunta fatta da qualche penna posteriore; eppure egli si scuopre mal informato.

Ora per disturbar la dieta e l'elezione suddetta che dissi fatta nella vigilia di san Lorenzo di quest'anno, erano accorsi i principi fedeli ad Arrigo con assaissime squadre d'armati. L'esercito loro di molto superava in numero quello di Ermanno. Contuttociò, passata la festa di san Lorenzo, il novello re insieme con Guelfo duca di Baviera all'improvviso andò ad assalirli nel luogo di Hoctet, celebre per una gran giornata campale de' nostri giorni, e gli sconfisse. Assediò dipoi Augusta, e, non potendola vincere, si rivolse ad altre parti della Germania. Finalmente ben accolto dai Sassoni, nella festa di santo Stefano di quest'anno, siccome dissi, da Sigefredo arcivescovo di Magonza ricevette la corona e la consecrazion regale. Mentre se ne stava attendato l'esercito di Arrigo intorno alla città leonina, valorosamente difesa dai Romani, cominciò l'aria, anche allora malsana di quei contorni, a far guerra a lui e a' suoi soldati. Non poche migliaia vi lasciarono per le infermità la vita; laonde, non potendo egli reggere a questa persecuzione, giudicò meglio di levare il campo e di ritornarsene in Toscana. Dalle memorie del Fiorentini suddetto costa ch'egli tuttavia dimorava all'assedio di Roma nel dì 23 di giugno. Poscia si truova in Lucca nel dì 25 di luglio. Un suo diploma, da me dato alla luce nelle Antichità italiane [Antiquitat. Italic., Dissert. XXXI, pag. 949.], cel fa vedere ivi nel dì 19 d'esso mese [405] di luglio. Di là, se vogliamo stare all'asserzione di Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn. lib. 5.], si ridusse a Ravenna, e in quelle parti svernò. Fu in questi tempi ch'egli tentò di tirar dalla sua Roberto Guiscardo duca di Puglia, con proporre il matrimonio di Corrado suo figlio con una figliuola del medesimo Roberto. Ma il duca stette forte nell'unione col papa. Niuno aiuto nondimeno, benchè richiesto, potè o volle dare allo stesso papa, perchè allora ad altro non miravano le sue vaste idee che a stendere le sue conquiste nell'imperio de' Greci, forse con isperanza di farsi imperadore d'Oriente. A questo fine fece un gran preparamento di navi e di gente in Brindisi e in Otranto, e con questa poderosa armata, dopo aver dichiarato principe di Puglia e Sicilia e suo erede il figlio Ruggieri, mosse contra de' Greci, menando seco il suo creduto finto imperadore Michele. S'impadronì dell'isola di Corfù, prese Botontrò e la Vallona, e s'inviò per mettere l'assedio alla forte città di Durazzo. Anna Comnena nella sua Alessiade scrive [Anna Comnena, Alexiad., lib. 1. Malaterra, lib. 3, cap. 24.], che la di lui armata navale patì una fiera burrasca, e che vi perì gran copia di gente e di navi; ma che nulla potendo atterrire il cuore intrepido di Roberto, egli continuò il suo viaggio contra di Durazzo. Seco era Boamondo, a lui nato dalla prima moglie, che nel valore e nella maestria della guerra, benchè giovane, compariva veterano, eletto perciò generale dell'armata dal padre. Fu dunque dato principio all'assedio di quella città. In questo medesimo anno avendo Alessio Comneno guadagnato in suo favore l'esercito greco, fu proclamato imperadore nel dì primo d'aprile in Andrinopoli [Zonar., in Annal. Anna Comnena, Alex., lib. 3.], e passato a Costantinopoli, quivi si fece solennemente imporre la corona imperiale. Trovavasi allora gravemente oppresso [406] l'imperio orientale dai Turchi, che aveano eletta per lor capitale Nicea, e vivamente era minacciato da Roberto Guiscardo nella Dalmazia.

Fece egli perciò pace co' Turchi; e per resistere al Guiscardo, spedì lettere e ambasciatori al papa, al re Arrigo, ed anche a quasi tutti i principi d'Occidente, senza che alcuno volesse alzare un dito contro ai Normanni. I soli Veneziani, sempre fin qui uniti co' Greci, in aiuto di lui concorsero con un'armata navale. Guglielmo pugliese [Guilielm. Apulus, lib. 4.] ci fa conoscere con un superbo elogio, come già fosse cresciuta fin d'allora la potenza veneta, con dire d'essa flotta:

..... Illam populosa Venetia misit,

Imperii prece, dives opum, divesque virorum,

Qua sinus Adriacis interlitus ultimus undis

Subjacet Arcturo. Sunt hujus moenia gentis

Circumspecta mari nec ab aedibus alter ad aedes

Alterius transire potest, nisi lintre vehatur.

Semper aquis habitant. Gens nulla valentior ista

Æquoreis bellis, ratiumque per aequora ductu.

Colla bravura e sperienza di questa gente non era da mettere a fronte l'armata marittima de' Normanni; però non è da maravigliarsi se da essi assalita ne restò sconfitta, e fu in pericolo di lasciarvi la vita lo stesso Boamondo figliuol di Roberto. Buon soccorso di vettovaglie recarono i veneti vincitori all'assediata città. Ma non per questo il duca Roberto punto si smarri; nè perchè la peste entrata ne' cavalli della sua armata ne facesse strage, desistè punto dall'impresa. Fece fabbricar nuovi legni, fece venir nuove genti, e più che mai con torri e macchine militari tornò a tempestare la città di Durazzo. Ma eccoti nel mese d'ottobre lo stesso imperador Alessio in persona con una formidabile armata di Greci, Turchi ed altre nazioni venire al soccorso. V'ha degli autori [Petrus Diacon., Chron. Casinen., lib. 3, cap. 49.] che fanno ascendere fino a cento settanta mila l'esercito de' Greci. Quel cento vi è di più. Il [407] Malaterra [Malaterra, lib. 3, cap. 27.] infatti parla di soli settanta mila. Non più di quindici mila ne aveva Roberto, ed altri scrivono anche molto meno. Si venne ad una terribil battaglia; vi fecero i Normanni delle prodezze inudite, talmente che Anna Comnena figliuola del suddetto Alessio, tuttochè cotanto sparli della nascita e delle azioni del duca Roberto, pure non potè di meno di non riconoscere in lui le virtù de' bellicosi eroi. Sbaragliarono i Romani l'armata greca, e nel conflitto perirono circa cinque o sei mila persone dalla parte di Alessio, e fra questi il giovane Costantino, genero del medesimo Roberto, dianzi dallo scaltro Alessio restituito a' primieri onori. Restovvi morto ancora il finto imperadore Michele. Innumerabile e ricchissima preda toccò ai vincitori; ed Alessio, che in una terra vicina stava aspettando l'avviso della rotta di Roberto, tenendosela come in pugno, avvertito dell'esito contrario, diede di sproni alla volta di Costantinopoli. Dopo questa felice impresa tornò il duca Roberto a mettere l'interrotto assedio a Durazzo, ridendosi di que' cittadini che vantavano posto quel nome alla loro città, perchè era piazza dura ed inespugnabile [Alberic. Monachus, in Chronico.], ed anch'egli scherzando dicea d'aver nome Durando, e che se s'accorgerebbono i Durazzesi, perchè farebbe durar quell'assedio finchè gli avesse ammolliti e domi. Sotto quella città passò egli tutto il seguente verno. Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chron.] mette questa campal battaglia sotto l'anno seguente, perchè incomincia l'anno in settembre; e questa succedette nel giorno di san Luca nel mese d'ottobre. Intanto il conte Ruggieri [Anonymus Barensis apud Peregrinum.] in Sicilia, essendosi a lui ribellata la città di Geraci, colla forza costrinse quel popolo a tornare all'ubbidienza sua. Vedesi dato in questo anno dal re Arrigo un diploma in favore del monistero di santo Eugenio posto nel [408] contado di Siena [Antiquit. Italic., Dissert. LXXII.], Indictione quarta, III nonas junii. Actum Romae: il che ci porge motivo giusto di credere che anche Siena seguitasse l'esempio di Lucca, con ribellarsi alla contessa Matilde e darsi al medesimo Arrigo. Anche Giugurta Tomasi [Tomasi, Istor. di Siena lib. 3.] è di parere che i Sanesi seguitassero il partito d'esso re Arrigo. Scrive più d'uno storico che in questo anno la regina Berta partorì ad Arrigo il secondogenito, che fu poi Arrigo V fra i re, e il IV fra gl'imperadori. Erasi già impadronito d'Ascoli il duca Roberto. Qualche tumulto o sedizione dovette nell'anno presente succedere in quella città, perciocchè sappiamo da Romoaldo salernitano [Romualdus Salernitanus, in Chron., tom. 7 Rer. Ital.], che accorso il principe Ruggieri, figliuolo d'esso duca, fece smantellar le mura di quella città, e diede il fuoco alle case. Sotto quest'anno ancora narra Alberico monaco de' tre Fonti [Alberic. Monachus, Chron. apud Leibnit.] che Matilda marchesana di Toscana concedette al vescovo di Verdun la badia delle monache di Guisa, a lei, come si può credere, pervenuta per eredità della duchessa Beatrice sua madre. Certamente ella possedeva di là da' monti beni e Stati di ragione d'essa sua genitrice.


   
Anno di Cristo MLXXXII. Indizione V.
Gregorio VII papa 10.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 27.

Verso il principio della primavera di quest'anno tornò di nuovo il re Arrigo col suo antipapa a Roma, e strinse un'altra volta d'assedio, o piuttosto con un blocco, la città leonina, premendogli forte di poter mettere il piede nella basilica vaticana. Poco fastidio a lui recava in Germania il competitore Ermanno dichiarato re, perchè, per testimonianza dell'Annalista sassone [Annalista Saxo.] e del Cronografo [409] sassone [Chronographus Saxo.], esso Ermanno tam suis, quam alienis coepit in brevi despectus haberi; nè si sa ch'egli facesse impresa alcuna nell'anno presente. Ma neppure Arrigo riportò frutto alcuno da questo nuovo tentativo [Bertholdus Constantiensis, in Chron.]. Fece ben egli da un traditore attaccar fuoco alla basilica vaticana, sperando che i Romani, accorrendo all'incendio, abbandonerebbono la guardia delle mura. Ma avvertitone papa Gregorio, ordinò tosto che maggiormente si armassero i posti; e, confidato nell'aiuto di Dio e nella protezion di san Pietro, fece il segno della croce sopra le fiamme, e queste cessarono. Abbiamo dalla Cronica di Farfa [Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.] che nel dì 17 di marzo esso Arrigo andò a visitare il celebre monistero di essa Farfa, ricevuto ivi con tutto onore da que' monaci, i quali punto non badavano alle scomuniche pontificie, e tennero sempre con esso re, perchè quello era monistero regale ossia imperiale. Fu dai medesimi ammesso alla confraternita e alla participazion delle loro orazioni: rito antichissimo dell'ordine benedettino. Assediò egli il castello di Fara, e lo restituì all'abbate Berardo. Fece dipoi prigione Bonizone vescovo di Sutri, personaggio celebre non men per le sue disavventure che per la sua letteratura, restando tuttavia alcuni opuscoli suoi manuscritti, uno de' quali, cioè de Ecclesiasticis Sacramentis, è stato da me dato alla luce [Antiquit. Ital., Dissert. V.]. Fu egli dipoi creato vescovo di Piacenza; ma dagli scismatici restò un giorno barbaramente trucidato. In quest'anno ancora il timore dell'aria malsana dei contorni di Roma fece dopo Pasqua tornare Arrigo con pochi verso la Lombardia [Card. de Aragon., in Vit. Greg. VII.]. Lasciò nondimeno l'antipapa Guiberto in Tivoli coll'esercito, acciocchè continuasse il blocco di Roma, con farlo divenire di falso papa vero generale d'armata. Ostinatamente intanto proseguì [410] il duca Roberto Guiscardo anche nel verno l'assedio di Durazzo nell'Albania [Gaufrid. Malaterra, lib. 3, cap. 28. Guilielm. Apulus, lib. 4.]. Accadde che un certo Domenico nobile veneziano ebbe dei disgusti in quella città, difesa allora dal valoroso stuolo de' Veneziani. Questi perciò cominciò una trama col Guiscardo per renderlo padrone della città, con farsi prima accordare in moglie una nipote del duca, ed altre vantaggiose condizioni. Andò sì felicemente innanzi il trattato [Anonymus Barensis, apud Peregrinum.], che nella notte del dì 8 di febbraio dell'anno presente, scalate le mura, i Normanni furono introdotti nella città. Restò prigione il figliuolo del doge di Venezia con altri molti veneti, e con assai loro navi, e tutto il circonvicino paese in potere di Roberto.

Ora Alessio Augusto, non sapendo più che argine mettere al torrente impetuoso di questo conquistatore [Anna Comnena, Alexiad., lib. 3.], spedì un'ambasceria con ricchi regali al re Arrigo, per impegnarlo a fare una diversione con portare la guerra in Puglia, rappresentandogli la facilità delle conquiste, mentre le forze di Roberto erano oltre mare, e promettendogli mari e monti per questo benefizio. Ossia che Arrigo accettasse la offerta, o che Alessio facesse spargerne la voce con politica finzione, ne fu ben tosto spedito l'avviso al duca Roberto. Egli allora, conoscendo necessaria la sua presenza in Italia, lasciato al figliuolo Boamondo il comando dell'esercito, tornossene in Puglia, ed attese a raunar gente per tutti i bisogni. Prima della sua venuta, pare che accadesse quanto vien narrato da Guglielmo Pugliese [Guillelmus Apulus, lib. 4.], cioè che il popolo di Troia, dove si trovava il principe Ruggieri figliuolo del duca, si ribellò, e costrinse il principe a rifuggirsi nella rocca, alla quale tosto fu messo l'assedio. In aiuto ancora de' Troiani accorse il popolo d'Ascoli, irritato forte per l'aspro trattamento fatto nel precedente anno da [411] esso Ruggieri alla loro città. Ma venuto da più parti soccorso, il principe fece una sì vigorosa sortita dalla rocca, che gli riuscì di dispergere quella ribellione. Costò la vita ad assaissimi di quelle due città l'ardito ed infelice tentativo. Aveva intanto Ruggieri conte di Sicilia [Gaufrid. Malaterra, lib. 3, cap. 30.] raccomandato il governo delle sue conquiste in quell'isola a Giordano suo figlio bastardo, perchè pressanti affari il richiamavano in Calabria. Lasciatosi l'ambizioso giovane pervertire dai consigli degli adulatori, si mise in possesso d'alcune castella, e tentò di occupar Traina, dove era il tesoro del padre; ma questo ultimo non gli riuscì. All'avviso di tal novità ritornò frettolosamente Ruggieri in Sicilia; invitò al perdono il mal consigliato figliuolo; e fatti abbacinare dodici de' più colpevoli, lasciò il governo della Sicilia a più fidata persona. Tornato che fu in Lombardia il re Arrigo, per testimonianza di Donizone [Donizo, Vit. Mathild., lib. 2, cap. 1.] e di Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.], si diede a far guerra alla contessa Matilda, principale sostegno della parte pontificia in Italia. Aveva ella, per così dire, una selva di fortezze nelle montagne di Modena e Reggio, Canossa, Bibianello, Carpineta, Monte Baranzone, Montebello ed altri simili luoghi montuosi di sua ragione aveano rocche fortissime, delle quali resta tuttavia qualche vestigio

Insuperabilia loca sunt sibi plurima fixa:

così scrive Donizone. Con tale attenzione e valore accudiva a tutto l'eroina contessa che potè ben egli dare il guasto al paese, e formar degli assedii, ma senza che gli venisse fatto di conquistare alcuno de' suoi forti castelli. Soccorreva ella nel medesimo tempo con danari papa Gregorio, che troppo ne abbisognava, per sostenersi contro l'esercito dell'antipapa. E fu in questa occasione e nell'anno presente, che essa contessa [412] con Anselmo vescovo di Lucca, scacciato dalla sua chiesa, e vicario del papa in Lombardia, richiesero al monistero di Canossa il suo tesoro per li bisogni della Chiesa romana [Rerum Italicar., tom. 5, pag. 385.]. Non ebbe difficoltà l'abbate Gherardo coi monaci a concederlo. Consistè esso in settecento libbre d'argento, e in nove libbre d'oro, che furono inviate a Roma. Ma la pia contessa non mancò di dar qualche compenso a quel monistero, con assegnargli alcune chiese, e fargli poscia altri benefizii. Facilmente i principi del secolo metteano le mani sopra i tesori delle chiese; ma pochi imitavano Matilda nell'indennizzarle in altra guisa.


   
Anno di Cristo MLXXXIII. Indizione VI.
Gregorio VII papa 11.
Arrigo IV re di Germania e d'Italia 28.

In quest'anno ancora per la terza volta ritornò il re Arrigo sotto Roma con isperanza d'entrarvi un giorno colla forza, o almeno con intenzione di stancare i Romani e d'indurli a qualche capitolazione [Berthold. Constantiensis, in Chron.]. Fece alzare un castello in faccia alla città leonina, che infestava molto i Romani difensori d'essa città. Certamente s'ingannò Bertoldo da Costanza, autore per altro assai esatto di questi tempi, in credere che l'antipapa Guiberto fosse consecrato papa ed intronizzato nel presente anno. Ciò avvenne nell'anno seguente. Quand'anche Arrigo in questo anno si fosse impadronito del Vaticano, certamente non mise piede nella basilica lateranense, necessaria per intronizzare un papa. Vero è bensì ch'egli cominciò de' trattati segreti coi nobili romani, impiegando cogli uni l'oro, e l'ingorde promesse cogli altri, in maniera che, a riserva di Gisolfo principe di Salerno, essi convennero di far tenere al papa nel mese di novembre venturo un concilio, dove si dibattesse la causa del regno controverso, [413] ed ognun si acquetasse alla determinazion di quella sacra assemblea. Promise Arrigo di lasciar libero a tutti il cammino per intervenirvi. Tornossene perciò egli in Lombardia, e fece venire a Ravenna il suo antipapa. Ma non mantenne poi la parola, perciocchè fece prigioni i legati de' principi tedeschi suoi nemici; trattenne inoltre Ottone vescovo di Ostia, legato della santa Sede, e molti altri; impedì ancora che Ugo arcivescovo di Lione, Anselmo vescovo di Lucca e Rinaldo vescovo di Como non potessero intervenire al concilio suddetto. Fu nondimeno celebrato esso concilio [Labbe, Concil., tom. 10.] nel dì 20 di novembre, e da tanti fu pregato il pontefice Gregorio, che s'astenne dallo scomunicar di nuovo Arrigo; ma con tal forza parlò della fede e morale cristiana, e della costanza necessaria nella persecuzione presente, che cavò le lagrime dagli occhi di tutti. Scomunicò soltanto chi aveva impedito quei che venivano a Roma [Card. de Aragon., in Vit. Gregor. VII.]. Molte istanze fecero i Romani, acciocchè egli accogliesse Arrigo senza esigere soddisfazione. Ma egli saldissimo negò di farlo, quando Arrigo non soddisfacesse per le offese fatte a Dio e alla Chiesa. Si venne allora in cognizione che essi Romani aveano nella state precedente contratta obbligazione con giuramento di fare in maniera che il papa gli desse la corona; e non volendola dare, ch'essi eleggerebbono un altro che gliela desse, con discacciare lo stesso Gregorio papa. Nè egli, nè i suoi familiari aveano fin qui potuto discoprir quest'arcano. Si ricorse dunque ad un sottil ripiego: cioè, che non avendo i Romani promesso di dare ad Arrigo la corona con solennità, poteano rispondere di esser pronti a fargliela dare dal papa, qualora il re desse segni di vero pentimento; se no, il pontefice con una fune gliene manderebbe giù una da castello Sant'Angelo. Nè l'uno, nè l'altro piacque ad Arrigo; e però i Romani protestarono di essere assoluti dalla lor promessa, [414] e dal giuramento a lui fatto, e si unirono di nuovo a sostener papa Gregorio. In questi infelici tempi restarono pochissimi vescovi uniti al partito d'esso pontefice, e questi ancora, per la maggior parte cacciati dalle lor chiese. Il rifugio di tutti era allora la contessa Matilda. Arrigo tornato dipoi sotto Roma, celebrò il santo Natale apud sanctum Petrum, come ha l'Urspergense [Urspergensis, in Chron.].

Abbiamo da Pietro Diacono [Petrus Diacon., Chron. Casinens. lib. 3, cap. 30.] che esso Arrigo, dopo aver preso e distrutto il portico di san Pietro, scrisse a Desiderio insigne abbate di Monte Casino, perchè venisse a trovarlo. Non sapendo l'abbate che titolo dargli, non gli rispose. Un'altra lettera più forte e minacciosa gli scrisse Arrigo, comandandogli di presentarsi a lui in Farfa. Rispose allora Desiderio assai cautamente, con addurre per sua scusa i pericoli del viaggio per cagion de' Normanni; e intanto significò a papa Gregorio quanto gli accadeva, per sapere come si avesse a regolare; ma Gregorio niuna risposta gli diede. Sopravvenute poi altre lettere più formidabili di Arrigo, che minacciavano la rovina del monistero, Desiderio andò fino ad Albano, e trattò con Giordano principe di Capoa, ma stando sempre saldo in non voler giurar fedeltà ad Arrigo, e ricevere dalle mani di lui la badia, benchè badia imperiale. Se Giordano non avesse smorzata l'ira di Arrigo, era questa per iscoppiare in danno del monistero. Ma mise egli sì buone parole, che Desiderio fu ammesso all'udienza del re. Alla istanza di prendere da lui il baston pastorale rispose, che quando la maestà sua avesse ricevuta la corona imperiale, allora esso abbate risolverebbe o di ricevere da lui la badia, o di rinunziarla. Ed essendosi fermato più giorni in corte, ebbe di gravi dispute coll'antipapa, e collo stesso vescovo d'Ostia ritenuto da Arrigo, intorno al valore del [415] decreto di papa Niccolò II, ch'essi voleano far valere, ed egli lo sosteneva per cosa ingiusta e pazzamente fatta, benchè fatta da un papa e da un numeroso concilio. Non finì la faccenda che Desiderio ottenne da Arrigo il diploma confermatorio dei beni del suo monistero con bolla d'oro, ed impetrata licenza, se ne tornò al suo monistero. Avrei volentieri veduto questo diploma per conoscere a qual anno veramente appartenga questo fatto. Ma o esso è perito, o il padre Gattola non giudicò bene di darlo alla luce nella Storia sua del monistero casinense. Erasi ribellata a Roberto Guiscardo duca la città di Canne. Sono concordi Guglielmo Pugliese [Guillelmus Apulus, lib. 4.], Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.], l'Anonimo Barense [Anonymus Barensis, apud Peregrin.] e Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernit., Chron., tom. 7 Rer. Italic.] in scrivere che Roberto nel maggio dell'anno presente vi mise l'assedio. Presa poi nel mese di giugno, oppure nel dì 10 di luglio, quella terra, la distrusse affatto. Aggiugne esso Anonimo che il duca suddetto afflisse non poco il popolo di Bari con una esorbitante contribuzione loro imposta, e col carcerar molti di que' cittadini. E Lupo scrive che i Romani erano in procinto di darsi al re Arrigo: il che saputo da Roberto, inviò a Roma trentamila scudi d'oro, e coll'applicazione di questo rimedio tenne quell'anime venali attaccate al partito del papa e suo. Temeva egli, che prevalendo l'armi d'Arrigo, si volgessero poi contra delle sue conquiste. Nè si dee tacere che per testimonianza di Pietro Diacono, Giordano principe di Capoa provvide anch'egli a' suoi interessi con prendere dal re Arrigo l'investitura di quel principato, mediante lo sborso di gran quantità di danaro, adattandosi alle scabrose congiunture di questi tempi. Ma il monistero di Monte Casino, spettante al distretto del principato [416] medesimo, fu riserbato sotto il dominio, ossia sotto la protezione degli imperadori. Era restato in Albania al comando dell'armata normannica Boamondo, prode figliuolo primogenito di Roberto Guiscardo. Anna Comnena scrive [Anna Comnena, lib. 5 Alexiad.] che egli occupò e fortificò la città di Giovannina. Venne l'imperador greco Alessio nel mese di maggio per opporsi ai di lui progressi, ma in due battaglie restò sconfitto. Avendo poi fatto calare in aiuto suo un possente corpo di Turchi, gli riuscì di sconfiggere i Romani che assediavano Larissa. Ricuperò anche la città di Castoria dianzi presa da Boamondo. In quest'anno, per attestato di Sicardo [Sicard., Chron., tom. 7 Rer. Ital.], la contessa Matilda assediò Nonantola nel contado di Modena. È da credere che questo insigne monistero, per essere imperiale, seguitasse le parti del re Arrigo.


   
Anno di Cristo MLXXXIV. Indizione VII.
Gregorio VII papa 12.
Arrigo IV re 29, imperad. 1.

Secondochè abbiamo da Anna Comnena [Anna Comnena, lib. 3.], il greco imperadore Alessio suo padre avea inviato al re Arrigo cento quaranta quattro mila scudi d'oro, e cento pezze di scarlatto, per indurlo a muovere guerra al duca Roberto. Ma, per quanto scrisse Bertoldo da Costanza [Bertholdus, Constantiensis, in Chron.], Arrigo si servì di tutto quest'oro per abbagliare e guadagnare il basso popolo romano in suo favore. Vero è raccontarsi dall'Annalista Sassone [Annalista Saxo, apud Ecchardum.], ch'egli sul principio di febbraio entrò nella Campania, e prese gran parte della Puglia. Ma di ciò niun altro storico parla. Poscia fu dagli ambasciatori romani invitato ad entrar pacificamente in Roma. Gli fu infatti aperta la porta lateranense nel giovedì prima delle palme, cioè nel dì 21 di marzo di quest'anno: con che egli si [417] mise in possesso del palazzo lateranense e di tutti i ponti, e presso a poco d'ogni luogo forte di Roma. Ebbe tempo il pontefice Gregorio di salvarsi in castello Sant'Angelo. E perciocchè la maggior parte dei nobili teneva pel papa, volle Arrigo da essi cinquanta ostaggi. Nel dì seguente, come lasciò scritto l'abbate Urspergense [Urspergensis, in Chron.], fece accettare dal popolo il suo antipapa Guiberto; e questi nella seguente domenica delle Palme fu poi consecrato, non già dai vescovi d'Ostia, di Porto e d'Albano, a' quali appartiene, ma bensì dai vescovi di Modena e di Arezzo, come ha Bertoldo da Costanza, oppure da quei di Bologna, Modena e Cervia, come s'ha dalla Vita d'esso papa Gregorio [Cardinal. de Aragon., in Vit. Gregor. VII.], conservata a noi dal cardinale d'Aragona. Altri danno questo brutto onore a quel di Cremona, in vece di quello di Cervia. Guiberto, se non prima, assunse allora il nomo di Clemente III. Venuto il giorno santo di Pasqua, cioè nel dì 31 di marzo, l'antipapa ed Arrigo s'incamminarono alla volta di San Pietro; ma si trovò una squadra di gente fedele al papa che volle impedire il lor passaggio, ed uccise o ferì quaranta degli Enriciani. Contuttociò nella basilica vaticana ricevette Arrigo dalle mani del sacrilego antipapa la corona imperiale e il titolo d'imperadore Augusto. Tale il chiamerò anch'io, come han fatto tanti altri, quantunque illegittimo imperadore, perchè unto e coronato da un usurpatore del romano pontificato; giacchè neppure i Romani poteano privare di questo diritto il papa legittimo tuttavia vivente. Ascese poscia Arrigo nel Campidoglio, atterrò tutte le case de' Corsi, cominciò ad abitare in Roma, come in sua propria casa. Vi restava ancora il Septisolio, creduto da alcuni di Septizonio, antico e maestevol mausoleo, dove s'era fatto forte Rustico nipote di papa Gregorio. A questo sito mise Arrigo l'assedio, e cominciò con varie macchine a batterlo; ma eccoti [418] una nuova che gli fece mutar pensiero. Allorchè vide il pontefice Gregorio quanto poco egli si potesse fidare del popolo romano, e fu astretto a ricoverarsi in castello Sant'Angelo, immantenente scrisse e spedì messi al duca Roberto Guiscardo, ricordandogli l'obbligo, le promesse e la congiuntura pressante di recargli soccorso. Questo bastò perchè Roberto, il quale si trovava allora in Puglia, e non già in Albania, allestisse un copioso esercito, capace di soccorrere il papa. Dopo di che si mise animosamente in viaggio alla volta di Roma. Informato di questa spedizione [Petrus Diaconus, Chron. Casin., lib. 3.] Desiderio abbate di Monte Casino, ne spedì tosto l'avviso segretamente a papa Gregorio per fargli conoscere vicina la sua liberazione, ed anche segretamente all'Augusto Arrigo, acciocchè egli prendesse la risoluzione che infatti prese. Non si può negare [Pandulfus Pisan., in Vit. Gregor. VII, P. I, tom. 3 Rer. Italic.]: quasi tutto il popolo romano era per esso Arrigo, ed aveva assediato il papa in castello Santo Angelo, con alzarvi un muro incontro, acciocchè niuno potesse entrarvi od uscirne. Contuttociò neppure fidandosi Arrigo di una città chiamata venale dallo stesso autore della Vita di Gregorio VII, e trovandosi ivi con poca guarnigione delle sue genti, determinò di sloggiare. Veniva [Guillelmus Apulus, lib. 4 Poemat.] Roberto con grande sforzo di milizie, cioè con sei mila cavalli, e trenta mila fanti, ed oltre a ciò, il solo suo nome e la riputazione d'invitto capitano valeva un mezzo esercito: laonde non parve bene ad Arrigo di aspettarlo. Tre giorni dunque prima che Roberto arrivasse, fece una bella allocuzione a tutti i Romani, con espor loro la necessità di venire per suoi affari in Lombardia, pregandoli di aver cura della città, e promettendo di far per loro delle maravigliose cose in ritornando. Quindi si ridusse coll'antipapa a Cività Castellana, e di là s'inviò verso Siena.

[419] Non mancavano a papa Gregorio aderenti in Roma, specialmente fra la nobiltà. Scrivono alcuni che, per concerto precedentemente fatto, e suggerito da Cencio console de' Romani, fu attaccato in più luoghi della città il fuoco; e mentre il popolo si trovava impegnato per estinguere l'incendio, Roberto fu messo entro la città per la porta Flaminia. Altri dicono che, dopo esser egli entrato, i Romani presero l'armi contra di lui, ma senza potergli nuocere. Ed egli, all'incontro, diede alle fiamme e distrusse affatto tutta la parte di Roma, dove son le chiese di san Silvestro e di san Lorenzo in Lucina, oppure tutto il rione del Laterano fino al Colisseo. Anzi, secondo Bertoldo da Costanza [Bertholdus, Constantiensis, in Chron.], diede il sacco a tutta la città, e la maggior parte d'essa ridusse in mucchi di sassi, con isvergognar le donne e le monache stesse, e commettere tutti gli altri eccessi che accompagnano un saccheggio militare. Landolfo Seniore, storico milanese di questi tempi [Landulfus Senior, Histor. Mediolan., lib. 4, cap. 3.], ci lasciò un orrido ritratto di questo fatto: e non è da maravigliarsene, perchè Roberto menò seco una gran quantità di Saraceni a quell'impresa, nemici del cristianesimo, e nati per esterminar ogni cosa. Romoaldo Salernitano scrisse [Romualdus Salernitanus, in Chron., tom. 7 Rerum Italicarum.] ch'egli incendiò Roma dal palazzo lateranense fino a castello Sant'Angelo: il che forse non merita molta credenza. Nè tardò Roberto a presentarsi davanti ad esso castello, e a liberare il papa con rimetterlo nel Laterano. Goffredo Malaterra notò [Gaufrid. Malaterra, Hist., lib. 3, cap. 37.] che Roberto con una scalata entrò in Roma, liberò il papa, e condusselo al Laterano. Da lì a tre dì i Romani presero l'armi contra de' Normanni. Roberto allora gridò fuoco, e perciò la maggior parte della città restò incendiata, e i Romani per forza si acconciarono col papa. Fermossi dipoi per alquanti giorni in quella [420] città Roberto; nel qual tempo fece schiavi assaissimi di que' perfidi cittadini, ed altri ne castigò con varie pene. Lo stesso papa tenne l'ultimo de' suoi concilii romani, dove fulminò di nuovo la scomunica contra di Guiberto e di Arrigo. Partissi finalmente di Roma il Guiscardo, e, secondo l'autore della Vita di papa Gregorio [Cardin. de Aragon., in Vit. Gregor. VII.], lasciò esso pontefice nel palazzo lateranense. Ma più peso ha qui da avere l'asserzione di Pietro Diacono, di Pandolfo Pisano, di Lupo Protospata e d'altri, che ci assicurano che il pontefice non credendosi sicuro fra gli incostanti ed infedeli Romani, irritati ancora dall'aspro trattamento fatto in questa congiuntura a loro e alla città, se ne andò con esso Roberto a Monte Casino, e di là alla forte città di Salerno. Non potè di meno lo stesso Malaterra di non alzar la voce contra di Roma, allora sì ingrata ad un pontefice di virtù cotanto eminenti, con dire fra l'altre cose [Malaterra, lib. 3, cap. 38.]:

Leges tuae depravatae plenae falsitatibus.

In te cuncta prava vigente luxus, avaritia,

Fides nulla, nullus ordo. Pestis simoniaca

Gravat omnes fines tuos. Cuncta sunt venalia.

Per te ruit sacer ordo, a qua primum prodiit.

Non sufficit papa unus: binis gaudes infulis.

Fides tua solidatur sumptibus exhibitis.

Dum stat iste, pulsas illum; hoc cessante revocas;

Illo istum minitaris. Sic imples marsupias.

In questi medesimi tempi non istavano in ozio i partigiani d'Arrigo in Lombardia, paese dove pochi si contavano aderenti al papa. Sosteneva nondimeno questo altro partito vigorosamente la contessa Matilda, principessa nell'amor della religione a niuno seconda, e superiore al suo sesso nella politica e nella conoscenza dell'arte militare. Un fatto avvenne che recò a lei gran gloria, e rincorò chiunque manteneva buon cuore per la parte pontificia. Donizone [Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2, cap. 3.] pare che lo riferisca ad alcuno degli anni seguenti. Ma Bertoldo da Costanza [Bertholdus Constantiensis, in Chron.] e l'autore della Vita [421] di santo Anselmo ne parlano all'anno presente. Cioè non fu sì tosto giunto in Lombardia Arrigo IV, che ordinò ai vescovi e marchesi di mettere insieme un buon esercito con voce (finta o vera, non so) di voler tornare alla volta di Roma. I fatti furono diversi. Mosse egli nuova guerra alla contessa Matilda, e spedì quell'esercito sul Modenese, da cui fu impreso l'assedio del castello di Sorbara. Benchè la contessa tanta gente non avesse da potersi cimentare con sì poderosa armata, tuttavia, avendo dalle spie inteso che quegli assedianti, senza curarsi di guardie, se ne stavano alla balorda nel loro campo sotto Sorbara, una notte, quando men se l'aspettavano, mandò le sue milizie ad assalirli. Ne riportò (forse nel mese di luglio) un'insigne vittoria, fece prigione Eberardo vescovo di Parma con cento dei migliori soldati, sei capitani, più di cinquecento cavalli, assaissime armature, e l'equipaggio del campo de' nemici. Il marchese Oberto generale di quell'armi con assai ferite si diede alla fuga; e Gandolfo vescovo di Reggio, scappato nudo, per tre dì stette nascoso in uno spinaio. In quest'anno ancora Guelfo duca di Baviera, presa la città d'Augusta, e cacciatone Sigefredo vescovo scismatico, pose in quella sedia Wigoldo pastore legittimo. Ma Arrigo, che era nel dì 19 di giugno in Verona, ed ivi confermò i privilegii a que' canonici [Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 in Episcop. Veronens.], ad avea nel dì 17 confermati i suoi beni al monistero di san Zenone [Antiquit. Italic., Dissert. XIII.], essendo passato sul principio d'agosto in Germania, ed avendo assediata la medesima città di Augusta, la costrinse anch'egli alla resa. Dacchè fu sbrigato dagli affari pontificii Roberto Guiscardo [Anna Comnena, Alexiad., lib. 5.], venne a trovarlo Boamondo suo figliuolo, per ottener soccorso di gente e di danaro, perchè l'esercito di lui lasciato in Albania, non correndo le paghe, minacciava di rivoltarsi, [422] e l'imperadore Alessio segretamente avea fatto offerir loro di soddisfarli. Era in collera Roberto contra di Giordano principe di Capoa [Guillelmus Apulus, lib. 5.], perchè avesse ricevuta da Arrigo l'investitura degli Stati, e gli mosse guerra per questo, con dare a ferro e fuoco parte del di lui paese. Forse passò l'affare di concerto fra loro, acciocchè Giordano avesse un apparente motivo di rinunziare all'aderenza dell'imperadore, e di riunirsi con papa Gregorio, siccome in effetto seguì. Goffredo Malaterra scrive che questa mossa di Roberto contra di Giordano accadde molto prima ch'egli andasse a liberar il papa dall'assedio di Roma. Fece Roberto consecrare da esso pontefice la magnifica chiesa ch'egli avea fabbricata in Salerno; e ciò fatto, attese ad una strepitosa spedizione in Albania contra del greco Augusto. Sul principio dunque dell'autunno, seco conducendo anche Ruggieri altro suo figliuolo, con una poderosa armata navale di gente e di cavalli passò il mare [Idem, lib. 4.]. Nel mese di novembre venne a battaglia colla flotta de' Greci e Veneti con tanto vigore, che la sbaragliò; prese alcune delle loro navi; due cogli uomini ne affondò, da due mila n'ebbe prigionieri, ed alcuni migliaia d'uomini dalla parte d'essi Greci e Veneziani vi perirono. Anna Comnena scrive che due vittorie contro i Normanni aveano prima riportate in quest'anno i Veneziani: del che niuna menzione vien fatta dagli altri storici. Confessa dipoi essa istorica la terribil rotta suddetta, loro data dal Guiscardo, la qual fu cagione che si sciogliesse l'assedio di Corfù, già incominciato dai Greci. Svernò in quelle parti Roberto, macchinando sempre maggiori imprese contra del greco Augusto. Abbiamo dal Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] che Vitale Faledro, con prevalersi della disgrazia succeduta alla flotta veneta spedita in favore de' Greci, suscitò l'odio del popolo veneto contra di Domenico Silvio loro [423] doge; ed aggiunti poi donativi e promesse, tanto fece che esso Domenico fu deposto. Dopo di che fu egli sostituito nella medesima dignità. Appresso scrive, avere Vitale inviati a Costantinopoli i suoi legati che gli ottenessero dall'Augusto Alessio il titolo di protosebasto: perlochè da lì innanzi il doge veneto cominciò ad intitolarsi dux Dalmatiae et Croatiae, et imperialis protosevastos. Confermò in quest'anno Arrigo imperadore tutti i suoi privilegii e beni al monistero di Farfa, come costa dal suo diploma inserito nella Cronica farfense [Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.]. Que' monaci riconosceano allora per papa Guiberto, e tenevano saldo il partito d'Arrigo.


   
Anno di Cristo MLXXXV. Indizione VIII.
Gregorio VII papa 13.
Arrigo IV re 30, imperad. 2.

Dimorava tuttavia in Salerno papa Gregorio, quando volle Iddio liberarlo dalle tribulazioni del mondo cattivo, e chiamarlo a miglior vita [Paulus Benried., in Vit. Greg. VII.]. Cadde egli infermo nel mese di maggio; ed interrogato chi egli designasse per suo successore in tempi tanto turbati della Chiesa, tre ne nominò, cioè Desiderio cardinale ed abbate di Monte Casino, Ottone vescovo d'Ostia ed Ugo arcivescovo di Lione. Perchè i due ultimi erano fuori d'Italia, consigliò di eleggere Desiderio. Fattagli istanza di dar l'assoluzione e benedizione agli scomunicati, rispose che, a riserva di Arrigo e dell'antipapa Guiberto, e dei principali fomentatori di quello scisma, la concedeva agli altri tutti. Però vien creduto falso il dirsi da Sigeberto [Sigebertus, in Chronico.] ch'egli rimettesse in sua grazia Arrigo. L'ultime sue parole furono: Dilexi justitiam, et odovi iniquitatem: propterea morior in exsilio. Nel dì 25 di maggio passò egli alla gloria de' beati: pontefice onorato da Dio in vita e dopo da morte varii miracoli, [424] e perciò registrato nel catalogo dei santi. Innumerabili contradittori ebbe egli vivente, altri non pochi ne ha avuti anche a' dì nostri. Quel che è certo tante calunnie divolgate contra di lui sono patentemente smentite dalla vita incorrotta che egli sempre menò, e dal suo zelo per la purità della disciplina ecclesiastica. Se poi i mezzi da lui adoperati per ottenere questo lodevol fine sieno anch'essi tutti degni di lode, alla venerazion mia verso i capi della Chiesa non conviene esaminarlo, nè alla mia tenuità di volere decidere. Fu data sepoltura al sacro corpo del defunto pontefice nella chiesa di san Matteo di Salerno, e i cardinali, conoscendo il bisogno della Chiesa, tutti rivolsero gli occhi sopra il suddetto abbate casinese Desiderio [Petrus Diac., Chron. Casin., lib. 3, cap. 65.], uomo incomparabile per la sua saviezza e purità di costumi, ed amico di tutti i principi. Ma ritrovando in lui ripugnanza indicibile a questo peso, ancorchè avessero implorato l'aiuto di Giordano principe di Capoa e d'altri signori, passò il resto dell'anno senza che si desse un nuovo pastore alla Chiesa romana. Nello stesso dì 25 di maggio cessò ancora di vivere Tedaldo ossia Tebaldo arcivescovo di Milano, capo e colonna maestra degli scismatici di Lombardia [Berthold. Constantiensis, in Chron.], mentre era in Arona, terra della sua chiesa sul Verbano, cioè sul Lago Maggiore, e non già posta fra Como e Bergamo, come immaginarono i padri Papebrochio e Pagi. Ebbe per successore Anselmo da Rho. Nega esso padre Pagi [Pagius, Chrit. ad Annal. Baron.] che questo nuovo arcivescovo fosse eletto dall'imperadore Arrigo; o se pur fu eletto dal clero e popolo milanese, prendesse da Arrigo l'investitura, con allegare Bertoldo da Costanza laddove scrive che dopo la morte d'esso Tedaldo la chiesa di Milano erigere caput coepit, excussoque e cervicibus jugo schismaticorum, catholicum sibi delegit antistitem, Anselmum ejus nominis tertium. Ma queste son parole del [425] cardinal Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.], e non già di Bertoldo. All'incontro Landolfo juniore [Landulf. Junior, Hist. Mediolan., cap. 9, tom. 5 Rer. Ital.], siccome osservò il signor Sassi [Saxius, in Notis ad Landulfum Junior.], chiaramente scrive che Anselmo fu investito da Arrigo. Vedremo ben poi lo stesso arcivescovo abbracciare fra qualche tempo il partito de' cattolici; ma questo non fa che egli sulle prime non ricevesse dalle mani dell'imperadore il baston pastorale. Mancarono ancora di vita i vescovi scismatici di Parma, di Reggio, di Modena e di Pistoia; e perchè in questi tempi la contessa Matilda ricuperò non poco della sua autorità, furono provvedute le tre ultime chiese di pastori cattolici.

Stava intanto Roberto Guiscardo duca di Puglia facendo maravigliosi preparamenti di navi e di gente colla vasta idea di portar la guerra nel cuore del greco imperio, e di mettere almeno in contribuzione i luoghi marittimi di quella monarchia; ma abortì ogni suo disegno, perchè passato in Cefalonia per prendere la città di quell'isola, infermatosi quivi terminò i suoi giorni nel dì 17 di luglio. Con che venne meno uno de' principi più memorabili della storia normannica ed italiana, che da picciolo gentiluomo era pervenuto ad essere come un re col suo infaticabil valore, colla sua accortezza e con altre eroiche doti, mischiate nondimeno con una smoderata ambizione, e cogli altri vizii de' conquistatori che passano per virtù negli occhi del mondo, ma non già in quelli di Dio. Post multorum pauperum et divitum oppressionem, cujus avaritiae nec Sicilia nec Calabria suffecit, finì egli di vivere, come scrisse Bertoldo da Costanza [Berthold. Constantiensis, in Chron.]. Secondo l'uso dei secoli barbari, non mancò chi attribuì la sua morte al veleno, fattogli dare o dall'imperadore Alessio, o da Sichelgaita duchessa sua moglie [Olderic. Vitalis, lib. 7 Hist. Alber. Monachus, in Chron.]. Resta questa voce distrutta [426] da Guglielmo Pugliese [Guillelmus Apulus, lib. 5.], da Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernit., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.] e da altri, che cel rappresentano mancato di morte comune. Trovaronsi alla morte di lui presenti la stessa duchessa con Ruggieri suo figliuolo, e Boamondo nato a Roberto dal primo matrimonio. Avea Sichelgaita già fatto dichiarar principe ed erede degli Stati il suo figlio Ruggieri, soprannominato Borsa: pure, temendo che i popoli, udita la morte del marito, tumultuassero, oppure che Boamondo disputasse la successione ad esso suo figlio, siccome infatti avvenne, frettolosamente ripassò in Italia sopra la miglior galea di quell'armata, con riportar seco il cadavero del defunto consorte. Prima nondimeno di partirsi dalla Cefalonia, esso principe Ruggieri parlò all'esercito, e trovò tutti disposti alla fedeltà verso di lui. Ma non fu sì tosto egli allontanato, che quasi fosse caduto il mondo nella persona di Roberto Guiscardo, tutta quell'armata sorpresa da panico spavento, lasciando armi e bagaglio, corse alle navi, e, come potè il meglio, se ne venne alla volta d'Otranto. Già toccavano i lidi della Puglia, quando insorta una fiera tempesta, ingoiò molte di quelle barche e gran quantità di gente. Ruppesi la stessa galea che portava il cadavero del Guiscardo; e questo andò in mare, da dove con fatica ricuperato, fu poi seppellito nella città di Venosa. Durazzo e l'altro paese già conquistato da Roberto non tardò a rimettersi sotto il dominio del greco Augusto. Fu proclamato duca Ruggieri in Puglia, Calabria e Salerno; ma Boamondo, suo fratello maggiore di età, non potendo sofferire di vedersi così escluso dall'eredità, benchè primogenito, appena fu anch'egli tornato in Italia, che si diede a far gente e movimenti contro del fratello. In Germania, dove si trovavano l'imperadore Arrigo e il re Ermanno, nulla seguì di memorabile nell'anno presente. Tenuto fu un concilio in Quintilineburgo [427] dal già liberato vescovo di Ostia nella settimana di Pasqua [Berthold. Constantiensis, in Chron. Annalista Saxo.], ed in esso proferita la scomunica contra di alcuni simoniaci, con altri ordini spettanti all'ecclesiastica disciplina. V'intervenne lo stesso re Ermanno co' principi suoi seguaci. Raunarono dipoi i partigiani di Arrigo anch'essi un conciliabolo in Magonza, e ritorsero le censure contro la parte contraria. Ebbe maniera in questo anno esso Arrigo di tirar dalla sua buona parte de' Sassoni: così belle furono le promesse che loro diede di un buon trattamento. Ma quello sconsigliato principe tardò poco a far conoscere che la volpe muta il pelo, e non il vezzo; e però fu in breve rigettato e cacciato da chi gli avea prestata ubbidienza. Era in Ratisbona esso Arrigo nel dì 9 di novembre dell'anno presente, se vogliam credere al diploma con cui egli confermò i privilegii delle monache di santa Giulia di Brescia [Bullar. Casinense, tom. 2, Constit. CXVII.], dato V idus novembris anno dominicae Incarnationis MLXXXV, Indictione VII, anno autem domni Henrici regis quarti, imperatoris tertii, ordinationis ejus XXXI, regnantis quidem XXIX, imperii vero III. Actum Ratisponae. Ma c'è battaglia fra queste cronologiche note, e l'ultime indicano l'anno seguente 1086. Bensì Liutaldo duca tenne un placito in Padova nel dì 3 di marzo [Antiquit. Italic. Dissertat. XXVIII.], in cui Milone vescovo di quella città ottenne sentenza favorevole per alcuni beni della sua chiesa. Fu, siccome vedremo, Liutaldo duca di Carintia, e che fosse ancora marchese della marca di Verona in questi tempi, può risultare dall'alto sopraddetto. Oltre a Bertoldo di Costanza, gli Annali pisani fanno menzione [Annales Pisani, tom. 6 Rer. Ital.] di una terribile carestia che, unita colla peste, nell'anno presente popolò di cadaveri le sepolture.

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Anno di Cristo MLXXXVI. Indizione IX.
Vittore III papa 1.
Arrigo IV re 31, imperad. 3.

Conoscevasi molto pregiudiziale alla Chiesa cattolica, e più a Roma, la oramai troppo lunga vacanza della Sede apostolica. Però i vescovi e cardinali della santa Chiesa romana si unirono verso la festa di Pasqua [Petrus Diacon., Chron. Casinens., lib. 3, cap. 66 et seq.], e fecero sapere a Desiderio abbate di Monte Casino e cardinale di venire a Roma unito agli altri cardinali che con esso lui dimoravano, e con Gisolfo già principe di Salerno. Credendo egli che più non si pensasse a lui, andò colà nella vigilia della Pentecoste. Sulla sera furono a trovarlo e vescovi e cardinali e laici fedeli di san Pietro, per indurlo ad accettare il papato; ma egli protestò di voler piuttosto andar pellegrinando, che di condiscendere ai loro voleri; e caso che gli facessero qualche violenza, se ne tornerebbe tosto a Monte Casino tal quale era, ed essi commetterebbono con ciò un'azione ridicola. Nel dì seguente si congregarono tutti, e diedero a Desiderio la facoltà di nominar chi dovesse empiere la sedia di san Pietro; ed egli, col parere di Cencio console dei Romani, nominò Ottone vescovo di Ostia. Erano tutti in procinto di proclamar papa esso vescovo, quando uno dei cardinali si ostinò a non volerlo, con allegare i canoni, da' quali si proibiva la traslazione da un vescovato all'altro, quantunque tali canoni fossero oramai troppo andati in disuso. Questo accidente fu cagione che i vescovi e cardinali col clero e popolo risolvessero in fine di crear papa per forza Desiderio. Presolo dunque, l'elessero, violentemente gli misero addosso la cappa rossa, ma non poterono già vestirlo colla bianca, tanta fu la di lui resistenza, e gl'imposero il nome di Vittore III. Il prefetto dell'imperadore, che, lasciato in libertà dal duca Ruggieri, era tornato a Roma, e in Campidoglio [429] esercitava la sua autorità, adirato perchè i vescovi e cardinali, ad istanza di Gisolfo già principe di Salerno, non aveano voluto consecrare l'eletto arcivescovo salernitano, cominciò notte e dì a perseguitarli, acciocchè non seguisse la consecrazione dall'eletto papa. Dovendosi questa fare nella basilica vaticana, non poterono essi aver libertà per celebrarvi sì gran funzione. Però dopo quattro giorni esso Desiderio uscì di Roma, ed arrivato a Terracina, quivi depose la croce, il manto e l'altre insegne pontificali, risoluto di voler piuttosto andarsene pel mondo, che di sottomettere le sue spalle al peso del pontificato, e se ne tornò a Monte Casino. Per quante preghiere e lagrime i cardinali e i vescovi adoperassero, rappresentandogli il bisogno e il danno della Chiesa, nol poterono rimuovere. E tuttochè facessero venire al monistero Giordano principe di Capoa con un grande esercito, non riuscì ad alcuno d'indurre Desiderio a lasciarsi consecrare. In così fluttuante stato passò ancora l'anno presente.

Dominava tuttavia in Mantova la contessa Matilda, e seco si trovava l'illustre servo di Dio Anselmo, di nazione milanese, vescovo di Lucca, già dalla sua chiesa scacciato, e vicario del papa in Lombardia. Ammalatosi egli in essa città, passò a miglior vita nel dì 18 di marzo [Vita S. Anselmi Lucensis, in Act. Sanctor. Bulland. ad diem 18 martii.], e alla sua tomba succederono non poche miracolose guarigioni: per le quali, ma più per le sue insigni virtù, fu annoverato fra i santi. Scrisse molti libri, e ne restano due composti in difesa di papa Gregorio VII contra dell'antipapa Guiberto. Leggesi anche la sua Vita, scritta dal suo penitenziere, cioè da un autore contemporaneo. Eransi negli anni addietro ribellati i principali della Baviera a Guelfo IV loro duca, ed aveano abbracciato il partito dell'imperadore Arrigo [Berthold. Constantiensis, in Chron. Sigebertus, in Chron. Annalista Saxo et alii.]. [430] Nella Pasqua dell'anno presente si riconciliarono con Guelfo, ed abbandonarono il partito imperiale. Unitisi poscia essi Baveresi coi Suevi e Sassoni, si portarono ad assediare la città di Virtzburg. Portossi colà Arrigo con un esercito di venti mila persone tra fanti e cavalli, per liberarla dall'assedio. Seguì dunque una fiera battaglia fra quelle due armate nel dì 11 d'agosto. Rotto Arrigo, si salvò colla fuga, e de' suoi rimasero sul campo più di quattro mila, e pochissimi dei cattolici, a' quali poi non fu difficile l'avere in lor balia quella città, e l'intronizzarvi il vescovo cattolico Adalberone. Ma non passò molto che Arrigo tornò sotto quella città, per quanto scrive l'Urspergense [Urspergensis, in Chron.], dove fu di nuovo posto in sedia il vescovo scismatico. Essendosi poi portato esso Augusto vicino alla festa del santo Natale all'assedio di un castello in Baviera, Guelfo duca di quelle contrade e Bertoldo duca di Suevia gli furono addosso, e talmente lo strinsero, che, se volle uscirne, gli convenne promettere di tenere una dieta, dove si terminasse la discordia del regno.


   
Anno di Cristo MLXXXVII. Indizione X.
Vittore III papa 2.
Arrigo IV re 32, imperad. 4.

Verso la metà di quaresima dell'anno presente si raunarono molti vescovi e cardinali nella città di Capoa, e vi tennero un concilio, al quale presedette Desiderio già eletto papa [Petrus Diacon., Chron. Casinens., lib. 3, cap. 68.], ed intervennero Cencio console colla maggior parte della nobiltà romana, Giordano principe di quella città, e Ruggieri duca di Puglia. Vinto ivi Desiderio dalle tante loro preghiere, e, come io vo credendo, anche dalle promesse a lui fatte da que' principi e dai Romani di assisterlo con braccio forte contra dell'usurpatore antipapa, ripigliò la croce e la porpora; e tornato [431] nel dì delle Palme a Monte Casino, quivi solennizzò la Pasqua. Poscia passò con essi principi e colla loro armata verso Roma; e benchè fosse sorpreso da una languidezza di forze, si accampò fuori della porta di san Pietro. Dianzi avea l'antipapa occupata la basilica vaticana, e la difendea con una mano d'armati. Fu essa in fine ricuperata dalle armi collegate; e però il novello papa Vittore III venne quivi consecrato nella domenica dopo l'Ascensione dai vescovi d'Ostia, di Tuscolo, di Porto e di Albano, con gran concorso del popolo romano. Dopo otto giorni se ne tornò egli coi suddetti principi a Monte Casino. Ma perchè la contessa Matilda col suo esercito era giunta a Roma, egli notificò l'ardente sua brama d'abboccarsi con lui, per mare si restituì colà, e si fermò in san Pietro per otto giorni, e nel dì di san Barnaba coll'aiuto di Matilda, passato il Tevere, entrò in Roma, accolto da gran folla del popolo e dalla maggior parte della nobiltà. Così tornò in suo potere tutta quella città con castello Sant'Angelo, San Pietro, e le due città di Porto e d'Ostia. Prese egli abitazione nell'isola del Tevere. Ma nella vigilia di san Pietro eccoti comparire un messo, che si finse spedito da Arrigo, il quale intimò ai consoli, senatori e popolo romano la disgrazia dell'imperadore, se non abbandonavano papa Vittore. Allora i volubili Romani congiunti colle soldatesche dell'antipapa cacciarono di Roma tutti i soldati del papa, che si ritirarono in castello Sant'Angelo. Presero anche tutti i contorni della basilica vaticana, ma non poterono già entrare in essa basilica, in maniera che l'antipapa, che sperava di celebrar ivi messa nella festa di san Pietro, fu costretto a celebrarla nella chiesa di santa Maria nelle torri contigue alla vaticana. Nella sera poi ne uscì la guarnigion pontificia, e Guiberto nel dì seguente vi celebrò; ma ritiratisi i suoi, nel giorno appresso ritornò quella basilica alle mani di papa Vittore. Era ben compassionevole lo stato [432] di Roma in tempi di tanta turbolenza. Restituitosi a Monte Casino esso pontefice, passò poi nell'agosto a Benevento, dove tenne un concilio, condannò le investiture date agli ecclesiastici, rinnovò le scomuniche contra dell'antipapa Guiberto, e le medesime censure fulminò contra di Ugo arcivescovo di Lione e di Riccardo abbate di Marsiglia, perchè oppostisi all'esaltazion d'esso papa, s'erano dianzi separati dalla comunion della Chiesa romana. Non potè già accadere senza scandalo il vedere che questo arcivescovo, proposto dallo stesso papa Gregorio VII come persona degna di succedere a lui nel pontificato, mosso poi da ambizione e invidia, si rivoltasse contra d'esso papa Vittore, e ne sparlasse senza ritegno alcuno. Resta tuttavia una di lui lettera scritta alla contessa Matilda [Concilior. Labbe, tom. 10. Chronicon Virdunens., apud Labb.], dove tratta Desiderio per uomo dominato dall'ambizione, vanaglorioso, astuto, con chiamar nefande le di lui azioni; per le quali cagioni aveva esso arcivescovo impugnata la consecrazione del medesimo, con esigere ch'egli prima evacuasse alcuni reati. Tale nondimeno era stata in addietro la vita di Desiderio, tale la sua pietà e il suo zelo per la religione, che non si dee prestar fede alle dicerie di quell'arcivescovo, il quale ben si scopriva che moriva di voglia del pontificato romano, nè potea sofferire che altri l'avesse preoccupato. Mentre si celebrava il suddetto concilio, peggiorò di sanità papa Vittore, per cagione d'una gagliarda dissenteria, e però si affrettò di tornare a Monte Casino, dove presentò ai vescovi e cardinali Ottone vescovo di Ostia, consigliandoli di eleggerlo per suo successore. Dopo tre giorni, cioè nel dì 16 di settembre, passò a godere in cielo il premio delle sue fatiche, con lasciar fama di santità presso i buoni, non già presso gli scismatici, che scaricarono contra di lui non poche calunnie, come aveano fatto di Gregorio VII, le quali si [433] leggono nella Cronica d'Augusta [Chron. Augustan., apud Freherum, tom. 1.]. Nè mancano scrittori che il dicono [Dandulus, in Chronico, tom. 12 Rer. Ital. Martinus Polonus, in Chron. et alii.] morto di veleno a lui dato nel sacro calice; ma questa probabilmente fu una di quelle immaginazioni che facilmente nasceano e si dilatavano in secoli di tante turbolenze. Papa Vittore III si acquistò credito anche fra i letterati con tre libri di dialoghi sacri, i quali sono alla luce. Fu in quest'anno sul principio d'agosto tenuta una gran dieta dai principi tedeschi delle due fazioni nella città di Spira [Berthold. Constant., in Chron.]. V'intervenne anche l'Augusto Arrigo. Quei del partito a lui contrario si esibirono di riconoscerlo per re, purchè egli impetrasse l'assoluzion dalle scomuniche. Ma persistendo egli in protestarsi non iscomunicato, andarono in fumo tutte le speranze di quell'assemblea, ed ognun dal suo canto si rivolse a preparar armi per la guerra. Arrigo colle sue armi tornò addosso ai Sassoni, ma gli convenne fuggire, inseguito sì da vicino dal re Ermanno, che se non era Egberto conte che per sua malizia il lasciò scampare, egli cadeva nelle mani de' Sassoni.


   
Anno di Cristo MLXXXVIII. Indizione XI.
Urbano II papa 1.
Arrigo IV re 33, imperad. 5.

Sino al dì 8 di marzo dell'anno presente restò vacante la Sede apostolica [Petrus Diacon., Chron. Casinens., lib. 4, cap. 2.]. Tante furono le istanze de' cattolici romani, e massimamente della contessa Matilda, che da varie parti dell'Italia, ed anche di Oltramonti, si raunò un concilio in Terracina, e nel suddetto giorno i vescovi e cardinali col resto del clero e popolo con voti concordi si unirono ad eleggere papa il vescovo d'Ostia Ottone, di nazion francese, della diocesi di Rems, al quale imposero il nome di Urbano II. Era questi personaggio di gran [434] vaglia per la sua letteratura, mirabile per l'attività, e di zelo incorrotto per la religione e per la disciplina ecclesiastica. Fu prima canonico di Rems, poi monaco di Clugnì, poi vescovo d'Ostia, ed infine romano pontefice. Nel 12 di marzo prese egli il possesso del trono pontificale con plauso di tutti i buoni, e dalla maggior parte dell'Europa accettato e riverito. Tutto ciò abbiamo da Pietro Diacono, il quale parimente racconta [Petrus Diacon., Chron. Casinens., lib. 3, cap. 71.] che papa Vittore III, prima di passare a miglior vita, ardendo di desiderio di veder gastigata la baldanza de' Saraceni africani, che con frequenti piraterie infestavano le coste d'Italia, e, sapendo quanta fosse la bravura e potenza de' Pisani e Genovesi in mare, commosse questi due popoli ed altri non pochi dell'Italia a formare una poderosa armata navale contra di que' Barbari. Adunque dopo la sua morte, e nell'anno presente fecero essi cristiani l'impresa contra del re di Tunisi, ed espugnarono una città con tagliare a pezzi cento mila Mori; e, quel che fu più mirabile, nello stesso giorno che succedette la loro vittoria, se n'ebbe e se ne sparse la nuova in Italia. Non han bisogno i lettori ch'io loro dica che la strage di tanti Mori è un ingrandimento della fama, facilmente bugiarda in simili casi. Anche Bertoldo da Costanza [Berthold. Constantiensis, in Chron.] parla di questo fatto, con dire che i Pisani e Genovesi ed altri molti Italiani ostilmente assalirono il re d'Africa, e, dato il sacco alla di lui terra, il costrinsero a rifugiarsi in una fortezza, e a rendersi tributario della santa Sede. Gli Annali pisani medesimamente [Annal. Pisani., tom. 6 Rer. Ital.] gonfiano le trombe con farci sapere sotto l'anno presente che fecerunt Pisani et Januenses stolum in Africam, et ceperunt duas munitissimas civitates (Almadiam è scritto di sopra) et Sibiliam in die sancti Sixti. In quo bello Ugo vicecomes filius Ugonis [435] vicecomitis mortuus est. Ex quibus civitatibus, Saracenis fere omnibus interfectis, maximam praedam auri et argenti, palliorum et ornamentorum abstraxerunt. De qua praeda thesauros pisanae ecclesiae diversis ornamentis mirabiliter amplificaverunt, et ecclesiam beati Sixti in Curte Veteri aedificaverunt. Però s'han da correggere gli altri Annali pisani che mettono questa impresa all'anno 1075, oppure al 1077. Credono alcuni che in Africa fosse la città di Meadia, chiamata in questi Annali Almadia, e per errore Dalmazia. Ma che i Cristiani prendessero allora Siviglia, città che non si sa che sia mai stata in Africa, o Siviglia città di Spagna, non è punto credibile. Pietro Diacono parla d'una sola città. Goffredo Malaterra [Gaufrid. Malaterra., lib. 4, cap. 3.] fa anch'egli menzione di quella spedizione, narrando che Pisani apud Africam negotiando proficiscebantur. Quasdam injurias passi, exercitu congregato, urbem regiam regis Tunicii oppugnantes, usque ad majorem turrim, qua rex defendebatur, capiunt. Adunque lo sforzo de' Pisani fu contra Tunisi. Se essi inoltre espugnassero Meadia, o Almadia, resta incerto, quando per avventura Tunisi e Almadia non fossero la stessa città. Aggiugne dipoi, che i Pisani non avendo forze per mantener Tunisi in loro potere, spedirono a Ruggieri conte di Sicilia, con esibirgli il possesso di quella città. Ma Ruggieri, fra cui e il re di Tunisi passava buona amicizia, non volle romperla per questo, o piuttosto perchè conosceva troppo difficile il sostenere le conquiste nell'Africa. Però il re di Tunisi, per liberarsi dai Pisani, diede loro una gran somma di danaro, promise di non più corseggiare sopra le terre d'Italia, e rilasciò lutti gli schiavi cristiani. Un tal racconto a me sembra il più credibile di tutti.

Ora ci vien dicendo il Malaterra che in questi medesimi tempi il suddetto conte Ruggieri fece l'impresa di Siracusa. Sembra scorretto il suo testo, allorchè mette [436] questi fatti sotto l'anno 1085. Anche Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chron.] e Romoaldo Salernitano [Romoaldus Salernitanus, Chronic., tom. 7 Rer. Ital.] riferiscono al presente anno 1088 la presa di Siracusa, la quale, per testimonianza d'esso Malaterra, accadde nella forma seguente. Mentre si trovava in Puglia o in Calabria il conte Ruggieri per calmare le dissensioni insorte fra il duca Ruggieri e Boamondo suoi nipoti, Benavert saraceno comandante di Siracusa con una squadra di navi avea dato un gran guasto alla marina di Reggio e d'altri luoghi della Calabria, con profanare le chiese, e condurre in ischiavitù le monache e gli altri abitanti. Perciò Ruggieri, allestita nel verno una numerosa flotta, nel maggio dirizzò le prore alla volta di Siracusa, e per terra spedì Giordano suo figliuolo colla cavalleria. Uscitogli incontro Benavert con tutte le sue forze di mare, si venne ad una sanguinosa battaglia. Saltò Ruggieri nella capitana nemica, e volendo Benavert passare in un'altra nave, cadde armato in mare, e vi si affogò. Ebbe con ciò fine il combattimento. Moltissimi legni di que' Mori vennero in potere del conte. Dopo di che egli strinse d'assedio Siracusa, e vi stette intorno ben quattro mesi. Per la mancanza de' viveri a tale venne la fame di quel popolo ostinato nella difesa, che alcuni si cibarono di cadaveri umani. Finalmente veggendo la moglie del morto Benavert disperato il caso, imbarcatasi col figliuolo e co' principali Saraceni in due navi, fece vela e si salvò nella marina di Noto: con che quella nobil città venne in potere del conte Ruggieri. Fece egli ribenedire i sacri templi già occupati dai Musulmani, e concedette il dominio d'essa città al figliuolo Giordano. Se crediamo al testo di Lupo Protospata, cominciò, siccome ho già detto, in quest'anno la guerra fra il duca di Puglia Ruggieri e Boamondo suo fratello maggiore. A me sembra più verisimile che se le desse [437] principio molto prima. Certo è, per attestato del Malaterra, che Boamondo s'era insignorito della città d'Oria, e fatta gran massa di gente, infestava tutte le contrade di Taranto e d'Otranto. Romoaldo Salernitano scrive, ch'egli in quest'anno all'improvviso comparve a Farnito nel territorio di Benevento, ed attaccò battaglia coll'armata del duca suo fratello; e fu mirabile cosa, che quantunque restassero prigionieri molti soldati d'esso Boamondo, pure, a riserva d'un solo, niuno morì in quella zuffa. Ora il conte di Sicilia Ruggieri s'interpose fra i nipoti, e trattò di pace. Seguì infatti un accordo fra loro, per cui il duca cedette a Boamondo la suddetta città d'Oria con Otranto, Gallipoli, Taranto ed altre terre. Ma di questa discordia seppe profittare anche il conte Ruggieri loro zio, perchè, in premio d'aver presa la difesa del duca Ruggieri, ottenne da lui l'intera signoria della Calabria. Roberto Guiscardo non gli avea ceduto se non la metà del dominio nelle terre di quella provincia. In qual anno poi precisamente si stabilisse una tale concordia fra i due fratelli, non possiamo accertatamente saperlo. Mancò di vita in quest'anno [Bertholdus Constantiensis, in Chron. Annalista Saxo, Chron. Augustan.] l'imperadrice Berta, e trasportato fu il suo cadavere alla città di Spira. E i Sassoni abbracciarono il partito dell'imperadore Arrigo: il che fu cagione che il re Ermanno si ritirasse in Lorena. Poco nondimeno questi sopravvisse, perchè essendo all'assedio di un castello, colpito da un sasso nella testa, lasciò quivi la vita. Alcuni mettono la di lui morte nell'anno 1086, oppure nel 1087; ma più fede meritano gli allegati scrittori. Riuscì ancora a Guelfo duca di Baviera di prendere in quest'anno nella seconda festa di Pasqua la città d'Augusta, e di farvi prigione Sigefredo vescovo scismatico. Poco poi stettero i Sassoni, a persuasione di Egberto marchese, a ribellarsi di nuovo ad Arrigo; anzi lui stesso assediarono, e se [438] volle liberarsi, fu costretto a promettere molto, ma senza ch'egli si credesse poi tenuto ad osservar la parola. Io non so bene se nell'anno seguente, come ha l'Annalista sassone, oppure sul fine del corrente, dal cui Natale Bertoldo incomincia il suo anno, seguisse la rotta data in Sassonia dal marchese Egberto al suddetto Arrigo. Certo è che in quel conflitto restò morto lo scismatico vescovo di Losanna, e preso Liemaro arcivescovo di Brema. Ebbe fatica a salvarsi Arrigo. Nella vigilia appunto di Natale succedette questa battaglia.


   
Anno di Cristo MLXXXIX. Indizione XII.
Urbano II papa 2.
Arrigo IV re 34, imperad. 6.

Secondochè s'ha da Bertoldo da Costanza [Bertholdus Constantiensis, in Chron.], tenne in quest'anno papa Urbano un concilio di cento quindici vescovi in Roma, dove furono confermati i decreti de' pontefici predecessori contra de' simoniaci, contra del clero incontinente e di Guiberto antipapa. Costui tuttavia si teneva fortificato in qualche sito di Roma. Tornati in sè i Romani, ed animati da questo coraggioso papa, l'assediarono, e a tali strettezze fu ridotto l'ambizioso Guiberto, che se volle uscirne, gli convenne promettere con giuramento di non occupar in avvenire la Sedia apostolica. Anche in Germania si trattò di pace fra le due fazioni. S'abboccarono i duchi e principi cattolici collo stesso Arrigo IV, offerendosi pronti a ristabilirlo pienamente nel regno, s'egli abbandonava l'antipapa. Non era egli lontano dal farlo; ma riserbandosi di aver l'assenso de' principi suoi aderenti, trovò tale schiamazzo nei vescovi scismatici del suo partito, persuasi della lor caduta, se questa concordia aveva effetto, che andò per terra tutto quel trattato. In questo medesimo anno [Chronographus Saxo. Annalista Saxo.] esso Augusto Arrigo passò ad un secondo matrimonio con Adelaide (chiamata Prassede [439] da Bertoldo) vedova di Utone marchese di Brandeburgo, e figliuola del re della Russia. Le nozze furono celebrate in Colonia. In un grande ascendente si vede in questi tempi la nobilissima casa d'Este. Aveva il marchese Alberto Azzo II in Germania il suo primogenito Guelfo IV, principe bellicoso, e forte sostegno del partito cattolico, in possesso dell'insigne ducato della Baviera. Si studiò egli d'ingrandir maggiormente la di lui linea con un cospicuo ed utilissimo matrimonio, e trattò con papa Urbano II di dar per marito alla celebre contessa Matilde Guelfo V figliuolo d'esso Guelfo IV. Fu la proposizione molto accetta al pontefice, e però indusse la contessa ad acconsentirvi, tam pro incontinentia, dice Bertoldo da Costanza [Berthold. Constantiensis, in Chron.], quam pro romani Pontificis obedientia, videlicet ut tanto virilius sanctae romanae Ecclesiae contra scismaticos posset subvenire [Chron. Weingart. Sigebertus, in Chron.]. Sappiamo da Alberico monaco dei tre Fonti [Alberic. Monachus, Chron. apud Leibnit.], che nell'anno precedente Roberto primogenito di Guglielmo il Conquistatore, famosissimo re d'Inghilterra e duca di Normandia, avea tentato di ottenere per moglie la suddetta contessa, ma non gli venne fatto. Gli interessi di questi tempi consigliarono il papa e la contessa ad accordarsi con Guelfo V, perchè così cogli Stati di Baviera in Germania, e con quei della contessa Matilda in Italia e del marchese Azzo estense, avolo paterno del medesimo Guelfo V, si veniva a maggiormente assodare il partito de' Cattolici. Che nei capitoli o nelle promesse di siffatto matrimonio fosse stabilito che gli Stati di Matilda avessero dopo la di lei morte a ricadere in esso Guelfo V, io non ne dubito punto, per quel che diremo all'anno 1095. Venne infatti questo principe in Italia; e ne seguirono le nozze. Perchè dovette con gran segretezza condursi questo affare, l'imperadore Arrigo solamente dopo il fatto venne a saperlo. Ne arrabbiò, [440] ragionevolmente temendo che questo nodo gl'imbrogliasse forte gli affari del regno d'Italia. Però si diede a far preparamenti per calare di nuovo in queste parti. Nè tardarono gli scismatici di Lombardia a prendere tosto l'armi contra dello stesso Guelfo; con poca fortuna nondimeno, perchè furono sì ben ricevuti da lui, che ebbero per grazia di ottenere per mezzo della contessa di lui moglie una tregua fino alla Pasqua prossima ventura. Circa questi tempi ancora si dee riferire un altro avvenimento spettante alla medesima casa d'Este. Era nell'anno 1087 giunto al termine de' suoi giorni il suddetto famosissimo re d'Inghilterra Guglielmo il Conquistatore, con lasciare il solo ducato di Normandia a Roberto suo primogenito, e il regno d'Inghilterra a Guglielmo il Rosso suo secondogenito. Insorsero tosto dissensioni fra i due fratelli, nè mancò un gagliardo partito favorevole a Roberto stesso in Inghilterra. Si prevalsero dunque di tali torbidi i popoli del Maine in Francia per sottrarsi all'ubbidienza del re d'Inghilterra. E perchè conservano tuttavia la divozione ai figliuoli del secondo letto del marchese Azzo estense e di Garsenda contessa, ultimo rampollo di quei principi, li richiamarono per la seconda volta al possesso di quel principato. Gli Atti dei vescovi cenomanensi, dati alla luce dal padre Mabillone [Mabill., Analect., tom. 3.], e Orderico Vitale nella sua Storia [Orderic. Vitalis, Hist. Eccles., lib. 8.], scritta in vicinanza di que' tempi, fanno memoria di questo fatto.

Scrive spezialmente Orderico che i Cenomani spedirono in Italia i lor legati ai figliuoli Azzonis marchionis Liguriae, con grande istanza perchè passassero in Francia. Tennero questi consiglio col padre, tuttavia vivente, e cogli amici. Tandem definierunt, ut Fulco, qui natu major erat (il propagatore della linea estense oggidì regnante) patris honorem (cioè gli Stati) in Italia possideret, Hugo autem frater ejus principatum (nel Maine) ex [441] matris hereditate sibi reposceret. Portossi dunque Ugo in Francia, e ritornò in possesso di quel principato. Ma perciocchè era egli bensì nato di casa d'Este, ma non avea ereditato il valore e le virtù degli Estensi, gli mise tale spavento in cuore Elia, signor della Fleche, con esagerargli le forze del re d'Inghilterra, che l'indusse da lì a non molto a vendergli quel principato, e a ritornarsene carico di disonore in Italia. Nè fu questa la sola azione degenerante di esso Ugo. Abbiam veduto ch'egli prese per moglie una figliuola del celebre duca Roberto Guiscardo. Ora ecco ciò che ne scrive il soprallodato Orderico: Hic filiam Roberti Wiscardi conjugem habuit. Sed generosae conjugis magnanimitatem vir ignavus ferre non valens, ipsam repudiavit. Pro qua re papa Urbanus (II) palam eum excommunicavit. Questa ed altre azioni poco lodevoli, che io non tacerò, del medesimo Ugo furono infin cagione che i suoi il cacciarono di là dai monti con inviarlo in Borgogna. Secondo Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chronico.], fu celebrato nel mese di settembre di quest'anno in Melfi di Puglia un gran concilio di vescovi, al quale intervennero anche tutti i baroni di quelle parti. Fu in esso accettata e giurata la tregua di Dio per le nemicizie private: del che s'è fatto menzione di sopra. Ancorchè Lupo non parli di papa Urbano, pure sappiamo ch'egli presedette a quel concilio, e lo stesso storico c'insegna ch'esso pontefice si portò dipoi a Bari, ed appresso consecrò la chiesa di Brindisi. Attesta Romoaldo Salernitano [Romuald. Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.] che in quel concilio Ruggieri duca di Puglia giurò vassallaggio al papa, e fu col confalone investito del ducato. Morì in quest'anno Sichelgaita sua madre, e nel medesimo parimente, e non già nell'anno 1086, come ha il testo del Malaterra [Gaufrid. Malaterra, lib. 4, cap. 5.], da me creduto scorretto, Ruggieri conte di Sicilia mise l'assedio [442] alla città d'Agrigento, oggidì Girgenti. Vi stette sotto da quattro mesi, ed avendola astretta alla resa nel dì 25 di luglio, vi colse dentro i figliuoli e la moglie di Camutto amira de' Saraceni, che furono da lui trattati con molta cortesia, e facilitarono poscia a lui l'acquisto dell'importante fortezza di castello San Giovanni: al che con tanti desiderii e sforzi non era potuto giugnere mai in addietro. Imperocchè impadronitosi di undici terre circonvicine, e mosso poi trattato di concordia col mentovato Camutto, tanto operò, che il Saraceno non solamente abbracciò il partito di Ruggieri, ma anche la religion cristiana. Questo esempio commosse gli altri Mori a far lo stesso, e a consegnare il suddetto castello di San Giovanni al conte. Furono assegnate a Camutto in Calabria molte terre, ed egli finchè visse, non mancò mai alla fedeltà verso i Normanni. Noveiro scrittore arabo mette la conquista fatta da Ruggieri di castello San Giovanni e di Girgenti sotto il precedente anno. Morì certo nel presente Lanfranco di nazion pavese, glorioso arcivescovo di Cantorberì in Inghilterra, con odore di santità, e mancò in lui uno degli insigni personaggi di questo secolo. Fu restitutore delle lettere in Francia, della religione in Inghilterra. In Piacenza era stato accettato per vescovo Bonizone, già vescovo cattolico di Sutri. Non poteano accomodarsi al suo zelo i fazionarii scismatici, e però crudelmente un giorno gli levarono la vita con cavargli prima gli occhi e poi tagliarlo a pezzi; laonde fu riguardato qual martire dalla Chiesa cattolica. Per testimonianza di Sigeberto [Sigebertus, in Chron.], cominciò in questi tempi il morbo pestilenziale del fuoco sacro ad affliggere la Lorena, e si sparse dipoi per la Francia e per l'Italia. Consumava a poco a poco le carni del corpo umano, e riduceva a morte i pazienti, facendoli divenir come carboni. Fu per questo celebre col tempo la divozion de' popoli a santo Antonio abbate, venerato in Vienna [443] del Delfinato, dove ricorreva la gente per la guarigione di questo male. E di qui ebbero origine tante chiese di santo Antonio abbate, anche per le città d'Italia, e il dipignere o rappresentare in altra maniera il santo suddetto colle fiamme di fuoco in mano, o da un lato della sua immagine. Questo fuoco nelle antiche sue immagini significava la sua gran carità; il porco a' piedi, la vittoria di tutti gli affetti sensuali. Ma il rozzo popolo interpretò ch'egli avesse particolar virtù contra del fuoco e per la salute dei bestiami. L'ordine de' religiosi istituito sotto il suo nome fu poi soppresso; il morbo per misericordia del Signore col tempo anche esso cessò, ma ne dura tuttavia la memoria col nome di fuoco di sant'Antonio, santo venerato con altra idea a' dì nostri dal volgo, qual protettore e liberatore dagl'incendii cagionati dal fuoco naturale.


   
Anno di Cristo MXC. Indizione XIII.
Urbano II papa 5.
Arrigo IV re 35, imperad. 7.

Seguitava bensì in Germania la dissensione e la guerra fra i cattolici e gli scismatici; pure apprendendo l'Augusto Arrigo che l'unione di Guelfo IV colla gran contessa Matilda potesse dare un tracollo a' suoi interessi in Italia, determinò di valicar le Alpi, e di portar loro addosso la guerra. Calò dunque in Italia con un poderoso esercito nel marzo dell'anno presente. Abbiamo da Donizone [Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2, cap. 4.] che anche prima Arrigo avea danneggiato, per quanto potè, la suddetta contessa, con torle in Lorena tutte le castella e ville a lei pervenute per eredità della duchessa Beatrice sua madre, a riserva del forte e ricco castello Brigerino:

Praeterea villas ac oppida, quae comitissa

Haec ultra montes possederat a genitrice,

Abstulit omnino, nisi castrum Brigerinum.

Era in possesso la contessa Matilde da gran tempo di Mantova, città signoreggiata [444] anche dal marchese Bonifazio suo padre. Ne imprese il blocco o l'assedio Arrigo, con devastarne intanto il territorio. Ritirossi la contessa alle sue fortezze della montagna reggiana e modenese. Ossia che Arrigo non intraprendesse quell'assedio sì presto, o che non fosse a lui facile l'armar di gente tutto il largo circondario del lago che difende quella città, noi troviamo entro essa importante città il duca Guelfo colla moglie, nel dì 27 di giugno dell'anno presente. Ciò si raccoglie da un loro diploma [Antichità Estensi, P. I, cap. 29.], dato in Mantova V calendas julii, anno dominicae Incarnationis, millesimo nonagesimo, Indictione tertiadecima, da me veduto e dato alla luce, con cui confermarono ed accrebbero i beni e privilegii al popolo mantovano: dettame di prudente politica per maggiormente impegnarlo ed animarlo alla difesa della patria. Anche il Sigonio ne fece menzione, ma con rappresentarlo scritto nell'indizione XII [Sigon., de Regno Italiae, lib. 9.]. Il Registro, ch'io ho avuto sotto gli occhi, ha l'indizione XIII, che corre nell'anno presente. Quel diploma ha il seguente principio: Guelfo Dei gracia dux et marchio, Mathilda Dei gracia, si quid est. Dovettero poi uscire di Mantova Guelfo e Matilda, e sappiamo da Donizone che la contessa si ritirò alle sue fortezze nelle montagne; e da Bertoldo [Bertholdus Constantiensis, in Chron.], che di grandi incendii e danni sofferirono in questi tempi gli Stati del duca Guelfo V, non so bene, se quei della moglie, o dell'avolo marchese Azzo. Ma Guelfo, massimamente per le esortazioni della contessa sempre stette saldo nell'attaccamento alla parte pontificia, e resistè alla forza nemica. Impadronissi nondimeno Arrigo di Rivalta e di Governolo, due luoghi importanti del Mantovano, e seguitò a tener chiusi in città quegli abitanti, a' quali Matilda di tanto in tanto spediva rinfreschi di gente e di viveri. Per attestato di varii storici, [445] morì in quest'anno [Bertholdus Constantiensis, in Chron. Annalista Saxo. Chronic., Augustan.] Liutaldo duca di Carintia, uno de' più fedeli aderenti di Arrigo. Egli è lo stesso che vedemmo all'anno 1085 col nome di Liutaldo tenere un placito in Padova. Avea questo duca poco innanzi ingiustamente ripudiata la propria moglie, e presane un'altra con licenza dell'antipapa Clemente, che dovea condiscendere a tutte le istanze anche inique de' suoi partigiani per non disgustarli. Dissi esser io di parere ch'egli governasse ancora la marca di Verona, città in questi tempi fedele ad Arrigo. Ne farebbe anche testimonianza un diploma d'esso Augusto, ch'io ho pubblicato come spettante all'anno presente [Antiquit. Italic., Dissert. LXVII.], ma senza esaminare le note cronologiche che sono affatto difettose. Fu esso dato in favore del monistero veronese di san Zenone, anno dominicae Incarnationis millesimo nonagesimo, sexta Indictione, regnante Henrico imperatore III, regni ejus XXXIV, imperii autem VIII. Hoc actum est IV idus aprilis Veronae. Ma, come dissi, non so io ora combinar queste note. Non sarà originale quel diploma, ma un abbozzo mal fatto, quantunque a prima vista autentico a me paresse. Presso Goffredo Malaterra [Malaterra, lib. 4, cap. 10.] truovasi così intricata la cronologia di Ruggieri conte di Sicilia, ch'io non oso dare per certo il tempo delle imprese da lui narrate, messa in confronto con altri storici. Racconta egli che di nuovo si riaccese la guerra fra i di lui nipoti, cioè fra Ruggieri duca di Puglia e Boamondo. Accorse in aiuto del primo il conte, e dopo due anni di discordia si riconciliarono. Pare che l'Anonimo Barense [Anonymus Barensis, tom. 5 Rer. Ital.] metta il principio di tal rottura nell'anno 1088, con dire che Bari si accordò con Boamondo; e, se ciò fosse, nell'anno presente si sarebbono que' due principi amicati. Soggiugne il Malaterra che nell'anno [446] 1089 esso conte Ruggieri [Malaterra, lib. 4 cap. 14.] passò alle terze nozze con Adelaide, nipote di Bonifazio famosissimo marchese d'Italia, cioè, come si crede, marchese del Monferrato. Finalmente scrive che nell'anno presente il popolo della città di Neto si soggettò al di lui dominio: con che niun luogo in Sicilia restò che non riconoscesse la di lui signoria. Eresse egli varii vescovati, fondò chiese e monisteri, promosse in ogni parte il culto del vero Dio, precedendo a tutti coll'esempio della pietà. Restò nondimeno in Sicilia una gran quantità di Saraceni, ai quali fu permesso il vivere e credere secondo la lor legge, purchè osservassero la fedeltà dovuta al sovrano. Passò inoltre il conte Ruggieri coll'armata navale all'isola di Malta nel mese di luglio, e mise l'assedio alla città. Ha creduto più d'uno ch'egli s'impadronisse di quella isola nell'anno presente, ma senza fondamento. Tutto ciò che guadagnò Ruggieri in tale spedizione, come narra Goffredo Malaterra [Idem, ibid. cap. 16.], fu di liberar gli schiavi cristiani, e di costrignere quei Mori a pagargli tributi, e a far seco lega, con obbligo di aiuto ne' bisogni. Secondo i conti di Camillo Pellegrini [Camillus Peregrin., Hist. Princ. Langobard.], diede fine alla sua vita verso il fine di questo anno Giordano I principe di Capoa, lodato non poco da Romoaldo Salernitano. Ma di ciò parleremo all'anno seguente, in cui forse si dee riferir la sua morte.


   
Anno di Cristo MXCI. Indizione XIV.
Urbano II papa 4.
Arrigo IV re 36, imperad. 8.

Continuò l'imperadore Arrigo ostinatamente per tutto il verno l'assedio, ovvero il blocco di Mantova. Trovò egli in fine il segreto di espugnare una così forte ed importante città con adoperar la potente mediazion dell'oro, e sovvertire il cuore di que' cittadini. Contra [447] d'essi perciò Donizone scaricò la sua bile, chiamandoli traditori. Nè gli mancava ragione, perciocchè provvedendoli il duca Guelfo e la contessa Matilda di mano in mano del bisognevole, avrebbono potuto, volendo, sostener più anni l'assedio, e mantener la promessa fatta di non aderir mai ad Arrigo. Entrarono dunque l'armi tedesche in quella città, non già nel sabbato santo a dì 12 d'aprile, come scrisse taluno, ma nel giorno precedente, come si ricava dal suddetto Donizone, che così parla [Donizo, in Vita Mathildis, lib. 2.]:

Nam qua nocte Deum Judas mercator Iesum

Tradidit, hac ipsa fuit haec urbs Mantua dicta

Tradita.

Ebbe la guarnigion di Matilde tanto tempo che potè, uscendo pel lago in barche, salvar le persone e l'equipaggio. Il cattolico vescovo Ubaldo se ne fuggì anch'egli, ricoverandosi presso la medesima contessa, rifugio allora di tutti i cattolici italiani perseguitati. Arrigo dipoi intronizzò nella chiesa di Mantova Conone, cioè Corrado vescovo scismatico. Stese inoltre le sue conquiste coll'impadronirsi di tutte le terre di là dal Po, dianzi ubbidienti alla suddetta contessa, eccettochè di Piadena, patria nel secolo decimoquinto di Bartolommeo detto il Platina, scrittore celebre; e di Nogara, oggidì terra del Veronese, che tennero forte contra lo sforzo de' Tedeschi. Nella state ancora avendo assediata la forte terra di Manerbio, oggidì posta nel distretto di Brescia, colla fame in fine la costrinse alla resa. Dopo la presa di Mantova, scrive il Sigonio [Sigon., de Regno Ital. lib. 9.] che la città di Ferrara, situata allora oltre Po, senza aspettar la forza, si sottopose ad Arrigo. Onde s'abbia egli tratta questa notizia non l'ho scoperto finora. Certo è che quella città si levò dalla divozione della contessa Matilda, e a suo tempo vedremo ch'essa valorosamente la ricuperò; e perciò non è improbabile la sua ribellione [448] in quest'anno, favorevole anno assai ad Arrigo. Tenne papa Urbano un concilio nell'anno presente in Benevento, dove stabilì molti punti di disciplina ecclesiastica, e confermò le censure contra dell'antipapa Guiberto. Ma mentre egli dimorava in quelle parti, essendo cresciuta la baldanza degli scismatici per le prosperità d'Arrigo, i Romani, che mutavano facilmente vela ad ogni vento [Bertholdus Constantiens., in Chron.], con frode s'impossessarono della torre di Crescenzio, cioè di castello Sant'Angelo, e venne anche loro in pensiero di diroccarlo. Lasciarono, oltre a ciò, entrare in Roma il suddetto antipapa, che forse questa volta si credette di stabilir ivi per sempre il suo trono, ma gli andò fallita, siccome vedremo. Veggendo intanto Guelfo IV duca di Baviera la cattiva piega che aveano presa in Italia gli interessi di Guelfo V suo figliuolo, e della contessa Matilde, sua nuora, nel mese d'agosto calò in Italia, e trattò di pace verisimilmente per via di mediatori coll'Augusto Arrigo, con condizione che questi abbandonasse l'antipapa, e riconoscesse Urbano II papa legittimo, e restituisse tutti i beni ingiustamente tolti ad esso duca Guelfo suo figliuolo e agli altri aderenti tutti. Arrigo, insuperbito della fortuna presente, rigettò ogni proposizion di accordo, dimodochè il duca se ne tornò in Alemagna; e contuttochè molti di quelle contrade in questi tempi si dichiarassero del partito di Arrigo, pure Guelfo risvegliò molti altri ancora contra di lui, e propose ancora di creare un nuovo re: cosa che non ebbe effetto per la pigrizia e malevolenza d'alcuni.

Per attestato del medesimo Bertoldo, terminò in quest'anno i suoi giorni Adelaide marchesana di Susa e di Torino, celebre principessa, e già suocera d'Arrigo. Chi succedesse nella ricca eredità de' suoi Stati, lo vedremo all'anno seguente. Benchè il Pellegrini, siccome abbiam detto, metta la morte di Giordano I [449] principe di Capoa verso il fine dell'anno precedente, affidato sull'autorità di Lupo Protospata, essendo assai confusi i testi di quello storico, non sembra assai sicura la di lui asserzione, da che più chiaramente Romoaldo Salernitano scrive che anno MXCI, Indictione XIV, mense februario, Jordanus Capuae defunctus est anno XIII principatus. Quel che è certo, dopo la morte di Giordano i Capuani si ribellarono, e cacciarono fuor di città Riccardo II, primogenito ed erede del defunto principe, con tutti i Normanni. Dal suddetto Bertoldo di Costanza è narrata sotto quest'anno quella ribellione, sembrando perciò che anch'egli differisca all'anno presente la morte di Giordano. Per attestato di Pietro Diacono [Pietrus Diacon., Chron. Casinen., lib. 4, cap. 10.], si ritirò Riccardo ad Aversa sua città con sua madre Gaitelgrima, sorella di Gisolfo II già principe di Salerno; ed implorato l'aiuto di Ruggieri duca di Puglia, venuta che fu la state, passò con un possente esercito sotto Capoa, mettendo a ferro e fuoco tutta la campagna. Seguita a dire esso Pietro Diacono: Et tamdiu eos expugnavit, usquequo Capuani, necessitate coacti, praedicto Richardo munitiones redderent, eumque recipientes, sibi in principem consecrarent: quasichè in questo medesimo anno Riccardo riacquistasse la signoria di Capoa. Ma quel tamdiu, confrontato colle storie di Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chron.] e di Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernit., in Chron., tom. 6 Rer. Ital.], vuol dire che Riccardo seguitò a far guerra a' Capuani, finchè dopo gran tempo, cioè nell'anno 1098, siccome vedremo, li ridusse all'ubbidienza sua. Erasi anche sollevata la città di Cosenza in Calabria contra del duca Ruggieri [Gaufridus Malaterra, lib. 4, cap. 17.]. Chiamò questi in suo aiuto Ruggieri conte di Sicilia, che vi accorse con un buon corpo [450] di Saraceni e delle sue vecchie truppe. Fu formato l'assedio, e v'intervenne col duca anche Boamondo suo fratello. Operò tanto colla sua destrezza il conte, che que' cittadini finalmente si riconciliarono col duca, il quale entrato nella città ordinò tosto che nel colle superiore si piantasse una fortezza, per impedir da lì innanzi una simil prosunzione di quegli abitanti. Il conte Ruggieri, che sempre sapea pescare nelle disgrazie del duca suo nipote, ottenne anche questa volta da lui per guiderdone di questa fatica il dominio nella metà di Palermo: il che ci fa conoscere che Roberto Guiscardo in conquistandola, tutta la ritenne in suo potere, nè già ne diede la metà al fratello, come pensò Leone ostiense. Migliorò di poi sì fattamente Palermo per opera del conte Ruggieri, che ne ricavava maggior profitto possedendola solo per metà, che quando interamente ne era signore il duca. Veggasi ancora all'anno 1122, dove si parla di questo. Se fossero ben corrette le Note cronologiche di un documento da me prodotto altrove [Antiquitat. Italic., Dissertat. XI.], noi sapremmo dove in questi tempi dimorasse la contessa Matilda. Nella copia a noi conservata da Pellegrino Prisciani quella carta si dice data anno ab Incarnatione Domini millesimo nonagesimo primo, die mensis madii, Indictione XII, cum esset domna Matilda, gratia Dei ducatrix et comitissa, marchionis Bonifatii filia, in loco sancti Cexarii, cioè in San Cesario, distretto di Modena. Ma quell'Indictione XII non conviene all'anno presente. E trovandosi allora colla contessa Ugo vescovo di Mantova, e Landolfo vescovo di Ferrara, questi due pastori, secondo l'Ughelli, molto dopo il presente anno furono promossi a quelle chiese. Però io nulla so accertare del tempo in cui quella carta fu scritta.

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Anno di Cristo MXCII. Indizione XV.
Urbano II papa 5.
Arrigo IV re 37, imperad. 9.

Per quanto potè, seguitò l'Augusto Arrigo a guastar le terre di Guelfo V duca e della contessa Matilda. Ma non mancavano spie alla contessa che di mano in mano la avvertivano di tutti gli andamenti d'Arrigo; e perciocchè ella seppe che nel tempo del verno egli si trovava di là dall'Adige, senza aver seco milizie, spedì a quella volta mille de' suoi combattenti. Gli andò per otto giorni deludendo Arrigo, con ritirarsi or qua or là, tanto che potè raunar le sue truppe; e ciò fatto, andò ad assalire all'improvviso le genti della contessa, che se ne stavano sdraiate nella villa di Tricontai. Molti furono presi, molti uccisi; gli altri si salvarono col favor delle gambe. Donizone [Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2, cap. 6.] attribuisce questo fatto a tradimento di Ugo lor condottiere, con dire:

Proditor emanso fuit Hugo nobilis alvo;

Hanc contra morem sed fecit proditionem,

Nam proba nobilitas non turpe scelus patrat umquam.

Non ho io dissimulato nelle Antichità estensi che tal taccia è data ad Ugo figliuolo del marchese Azzo II estense, dovendosi leggere e Manso fuit Hugo. La capitale della provincia del Maine in Francia è appellata le Mans. Perchè Ugo, siccome di sopra osservammo, era stato signore di quel principato, perciò era chiamato Ugo del Manso. Doveva egli militare in favore del duca Guelfo V figliuolo di un suo fratello; e se veramente egli fosse reo di questo, e senza scusa, io nol so dire. Ma se fu, non è da maravigliarsene, dacchè abbiam già veduto come questo principe in altre sue azioni degenerò dalla virtù dei suoi maggiori. Giunta che fu la state, Arrigo colla sua armata essendo venuto di qua dal Po, cominciò la guerra contra le fortezze della [452] contessa Matilda, situate nelle montagne del Modenese, saccheggiando e incendiando tutte queste contrade [Berthold. Constantiensis, in Chron.]. Prese Monte Morello verso Savignano presso il Panaro, siccome ancora Monte Alfredo; indi mise l'assedio a Monte Bello, oggidì Montevìo, allora del contado di Modena, e oggidì del Bolognese. Era forte quel castello, bravi i suoi difensori. L'antipapa Clemente venne in persona per abboccarsi coll'imperadore, e visitar quell'assedio. Intanto perchè andavano male gli affari della contessa, i suoi baroni e cortigiani cominciarono vivamente ad esortarla alla pace, con supporle che anche Arrigo ne fosse voglioso. Tanto la tempestarono, che si contentò di farne la proposizione in una dieta, tenuta per questo nella rocca di Carpineta ad una radunanza di teologi. Eriberto vescovo cattolico di Reggio colla maggior parte furono di sentimento che la contessa dovesse cedere al tempo, e pacificarsi con Arrigo, ma non già per darsi all'antipapa. Ciò sarebbe forse succeduto, se non si fosse alzato Giovanni, probabilmente abbate del monistero di Canossa, il quale tanto perorò contra di un tale aggiustamento con dare speranza alla contessa di qualche vicino soccorso dal cielo, che Matilda non volle più sentirne parlare, risoluta piuttosto di morire che di far patti con Arrigo nemico della Chiesa. Spese intanto esso imperadore tutta la state sotto Monte Bello [Donizo, Vit. Mathild., lib. 2, cap. 6.] senza frutto alcuno: sì gagliarda fu la difesa della guarnigion di Matilda. Restò incendiata una torre, ossia altra macchina militare degli assedianti, ed ucciso anche un figliuolo d'esso Arrigo, di cui niuna menzione fanno gli altri storici. Verisimilmente era suo bastardo. Portato il di lui cadavero a Verona, gli fu fabbricato un superbo sepolcro. Pertanto veggendo Arrigo ch'egli avea che fare con una fortezza inespugnabile, sciolse l'assedio, e si ritirò a Reggio, dove si [453] fermò alquanti giorni. Poscia nel mese d'ottobre, fingendo di passare a Parma, voltò indietro, e andò a San Paolo, per vedere se potea sorprendere l'importante rocca di Canossa, dove nell'anno 1077 abbiam veduto che brutta figura egli avea fatto. Spedì colà immantinente la contessa un buon rinforzo, ed ella si ritirò in Bibianello. Essendo insorta una folta nebbia, allorchè i nemici s'accostarono a Canossa, la gente della contessa fu con esso loro alle mani, e le riuscì di prendere la bandiera imperiale, caduta di pugno al figliuolo del marchese Oberto. Chiarito Arrigo che gittava i suoi passi, marciò al piano, e poi si condusse di là dal Po. Ogni dì s'andava sminuendo la sua armata; e però anche la contessa passò oltre Po, e prima che terminasse l'anno, ricuperò alquante delle sue terre perdute, e fra le altre la torre di Governolo e Rivalta. Per quanto scrive Bertoldo da Costanza, papa Urbano celebrò il santo Natale dell'anno presente fuori di Roma, in vicinanza nondimeno d'essa città, per non aver potuto aver l'ingresso nella basilica di san Pietro; perciocchè presso alla medesima s'era incastellato, cioè ben fortificato l'antipapa Guiberto. Per le memorie che rapporta il cardinal Baronio, apparisce, aver esso pontefice fatto nel presente anno un viaggio a Salerno, dove nel dì 14 di settembre confermò i suoi privilegii a Pietro abbate dell'insigne monistero della Cava.

Accennai di sopra la morte di Adelaide marchesana di Susa e di Torino. Conviene ora aggiugnere ciò che il suddetto Bertoldo autore contemporaneo scrive intorno alla di lei eredità. In Longobardia, dice egli, Conradus filius Henrici regis, bona Adelheidae Taurinensis comitissa invasit, quae ejusdem comitissae nepos, filius Federici comitis habere debuit. E dopo aver detto che questo Federigo conte assaissimo risplendeva per la sua pietà e pel suo costante attaccamento in questi torbidi tempi al partito pontificio, ed aver egli avuto per suoi genitori [454] Lodovico conte e Sofia zia materna della contessa Matilda, ed essere mancato di vita nella festa di san Pietro dell'anno precedente, soggiugne: Hujus ergo filium ex nepte dominae Adelheidae susceptum, Henricus rex cum filio (Corrado) exheredare proposuit; terramque ejus hostiliter invadendo, ac circumquaque devastando, fructuariensi monasterio multa mala intulit. Di qui pertanto nasce un gruppo assai difficile nella storia genealogica della real casa di Savoia, e non sufficientemente sciolto dal Guichenon: laonde è da aspettare qualche altro più sperto scrittore, il quale più esattamente ricerchi e in maggior lume metta i fatti di que' principi che da tanti secoli in qua con gloriosa successione illustrano l'Italia. Per le notizie prodotte dall'Ughelli [Ughellius, Ital. Sacr., tom. 3 in Archiepisc. Pisan.], si scorge che in quest'anno, mentre papa Urbano dimorava in Anagni, ad istanza della contessa Matilda, eresse in arcivescovato la nobil chiesa di Pisa, in maniera che Daiberto, già vescovo di quella città, fu il primo arcivescovo della medesima, e a lui furono sottoposti i vescovati della Corsica. Di ciò tornerà occasion di parlare all'anno 1118. Avea già concertato l'Augusto Arrigo un abboccamento con Ladislao re d'Ungheria [Berihold. Constantiensis, in Chron.], e già erano vicini ad incontrarsi verso il Natale del Signore, quando Guelfo IV, duca di Baviera, sopraggiungendo con varie squadre d'armati interruppe il loro congresso, e fece tornare vergognosamente indietro Arrigo. Scrive Lupo Protospata [Lupus Protospata, in Chron.] che nell'anno presente per essersi ribellato il popolo della città d'Oria a Boamondo loro signore, questi coll'aiuto de' circonvicini amici mise l'assedio a quella città. Tanto ardire nondimeno e forza ebbero gli Orietani, che il cacciarono di là, e gli presero l'equipaggio e le bandiere. A Ruggieri conte di Sicilia la morte rapì in questo [455] anno Giordano suo figliuolo bastardo [Gaufridus Malaterra, lib. 4, cap. 18.], giovine di gran valore, che si credeva destinato alla succession del padre, giacchè egli altro figliuolo non avea allora che questo. Ne fu inconsolabile Ruggieri. Ma volle Dio asciugargli le lagrime con dargli nel presente anno un figliuolo legittimo, a lui partorito da Adelaide sua seconda moglie. Essendosi anche ribellata la città di Peutarga, o Pentarga, che dianzi era sottoposta a Giordano, Ruggieri colla forza la ridusse alla sua ubbidienza: il che costò la vita agli autori di quella sollevazione. Perchè poi l'Augusto Arrigo dominava nella città di Reggio di Lombardia, quivi ancora veniva riconosciuta l'autorità dell'antipapa Guiberto. Resta tuttavia una sua bolla, da me data alla luce [Antiquit. Italic., Dissert. XXI.], in favore dei canonici reggiani, colle seguenti note: Datum apud Cesenam per manum Berneri vice Petri cancellarii, anno dominicae Incarnationis MXCII, Indictione XV, anno autem pontificatus domni Clementis tertii papae VIIII, idibus junii.


   
Anno di Cristo MXCIII. Indizione I.
Urbano II papa 6.
Arrigo IV re 38, imperad. 10.
Corrado II re d'Italia 1.

Un gran colpo venne fatto in questo anno ai difensori della parte pontificia, e principalmente, per quanto si può sospettare, v'ebbe mano la contessa Matilda. Cioè riuscì loro d'indurre Corrado, primogenito dell'Augusto Arrigo, a ribellarsi contra del padre: il che succedette all'anno presente, per testimonianza di varii storici [Berthold. Constantiensis, in Chron. Sigebertus, in Chron. Dodechinus, in Chron.], e non già più tardi, come volle Donizone. Gran colpo, dissi, di politica sì, ma che non si può leggere senza qualche orrore, sapendo noi che i figliuoli possono bensì, per non consentire col padre nell'iniquità, separarsi da lui, ma non potersi eglino dispensare dall'onorarlo. [456] Se poi deggia essere loro permesso di levar gli Stati a chi li generò, e d'impugnar l'armi contra di lui, lascerò io che altri ne giudichi. I motivi che fecero rivoltar questo giovane principe contra del padre si veggono riferiti da Dodechino, e son così orridi, che si ha della pena a crederli veri [Berthold. Constantiensis, in Chron. Sigebertus, in Chron. Dodechinus, in Chron.]. Cioè avendo Arrigo conceputo odio e sprezzo di Adelaide (chiamata Prassede da altri) sua moglie, la mise in prigione, diede licenza a molti d'usarle violenza, ed esortò anche il figliuolo Corrado a fare lo stesso. Perchè questi ricusò di commettere questo nefando eccesso, cominciò Arrigo a dire che egli non era suo figliuolo, ma bensì di un certo principe di Suevia, a cui portava somiglianti le fattezze. Ora che Adelaide fosse maltrattata dall'Augusto consorte, non si può controvertere. Ella stessa in due concilii accusò il marito delle violenze a lei fatte. Altresì è fuor di dubbio che Corrado fu principe umile, modesto e pieno di tutta bontà, accordandosi tutti gli scrittori a confessarlo tale; e si può credere ch'egli fosse anche mal soddisfatto del padre. Quando sia vero che Arrigo gli proponesse il suddetto misfatto, si meriterebbe bene un padre tale che il dichiarassimo eziandio pazzo e furioso. Comunque sia, trovavasi Corrado col padre in Italia, e, siccome già dicemmo, era corso in Piemonte a mettersi in possesso degli Stati della contessa Adelaide avola sua. Si servì di questa congiuntura la contessa Matilda, o alcuno de' suoi partigiani per guadagnarlo, con esibirgli di farlo re d'Italia. Un grande incanto ai figliuoli di Adamo è la vista d'una corona. Ma non andò sì segreto il maneggio, che non ne venisse qualche sospetto ad Arrigo suo padre. Perciò, furbescamente chiamato a sè il figliuolo, il mise in prigione. Si sa ch'egli ebbe maniera di fuggirsene, e di ricoverarsi presso la contessa Matilda, la quale l'inviò a papa Urbano per ottener l'assoluzione della [457] scomunica: il che gli fu ben facile. Fece gran rumore dappertutto, ma specialmente in Lombardia, questo ritirarsi da Arrigo un figliuolo ornato di sì belle doti; ed essendosi ancora sparse le sopra accennate voci contra d'esso imperadore, stomacati non pochi abbracciarono il partito de' cattolici. Quel che più importa, le città di Milano, Cremona, Lodi e Piacenza, abbandonato Arrigo, fecero contra di lui una lega per venti anni avvenire col duca Guelfo e colla contessa Matilda sua moglie: il che diede un gran tracollo agli interessi e all'estimazione d'esso Augusto. Abbiam già veduto che Milano, Lodi e Pavia aveano presa qualche forma di repubblica, ossia di città libera, governata da' suoi cittadini, e non più dai ministri imperiali. Vo io credendo che maggiormente quelle città in tempi sì sconcerti stabilissero il proprio governo, e cominciassero a reggersi co' proprii uffiziali, riconoscendo nondimeno la sovrana autorità di chi era re d'Italia. L'esempio d'esse a poco a poco indusse dipoi l'altre città d'Italia a mettersi in libertà.

Fu poi mandato Corrado a Milano, dove per le mani d'Anselmo vescovo cattolico di quella città ricevette la corona del regno d'Italia tanto in Monza, quanto nella basilica milanese di santo Ambrosio. Ne fa menzione anche Landolfo iuniore [Landulf. Junior, Hist. Mediolan., cap. 1, tom. 5 Rer. Ital.], cognominato da san Paolo, storico milanese di questi tempi, della cui Storia cominceremo a valerci, con iscrivere: Cono quoque rex (Conone e Corrado, torno io qui a ripeterlo, è lo stesso nome) qui dum pater ejus Henricus viveret, per contractationem Mathildis comitissae, et officium hujus Anselmi de Rode fuit coronatus Modoetiae, et in ecclesia sancti Ambrosii regali more. Scrive ancora Bertoldo da Costanza [Bertholdus Constantiensis, in Chron.] che questa coronazione si fece annuente Welphone duce Italiae, et Mathilda ejus carissima [458] conjuge. Appresso egli soggiugne che Guelfo IV duca di Baviera, padre d'esso Guelfo V, poco dappoi venne in Italia a visitar questo re novello, e ad offerirsi suo fedele aderente insieme col figliuolo. Per questo inaspettato accidente restò sì depresso e sbalordito l'imperadore Arrigo, che si ritirò in una fortezza, e quivi gran tempo si trattenne come persona privata e senza la dignità regale. Anzi fama corse, esser egli stato preso da tanta afflizione, che si volle dar la morte, e l'avrebbe fatto, se i suoi non l'avessero impedito. Ma in quest'anno terminò i suoi giorni il suddetto Anselmo III arcivescovo di Milano; e perciocchè in questi tempi le fazioni contrarie facilmente faceano gl'interpreti de' gabinetti del cielo, probabilmente gli scismatici dovettero attribuire ai giudizii di Dio la di lui morte, per aver sostenuto la ribellion d'un figliuolo contra del padre. Ma ricordar non occorre quanta sia, se non sempre, almen bene spesso, la nostra temerità, allorchè vogliam mettere mano ne' consigli dell'Altissimo, e immaginar cagioni soprannaturali degli avvenimenti naturali. Ebbe Anselmo per successore Arnolfo nobile milanese dalla Porta Orientale, il quale non pare credibile, come alcuni hanno scritto, che prendesse la investitura dall'Augusto Arrigo, perchè Milano allora seguitava la parte del romano pontefice e del re Corrado. Che egli nondimeno avesse delle opposizioni, si può dedurre dall'esser egli stato solamente nell'anno 1095 consecrato. Si dee anche avvertire per gloria dell'Italia che in quest'anno santo Anselmo, grande splendore del monachismo, fu creato arcivescovo di Cantorberì, e primate della Inghilterra. Nato nella città di Aosta, abbracciò nel monistero di Becco in Normandia la vita monastica, fu creato abbate, e poi contra sua volontà dal re Guglielmo II alzato al primo seggio della Chiesa inglese. Provò egli dipoi delle gravissime vessazioni che servirono ad accrescere la di lui gloria in terra, e più [459] nel cielo. Ruggieri duca di Puglia, che avea preso per moglie Adelaide figliuola di Roberto conte di Fiandra, e nipote di Filippo re di Francia, s'infermò gravemente in quest'anno, talmente che si sparse nuova ch'era mancato di vita [Gaufrid. Malaterra, lib. 3, cap. 15.]. Sollevaronsi dunque contra i di lui Stati e figliuoli, non solamente Boamondo suo fratello, ma ancora altri baroni vassalli suoi. Riavutosi egli da quella malattia, Boamondo si riconciliò tosto con lui; ma Guglielmo di Grantmaniol stando pertinace nella ribellione, obbligò il duca risanato a procedere coll'armi contra di lui. Colle milizie del nipote unì anche Ruggieri conte di Sicilia un buon nerbo di soldati, coi quali fu ridotto Guglielmo a fuggirsene a Costantinopoli colla perdita di tutti i suoi Stati. La maggior parte nondimeno ne riebbe egli dopo qualche tempo dalla clemenza del duca. Prosperò non poco in quest'anno la fede cattolica, non solamente in Italia, ma anche in Germania. Lo stesso papa Urbano potè celebrare in Roma (non so in qual chiesa) con solennità la festa del Natale, quantunque in quella città tuttavia dimorassero non pochi seguaci dell'antipapa. Il saggio pontefice, che abborriva di adoperare il rimedio dell'arme per cacciarli, piuttosto volle sofferirli, che inquietare il popolo; e tanto più perchè castello Sant'Angelo, oltre ad altri siti, restava tuttavia in potere di Guiberto, che vi teneva buona guarnigione. Intanto esso Guiberto dimorava con Arrigo in Verona, fingendosi prontissimo a rinunziare il preteso suo papato, se in altra maniera non si potea dar la pace alla Chiesa. Ho io prodotto, ma colle note cronologiche poco esatte, una donazione fatta in quest'anno da esso Arrigo [Antiquit. Italic., Dissert. LXVII.], dimorante in Mantova, a Conone ossia Corrado vescovo di quella città.

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Anno di Cristo MXCIV. Indizione II.
Urbano II papa 7.
Arrigo IV re 39, imperad. 11.
Corrado II re d'Italia 2.

Il solo Sigeberto è quello [Sigebertus, in Chron.] che accenna una scorsa data in quest'anno dall'imperadore Arrigo nella Gallia, cioè nella Borgogna o Lorena. Servì il suo allontanamento dall'Italia a far crescere smisuratamente la parte pontificia in queste parti, di maniera che moltissime fortezze si ribellarono, e presero l'armi contra di lui. Profittonne anche papa Urbano. Da Bertoldo di Costanza [Berthold. Constantiensis, in Chron.] e da una lettera di Goffredo abbate vindocinense, cioè di Vandomo, ci vien confermato [Goffrid. Vindocinensis, lib. 1, Epist. 8.] che in questi tempi l'antipapa teneva tuttavia guarnigione nel palazzo del Laterano, ed era inoltre padrone di castello Sant'Angelo e della basilica vaticana. Abitava all'incontro quasi privatamente papa Urbano nella casa di Giovanni Frangipane, nobile romano, la quale dovea aver sembianza di fortezza. Quindici dì prima di Pasqua venne a trovarlo Ferruccio, lasciato dal suddetto Guiberto per custode d'esso palazzo lateranense, offerendo di dargli quel riguardevol edifizio, purchè gli fosse pagata una buona somma di danari. Era vota la borsa pontificia, e perciò Urbano si raccomandò ai vescovi e cardinali, che poco gli diedero, perchè poveri anche essi a cagion della persecuzione e de' malanni correnti. Trovossi per accidente in Roma il suddetto Goffredo abbate vindocinense, e questi ciò udito, vendè tosto i suoi muli e cavalli, e contribuì tutto quanto l'oro e l'argento che avea; e con ciò si ultimò il mercato con Ferruccio, ed Urbano entrò in possesso della torre e del palazzo lateranense. Col nome di questa torre pensa il padre Pagi [Pagius, Crit. ad Annal. Baron.] disegnato castello [461] Sant'Angelo. Io non ne son persuaso. Esso abbate Goffredo nella lettera seguente [Goffrid., lib. 1, Epist. 9.] si pregia di aver tolto a Guiberto lateranense palatium, senza parlar più della torre. Se gli avesse anche tolto castello Sant'Angelo, siccome fortezza di maggior conseguenza, non l'avrebbe egli taciuto. E Bertoldo Costanziense chiaramente asserisce che Guiberto ne era padrone, e che i suoi impedivano il passare per ponte Sant'Angelo. Ma che vo io cercando conghietture? Il suddetto Bertoldo attesta che anche nell'anno 1097 Guiberto tenea presidio in quel castello. Dimorava tuttavia in Roma il pontefice romano nel dì 29 di giugno, in cui confermò i privilegii della badia di Montebello sul Pavese, con bolla data [Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1 in Append.] Romae III kalendas julii, anno Domini millesimo nonagesimo quarto, Indictione secunda, pontificatus domni Urbani II septimo. Abbiamo da Donizone [Donizo, lib. 2, cap. 8.] che, per consiglio della contessa Matilda, esso pontefice determinò di venire in Lombardia, per maggiormente fortificare il partito dei cattolici, e sradicare la gramigna guibertina. Perciò verso il fine dell'anno, per attestato di Bertoldo [Berthold. Constantiensis, in Chron.], celebrò il santo Natale in Toscana, dove fu ad accoglierlo con tutta divozione la contessa Matilda. Se rimase Arrigo sommamente sconcertato per la fuga e ribellione del figliuolo Corrado nell'anno precedente, restò egli in questo anche oltremodo svergognato per la fuga della regina Adelaide, ossia Prassede, sua moglie. La teneva egli imprigionata in Verona [Donizo, lib. 2, cap. 8. Berthold. Constantiensis, in Chron. Annalista Saxo.], ed avendo essa trovato modo di far sapere le sue miserie alla suddetta contessa Matilda, con raccomandarsi a lei, seppe la contessa così ben menare un segreto trattato, che nel verno di quest'anno la fece fuggir dalle carceri. Rifugiossi ella presso il duca Guelfo V, il quale colla consorte [462] Matilda le fece un trattamento da pari sua; ed allora fu che essa regina diede fuoco a tutte le iniquità e crudeltà commesse contra di lei dal bestiale marito, il cui discredito certamente dovette andar crescendo alla pubblicazione di fatti sì enormi. Essendosi poi tenuto un gran concilio di cattolici tedeschi nella città di Costanza da Gebeardo vescovo, fece la regina suddetta esporre in quella sacra adunanza le sue querele, che mossero a sdegno e compassione chiunque la udì. Intanto in Germania Guelfo IV duca di Baviera conchiuse una pace e lega per tutta la Suevia, Francia teutonica, Alsazia e Baviera, sino ai confini dell'Ungheria: contrade tutte parziali al vero romano pontefice. Scrive sotto quest'anno il Dandolo [Dandul., in Chron, tom. 12 Rer. Ital.], che trovandosi l'imperadore Arrigo in Trivigi, Vitale Faledro doge di Venezia gli spedì tre suoi legati, che il trovarono molto favorevole agli interessi de' Veneziani. In segno di che non solamente egli rinnovò i patti antichi col popolo di Venezia, ma ancora alzò dal sacro fonte una figliuola del doge. Scoprissi ancora in Venezia il sacro corpo di San Marco evangelista, essendo gran tempo che s'era smarrita la memoria del sito in cui era seppellito; e di nuovo fu posto in luogo, oggidì affatto ignoto, nella di lui basilica: che così allora si costumava per timore de' ladri pii delle sacre reliquie, che per più secoli non lasciarono riposar le ossa sacre dei santi. Andò anche Arrigo Augusto per sua divozione a visitare in Venezia la basilica suddetta, e dopo aver girata la città, ne commendò molto il sito e il governo, e concedute esenzioni a varii monisteri, se ne tornò in terra ferma. Potrebbe nondimeno essere che prima di questo anno, e in tempo di maggior felicità, Arrigo visitasse Venezia. Abbiamo anche un privilegio fatto in questo medesimo anno dal soprallodato doge Vitale al popolo di Loreo, castello fabbricato e ben fortificato dallo stesso doge.

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Anno di Cristo MXCV. Indizione III.
Urbano II papa 8.
Arrigo IV re 40, imperad. 12.
Corrado II re d'Italia 3.

Passò dalla Toscana nel febbraio dell'anno presente in Lombardia il buon papa Urbano, e circa il primo dì di marzo celebrò un insigne concilio nella città di Piacenza [Labbe, Concil., tom. 10.], dove intervennero dugento vescovi dell'Italia, Borgogna, Francia, Alemagna, Baviera, e d'altre provincie, e quasi quattro mila cherici, con più di trenta mila laici. Sì grande fu il concorso, che non essendovi basilica capace di tanta gente, bisognò tener quella sacra assemblea in piena campagna. Colà comparve la sfortunata regina Adelaide, e si lamentò delle infamie che le avea fatto sofferire l'indegno suo consorte Arrigo. Non avendo ella acconsentito a tali scelleratezze, fu disobbligata dal farne penitenza. Quivi ancora furono stabiliti varii decreti riguardanti la disciplina ecclesiastica, che avea patito di molto in questi sì burrascosi tempi; e solennemente fu rinnovata la scomunica contra dell'antipapa e de' suoi aderenti. Vi comparvero ancora i legati di Alessio Comneno imperadore dei Greci, con esporre le di lui calde preghiere ed istanze per ottener soccorso contra de' Turchi e d'altri infedeli, che già aveano occupata la maggior parte dell'imperio d'Oriente, e colle loro scorrerie si faceano vedere sotto le mura di Costantinopoli. Però papa Urbano ivi cominciò a predicar la crociata [Berthold. Constantiensis, in Chron.], e molti vi furono che con giuramento s'impegnarono al viaggio di oltremare, per militar contro degl'infedeli. Fu in tal congiuntura consecrato Arnolfo arcivescovo di Milano, alla cui elezione tanto tempo prima s'era opposto il legato apostolico. Nel dì 11 di aprile passò il papa a Cremona, e venutogli incontro il giovane re Corrado, umilmente tenne la staffa al pontefice [464] e l'addestrò. Gli prestò inoltre giuramento di fedeltà, cioè di conservargli la vita, le membra e il pontificato romano. Urbano, all'incontro, il ricevette per figliuolo della santa romana Chiesa, con promettergli ogni aiuto e favore per fargli conseguire il regno e la corona imperiale, purchè anch'egli rinunziasse alla pretension delle investiture ecclesiastiche. Inviossi dipoi il papa per mare in Provenza, e venuto a Valenza, di là spedì le lettere circolari per invitare i prelati ad un concilio da tenersi in Chiaramonte nell'ottava di san Martino, oppur ne' giorni seguenti. Fu infatti celebrato quel concilio [Labbe, Concilior., tom. 10.] al tempo destinato, coll'intervento di tredici arcivescovi e dugento e cinque fra vescovi ed abbati, benchè altri ne contino fin quattrocento. Molti regolamenti si fecero ivi per la disciplina della Chiesa. L'atto nondimeno più famoso di quella insigne assemblea fu la proposizione fatta di nuovo con più fervore dallo zelantissimo papa per la crociata, cioè di un armamento per liberar Gerusalemme dalle mani degl'infedeli. Così celebre è questo avvenimento, così ampiamente trattato da varii scrittori antichi e moderni, che a me basterà di solamente darne un lieve abbozzo per la concatenazione di questa istoria. A sì celebre movimento era già preceduta la predicazione di Pietro romito franzese [Guillelm. Tyr., Hist., lib. 1, cap. 11. Bernardus, Thesaur., cap. 6, tom. 7 Rer. Ital.], il quale, dopo essere stato a visitare i luoghi santi di Palestina, rapportò in Occidente la persecuzion fatta dai Musulmani a' poveri Cristiani in quelle contrade, e come restassero profanate le memorie della nostra redenzione. Portò egli lettere compassionevoli di quel patriarca Simeone al papa e a' principi dell'Occidente; poi per l'Italia, Francia e Germania andò predicando e movendo grandi e piccoli a portar la guerra in Oriente. Questo fu il precursore di papa Urbano, ma potè più di lunga mano l'esortazione [465] infocata d'un capo visibile della Chiesa di Dio per commuovere e principi e popoli a quell'impresa. Adunque corse a gara gran moltitudine di gente dopo il concilio a prendere la croce e ad impegnarsi per la spedizione d'Oriente; nè altro si udiva dappertutto che questa voce: Dio lo vuole, Dio lo vuole. Nè tanta commozion di popoli nacque dalla sola lor divozione; v'intervenne anche un piissimo interesse. Erano allora tuttavia in uso i canoni penitenziali; ad ogni peccato era destinata la sua penitenza; e queste penitenze si stendevano bene spesso ad anni e a centinaia d'anni, a misura della quantità e qualità dei reati. Ora il pontefice, per animar tutti a prendere la croce, concedette indulgenza plenaria (cosa allora rarissima) di tutte le suddette pene canoniche a chiunque pentito e confessato imprendesse le fatiche di un sì lungo e scabroso viaggio a Gerusalemme. Però non è da stupire se allora sì grande fu il concorso di ecclesiastici e laici alla guerra sacra, e se anche tanti principi si infiammarono di zelo per condurre a fine così glorioso disegno. Più di cento mila persone presero allora la croce, e fra questi moltissimi monaci ancora, che con sì bella congiuntura si misero in libertà.

Succedette in quest'anno un grave sconcerto in Italia, a noi narrato da Bertoldo da Costanza con queste parole [Bertholdus Constantiensis, in Chron.]: Welpho filius Welphonis ducis Bajoariae, a conjugio dominae Mathildis se penitus sequestravit, asserens illam a se omnino immunem permansisse: quod ipsa in perpetuum reticuisset, si non ipse prior illud satis inconsiderate publicasset. Ho io cercato altrove [Antichità Estensi, P. I, cap. 4.] i motivi di tal separazione, e mi è sembrato di poter dire che non ispontaneamente nè per sua balordaggine si ritirò Guelfo V dalla contessa Matilda nell'anno presente, ma sì bene per disgusti a lui dati dalla contessa medesima. Finchè ella ebbe bisogno di lui nelle turbolenze passate, non gli fu scarsa [466] di segni di vero amore e stima, tuttochè fra loro non passasse commercio carnale, o perchè ella nol voleva, o perchè con questo patto l'aveva egli sposata. Ma dacchè ella vide depresso in Italia Arrigo IV, cominciò a rincrescerle di aver un compagno nel comando, e però seppe indurre il marito a separarsi da lei. Forse anche si scoprì solamente allora che Matilda nell'anno 1077 avea fatta una donazione solenne di tutto il suo patrimonio alla Chiesa romana; laonde trovandosi Guelfo da tutte le parti burlato per aver presa una ch'era solamente moglie di nome, ed anche senza speranza di godere della di lei eredità, disgustatissimo da lei si congedò. E che nel contratto del di lui matrimonio colla contessa seguisse qualche patto di tal successione, si può raccogliere dal sapere che Guelfo IV duca di Baviera suo padre, udito questo divorzio, volò in Italia tutto ardente di sdegno, e per quanto facesse, non gli riuscì di riconciliar questi due coniugati; nè potendo egli digerir l'inganno fatto alla sua casa dalla contessa, dopo essere per tanti anni stato il principal sostegno della parte cattolica, si gettò nel partito allora fallito dell'imperadore Arrigo. Questa sua risoluzione e lo sdegno da lui mostrato fanno abbastanza intendere che un gran torto gli doveva aver fatto Matilda. Unde (soggiugne esso Bertoldo) pater ipsius (cioè Guelfo IV) in Longobardiam nimis irato animo pervenit, et frustra diu multumque pro hujusmodi reconciliatione laboravit. Ipsum etiam Henricum sibi in adjutorium adscivit contra dominam Macthildam, ut ipsam bona sua filio ejus dare compelleret, quamvis nondum illam in maritali opere cognosceret. È un sogno del Fiorentini il farsi a credere che il vecchio Guelfo prima del divorzio del figliuolo avesse abbracciata la fazione di Arrigo. L'abbracciò per dispetto, dopo essersi trovato sì solennemente beffato dalla contessa Matilda. Se si notassero tutti i vizii degli eroi, per lo più comparirebbono [467] non minori di numero e peso che le loro virtù. Tornarono i due Guelfi, malcontenti della contessa, in Germania, per attestato di Bertoldo, e si affaticarono non poco in favore dell'Augusto Arrigo; tutto nondimeno indarno, perchè il di lui partito era oramai troppo scaduto. È da osservare che Donizone, troppo parziale della contessa, niuna menzione fa mai di Gotifredo, nè di Guelfo, che pur furono mariti di lei, ma da lei in fine rigettati e sprezzati. Fu in questi tempi consigliato Corrado re d'Italia ad ammogliarsi [Gaufridus Malaterra, lib. 4, cap. 23.]. Papa Urbano e la contessa Matilda gli proposero Matilda figliuola di Ruggieri conte di Sicilia, principe che potea dare una buona dote, di cui abbisognava forte quel povero re, smunto affatto di danaro. Lo stesso papa ne scrisse al conte Ruggieri, e restò conchiuso il trattato. Spedì egli la figliuola con una flotta e con un ricco tesoro a Pisa, dove si trovò Corrado a riceverla; e quivi con tutta onorevolezza furono celebrate le nozze. Scrive bensì Bertoldo da Costanza che in questi medesimi tempi l'imperadore Arrigo dimorava in Lombardia, paene omni regia dignitate privatus, perchè tutto il nerbo delle sue milizie era passato sotto le bandiere del suddetto suo figliuolo Corrado e della contessa Matilda. Contuttociò io truovo che egli nel dì 31 di maggio tenne un placito nella città di Padova [Antiquit. Italic., Dissert. XXXI.] coll'intervento di Burcardo e Warnerio marchesi, e in esso accordò la sua protezione per alcuni beni al monistero di santa Giustina di Padova. Similmente dimorando egli in Garda sul lago Benaco, nel dì 7 di ottobre confermò i suoi privilegii [Ibidem, Dissert. LXX.] al monistero della Pomposa, posto tra Ferrara e Comacchio, con un diploma, le cui note non son pervenute a noi assai esattamente copiate dall'originale. Tentò egli inoltre, secondochè abbiam da [468] Donizone [Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2, cap. 9.], d'impadronirsi del forte castello di Nogara coll'aiuto dei Veronesi. L'assediò infatti, e l'aveva già ridotto alla estremità per la fame; ma, ciò udito la contessa Matilda,

Mox accersitos Motinenses corpore firmos,

Eridanum transit.

E già era in cammino per soccorrere la languente fortezza, quando sorse tal timore nell'armata di Arrigo, che tutti diedero a gambe, con abbandonare armi e bagaglie.


   
Anno di Cristo MXCVI. Indizione IV.
Urbano II papa 9.
Arrigo IV re 41, imper. 13.
Corrado re d'Italia 4.

Parte di quest'anno impiegò l'infaticabile papa Urbano in varii viaggi per le città della Francia, dei quali fa menzione il padre Pagi. Sollecitò dappertutto la crociata, e tenne in quelle contrade due altri concilii nelle città di Tours e di Nismes, per regolar gli affari ecclesiastici. Aveva egli già scomunicato Filippo re di Francia a cagion delle nozze illegittime da lui contratte, vivente la vera moglie. Si ravvide egli, ed ottenuta l'assoluzione, tornò in grazia del papa e della Chiesa. Per attestato di Bertoldo da Costanza [Berthold. Constantiensis, in Chron.], venne poscia nel mese di settembre in Italia, e presso Pavia celebrò la festa dell'Esaltazion della Croce nel dì 14 di esso mese. Pretende il suddetto padre Pagi [Pagius, Crit. ad Annal. Baron.], non so se con buoni fondamenti, ch'egli calasse più tardi in Lombardia. Gran concorso di vescovi e principi fu ad ossequiare il buon pontefice, che da Pavia passò a Milano, e di là continuò il suo viaggio fino a Roma, dove gloriosamente entrato, celebrò con solennità magnifica il santo Natale. Mercè dell'armi cristiane, che qui sotto accennerò, [469] tutta quella città s'era ridotta ubbidiente ai suoi cenni, a riserva del castello Sant'Angelo, in cui, per attestato del suddetto Bertoldo, dimorava tuttavia la guarnigione dell'antipapa Guiberto. Si mosse in quest'anno un'infinità di cristiani crocesegnati alla volta dell'Oriente, composta della schiuma di tutti i masnadieri e della canaglia della Francia, Germania ed Inghilterra, e con loro andarono femmine da partito senza numero. Un corpo d'essi era condotto dal romito Pietro: la prima prodezza che fecero in Germania, fu di perseguitare, svaligiare, uccidere, oppur forzare quanti Giudei trovarono ad abbracciar la religione di Cristo [Albert. Aqu., lib. 1, cap. 24. Guillelm. Tyr., lib. 1, cap. 17.]. Arrivati costoro in Ungheria e Bulgaria, tante ribalderie e rapine commisero, che que' popoli, prese l'armi, desertarono tutta quell'armata, di maniera che poche migliaia ne poterono giugnere a Costantinopoli limosinando un tozzo di pane. Un altro corpo di questa ciurmaglia penetrò più avanti fino al paese de' Turchi, e fu da essi disfatto. Un altro, condotto da Raimondo conte di sant'Egidio, passò per la Schiavonia. Mossesi poi nell'agosto Gotifredo di Buglione dal suo ducato della Lorena, principe di rara pietà e saviezza e di egual valore, seco conducendo una gran quantità di altri principi e signori della Francia, Fiandra e Lorena, e un'armata di dieci mila cavalli e di settanta mila fanti, tutta gente agguerrita e disciplinata. Con buon ordine per la Germania, e poi coll'avere ottenuto libero il passaggio da Colomanno re per l'Ungheria, marciò questo esercito alla volta di Costantinopoli. Un'altra potentissima armata condotta da Ugo il grande, fratello del re di Francia, da Roberto conte di Fiandra, da Roberto duca di Normandia, da Eustachio di Bologna, fratello del duca Gotifredo, e da altri principi [Guibert. Abbas, cap. 11 Hist. Fulcherius Carnotens. et alii.], venne per l'Italia, [470] e passando per la Toscana, trovato in Lucca papa Urbano incamminato verso Roma, presero da lui la benedizione [Otto Frisingensis, Chron., lib. 7, cap. 6.]. In passando per Roma, cacciarono di là l'antipapa Guiberto, e perciò la città, fuorchè castello Sant'Angelo, tornò in potere del papa. Arrivarono questi sul principio del verno in Puglia, e convenne loro prendere quartiere in quelle parti, perchè non era più tempo di mettersi in mare. Ma essendosi azzardato il suddetto principe Ugo di passare a Durazzo, fu quivi fatto prigione dai perfidi Greci, e tosto inviato a Costantinopoli. Buon per lui che da lì a non molto, verso la festa del Natale, giunse in quelle vicinanze il duca Gotifredo col suo prode esercito, che forzò l'imperadore Alessio a rimettere in libertà quel principe, e stabilì poi varie capitolazioni co' Franchi pel libero loro passaggio in Asia.

Accadde in quest'anno che la città di Amalfi si ribellò a Ruggieri duca di Puglia [Gaufridus Malaterra, lib. 4, cap. 24. Lupus Protospata, in Chron.]. Non avea egli forze bastanti per mettere al dovere quella città, e massimamente navi per istrignerla dalla parte del mare. Raccomandossi a Ruggieri conte di Sicilia suo zio per un copioso aiuto; e questi infatti raunato un esercito di ventimila Saraceni suoi sudditi in Sicilia, colla giunta delle sue vecchie truppe e con una buona squadra di navi, accorse, e col nipote mise l'assedio per terra e per mare a quella città. Intanto si sparse la voce della crociata e de' Franchi che venivano verso la Puglia per passare il mare. Trovavasi a quell'assedio anche Boamondo principe di Taranto e fratello del duca Ruggieri. Invogliatosi anch'egli di quella sacra spedizione, e soprattutto spinto dalla speranza di qualche gran conquista in Oriente, prese la croce [Guibertus Abbas, in Chronico. Petrus Diac., Chron. Casinens., lib. 4, cap. 11.]. Il gran rumore che faceva allora la commozion di tanti popoli per [471] andare alla conquista di Gerusalemme, e l'esempio suo cagion furono che la maggior parte delle truppe sì del duca che del conte, assedianti Amalfi, cominciassero a gridare: Iddio lo vuole, lo vuole Iddio; laonde s'arrolarono a furia sotto Boamondo per passare in Oriente. Fu questo inaspettato avvenimento la fortuna degli Amalfitani, già ridotti al verde; perchè il conte Ruggieri, veggendo per la maggior parte dileguato l'esercito suo, si ritirò confuso e malcontento in Sicilia; ed altrettanto fece il suo nipote Ruggieri, con ritornarsene in Puglia, lasciando nella ricuperata libertà la città d'Amalfi. Questo a me fa credere che non venti mila Saraceni, come vuole il Protospata, ma assai minor numero di quegl'infedeli fossero condotti a quell'assedio dal conte. Certamente niun d'essi dovette prender la croce; e venti mila di coloro erano un'armata sufficiente per ultimar l'impresa di quella città. Accompagnossi con Boamondo anche Tancredi, che divenne poscia al pari di lui celebre eroe nella guerra sacra, e le cui prodezze si truovano descritte da Radolfo Cadomense. Nella prefazione alla Storia di questo scrittore ho io osservato [Rerum Italicarum Scriptor., tom. 5.] che Tancredi ebbe per padre Odone, ossia Otton Buono marchese, e per madre Emma sorella del duca di Puglia Roberto Guiscardo, ed era perciò cugino di Boamondo. Altri il fanno suo nipote, ma senza buon fondamento. Ho eziandio creduto assai probabile che Tancredi fosse di nazione italiana. Nè si dee tacere che anche da tutte le parti dell'Italia concorse innumerabil gente a questa sacra impresa. Folco, uno degli antichi storici della guerra sacra presso il Du-Chesne [Du-Chesne, Rer. Francic., tom. 4.], fra le genti crocesegnate annovera

Quos Athesis pulcher praeterfluit, Eridanusque,

Quos Tyberis, Macra, Vulturnus, Crustumiumque

Concurrunt Itali, ec.

Pisani ac Veneti propulsant aequora remis.

[472] Soggiunge più sotto:

Qui Ligures, Itali, Tusci, pariterque Sabini,

Umbri, Lucani, Calabri simul, atque Sabelli,

Aurunci, Volsci, vel qui memorantur Etrusci;

Quaeque etiam gentes sparguntur in Apula rura,

Queis conferre manus visum est in praelia dura,

Sub juga Tancredi et Boamundi corripuere,

Et contra fidei refugas patria arma tulere.

Verisimile nondimeno a me sembra che non tutti questi Italiani ad un tempo si movessero nell'anno presente, ma che continuasse la folla anche ne' due seguenti. Passato nell'Epiro Boamondo con Tancredi, ebbe tosto, per attestato di Radolfo Cadomense [Radulphus Cadomensis, cap. 4.], a sguainar la spada coi Greci che gli vollero contrastare il passo. Diede loro più d'una rotta, s'impadronì di buon tratto di paese, e tal timore arrecò la di lui venuta alla corte di Costantinopoli, che Alessio imperadore giudicò meglio di procedere colle buone con un principe sì avvezzo alle vittorie. Chiamatolo dunque alla corte, l'indusse a prestargli omaggio, e cercò di sbrigarsene il più presto possibile. Venuto a morte Vitale Faledro doge di Venezia [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] in questo anno, ebbe per successore Vitale Michele in quella illustre dignità. Per attestato ancora di Jacopo Malvezzo [Malvicius, Hist. Brix., tom. 14 Rer. Ital.], nell'anno presente un terribile incendio devastò quasi tutta la città di Brescia.


   
Anno di Cristo MXCVII. Indizione V.
Urbano II papa 10.
Arrigo IV re 42, imperad. 14.
Corrado II re d'Italia 5.

Restò libera in quest'anno l'Italia dall'imperadore Arrigo. Veggendosi egli snervato e screditato affatto in queste parti, e più che mai concorrere i popoli in favore del pontefice e del re Corrado suo figliuolo [Bertholdus Constantiensis, in Chron.], meglio stimò di ritornarsene in Germania. Riportò indicibil gloria la contessa Matilda per questo successo, [473] con attribuirsi al di lei valore e prudenza un tale abbassamento di Arrigo. Si trattenne tutta la state esso Augusto in forma assai privata in Ratisbona e Nuremberga, dove avendo a lui fatto ricorso i Giudei, forzati nel precedente anno ad abbracciare la religione di Cristo, restituì loro la libertà della coscienza [Annalista Saxo. Abbas Urspergensis, in Chron.]. Circa il principio di dicembre tenne una conferenza co' principi tedeschi a motivo di trattar della pace, ma forse principalmente per promuovere al regno Arrigo V suo secondogenito, giacchè troppo odio portava egli al primogenito Corrado. Era già pervenuto all'età di più di cento anni il marchese Alberto Azzo II estense, e conoscendo approssimarsi il termine de' suoi giorni, allora fu che più che in addietro volle esercitar la sua pia liberalità verso le chiese [Antichità Estensi, P. I, cap. 11.]. Resta tuttavia un'insigne donazione da lui fatta anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi MLXXXXVII, tertiodecimo die introeunte mense aprilis, Indictione quinta. Cioè dona ivi cinquanta possessioni, con ispecificare il nome di cadaun lavoratore d'esse, al monistero della Vangadizza sull'Adigetto, luogo di suo giuspatronato, e posto ne' suoi Stati. L'originale da me veduto nell'archivio di essa badia forse passò in mano del nobile veneziano Giam-Batista Recanati. Intervenne a questa pia donazione anche Ugo suo figliuolo, e trovandosi eglino nella nobil terra, oggidì città, di Rovigo, di cui era esso marchese padrone. Ma non andò molto, che il decrepito principe fu chiamato da Dio a miglior vita, con lasciare dopo di sè un glorioso nome sopra la terra. Azzo marchio de Longobardia (son parole di Bertoldo da Costanza, scrittore contemporaneo) pater Welphonis ducis de Bajoaria, jam major centenario, ut ajunt, viam universae terrae arripuit. Restarono di lui tre figliuoli maschi, cioè Guelfo IV duca di Baviera, ed Ugo e Folco; dal primo de' quali, nato [474] da Cunegonda dei Guelfi, convien qui ripetere che discende l'imperiale, reale, elettorale e ducal casa di Brunswich; e da Folco, nato da Garsenda principessa del Maine, i marchesi d'Este, duchi di Ferrara, Modena, Reggio, ec. Ho io rapportato altrove [Antichità Estensi, P. 1, cap. 27.] una convenzione, stabilita nel dì 6 d'aprile dell'anno 1095, tra i due fratelli Ugo e Folco, da cui apparisce che Ugo principe, per quanto abbiamo già veduto, di poco lodevol condotta, vendè a Folco suo fratello tutte le pretensioni sue sopra molti Stati che il marchese Azzo avea con varii strumenti ceduto al medesimo Folco. Contuttociò Folco si contentò di lasciar godere ad esso suo fratello e a' suoi figliuoli maschi legittimi, ma con obbligo di vassallaggio, medietatem castrorum, et terrae, quae Azo marchio genitor noster tenet a Mincio usque ad Veneciam, et illam porcionem ceterorum castrorum de alia terra marchionis Azonis genitoris nostri. Accaduta dunque la morte del marchese Azzo, questi due fratelli entrarono in possesso di tutti gli Stati del padre, cioè di un fioritissimo paese dal fiume Mincio di Mantova sino al mare, che abbracciava fra le altre terre la nobil d'Este, e quella di Rovigo col suo Polesine, Montagnana, la Badia, ec., siccome ancora di tutti gli altri spettanti al padre nella Lunigiana e Toscana, e in varii altri contadi d'Italia specificati nel diploma d'Arrigo IV nell'anno 1077, senza contare quei ch'essi riconoscevano dalle chiese.

Erano questi due principi stati sempre costanti nel partito cattolico del re Corrado contra dell'Augusto Arrigo. Però in questo medesimo anno Folco marchese andò alla corte del re Corrado, che dimorava in borgo San Donnino, e nel dì 20 di agosto impetrò dallo stesso re un privilegio, da me dato alla luce [Idem, ibid., cap. 28.]. Ma non passò gran tempo che Guelfo IV duca di Baviera suscitò contra dei due suddetti suoi fratelli una gran tempesta. Veggendo [475] il marchese Azzo sì ben provveduto in Germania esso Guelfo suo figliuolo del primo letto, avea trasmessi tutti i suoi Stati d'Italia negli altri due suddetti suoi figliuoli, acciocchè con isplendore tirassero innanzi le due loro linee in Italia. Ma non l'intese così il duca Guelfo loro fratello. Pretese anch'egli la sua parte negli Stati paterni, e perchè trovò renitenti a ciò Ugo e Folco, mosse loro guerra nell'anno presente. Dopo aver detto il suddetto Bertoldo che il marchese Azzo mancò di vita, soggiugne: Magnamque guerram suis filiis de rebus suis dereliquit. Nam Welfo dux omnia patris sui bona, utpote matri suae (Cunegonda) donata (il che non merita fede) obtinere voluit. Sed fratres ejus de alia matre (cioè da Garsenda) procreati noluerunt se poenitus exheredari. Si mise in procinto il duca Guelfo di scendere in Italia colle sue forze per sostener gagliardamente le sue pretensioni; ma Ugo e Folco anch'essi furono in armi, et aditum ei ad Longobardiam prohibuerunt, quum iret ad possidendum: il che ci fa intendere, qual fosse la lor potenza, quando era bastante ad impedire ad un duca di Baviera armato il passaggio in Italia. Allora fu che Guelfo si collegò con Arrigo duca di Carintia, e probabilmente ancora marchese della marca di Verona, e col patriarca d'Aquileia, fratello d'esso Arrigo duca e principe, signore del Friuli e della Carniola. Coll'accrescimento di tante forze al duca Guelfo non fu poi difficile il penetrare in Italia, e il portar la guerra contra de' fratelli. Sed filii ejusdem marchionis (aggiugne Bertoldo) de alia conjuge praedicto duci totis viribus resistere. Nulladimeno non potendo essi competere colla potenza di lui e de' suoi collegati, Guelfo hereditatem patris de manibus eorum ex magna parte sibi vendicavit. Ma da lì a non molto ricuperò il marchese Folco gli Stati paterni, e dovette seguire qualche convenzione fra esso Folco e i figliuoli di Guelfo IV, all'osservarsi che la linea estense in Germania possedette dipoi la terza parte di [476] Rovigo, ed esercitò signoria anche nella nobil terra d'Este. Non si sa che divenisse del marchese Ugo. Ho io ben trovato che lasciò figliuoli, a lui nati dalla figliuola di Roberto Guiscardo duca di Puglia. Abbiamo da Goffredo Malaterra [Gaufrid. Malaterra, lib. 4, cap. 25.] che in questo anno Ruggieri conte di Sicilia maritò una sua figliuola con Colomanno, appellato da alcuni impropriamente Carlo Manno re d'Ungheria. Le nozze furono con singolar pompa celebrate in Buda capitale di quel regno. Fece quanto potè Alessio imperadore de' Greci, principe accortissimo, per liberarsi dagli eserciti de' Franchi giunti in Tracia, che faceano immensi mali anche nei contorni di Costantinopoli. Fra lui e i principi di quelle armate in fine si stabilirono alcune capitolazioni, dopo le quali passati i Cristiani di là dallo Stretto, ed entrati in Asia, in una terribil battaglia nel dì 14 di maggio sconfissero un immenso esercito di Turchi. Si impadronirono appresso della città di Nicea; e continuato il loro viaggio, arrivarono fino alla regal città d'Antiochia, di cui intrapresero l'assedio nel dì 21 di ottobre. Trovandosi Corrado re d'Italia in Cremona nel dì 22 d'esso mese d'ottobre, confermò i suoi privilegii ai canonici di Cremona, siccome consta dal diploma da me dato alla luce [Antiquit. Italic., Dissert. LXIV.], in cui l'anno XIV del regno d'esso Corrado non può sussistere. Terminò il corso di sua vita in quest'anno Arnolfo arcivescovo di Milano, e in luogo suo fu eletto Anselmo di questo nome quarto. Secondo le carte prodotte dal Guichenon [Guichenon, de la Maison de Savoye, tom. 3.], fioriva in questi tempi Umberto ossia Uberto II conte, da cui discende la real casa di Savoia. Truovasi nominato Umbertus comes filius quondam Amedei, ed altrove comes et marchisus. Quel che pare strano, egli professa lege vivere romana, perchè que' principi erano di nazione e legge salica.

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Anno di Cristo MXCVIII. Indizione VI.
Urbano II papa 11.
Arrigo IV re 43, imper. 15.
Corrado II re d'Italia 6.

Fino a quest'anno era durata la ribellion di Capoa contra tutti gli sforzi di Riccardo suo principe, che s'era ritirato in Aversa. Cotanto si raccomandò questo principe normanno a Ruggieri duca di Puglia, che questi, chiamato in aiuto il suo zio Ruggieri duca di Sicilia, s'indusse a formare nell'aprile dell'anno presente l'assedio di quella città [Gaufrid. Malaterra, lib. 4, cap. 36.]. V'intervennero il duca e il conte con due possenti eserciti; e papa Urbano, affine di trattar pace, ed anche, per quanto si può conghietturare, a motivo di sostenere i diritti della santa Sede sopra quella città, giudicò bene di trasferirsi al medesimo assedio, e si fermò assai tempo in quelle vicinanze. Anche santo Anselmo arcivescovo di Cantorberì in Inghilterra [Eadmerus, in Vita S. Anselmi.], venuto in Italia a cagione delle violenze del re Guglielmo II, si portò colà per conferire col sommo pontefice, da cui, non meno che dal duca di Puglia, ricevette singolari onori. Si studiò il buon papa d'indurre i Capoani a rendersi amichevolmente; e ritrovandoli ostinati nella rivolta, si ritirò a Benevento. Con tal vigore continuarono poscia i principi normanni a strignere Capoa, che quel popolo [Lupus Protospata, in Chron.] nel mese di giugno fu astretto ad esporre bandiera bianca e capitolar la resa. Dal duca e dal conte fu consegnata quella città a Riccardo II. Nè si vuol tacere che Ruggieri duca di Puglia, non già per magnanimità aiutò Riccardo suo cugino a quell'impresa, ma per interesse; perciocchè princeps caussa auxilii, quod ab ipso sperabat, homo ducis factus fuit. Cioè il duca obbligò Riccardo a riconoscere da lui in feudo la medesima città, benchè non anche presa, e forse tutti gli Stati di lui: [478] alla qual risoluzione non s'era giammai potuto indurre Giordano principe di Capoa, e padre di lui, per quante carezze e minacce avesse adoperato per ottenere questo intento Roberto Guiscardo, padre d'esso duca Ruggieri, e zio materno del medesimo Giordano. Nella Vita di san Brunone [Apud Surium ad diem 6 octobr.] si racconta che durante l'assedio d'essa città, avendo un tal Sergio tramata una congiura contra di Ruggieri conte di Sicilia, san Brunone, che in questi tempi fioriva in Calabria, apparve in sonno al conte, e l'avvertì dell'imminente pericolo; per la qual grazia esso conte fu poi liberalissimo verso de' monaci certosini, istituiti dallo stesso san Brunone in questi tempi. Passarono dopo la conquista di Capoa il duca Ruggieri e il conte Ruggieri a Salerno, città allora, dove solea dimorar la corte dei duchi di Puglia. Colà parimente [Gaufrid. Malaterra, lib. 4, cap. 29.] da Benevento si portò papa Urbano per abboccarsi col conte prima del suo passaggio in Sicilia. E perciocchè si ritrovò esso conte disgustato per avere il pontefice eletto suo legato in Sicilia Roberto vescovo di Traina, senza precedente notizia e consenso del medesimo conte, affin di placarlo, e perchè ben sapea quanto grande fosse lo zelo della religione in quel principe, dichiarò legato apostolico per tutta la Sicilia esso conte e i suoi eredi con bolla data Salerni per manum Johannis sanctae romanae Ecclesiae diaconi, tertio nonas julii, Indictione VII (si dee scrivere VI) pontificatus domni Urbani secundi XI. Di qui ebbe origine la decantata monarchia di Sicilia (nome veramente strano) così vigorosamente impugnata dal cardinal Baronio nel tomo undecimo della sua Storia ecclesiastica, tomo perciò condannato alle fiamme in Ispagna. Anche a' dì nostri sotto il pontificato di Clemente XI ribollì questa controversia, che susseguentemente ebbe fine colla moderazione di alcuni abusi introdotti nel tribunale di quella monarchia.

[479] Andossene dipoi papa Urbano alla città di Bari, dove nel mese di ottobre tenne un maestoso concilio di cento ottantacinque vescovi [Lupus Protospata, in Chron. Anonymus Barensis, apud Peregrinium.]. Comparvero in quella sacra raunanza molti Greci, e con esso loro seguì una calda disputa intorno alla Procession dello Spirito Santo dal Figliuolo. Vi si trovò presente l'arcivescovo santo Anselmo, personaggio il più letterato che si avesse allora la Chiesa latina. Confutò egli l'opinion de' Greci con tal forza di ragioni ed autorità delle divine Scritture, che avrebbono dovuto coloro ammutolirsi. In quest'anno probabilmente accadde ciò che narra Landolfo iuniore storico milanese [Landolfus junior, Hist. Mediolan., cap. 1, tom. 5 Rer. Italic.]. Per attestato di lui, il giovane re Corrado teneva la sua corte in Borgo San Donnino. Avvenne che passò per colà Liprando prete milanese, gran partigiano della parte pontificia, incamminato verso Roma, per presentarsi davanti papa Urbano. Era egli persona famosa, perchè nell'anno 1075 gli scismatici gli aveano tagliato il naso e gli orecchi. Avendo voluto il re vederlo, fra l'altre cose, gli disse: Essendo maestro tu de' Paterini (così erano allora appellati i fautori della parte pontifizia), che sentimento hai tu intorno ai vescovi e sacerdoti, che possedendo tanti beni loro conceduti dai re, nulla poi vogliono contribuire per gli alimenti del re? Probabilmente questo re, più di apparenza che di sostanza, si doveva trovar molto asciutto e bisognoso di moneta per vivere. Liprando con tutta modestia e buon garbo gli rispose, ma senza sapersi ciò che gli rispondesse. Passando egli poi pel Parmigiano, fu preso e spogliato dagli uomini di quel vescovo, e fu obbligato a tornarsene indietro. Corrado fece pagar buona somma di danaro in pena da que' masnadieri. Dopo un faticoso assedio di nove mesi [Chronograph. Malleac. Guillelm. Tyr. Bernardus Thesaurarius et alii.], e dopo aver [480] disfatti varii corpi di Turchi che voleano portar soccorso all'assediata Antiochia, e dopo aver patito quella città una terribil fame e mortalità di gente, riuscì in fine all'esercito de' cristiani crocesignati di entrare per intelligenza di un ricco saraceno in quella vasta città, e di mettere a fil di spada chiunque non potè salvarsi colla fuga. Il principe Boamondo, che da Roberto suo padre, se non altra eredità, quella ebbe almeno dell'accortezza e del valore, quegli fu, che per trattato secreto con un uffiziale turco, cristiano rinnegato, introdusse le armi cristiane in Antiochia, e seppe così ben condurre i propri affari, che tutti gli altri principi accordarono a lui il dominio di quella nobilissima città, in cui egli fondò un illustre principato. Ma poco stette a presentarsi sotto Antiochia Corborano principe dei Turchi con trecento sessanta cinque mila armati (numero forse esagerato), che strettamente assediò i vincitori nella città medesima, e li ridusse, per mancanza di viveri, a cibarsi di carne di cavallo e di asini, e a morir non pochi di fame. Tutto era disperazione, quando eccoti un prete provenzale riferire che per una rivelazione di sant'Andrea si trovava in quella città la lancia, con cui fu aperto il costato al divino nostro Salvatore, e ne indicò il luogo. Fu poi dai più saggi creduta questa un'impostura. Verità nondimeno è, che ritrovata la pretesa lancia (che nulla più facile sarebbe stato, quanto che il porvene e seppellirne una a capriccio), tal compunzione, tal coraggio e risoluzione entrò in cuore dell'esercito cristiano, che fatta una sortita generale contro all'immensa armata nemica, la sbaragliarono e misero in fuga. Incredibil fu la quantità e ricchezza delle spoglie del campo. Sopraggiunse la peste, che fece non poca strage de' Cristiani; vennero anche dissensioni fra Boamondo e Raimondo conte di Tolosa; ma, ciò non ostante, la cotanto diminuita armata de' crociati continuò il suo cammino alla volta di Gerusalemme, con impossessarsi in andando di [481] varie città. Che la contessa Matilda fosse in questi tempi governatrice o signora di Reggio di Lombardia, si può forse dedurre da un atto da me dato alla luce [Antiquit. Italic., Dissert. XXXIX, pag. 647.]. Bolliva lite fra i monaci benedettini di quella città e gli uomini delle valli per alcuni beni. Essendo ricorsi gli ultimi ad essa principessa, ordinò ella ad uno dei suoi giudici di ben ventilar quella causa, e d'intimare alle parti che fossero pronte alla pugna, cioè alla pazza maniera di decidere molte controversie che era allora in voga. Entrarono i campioni nello steccato, e gran dire vi fu, perchè quello degli uomini suddetti gittò sopra la testa del campione de' monaci un guanto donnesco ordinato di varii colori, dando con ciò sospetto di malefizio. Tralascio gli altri ridicolosi avvenimenti di quel duello, che non era in questi barbari tempi riconosciuto dai più per una chiarissima tentazione di Dio, e però peccaminosa nel tribunale d'esso Altissimo.


   
Anno di Cristo MXCIX. Indizione VII.
Pasquale II papa 1.
Arrigo IV re 44, imperad. 16.
Corrado II re d'Italia 7.

Era tornato a Roma nel precedente anno il buon papa Urbano, e con gran pace avea quivi solennizzato la festa del santo Natale [Bertholdus Constantiensis, in Chron.], perchè gli era riuscito di rimettere in suo potere castello Sant'Angelo, fin qui occupato dal presidio dell'antipapa Guiberto. Niun'altra fortezza restava in quella città che non fosse dipendente dai di lui cenni; e coloro che quivi tuttavia si trovavano favorevoli alla fazione scismatica, o colle carezze o colla forza furono ridotti alla dovuta ubbidienza. Intimò egli un concilio da tenersi in Roma nella terza settimana dopo Pasqua, e infatti questo fu celebrato al tempo prefisso coll'intervento di cento cinquanta fra vescovi ed abbati, e col concorso d'innumerabili cherici. Vi fu presente anche il [482] celebre arcivescovo santo Anselmo. Si rinnovò in esso la scomunica contro dell'antipapa e de' suoi parziali; si confermarono le censure contro de' preti concubinarii; e fu fatta gran premura dal pontefice per nuovi aiuti all'impresa di terra santa. Ma da lì a pochi mesi infermatosi Urbano II, passò in miglior paese a godere il frutto delle sue virtù dopo un pontificato insigne e glorioso d'undici anni e cinque mesi. Succedette la morte sua, per attestato di varii scrittori, nel dì 29 di luglio del presente anno. Non andò molto che dal clero e popolo fu sustituito nella cattedra di san Pietro Rinieri di nazione toscano, già monaco cluniacense, e poi prete cardinale del titolo di san Clemente, che assunto il nome di Pasquale II, fu ordinato papa nel dì 14 d'agosto, dopo aver egli fatto gran resistenza, per fuggire così eccelsa dignità. Secondo la combinazione de' tempi, non potè il buon pontefice Urbano prima di chiuder gli occhi aver la consolazione di veder il frutto delle sue apostoliche fatiche, coll'avviso d'essersi impadronita l'armata de' cristiani crocesegnati della santa città di Gerusalemme, dove fecero un gran macello di Saraceni. Cioè fu essa dopo pochi giorni d'assedio presa nel dì 15 di luglio di quest'anno [Guillelmus Tyr., lib. 8, cap. ult.]; ma non potè, dissi, così importante nuova, che riempì di giubilo tutta la cristianità, ritrovar vivo esso Urbano. Raunati nella conquistata città i principi cristiani, dopo otto giorni di comun parere elessero re di Gerusalemme Gotifredo di Buglione duca di Lorena, il più saggio, il più pio, ed anche il più valoroso fra essi. Diede egli nel dì 14 del seguente agosto una terribil rotta all'immenso esercito del soldano d'Egitto presso ad Ascalona, che veniva per soccorrere Gerusalemme: con che restò mirabilmente coronata quella campagna. Ma perciocchè moltissimi di que' Franchi, dopo aver compiuti i lor voti, se ne tornarono appresso in Occidente, restò il novello re appena con trecento cavalli e [483] due mila fanti: il che fu cagione ch'egli implorasse i soccorsi del papa e degli altri principi cristiani. Nè mancò papa Pasquale, informato del felice successo dell'armi cristiane in Oriente, di sollecitare i popoli in aiuto de' Franchi conquistatori. Sembra a me verisimile che, prima della conquista di Gerusalemme, i Pisani, i Veneziani e i Genovesi, cadaun popolo colla sua flotta, si movesse verso quelle parti, quantunque forse vi arrivassero solamente dopo la presa d'essa città. Negli Annali Pisani [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.] è scritto, che di quest'anno restò bruciata tutta Kinsica, cioè una parte della città di Pisa, dove, a mio credere, abitavano i mercatanti mori che venivano a trafficare in quella città. Et stolus pisanus in Hierusalem ivit cum navibus centum viginti. De quo stolo Daibertus ejusdem ecclesiae archiepiscopus fuit ductor et dominus, qui tunc temporis in Hierusalem patriarcha remansit. Poscia all'anno 1100 vien quivi raccontata la presa di Gerusalemme XVIII kalendas augusti. Anticipando i Pisani di nove mesi il principio dell'anno volgare, la presa di Gerusalemme cade molto acconciamente nel dì 15 di luglio dell'anno presente. Ma, secondo quegli Annali, si era molto prima incamminata a quella volta l'armata pisana.

Altri Annali poi attribuiscono principalmente ai Pisani la gloria del conquisto di Gerusalemme: il che non merita credenza, perchè niuno di tanti autori, o contemporanei o vicini a quella rinomata impresa, vi parla de' Pisani. Anzi Guglielmo Tirio [Guilelmus Tyr., lib. 3.] attesta che solamente verso il fine del presente anno arrivò con dei soccorsi Daimberto arcivescovo di Pisa, e legato della Sede apostolica, il quale fu anche eletto patriarca di Gerusalemme. Scrive il Dandolo [Dandulus, in Chronico, tom. 12 Rer. Ital.] che i Veneziani misero insieme uno stuolo di circa dugento legni, dove, sotto il comando di Giovanni Michele figliuolo del doge, s'imbarcarono [484] tutti i crociati, e s'inviarono alla volta della Dalmazia, e poscia svernarono a Rodi. Alessio imperador dei Greci, nemicissimo in segreto della crociata, si adoperò per farli tornare indietro; ma inutili in ciò riuscirono le cabale sue. Venne poscia avviso ai Veneziani che i Pisani con cinquanta galee navigavano contro di loro, gloriandosi di voler entrare in quel porto. Fra queste due flotte seguì una zuffa, e toccò ai Pisani di salvarsi colla fuga. Arrivarono poscia i Veneziani alla città di Mira nella Licia, dove, se loro vogliam credere, trovarono il corpo di san Niccolò vescovo, e l'inviarono a Venezia, quantunque il popolo di Bari pretenda che assai prima quel sacro deposito passasse alla loro città. Scrivono ancora gli storici genovesi, che capitata in questi tempi la flotta genovese alla stessa città di Mira, ne asportò le ceneri di san Giovanni Battista. Un grande emporio di sacre reliquie doveva essere quella città. Lascerò io disputar fra loro questi troppo pii masnadieri, e seguiterò a dire che la flotta veneta giunse nel porto di Joppe, città già conquistata insieme con Gerusalemme dai Franchi. Però è da credere che gli aiuti portati per mare dai popoli italiani giugnessero colà solamente dappoichè Gerusalemme era caduta in potere dei collegati oltramontani. Fece l'imperadore Arrigo IV scoppiare in quest'anno lo sdegno suo contra Corrado suo primogenito, che ribello al padre avea occupata la corona del regno d'Italia. Raunata in Aquisgrana una dieta di principi germanici, quivi propose e fece accettar per suo collega e successore nel regno Arrigo V, suo secondogenito. Ho io pubblicato [Antiquit. Italic., Dissert. XLI.] un placito tenuto dalla contessa Matilde in Firenze anno dominicae Incarnationis millesimo nonagesimo nono, VI nonas martii, Indictione VIII, in cui Guido Guerra, da cui si crede che discendesse la nobil casa de' conti Guidi, celebre nelle storie, concedette ai canonici della [485] cattedrale di quella città alcune terre. Notai quel placito come tenuto nell'anno presente, senza esaminarne le note cronologiche. Ora mi avveggo appartener esso all'anno susseguente, indicandolo l'indizione VIII. Quivi s'è adoperato l'anno fiorentino; cioè tuttavia in quella città nel dì 5 di marzo continuava l'anno 1099, laddove, secondo l'era volgare, nel dì primo di gennaio avea avuto principio l'anno 1100. Similmente è stata da me prodotta [Antiquit. Ital., Dissert. VIII.] una donazione fatta da essa contessa al monistero di san Salvatore della Fontana di Taone, e scritta anno ab Incarnatione Domini millesimo nonagesimo nono, regnante imperatore Henricus, octavo idus septembris, Indictione sexta. Se così ha l'originale (il che io non posso affermare), quest'anno 1099 sarà l'anno pisano, e, secondo noi, l'anno 1098. Ma il Fiorentini [Fiorentini, Memor. di Matild., lib. 2.], accennando questo documento, legge Indict. VIII, cominciata nel medesimo mese di settembre, e però quell'atto è da riferire all'anno presente. Non è certamente lieve imbroglio nella storia questa diversità degli anni e delle indizioni che comparisce nelle carte antiche, ed è facile il prendere degli abbagli, se non si ha molta attenzione ed altri lumi della storia.


   
Anno di Cristo MC. Indizione VIII.
Pasquale II papa 2.
Arrigo IV re 45, imperad. 17.
Corrado II re d'Italia 8.

Abbiamo da Pandolfo Pisano [Pandulfus Pisanus, in Vit. Paschal. II, P. I, tom. 3 Rer. Italic.] che fu fatta calda istanza dal popolo romano a papa Pasquale perchè venisse cacciato da que' contorni l'antipapa Guiberto, il quale per tanti anni avea travagliata e tenuta in guerra la loro città, con esibire a questo effetto buone somme d'oro e d'argento. Giunsero nello stesso tempo ambasciatori di Ruggieri conte di Sicilia, [486] che ammessi all'udienza del papa, posero ai di lui piedi mille oncie d'oro. Animato da questi impulsi ed aiuti il pontefice, spedì l'esercito contra di Guiberto. Dimorava costui nella città d'Alba, e sostenne per qualche tempo l'assedio d'essa. Veggendo poi disperato il caso, ebbe maniera di scampare, e di ritirarsi in un forte castello; ma quivi all'improvviso la morte il colse, e mancò di vita ostinato nel suo scisma, pentito più volte d'avere assunto il titolo di pontefice romano, senza però mai pentirsi daddovero per riconciliarsi col vero vicario di Cristo, e far penitenza de' suoi enormi eccessi. Colla morte sua restò liberata la Chiesa di Dio da una gran peste, da un terribil nemico. Non restò essa nondimeno immediatamente quieta; imperciocchè i seguaci di esso Guiberto in luogo di lui elessero papa un certo Alberto, che nello stesso giorno fu dispapato. Laonde passarono all'elezion di un certo Teodorico; e questi per più di tre mesi fece fra' suoi aderenti una ridicola figura di sommo pontefice. Ma i Romani, o pure i Normanni misero le mani addosso a que' mostri, e confinarono il primo in san Lorenzo d'Aversa, l'altro nel monistero della Cava presso Salerno. Saltò su col tempo anche il terzo, appellato Maginolfo, che nel dì 2 di novembre fu da' suoi parziali promosso al pontificato e prese il nome di Silvestro IV. Sigeberto nella Cronica sua [Sigebertus, in Chron. edit. Miraei.] secondo l'edizion del Mireo scrive, che essendosi costui ritirato in una fortezza, Berto caput et rector romanae militiae cum expeditione cleri et populi eum inde extraxit, et ad Warnerum principem Anconae in tiburtinam urbem adduxit, dove fu dagli scismatici creato papa, ma per attestato del medesimo scrittore, costui non multo post reprobatur a Romanis, et fama nominis ejus evanuit. Di ciò riparleremo all'anno 1106. Sicchè neppur dopo la morte di Guiberto pervenne ad una intera quiete papa Pasquale. Nè si dee tralasciar senza osservazione che in questi tempi la marca [487] d'Ancona, non diversa da quella che tempo fa era denominata marca di Camerino o di Fermo, ubbidiva allora all'imperadore Arrigo IV. Ne era marchese Guarnieri, da cui probabilmente, o da' suoi discendenti che portarono lo stesso nome, fu quel paese poscia chiamato la marca di Guarnieri; e questi riconosceva per suo signore il suddetto Arrigo, come costa da un pezzo di lettera da lui scritta al medesimo Augusto presso di Sigeberto. Che se questo Guarnieri teneva, siccome abbiam veduto, Tivoli, anch'egli dovea recar delle molestie a Roma e al pontefice Pasquale.

Abbiamo dal soprallodato Pandolfo Pisano che il papa, non so se nell'anno presente, oppure nel susseguente, ricuperò colla forza dell'armi Città Castellana. Mosse anche guerra a Pietro dalla Colonna (il primo che s'incontri di questa nobilissima famiglia nelle storie), perchè aveva occupata la terra di Cavi, spettante alla Chiesa romana. Tolta fu non solamente ad esso Pietro la terra suddetta, ma eziandio Colonna e Zagarolo, che erano di suo diritto: il che ci fa intendere che non cominciava allora la nobiltà di quella casa, ed esserle venuto il cognome dal dominio della terra di Colonna, che fu poi loro restituita. Poco potè godere del suo nuovo regno di Gerusalemme, e delle nuove conquiste da lui fatte, l'inclito e piissimo re Gotifredo di Buglione. Caduto egli infermo nell'anno presente, passò a miglior vita nel dì 18 di luglio, lasciando dopo di sè una memoria piena di benedizioni [Guillelmus Tyr. Abbas Urspergensis. Fulcherius Carnotens. Bernardus Thesaur. et alii.]. Accorso a Gerusalemme Baldovino suo fratello, fu con universale consentimento eletto re, ed anche solennemente coronato nel dì del santo Natale: funzione da cui s'era astenuto il buon re Gotifredo. Landolfo juniore [Landulfus de S. Paulo, Histor. Mediolan., tom. 5 Rer. Ital.], storico milanese, scrive che Anselmo IV arcivescovo di [488] Milano predicò la crociata per la Lombardia, facendo cantare una canzone che cominciava Ultreja, forse franzese, e probabilmente significante Oltre già sono iti i Franchi, ec. Unì egli con ciò una grossa armata di Lombardi; e dopo aver creato e lasciato suo vicario in Milano Crisolao (appellato volgarmente Grossolano), che poco prima era stato eletto e consecrato vescovo di Savona, alla testa di quell'esercito s'inviò alla volta di Costantinopoli [Orderic. Vitalis. Radulfus Cadomens.]. Seco andarono il vescovo di Pavia e Alberto da Biandrate potentissimo Lombardo. Non per mare da Genova passò questa gente, come si pensò Tristano Calco [Tristan. Calchus, Hist. Med.], ma bensì per terra, attestandolo l'Abbate Urspergense [Abbas Urspergensis, in Chron.] e l'Annalista Sassone [Annalista Saxo.] con dire sotto quest'anno: Ex Langobardis cum Mediolanensi et Papiensi Episcopis quinquaginta millia ad Hierosolymitanam profectionem signati, in Bulgariae civitatibus hyemaverunt. Rapporta il padre Bacchini [Bacchini, Ist. di Poliron. App., pag. 46.] un'insigne donazione fatta in quest'anno dalla contessa Matilda, mentre era in Guastalla, al monistero di san Benedetto di Gonzaga, e scritta anno ab Incarnatione Domini millesimo centesimo, Indictione decima, kalendis junii. Ma non può convenire a quest'anno l'indizione X, e dal Fiorentini [Fiorentini, Memorie di Matilda, lib. 2.] sappiamo che la contessa dimorava in Toscana nel dì 7 di giugno dell'anno presente. Dimorava anche in Firenze in palatio domus (cioè del duomo) sancti Johannis, dove tenne un placito nel dì 2 di marzo, da me dato alla luce. Però sembra verisimile che quel documento appartenga all'anno 1102, in cui veramente Matilda si trovò in Lombardia. Secondochè scrive Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernit., tom. 7 Rer. Italic.], in quest'anno Ruggieri duca di Puglia assediò e prese la città di Canosa, ch'egli durante l'assedio avea [489] fatto cignere tutta all'intorno con delle reti. Boamondo principe d'Antiochia suo fratello restò nel presente anno prigione dei Turchi: il che riuscì di grave danno agl'interessi del cristianesimo in Oriente.


   
Anno di Cristo MCI. Indizione IX.
Pasquale II papa 3.
Arrigo IV re 46, imper. 18.

Funestato fu l'anno presente dalla morte di due illustri principi nello stesso mese di luglio. L'uno fu Corrado re di Italia, figliuolo di Arrigo IV, e l'altro Ruggieri conte di Sicilia. Quanto a Corrado, non si sazia l'Abbate Urspergense [Abbas Ursperg., in Chron. Annalista Saxo.] con altri storici di esaltare le di lui virtù. Niuno gli andava avanti nella pietà, nella mansuetudine, nella continenza, di maniera che pareva un angelo in carne. Eppure questo buon principe provò anch'egli poco buona fortuna presso la contessa Matilda, donna che in questi tempi senza titolo regale faceva volentieri da regina in Italia. Che disgusti ella desse all'ottimo giovane Corrado, non si sa; ma gliene diede. Dappoichè Arrigo suo padre non ebbe più forze in Italia, neppur ella ebbe più bisogno di Corrado. E non seppe tacer Donizone che è pure il panegirista della contessa, questa verità, scrivendo [Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2, cap. 13.]:

Infra Conradus longobardos comitatus

Dum staret, discors a Mathildi fuit ipso

Tempore. Duravit modicum discordia talis.

Nam petiit partes tuscanas rex. Ibi tamdem

Nobilibus quidam facientibus expulit iram.

Che Matilda non solamente signoreggiasse in Toscana e in parte della Lombardia, ma stendesse anche la sua autorità in Milano, si può raccogliere da Landolfo di san Paolo [Landulfus junior, Hist. Mediolan. cap. 2.]. Quivi fu eletto arcivescovo Matildis comitissae favore Landolfo da Badagio; decaduto questo, restò [490] eletto consecrato Anselmo IV da Baiso, il quale virgae pastorali per munus Matildis abhatissae (dovrebbe essere comitissae) adhaesit. Collo stendere così le fimbre della sua autorità, dovea Matilda annientar quella del re; forse anche non somministrava quanto occorreva pel decente suo trattamento. Però forte in collera il real giovane si ritirò a Firenze, dove sorpreso da maligna febbre, nel luglio di quest'anno diede fine alla sua vita. Per testimonianza dell'Urspergense corse qualche voce che così immatura morte fosse provenuta da veleno; e forse ne fu dai maligni incolpata la medesima contessa Matilda, scrivendo il soprammentovato Landolfo: Quum pervenisset Florentiam rex ipse prudens et sapiens, atque decorus facie (proh dolor!) adolescens, accepta potione ab Aviano medico Matildis comitissae, vitam finivit. Le virtù di Matilda tali furono, che non può cadere sopra di lei un sì nero sospetto. Per quel che riguarda Ruggieri conte di Sicilia [Romualdus Salernitanus, in Chron.], anch'egli nel medesimo mese fu rapito dalla morte; principe valoroso e glorioso al pari di Roberto Guiscardo suo fratello sopra la terra, ma più di lui religioso, clemente liberale, e specialmente memorabile per aver liberata la Sicilia dal giogo dei Saraceni, e restituito in essa il culto del vero Dio colla fondazione di tanti vescovadi, spedali e templi del Signore. Lasciò dopo di sè due piccioli figliuoli, Simone primogenito, che fu riconosciuto tosto conte di Sicilia e di Calabria, e Ruggieri nato nell'anno 1097, che divenne col tempo re di Sicilia: amendue sotto il governo della contessa Adelaide loro madre, donna che coll'alterigia univa una gran sete del danaro altrui, e però cagione che in que' principii della sua tutela succedessero non poche sedizioni fra i sudditi suoi. Non parlo di un terzo figliuolo appellato Goffredo, probabilmente bastardo, perchè forse era premorto al padre.

[491] In quest'anno sul principio d'aprile Guelfo IV duca di Baviera, per redimer i suoi peccati, imprese il viaggio di terra santa, e si unì con Guglielmo duca d'Aquitania [Chron. Weingart. apud Leibnit. Abbas Urspergens., in Chron.]. Conducevano seco questi due principi un'armata di cento sessanta mila crociati. A questa precedeva l'altra de' Lombardi, che dicemmo incamminata con Anselmo arcivescovo di Milano, il cui disegno fatto sulle dita, per quanto ne correa la voce, era di voler conquistare Babilonia, come se quella fosse una bicocca. Ma tanti castelli in aria andarono ben presto a finire in nulla. Passata che fu sì gran moltitudine di gente nell'Asia [Radulphus Cadomensis, de gestis Tancredi.], per tradimento dell'imperadore Alessio, che passava d'intelligenza coi Turchi, parte per gli stenti e mancanze de' viveri, parte per le sciable e frecce nemiche, perì quasi tutta. Fra gli altri principi che lasciarono la vita in sì sfortunata spedizione [Landulf. junior, Hist. Mediolan., cap. 2.], uno fu il suddetto arcivescovo di Milano, ossia che egli morisse in una zuffa co' Turchi, oppure che ferito fuggisse a Costantinopoli, dove Landolfo da san Paolo scrive che succedette la sua morte. Salvossi dopo la rovina del suo esercito il duca Guelfo, e per mezzo ad infiniti travagli ebbe almen la consolazione di arrivare a Gerusalemme. Soddisfatto ch'ebbe ivi alla sua divozione, se ne tornava questo principe per mare a casa; ma giunto all'isola di Pafo, oppure di Cipri, e colto da una mortale infermità, quivi finì di vivere, e trovò la sua sepoltura o nel presente o nel susseguente anno: principe glorioso per tante sue militari imprese, e massimamente per aver piantata in Germania e lasciata quivi in gran potenza una linea di principi estensi, la qual tuttavia più che mai fiorisce nella insigne casa di Brunswich, Wolfembuttel e Luneburgo, dominanti anche sul trono dell'Inghilterra. Restarono di lui due figliuoli maschi, cioè Guelfo V marito [492] della gran contessa Matilda, ma da lei separato, ed Arrigo, appellato per soprannome il Nero. Succedette Guelfo V nel ducato della Baviera, e questi poi si segnalò colle doti della pietà, del valore e della liberalità, come s'ha dalla Cronica di Weingart. In qual anno egli terminasse i suoi giorni resta tuttavia allo scuro. Certo è, che vivente ancora esso Guelfo, Arrigo suo fratello portò il titolo di duca, e ne vedremo una pruova all'anno 1107. Truovasi nel maggio del presente anno la contessa Matilda in Governolo sul Mantovano [Bacchini, Stor. di Polirone, lib. 3.], dove restituisce al monistero di san Benedetto di Polirone l'isola di Revere con altri beni. Si accinse ella in questi medesimi tempi a ricuperar la città di Ferrara, che tanti anni prima le si era ribellata; e fatto un gran preparamento di soldatesche, chiamati anche in aiuto i Veneziani [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] e i Ravennati, che vi accorsero per Po con una squadra di navi, nell'autunno passò all'assedio di quella città.

Contra quam gentes numero sine duxit et enses,

Tuscos, Romanos, Longobardos galeatos,

Et Ravennates, quorum sunt maxime naves.

Circumstant equidem multae maris atque carinae

A duce praeclaro trasmissae venetiano.

Son versi di Donizone [Donizo, in Vit. Mathildis, lib. 2, cap. 13.], che soggiugne, avere i Ferraresi alla vista di tanto sforzo presa la risoluzione di arrendersi: con che senza spargimento di sangue tornò quella città sotto il dominio della contessa.


   
Anno di Cristo MCII. Indizione X.
Pasquale II papa 4.
Arrigo IV re 47, imperad. 19.

Celebrò in quest'anno papa Pasquale un solenne concilio in Roma nella basilica lateranense [Labbe, Concil., tom. 10.], in cui rinnovò la [493] scomunica contra dello scismatico imperadore Arrigo IV, e confermò i decreti de' precedenti sommi pontefici intorno alla disciplina ecclesiastica. In Germania esso Arrigo sul principio di quest'anno, o sul fine del precedente, raunati in una dieta i principi di quelle contrade, trattò con essi di levar lo scisma, e di restituir la pace alla Chiesa e ai popoli. Fu consigliato da tutti i saggi di riconoscere il romano pontefice Pasquale, ed egli anche promise di portarsi a Roma, dove in un concilio si esaminasse tanto la sua quanto la causa del papa, e ne seguisse concordia. Ma l'infelice principe non attenne dipoi la parola; anzi si seppe ch'egli andava tuttavia macchinando di creare un nuovo antipapa: il che non gli venne fatto per difetto non già di volontà, ma di potere. Aveva papa Pasquale inviato per suo nunzio e vicario residente presso la contessa Matilda Bernardo cardinale della santa romana Chiesa, ed abbate di Vallombrosa, uomo di rara probità e prudenza. Fra gli altri affari che egli trattò colla contessa, uno de' principali fu l'ottener da essa la rinnovazion della donazione di tutti i suoi beni alla Chiesa romana. Gli aveva essa donati alla medesima Chiesa fin sotto papa Gregorio VII, ma per le gravi turbolenze dipoi insorte s'era smarrito lo strumento della medesima donazione. Però stando essa Matilda nella rocca di Canossa nel dì 17 di novembre dell'anno presente confermò e rinnovò [In Append. ad Donizonem, in Vit. Mathildis.], per manum Bernardi cardinalis et legati ejusdem romanae Ecclesiae, la donazione di tutti i suoi beni, tanto posseduti quanto da possedersi, e tanto di qua quanto di là da' monti, in favore della Chiesa romana. Lo strumento tuttavia esistente si legge in fine del poema di Donizone. Era la medesima contessa in quest'anno nel dì 4 di giugno in loco, qui dicitur Mirandula, e quivi fece un aggiustamento [Antiquit. Italic., Dissert. LXXI.] con Imelda badessa di san Sisto di Piacenza per conto del castello [494] e della corte di Guastalla. Apparteneva quella nobil terra, oggidì città, al monistero suddetto di san Sisto fino dai tempi dell'imperadrice Angilberga fondatrice del medesimo. Dovea Matilda averlo occupato, e gliel restituì nell'anno presente.

Lasciò, come già di sopra accennammo, Anselmo arcivescovo di Milano, allorchè intraprese il viaggio di terra santa, per suo vicario in quella città e diocesi Crisolao, chiamato Grossolano dal popolo, a cui quel nome greco dovette parere alquanto straniero. Egli era vescovo di Savona [Landulfus junior, Hist. Mediol., cap. 4.], uomo assai dotto, sapea predicare al popolo, e nell'esteriore affettava grande mortificazione, sommo sprezzo del mondo, usando vesti grosse e plebee, e cibi vili dopo molta astinenza. Un dì quel prete Liprando, a cui gli scismatici aveano tagliato il naso e gli orecchi, persona di gran credito non meno nella sua patria che in Roma stessa, l'esortò a cavarsi di dosso quel sì orrido mantello, e a prenderne uno più conveniente al suo grado. Gli rispose Grossolano di non aver danaro. Esibitone a lui in prestito, replicò che egli sprezzava il mondo, nè volea mutare registro. Allora Liprando gli disse: In questa città ogni persona civile usa pelli di vaio, di griso, di martora, ed altri ornamenti e cibi preziosi. Con questi vostri grossolani abiti vedendovi i forestieri, ne vien disonore a noi altri: il che si dee osservare come una volta fosse in uso e credito in Italia il vestirsi di preziose pellicce; probabilmente Grossolano era qualche Calabrese che sapea bene il suo conto, ed anche fu intendente della greca favella. Intesasi poi la morte dell'arcivescovo Anselmo, si raunò il clero e popolo di Milano per eleggere il successore. Concorrevano molti in due Landolfi canonici ordinarii della metropolitana. Grossolano si oppose per motivo che fossero lontani, perchè erano iti in terra santa. Allora Arialdo abbate di s. Dionisio con una gran [495] moltitudine della plebe e de' nobili proclamò arcivescovo il medesimo Grossolano, che con tutto il suo sprezzo del mondo corse subito a mettersi nella sedia archiepiscopale. Spedì la parte che non concorreva a tale elezione i suoi messi a Roma per impedire che non fosse accettato per varii motivi. Ma ricorsi i fautori di Grossolano a Bernardo cardinale e vicario del papa in Lombardia, questi ne trattò colla contessa, e fu risoluto di ammettere la persona di Grossolano, il quale alcuni van sospettando (non so se con valevole fondamento) che fosse prima, al pari di Bernardo cardinale, monaco vallombrosano. Però in fretta se n'andò esso Bernardo a Milano, e portò la stola (cioè il pallio), che fu ricevuto da Grossolano fra lo strepitoso plauso del popolo. Salito lo scaltro Grossolano dove egli mirava, allora cominciò ad usar cibi delicati e vesti preziose. Ma poco passò che Liprando cogli altri gli mosse guerra, trattandolo da simoniaco, e perciò da pastore illegittimo. Secondo che si ha dal Catalogo degli abbati di Nonantola [Catalogus Abbat. Nonantul. Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.], e dal Sigonio, la suddetta contessa, mentre era nel castello di Panzano, allora del distretto di Modena, nel dì 15 di novembre, correndo l'indizione XI, donò al monistero di Nonantola sul Modonese, con licenza di Bernardo cardinale e vicario generale del papa in Lombardia, Castel Tealdo posto in Ferrara colla chiesa di san Giovanni Batista. E ciò in remissione de' suoi peccati, e in ricompensa del tesoro di quel monistero, di cui s'era essa servita ne' bisogni delle passate guerre. Fu questo l'ultimo anno della vita di Vitale Michele doge di Venezia [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.]. Ebbe per successore Ordelafo Faledro.

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Anno di Cristo MCIII. Indizione XI.
Pasquale II papa 5.
Arrigo IV re 48, imper. 20.

Avea celebrato Arrigo IV Augusto la festa del santo Natale in Magonza [Abbas Urspergens., in Chron. Otto Frisingens., Hist., lib. 7, cap. 8.], e pubblicamente fatto sapere ai principi e al popolo ch'egli avea intenzione di lasciare il governo del regno ad Arrigo V re suo figliuolo, e di voler in persona andare al santo Sepolcro. Questa voce gli guadagnò l'affetto universale de' Tedeschi sì ecclesiastici che laici, e moltissimi si disposero ad accompagnarlo in quel viaggio. Ma il tempo fece vedere ch'egli non dovea aver parlato di cuore, perchè nulla effettuò di quanto avea promesso. Certo è che all'anno presente si dee riferire uno strepitoso avvenimento della città di Milano, diffusamente narrato da Landolfo iuniore [Landulfus S. Paulo, Hist. Mediolan., cap. 9 et seq. tom. 5 Rer. Ital.], storico di quella città e di questi tempi. Era già stato creato arcivescovo Crisolao ossia Grossolano. Il soprammentovato prete Liprando continuò a sostenere ch'egli simoniacamente era entrato in quella chiesa, e si esibì di provarlo col giudizio del fuoco, che quantunque non mai approvato dalla Chiesa, pure in questi secoli sconcertati non mancava di fautori. Fece istanza Grossolano che Liprando desse le pruove di tale accusa; ma non apparisce che il prete ne producesse alcuna: il che fa conoscere l'irregolarità del suo procedere. Venne egli in fine alla pruova dal fuoco; ed alzata nella piazza di santo Ambrosio una gran catasta di legna, lunga dieci braccia, ed alta e larga quattro braccia più dell'ordinaria statura degli uomini, allorchè essa fu ben accesa, Liprando vi passò per mezzo, e ne uscì salvo, senza che nulla si bruciasse neppur delle vesti sacerdotali ch'egli portò in quella congiuntura, con acclamazione di tutti gli spettatori. [497] Veggendosi Grossolano come vinto, giudicò bene di ritirarsi e di andarsene a Roma, dove fu graziosamente accolto da papa Pasquale. La risoluzion di Liprando era già stata disapprovata da alcuni vescovi suffraganei di Grossolano, che si trovavano allora in Milano; molto più dispiacque alla saggia corte di Roma, che sempre riprovò i giudizii di Dio non canonici, siccome invenzioni umane da tentar Dio. E perciocchè si trovò che essendo restato il prete Liprando leso in una mano e in un piede nella pruova suddetta, benchè si attribuisse ciò ad altre cagioni, pure fu messa in dubbio nella stessa città di Milano la pruova da lui fatta, e ne succedette del tumulto colla morte di molti. Trovossi nel dì 19 di novembre la contessa Matilda in palatio florentino [Mabill., Annal. Benedictin. ad hunc ann.], dove concedette un privilegio ai monaci di Vallombrosa. Circa questi tempi Adelaide vedova di Ruggieri conte di Sicilia, e tutrice di Simone suo figliuolo, veggendo sprezzato da' Siciliani il suo governo [Orderic. Vitalis, Hist. Eccles., lib. 13.], pensò a fortificarlo col chiamare colà dalla Borgogna Roberto, principe non men valoroso che prudente, a cui diede in moglie una sua figliuola. Il dichiarò poscia tutore del figliuolo e governatore dell'isola: il che servì a tenere in briglia le teste calde di quelle contrade.


   
Anno di Cristo MCIV. Indizione XII.
Pasquale II papa 6.
Arrigo IV re 49, imper. 21.

Secondochè osservò il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.], abbiamo dalla Cronica di un anonimo di Treveri [Anonymus Trevirensis apud Dachery, in Spicileg.] che nel marzo del presente anno papa Pasquale II celebrò in Roma un gran concilio, di cui niun'altra menzione si trova presso gli antichi scrittori. Ma forse non è sicura quella notizia, e si dee riferire all'anno seguente. Solennizzò [498] l'imperadore Arrigo la festa del santo Natale in Magonza [Abbas Urspergensis, in Chron.], ed allora fu che Arrigo V re, suo figliuolo all'improvviso si ritirò da lui e diede principio alla ribellione contra del padre, che uno o due anni prima lo avea promosso al grado di re. Dieboldo marchese, Berengario conte ed altri furono i consiglieri di tanta iniquità, sub specie religionis, come scrive Ottone da Frisinga [Otto Frisingens., Hist., lib. 7, cap. 8.]. Han preteso alcuni che egli fosse a ciò mosso da una lettera di papa Pasquale, accennata da un antico storico [Hermann. Tornac., apud Dachery, in Spicileg.], in cui era esortato a soccorrere la Chiesa di Dio. Ma non vuol già dir questo che il pontefice l'esortasse anche a ribellarsi contra del padre, e a prendere l'armi contra di lui. Senza questo nero attentato poteva egli cooperare alla retta intenzione del pontefice romano. Può nondimeno essere che di questo pretesto si valessero i nemici di Arrigo per rivoltare contra di lui il figliuolo. Scrive l'Annalista Sassone [Annalista Saxo.] che il giovane Arrigo spedì immantinente dopo il Natale a Roma i suoi legati ad abiurare lo scisma, e a chiedere consiglio al papa intorno al giuramento da lui prestato al padre di non mai invadere il regno senza licenza d'esso suo genitore. Il papa gli mandò la benedizione ed assoluzione, purchè egli volesse operare da re giusto, ed essere buon figliuolo della Chiesa; il che bastò all'ambizioso giovane per dare di piglio all'armi contra del padre. Tacendo nondimeno l'Urspergense e l'autore della Vita d'Arrigo IV presso l'Urstisio ed altri questa particolarità, si può dubitar della verità, benchè da essa neppur risulti l'approvazione di quel che succedette dipoi. Avvenne in quest'anno uno scandaloso sconcerto in Parma, riferito da Donizone [Donizo, in Vita Mathild., lib. 2, cap. 14.]. Portossi Bernardo cardinale e vicario del papa in Lombardia [499] a quella città per la festa dell'Assunzione della Vergine, e cantò la messa nella cattedrale. Dopo il vangelo predicò al popolo; ma perchè volle entrare a parlar con grave disprezzo di Arrigo IV, come principe scomunicato, trovandosi in quella udienza moltissimi tuttavia ben affetti al medesimo Augusto, s'irritarono talmente, che dopo la predica, messa mano alle spade, corsero all'altare, e s'avventarono al cardinale, il condussero prigione, e svaligiarono tutta la di lui cappella, cioè tutti i di lui paramenti per la messa. Fu portata questa disgustosa nuova alla contessa Matilda, che si trovava allora nel territorio di Modena. Raunò ella incontanente quelle milizie che potè, e passati appena tre giorni dopo quella brutta scena, marciò alla volta di Parma. Non aspettarono que' cittadini intimoriti ch'essa arrivasse, e consegnarono ai vassalli nobili della medesima il cardinale, colla restituzione ancora di tutti i suoi sacri arredi. Altro male non fece la contessa ai Parmigiani, perchè il piissimo cardinale perorò in loro favore. In quest'anno, secondochè abbiamo da Tolomeo da Lucca [Ptolom. Lucensis, in Annalibus brevib.], cominciò nell'agosto la guerra fra i Pisani e Lucchesi, e ne seguì una battaglia, in cui i Pisani ebbero la peggio. Presero i Lucchesi il castello di Librafatta, e ne condussero prigioni i castellani alla loro città. Dalle carte riferite dal padre Bacchini [Bacchini, Istor. di Polirone, nell'Append.] si scorge che la soprallodata contessa Matilda sul fine d'aprile, trovandosi in Nogara sul Veronese, confermò ad Alberico abbate del monistero di san Benedetto di Polirone varii beni. Parimente la medesima, mentre era a Coscogno, villa delle montagne di Modena, nel dì 15 di settembre, donò allo stesso monistero la metà dell'isola di Gorgo con altri beni. A tali donazioni intervenne sempre il consenso del suddetto cardinale Bernardo vicario del papa, trattandosi di disporre di beni donati alla Chiesa romana. Vedesi sotto quest'anno la vendita [500] della corte firminiana, fatta da Ottone eletto arcivescovo di Ravenna a Landolfo vescovo di Ferrara [Antiquit. Italic., Dissert. XXVIII.]. Per quanto s'ha dal Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn.], questi dopo la morte dell'antipapa Guiberto fu intruso nella sedia archiepiscopale di Ravenna, e da questo atto si raccoglie ch'egli non avea trovato per anche chi avesse voluto consecrarlo.


   
Anno di Cristo MCV. Indizione XIII.
Pasquale II papa 7.
Arrigo IV re 50, imperad. 22.

Fece il pontefice Pasquale atterrar le case della nobil famiglia de' Corsi in Roma, forse perchè ridotte dianzi in forma di fortezza [Pandulfus Pisanus, in Vit. Paschalis II, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Stefano nobil romano, capo di quella casa, se l'ebbe tanto a male, che uscito di Roma, si fece forte nella basilica di san Paolo e nel castello che in questi tempi abbracciava essa basilica. Concorrevano a lui tutti gli sgherri e masnadieri, co' quali poi infestava non solo i contorni di Roma, ma la città medesima. Destramente procurò la corte pontificia intelligenza in esso castello, e di ricavare in cera la forma delle chiavi di quel forte luogo. Formatene poi delle nuove, coll'aiuto d'esse una notte furono introdotte le milizie pontificie, che dopo una vigorosa battaglia s'impadronirono della terra, con essere fuggito Stefano travestito da monaco. Siccome osserva il padre Pagi [Pagius, Crit. ad Annal. Baron.] coll'autorità di Eadmero [Eadmerus, in Vit. S. Anselmi lib. 4.], fu celebrato in quest'anno dal pontefice Pasquale II un concilio nella basilica lateranense. Fra le altre materie che vi si trattarono, abbiamo da Landolfo iuniore [Landulfus de S. Paulo, Hist. Mediolanens., tom. 5 Rer. Ital.] che fu quivi agitata la causa di Grossolano arcivescovo di Milano, il quale per la sua dottrina, spezialmente dimostrata [501] in confutare lo scisma de' Greci s'era acquistato non poco onore alla corte pontificia. V'era in confronto di lui il prete Liprando, che non dovette poter provare l'imputazione a lui data di simoniaco. Però, dopo aver Grossolano giurato di non aver forzato Liprando alla pruova del fuoco, riprovata dai Padri di quel concilio, fu assolto e restituito nella sua dignità. Gli cadde in quella occasione di mano il pastorale: sul quale accidente la buona gente d'allora formò varii lunarii. Ma non per questo potè egli entrare in possesso della cattedra sua, nè di castello alcuno spettante al suo arcivescovato: tanta fu la possanza della parte contraria in Milano. Verso il fine dell'anno presente passò papa Pasquale in Toscana [Landulfus, de S. Paulo, Hist. Mediol., tom. 5 Rer. Ital.]; nè so io ben dire se fu allora, oppure nell'anno susseguente, ch'egli tenne un concilio in Firenze, a motivo che il vescovo di quella città, uomo visionario, sosteneva ch'era già nato l'anticristo. Probabilmente i tremuoti, le inondazioni ed altri sconcerti di questi tempi fecero cadere il buon prelato in questa immaginazione, la quale in varii altri tempi si truova insorta nelle menti delle persone pie e paurose. Si disputò non poco di questo; ma pel gran concorso della gente curiosa, che a cagione della novità fece un grave tumulto, convenne interrompere il concilio e lasciar la quistione indecisa. La decise poi il tempo, e fece conoscere la semplicità del prelato. Per le memorie accennate dal Fiorentini, si vede [Fiorentini, Memor. di Matild., lib. 2.] che la contessa Matilda si trovò in Toscana in questi medesimi tempi, senza fallo per fare buon trattamento al papa ito colà, il quale, stando in Lucca nel mese di dicembre, confermò i privilegii ai canonici regolari di san Frediano; ed innamoratosi della loro riforma, che era allora in gran credito, la volle introdotta nei canonici della basilica lateranense. Tornossene [502] dipoi il pontefice a Roma. Tenne un placito la suddetta contessa in quest'anno nel dì 25 d'ottobre [Antiquit. Italic., Dissert. XVII.] in non so qual luogo di Toscana, dove accordò la sua protezione ai canonici di Volterra. Possedeva in Lombardia l'insigne monistero di Monte Casino alcuni beni ad esso lasciati da Giordano da Cuvriago; e trovandosi la soprallodata Matilda sul Modonese in san Cesario nel dì 22 di giugno, Giorgio prete e monaco di quel monistero impetrò da lei il possesso e dominio di quegli stabili.

Dappoichè il giovane Arrigo V re ebbe tirato nel suo partito Guelfo V ed Arrigo il Nero duca di Baviera, e i Sassoni ed altri principi, sentendosi assai forte, cominciò la guerra contra dell'imperadore Arrigo suo padre [Abbas Urspergensis. Otto Frisingensis, cap. 8. Annalista Saxo.]. Belle erano le sue proteste, cioè di non aver altra intenzione, se non d'indurre il padre a riconciliarsi colla Chiesa; ma sotto questo pretesto egli era dietro a promuovere gl'interessi proprii colla depressione di chi gli avea dato e vita e regno. Corrado suo fratello abbiam veduto che occupò il regno d'Italia; niuno nondimeno scrive ch'egli portasse l'armi contra del padre. Ma non così operò Arrigo V. Dopo varii fatti, ch'io tralascio, marciò egli colla sua armata sino al fiume Regen, che sbocca nel Danubio vicino a Ratisbona. Dall'altra parte d'esso fiume s'accampò coll'esercito suo l'Augusto Arrigo suo padre, ed erano per venire ad un fatto d'armi. Non si potè qui trattenere Ottone vescovo di Frisinga, storico gravissimo, dal prorompere in sensate esclamazioni contra di un figliuolo tale, la cui risoluzione non si può certo leggere senza orrore, perchè presa contro le leggi della natura, ed anche della religion cristiana: perciocchè fuor di dubbio è che la santa religione di Cristo non approvò mai nè approva cotale inumanità. Ebbe maniera il giovane Arrigo [503] di tirar dalla sua con promesse e lusinghe il duca di Boemia ed altri signori, dimodochè il vecchio Arrigo IV fu forzato a fuggirsene segretamente. Seguì poscia un abboccamento in Elbinga il dì 15 di dicembre fra amendue, e fu determinato di tenere una dieta universale del regno a Magonza per la festa del santo Natale. Ciò che ne risultasse, lo accennerò all'anno venturo. Intorno a questi fatti si truova non lieve discrepanza fra gli antichi scrittori, parlandone cadauno secondo le proprie passioni e fazioni. All'anno presente, oppure allo antecedente appartiene un curioso placito, a noi conservato da Gregorio monaco, autore della Cronica di Farfa [Chron. Farfens., P. II, tom. 2 Rer. Ital., pag. 637.]. Disputossi in Roma intorno ad un castello occupato ai monaci da alcuni nobili romani. Allegarono questi ultimi in lor favore il privilegio di Costantino Magno, per cui appariva che quel grande imperadore avea donato alla Chiesa romana tutta l'Italia e tutti i regni d'Occidente. Prese all'incontro l'avvocato dei monaci a mostrare che era falso, o non si doveva intendere così quel privilegio, facendo costare che anche dopo Costantino gli Augusti aveano signoreggiato in Roma e in tutta l'Italia. Però anche tanti secoli prima di Lorenzo Valla la donazion costantiniana si vede impugnata, con essere poi giunta in questi ultimi tempi ad essere anche negli stessi sette Colli riguardata qual solenne impostura de' secoli ignoranti oppur maliziosi. Secondo le memorie recate dal Fiorentini [Fiorentini, Memor. di Matild. lib. 2.], continuò ancora in quest'anno la guerra fra i Pisani e i Lucchesi, e i primi per due volte restarono sconfitti. Come queste guerre succedessero fra i popoli della Toscana, non si sa ben intendere, perchè era pur quella provincia sotto il dominio della contessa Matilda, e strano sembra ch'ella o permettesse [504] tali sconcerti, o non avesse forza o maniera di calmar sifatte sanguinose gare.


   
Anno di Cristo MCVI. Indizione XIV.
Pasquale II papa 8.
Arrigo V re di Germania e d'Italia 1.

Un'insigne raunanza di vescovi, abbati, principi, baroni e popoli del regno germanico s'era fatta in Magonza [Abbas Urspergensis, in Chron. Otto Frisingensis, Hist., lib. 7, cap. 11.] nel Natale dell'anno precedente, per trattare di concordia fra i due Arrighi padre e figliuolo, e fra gli scismatici e la Chiesa romana. Dovea, dico, intervenirvi il vecchio Arrigo, ma dal figliuolo era trattenuto come prigioniere in un castello. Fece egli istanza per la libertà; ma i principi temendo che il popolo, avvezzo a favorir più lui che il figliuolo, non tumultuasse, ed anche perchè Riccardo vescovo di Albano e Gebeardo vescovo di Costanza, legati apostolici, giunti a quella dieta, aveano confermata la scomunica contra di esso imperadore, non permisero ch'egli venisse a Magonza. Gli andarono essi incontro ad Ingheleim, e tanto gli dissero colle buone e colle brusche, che l'indussero a rinunziare al figliuolo la croce, la lancia, lo scettro e gli altri ornamenti imperiali, ma non già la spada e la corona. Non manca chi scrive essergli state tolte per forza queste divise della sua dignità; scrivono altri che spontaneamente le rassegnò. Si riconobbe Arrigo colpevole dello scisma, e de' mali avvenuti per tal cagione, e pentito ne dimandò l'assoluzione al legato apostolico, il quale giudicò di non aver facoltà bastante per rimetterlo in grazia della Chiesa. Gittossi anche a' piedi del figliuolo [Anonymus, in Vit. Henrici IV.], ricordandogli il diritto della natura; ma questi neppure voltò gli occhi verso di lui. Portate a Magonza le insegne regali, fu confermato re il giovane Arrigo V, e spedita una solenne ambasceria di alcuni vescovi e baroni [505] a Roma per comporre tutte le vecchie differenze, ed invitare in Germania il romano pontefice. Ma questi ambasciatori, nel passare pel Trentino, furono assaliti da un certo Adalberto conte [Abbas Urspergens. Annalista Saxo.], svaligiati e cacciati in prigione, a riserva di Gebeardo vescovo di Costanza, che tenne altro cammino, e fatto scortare dalla contessa Matilda, felicemente arrivò a Roma. Di questa iniquità avvisato Guelfo V duca di Baviera, corse colle sue genti, e sforzate le chiuse, obbligò essi malandrini a rimettere in libertà que' prelati e signori. Intanto il deposto imperadore Arrigo si ritirò a Colonia e a Liegi, dove fu con qualche onore accolto, e di là scrisse lettere compassionevoli a tutti i re cristiani, lagnandosi de' trattamenti a lui fatti dal barbaro figliuolo, e della violenza usatagli per detronizzarlo. Una specialmente se ne vede al re di Francia, che non si può leggere senza ribrezzo. Trovati anche non pochi favorevoli al suo partito, e specialmente Arrigo duca di Lorena, ripigliò il pensiero di far guerra. Ma prevalendo le forze del figliuolo, e trovandosi egli ridotto in istato miserabile, pel crepacuore infermatosi in Liegi, quivi terminò i suoi giorni nel dì 7 d'agosto per comparire al tribunale di Dio a rendere conto di tanti suoi vizii, di sì lunga vessazione data alla Chiesa, e del tanto sangue cristiano sparso pe' suoi capricci e per la ostinazion nello scisma. A lui eziandio si dee attribuire una gran mutazione seguita per sua cagione non meno in Italia che in Germania. Certo è che il regno della Borgogna, unito dall'imperador Corrado I alla corona germanica, patì molte mutazioni duranti le soprarriferite turbolenze. E da questo parimente procedette l'essersi buona parte delle città di Lombardia messa in libertà con formar delle repubbliche, senza più voler ministri del re ossia dell'imperadore al loro governo: del che parleremo andando innanzi. Era stato portato a Ravenna il cadavero dell'antipapa Guiberto, [506] e quivi seppellito. Dovette dipoi Ravenna rimettersi in grazia della Chiesa romana; e però in quest'anno andò ordine colà da papa Pasquale che fosse disotterrato il suo corpo, e gittate l'ossa nel fiume [Abbas Urspergensis, in Chron. Pandulfus Pisanus, in Vit. Paschal. II.]. Non mancavano persone vane, oppur ben affette alla di lui memoria, che spacciavano come vedute al suo sepolcro delle risplendenti facelle in tempo di notte: il che aggiunto ad esser egli morto scomunicato, diede impulso alla suddetta risoluzione. Aggiungo, affinchè si conosca meglio la cabala e malignità, ed anche la ignoranza di questi tempi, che furono divolgati varii miracoli, come succeduti al sepolcro di questo sovvertitore della Chiesa di Dio. Fra le lettere a noi conservate da Udalrico di Bamberga, e pubblicate dall'Eccardo [Eccard., Scriptor. med. aevi, tom. 2, pag. 194.], una se ne legge, scritta dal vescovo di Poitiers all'imperadore Arrigo, dove tratta de plurimis miraculis, quae divina clementia per merita felicis memoriae domni nostri Clementis papae ad ejus sepulcrum est operata, a Johanne castellano episcopo transmissa. Ma probabilmente sarà venuta non da uno di quei vescovi, ma da qualche impostore quella serie di miracoli, per dar pascolo alla gente corriva. Fu anche data sepoltura in Liegi al corpo del morto imperadore Arrigo, ma da lì a poco per decreto de' vescovi cattolici tolto fu di chiesa, e deposto in luogo non sacro.

Dopo essere stato circa il mese di febbraio a Benevento il pontefice Pasquale II [Falco Benevent., in Chronico.], si mise in viaggio alla volta della Lombardia, ed intimò un concilio da tenersi nella nobil terra di Guastalla verso il fine d'ottobre. Un gran concorso di vescovi, abbati e cherici, massimamente di Germania e d'Italia, e l'ambasceria del novello re di Germania Arrigo V rendè celebre quella sacra assemblea, a cui diede principio nel dì 22 del suddetto mese [Labbe, Concilior., tom. 10.]. Fra gli altri decreti, per umiliare [507] la Chiesa di Ravenna, furono sottratte dalla suggezione di quell'arcivescovo la chiese di Bologna, Modena, Reggio, Parma e Piacenza, e non già di Mantova, come ha il testo del cardinal Baronio, in vece di Modena. Furono ivi riprovate di nuovo le investiture date da' principi secolari agli ecclesiastici; formati varii decreti intorno al riconciliare alla Chiesa gli scomunicati; e deposti alcuni vescovi simoniaci, oppure ordinati nello scisma. Colà si presentarono i legati de' Parmigiani, che già aveano rinunciato allo scisma, con chiedere per lor vescovo quel medesimo cardinale Bernardo, che due anni prima essi aveano così maltrattato. Aggiunsero preghiere, acciocchè il papa volesse portarsi a consecrare la lor cattedrale; al che egli acconsentì; ed ito colà con gran solennità, consolò quel popolo, e diede loro per vescovo il cardinale suddetto. Anche il popolo di Modena, concorde con Dodone vescovo zelantissimo di questa città, avea nell'anno precedente cominciata una nuova cattedrale, giacchè la vecchia minacciava rovina. Non era per anche terminata questa gran fabbrica, in cui fu impiegata una prodigiosa quantità di marmi [Transl. S. Geminiani, tom. 6 Rer. Ital.], quando l'impaziente popolo desiderò che si trasferisse colà il corpo del santo lor vescovo e protettore Geminiano. A tal funzione e festa, che seguì nel dì 30 d'aprile, intervennero tutti i vescovi circonvicini ed immenso popolo, accorso da varie città, colla stessa contessa Matilda. Nata poi disputa se si dovesse o no aprire l'arca del santo, fu rimessa la decisione alla medesima contessa, la quale consigliò che s'aspettasse la venuta in Lombardia del sommo pontefice, già disposto a far questo viaggio nell'anno presente. Infatti arrivò egli a Modena nel dì 8 di ottobre, predicò al popolo, diede indulgenze, fece aprir l'arca di san Geminiano; e trovato intero il sacro suo corpo, e mostrato al popolo, svegliò una mirabil divozione negl'innumerabili spettatori. Dopo avere papa Pasquale II consecrato [508] l'altare nuovo del santo, accompagnato dalla contessa Matilda, e da una gran frotta di cardinali, vescovi, abbati e cherici, s'inviò alla volta di Guastalla, dove, siccome abbiam detto, tenne un riguardevol concilio. Da Parma passò dipoi il papa a Verona con disegno di continuare il viaggio verso la Germania, dove era inviato [Abbas Urspergensis, in Chron.]. Ma insorto in quella città un tumulto contra di lui, ed avvertito egli che il nuovo re Arrigo V, siccome giunto a non aver più bisogno del papa, parea poco disposto a rinunziare le investiture degli ecclesiastici, giudicò meglio di passare per la Savoia in Francia, dove in effetto celebrò il santo Natale nel monistero di Clugnì. Finì di vivere in quest'anno, senza lasciar dopo di sè figliuoli maschi, Riccardo II principe di Capoa, ed ebbe per suo successore Roberto I suo fratello minore. Truovasi poi la contessa Matilda sul principio di quest'anno in Quistello [Antiquit. Italic., Dissert. LXV.], oggidì villa del Mantovano di qua dal Po, dove fece giustizia a Giovanni abbate di san Salvatore di Pavia, che si querelò per le violenze usate dagli uomini di Revere, sudditi d'essa contessa, alla terra di Melara, sottoposta a quel monistero. Era già uscito dalle mani de' Turchi Boamondo principe d'Antiochia, dopo aver comperata la libertà con promesse di una gran somma di danaro. Non sapendo egli dove trovar tanto oro, venne in Italia [Suger., in Vit. Ludovic., cap. 6, apud Du-Chesne.], e passò in Francia nel marzo dell'anno presente, dove non solamente collo scorrere per varie città di quelle contrade commosse moltissimi a prendere la croce per accompagnarlo nel suo ritorno in Oriente, ma anche prese in moglie Costanza figliuola di Filippo re di Francia, e conchiuse le nozze di Cecilia figliuola naturale di esso re con Tancredi suo cugino, ch'egli avea lasciato governatore di Antiochia.

Di sopra abbiam veduto che in questi [509] tempi Guarnieri governava la marca d'Ancona. Si vede nella Cronica farfense [Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.] un ricorso a lui fatto probabilmente nell'anno presente dai monaci di Farfa contra di alcuni occupatori de' beni di quell'insigne monistero; siccome ancora la lettera da esso Guarnieri scritta in loro favore, comandando auctoritate domni imperatoris praesentis serenissimi Henrici, che fosse rispettato quel sacro luogo. Di qui, torno a dirlo, si ricava che Guarnieri reggea quella marca a nome dell'imperadore, benchè la Chiesa romana la pretendesse come Stato di sua ragione. E perciocchè egli s'intitola ed è intitolato Guarnerius Dei gratia dux et marchio, se ne può inferire che non la sola marca d'Ancona, ma anche il ducato di Spoleti fossero a lui sottoposti. Dicemmo di sopra, essere stato questo Guarnieri quegli che promosse al pontificato romano, cioè creò antipapa Maginolfo col nome di Silvestro III. Ciò succedette nell'anno presente, prima che il papa venisse in Lombardia, per attestato dell'Urspergense [Abbas Urspergensis, in Chron.], di cui sono le seguenti parole: Wernherus quidam ex ordine ministerialium regis, qui marchae, quae in partibus Aquinae (dee dire Anconae) praeerat, quasi haeresim eamdem resuscitaturus, collectis undecumque per Italiam copiis, corruptis quoque multa pecunia Romanis nonnullis, dum domnus apostolicus beneventanis immoratur finibus, quemdam pseudo abbatem de Farfara (vuol dire Farfa, ma senza che si sappia che in questi tempi vi fosse un tale abbate in quel monistero. Forse ne fu monaco) proh nefas! Cathedrae sancti Petri imposuit, et ipsum papam Caesaris sub vocabulo Sylvestri appellari voluit. Qui tamen post paululum turpiter, ut merebatur, a Catholicis eliminatus, vesaniae suae praemium male conquisiti, pejusque dispersi aeris retulit. Nella Cronica di Fossanova [Chron. Fossae Novae, apud Ughell.] [510] si mette questo fatto sotto l'anno precedente. Marchion (dice quell'autore in vece di marchio, cioè Guarnieri) venit Romam consentientibus quibusdam Romanis, et elegit Adinulfum (tale probabilmente fu il suo nome) in Lapam (cioè in papam) Silvestrum ad sanctam Mariam Rotundam infra octava sancti Martini; sed sine effectu reversus est. Udalrico da Bamberga fra le lettere da lui raccolte, e date alla luce dall'Eccardo [Eccard., Scriptor. med. aevi, tom. 2, p. 258.], ne porta una scritta in quest'anno da papa Pasquale II a tutti i fedeli della Francia coll'avviso, che mentre esso pontefice stava nel portico di san Pietro fuori di Roma in occasione della dedicazione della basilica vaticana, venit quidam Wernerius, regni teutonici famulus, in romanae urbis vicina; e che questi s'era unito con varii ribelli della Chiesa romana, abitanti fuori ed entro di Roma. Talibus sociis presbyter quidam romanae urbis advena se conjunxit, de quo vel ubi, vel hactenus ordinatus sit, ignoramus. Hanc personam egregiam, nigromanticis, ut dicitur, praestigiis plenam, quum fideles nostri, occasione treguae Dei ab armis omnino desisterent, in lateranensem ecclesiam induxerunt, et congregatis Wibertinae fecis reliquiis, et episcopi nomen perniciosissime indiderunt. Soggiugne: Quum vero intra urbem die altero rediissemus, monstrum illud turpiter ex urbe profugiens, quo transierit ignoramus. Adunque costui non era abbate di Farfa. Abbiamo ancora dal Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] che in quest'anno in poco più di due mesi accaddero in Venezia due furiosissimi incendii che distrussero molte contrade di quella nobil città, perchè di materia combustibile era fabbricata la maggior parte di quelle case. Si aggiunse, che la città di Malamocco fu affatto ingoiata dal mare, laonde il suo vescovato venne dipoi trasportato a Chioggia.

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Anno di Cristo MCVII. Indizione XV.
Pasquale II papa 9.
Arrigo V re di Germania e d'Italia 2.

Varii viaggi ed azioni di papa Pasquale in Francia in quest'anno si possono leggere nella Vita di Lodovico il Grosso scritta da Sugerio abbate [Sugerius, apud Du-Chesne, Script. Rer. Franc.]. Anche il padre Pagi [Pagius, ad Annales Baron.] ne fa menzione. Io tutto tralascio, bastandomi di accennare che il re Arrigo V spedì una solenne ambasciata in Francia per trattare con esso papa dell'affare delle investiture, perciocchè egli, al pari del padre, volea sostenerle contro i decreti di Roma. Il capo degli ambasciatori era Guelfo V duca di Baviera, uomo corpolento, e che usava un tuono alto di voce. Parevano essi andati più per intimidire il papa, che per trattare amichevolmente di concordia. E niuna concordia infatti ne seguì, ma solamente delle minaccie. Che il pontefice ritornasse in questo medesimo anno in Italia, si raccoglie da una sua bolla [Bacchini, di Polirone, Ist., nell'Append.] data Mutinae kalendis septembris, Indictione I Incarnationis dominicae anno MCVII, pontificatus autem domni Paschalis II papae nono. Era in Fiesole nel dì 18 di settembre. In quest'anno la contessa Matilda nel dì 10 di febbraio trovandosi nel contado di Volterra, tenne un placito, in cui fece un decreto in favore de' canonici di Volterra. Apparisce ancora da due memorie prodotte dal Fiorentini [Fiorent., Memor. di Matild., lib. 2.] che la medesima contessa nel mese di giugno mise l'assedio alla terra di Prato in Toscana, che s'era ribellata a lei, oppure a' Fiorentini. Arrivato in Toscana il suddetto papa Pasquale, ricevette dalla medesima contessa un trattamento convenevole alla dignità dell'uno, e alla somma venerazion dell'altra verso i vicarii [512] di Gesù Cristo. Fecene menzione anche Donizone, ma senza dire ch'ella seco andasse a Roma, come alcuno ha supposto, in quei versi [Donizo, in Vit. Mathild.]:

Illic post annum rediit retro pastor amandus.

Ejus ad obsequium Mathildis mox reperitur

Promta, loquens secum. Romam rediit cito praesul.

Nell'anno presente ancora pare che venisse in Italia Arrigo il Nero, duca di Baviera e fratello del duca Guelfo [Antichità Estensi, P. I, cap. 39.]. Certamente è scritta come succeduta in quest'anno una donazione da lui fatta al monistero di santa Maria delle Carceri d'Este. Ma essendo discorde dall'anno suddetto l'indizione settima, non si può ben accertare il tempo. Quel che è sicuro, quivi esso principe è intitolato Henricus dux, filius quondam Guelfonis ducis, qui professus sum ex natione mea lege vivere Lombardorum, siccome per tanti altri documenti si scorge che costumarono di professare i principi estensi, dai quali egli discendeva. Fu stipulato quello strumento apud sanctam Theclam de Este: il che fa intendere che la linea estense dei duchi di Baviera riteneva la sua porzion di dominio nella nobil terra d'Este. In questi tempi scrive Landolfo da san Paolo ch'egli era in Milano [Landulphus Senior, Hist. Mediolan., cap. 15.] consulum epistolarum dictator. La menzione dei consoli già introdotti nel governo di quella città mi obbliga qui di dire, essere ciò una pruova chiara che i Milanesi s'erano già sgravati de' ministri imperiali o regii, ed aveano presa la forma di repubblica e la libertà, con governarsi da sè stessi, solamente riconoscendo la sovranità di chi era imperadore, oppure re d'Italia. S'è veduto di sopra che quel popolo tanti anni prima avea fatta guerra coi Pavesi, e poi s'era esercitato nelle interne fazioni e guerre civili, senza più mostrar ubbidienza e dipendenza dal re, ossia da alcun suo ministro. L'essersi poi [513] sconvolta la Lombardia tutta per cagione d'Arrigo IV, aumentò l'animo di quel popolo a mettersi pienamente a libertà. Cercando essi in qual maniera si avesse a regolar la loro nuova repubblica, poco ci volle a mettersi davanti agli occhi il metodo tenuto dai Romani antichi nel governo di Roma. Perciò crearono due consoli che fossero capi principali della comunità, ed elessero altri ministri della giustizia, della guerra, della economia. Credo io che sui principii l'arcivescovo avesse gran parte nelle loro risoluzioni, e molto d'autorità per regolar le faccende. Formarono il consiglio generale, composto di nobili e di popolo, che ascendeva talvolta a più centinaia di persone, capi di famiglie. Eravi eziandio un consiglio particolare e segreto, ristretto a pochi scelti dal generale, il quale veniva appellato il consiglio di credenza; col qual nome si denotava chi giurava di custodire il segreto de' pubblici affari. Questo consiglio particolare aveva in mano l'ordinario governo politico; ma la risoluzion delle cose importanti, come il far guerra o pace, spedire ambasciatori, far leghe, eleggere i consoli ed altri ministri, era riserbato al consiglio generale.

Tale era allora la forma di queste nascenti repubbliche; e dico repubbliche, perchè nello stesso tempo altre città di Lombardia si misero in libertà, e presero forma di repubblica, come Pavia, Lodi, Cremona, Verona, Genova ed altre. Allorchè s'incontra nelle città d'allora il nome di consoli, subito s'intende che queste erano divenute città libere, le quali nondimeno protestavano di riconoscere per supremo lor padrone l'imperadore ossia il re d'Italia. Nelle Memorie antiche di Pisa e Lucca scorgiamo che circa questi tempi anche quelle città cominciarono a governarsi coi consoli, e s'è veduto che faceano guerra fra loro: il che indica la loro libertà, e l'acquistata o usurpata parte del dominio. Come poi succedessero ad essa altri marchesi di Toscana (cosa che in Lombardia più [514] non si usava), non è sì facile ad intendere. Forse l'autorità dei conti, che più non s'incontra neppure nel governo delle città principali della Toscana, era passato nella comunità di quelle città, restando salva solamente l'autorità marchionale. Probabile è ancora che la contessa Matilda ne' tempi tempestosi delle guerre passate fosse obbligata a cedere per accordo alle città potenti di quella provincia parte delle sue regalie, e tutte quelle de' conti già governatori delle città. Abbiam già veduto che Lucca e Siena s'erano ribellate a lei, e tennero per un tempo il partito di Arrigo IV. Ma appena queste città libere si sentirono colle mani slegate e colla balìa di maneggiar l'armi, che lo spirito dell'ambizione, cioè la sete di accrescere il proprio Stato colla depression de' vicini, ristretto in addietro ne' principi del secolo, occupò ancora il cuore dei repubblichisti. Ed appunto in quest'anno i Milanesi, parte mossi da questo appetito innato negli uomini, ma più vigoroso ne' più potenti, e parte attizzati da antichi odii e gare, dichiararono la guerra alla confinante città di Lodi [Landulfus junior, Histor. Mediol., cap. 16.], e la strinsero con forte assedio. Nè mancava in Lodi stessa chi segretamente teneva la parte di essi Milanesi. Oltre a varii nobili, furono sospettati di dubbiosa fede in que' frangenti Arderico vescovo della medesima città, e Gaiardo suo fratello. Se vogliamo anche prestar fede a Galvano dalla Fiamma [Galv. Flamma, Manipul. Flor., tom. 11 Rer. Ital.], il popolo di Pavia mosse guerra contro di quel di Tortona. Conoscendosi i Tortonesi inferiori di forza a quella potente città, ricorsero per aiuto a' Milanesi, coi quali contrassero lega: il che fu cagione che anche i Pavesi si collegassero co' Lodigiani e Cremonesi. Entrati poi nel Tortonese essi Pavesi, diedero una rotta a quel popolo, misero a sacco il loro territorio, riportarono anche de' vantaggi contra de' Milanesi, e in fine impadronitisi [515] di Tortona, la diedero alle fiamme. Prese tali notizie Galvano dalla Cronica di Sicardo vescovo di Cremona [Sicard., Chron., tom. 7 Rer. Ital.], il quale nondimeno altro non iscrive, se non che incendiarono i borghi di Tortona. Errò parimente Galvano in credere che tuttavia continuasse Corrado figliuolo di Arrigo IV ad essere re d'Italia. Giunto intanto a Roma papa Pasquale II [Pandulfus Pisan., in Vit. Paschal. II, Part. I, tom. 3 Rer. Ital.], trovò sconcertati non poco i suoi affari. Stefano Corso, di cui s'è parlato di sopra, avea ribellata tutta la Marittima, e s'era ben fortificato in Ponte Celle e in Montalto, terre della Chiesa romana. Spedì colà il papa il suo esercito, che ripigliò la prima d'esse terre; ma non potendo, a cagion del verno, fermarsi sotto l'altra, dopo di aver saccheggiato il territorio, si ritirò ai quartieri. Abbiamo da Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernitan., Chron., tom. 7 Rer. Ital.] che nell'anno presente Ruggieri duca di Puglia assediò la città di Luceria, oggidì Nocera, e la rimise sotto il suo dominio. Finalmente l'Anonimo Barense scrive [Anonymus Barens. apud Peregrinium.] che Boamondo principe d'Antiochia tornato in Italia co' crociati franzesi, e fatta adunanza d'altri Italiani nel suo principato di Taranto, con dugento navi, trenta galee, cinque mila cavalli e quaranta mila fanti, dal porto di Brindisi passò di là dall'Adriatico alla Vallona, e la prese. Se una tal flotta di navi fosse bastante a condur tanti uomini e cavalli, lascerò io considerarlo agl'intendenti. Forse passarono in più veleggiate. Assediò dipoi la città di Durazzo; ma ritrovandola ben provveduta di presidio e di viveri, non gli riuscì di mettervi il piede. Il motivo di far questa guerra ad un imperadore cristiano, in vece di portarla in Oriente contra de' Turchi ed altri infedeli, fu perchè esso imperadore Alessio Comneno facea segretamente la guerra a chiunque dei crociati voleva passare per le sue [516] terre in Oriente, dimodochè era egli tenuto per nemico più pericoloso che gli stessi Turchi. Di questo fatto parlano anche Fulcherio nella Storia sacra [Fulch., Hist. Hierosolym., lib. 2.], e il suddetto Sicardo vescovo di Cremona nella sua Cronica.


   
Anno di Cristo MCVIII. Indizione I.
Pasquale II papa 10.
Arrigo V re di Germania e d'Italia 3.

Non ostante che la presenza del pontefice Pasquale, ritornato a Roma, dovesse restituire la calma a quella tumultuante città, pure, per attestato di Pandolfo Pisano [Pandulfus Pisanus, in Vit. Paschalis II, Part. II, tom. 3 Rer. Ital.], tutto dì accadevano omicidii, latrocinii e sedizioni. I ribelli di fuori influivano a tenere inquieta la medesima città. Il papa, per non poter di meno, andava pazientando; nè questo il ritenne dall'intraprendere il viaggio di Benevento. Lasciata dunque al vescovo lavicano la cura dello spirituale di Roma, a Pietro di Leone ed a Leon Frangipane quella del politico, e il comando dell'armi a Gualfredo suo nipote, si portò a Benevento, dove nel mese d'ottobre tenne un concilio, i cui atti sono periti [Petrus Diaconus, Chron. Casin., lib. 4, cap. 33.]. Visitò in tal occasione il monistero di san Vincenzo del Vulturno, ed era già in viaggio per tornarsene a Roma, quando gli giunse nuova, essere quella città sconvolta per varie sedizioni; formarsene dell'altre verso Anagni, Palestrina e Tuscolo; essersi ribellata la Sabina, e che Tolomeo, nobil romano, di cui dianzi il pontefice assaissimo si fidava, avea voltata casacca, e s'era unito con Pietro dalla Colonna, abbate di Farfa (ma si dee scrivere: e coll'abbate di Farfa, perchè Farfa allora avea per abbate Beraldo), di maniera che non era sicuro il passo per tornare a Roma. Il buon papa, senza punto sbigottirsi, [517] chiamò in aiuto Riccardo dall'Aquila duca di Gaeta, il quale co' suoi uomini lo scortò fino alla città d'Alba, dove fu ricevuto con somma divozione. Di là passato a Roma, attese a ricuperare i beni della Chiesa romana. Continuava Boamondo principe di Taranto e di Antiochia le ostilità contra dell'imperadore Alessio [Fulcher., Hist. Hierosolym., lib. 2. Guillelmus Tyr., Hist., lib. 11, cap. 6.]. Questi non sapendo come levarsi di dosso questo feroce campione, per attestato del Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], chiamò in suo aiuto i Veneziani, i quali con una poderosissima flotta l'assisterono. Ma appigliatosi dipoi a miglior consiglio, trattò di pace, e in fatti la conchiuse, con promettere e giurare sopra le sacre reliquie di far buon trattamento e difesa a chiunque passasse per li suoi Stati alla volta di Terra Santa. Dopo di che Boamondo si quetò, e ritornossene colla sua armata ad Otranto [Anonymus Barensis, apud Peregrinium.], lasciando in pace le terre del greco Augusto. In questi tempi, se pur sussiste la cronologia di Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernitan., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.], mancò di vita Guido fratello di Ruggieri duca di Puglia, di cui non veggo menzione in altri autori. Morì parimente nell'agosto un figliuolo d'esso duca, appellato Guiscardo. Trovavasi nell'aprile di quest'anno la contessa Matilda in Governolo sul Mantovano, e quivi con pubblico strumento rimise Dodone vescovo di Modena [Sillingard., Catalog. Episcopor. Mutinens.] in possesso di Rocca Santa Maria, posta nelle montagne del Modenese. Non so io dire se all'anno presente oppure all'antecedente appartenga una sua donazione fatta al monistero di san Benedetto di Polirone, e rapportata dal padre Bacchini [Bacchini, Istor. di Poliron. nell'Append.]. Lo strumento fu scritto anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi MCVIII, sexto-decimo die mensis octobris, Indictione prima. Potrebbe essere anno pisano, convenendo [518] più all'ottobre dell'anno antecedente l'indizione prima. Se vogliamo prestar fede a Galvano dalla Fiamma [Gualvan. Flamm., Manipul. Flor., tom. 11 Rer. Ital.], seguitando la discordia fra i Pavesi e Milanesi, accadde che in quest'anno il vescovo di Pavia con tutto il suo popolo armato marciò alla volta di Milano. Gli vennero incontro i Milanesi in campagna aperta, ed attaccarono battaglia con tal vigore, che, rotto l'esercito pavese, vi restò prigioniero il vescovo colla maggior parte de' suoi, condotti poscia nelle carceri di Milano. Furono di poi rimessi in libertà, ma con obbrobriosa maniera: perchè condotti tutti nella piazza, fu attaccato alla parte deretana d'essi un fascio di paglia, e datogli fuoco, furono così cacciati fuori della città. Torno nondimeno a dire che non ci possiamo assicurar della verità di questi fatti sull'asserzione del solo Galvano, autore non assai esatto, e troppo parziale in favore de' Milanesi. Egli mette in questo tempo arcivescovo di Milano Giordano, che pure solamente nell'anno 1112 ottenne quella sedia.


   
Anno di Cristo MCIX. Indizione II.
Pasquale II papa 11.
Arrigo V re di Germania e d'Italia 4.

Forse a quest'anno si dee riferire ciò che narra Pandolfo Pisano [Pandulfus Pisanus, P. I, tom. 3 Rer. Ital.] nella Vita di papa Pasquale: cioè ch'egli ricuperò molti beni della Chiesa romana, e fra questi la città di Tivoli, il quale acquisto nondimeno costò la vita ad assaissime persone. Ciò fatto, salì nel Campidoglio, e commosse il popolo romano contra di Stefano Corso, occupatore di Montalto e d'altri patrimonii di san Pietro. Assediò dipoi e prese a forza d'armi essa terra di Montalto, le cui torri furono spianate; e tal terrore mise in cuore di que' tirannetti, che tutti restituirono senza [519] l'uso d'altra forza il mal tolto, e diedero ostaggi con promessa di non vendicarsi, e di non usurpare in avvenire i beni di san Pietro e dell'altre chiese. Per gloria dell'Italia non si dee tacere che nel dì 21 d'aprile dell'anno presente fu chiamato a miglior vita pieno di meriti santo Anselmo arcivescovo di Cantorberì e primate dell'Inghilterra, Italiano di nascita [Eadmer., in Vita S. Anselmi.]. Mancò in lui un gran lume della Chiesa di Dio, ed uno de' più illustri dotti vescovi di quell'età, ai cui libri di molto è tenuta la teologia scolastica, perchè principalmente da lui fu introdotta, e cominciò da lì innanzi ad essere coltivata con grande applicazione nelle scuole di Parigi e della Francia. Dimorò in questo anno la contessa Matilda in Lombardia, verisimilmente attendendo a premunirsi e a ben provvedere le sue fortezze, perchè già si presentiva che avesse da calare in Italia il re Arrigo V. Egli era giovane, gli bolliva il sangue nelle vene, e non era ignoto ch'egli, al pari del padre, stava forte nella pretension delle investiture ecclesiastiche. Dai documenti rapportati dal padre Bacchini [Bacchini, Istor. di Polirone nell'Append.] noi comprendiamo ch'essa si trovò ora in Gonzaga, ora al Ponte del Duca sui confini del Modenese e del Ferrarese, con far delle donazioni al monistero di san Benedetto di Polirone. Ho anch'io pubblicato uno strumento, scritto anno dominicae Nativitatis MCIX, Paschale in apostolatu anno X, regnante Henrico quinto quodam Henrici imperatoris filio, anno tertio, Indictione secunda, da cui apparisce che la medesima contessa [Antiquit. Italic., Dissert. XLI.], soggiornando sul Modenese in san Cesario, rilasciò molte terre a Landolfo vescovo di Ferrara. E in un altro atto [Ibidem, Dissert. XIX.] esentò dalle albergarie Giberto da Gonzaga. Menzionati si truovano in questi tempi i nobili di Gonzaga, da' quali si può credere che discendesse quella casa che nel 1328 [520] cominciò a signoreggiare in Mantova. Aveano i Genovesi prestato non poco aiuto negli anni addietro alla guerra sacra d'Oriente [Fulcher., Hist. Hierosol., lib. 2. Guillelm. Tyr., lib. 11, cap. 9.]. Con una flotta di settanta legni assisterono essi con tal vigore nell'anno presente Baldovino re di Gerusalemme, che in mano sua pervenne la città di Tripoli. Altri mettono prima di quest'anno una tale conquista. Da varie carte prodotte dal Guichenon [Guichenon, de la Maison de Savoye, tom. 3.] vegniamo in cognizione che in questi tempi fioriva Amedeo conte di Morienna, progenitore della real casa di Savoia. Egli è appellato Amedeus filius Uberti comitis, e talvolta intitolato morianensis comes et marchio. Ma per mancanza d'antichi storici restano molto allo scuro le azioni di questo principe e de' suoi predecessori. Secondo il Sigonio [Sigon., de Regno Ital., lib. 10.], in quest'anno succedette la guerra tra i Cremonesi e Bresciani. Io ne parlerò all'anno seguente. Vuole ancora il Campi [Campi, Istor. di Piacenza, lib. 1.] che nel presente anno essi Bresciani uniti coi Milanesi s'impadronissero della città di Lodi. Accorsi con grandi forze i Cremonesi collegati de' Lodigiani, gli obbligarono ad abbandonarla. Ma ad assicurarci di tali fatti non basta l'autorità de' moderni scrittori. È solamente fuor di dubbio, asserendolo Landolfo da san Paolo [Landulfus junior, Hist. Mediolan., cap. 17.], che i Milanesi seguitarono a far guerra a Lodi, e che in aiuto di questa città furono i Pavesi e i Cremonesi. Aggiugne esso Landolfo che circa questi tempi tornato da Roma Grossolano arcivescovo di Milano, perchè non ricevuto dal popolo, andò a piantarsi in Arona, terra e fortezza della sua chiesa sopra il lago Maggiore. Ma fu consigliato di levarsene e di far piuttosto il viaggio di Terra Santa; ed egli l'intraprese con lasciare suo vicario in Milano Arderico vescovo di Lodi.

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Anno di Cristo MCX. Indizione III.
Pasquale II papa 12.
Arrigo V re di Germania e d'Italia 5.

Aveva nell'anno addietro il re Arrigo V, per testimonianza dell'Annalista d'Ildeseim [Annal. Hildesheim, apud Leibnit.], inviati a Roma Federigo arcivescovo di Colonia, Brunone arcivescovo di Treveri ed altri principi suoi ambasciatori a trattare con papa Pasquale II della sua venuta in Italia per ricevere la corona imperiale. Le risposte del papa furono, ch'egli il riceverebbe come padre con tutto amore, purchè il re dal suo canto si mostrasse cattolico, figliuolo e difensor della Chiesa, e amator della giustizia. Non erano i legati suddetti probabilmente partiti peranche da Roma, quando il pontefice nel dì 7 di marzo del presente anno tenne un gran concilio nella basilica lateranense, in cui furono rinnovati i decreti contro le investiture pretese dai re. Furono gli ambasciatori suddetti, nel ripassare per Lombardia, a visitar la contessa Matilda, che li regalò da pari sua [Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2, cap. 18.]. Intanto il re Arrigo, solennizzando in Ratisbona la festa dell'Epifania [Abbas Ursperg., in Chron.], pubblicò alla presenza de' principi germanici la risoluzione sua di calare in Italia affine di prendere dalle mani del sommo pontefice la corona dell'imperio, e di dar buon sesto al regno dell'Italia, dimostrandosi specialmente pronto a far tutto ciò che gli suggeriva il papa per la difesa della Chiesa. Fu da tutti lodato il di lui pensiero; e quantunque una gran cometa apparisse in questi tempi, la cui vista il volgo suol d'ordinario ricevere come preditrice di malanni, pure con allegria si attese per sei mesi a pagar le contribuzioni e a preparar l'armata che dovea scortare il re in questo viaggio. Provvide inoltre il re d'uomini scienziati, ed atti all'amministrazion [522] della giustizia e a sostenere i diritti regali; e fra questi si contò un certo David di nazione Scoto, che scrisse dipoi con limpido stile tutta questa spedizione. L'Abbate Urspergense ebbe sotto gli occhi la di lui Storia, ma questa non è giunta fino a' dì nostri. Adunque circa il mese d'agosto si mosse il re Arrigo alla volta dell'Italia. Con parte del suo potente esercito tenne egli la via della Savoia, e felicemente arrivò ad Ivrea. Nel di 12 d'ottobre egli era in Vercelli, dove confermò a Giovanni abbate del monistero ambrosiano di Milano tutti i suoi privilegii con diploma [Puricell., Monument. Basil. Ambrosian.] dato IV idus octobris Indictione III, regnante Henrico quinto rege Romanorum anno IV, ordinationis ejus X. Pervenuto a Novara, trovando quel popolo resistente a tutto ciò ch'egli pretendeva, diede alle fiamme quell'infelice città, e fece diroccar le sue mura, per mettere con questo spettacolo di crudeltà sui principii terrore a tutti gli altri popoli. Lo stesso trattamento fece alle castella e terre che non furono ben puntuali agli ordini suoi. Scrive il Sigonio [Sigon., de Regno Ital., lib. 10.] che Arrigo passò a Milano, dove dalle mani di Crisolao, ossia Grossolano arcivescovo fu coronato colla corona ferrea. Si fondò egli qui su quanto scrive Galvano dalla Fiamma [Galvaneus Flamma, Manipul. Flor., cap. 160.] circa l'anno 1335. Egli veramente narra, che venuto Arrigo a Milano, prese ivi la corona del regno d'Italia da Giordano arcivescovo, il quale l'accompagnò fino a Roma. Tutte queste nulladimeno son favole. Niuno degli antichi parla di questa coronazione, ed espressamente la niega Donizone storico de' tempi presenti, con iscrivere che tutte le città della Lombardia mandarono ad Arrigo vasi d'oro e d'argento e danari; e che la sola città di Milano nol volle riconoscere per padrone, nè pagargli contribuzione alcuna [Donizo, in Vit. Mathildis, lib. 2, cap. 18.]:

[523]

Aurea vasa sibi, nec non argentea misit

Plurima cum multis urbs omnis denique nummis.

Nobilis urbs sola Mediolanum populosa

Non servivit ei, nummum neque contulit aeris.

Ecco dunque che non può stare la coronazione suddetta. Nè allora Grossolano soggiornava in Milano, perchè ito in Terra Santa, nè Giordano per anche era stato eletto arcivescovo di Milano. Passato il Po, venne il re Arrigo a Piacenza, dove fu accolto da quei cittadini con allegrezza ed onorato di superbi regali. L'altra parte dell'esercito suo, che era calata in Italia per la valle di Trento, arrivò apud Viruncalia, secondo il concerto, e quivi si unì coll'altra armata e collo stesso re. È scorretto qui il testo dell'Urspergense [Abbas Urspergensis, in Chron.], e dee dire apud Runchalia, cioè ne' prati di Roncaglia sul Piacentino, dove alla venuta dei re ed imperadori si solea celebrar la dieta generale del regno d'Italia, concorrendovi tutti i principi, baroni, vassalli e ministri delle città. Si dee credere che veramente anche in quella occasione si celebrasse la dieta generale del regno: perchè Arrigo per tre settimane si fermò in quelle parti. Ottone Frisingense scrive [Otto Frisingens., Hist., lib. 7, cap. 14.] ch'egli diede la mostra al suo esercito presso il Po, e che vi si trovarono trenta mila soldati a cavallo scelti, senza gl'Italiani, concorsi a servirlo. Venne dipoi a Parma. Sprezzava Arrigo tutte le città italiane.

Ma sola Matilda contessa gli dava dell'apprensione, perchè ben consapevole egli era di quanto ella aveva operato contra dell'Augusto Arrigo IV suo padre. Ed ebbe ben la contessa la prudenza di non volersi portare alla corte, nè mettersi a rischio di qualche sgarbo o violenza. Molti principi e baroni oltramontani si portarono a visitarla [Donizo, lib. 2, cap. 18.], per conoscere in lei una persona superiore al suo sesso, e di tanto credito per tutta l'Europa. [524] Trattossi dunque fra essa e il re per internuntios di pace e concordia. Prestò ella ad Arrigo tutti gli ossequii dovuti al sovrano; ed Arrigo a lei confermò tutti gli Stati e diritti ad essa competenti. Mathildam comitissam per internuntios sibi subjectam gratia sua et propriis justitiis donavit: sono parole dell'Urspergense. E Donizone scrive che la contessa, per trattare di questo accomodamento, dalla fortezza di Canossa passò a quella di Bibianello, oggidì Bianello, ed aver ella promesso fedeltà al re contro a tutti, fuorchè contro al romano pontefice. Indi sul principio di dicembre il re Arrigo per la strada di monte Bardone, ossia di Pontremoli, si mosse coll'esercito alla volta della Toscana; e perchè caddero immense pioggie in quel tempo, molta gente e cavalli perirono nel passaggio dell'Apennino. Gli fece resistenza la suddetta terra di Pontremoli, terra forte per la sua situazione e per le altissime sue torri, probabilmente spettante allora ai principi estensi [Antichità Estensi, P. I, cap. 7.], e non già alla contessa Matilda. Per forza se ne impadronì e la devastò. Giunse finalmente a Firenze. Quivi con ammirabil pompa solennizzò la festa del santo Natale. Tutte le città della Toscana non tardarono a mandargli ambasciatori, regali e contribuzioni. Con che cuore, nol so. Pandolfo Pisano, scrittore di questi tempi, chiama esso Arrigo [Pandulfus Pisanus, in Vit. Paschalis II.] exterminatorem terrae, e mandato dall'ira di Dio in Italia; con aggiugnere che egli civitates multas et castra in itinere dolo, pacem ostendendo, subvertit, ecclesias destruere non cessavit; religiosos ac catholicos viros capere, quos invenire poterat, nullo modo desistebat; quos vero habere non poterat, a propriis sedibus pellere non cessabat. Tale era quel principe di cui si servirono i Tedeschi e gl'Italiani per atterrare Arrigo di lui padre, e che peggiore del padre si diede poi a conoscere, siccome maggiormente andremo vedendo. Sembra a me più probabile, per [525] non dir certo, che nell'anno presente, prima che arrivasse in Italia il re Arrigo, succedesse la guerra fra i Cremonesi e Bresciani. La racconta appunto sotto quest'anno Galvano dalla Fiamma, con dire [Gualvanus Flamma, Manip. Flor., tom. 11 Rer. Ital.] che riuscì a' Cremonesi di dare una rotta al popolo di Brescia. Ma venuti i Milanesi in soccorso de' Bresciani, sì fattamente incalzarono i Cremonesi vincitori, che li misero in fuga, e per più miglia seguitandoli, fecero d'essi non poca strage, massimamente allorchè furono ridotti al fiume Oglio. La verità di questo fatto è confermata da Sicardo vescovo di Cremona, di cui sono queste parole [Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.]: Anno Domni MCX fuit bellum inter Mediolanenses et Cremonenses apud Brixianorium, Cremonensibus perniciosum. E molto più da Landolfo da san Paolo [Landulfus junior, Hist. Mediol., cap. 17.], che scrive essersi rallegrati i Milanesi della ordinazione di cinque loro nobili canonici della cattedrale, fatta nel mese di giugno; e che etiam majori gaudio gavisi sunt, quia in ipso mense susceperunt triumphum de Cremonensibus victis et superatis apud Brixianorii campum. Questo nome di Brixianorium temo io che desse occasione a Galvano dalla Fiamma di credere che i Bresciani avessero parte nel suddetto avvenimento. I due autori suddetti non parlano se non di guerra fra i Milanesi e i Cremonesi. In questo stesso anno papa Pasquale II, saggiamente temendo qualche violenza dal re Arrigo, disposto a calare in Italia, andò nel mese di giugno verso Monte Casino [Petrus Diac., Chron. Casin., lib. 4, cap. 35.]; e chiamati a sè Ruggieri duca di Puglia e Roberto principe di Capua, con tutti i conti della Puglia, stabilì un trattato con loro, che ognun d'essi prenderebbe l'armi in difesa del pontefice, se venisse il bisogno. Tornato a Roma, fece giurare a tutti i baroni romani di fare altrettanto.

[526]


   
Anno di Cristo MCXI. Indizione IV.
Pasquale II papa 13.
Arrigo V re 6, imperad. 1.

Abbiamo dagli Annali Pisani [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.] che il re Arrigo V o sul fine del precedente anno, o sul principio del presente, cum magno exercitu Pisas venit, et fecit pacem inter Pisanos et Lucenses; in qua guerra Pisani devicerunt Lucenses ter in campo, et Castellum de Ripafracta recuperaverunt, et Ripam, unde lis fuit, retinuerunt. Passò ad Arezzo, e trovò della discordia fra i cittadini e il clero [Otto Frisingens., Chron., lib. 7, cap. 14.]. La cattedrale di san Pietro era fuori della città. Il popolo la voleva dentro, secondo l'uso dell'altre città d'Italia, e però la distrussero. Essendo ricorsi i cherici ad Arrigo, prese la loro parte; e forse perchè il popolo non mostrò prontezza ad ubbidire, o perchè fece resistenza, il re barbaro quivi ancora lasciò lagrimevoli segni della sua fierezza, con far abbattere le mura e le torri altissime d'essa città, e spianar buona parte delle case cittadinesche. Con questi bei preparamenti arrivò ad Acquapendente [Abbas Urspergens., in Chron.], dove ricevette i suoi ambasciatori tornati da Roma con quei del papa, che portavano buone nuove di concordia. Continuato il viaggio fino a Sutri, giunsero altri legati del papa con regali e proposizioni di concordia, e promesse di dargli l'imperiale diadema. Ma non andò molto che questo bell'aspetto di cose si convertì in una luttuosa e scandalosa scena; nel racconto della quale gli scrittori romani ne attribuiscono la colpa ad Arrigo, e gli storici tedeschi ai medesimi Romani. Una lettera dello stesso Arrigo presso Dodechino [Dodechinus, in Append. ad Marian. Scotum.], l'Abbate Urspergense [Urspergensis, in Chron.], Ottone da Frisinga [Otto Frisingensis, in Chron.], Pietro Diacono [Petrus Diacon., in Chron. Casinens.], Pandolfo [527] Pisano [Pandulfus Pisanus, in Vit. Paschal. II.] e gli Atti rapportati dal cardinal Baronio [Baronius, in Annal. Eccles.] parlano di questa tragedia, ma non tutti con egual tenore. Quel che è certo, Arrigo si mostrò risoluto di non voler cedere al diritto da lui preteso di dar le investiture agli ecclesiastici, non volendo essere da meno di tanti suoi predecessori. All'incontro il papa, sapendo quanto discapito era provenuto alla Chiesa di Dio dall'uso di tali investiture per le frequenti simonie che si commettevano, non era men forte in volerle abolite. Non si sa intendere come esso pontefice non avesse meglio concertati gli affari, prima che gli arrivasse addosso Arrigo col nerbo di tanti armati. O fu egli mal servito da' suoi legati, o burlato dalle belle parole d'esso re. Comunque sia, veggendo egli sì forte Arrigo nelle sue pretensioni, piuttostochè consentire alle medesime, s'indusse egli ad una strana risoluzione, che, proposta al re, neppure gli parve credibile, e fu nondimeno da lui accettata. Cioè, che il papa con tutti i suoi rinunzierebbe al re tutti gli Stati e tutte le regalie che gli ecclesiastici aveano avuto e riconoscevano dall'imperio e dal regno fino da' tempi di Carlo Magno e di Lodovico Pio e di Arrigo I, con ispecificare le città, i ducati, i comitati, le zecche, le gabelle, i mercati, le avvocazie, le milizie, le corti e castella dell'imperio; giacchè a cagion di queste regalie il re pretendeva di continuar l'uso delle investiture. Ed esso re vicendevolmente rinunzierebbe all'uso d'investire i vescovi e gli abbati. L'accordo fu fatto, dati dall'una e dall'altra parte gli ostaggi. Anche oggidì si ha pena a credere che un pontefice arrivasse a promettere una sì smisurata cessione. Nella domenica adunque della quinquagesima, cioè nel dì 12 di febbraio, si mosse il re Arrigo alla volta della città Leonina, per trovare il papa che l'aspettava coi cardinali fuori [528] della basilica vaticana [Petrus Diaconus, Chron. Casinens., lib. 4, cap. 36.]. Furono mandati ad incontrarlo sino a Monte Mario gli uffiziali della corte e della milizia colle loro insegne, e un'infinita moltitudine di popolo portante corone di fiori, palme e rami d'albero. Avanti alla porta comparvero i Giudei, e nella porta i Greci che cantavano nel loro linguaggio, e faceano plauso al futuro imperadore. V'intervennero ancora i monaci [Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2, cap. 18.], e cento monache con lampade o doppieri accesi, e tutto il clero in pianete e dalmatiche. Con questa maestosa processione, spargendo intanto gli uffiziali del re gran copia di danaro alla plebe, arrivò Arrigo alla basilica vaticana [Pandulfus Pisanus, in Vit. Paschal. II.]; ma non volle entrare, se prima non fu consegnata alle sue guardie ogni porta e luogo forte della medesima. Prestò Arrigo al papa gli atti di riverenza dovuti; il papa l'abbracciò e baciò; ed amendue entrati per la porta d'argento, arrivati che furono alla ruota del porfido, si misero a sedere nelle sedie preparate.

Allora fu che il pontefice fece istanza ad Arrigo di eseguir le promesse della rinunzia alle investiture. Il re si ritirò coi suoi vescovi e principi nella sagrestia per consultar con essi; ed allora succedette un gran tumulto, reclamando tutti i vescovi che era un'empietà ed eresia il volere spogliar di tanti beni tutte le chiese. Arrigo, nella sua lettera presso Dodechino, pretende che l'esibizione di levar le immense regalie ai pastori delle chiese venisse dal papa, e fosse un tiro politico per ricavare dal re la rinunzia delle investiture, e nello stesso tempo concitare contra di lui l'amplissimo ordine degli ecclesiastici. Pandolfo Pisano ed altri, per lo contrario, scrivono che la proposizione fosse fatta dal re, il quale con questo tiro pensasse a carpir la corona imperiale, ottenuta la quale, era poi facile il continuar le investiture, perchè la repubblica [529] ecclesiastica non vorrebbe mai abbracciare il partito di rilasciar tanti Stati e beni all'imperadore. Ottone da Frisinga scrive, avere Arrigo fatta istanza per l'esecuzion del trattato, alla quale era dispostissimo dal canto suo il papa; ma che non potè quegli eseguirlo per li troppi richiami de' vescovi. Comunque sia, certo è che un grande bisbiglio e furore si sollevò in tutti i vescovi sì italiani che oltramontani all'intendere una cotanto insopportabil condizione di rinunziare gli Stati; laonde fra il pontefice e il re insorse discordia, non volendo il primo coronar l'altro senza la rinunzia delle investiture, nè volendo il re rinunziare, se non gli si manteneva la parola data di restituir tutti i beni regali. Non si sa intendere come niuno allora proponesse, o se fu proposto, come non fosse accettato il ripiego poscia usato, e tuttavia osservato in Germania, cioè di lasciar libere le elezioni de' vescovi e degli abbati, con che restava salva la libertà della Chiesa, obbligando poi gli eietti a prendere l'investitura degli Stati, ma non delle chiese, dall'imperadore, ossia dal re d'Italia. Ora il re Arrigo, veggendo a terra il trattato, e saldo il papa in negargli la corona, andò nelle furie. Nè gli mancarono empii consiglieri, il primo de' quali fu Alberto allora cancelliere, poscia arcivescovo di Magonza, uomo scellerato, che lo spinsero a far prigione il papa contro il giuramento fatto di nulla intentare contra la di lui persona e dignità: il che venne con incredibil tumulto eseguito. Fu consegnato il pontefice ad Ulrico patriarca d'Aquileia, che il custodisse sotto buona guardia. Questa violenza non solamente fu riprovata da tutti i buoni, e massimamente dall'arcivescovo di Salisburgo, con rischio anche della sua vita, ma eziandio irritò sì fattamente il popolo romano, il quale in tal congiuntura si fece conoscere fedelissimo al papa suo signore, che corse a svenare quanti Tedeschi si trovarono nella città. E dopo aver tenuto tutta la notte un gran consiglio, la mattina seguente uscirono [530] essi Romani arditamente coll'armi addosso all'esercito tedesco, alloggiato entro e fuori della città Leonina, che non s'aspettava una visita sì scortese. Quanti ne trovarono, tutti li misero a fil di spada. Assalirono dipoi il quartiere dello stesso re, il quale uscito di letto, e scalzo tuttavia, salito a cavallo, fece di molte prodezze, ma corse gran pericolo della vita, perchè gli ammazzarono il cavallo sotto, e il ferirono anche in faccia. Salvollo Ottone conte di Milano, o, per dir meglio, vicecomes, come Landolfo da san Paolo, più informato di questo, lasciò scritto, con dargli il proprio cavallo; ma fatto egli prigione, e condotto in città, fu quivi messo in brani dall'infuriata plebe. Armatisi intanto i Tedeschi, s'opposero all'empito de' Romani; seguì gran battaglia, grande strage dall'una e dall'altra parte, rinculando ora gli uni, ora gli altri. Penetrarono i Romani fino nel portico di san Pietro; ma perchè si perderono a spogliare i forzieri de' Tedeschi, ebbero da ben pentirsene: perchè raccolti i Tedeschi e Lombardi, li misero in fuga, con restarne assaissimi vittima delle spade, o annegati nel Tevere. L'attesta Donizone, con dire che i Romani quasi furono vincitori dei Tedeschi:

Sed flagrant erga nimis horum quippe zabernas;

Insimul ex armis et denariis onerati

Plus adamant nummum, quam bellum vincere sumtum.

Venuta la notte, e tenuto consiglio in Roma, fu risoluto di procedere di nuovo nel dì seguente contra de' Tedeschi. Ne venne sentore al re Arrigo, il quale credette meglio fatto di ritirarsi colla sua gente lungi da Roma nella Sabina, ed anche con fretta, lasciando in dietro parte dell'equipaggio della sua armata. Seco condusse l'innocente papa Pasquale prigione, con cui essendo stati presi Bernardo cardinale e vescovo di Parma, e Bonsignore vescovo di Reggio, in lor favore parlò con vigore Ardoino da Palude nobile reggiano, e messo della contessa Matilda, con ricordare ad Arrigo i patti fatti [531] con essa. E non parlò indarno, perchè il re, per amore della medesima contessa, li rimise in libertà. L'Urspergense ci vuol far credere che Arrigo Apostolicum secum duxit, et eo, quo potuit, honore tenuit. Ma Pandolfo Pisano ed altri narrano, ch'egli, custodito sotto stretta guardia, fece non pochi patimenti per sessanta e un giorno, detenuto nel castello di Tribucco con sei cardinali, e che gli altri cardinali furono imprigionati in un altro castello. Ossia, come vuol Pietro Diacono, che Arrigo intimidisse il papa col minacciare a lui e a tutti i prigioni la morte; ovvero, come altri ha voluto [Annalista Saxo.], che Arrigo si gittasse a' piedi del papa, e il supplicasse di perdono e di pace; oppure che non veggendo nè il papa, nè i cardinali che seco si trovavano, maniera di acconciar questa esecrabil rottura, finalmente esso papa piegasse l'orecchio ad un aggiustamento: certo è che questo succedette, e quale il volle Arrigo.

Condiscese dunque il pontefice Pasquale II, ma con protesta di farlo violentato, e per liberar tanti prigioni e i Romani da ulteriori vessazioni, che liberamente e senza simonia si dovessero eleggere da lì innanzi i vescovi ed abbati coll'assenso dell'imperadore; e che gli eletti prendessero il pastorale e l'anello, cioè l'investitura da lui, senza la quale non potessero essere consecrati; e che il papa giurasse di non fare vendetta alcuna, nè di adoperar censure per l'ingiuria fatta a lui ed ai suoi; e l'imperadore scambievolmente promettesse di lasciare in libertà tutti i prigioni, e di conservare o restituire tutti i beni occupati alla Chiesa romana, fra' quali, per testimonianza di Pietro Diacono [Petrus Diaconus, Chron. Casinens.], furono nominatamente espresse la Puglia, la Calabria, la Sicilia e il principato di Capoa. Ottenne inoltre Arrigo che si potesse dar sepoltura in chiesa al corpo di Arrigo IV suo padre, giacchè si fecero venire in campo persone attestanti esser egli morto [532] con atti di vero pentimento. Così seguì la pace, dopo la quale il papa solennemente coronò imperadore Arrigo nella basilica vaticana, con istare intanto serrate le porte di Roma, acciocchè niun de' Romani venisse a disturbare la funzione. Il giorno preciso in cui seguì questa coronazione, fin qui è stato controverso. Donizone, autore di questi tempi, scrive di papa Pasquale [Donizo, in Vita Mathildis, lib. 2, cap. 18.]:

Dum festum Paschae venite tribuit sibi pacem,

Urbem romuleam sibi subdens, et diadema

Ipsius capiti ponens, unguit, benedixit.

Ultima lux mensis primi tunc Pascha revexit,

Numinis undecimo centum post mille sub anno.

Ci fa vedere qui Donizone tuttavia conservata la sovranità imperiale in Roma; ma, siccome già accennai nelle annotazioni al di lui poema, è da stupire come egli dica caduta in quest'anno la Pasqua nel dì ultimo di marzo, quando è fuor di dubbio ch'essa s'incontrò nel di 2 d'aprile. Per altro anche Rogerio Hovedeno [Hovedenus, Annal., P. I.] e Sigeberto [Sigebertus, in Chron.] scrivono che nel giorno di Pasqua fu conferita la corona ad Arrigo V. All'incontro, il padre Pagi [Pagius, Crit. Baron.] pretende ciò fatto nella domenica in Albis, cioè a dì 9 d'aprile, ma senza recarne alcuna soda pruova, e col correggere a suo piacimento gli antichi scrittori. A me sembra, non dirò solo probabile, ma certo, che la funzione suddetta seguisse nel giovedì dopo l'ottava di Pasqua, cioè nel dì 13 d'aprile, giorno delle idi. Chiaramente lo attesta l'autore della Vita di Pasquale II, storico contemporaneo, a noi conservato dal cardinal d'Aragona, il quale scrive [Vit. Paschalis II, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]: Haec, quae passi sumus, et oculis nostris vidimus, et auribus nostris audivimus, mera veritate conscripsimus. Ora questo scrittore attesta che fu consecrato e coronato idibus aprilis, quinta feria post octavam [533] Paschae. Queste note van d'accordo, nè patiscono eccezione. Vien confermata la stessa verità dall'Annalista Sassone, di cui son queste parole [Annalista Saxo.]: Rex Heinricus Pascha, non longe ab urbe in castris suis celebravit, et post octavas Paschae, die scilicet idus aprilis, in ecclesia sancti Petri in imperatorem consecratur. Altrettanto s'ha dal Cronografo Sassone, citato dal padre Mabillone [Mabill., Annal. Benedictin.] e dagli Annali d'Ildeseim [Annal. Hildesheim.]. L'Abbate Urspergense [Abbas Urspergensis, in Chron.], con iscrivere che Arrigo ricevette la corona post octavas Paschae, esclude le due precedenti opinioni, e viene ad accordarsi con questa. Nella messa solenne, e alla comunione, il papa col corpo del Signore in mano ratificò la pace e le promesse. Egli se ne andò libero a Roma, e il re Arrigo, dopo aver fatti suntuosi regali al papa e ai cardinali ch'erano con lui, si mise in viaggio alla volta della Toscana per ritornarsene in Lombardia, e poscia in Germania. Appena fu in Roma il buon papa, che trovò alienati da sè gli animi de' cardinali rimasti ivi, perchè avesse consentito ad una tale concordia, di modo che quasi nacque uno scisma. L'ingiuriarono specialmente i più dotti, e quasi il trattarono da eretico, sostenendo che dovea piuttosto lasciarsi levare la vita, che consentire alle investiture. È un bel fare il bravo lungi dalle battaglie. Se que' zelanti cardinali si fossero trovati per due mesi nelle angustie del papa, e col coltello alla gola, come egli fu, e nel pericolo di veder sacrificati al furore tedesco i porporati prigioni e tanti altri Romani non so se avessero praticato eglino ciò che ora esigevano dal papa. Non potendo reggere a sì fatti insulti il buon pontefice, uscì di Roma e si ritirò a Terracina: nel qual tempo i cardinali con solenne decreto condannarono l'accordo da lui fatto, e diedero un grande esercizio alla pazienza ed umiltà di [534] lui, quasichè qui si trattasse di un punto di fede, e non già di disciplina ecclesiastica, la quale benchè certo patisse nella maniera tenuta allora di dar tali investiture, pure, dacchè se ne voleva esclusa la simonia, si potea in qualche guisa tollerare, Goffredo da Viterbo [Goffrid. Viterbiensis, in Chron.], Sugerio abbate [Suger., in Vit. Lodovici Gross.] ed Idelberto [Hildelb., in Epistol.] ci fan conoscere che il buon pontefice depose il manto, si ritirò in una solitudine, e volea rinunziare il papato; ma fu richiamato a Roma da tutti i buoni e saggi.

Per la Toscana calò in Lombardia Arrigo quinto fra i re, quarto fra gl'imperadori, e gran voglia nutrendo di conoscere di vista la celebre contessa Matilda sua parente [Donizo, in Vit. Mathild., lib. 2.], giacchè ella non si sentiva voglia d'ire a trovar lui, determinò egli di andare a lei. Dimorava allora la contessa Matilda nella fortezza di Bibianello, ossia Bianello, sul Reggiano. Colà nel dì 6 di maggio fu a visitarla, magnificamente accolto, e per tre dì seco si fermò. Sapeva Matilda fra molte altre lingue anche la tedesca, e però sempre senza interprete teneva i suoi ragionamenti con lui. Talmente restò Arrigo invaghito della prudenza ed onoratezza di questa insigne eroina, che non solamente le confermò i precedenti patti, ma la dichiarò ancora sua vicegerente, ossia viceregina in Lombardia:

Cui liguris regni regimen dedit in vice regis,

Nomine quam matris verbis claris vocitavit.

Passò dipoi Arrigo a Verona, dove si riposò per qualche tempo, e ne resta anche una memoria nel diploma da me pubblicato [Antiquit. Italic., Dissert. XI.], con cui conferma ai canonici di Cremona i lor privilegii. Esso è dato XIV kalendas junii, Indictione IV, anno dominicae Incarnationis MCXI, regnante Henrico V rege Romanorum anno V, [535] imperante primo, ordinationis ejus XI. Actum Veronae. Un altro parimente ne diede egli XII kalendas junii in quella città in favore di Alberico abbate del monistero di Polirone [Bacchini, Istor. di Poliron. nell'Append.]. In questa occasione può essere che succedesse ciò che narra il Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.]. Bolliva da gran tempo discordia fra i Veneziani e Padovani a cagion de' confini. Collegati i Padovani co' popoli di Trivigi e Ravenna, vennero nel dì 4 di ottobre dell'anno precedente alle mani coll'esercito veneto, e rimasero sconfitti, con restarvi cinquecento e sette d'essi prigioni. Ora giunto che fu a Verona l'imperadore, portarono a lui i Padovani le loro doglianze, siccome al sovrano del regno d'Italia. Ad istanza di esso Augusto, comparvero in quella città gli ambasciatori veneti, e si mise fine alla discordia, coll'essersi aggiustati i confini, liberati i prigioni, e rinnovati i patti d'amicizia fra Venezia dall'un canto, e i Padovani e gli altri sudditi dell'italico regno dall'altro. Ito poscia l'imperadore in Germania, quivi fece dar solenne sepoltura alle ossa del padre. Terminò i suoi giorni nel febbraio di questo anno [Romualdus Salern., in Chron. Falco Benevent., in Chron. Anonymus Barens., apud Peregrin.] Ruggieri duca di Puglia, con lasciare suo successore e duca Guglielmo suo figliuolo. Per questa cagione i Normanni della Puglia niun soccorso poterono prestare al romano pontefice ne' di lui bisogni, ed attesero unicamente a premunirsi in casa, per timore che il nuovo imperadore potesse far qualche tentativo contra di quegli Stati. Preparavasi in Italia Boamondo fratello di esso Ruggieri, e principe di Antiochia e di Taranto, per ripassare in Oriente [Albert. Aquens., lib. 11, cap. 48. Petrus Diaconus, Chron. Casinens. et alii.], quando venne a trovare anche lui la morte nel marzo seguente. Fu seppellito in Canossa. Restò gran fama e un piccolo figliuolo di lui, per nome anche esso Boamondo, erede de' suoi Stati. Appena fu fuori d'Italia, seppur ne [536] era anche uscito l'imperadore [Landulfus junior, Hist. Mediolan., cap. 18.], che i Milanesi, dopo avere per quattro anni o con assedio, o con blocco, o con devastar le campagne, stretta e malmenata la città di Lodi, finalmente nel giugno dell'anno presente per forza se ne impadronirono; e lasciata in tal occasione la briglia all'odio e sdegno loro, la spogliarono delle mura, incendiarono le case, ed imposero leggi severe di servitù a quel popolo, dianzi troppo vicino a sì potente città. Ne restano appena le vestigia nel luogo appellato Lodi vecchio, e diverso dal sito in cui ora è Lodi nuovo [Gualv. Flamma, Manipul. Flor., cap. 163.]. Fu quel popolo compartito in sei borghi, e in tale stato durò il suo abbassamento sino ai tempi di Federigo I imperadore.


   
Anno di Cristo MCXII. Indizione V.
Pasquale II papa 14.
Arrigo V re 7, imperad. 2.

Dacchè fu posto in libertà papa Pasquale II, e sentì tante doglianze del sacro suo senato per la concession delle investiture, mai non negò, anzi sempre riconobbe d'aver dato l'assenso a cosa illecita, ed operato ciò che non dovea. Solamente scusava il fatto coll'intenzione avuta di sottrarre ai pericoli della vita tante persone, e a maggior danno il popolo di Roma e lo stato della Chiesa. Ora in questo anno fu per così scabrosa materia raunato un insigne concilio [Labbe, Concil., tom. 10. Baron., in Annal. Ecclesiast.] di cento venticinque vescovi a dì 18 di marzo nella basilica lateranense. Tutti i prelati esclamarono contro delle investiture ecclesiastiche date da mano laica, come usurpazione dei diritti della Chiesa e seminario di simonie. Il punto difficile era, come il pontefice potesse venire contra del proprio solenne giuramento. Si trovò il ripiego da Gerardo vescovo d'Engulemme, cioè che si ritrattasse bensì e condannasse il privilegio accordato [537] dal papa ad Arrigo, e chiamato pravilegium, e non privilegium; ma che non si scomunicasse la persona d'esso imperadore. Così fu fatto. Tenuto ancora fu in quest'anno nel mese di settembre un concilio in Vienna del Delfinato, e quivi non solamente seguì la condanna delle suddette investiture, ma eziandio fulminarono que' vescovi scomunica contra dell'Augusto Arrigo, chiamato da essi tiranno. Abbiamo da Landolfo da san Paolo [Landulfus junior, Hist. Mediol., cap. 21.], che nel primo dì dell'anno presente il clero della metropolitana di Milano, nonostante che sapesse favorevole a Grossolano arcivescovo il romano pontefice, pure il dichiararono decaduto da quella sedia, e in luogo suo elessero arcivescovo Giordano da Clivi, uomo per altro ignorante e di non molta levatura. Chiamarono dipoi tre suffraganei di quella metropoli per ordinarlo, cioè Landolfo vescovo d'Asti, Arialdo vescovo di Genova e Mamardo, ossia Mainardo, vescovo di Torino. Vennero questi, ma quel d'Asti accortosi che non erano concorsi gli altri suffraganei, e bollire non poca mormorazione nel popolo, tentò di fuggire. Gli veniva fatto, se le genti di Giordano non l'avessero ritenuto per forza, con anche ferire un suo diacono, e bastonare i di lui famigli. Infine Giordano fu da essi consecrato. Portossi poco appresso a Roma Mamardo vescovo di Torino, ed ottenne dal papa il pallio per questo novello arcivescovo, senza che s'intenda come esso pontefice abbandonasse Grossolano, già approvato per legittimo arcivescovo. Ma perchè Mamardo aveva ordine di non dare il pallio a Giordano, s'egli prima non faceva giuramento, non si sa se di fedeltà al romano pontefice, o di non prendere l'investiture dall'imperadore, o di qualche altra obbligazione, e Giordano ricusò di farlo; per sei mesi ne stette senza. Ho detto che per l'esaltazione di Giordano incorse gran mormorazione fra il popolo di Milano. Aggiugne [538] Landolfo, che vi fu ancora delle contese e battaglie, nelle quali ebbero parte Azzo vescovo d'Acqui e Arderico vescovo di Lodi. Infatti fra le lettere raccolte da Ulderico da Bamberga presso l'Eccardo [Eccard., Scriptor. med. aevi, tom. 2, p. 266.], una se ne legge scritta in tal occasione dal medesimo Azzo vescovo all'imperadore Arrigo, in cui l'avvisa doversi tenere in Roma un sinodo (cioè il lateranense suddetto) in qua asseritur, domnum papam P. (Paschalem) deponi et alterum debere eligi, qui omne consilium pacis, quod cum domno P. firmastis dissolvat, pro eo quod domnus P. non audet vos propter factas inter vos et ipsum securitates excommunicare. Ecco quali nuove corressero allora. Appresso aggiugne che i Milanesi aveano eletto un altro arcivescovo (cioè Giordano), e fattolo consecrar da alcuni suffraganei. Quod ego videns contra imperii vestri honorem fieri, omnino interdixi; et licet ab ipsis multum rogatus, hujusmodi consecrationi interesse, nec assensum praebere volui, immo dedi operam erigendi magnum parietem populi contra populum sub occasione alterius archiepiscopi, quem pars illorum intendit deponere, viri scilicet literatissimi, et ingenio astutissimi, et eloquentissimi, curiae vestrae valde necessarii, cujus partem propter honorem vestrum in tantum auxi, quod medietas populi contra medietatem populi contendit. Parla qui di Grossolano, a cui procura la protezion dell'imperadore, con insieme consigliarlo di venir presto in Italia, e che a ciò non occorreva un grande esercito. Vestra est enim adhuc Langobardia, dum terror, quem ei incussistis, in corde ejus vivit. Forse perchè Grossolano fu in Roma creduto parziale dell'imperadore, o protetto da lui, restò abbandonato, e si lasciò correre l'elezion di Giordano.

Io non so se nell'antecedente o nel presente anno fosse scritta da papa Pasquale un'altra lettera allo stesso imperadore Arrigo, in cui gli notifica di non [539] aver potuto finora riaver varii Stati spettanti alla Chiesa romana [Eccard., Scriptor. med. aevi, tom. 2, p. 274.]. Licet quidam, dice egli, jussioni vestrae, in his quae beato Petro restitui praecepistis, adhuc noluerunt obedire, incolae videlicet Civitatis Castellanae, Castri Corcolli, Montisalti, Montisacuti et Narnienses: Nos tamen ea, et Comitatus Perusinum, Eugubbinum, Tudertinum, Urbevetum, Balneum Regis, Castellum Felicitatis, Ducatum Spoletanum, Marchiam Ferraniam, et alias beati Petri possessiones per mandati vestri praeceptionem confidimus obtinere. Notisi che il ducato di Spoleti è chiaramente detto di ragione della Chiesa romana. Nomina il papa anche Marchiam Ferraniam, ma si dee scrivere Firmanam, allora occupata da Guarnieri, non osando io leggere Marchiam Ferrariam, perchè Ferrara in questi tempi era in potere della contessa Matilda, che la riconosceva dalla Sedia apostolica. Alessio imperadore d'Oriente, per quanto si ha da Pietro Diacono [Petrus Diacon., Chron. Casinens., lib. 4, cap. 46.], avuta notizia dell'indegno trattamento fatto dall'imperadore Arrigo al romano pontefice, spedì ambasciatori a Roma per condolersi con lui, e congratularsi coi Romani dell'opposizione fatta ad esso Arrigo. E sperando egli di profittare di così bella occasione, propose che volessero eleggere imperadore Giovanni Comneno suo figliuolo. Può anche essere che corressero dei regali. Acconsentirono i Romani al trattato, ed elette circa seicento persone, le spedirono a Costantinopoli per condurre in Italia il progettato Augusto. Non è punto credibile che tanta gente fosse spedita colà. E perciocchè non apparisce altro dell'esecuzion di questo disegno, bisogna immaginare ch'esso poco stesse ad andarsene in fascio, perchè non s'arrischiarono i Romani di condurre a fine un negozialo di tanta importanza, che potea tirar loro addosso lo sdegno e le forze di tutta la Germania. [540] Nel dì 13 d'aprile di quest'anno, la contessa Matilda, dimorando nel castello di Massa del distretto di Modena, fece una donazione al suo diletto monistero di san Benedetto di Polirone [Bacchini, Istor. di Poliron. nell'Append.]. E nel dì 8 di maggio trovandosi al Bondeno de' Roncori, fece donazione della corte Vilzacara col castello, broglio e borgo di san Cesario alla chiesa di san Cesario del contado di Modena. In quest'anno ancora, secondo i conti del Campi [Campi, Istor. di Piacenza, tom. 1.] e d'altri storici piacentini, per opera specialmente della suddetta zelantissima contessa furono cacciate le monache dall'insigne monistero di san Sisto di Piacenza, perchè la lor dissolutezza era giunta ad esser incorreggibile. In vece di esse presero i monaci benedettini il governo di quel sacro luogo, cavati dall'allora esemplarissimo monistero di Polirone.


   
Anno di Cristo MCXIII. Indizione VI.
Pasquale II papa 15.
Arrigo V re 8, imperad. 5.

Impariamo da Falcone Beneventano [Falco Beneventan., Chron., tom. 5 Rer. Ital.] che essendosi nell'anno precedente fabbricate varie congiure in Benevento per levare quella città di sotto il dominio pontificio, avvertitone papa Pasquale da que' cittadini ch'erano costanti nella fedeltà, si portò colà nel dì 2 di dicembre per rimediare ai disordini. Fermossi in quella città nel tempo del verno, e correndo il mese di febbraio, celebrò ivi un concilio. Poscia, dopo avere scoperti gli autori di quelle trame, e datigli in mano della giustizia, lasciato in quella città per governatore e contestabile Landolfo della Greca, uom di gran coraggio e prudenza, se ne tornò a Roma. Trovavasi affatto sprovveduto di danari Baldovino re di Gerusalemme, e però gli mancava il miglior nerbo per resistere a tanti nemici infedeli che all'intorno [541] gli facevano guerra [Guillelmus Tyr., lib. 11, cap. 21. Ordericus Vital., Hist. Eccles. Bernardus Thesaur., cap. 100, tom. 7 Rer. Ital.]. Ebbe sentore che Adelaide contessa di Sicilia, vedova del defunto conte Ruggieri, e madre del piccolo Ruggieri, succeduto a Simone suo fratello nel dominio di quella isola, era principessa a proposito per sovvenire alle di lui indigenze; perchè fama correva ch'essa nel tempo della tutela del figliuolo avesse accumulato grossissime somme d'oro. Però spedì ambasciatori in Sicilia per trattare d'averla in moglie. Poco vi volle a far gustare questa proposizione all'ambiziosa principessa; ma affinchè il figliuolo Ruggieri e i suoi cortigiani non attraversassero a lei il conseguimento della corona, fu proposto e conchiuso, che nascendo figliuoli da Baldovino e Adelaide, succedessero nel regno di Gerusalemme. Ma venendo egli a mancar senza prole, quel regno si devolvesse al figliastro Ruggieri. Portò seco Adelaide una prodigiosa quantità di viveri, d'armi, di cavalli, e, quel che più si sospirava, di denaro; e giunta a Tolemaide, fu con grande solennità sposata. Ma non passarono due anni che Adelaide si trovò delusa e tradita dal re consorte. Egli avea tuttavia vivente un'altra moglie, presa prima di essere re [Idem Bernardus, cap. 92.]. Sotto varii pretesti ripudiatala, senza che v'intervenisse alcun giudizio della Chiesa, l'avea forzata ad entrare nel monistero di sant'Anna di Gerusalemme. Fece poi cattivo fine questa donna, per attestato di Bernardo tesoriere, perchè ottenuta licenza di andarsene a visitare i parenti in Costantinopoli, quivi s'abbandonò ad una vita disonesta. Ora gravemente un dì infermatosi Baldovino, e rimordendolo la coscienza dell'ingiuria fatta alla legittima moglie, per consiglio de' baroni, fece voto, se guariva, di ripigliarla. Indi rivelò tutto ad Adelaide, con intimarle il divorzio. S'ella, trovandosi così barbaramente ingannata, prorompesse [542] in pianti ed in amare invettive contra del re e degli ambasciatori predetti, è facile l'immaginarlo. Non tardò molto essa per lo dispetto a tornarsene in Sicilia, ma priva di que' tesori che portò a Gerusalemme, ed accorata per questo tradimento si crede che terminasse la sua vita nell'anno 1118. Una sì nera azione recò non poco nocumento alla riputazione del re Baldovino e agli affari di Terra Santa. Fra gli altri il conte Ruggieri figliuolo di essa Adelaide con tutta la corte de' Siciliani, al vedersi così burlato, concepì tale sdegno contra di Baldovino e de i re di Gerusalemme, che, per attestato di Guglielmo Tirio [Guillelmus Tyr., Hist. Hierosolym.], solo fra' principi cristiani mai non diede loro soccorso alcuno, nè curò lo stato miserabile, in cui a poco a poco si ridussero le cose dei Cristiani in Palestina e in Soria. La città di Cremona, siccome scrisse Siccardo [Sicard., in Chron. tom. 7 Rer. Ital.], da lì a cent'anni vescovo della medesima, patì in questo anno un fierissimo incendio nel dì di san Lorenzo. Abbiamo strumenti di donazioni fatte al monistero di Polirone dalla contessa Matilda, mentre essa dimorava in Pigognaga e nel Bondeno, vicino al Po [Bacchini, Istor. di Poliron. nell'Append.]. Era ito in Terra Santa Grossolano arcivescovo, di Milano. Tornato in Italia, e inteso come Giordano avea occupata la sua chiesa, eletto già e consecrato arcivescovo determinò di venire a Milano: il che fu cagione che esso Giordano informato di questo prendesse il pallio colle condizioni proposte dal papa [Landulf. junior, Hist. Mediolan., cap. 26.]. Venuto poi Grossolano a Milano, coll'aiuto de' suoi parziali s'impadronì delle torri di Porta Romana. Allora prese l'armi la fazion di Giordano, e andò per iscacciarlo. Succederono fra le due parti dei combattimenti, ne' quali restarono non pochi feriti e morti, non solamente della plebe, ma anche della nobiltà. S'interposero pacieri, e proposero di rimettere la decision [543] di tale discordia al concilio davanti al papa. E perchè la borsa di Grossolano restò in breve esausta, gli convenne sloggiare, con fama nondimeno che ricavasse buona somma di danaro da Giordano per ritirarsi. Venne egli perciò a Piacenza, e di là a Roma, per trattar della sua causa nel tribunal pontificio. Diede fine alla sua vita nel dì 6 di gennaio dell'anno presente nel monistero di Pontidio sul Bergamasco Liprando prete, quel medesimo che col giudizio del fuoco avea negli anni addietro fatta guerra ad esso Grossolano, come ad arcivescovo simoniaco [Landulf. junior, Hist. Mediolan., cap. 24.]. Morì in concetto di santità (il che era facile allora), e fu detto ch'erano succeduti miracoli alla sua tomba.


   
Anno di Cristo MCXIV. Indizione VII.
Pasquale II papa 16.
Arrigo V re 9, imperad. 4.

Avea, come dissi poc'anzi, lasciato papa Pasquale per suo contestabile e governatore di Benevento Landolfo della Greca [Falco Beneventan., in Chron.]. Contra di lui per invidia Roberto principe di Capoa, ed altri baroni normanni fecero una congiura, e nell'agosto precedente si portarono con poderosa armata all'assedio di quella città. Con poca fortuna nondimeno, perchè il valoroso Landolfo, fatta co' Beneventani una sortita, li mise in fuga, e poco mancò che non prendesse tutto il loro bagaglio. Durò nondimeno la guerra col guasto delle campagne di Benevento; e crebbero poscia i malanni, perchè lo stesso arcivescovo di quella città Landolfo si dichiarò contra del medesimo contestabile, e trasse dalla sua la maggior parte del popolo, di maniera che in fine astrinsero esso contestabile a deporre la carica. Per questa e per altre cagioni papa Pasquale II nell'ottobre tenne un concilio in Ceperano ai confini del ducato romano, o della Puglia, dove concorsero Guglielmo duca di Puglia e Roberto principe di Capoa [544] con circa mille cavalli. Quivi il papa diede l'investitura della Puglia, Calabria e Sicilia al duca Guglielmo. Falcone così scrive, e da ciò si può ricavare che i duchi della Puglia ritenessero diritto d'alto dominio sopra la Sicilia, sovranità nondimeno sottoposta ad un maggiore sovrano, cioè al romano pontefice. Quivi ancora essendo forte il papa in collera contra dell'arcivescovo Landolfo, istituì il giudizio intorno alle accuse dategli, e il depose. Ma egli col tempo, e, se vogliam credere a Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernitan., Chron., tom. 7 Rer. Ital.], coll'uso di molti regali, fu restituito nella sua dignità. Di questi regali non parla Falcone. Da Romoaldo è riferito il suddetto concilio all'anno seguente; ma Falcone, storico contemporaneo, merita maggior fede. Glorioso riuscì quest'anno alle armi cristiane per la guerra felicemente fatta ai Mori padroni dell'isole Baleari. L'onore specialmente ne è attribuito ai Pisani. I Mori, dissi, abitanti in quelle isole, cioè in Evizza, Maiorica e Minorica, colle lor piraterie tenevano inquieta e danneggiata tutta la costa di Italia [Annales Pisani, tom. 6 Rer. Ital.]. Risoluti i Pisani di far quella impresa, ebbero ricorso al buon papa Pasquale per ottenerne la sua approvazione e benedizione. Poscia disposto un terribile armamento per mare, con tutte le lor forze, accompagnati da Bosone cardinale legato della santa Sede e da Pietro loro arcivescovo, marciarono alla volta di que' Barbari. Questa guerra è diffusamente narrata in un poema da Lorenzo Veronese, o da Verna [Laurent. Veronens., lib. 1 Poem., tom. 6 Rer. Ital.], diacono del medesimo arcivescovo, ed autore di vista. Fu esso poema pubblicato dall'Ughelli, e da me ristampato altrove. Riuscì a questa armata nell'anno presente di conquistar l'isola d'Evizza, e di prendere nel dì di san Lorenzo la città d'essa isola, posta in sito vantaggioso. Ne distrussero [545] i Pisani le mura e il cassaro, cioè la rocca, e seco condussero prigione il governatore saraceno. Passarono poi l'armi vittoriose all'isola di Maiorica, e vi fecero lo sbarco nella festa di san Bartolommeo, con intraprendere l'assedio di quella città. In aiuto de' Pisani concorsero Raimondo conte di Barcellona ed altri conti di Catalogna, di Provenza e Linguadoca.

Nell'anno presente ancora l'imperadore Arrigo V celebrò in Magonza le sue nozze con una figliuola d'Arrigo re d'Inghilterra appellata Matilda [Abbas Urspergensis, in Chron. Simeon Hunelmensis.]. In quella solennità si presentò davanti ad esso Augusto coi piè nudi Lottario duca di Sassonia, che fu poi imperadore, per chiedere perdono dell'essersi dianzi ribellato. Così scrive Ottone Frisingense [Otto Frising., in Chron.]: il che come sussista non so; perchè nell'anno seguente altre storie cel rappresentano coll'armi in mano contra del medesimo Augusto. Erasi, come vedemmo, nell'anno 1090 ribellata la città di Mantova alla contessa Matilda, nè a lei fin qui era venuto fatto di poterla ricuperare [Donizo, in Vita Mathild., lib. 2, cap. 19.]. Questa contentezza fu a lei riserbata per l'anno corrente. Cadde essa gravemente inferma, mentre dimorava a Monte Baranzone sulle montagne di Modena, nel qual luogo si vede una donazione da lei fatta a san Benedetto di Polirone nel dì 14 di giugno [Bacchini, Istor. di Polirone.]. La fama, solita ad ingrandir le cose, in breve la diede per morta. Allora il popolo di Mantova, siccome libero dal timore d'essa, fece uno sforzo, e mise l'assedio a Ripalta castello della medesima contessa, e tanto lo strinse, che i difensori stanchi capitolarono la resa, ma condizionata, se fosse viva la lor padrona Matilda. Manfredi vescovo di Mantova intanto arrivò alla sua città, e divolgò che Matilda era tuttavia vivente. Gli ebbe a costar la vita un sì dispiacevol [546] avviso per l'infuriato popolo che la desiderava morta. Nè molto stettero i Mantovani che diedero al fuoco l'infelice castello di Ripalta. Questa disgrazia fu per tutto il tempo della malattia di Matilda a lei tenuta nascosa dai suoi. Ma dacchè si fu riavuta, intesone il tenore, pensò a farne vendetta. Raunò quanti combattenti potè, formò eziandio una flotta di navi, e con questo armamento passò all'assedio di Mantova. Sulle prime se ne rise quella forte città; ma scorgendo la risoluta contessa di trarre a fin quell'impresa, que' cittadini s'appigliarono a' consigli di pace; e spediti ambasciatori alla stessa, mentre era in Bondeno, trattarono di rendersi ad onesti patti. Seguì infatti la resa di quella città sul fine di ottobre con gloria grande di Matilda, a cui, dopo aver messa al dovere ne' tempi addietro anche la marca, creduta da me quella di Toscana, nulla restò più delle perdute antiche sue giurisdizioni che non ritornasse alle sue mani. Nel dì 8 di novembre di quest'anno la medesima contessa, essendo nel monistero di san Benedetto di Polirone [Bacchini, Istor. di Polirone.], esentò dalle albergarie de' soldati tutti i beni di que' monaci. Ho anch'io dato alla luce un laudo proferito alla di lei presenza per lite di persone private [Antiquit. Italic., Dissert. XXXI.], mentre la medesima soggiornava nella rocca di Carpineta nel dì 22 d'aprile dell'anno presente.


   
Anno di Cristo MCXV. Indizione VIII.
Pasquale II papa 17.
Arrigo V re 10, imperad. 5.

Per attestato di Falcone Beneventano [Falco Benevent., tom. 5 Rer. Ital.], si portò in quest'anno papa Pasquale II alla città di Troia in Puglia, e quivi nel dì 24 d'agosto tenne un concilio coll'intervento di quasi tutti gli arcivescovi, vescovi e baroni di quelle contrade. Vi fu accettata da tutti la tregua di Dio. Andato poscia a Benevento, dedicò [547] la chiesa di san Vincenzo del Volturno, e finalmente nel dì 30 di settembre se ne tornò a Roma. L'anno fu questo in cui la celebre contessa Matilda terminò il corso di sua vita [Donizo, in Vita Mathild., lib. 2, cap. 20.]. Trovandosi ella in Bondeno de' Roncori della diocesi di Reggio, l'assalì una fastidiosa infermità sul principio di quest'anno, in occasione di una visita fattale da Ponzio, superbo abbate di Clugnì, che tornava da Roma. Continuò il suo malore per alcuni mesi ancora: nel qual tempo ella esercitò più che mai la sua pia liberalità verso i monisteri di Polirone [Bacchini, Istor. di Polirone.] e di Canossa, e verso i canonici regolari di san Cesario sul Modenese. Era assistita da Bonsignore vescovo di Reggio. Passò in fine a miglior vita questa principessa, gloriosa per tante azioni di pietà, di valore e di prudenza, nel dì 24 di luglio, cioè nella vigilia di san Jacopo, di cui era divotissima, e il corpo suo seppellito nella chiesa del monistero di san Benedetto di Polirone, quivi riposò, finchè nell'anno 1655 per cura ed ordine di papa Urbano VIII trasportato a Roma, fu magnificamente collocato nella basilica vaticana in memoria dell'insigne sua beneficenza verso la Chiesa romana. Aveva ella negli anni addietro, siccome dicemmo, lasciata erede di tutti i suoi beni essa Chiesa: eredità nondimeno che fu seminario di nuove lite fra i romani pontefici e gl'imperadori; e per assaissimi anni poi la troviamo tra essi disputata, finchè il tempo, medico di molte malattie politiche, diede fine a quella contesa. Nè tardò a volare in Germania la nuova della morte di questa insigne principessa, di cui scrive l'Urspergense [Abbas Urspergensis, in Chron.]: Qua foemina sicut nemo nostris in temporibus ditior ac famosior, ita nemo virtutibus et religione sub laica professione reperitur insignior. Arrigo imperadore fu da' suoi ministri mosso, ed anche dai parziali d'Italia con lettere invitato a venire a prendere il possesso di [548] tutti i di lei beni. Per quali titoli, non si vede ben chiaro. Finch'egli pretendesse i regali e feudali, come fu la marca della Toscana, Mantova ed altre città, se ne intende il perchè. Ma egli pretese ancora gli allodiali e patrimoniali, e ne entrò anche in possesso, per quanto si vedrà. Probabilmente non dovette in tal congiuntura tacere la linea degli Estensi di Germania, cioè di Guelfo V ed Arrigo il Nero duchi di Baviera, perchè, secondo i patti del matrimonio d'esso Guelfo colla medesima contessa, al primo doveano pervenire tutti i di lei beni. Certo è che sotto l'imperador Federigo I, come si dirà a suo luogo, fu loro fatta giustizia in questo particolare. Ora l'imperadore Arrigo, a cui stava forte a cuore il cogliere questa pingue eredità, si dispose a calare, subito che gli affari gliel permetteano, in Italia. Continuò ed ebbe fine in quest'anno la guerra de' Pisani contra delle isole Baleari [Annales Pisani, tom. 6 Rer. Ital.]. Riuscì loro dopo lunghe fatiche e combattimenti, e colla strage di moltissime migliaia di Saraceni, di prendere la città di Maiorica, e di distruggerla, per togliere quel nido ai corsari africani. Pieni poi delle spoglie di quegl'infedeli, e colmi di gloria se ne tornarono alla lor patria. Se anche l'isola e città di Minorica restasse da loro soggiogata e disfatta, nol so io dire di certo. Gli Annali Pisani dicono di sì. Ben so io che Evizza non è Minorica, come si figurò il Tronci [Tronci, Annal. Pisani.] ne' suoi Annali di Pisa. Di sopra all'anno 1097 osservammo che Folco marchese, figliuolo di Azzo II marchese, fu quegli che propagò la linea italiana dei marchesi d'Este. Leggonsi tre atti a lui e all'anno presente spettanti [Antichità Estensi, P. I, cap. 32.]. Il primo è un placito da lui tenuto nella grossa terra di Montagnana (appellata populosa da Rolandino) nel dì 31 di maggio, in cui veggiamo proferita dal medesimo principe una sentenza in favore del nobilissimo monistero delle monache di san Zacheria [549] di Venezia per beni posti nell'altra insigne terra di Monselice: dal che comprendiamo ch'esso marchese Folco dominava nell'una e nell'altra d'esse terre. Il secondo strumento, stipulato in Montagnana nel dì 10 di giugno di quest'anno, contiene una donazione fatta da esso marchese Folco al monistero di Polirone pro ordinatione testamenti Garsendae genitricis meae, cioè di Garsenda principessa del Maine sua madre, di cui più volte si è parlato di sopra. Un'altra donazione, da lui fatta al monistero della Trinità di Verona nel dì 2 di ottobre dell'anno presente, fu stipulata in Caminata constructa ante ecclesiam beatissimae sanctae Teclae virginis sita in villa, quae est ante castrum Esti. Lo stesso marchese s'intitola habitator in loco, qui dicitur Esti. Non usavano per anche questi principi il titolo di marchesi d'Este, ma erano padroni d'Este, o, per dir meglio, compadroni; perchè vedremo che anche l'altra linea estense dei duchi di Baviera riteneva una terza parte del dominio di quella nobil terra e di Rovigo, e dell'altre sottoposte allora ad essi marchesi. Nell'anno presente Ordelafo Faledro doge di Venezia [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] con grossa armata navale ricuperò la città di Zara, che pochi anni prima gli era stata tolta da Calomanno re d'Ungheria.


   
Anno di Cristo MCXVI. Indizione IX.
Pasquale II papa 18.
Arrigo V re 11, imperad. 6.

Nel dì 6 di marzo di quest'anno tenne papa Pasquale un concilio nella basilica lateranense [Abbas Urspergensis, in Chron. Labbe, Concilior., tom. 10.], in cui di nuovo riprovò e condannò il privilegio delle investiture da lui contra sua voglia accordato all'imperadore Arrigo. Ma ebbe in tal occasione bisogno della sua pazienza; perchè Brunone vescovo di Segna, tenuto dopo la morte per santo, ebbe ardire di trattar da eretico lo stesso papa, per avere [550] accordato quell'indulto. Gli convenne ancora sofferire che que' vescovi riguardassero come scomunicato esso imperadore senza che egli nondimeno volesse lasciar uscire decreto contra della di lui persona. Fu anche agitata in quel concilio la lite dell'arcivescovato di Milano, pendente fra Grossolano e Giordano, amendue presenti al suddetto concilio. Perchè il primo era passato dalla chiesa di Savona a quella di Milano, e si trovava che tal traslazione, siccome cagion di tumulti e guerre, tornava in danno dell'anime e dei corpi; perciò fu essa riprovata e giudicato in favor di Giordano. Dianzi era stato assoluto Grossolano dalle accuse di simonia, e tenuto fu in Roma per legittimo arcivescovo. Gran concetto si avea della di lui dottrina, avendolo lo stesso papa adoperato per confutare lo scisma de' Greci. Come egli ora cadesse, non se ne sa la vera cagione, perchè il passare da una chiesa all'altra da gran tempo era in uso, nè più si badava agli antichi canoni che lo proibivano. Forse la caduta sua è da attribuire all'essere stato conosciuto uomo intrigante, capriccioso e predominato dall'ambizione, e però poco prudente e molto inquieto. Landolfo da san Paolo [Landulfus junior, Hist. Med., cap. 29.], storico contemporaneo, parla di questo concilio, e della deposizion di Grossolano, con aggiugnere che egli non volle tornare a Savona, ma per un anno e quattro mesi seguitò a dimorare in Roma in san Sabba, monistero de' Greci, dove terminò i suoi giorni nell'anno seguente. Tornò a Milano il vittorioso arcivescovo Giordano, e un dì raunato il clero e popolo, salito con Giovanni da Crema cardinale romano sul pulpito della metropolitana, pubblicamente scomunicò l'imperadore Arrigo, a cagion, senza dubbio, dell'aver fatto prigione il papa, ed estorto il privilegio delle investiture. Con questo segreto patto dovea egli aver conseguita la vittoria suddetta. Non volea già il pontefice fulminar le censure contra di esso Augusto, ma non ostava che gli altri [551] le fulminassero, e il sacro collegio lo esigeva. Abbiamo dall'Abbate Urspergense che il suddetto imperadore verso il fine di febbraio [Abbas Urspergensis, in Chron.] in Italiam se una cum regina, totaque domo sua contulit, ac circa Padum negotiis insistens regni, legatos ad Apostolicum pro componendis caussis, quae iterum regnum et sacerdotium disturbare coeperunt, suppliciter destinavit. Ponzio abbate di Clugnì, come parente del papa, fu principalmente adoperato in questo maneggio. Portossi in tal congiuntura esso Arrigo a visitar la maravigliosa città di Venezia. Ciò chiaramente apparisce da un suo proclama, da me dato alla luce [Antichità Estensi, P. I, cap. 29.], con cui egli IV idus marcii in regno Veneciarum (si noti questa espressione gloriosa per la repubblica veneta) in palatio ducis, anno ab Incarnatione Domini MCXVI, Indictione VIIII, diede varii ordini in favor delle monache di san Zacheria di Venezia, essendovi presenti Ordelaffus Dei gratia Venetiae dux, et Henricus Welphonis ducis frater, con alcuni vescovi e nobili. Vien confermata la stessa verità dall'accuratissimo Andrea Dandolo, che così scrive [Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Ital.]: Mense marcii MCXVI Henricus V imperator Venetias accedens, in ducali palatio hospitatus est, liminaque beati Marci, et alia sanctorum loca cum devotione maxima visitat, et urbis situm, aedificiorumque decorem, et regiminis aequitatem multipliciter commendavit. Curiam etiam suorum principum tenens, pluribus monasteriis immunitatum privilegia de suis possessionibus italici regni concessit, in quibus ducalem provinciam regnum appellat. Per un documento da me pubblicato [Antiquit. Ital., Dissert. XI.] si conosce che il medesimo Augusto nel dì 12 di maggio si trovava in Governolo sul Mantovano, dove come persona privata fece donazione di beni al monistero di Polirone, e alla chiesa di Gonzaga pro mercede et remedio animae meae et comitissae Mathildis. Segno [552] è questo che Arrigo s'era messo in possesso della vasta eredità della contessa Matilda. A quell'atto intervenne anche Guarnieri giudice, che noi diciamo ora dottor di legge. In un placito tenuto a dì 6 del suddetto mese di maggio [Antiquit. Ital., Dissert. XLIII.] da esso Augusto nel medesimo luogo di Governolo, e in un altro [Ibidem, Dissert. XXXI.] spettante a' canonici regolari di Melara, si vede nominato Warnerius bononiensis. Con tali documenti ho io confermato [Ibidem, Dissert. XLIV.] quanto scrive l'Abbate Urspergense all'anno 1126; cioè [Abbas Urspergensis, in Chron.]: Eisdem temporibus dominus Wernerius libros legum, qui dudum neglecti fuerant, nec quisquam in eis studuerat, ad petitionem Mathildis comitissae renovavit, ec. Credette il Sigonio che s'ingannasse l'Urspergense nell'attribuir questa gloria alla contessa Matilda, che era già defunta. Ma l'Urspergense, che aveva all'anno 1115 riferita la morte d'essa contessa, ben sapea ch'essa nell'anno 1126 non era in vita. Però volle dire che Guarnieri fioriva in questi tempi, ma che molto prima, ad istanza di Matilda, aveva intrapreso di spiegare i Digesti e l'altre leggi di Giustiniano trascurate ne' secoli addietro, e certamente conosciute prima che i Pisani portassero (se è pur vero) da Amalfi le Pandette appellate pisane, ed oggidì fiorentine. Ora certo è, confessandolo anche gli stessi dotti bolognesi, che questo Warnieri, ossia Guarnieri, chiamato da altri Irnerio, il primo fu che aprisse in Bologna scuola di giurisprudenza romana; e di qui ebbe il suo primo principio, siccome ho altrove osservato [Antiquit. Italic., Dissert. XLIV.], lo studio di Bologna, consistente a tutta prima in un solo lettor di leggi, ma di mano in mano accresciuto di lettori dell'altre scienze ed arti: per la qual diligenza si formò un'università, che portò poi il vanto di primaria fra tutte le italiane: giacchè oggidì si sa anche in Bologna essere [553] un'impostura del secolo susseguente il diploma di Teodosio minore, da cui si dice fondata fin dall'anno di Cristo 431 l'università bolognese.

Benchè patisca qualche difficoltà un altro documento da me prodotto [Antiq. Ital., Dissert. XI.], appartenente ad essa città di Bologna; pure vo io credendo sussistente notizia che quel popolo nel dì 7 di maggio del presente anno, mentre l'imperadore Arrigo dimorava in Governolo, ottenesse da lui la remission delle offese, e una conferma de' privilegii e delle consuetudini di quella città, la quale in questi tempi non men della Romagna riconosceva per suo sovrano l'imperadore ossia il re d'Italia. Dopo aver tenuto il concilio lateranense, papa Pasquale II nello stesso mese di marzo ebbe non poche inquietudini e travagli: se pure questo avvenimento non si dee riferire all'anno precedente [Pandulfus Pisanus, in Vita Paschalis II. Falco Beneventanus, in Chron.]. Mancò di vita il prefetto di Roma. Pietro di Leone faceva una gran figura allora in essa città, e da Benzone vescovo scismatico d'Alba vien chiamato Giudeo, perchè Ebreo fatto Cristiano. Orderico Vitale [Orderic. Vital., Hist. Eccles., lib. 12.] all'anno 1119 scrive che un figliuolo d'esso Pietro fu sprezzato da tutti propter odium patris ipsius, quem iniquissimum foeneratorem noverunt. Ora costui attese a far succedere in quella illustre carica un suo figliuolo coll'appoggio del papa. Ciò saputosi dai Romani, non perderono tempo ad eleggere prefetto un figliuolo del prefetto defunto, tuttochè di età non per anche atta ad un tal ministero, perchè fanciullo. Indi il presentarono al papa, acciocchè il confermasse: cosa che egli ricusò di fare, e si dee ben avvertire per conoscere intorno a questo l'autorità del sommo pontefice. Quindi si venne alle minaccie, e poscia alla guerra ne' giorni della settimana santa e di Pasqua fra le genti armate del papa ed esso popolo romano. Tolomeo, uno de' principali Romani, [554] e zio del giovinetto prefetto, benchè sulle prime prendesse la protezion del papa, e ne ottenesse perciò la Riccia, pure non istette molto a rivoltarsi contra di lui. E perchè dalle soldatesche pontificie fu fatto prigione esso nipote di Tolomeo fuori di Roma, lo stesso Tolomeo con un corpo d'armati andò a liberarlo dalle loro mani. Un tal fatto tirò dietro la ribellion di molte terre in quei contorni e della Marittima, e di quasi tutta Roma. Il buon papa, a cui non piaceva il comperarsi la quiete collo spargimento del sangue, amò meglio di ritirarsi fuor di Roma a Sezza. Durante questo contrasto, i Romani scaricarono il lor furore contro le case di Pietro Leone e de' suoi aderenti. Andò poscia a poco a poco calando questo fuoco, in guisa che, secondo Falcone Beneventano, il papa rientrò in Roma e nel palazzo del Laterano. I Romani ribelli a poco a poco tornarono alla di lui divozione ed ubbidienza.


   
Anno di Cristo MCXVII. Indizione X.
Pasquale II papa 19.
Arrigo V re 12, imperad. 7.

Funestissimo riuscì quest'anno all'Italia e Germania [Abbas Urspergensis, in Chron.]. Era tutta sossopra la Germania per le guerre civili che la laceravano, sostenendo alcuni principi il partito dell'imperadore, ed altri usando l'armi, e tutto dì fabbricando congiure contra di lui. Vi si fece anche sentire un terribil tremuoto, di cui simile non restava memoria. Ma questo vieppiù micidiale si provò in Italia. Per attestato dell'Annalista Sassone [Annalista Saxo, apud Eccardum.], Verona civitas Italiae nobilissima aedificiis concussis, multis quoque mortalibus obrutis corruit. Similiter in Parma, et Venetia, aliisque urbibus, oppidis, et castellis non pauca hominum millia interierunt. In Cremona, per attestato di Sicardo [Sicard., in Chron.], [555] cadde, fra gli altri edifizii, la cattedrale. Cominciò questo flagello sul principio dell'anno, e per quaranta giorni si andarono sentendo varie altre funestissime scosse per universam fere Italiam, come lasciò scritto Pietro Diacono [Petrus Diaconus, Chron. Casin., lib. 4, cap. 62.]. Landolfo da san Paolo [Landulfus junior, Histor. Mediol., cap. 36.] anch'egli parla di questo spaventevole tremuoto, qui regnum Longobardorum penitus commovit et quassavit, et me nimirum (ovvero nimium) vigilare fecit. Vidersi ancora nuvoli di color di fuoco e sangue vicini alla terra, e corse anche voce d'altri molti prodigii, prodotti forse piuttosto dall'apprensione, che realmente accaduti, i quali però sparsero il terrore dappertutto. Nel qual tempo Giordano arcivescovo di Milano tenne un concilio, al quale intervennero i suoi suffraganei coi consoli e magistrati di quella città. Ora il rumore di tante calamità e dei divolgati strani prodigii s'accrebbe non poco in quei creduli tempi, con fama ancora di sangue piovuto dal cielo; e servirono tutti questi successi a far più che mai desiderare all'Augusto Arrigo la pace colla Chiesa. Però spedì varii ambasciatori a trattarne col papa, ma senza frutto. Perciocchè confessava bensì il pontefice di non averlo scomunicato, ma che la scomunica fulminata contra di lui dai concilii, vescovi e cardinali, principali membri della Chiesa, non si potea levare se non coll'assenso e consiglio d'essi. Arrigo, mal soddisfatto di tali risposte, credette meglio di passare a Roma stessa per trattar più da vicino i suoi affari col sommo pontefice. E tanto più l'animava a questo viaggio la buona corrispondenza che passava fra lui e la nobiltà romana. Allorchè egli intese nell'anno precedente la discordia insorta fra esso papa e i Romani a cagion di Pietro di Leone, per attestato di Pietro Diacono [Petrus Diaconus, Chron. lib. 4, cap. 60.], xenia imperialia urbis praefecto et Romanis transmisit, [556] adventum suum illis praenuntians affuturum. Infatti, venuta la primavera, l'Augusto Arrigo coll'esercito suo si portò a Roma. Scrive Pandolfo Pisano [Pandulfus Pisanus, in Vita Paschalis II.], che i suoi aderenti e consiglieri furono l'abbate di Farfa, già due o tre volte condannato ad avere la testa recisa dal busto a cagione de' sacrilegii e delle sedizioni sue contra del papa, e Giovanni e Tolomeo nobili romani. Fece egli guerra ad alcune terre e castella fedeli al pontefice: cose bensì di poco momento, ma che nondimeno mossero il popolo e la plebe di Roma ad accoglierlo con plauso e con una specie di trionfo, ma senza che gli venisse incontro niuno de' cardinali, vescovi e clero romano. Poscia cercò di far pace col papa, il quale, al primo sentore della venuta di lui, subito uscì fuori di Roma, e andossene a Monte Casino [Petrus Diaconus, Chron. Casin., lib. 4, cap. 60.], ed indi per Capoa a Benevento. Erano i maneggi d'esso pontefice di formare una lega del principe di Capua, del duca di Puglia, e degli altri baroni normanni, per opporsi al vicino Arrigo. Poca disposizione dovette egli trovare in quei principi. Intanto Arrigo, parte con regali, parte con promesse, si guadagnò gli animi de' consoli, senatori e magnati romani. Diede per moglie Berta sua figliuola a Tolomeo console, figliuolo di un altro Tolomeo già console; il quale, se si vuol riposare sull'attestato di Pietro Diacono suo parente, ex Octavia stirpe progenitus erat. Si sarebbe trovato quello storico in uno non lieve imbroglio, se avesse preso a recar pruove di questa gloriosa genealogia. Ma neppure in quei barbari tempi vi era scarsezza di adulatori, e di chi adulava sè stesso. Confermò Arrigo al medesimo Tolomeo tutti i beni e stati a lui provenuti da Gregorio suo avolo.

Saltò poscia in testa ad esso Augusto di farsi coronare di nuovo nella basilica vaticana, e in una magnifica congregazion [557] de' Romani fece di grandi sparate, con esporre la sua ardente inclinazione alla pace; ma gli fu risposto a tuono dagli ecclesiastici, che rovesciarono sopra di lui la colpa delle discordie e dei disordini, senza che in lui apparisse ombra di pentimento. In somma, giacchè in Roma non v'era, nè vi voleva essere papa Pasquale, nel dì di Pasqua fecesi coronare in san Pietro da Burdino, altrimenti appellato Maurizio arcivescovo di Braga, che due anni prima, uscito di Spagna, con grande sfarzo era venuto a Roma a cagion di alcune differenze coll'arcivescovo di Toledo. Costui era allora sì caro a papa Pasquale, che, in occasion della venuta a Roma dell'imperadore Arrigo, lo spedì a lui per trattare della sospirata concordia. Ma lo ambizioso prelato lasciossi talmente guadagnare dalle carezze e promesse d'Arrigo, che s'indusse a dargli la corona: azione procurata con tutto studio dall'imperadore, acciocchè apparisse, che se non la potea avere dal papa, la riceveva almen dalle mani di chi facea la figura di legato apostolico. Ma ciò appena s'intese alla corte pontificia, residente allora in Benevento, che il papa, intimato un concilio nel mese di aprile [Falco Beneventan., in Chron.], scomunicò esso Burdino, anzi il depose, come costa da alcune antiche memorie. Venuta poi la state, e temendo l'Augusto Arrigo l'aria e i caldi di Roma, se no tornò in Lombardia a soggiornare in luoghi di miglior aria e fresco. Verisimilmente Arrigo il Nero duca di Baviera, della linea estense di Germania, dovette in queste congiunture far la sua corte ad esso imperadore [Antichità Estensi P. I, cap. 29.]. Noi il troviamo non solamente in Italia, ma anche nella nobil terra d'Este, dove nel dì 4 d'ottobre del presente anno tenne un placito, ed accordò la sua protezione al [558] monistero di santa Maria delle Carceri, coll'imporre la pena di due mila mancosi d'oro ai contravvenienti. Dal che siam condotti a conoscere che anche la linea estense dei duchi di Baviera riteneva almeno la sua parte nel dominio d'Este, e nell'eredità del marchese Azzo II. Dalla Cronica del monistero di Weingart [Chron. Weingart., tom. 1 Scriptor. Brunswic. Leibnitii.] siamo avvertiti che fra la sua linea e quella de' marchesi estensi durò un pezzo discordia e guerra a cagion di tale eredità. Forse il duca Arrigo, prevalendosi in quest'anno del buon tempo, mentre l'imperadore colla sua armata si trovava in quelle parti, si mise in possesso d'Este. Come poi si componessero queste liti, lo vedremo all'anno 1154. Infestarono nell'anno presente gli Ungheri la Dalmazia, siccome vogliosi di ritorre ai Veneziani la città di Zara [Dandul. in Chron., tom. 12 Rer. Ital.]. Con una poderosa flotta di navi, carica di cavalleria e fanteria, passò a quella volta Ordelafo Faledro doge di Venezia. Attaccò battaglia con que' Barbari, ma ebbe la disgrazia di lasciarvi la vita. Fu riportato a Venezia il di lui cadavero, ed eletto doge in sua vece Domenico Michele, benchè vecchio, pieno nondimeno di spiriti guerrieri, di prudenza e di religione. Da un documento, ch'io ho dato alla luce [Antiquit. Italic., Dissert. V, pag. 173.], si raccoglie che in questi tempi Guarnieri era tuttavia duca di Spoleti e marchese di Camerino. Da lui o da un altro dello stesso nome prese poi quella che oggidì si appella marca d'Ancona, la denominazione di Marca di Guarnieri, come ho provato altrove [Antichità Estensi, P. I.]. Apparisce da un altro documento [Antiquit. Italic., Dissert. VI, pag. 315.] che in questi medesimi tempi era marchese di Toscana Rabodo, messo a quel governo dall'imperadore.

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Anno di Cristo MCXVIII. Indizione XI.
Gelasio II papa 1.
Arrigo V re 15, imperad. 8.

Abbiamo da Pandolfo Pisano [Pandulfus Pisanus, P. 1, tom. 3 Rer. Ital.], scrittore contemporaneo della vita di Pasquale II, che questo pontefice nello autunno dell'anno precedente era venuto ad Anagni. Quivi per la vecchiaia e per li patimenti fatti cadde infermo, e si ridusse a tale, che i medici il davano per ispedito. Tuttavia si rimise alquanto in forze, di maniera che potè venire a Palestrina, dove celebrò il santo Natale ed anche l'Epifania, e congedò gli ambasciatori di Alessio Comneno imperadore d'Oriente, il quale finì appunto i suoi giorni in quest'anno, con aver per successore Giovanni suo figliuolo. Ciò fatto, coraggiosamente venne il buon papa con un corpo d'armati alla volta di Roma, et liberaturus beati Petri basilicam, incautis hostibus Romam in porticum venit. Legge il padre Papebrochio in portica, e spiega tal parola in lectica. Ma è da sapere che il portico di san Pietro contiguo alla basilica vaticana, e spesse volte menzionato nelle antiche storie, volgarmente veniva chiamato la portica. Però in portica altro non è ivi che porticum, come ha il testo della biblioteca estense, di cui mi son servito io nell'edizion delle Vite di Pandolfo Pisano. Tal timore arrecò la venuta del pontefice in quel luogo al prefetto di Roma e a Tolomeo, capi de' sediziosi romani, che già pensavano a nascondersi. Ma aggravatasi l'infermità del pontefice, mentre stava preparando le macchine militari per cacciar colla forza da san Pietro i nemici, questa il condusse al fine de' suoi giorni nel dì 21 di gennaio come pruova il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.]. Piissimo, saggio ed ottimo pontefice, che in tempi sommamente torbidi si seppe regolare con prudenza, carità e mansuetudine; e merita scusa se nella sua [560] prigionia non fece di meglio. Vero è che il cardinal Baronio [Baron., in Annal. Eccles. ad ann. 1112.] non gli sa perdonare, perchè mai non si volesse indurre dipoi a scomunicar Arrigo V, dopo gli strapazzi ricevuti da lui, con dire ch'egli visus est languescere et hebescere, e che per non avere aderito ai cardinali, i quali proferirono essa scomunica, magnam ipse sibi notam inussit, summam vero laudem sibi pepererunt cardinales. Questo papa nondimeno non già biasimo, ma lode riporterà di aver così operato presso chiunque rifletterà che in tal maniera diede egli a conoscere la delicatezza della sua coscienza. Rivocò egli la concession dell'investiture, perchè era obbligato a non approvar quel disordine. Per conto poi di Arrigo, niun ostacolo riteneva i cardinali dallo scomunicarlo; ma il buon papa non conobbe dall'un canto necessarie le censure, e dall'altro gli stava davanti agli occhi l'avere col giuramento chiamato Dio in testimonio della sua promessa di non fulminare contra dell'imperador la scomunica. Secondo il Baronio, non teneva quel giuramento; ma meglio fia il credere ad un papa, ch'esso teneva in quella congiuntura. Almeno poteva esserci dubbio, e il buon pontefice volle eleggere la parte più sicura, con osservar la parola e il giuramento fatto, e lasciar correre intanto la scomunica de' cardinali e d'altri contra d'Arrigo: il che era bastante al bisogno. Fu poi portato nel dì seguente il corpo imbalsamato d'esso Pasquale II alla sepoltura nella basilica lateranense in un mausoleo: al che niuno de' Romani fece opposizione, giacchè si trattava di ammetterlo morto. Tre giorni dopo la morte del papa si raunarono i vescovi e cardinali con alquanti senatori e consoli romani per trattare dell'elezion del successore [Pandulfus Pisanus, in Vita Gelas. II, P. I, tom. 3 Rer. Italic.]. Cadde questa sopra la persona di Giovanni Gaetano, già monaco casinense, [561] poscia cardinale e cancelliere della santa romana Chiesa, vecchio venerando per l'età e più per le sue virtù e per gl'illibati costumi. Abbiamo la sua Vita elegantemente scritta da Pandolfo Pisano, autore contemporaneo, ed illustrata da Costantino Gaetano abbate benedettino. Prese poscia il nome di Gelasio II.

Ma appena si sparse la voce del papa eletto, che Cencio Frangipane, uno dei fazionarii dell'imperadore, con una mano di masnadieri ruppe le porte della chiesa, prese il pontefice eletto per la gola, con pugni e calci il percosse, e a guisa di un ladrone il trasse alla sua casa, e quivi l'imprigionò. All'avviso di questo esecrabil attentato, furono in armi Pietro prefetto di Roma, Pietro di Leone con altri nobili, e dodici rioni della città coi Trasteverini; e saliti in Campidoglio, spedirono tosto istanze e minacce ai Frangipani, perchè rimettessero in libertà il papa. Fu egli in fatti rilasciato, e trionfalmente condotto al palazzo del Laterano, quivi con tutta pace cominciò a dar udienza alla nobiltà romana, che in copia concorreva ad onorarlo. Si andava intanto divisando di aspettar le quattro tempora, nelle quali l'eletto pontefice, che solamente era diacono, si potesse promuovere al presbiterio e consecrar papa: quando eccoti nuova una notte che l'imperadore Arrigo era segretamente arrivato con gente armata nel portico di san Pietro [Falco Beneventanus, in Chron.]. Trovavasi egli sul Padovano, o, per dir meglio, ne' contorni del Po verso Torino, come ha Landolfo da san Paolo; e udita appena la morte di papa Pasquale, frettolosamente si mise in viaggio coll'esercito alla volta di Roma, e colà all'improvviso arrivò nel dì 2 di marzo, quando egli avea dianzi fatto sapere a Roma che solamente per Pasqua volea venirvi. Ora all'avviso di così impensato arrivo, spaventato il papa, con tutta la sua corte si ritirò per quella notte in una casa privata, e la seguente mane imbarcatosi con tutti i suoi in due [562] galee, pel Tevere discese al mare. Ma si trovò terribilmente gonfio esso mare con pioggia e tuoni; lo stesso Tevere era in tempesta; però convenne prendere terra. Ugo cardinale d'Alatri, col benefizio della notte, prese il papa sulle sue spalle, e miselo in salvo nel castello d'Ardea, perciocchè già i Tedeschi battevano le rive di quel fiume. Essendo ritornati costoro la mattina a Porto, giurarono i cortigiani del papa che il papa era fuggito; ed essi perciò si ritirarono. Fu ricondotto il pontefice in nave, e dopo varii pericoli nel mare tuttavia grosso, arrivò a Terracina, e di là a Gaeta, patria del medesimo papa, dove con gran solennità si vide accolto. Colà concorsero varii arcivescovi, vescovi ed abbati per onorarlo. Vi spedì anche l'imperadore i suoi messi per pregarlo di ritornare a Roma, a farsi consecrare, e mostrando gran premura di assistere ad una tal funzione, e che questa sarebbe la maniera più facile per ristabilir l'unione. E non facendolo, aggiunse minaccie. Non parve al saggio pontefice sano consiglio il fidarsi di un principe che avea sì sonoramente perduto il rispetto al suo predecessore, con cui anch'egli fu fatto prigione. E per conto del trattato di pace [Gelas. II, Epist. apud Wilhelm. Malmesburiensem.], fece sapergli che vi darebbe volentieri mano in luogo e tempo proprio, cioè in Milano o in Cremona, per la festa di san Luca. Scelse il pontefice queste due potenti città, perchè già divenute libere e divotissime de' sommi pontefici; giacchè egli non si potea fidar de' Romani, gente venale in que' tempi, e tante volte provati da' suoi predecessori e da lui stesso per poco fedeli. Fu egli poscia ordinato prete e vescovo nelle quattro tempora di marzo, alla qual funzione, oltre ad una gran copia di prelati e d'innumerabil popolo, intervennero ancora Guglielmo duca di Puglia e Calabria, Roberto principe di Capoa, e Riccardo dall'Aquila duca di Gaeta, principi che in quella occasione giurarono fedeltà ed omaggio [563] ad esso papa Gelasio, siccome a sovrano temporale de' loro Stati. Accorgendosi intanto l'imperadore Arrigo che non vi restava apparenza di poter condurre a' suoi voleri il papa, passò ad un eccesso troppo indegno di principe cristiano, e di chi voleva essere nominato e creduto difensore della Chiesa romana. Cioè unito con que' pochi o molti nobili romani che stavano attaccati al suo partito, fece dichiarar papa, voglio dire antipapa, Maurizio Burdino (che già vedemmo arcivescovo di Braga, e scomunicato dal medesimo papa Pasquale II), die quadragesimo quarto post electionem nostram, dice papa Gelasio nella lettera scritta ai vescovi e principi della Francia. Per conseguente la promozione di questo mostro dovette succedere circa il dì 9 di marzo: il che vien confermato da Landolfo da san Paolo [Landulfus junior, Hist. Mediol., cap. 32, tom. 5 Rer. Ital.], che la scrive avvenuta septimo idus martii. Aggiugne questo istorico che Arrigo fece valere presso i Romani la risposta data da Gelasio di discutere la controversia del papato in Milano o in Cremona, e che essi clamaverunt: numquid honorem Romae volunt illi transferre Cremonae? Absit. Però si animarono ad eleggere un altro papa. Oltre a ciò, magister Guarnerius de Bononia, et plures legis periti populum romanum convenerunt, per fargli credere che si potea passare a quella sacrilega elezione e consecrazione. Questo è il medesimo Guarnieri di cui s'è parlato di sopra all'anno 1116. Veggasi che gran sapere e che buona coscienza avesse questo sì decantato restitutore della giurisprudenza romana. Prese l'empio ed ambizioso Burdino il nome di Gregorio VIII, e fu condotto al palazzo del Laterano, dove fece da papa per tre mesi, predicò al popolo, ed anche nel dì 2 di giugno coronò Arrigo nella basilica vaticana.

Da Gaeta passò papa Gelasio a Capoa. S'era avuto qualche sentore in Gaeta della [564] promozione dell'antipapa, in Capoa se n'ebbe la certezza [Pandulfus Pisanus, in Vit. Gelasii II.]; e però, secondo Pietro Diacono [Petrus Diaconus, Chron. Casinens., lib. 4, cap. 64.], il papa insieme coi vescovi e cardinali pubblicamente scomunicò l'imperadore e l'occupatore indegno della sedia di san Pietro con tutti i loro complici. Ciò dovette seguire prima del fine di marzo, quando sussista che Burdino fosse promosso circa il di 9 di quel mese. Celebrò dipoi con solennità magnifica in essa città la santa Pasqua, che in quest'anno cadde nel dì 14 d'aprile. E perciocchè s'intese che l'imperadore aveva assediata la Torricella, castello pontificio, il papa ordinò a Guglielmo duca di Puglia, a Roberto principe di Capoa e agli altri baroni di metter insieme l'armata per procedere contra di Arrigo. Si trasferì dipoi a Monte Casino, dove con sommo onore fu ricevuto da que' monaci; e dopo essersi fermato quivi, vennero a trovarlo i messi dell'imperadore, ma senza sapersi con qual commessione, nè se dessero loro udienza. Se ne tornò dipoi a Capoa; e udito che l'Augusto Arrigo era incamminato alla volta di Lombardia, con lasciare il suo idolo a Roma, determinò di tornarsene anch'egli alla sua residenza. Infatti segretamente entrò coi suoi in Roma, e prese alloggio in una picciola chiesa, posta entro le case di Stefano normanno, di Pandolfo suo fratello e Pietro Latrone nobili romani, dove trattò dipoi con tutti i suoi parziali del clero e della nobiltà intorno al rimedio. Alle istanze di Desiderio cardinale, si arrischiò egli nel dì 21 di luglio di cantar messa nella chiesa di santa Prassede, titolare di esso cardinale: risoluzione che gli costò ben cara. Imperocchè, mentre era dietro a celebrare i divini uffizii, eccoti che i Frangipani con un copioso stuolo d'armati vengono per isforzar quelle case. Loro si opposero i suddetti nobili con Crescenzio nipote del medesimo papa, e si diede principio ad una fiera battaglia, [565] offendendo gli uni, e difendendo gli altri. Intanto il papa sbigottito ebbe maniera di mettersi in salvo: del che accertato Stefano normanno, facilmente indusse i Frangipani a depor le armi e a ritirarsi. Trovossi il papa nella campagna di san Paolo, e quivi, raunati i suoi, pubblicò il suo pensiero di andarsene lungi da Roma, chiamata da lui nuova Babilonia, non già per conto della Chiesa, ma perchè nel temporale tutti vi facevano i padroni, nè pace nè fedeltà vi si potea trovare; laonde egli diceva: Io vorrei piuttosto, se mai fosse possibile, avere un solo imperadore, che tanti in Roma. Decretò pertanto vicario suo in essa città Pietro vescovo di Porto, e governatore di Benevento Ugo cardinale, che seppe dipoi difendere quella città contro de' Normanni, confermò prefetto di Roma Pietro, e dichiarò confaloniere Stefano normanno. Quindi congregate assai navi, ed imbarcatosi con sei cardinali, e molti nobili e cherici, felicemente navigando pervenne a Pisa, dove con immenso onore ed allegrezza accolto nel dì 2 di settembre spedì varii privilegii, rapportati da Costantino Gaetano, e consecrò la chiesa primaziale di quella città. Sul principio d'ottobre passò il pontefice a Genova, dove fece la consecrazione di quella cattedrale; e continuato il viaggio per mare, sbarcò finalmente al monistero di santo Egidio, una lega lungi dal Rodano, e passò alla città di Magalona, e poscia ad Avignone e ad altre città della Francia. Nè si dee tacere, come cosa di rilievo, che Gualtieri arcivescovo di Ravenna, seguendo, non l'esempio di alcuni suoi antecessori scismatici, ma il dovere del suo ministero, fece in questi tempi risplendere la sua divozione verso il vero papa Gelasio II, e con questo meritò ch'esso pontefice rimettesse sotto la metropoli di Ravenna le chiese di Piacenza, Parma, Reggio, Modena e Bologna, a lei tolte da Pasquale II, come costa da sua bolla, rapportata da Girolamo Rossi [Rubeus, Histor. Ravenn, lib. 5.], data Romae VII idus augusti, Indictione XI, [566] anno dominicae Incarnationis MCXIX, oppure, come ha il testo del cardinal Baronio [Baron., in Append. tom. 12 Annal. Eccl.], kalendis septembris, Indictione XII, anno MCXIX. Comunque sia, spetta all'anno presente quella bolla, essendo ivi adoperato l'anno pisano, incominciato nel dì 23 di marzo. Nell'anno seguente 1119, del mese d'agosto, Gelasio, lungi dall'essere in Roma, neppur era tra i vivi. Fra quegli ecclesiastici che tennero il partito dell'imperadore Arrigo V in queste turbolenze, si contò anche Beraldo abbate dell'insigne monistero di Farfa co' suoi monaci. Però nell'anno presente egli ottenne un magnifico privilegio da esso Augusto, da me dato alla luce [Chron. Farfense, P. II, tom. 2 Rer. Ital.] nella Cronica di Farfa, in cui contro il dovere fu sottoposto a quel monistero l'altro al pari riguardevole di san Vincenzo del Volturno: cosa che non ebbe poi effetto veruno. Intanto l'imperadore Arrigo se ne tornò in Lorena, dove attese con carezze e minacce a ricondurre nel suo partito que' popoli che s'erano a lui ribellati. Non mancarono in Germania ed Inghilterra persone che aderirono all'antipapa; ma i più di que' regni e tutta la Francia e quasi l'Italia tennero per legittimo papa Gelasio.

Secondo gli storici pisani, fin dall'anno 1092 [Ughell., Ital. Sacr., tom. 3.] era stata eretta in arcivescovato la chiesa di Pisa. Ma forse perchè non ebbe effetto l'autorità di quegli arcivescovi sopra i vescovati della Corsica, noi abbiamo da Pietro Diacono che papa Gelasio II, allorchè fu in Pisa, in ricompensa de' servigi a lui prestati colle lor galee dai Pisani [Petrus Diaconus, Chron. Casinens., lib. 4, cap. 64.], primus in eadem urbe archiepiscopatum instituit. Alcuni Annali pisani dicono [Annal. Pisani, apud Ughell., Ital. Sacr.] ch'egli pisanam ecclesiam tam privilegio quam ore proprio in metropolitanam confirmavit sublimitatem. Altri Annali da me pubblicati [Rer. Ital., tom. 5.] [567] hanno: Et dedit archiepiscopum pisanae civitati, quia usque tunc tantum episcopus erat, excepto Daiberto, qui quamvis declaratus, non potuit residere, quia eodem tempore fuit creatus patriarcha civitatis sanctae Hierusalem. Ma secondo gli Atti dell'archivio pisano da me dati alla luce [Antiquit. Italic., tom. 3.], certa cosa è che Daiberto nell'anno 1094 e nel 1098 s'intitola pisanae civitatis archiepiscopus. Per conseguente, è da credere che sotto Urbano II fosse alzata al grado archiepiscopale la chiesa pisana; ma perciocchè i vescovi della Corsica non vollero dipoi riconoscere per loro arcivescovo il pisano, papa Gelasio in quest'anno con bolla nuova di maggiore efficacia confermò quel diritto alla chiesa di Pisa; e che ciò sortisse il suo effetto, lo vedremo all'anno seguente. La maledetta discordia nel presente svegliò una arrabbiata guerra fra i popoli di Milano e di Como [Landulfus junior, Hist. Mediolan., cap. 34.]. Vescovo cattolico di Como era Guido in questi tempi. Landolfo da Carcano nobile milanese, ed uno dei canonici ordinarii di quella metropolitana, per quanto pretende il padre Tatti [Tatti, Annal. Com.], era già stato investito di quella chiesa da Arrigo IV fra i re e III fra gl'imperadori. Landolfo da san Paolo aggiunge che questi era anche stato consecrato dal patriarca d'Aquileia suo metropolitano. Ma perchè fu scomunicato da papa Urbano II, non potè entrar allora in possesso di quella chiesa. Ora, dacchè fu creato l'antipapa Burdino, ed Arrigo V venne verso la Lombardia, Landolfo dovette alzar la testa, e tentare il possesso di quel vescovato. Ma riuscì alle genti del vescovo Guido e a' Comaschi di farlo prigione; nella quale occasione venne morto Ottone nipote del medesimo Landolfo, ed egregio capitano de' Milanesi. Se ne fece gran rumore in Milano; e nobili e plebei nel consiglio della città gridavano ad alta voce vendetta contra de' Comaschi. Sopraggiunto l'arcivescovo Giordano, maggiormente [568] accese il fuoco, con far querela per danni recati dal popolo di Como ai beni e agli uomini del suo arcivescovato. Fece di peggio questo arcivescovo, che ben dovea dar poco guasto alla Scrittura; perciocchè, fatte serrar le porte delle chiese, vi negava l'ingresso al popolo di Milano, se non andava coll'armi a spargere il sangue de' Comaschi, e a vendicarsi della lor malignità. Insomma i Milanesi gridarono all'armi, e a bandiere spiegate marciarono contra di Como. Diedero battaglia presso a Monte Baradello al popolo comasco, che, colto all'improvviso e sentendosi inferiore di forze, la notte seguente si fuggì al suddetto monte, e lasciò libera la città al furor dei Milanesi, i quali con saccheggiarla, e poi darla alle fiamme, sfogarono la lor collera, e liberarono il falso vescovo Landolfo dalla prigione. Ma i Comaschi guatando dall'alto del monte l'eccidio della patria, portati dalla disperazione, ecco che all'improvviso arrivano addosso ai nemici, e trovandoli sbandati e intenti solo alla preda, molti ne uccidono, molti ne fan prigioni, e il resto mettono in fuga, con ritornar padroni della propria città. Questo fatto servì a maggiormente inasprire il potente popolo di Milano, il quale continuò dipoi per più anni la guerra contro di Como, tirata in sua lega l'isola ed altri popoli di quel lago; e giunse in fine, siccome vedremo, a dar l'ultimo crollo a quell'infelice città. Vedesi pienamente descritta questa guerra da un poeta comasco contemporaneo [Cuman. Poeta, tom. 5 Rer. Ital.]. In questi medesimi tempi si tenne in Milano un'adunanza dal suddetto Giordano [Landulf. junior, Hist. Mediolan., cap. 34.] e da' vescovi suffraganei, alla quale concorsero ancora i marchesi e conti di Lombardia, per discolpare l'imperadore Arrigo ed amicarlo con que' prelati. Si sa che molti parvero inclinare alla concordia; ma l'arcivescovo cogli altri prelati sostennero il partito della Chiesa, senza poi sapersi comprendere come i Milanesi cotanto sostenessero contra i [569] Comaschi il suddetto scismatico Landolfo, riprovato dai sommi pontefici. E qui comincia a trasparire qualche principio delle fazioni de' Guelfi e Ghibellini. I marchesi, conti ed altri vassalli dell'imperio tenevano per l'imperadore, i prelati di molte città col popolo gli erano contrarii.


   
Anno di Cristo MCXIX. Indizione XII.
Callisto II papa 1.
Arrigo V re 14, imperad. 9.

Lasciò scritto Corrado abbate Urspergense [Abbas Ursperg., in Chron.] che papa Gelasio II tenne in quest'anno un concilio in Vienna del Delfinato; ma non parlandone Pandolfo Pisano, nè altri contemporanei scrittori, il padre Pagi [Pagius, ad Annal. Baron.] dedusse l'insussistenza di un tal concilio, buonamente ammesso dal Baronio, Labbe, Costantino Gaetano, ed altri. Avea bensì il pontefice eletta la città di Rems per celebrarvi il concilio, e trattar ivi dell'importante affare delle investiture; ma Dio non gli concedè tanto di vita da poter eseguire il suo pio disegno. Visitò egli intanto alcune città e chiese; vennero in gran numero prelati ed ambasciatori a venerarlo; e notano gli scrittori, che intesa la di lui povertà, una immensa copia di regali e danari, o spontanei, o comandati, da ogni banda concorse per sollevare i di lui bisogni. Orderico Vitale [Ordericus Vital., Hist. Eccles., lib. 12.] nondimeno sparla per questo di lui. Si trasferì il buon pontefice, secondo il cardinale d'Aragona, a Mompellieri, e a Tolosa e nell'Auvergne; per attestato d'altri, a Vienna, poscia a Lione, e di là a Mascone, dove si aggiunse alla gotta, di cui egli pativa, anche un principio di pleuritide. Era egli incamminato alla volta del celebre monistero di Clugnì, e però, benchè infermo, fece affrettare il viaggio, tanto che giunse a quel sospirato sacro luogo. Quivi aggravatosi sempre più il suo male, rendè l'anima al Creatore nel dì 29 di gennaio. In questo preciso [570] giorno concorrono le autorità dei migliori storici, nè merita fede chi il fa morto alcuni giorni prima. Fu data sepoltura nella chiesa del suddetto insigne monistero a questo pontefice, compianto da tutti, siccome personaggio atto a recar gran bene alla Chiesa cattolica, se Dio non l'avesse tolto sì presto. Prima di morire, chiamò egli a sè que' pochi cardinali che erano seco [Falco Beneventanus, in Chron.], e volle disegnar suo successore Ottone vescovo di Palestrina; ma questi se ne scusò con allegare la propria debolezza, e il bisogno di spalle migliori per sostenere l'afflitta Chiesa, e consigliò piuttosto di far cadere questa elezione sopra Guido arcivescovo di Vienna. Fu egli infatti chiamato a Clugnì, o, per dir meglio, l'avea lo stesso papa Gelasio, in partendo da Vienna, incaricato di andarlo a trovar colà; ma questi in cammino intese la di lui morte, e, ciò non ostante, continuò il suo viaggio sino al monistero suddetto. Era il suddetto arcivescovo Guido (chiamato non so come Milone dall'Urspergense) figliuolo di Guglielmo Testardita conte di Borgogna, parente degl'imperadori e dei re di Francia ed Inghilterra. Una sua sorella per nome Guilla fu moglie di Umberto II conte di Morienna, progenitore della real casa di Savoia, e da questo matrimonio nacque Adelaide maritata con Lodovico il Grosso re di Francia. Orderico Vitale, scrittore del presente secolo, parlando di esso Lodovico re, ci assicura di questo fatto con dire [Ordericus Vital., Hist. Eccles., lib. ii.]: Hic Adelaidem filiam Humberti principis intermontium duxit uxorem. E Sugerio abbate [Suger., in Vit. Ludovici Gross.] fa menzione nobilis Adelaide reginae neptis del mentovato arcivescovo: il che sempre più ci fa intender l'alta riputazione in cui era anche allora la nobilissima casa di Savoia. Raunati dunque i sei cardinali coi Romani che erano venuti accompagnando il defunto pontefice, concordemente elessero papa il suddetto arcivescovo Guido, quantunque [571] egli facesse molta resistenza, sì per non credersi degno di sì eccelsa dignità, e sì per timore, come molti si figuravano, che una tale elezione non fosse approvata dal collegio de' cardinali esistenti in Roma. Seguì essa nel dì primo di febbraio, secondo i conti del padre Pagi. Venne il novello pontefice alla volta di Lione, ed Umbaldo arcivescovo di quella città, acconsentendo alla fatta elezione, il riconobbe ed onorò qual papa legittimo. Passò dipoi a Vienna, dove nel giorno della domenica di quinquagesima, cioè nel dì 9 di febbraio, fu consecrato, se vogliam riposare sulla testimonianza della Storia Vezeliacense [Historia Vezeliacensis, in Spicileg. Dachery.], e prese il nome di Callisto II. Però dovrebbe essere scorretto il testo di Pandolfo Pisano, allorchè scrive: cessavit episcopatus diebus XV, e si avrà da scrivere diebus XII; trovandosi non di rado il numero II cambiato in V per poca attenzione de' copisti. Ma è da avvertire che non tardarono i cardinali dopo l'elezione a spedirne l'avviso al sacro collegio rimasto in Roma. Avendola Pietro vescovo di Porto vicario quivi, tosto notificata agli altri cardinali e al clero e alla nobiltà romana, tutti, per opera specialmente di Pietro di Leone, il cui figliuolo Pietro cardinale si trovava in Francia, consentirono ed accettarono per papa il suddetto Callisto II. Dalla di lui Vita, scritta dal poco fa mentovato Pandolfo, scrittore sopra gli altri degno qui di fede, siamo assicurati che questo pontefice fu solamente consecrato papa, allorchè [Pandulfus Pisanus, in Vita Callisti II, P. I, tom. 3 Rer. Italic.] nuncii redeuntes a Roma, viva voce ac literis electionem ipsam canonice, jureque confirmarunt. Tunc papa solemniter a Lamberto ostiensi episcopo et aliis quamplurimis in Dei nomine consecratus fuit. Perciò non può, a mio credere, sussistere l'opinione del padre Pagi, che il vuole consecrato nel dì 9 di febbraio. Di più tempo fu d'uopo perchè i messi [572] andassero e tornassero da Roma colla approvazione del sacro collegio romano.

Leggonsi nel codice di Uldarico da Bamberga, pubblicato dall'Eccardo [Eccard., Corp. Hist., tom. 2.], e presso i padri Martene e Durand [Martene, Veter. Scriptor. tom. I.] le lettere scritte da' cardinali residenti in Roma ai cardinali oltramontani, nelle quali confermano l'elezion di Callisto II fatta per necessità oltra monti, senza dissimulare che questa si dovea fare ex romanae Ecclesiae filiis presbyteris, et diaconibus, ed anche infra urbem, si possibile fuerit, vel extra in locis finitimis. Confessano nondimeno di confermar la suddetta elezione, quum ex romano more electionem facere impediamur. Per le quali parole si vede allora assai confuso lo stato di Roma, senza che ben s'intenda come essi cardinali romani non avessero libertà di eleggere un papa nuovo. Forse si dirà, perchè Burdino antipapa e i suoi parziali l'impedivano. E pur si vede che potevano adunarsi per confermare l'eletto, e in Roma comandava il vicario pontificio, cioè il vescovo di Porto, e quivi quietamente soggiornava tanti cardinali opposti al medesimo Burdino. In una d'esse epistole presso l'Eccardo è scritto che i cardinali suddetti in Roma col clero e popolo s'erano congregati in kalendis martii, ed aveano dato il loro assenso per l'esaltazione di Callisto al pontificato romano: il che se è vero, fino al marzo convien differire la di lui consecrazione in papa. Trasferitosi dipoi il nuovo pontefice a Tolosa, tenne ivi un concilio VIII idus junii, secondochè si ha da Bernardo di Guidone [Bernardus Guidonis, P. II, tom. 3 Rer. Italic.]. Ma questo nel codice di Uldarico da Bamberga si dice tenuto VII idus julii; e questo si conferma per altre memorie. Che se alcuni lo mettono nell'anno MCXX, questo avvenne perchè si servirono dell'anno pisano, cominciato nel dì 23 di marzo dell'anno presente volgare. Furono [573] ivi fatti alcuni decreti intorno alla disciplina della Chiesa. Nel dì 20 d'ottobre celebrò egli un altro più insigne e numeroso concilio nella città di Rems [Labbe, Concilior., tom. 10.], dove intervennero quindici arcivescovi più di ducento vescovi, nel quale scomunicò, bensì con dispiacere, l'imperadore Arrigo e il suo antipapa Burdino. Quando sussista il racconto dell'Abbate Urspergense [Abbas Urspergensis, in Chron.], esso Arrigo dovea essere tornato in Italia, giacchè egli scrive, che avendo esso Augusto inteso come in un concilio di Colonia era stata proferita la scomunica contra di lui, e intimatone un altro in Virtzburg, con fama di volerlo deporre, efferatus animo, Italiae suis copiis cum regina relictis, germanicis se regionibus nimis insperatus exhibuit. Passò la sua rabbia a desolar varii paesi con saccheggi ed incendii. Ma fioccarono tante lettere e messaggi de' vescovi e principi della Germania, che consentì ad un concilio in Triburia, in cui fu dato sesto a molti de' correnti disordini. Il consigliarono ancora molti d'intervenire al concilio di Rems, per trattar ivi la concordia col sacerdozio: se ne trattò fra lui e i legati del papa; ma egli dopo aver promesso e ripromesso, infine sotto varii pretesti sfuggi ogni accordo e deluse chiunque credea già fatta la pace [Hesso apud Labbe, Concilior., tom. 10.]. Abbiamo da Falcone Beneventano [Falco Beneventanus, in Chron.] che anche Landolfo arcivescovo di Benevento tenne in quest'anno un concilio co' vescovi suoi suffraganei, e coll'intervento di alcuni cardinali romani. Continuò intanto la guerra dei Milanesi contra di Como, descritta dall'anonimo poeta comasco. Degno è di osservazioni il numero delle città che inviarono soldatesche in aiuto di Milano, conoscendosi da ciò che erano divenute libere e si reggeano a repubblica. Dice egli dunque dei Milanesi [Anonymus Comensis, Poem., tom. 5 Rer. Italic.]:

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Mittunt ad cunctas legatos agmina partes

Ducere; Cremonae, Papiae mittere curant,

Cum quibus et veniunt cum Brixia, Pergama: totas.

Ducere jussa suas simul et Liguria gentes.

Nec non adveniunt Vercellae, cum quibus Astum

Et comitissa suum gestando brachio natum.

Cioè la contessa di Biandrate.

Sponte sua tota cum gente Novaria venit,

Aspera cum multis venit et Verona vocata:

Docta suas secum duxit Bononia leges.

Parole chiaramente indicanti già instituito in quella città lo studio delle leggi romane.

Attulit inde suas Ferraria nempe sagittas.

Mantua cum rigidis nimium studiosa sagittis:

Venit et ipsa simul quae Guardastalla vocatur.

Parma suos equites conduxit carfanienses.

La Garfagnana, provincia di là dall'Apennino, oggidì suggetta alla serenissima casa d'Este (se pur d'essa si parla qui, come è probabile), doveva allora ubbidire a Parma. Ed ecco quante città collegate contro la misera città di Como, al cui soccorso non si legge che alcuno alzasse un dito. Ciò non ostante bravamente si difesero in quest'anno i Comaschi, ed accostandosi il verno, obbligarono tanti nemici a ritornarsene alle lor case. Abbiamo ancora dagli Annali Pisani [Annal. Pisani., tom. 6 Rer. Ital.] che nell'anno presente ebbe principio la guerra tra i Genovesi e Pisani. Non poteano digerire i primi la autorità conferita dal papa agli arcivescovi di Pisa sopra i vescovi della Corsica, e però sfogarono coll'armi il loro maltalento. Lo storico genovese Caffaro scrive [Caffarus, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.] che i Genovesi usciti con sedici galee presero molti Pisani in Goloccio, e con esso loro una gran somma di danaro.

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Anno di Cristo MCXX. Indizione XIII.
Callisto II papa 2.
Arrigo V re 15, imperad. 10.

Celebrò il pontefice Callisto la festa del santo Natale dell'anno precedente in Autun, e di là poscia tornò al monistero di Clugnì. Andò poscia nel febbraio a Valenza del Delfinato, e nel marzo valicate le Alpi, felicemente arrivò a Santo Ambrosio, borgo vicino a Susa, dove fu gran concorso di popoli lombardi a venerarlo e riconoscerlo per papa [Cardin. de Aragon., in Vit. Callisti II.]. Discese poscia ad populosas Lombardiae civitates, in quibus non minori honorificentia recipiebatur. Landolfo da san Paolo [Landulfus junior, Histor. Mediol., cap. 35.] scrive ch'egli vide questo pontefice nel palazzo di Tortona nella domenica dell'Ulivo, cioè nel dì 11 di aprile. Seco era Giordano arcivescovo di Milano, contra del quale esso istorico portò le sue querele, per essere stato indebitamente spogliato dalla sua chiesa. Ma Lamberto vescovo d'Ostia il mandò in pace con dirgli che in tempo di verno non si calcano le uve nel torchio; e che essi aveano bisogno dell'arcivescovo, nè volevano contristarlo, nè disgustarlo. Venne il papa a Piacenza, dove solennizzò la santa Pasqua, dopo la quale per Monte Bardone, cioè per la strada di Pontremoli, s'inviò alla volta della Toscana. Nell'avvicinarsi a Lucca, ebbe l'incontro di tutta la milizia ben in ordine, e del clero e popolo di quella città, che con gran festa e plauso il condussero alla cattedrale e al palazzo. Dopo tre dì di riposo passò a Pisa, anche ivi con una magnifica processione incontrato da quel clero e popolo [Vita Callisti II.]. Rogatus autem ab ipsis Pisanis, et cum magna instantia postulatus, majorem ecclesiam in honorem beatae Mariae, tota ibidem Tuscia concurrente, dedicavit solemniter. Si è di sopra veduto che questa consecrazione [576] viene attribuita a Gelasio suo predecessore, e però il Tronci [Tronci, Annal. Pisan.] pretende che questo autore, creduto da lui Pandolfo Pisano, s'ingannasse in iscrivere così. E veramente Pietro Diacono [Petrus Diac., Chron. Casin., lib. 4, cap. 64.], scrittore di questi tempi, s'accorda cogli Annali pisani in riferir questo fatto a papa Gelasio II; di modo che più probabile sembra il sentimento degli storici pisani. Avvicinatosi a Roma il pontefice, mirabil fu la commozione ed allegrezza di quel popolo cattolico, a riserva degli scismatici, che rimasero pieni di confusione e terrore. Lo stesso antipapa Burdino, non tenendosi sicuro in quella città, se ne fuggì, e ritirossi nella città di Sutri, dove attese a fortificarsi, sperando soccorso dall'imperadore. Era Callisto II informato della di lui partenza [Eginon., Epist. apud Canisium.], perciò a dirittura marciò verso Roma. Vennero ad incontrarlo tutti i fanciulli della città con rami d'ulivo o d'altri alberi, con sonore acclamazioni e lodi; poscia i Greci, i Giudei, il clero, la nobiltà e il popolo di Roma con una sterminata processione, da cui fu nel dì 3, oppure nel dì 9 di giugno, come vuol Falcone [Falco Beneventanus, in Chron.], introdotto in Roma, e condotto al palazzo del Laterano. Non s'era da gran tempo veduto entrar papa con tanto plauso e giubilo de' Romani. Per qualche tempo si trattenne egli in Roma in pacifico stato, dando cortese udienza a ciascuno [Petrus Diac., Chron. Casin., lib. 4, cap. 68.]. Ma bisognando di gente per levarsi di dosso l'antipapa, passò dipoi a Monte Casino, dove dimorò alle spese di quel pingue monistero per quasi due mesi. Trasferissi poscia a Benevento nel dì otto di agosto, accolto con immenso tripudio e magnificenza. Fra gli altri gli Amalfitani, ch'erano ricchi mercatanti, e teneano bottega in moltissime città, ornarono tutte le piazze di tele e drappi di seta, e d'altri preziosi ornamenti, con turiboli d'oro e [577] d'argento collocati di sotto, nei quali si bruciava cannella e varii altri odori.

Colà vennero a rendere i loro ossequii al papa Guglielmo duca di Puglia, Giordano principe di Capoa, ed altri conti e baroni di quelle contrade [Pandulfus Pisanus, in Vit. Callisti II.], che gli prestarono omaggio e fedeltà contra omnes homines, come s'ha da Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernitanus, in Chron.]; ed egli loro diede l'investitura col gonfalone. Trovandosi poi i contorni di Roma infestati dagli scismatici che svaligiavano i pellegrini, e faceano altri mali, il pontefice si trattenne pel resto dell'anno in quelle parti. Andò alla città di Troia, dove il suddetto duca Guglielmo con grande onore il ricevette, e addestrollo fino alla cattedrale. La menzione da me fatta di Giordano II principe di Capoa richiede ora che io dica che nell'anno presente a dì 5 di giugno terminò i suoi giorni Roberto I, principe di quella città. Mentre egli era gravemente infermo, i Capoani alzarono al principato Riccardo III di lui figliuolo [Peregrin., in Stemmat. Princip. Langobard.], e secondo il rito già introdotto dai principi di Benevento, il fecero consecrare dal loro arcivescovo. Ma essendo questi sopravvivuto al padre solamente due giorni, in quel dominio succedette Giordano II di lui zio paterno, che andò, siccome dicemmo, a visitar papa Callisto. Sua moglie fu Gaitelgrima figliuola di Sergio principe di Sorrento. Mancò eziandio di vita nel dì 4 di ottobre di quest'anno Giordano arcivescovo di Milano, e nel dì 12 di novembre in suo luogo fu eletto Olrico, che era vicedominus, ossia visdomino [Saxius, in Not. ad Landulf. junior., tom. 5 Rer. Ital.], dignità principale in quell'arcivescovato. Tornarono anche nell'anno presente i Milanesi all'assedio di Como, e seguirono varie battaglie; ma in fine senza frutto furono obbligati a ripatriare. Dopo ciò i Comaschi portarono la guerra addosso alle terre ribelli del [578] lago con saccheggi ed incendii. Continuò parimente la guerra fra i Genovesi e Pisani Abbiamo da Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.] che i primi si portarono a Porto Pisano con ottanta galee, trentacinque gatte, ventotto golabi e quattro grosse navi, che portavano tutti le occorrenti macchine da guerra, e ventidue mila combattenti tra fanti e cavalli, fra' quali si contarono cinque mila uomini d'armi con corazza ed elmi ben bruniti. Parrà incredibile a' nostri giorni uno sforzo tale d'una sola città, e massimamente trattandosi di cavalleria, e questa condotta per mare. Ma il trasporto d'essi verisimilmente fu in più volte. Se crediamo agli Annali di Pisa [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.], nel 1119 die sancti Sixti Pisani Januenses vicerunt. Poscia all'anno 1121 pisano, spettante al presente, aggiungono che i Genovesi con ventidue galee vennero all'imboccatura dell'Arno, mentre il papa consecrava alcuni altari di quella cattedrale; e che i Pisani gli assalirono e misero in rotta, con prendere sei loro galee. Non così la discorre Caffaro. Tal terrore diede il poderoso esercito de' Genovesi ai Pisani, stanti colla loro armata in terra, che nel settembre dell'anno presente prestarono orecchio ad un trattato di pace de lite Corsicae. Circa questi tempi credono alcuni storici siciliani [Carusi, Istor. di Sicilia, P. II, lib. 1.] che Ruggieri iuniore conte di Sicilia, giovane di mirabil talento, che fra le altre sue prodezze avea già tentato di occupare l'isola di Malta, prese per moglie Alberia figliuola di Alfonso re di Castiglia. Nè si dee tacere ciò che lasciò scritto Sicardo vescovo di Cremona [Sicard., Chron., tom. 7 Rer. Ital.] sotto quest'anno, cioè: Fuit in Italia inter Cremonenses et Parmenses clades bellica, qua Cremonenses cum Parmensibus in parmensi glarea conflixerunt. E questa fu la prima guerra che ebbero i Cremonesi coi Parmigiani.

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Anno di Cristo MCXXI. Indizione XIV.
Callisto II papa 5.
Arrigo V re 16, imperad. 11.

Trionfale noi troviamo l'anno presente per papa Callisto, pontefice di maravigliosa attività e prudenza. Nè ci volea meno di lui, che alle più belle doti accoppiava un gran credito per la nobiltà della sua nascita, per isbrigare la santa Sede da tutti gl'inconvenienti onde era turbata. Dopo aver egli fatte le convenevoli disposizioni per un gagliardo rinforzo di truppe normanne da valersene alla primavera [Pandulfas Pisanus, in Vit. Callisti II. Cardin. de Aragonia, in Vit. ejusd. Papae, P. I, tom. 3 Rer. Ital. Falco Beneventanus, in Chronico.], tornò a Roma, e quivi celebrò la santa Pasqua. Poscia raccolto un potente esercito di Romani con altre milizie ausiliarie, lo spedì all'assedio di Sutri, sotto il comando di Giovanni da Crema cardinale di san Grisogono; ed egli stesso poco appresso colà si portò per dar calore all'impresa. Quivi rinchiuso era l'antipapa Burdino, adulandosi indarno di ottener soccorsi dall'imperadore, che niun pensiero se ne prendeva. Forte era massimamente pel sito la città, e vi succederono varii assalti e fatti di guerra. Ma in fine i Sutrini o stanchi di questo giuoco, o guadagnati con buone promesse, si rivoltarono contra del falso papa, e nel dì 25 d'aprile, non senza mille maledizioni ed improperii, il diedero in mano all'esercito pontifizio, che postolo a rovescio sopra un cammello colla coda in mano, in quella obbrobriosa forma, non lodata da tutti, fu menato a Roma [Card, de Aragon., in Vit. Callisti II. Willelm. Tyr., lib. 12, cap. 8, Falco Benevent., in Chron.]. Tunc praeparato sibi camelo pro albo cabalto, et pilosa pelle vervecum pro chlamyde rubea, positus est in transverso super ispum camelum, et in manibus ejus pro freno posita est cauda ipsius cameli. Talibus ergo indumentis ornatus in comitatu pontificis praecedebat, revertens ad urbem [580] cum tanto dedecore, quatenus et ipse in sua confunderetur erubescentia, et aliis exemplum praeberet, ne similia ulterius attentare praesumant. Son parole dell'autor della Vita di questo pontefice, a noi conservata dal cardinal d'Aragona: il che vien confermato da altri storici. Con questo accompagnamento giocoso insieme e tetro il pontefice fra i viva del popolo, e per varii archi trionfali a lui preparati nella via, entrò in Roma, e fu condotto al palazzo del Laterano. Discordano gli autori intorno alla risoluzione presa da Callisto papa per la persona di Burdino. Nella Vita suddetta si legge ch'egli Burdinum fecit in arce Fumonis retrudi, et inde ad monasterium cavense transferri, ubi perseverans in sua rebellione vitam finivit. Pandolfo [Pandulfus Pisan., in Vit. Callisti II.] solamente scrive che Burdinum in cavensi coenobio trudi praecepit. Altrettanto ha Falcone Beneventano [Falco Benevent., in Chron.]. Alcuni storici oltramontani il dicono rinchiuso non già nel monistero della Cava, ma bensì in cavea, in una gabbia. E l'Anonimo Casinense [Anonym. Casinensis, tom. 5 Rer. Ital.] aggiugne che il papa Burdinum de Cava extractum, in Januta custodiendum tradidit. Pietro Diacono anche egli scrive che Burdino fu chiuso nella rocca di Janula, che era monistero casinense, e poscia all'anno 1124 soggiugne [Petrus Diaconus, Chron. Casinens., lib. 4, cap. 68 et 86.], che Onorio II Mauricium haeresiarcham de Janula, in qua eum papa Callixtus exsiliaverat, abstrahens, apud Fumonem exsilio relegavit. Non sembra certo molto probabile che papa Callisto si fidasse di mettere un sì pericoloso animale nel monistero della Cava, monistero vicino a Salerno, e però fuori della sua giurisdizione e balìa. Ha perciò miglior aria di verità quanto scrive Pietro Diacono. Tuttavia Pandolfo, che fu storico di vista, dee qui trattener la decisione, e massimamente veggendosi che Landolfo iuniore [Landulpus junior, Hist. Mediolan., cap. 36.], storico anch'egli di questi [581] tempi, e Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernitanus, in Chron.] vanno d'accordo con lui. Nè altronde si dee credere nata la menzione di Cavea, creduta gabbia, se non dal monistero della Cava, dove a tutta prima egli dovette essere rinchiuso. Mi è nato sospetto che fosse creduto bene lo spargere una finta voce che Burdino, secondo i canoni, era stato cacciato in un monistero per far penitenza, quando infatti la fece in una fortezza. Racconta il medesimo Pandolfo che il papa processò dipoi i conti di Ceccano ribelli, e gli astrinse a piegar la testa; con che tornò un'invidiabil pace in Roma e in tutti i suoi contorni.

Per attestato dell'Abbate Urspergense [Abbas Urspergensis, in Chron.], crebbero quest'anno in Germania le sollevazioni de' popoli, e specialmente della Sassonia, contra dell'imperadore Arrigo scomunicato, per opera di Adalberto arcivescovo di Magonza, dichiarato suo legato dalla Sede apostolica. Ne fremeva Arrigo; ma per non poter di meno, cominciò ad ascoltare consigli di pace. Intimata dunque una gran dieta in Virtzburg circa la festa di san Michele di settembre, quivi si trattò seriamente della rinunzia delle investiture, cagione di tanti scandali; e l'Augusto Arrigo vi condiscese. Restava l'impedimento della scomunica, e ciò fu rimesso al sommo pontefice: al qual fine restarono destinati ambasciatori che andassero a trattarne in corte di Roma. All'anno presente verisimilmente appartiene ciò che scrive dipoi il suddetto Pandolfo Pisano. Cioè fece Guglielmo duca di Puglia correr voce del suo matrimonio colla figliuola del fu Alessio imperador di Costantinopoli, il che non si sa intendere; perchè se sussistono i documenti allegati dal Summonte [Summonte, Istor. di Napoli, tom. 1.], questo principe avea già per moglie Gaitelgrima figlia di Sergio principe di Sorrento, e questa sopravvisse a lui. Quel che è certo, Guglielmo si mise in viaggio per qualche suo importante affare alla [582] volta di Costantinopoli, e prima di farlo, raccomandò a papa Callisto la protezion de' suoi Stati. Ruggieri iuniore, conte di Sicilia, in cuore di cui già cominciava a bollire lo spirito de' conquistatori, prese questa occasione per tentare d'impadronirsi (non si sa sotto qual pretesto) della Calabria e della Puglia. Assediata che ebbe in Calabria la rocca di Niceforo, il pontefice gl'inviò Ugo, uno de' più cospicui cardinali della Chiesa romana, per farlo desistere da quella violenza. Questi, gittate le parole al vento, se ne tornò a Roma. Allora il papa sdegnato si mosse in persona per trattar di questa briga, e passò in Puglia. Male per lui, perchè a cagione di una pessima influenza, o epidemia, i migliori de' suoi cardinali, e fra gli altri il suddetto Ugo, lasciarono la vita in quelle contrade. Lo stesso pontefice anch'egli v'ebbe a perdere la sua per una simile infermità, di cui seppe ben profittare il conte Ruggieri, perchè portò il papa a far quanto esso bramava. Quantunque poi continuasse ancora in questo anno la guerra in Milano contra di Como, narrata dal Poeta Comasco [Poeta Comensis, tom. 5 Rer. Ital.], pure niuna prodezza si sente de' Milanesi. Solamente si legge che i Comaschi saccheggiarono varie terre del Milanese, come Varese, Binago, Vedano e Trezzo.


   
Anno di Cristo MCXXII. Indizione XV.
Callisto II papa 4.
Arrigo V re 17, imper. 12.

Nel felicissimo presente anno ebbe finalmente fine la troppo lagrimevol discordia fra il sacerdozio e l'imperio per cagion delle investiture. Furono nel precedente anno spediti dalla dieta germanica per ambasciatori a Roma [Abbas Urspergensis, in Chron. Pandulfus Pisanus, in Vita Callisti II.] il vescovo di Spira e l'abbate di Fulda, affin di disporre questo importantissimo affare. Allora papa Callisto, veggendo le cose in buona disposizione, insieme coi suddetti [583] inviò in Germania Lamberto vescovo d'Ostia, Sassone cardinale di santo Stefano in Monte Celio, e Gregorio cardinale diacono di sant'Angelo, per legati apostolici, a darvi l'ultima mano. Tennesi dunque in Vormazia nell'anno presente una numerosissima dieta, dove l'Augusto Arrigo, sentendosi toccato il cuore da Dio, rinunziò in fine alla pretension delle investiture colla consegna dell'anello e del pastorale, giacchè con tale introduzione s'era introdotto nella Chiesa l'esecrabile abuso di vendere i vescovati e le badie. Cioè lasciò Arrigo V in libertà al clero e popolo di cadauna città l'elezione e consecrazione de' loro vescovi, e ai monaci quella de' loro abbati. Promise egli ancora di restituire alla Chiesa romana e a tutte le altre gli stati e i beni ch'egli per avventura o suo padre avessero usurpato, e diede una vera pace a papa Callisto II e alla santa Chiesa romana, e a chiunque era stato del suo partito. All'incontro papa Callisto accordò all'imperadore che le elezioni de' vescovi ed abbati del regno teutonico si facessero in presenza dell'imperadore o de' suoi messi, liberamente, e senza simonia o violenza; e, nascendo discordia, fosse questa rimessa al metropolitano coi vescovi provinciali. L'eletto poi dovea ricevere dall'imperadore l'investitura collo scettro degli Stati e delle regalie spettanti alla sua chiesa, eccettuate le appartenenti alla Chiesa romana. Nell'altre parti dell'imperio, consecrato che fosse l'eletto, nel termine di sei mesi egli prenderebbe l'investitura delle regalie. Nel dì 8 di settembre tenuta fu quella dieta in Vormazia, e il papa nel dì 25 d'esso mese spedì l'approvazione sua. Tutti si partirono colmi di letizia; e l'imperadore spedì poco appresso a Roma i suoi ambasciatori con regali, per confermare la sincerità del pentimento e della concordia sua. Ed ecco il sospirato fine di una sì lunga e deplorabil tragedia: tanto vi volle a sradicare un abuso che insensibilmente avea preso piede nella Chiesa di Dio contro [584] tutti i riti dell'antichità, ne' quali sempre erano state libere le elezioni de' sacri pastori, con gravissimi fulmini emanati contra della simonia. È in uso tuttavia per la Germania l'accordo suddetto, e appartiene ai capitoli l'elezione dei loro vescovi. Che se taluno chiedesse, perchè dopo tante fatiche, sconcerti e guerre, per rimettere anche in Italia questa libertà delle elezioni già fatte dal clero e popolo, di essa non rimanga vestigio fra noi: rimetterò io volentieri al padre Tomasino e ad altri eruditi scrittori il dargli risposta, volendo io continuare l'intrapreso viaggio della presente storia.

Abbiamo da Falcone Beneventano [Falco Beneventan., in Chron.], che ribellatosi Giordano conte d'Ariano a Guglielmo duca di Puglia, questi non si sentendo con assai forze per domarlo, ricorse a Ruggieri iuniore, conte di Sicilia. Per ottenere aiuto, bisognò comperarlo. Medietatem suam palermitanae civitatis et Messanae, et totius Calabriae dux ille eidem comiti concessit, ut ei auxilium largiretur. Avendo noi veduto di sopra all'anno 1088 che al conte Ruggieri seniore di lui padre era stata interamente ceduta la Calabria dal duca Ruggieri figliuolo di Roberto Guiscardo, e padre di esso Guglielmo, non saprei dire chi di quegli autori abbia fallato. Col soccorso dunque di gente e danaro datogli dal conte fece il duca Guglielmo guerra al conte di Ariano. Ebbe anche soccorso da Crescenzio cardinale, governatore di Benevento; laonde colla presa d'alcune castella ridusse il ribello Giordano a venir colla corda al collo a chiedere misericordia. Finì per allora questa guerra; ma convenne ripigliarla da lì a pochi mesi, con varie avventure che io tralascio. Continuò, o si accese di nuovo la gara e guerra tra i Pisani e Genovesi. Racconta Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.] che essi Genovesi fecero prigioni ben mille Pisani, e presero due loro galee. Durando poi tuttavia la guerra fra i Milanesi e Comaschi, riuscì ai primi di levar [585] Lugano dalla suggezione ai secondi, i quali non lasciarono per questo di sostener il dominio loro in quel lago. Ma il Sigonio, fondato sopra altri autori, non ammette la presa di Lugano.


   
Anno di Cristo MCXXIII. Indizione I.
Callisto II papa 5.
Arrigo V re 18, imperad. 13.

Secondochè scrisse il Sigonio, e fondatamente provarono i padri Cossart e Pagi, nel dì 18, ovvero 19 di marzo dell'anno presente, e non già del precedente, come pensarono il Panvinio e il cardinal Baronio, fu celebrato il primo general concilio lateranense [Labbe, Concilior., tom. 10.], coll'intervento di trecento vescovi e di assaissimi abbati. Pandolfo Pisano [Pandulfus Pisanus, in Vita Callisti II.] scrive che vi furono novecento novanta sette tra vescovi ed abbati: numero che eccede la credenza. Quivi furono fatti varii decreti intorno alla disciplina ecclesiastica; confermato l'accordo seguito fra l'imperadore Arrigo e la santa Sede; data oppure rinnovata l'assoluzion delle censure al medesimo Augusto; riprovate le ordinazioni fatte dall'antipapa Burdino, con altri canoni che si leggono nella Raccolta dei concilii. In questo concilio ancora, per quanto s'ha da Landolfo da san Paolo [Landulfus junior, Histor. Mediol., cap. 36.], che v'era presente, si rinnovò la lite della precedenza tra Olrico arcivescovo di Milano e Gualtieri arcivescovo di Ravenna. Scrive quest'autore, che i due predecessori di Olrico, Grossolano e Giordano, ebbero nei concilii romani la lor sedia alla destra del sommo pontefice, e però anche Olrico con fermezza sostenne il suo punto. Veggendo che gli era contrastato il posto nella prima sessione, non volle comparire nè al concilio nè al palazzo del papa. Sed in quarta feria, dum synodus celebrata fuit, Olricus idem mediolanensis archiepiscopus ad dexteram apostolici Callisti nullo mediante sedit. Per [586] cagione di questi ed altri esempli credono gli scrittori milanesi apocrifa la bolla di papa Clemente II dell'anno 1087, riferita da Girolamo Rossi [Rubeus, Histor. Ravenn.], in cui stabilisce la precedenza dell'arcivescovo di Ravenna a quel di Milano. Furono finalmente in esso concilio [Petrus Diaconus, Chron. Casin., lib. 4.] fatte gravissime doglianze dai vescovi contra dei monaci, perchè già aveano occupate le chiese, le decime, le oblazioni, e ridotti i vescovi quasi al solo pastorale. Ma ebbero un bel dire. Il mondo restò qual era. Così in altri tempi altre querele sono insorte contro i frati mendicanti, ma un bel dire hanno avuto vescovi e parrochi. Crebbero in questi tempi [Urspergensis, in Chronico.] le ruberie, le sedizioni e le iniquità in Germania, al contrario della città di Roma, in cui il valoroso papa Callisto II pose la pace col mettere freno a tutti i prepotenti. Tale, scrive Falcone [Falco Benevent., in Chron.], tantumque pacis firmamentum infra romanam urbem temporibus praedicti Apostolici advenisse comperimus, quod nemo civium, vel alienigena arma, sicut consueverat, ferre ausus est. Aggiunge il medesimo storico che in quest'anno ancora esso pontefice si portò a Benevento, dove accusato Roffredo arcivescovo di quella città d'avere simoniacamente conseguita quella chiesa, si tenne giudizio per questo. Ma egli col giuramento suo, e di due vescovi e tre preti, si giustificò, e fece ammutir gli accusatori. Ho io prodotta [Antiquit. Italic., Dissert. LXII.] una bolla del suddetto papa in favore dei canonici di Cremona, data Laterani II nonas martii. Un'altra parimente scritta Laterani IV kalendas martii dell'anno presente ne ottennero i canonici regolari di san Cesario sul Modenese, per cui fu dichiarato che i monaci di Nonantola niuna giurisdizione aveano sopra la corte di Vilzacara, cioè sopra una parte o sopra il tutto del moderno san Cesario nel distretto di Modena. Si fecero in questo [587] anno ancora varii fatti di guerra nel lago di Lugano tra i Milanesi e Comaschi, descritti dall'anonimo Poeta di Como [Anonymus Poeta Comens., tom. 5 Rer. Ital.]. Raunarono molte navi i Milanesi a Porlezza loro castello, e di là passarono all'assedio del castello di san Michele, ma senza potersene impadronire. Ebbero per tradimento Lavena, ma perderono le lor navi prese dai nemici. Abbiamo poi dal Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] che circa questi tempi Domenico Michele doge di Venezia mandò i suoi legati a Costantinopoli, per impetrare la bolla d'oro da Giovanni Comneno imperador de' Greci; ma quell'Augusto, allontanatosi dal rito de' suoi antecessori, non la volle concedere. Nacque perciò guerra fra i Greci e Veneziani. Alle istanze poi di Baldovino re di Gerusalemme, esso doge mise insieme un grosso stuolo di dugento legni, tra galee, barche da trasporto ed altre navi, e passò in Oriente [Bernardus Thesaur., cap. 117 et seq.]. Trovata presso Joppe la flotta di Babilonia, composta di sessanta galee e d'altri legni, la mise in rotta. Di questa loro vittoria fa menzione anche Fulcherio Carnotense [Fulcher. Carnotens., Histor., lib. 3.] che si trovava allora in Terra Santa. Durando tuttavia la discordia fra i Genovesi e Pisani, a cagion dei vescovati della Corsica, suggettati all'arcivescovo di Pisa [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Ital.], il pontefice Callisto II, a cui dispiacea troppo questa rottura fra due popoli che avrebbono potuto impiegar meglio le loro forze in Oriente contra degli infedeli, chiamò gli ambasciatori di questi due popoli al sopra mentovato concilio lateranense. Ne seguì un gran contraddittorio. Fu rimessa la decision dell'affare a dodici arcivescovi e a dodici vescovi, che dibatterono la pendenza, ma non vollero proferir la sentenza. Gualtieri arcivescovo di Ravenna d'accordo cogli altri consigliò il papa di levar quelle chiese di sotto all'arcivescovo di Pisa. Ciò udito dall'arcivescovo di Pisa, cotanto si sdegnò, [588] che gittò a' piedi del pontefice la mitra e l'anello con dirgli che non sarebbe più nè suo arcivescovo, nè vescovo. Azzo dovrebbe essere stato questo arcivescovo, di cui oltre a quest'anno non parla l'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., in Archiep. Pisan.]. Allora il papa con un piede spinse via la mitra e l'anello, e disse all'arcivescovo: Fratello, hai mal fatto, e te n'avrai a pentire. Nel giorno seguente poi nel pieno concilio ordinò a Gregorio cardinal diacono di sant'Angelo, che fu poi papa Innocenzo II, di leggere il decreto, che da lì innanzi i vescovi della Corsica cessassero d'essere sottoposti alla chiesa pisana. A tutto questo fu presente lo stesso Caffaro istorico, il quale conferma la tenuta del concilio lateranense nell'anno presente. Però, in vece di calmar la dissensione fra i Genovesi e Pisani, questa sentenza maggiormente l'accese.


   
Anno di Cristo MCXXIV. Indizione II.
Onorio II papa 1.
Arrigo V re 13, imperad. 14.

Non oltre l'anno presente menò sua vita Callisto II, pontefice d'immortal memoria. Scrive Pandolfo Pisano [Pandulfus Pisanus, in Vita Callisti II.] ch'egli fece atterrar le torri di Cencio di Donna Bona, che erano una sentina d'iniquità, con ordine di non rifabbricarle mai più. Parla della sua pia liberalità verso le chiese di Roma, e massimamente verso la basilica vaticana, con altre sue gloriose azioni. Meritava ben più lunga vita un pontefice di sì rare qualità. Ma Iddio il volle per sè. Caduto infermo nel mese di dicembre dell'anno presente, prese i santi sacramenti, e fra le lagrime e i gemiti di tutti gli astanti cessò di vivere sopra la terra. Molto si stende il padre Pagi [Pagius, ad Annal. Baron.] per accertare il giorno preciso di sua morte, pretendendo ch'egli mancasse di vita nel dì 13 del suddetto mese, e fosse seppellito nel giorno seguente. Resta nulladimeno, a mio credere, tuttavia alquanto dubbioso [589] questo punto. Pandolfo Pisano, che era allora in corte di Roma, gli dice data sepoltura nella basilica lateranense in festivitate sanctae Luciae. E Falcone Beneventano [Falco Beneventanus, in Chron.], anch'esso autore di questi tempi, racconta che egli terminò i suoi giorni duodecimo die stante mensis decembris. Probabilmente egli scrisse intrante. Comunque sia, dopo sette giorni di sede vacante fu eletto Lamberto vescovo d'Ostia, nato nel territorio di Bologna, e persona letterata, che prese il nome di Onorio II. Tuttavia l'elezione sua non passò senza discordia e tumulto. I laici principali di Roma erano allora Leone della nobilissima casa de' Frangipani, e Pier Leone ossia Pietro di Leone, cioè figliuolo di un Leone ricchissimo Giudeo che s'era fatto cristiano, come s'ha dalla Cronica mauriniacense [Chron. Mauriniac.], da san Bernardo e da altri. S'accordarono questi [Pandulfus Pisanus, in Vita Honorii II.] di trattare amichevolmente insieme, con segreto pensiero nondimeno di deludere l'un l'altro nel dare un successore al defunto pontefice. Fece il Frangipane una sera avvertir tutti i cappellani de' cardinali, che nella seguente mattina portassero seco il piviale rosso sotto il mantello, con intenzione di far dichiarare papa il suddetto Lamberto ostiense. Ma, non so come, essendosi nel giorno appresso raunati i vescovi nella chiesa di san Pancrazio presso al Laterano, quivi restò eletto papa Tebaldo Boccadipecora, cardinale di santa Atanasia, col nome di Celestino, consentendovi anche lo stesso vescovo Lamberto; e messogli addosso il piviale rosso, intonarono il Te Deum. Non erano alla metà, che Roberto Frangipane, forse fratello di Leone, con alcuni suoi parziali e con alcuni della corte proclamarono papa il suddetto Lamberto vescovo d'Ostia, e il fecero vedere al popolo, il quale è da credere che anch'esso l'acclamò. Gran disputa dovette succedere; ma in fine prevalendo la potenza de' Frangipani, e cedendo [590] con gloriosa umiltà ai suoi diritti il cardinale Tebaldo, restò papa l'ambizioso Lamberto, cioè Onorio II. Aggiugne poi l'autore della Vita di questo pontefice, a noi conservata dal cardinale d'Aragona [Cardinal, de Aragonia, in Vita Honorii II.], che scorgendo Onorio dubbiosa e poco canonica l'esaltazione sua, dopo sette giorni depose il pontificato, e con una nuova universale elezione abilitato e confermato sanò gli antecedenti difetti. Sed quia electio ipsius Honorii minus canonicae processerat, post septem dies in conspectu fratrum sponte mitram et mantum refutavit atque deposuit. Fratres vero tam episcopi, quam presbyteri et diaconi cardinales, videntes ipsius humilitatem, et prospicientes in posterum, ne in romanam Ecclesiam aliquam inducerent novitatem, quod perperam factum fuerat, in melius reformarunt; et eumdem Honorium denuo advocantes, ad ejus vestigia prociderunt, et tanquam pastori suo et universali papae consuetam sibi obedientiam exhibuere. L'abbate Urspergense [Abbas Urspergensis, in Chron.] scrive che una parte dei Romani desiderò d'avere per papa Gualtieri arcivescovo di Ravenna, omni religionis testimonio satis commendatum. Più che mai continuò in quest'anno la guerra fra i Genovesi e Pisani. Secondo la testimonianza di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1.], venivano dalla Sardegna ventidue navi cariche di molto avere, scortate da nove galee pisane. Contra d'esse a vele gonfie navigarono sette galee genovesi, alla vista delle quali intimoriti i Pisani, si rifugiarono nel porto di Vado, e abbandonarono esse navi. I Genovesi con grande allegrezza condussero a Genova que' legni col loro valsente. Per attestato di Fulcherio Carnotense [Fulcher. Carnotens., lib. 3.] e del Dandolo [Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], si segnalarono in quest'anno ancora in Oriente l'armi de' Veneziani, comandate da Domenico Michele loro doge. Cioè cogli altri crociati formarono l'assedio [591] della ricchissima e riguardevol città di Tiro, e tanto la strinsero e battagliarono, che in fine que' cittadini turchi e saraceni furono costretti a capitolar la resa. Due parti d'essa città toccarono a Baldovino re di Gerusalemme, tertia hereditario jure Veneticis tam in urbe, quam in portu: sono parole d'esso Fulcherio. Scrive il Dandolo che fu convenuto con quel re, ut in omni civitate, quam caperent, Veneti unam rugam (vocabolo franzese latinizzato, significante contrada) francam habeant, ecclesiam, balneum, clibanum, mensuras etiam bladi, vini, et olei; quae omnia libera sint, sicut propria regis. Et insuper annuatim CCC bysantia in festo apostolorum Petri et Pauli de funda Tyri habere debent. Molto più scrive Bernardo Tesoriere [Bernard. Thesaurar., cap. 118, tom. 7 Rer. Italic.], con dire che si doveano pagare ogni anno quatuor millia byzantiorum Saracenorum ai Veneziani; e che prendendo Ascalona e Tiro, tertiam partem cum suis pertinentiis regaliter et libere obtinebunt. Tali conquiste mirabilmente servirono alla mercatura e ad altri vantaggi de' Veneziani. Intesosi dipoi che l'imperador di Costantinopoli era dietro a recar danno alle terre d'essi Veneziani, venne la lor flotta a Rodi, e negandole quel popolo rinfreschi di viveri, presero quella città e le diedero il sacco con asportarne di molte ricchezze. Poscia se ne andò quella flotta a Scio, e impadronitasene, quivi passò il verno. Seguitando intanto la guerra fra i Milanesi e Comaschi [Anonymus Poeta Comens., tom. 5 Rer. Italic.], l'anno presente ancora vide molti fatti d'armi, favorevoli ora all'una, ora l'altra parte. Assediarono i Comaschi l'isola loro nemica, ma non poterono ridurla alla loro ubbidienza. Impresero poscia i Milanesi l'assedio di Como, ma cotal bravura ritrovarono in quel popolo, che loro convenne tornarsene a casa colle bandiere nel sacco.

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Anno di Cristo MCXXV. Indizione III.
Onorio II papa 2.
Lottario III re di Germania e d'Italia 1.

Fu l'anno presente l'ultimo della vita di Arrigo fra i re quinto e quarto fra gli imperadori [Abbas Urspergens., in Chron. Otto Frisingensis, in Chron. Robertus de Monte et alii.]. Concordano in questo fatto troppi storici: laonde non è da ascoltare chi parla di sua morte o nel precedente o nel susseguente anno. Accadde questa nel dì 23, oppure nel 22 del mese di maggio, senza ch'egli lasciasse prole dopo di sè. Trattossi dunque nella dieta de' principi dell'elezion del successore, e fra i candidati si contavano [Otto Frisingens., lib. 7, cap. 17. Dodechin., in Chron.] Lottario duca di Sassonia, Federigo duca di Suevia, Leopoldo marchese d'Austria e Carlo conte di Fiandra. Concorsero i voti della maggior parte in Lottario, terzo fra i re d'Italia, e poi secondo fra gl'imperadori, il quale contro sua voglia eletto nel dì 30 d'agosto, fu coronato re di Germania nel dì 13 di settembre. Erano passate fra questo principe e l'ultimo Arrigo Augusto molte dissensioni e guerre, per le quali Lottario, uomo per altro valorosissimo, era stato una volta assai umiliato, e però conservava egli un mal talento contra tutti i di lui parenti. Tali erano fra gli altri il suddetto Federigo duca di Suevia, e Corrado suo fratello, che l'Urspergense chiama duca di Franconia, perchè figliuoli di Agnese sorella del suddetto Arrigo V ed eredi del medesimo Augusto. Avea lo stesso Federigo condotte seco alla dieta circa trenta migliaia di combattenti, sperando o col terrore o col favore di poter conseguir la corona. Escluso, rivolse l'armi contra del nuovo re; ma per interposizione dei vescovi si quietò per allora, e gli fece poi più guerra ne' seguenti anni per mezzo ancora del suddetto Corrado suo [593] fratello, dopo averlo, coll'aiuto di alcuni principi suoi parziali, creato re di Germania, siccome vedremo andando innanzi. Non so io dire se in questo, oppure nel seguente anno, come vuole il signor Sassi, desse fine a' suoi giorni Olrico arcivescovo di Milano. Ben so che a lui succedette Anselmo da Pusterla [Landulfus junior, Hist. Mediolan., cap. 37.]. E perciocchè, oltre ad uno strumento recato dal Puricelli [Puricell., Monument. Basil. Ambrosian.], da cui apparisce che questo Anselmo anche nell'anno 1123 s'intitolava arcivescovo di Milano, s'ha la medesima notizia chiaramente confermata dall'anonimo contemporaneo poeta della guerra di Como [Anonymus Comensis, in Poem., tom. 5 Rer. Ital.]: come ciò possa essere l'hanno cercato eruditi scrittori. Continuo io a credere, siccome conghietturai nella prefazione al suddetto anonimo poeta, che vivente il suddetto Olrico, prima dell'anno 1123 fosse eletto suo coadiutore il medesimo Anselmo, e che in questi tempi colla coadiutoria andasse unito anche il titolo di arcivescovo: del che ho recato un altro esempio di questo secolo nella chiesa milanese. Essendo poi mancato di vita Olrico o nel presente o nel seguente anno, allora Anselmo restò solo ed attuale arcivescovo di Milano.

Non pochi fatti di guerra succederono ancora in questo anno fra i Milanesi e Comaschi con varietà di fortuna. Tornarono i primi all'assedio di Como, ma ne furono valorosamente respinti. Varie battaglie ancora si fecero nel lago Lario, ossia di Como, e senza mai perdersi d'animo tennero forte i Comaschi contro la potenza de' nemici. Ma essendo passato a miglior vita Guido loro vescovo, cominciarono da lì innanzi ad andare i loro affari di male in peggio. Tornò nell'anno presente a Venezia [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital. Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.] la vittoriosa flotta del doge di Venezia Domenico Michele. Prima nondimeno essendo seguita rottura [594] coll'imperador di Costantinopoli Giovanni Comneno, gli fecero guerra col prendere e dare a sacco le isole di Samo, Mitilene ed Andro. Venuti parimente in Dalmazia, ricuperarono dalle mani degli Ungheri le città di Spalatro e di Traù. Cacciarono anche dalla marittima terra di Belgrado, diversa da quella che sta al Danubio, gli Ungheri; e quindi ricevuti con grande onore dal popolo di Zara, dove si fece la distribuzion della preda, felicemente e con trionfo si restituirono alla lieta lor patria. Nella state dell'anno presente i Genovesi con dieci galee scorsero il mare di Corsica e Sardegna sino a Porto Pisano [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Ital.], con prender molti Pisani, merci e legni de' medesimi. Trovata ancora una lor cocca, che portava quattrocento uomini e un ricco carico, la perseguitarono per quattro giorni. Per fortuna di mare fu d'uopo lasciarla; ma questa andò poi a rompersi all'imboccatura dell'Arno. Presero dipoi e saccheggiarono Piombino nel mese di settembre, conducendo prigioni a Genova tutti quegli abitanti grandi e piccioli.


   
Anno di Cristo MCXXVI. Indizione IV.
Onorio II papa 3.
Lottario III re di Germania e d'Italia 2.

Un insigne accrescimento di potenza si fece in questi tempi, per attestato di Dodechino [Dodechinus, in Chron.], alla linea germanica degli estensi duchi di Baviera. Cioè in questo, oppure nell'anno precedente, mancò di vita Arrigo il Nero duca di Baviera, il quale s'era ritirato nel monistero di Weingart [Chron. Monaster. Weingart.], con lasciare gli Stati ad Arrigo IV e Guelfo VI suoi figliuoli. Restarono di lui ancora Corrado, che, sprezzato il mondo, morì poi in concetto di santità, e quattro figliuole: fra le quali Giuditta, maritata con Federigo [595] duca di Suevia, fu madre del famoso imperadore Federigo I soprannominato Barbarossa. Ora il suddetto Arrigo IV, che poi venne da alcuni moderni scrittori appellato il Superbo per distinguerlo dagli altri di questo nome, fu considerato dal re Lottario per quel principe che meritasse più degli altri la confidenza ed amore suo, stante la sua potenza, e insieme l'antica nimistà che passava tra la casa de' Guelfi, il cui sangue e la cui eredità era passata in lui, e la casa ghibellina, da cui discesero i tre ultimi Arrighi imperatori, con lasciar eredi anche delle loro gare i due fratelli Federico duca di Suevia e Corrado. Perciò Lottario, affine di maggiormente accrescere la possanza di Arrigo IV duca di Baviera, gli conferì in quest'anno anche il ducato della Sassonia: con che egli potea paragonarsi ai re, se non nel titolo, certamente nell'ampiezza del dominio, perchè allora i nobilissimi ducati della Baviera e Sassonia erano di maggior estensione che oggidì. Un altro riflesso ebbe in ciò il re Lottario, perchè già meditava di dare in moglie ad esso Arrigo l'unica sua figliuola Geltruda. Anzi non mancano scrittori [Helmoldus, Chron. Slav., lib. 1, cap. 55.] che credono contemporanee tali nozze, celebrate nell'anno susseguente, coll'investitura del ducato della Sassonia: e forse questo può sembrar più probabile. L'anno presente verisimilmente quel fu in cui Anselmo da Pusterla, novello arcivescovo di Milano, contro la volontà del suo clero e popolo si portò a Roma per trattare del pallio che il papa ricusava di inviargli a Milano [Landulfus junior, Hist. Mediolan., cap 38.]. A questa sua risoluzione si opponevano i Milanesi, pretendendo una novità pregiudiziale alla dignità del loro arcivescovo il dover andare a prendere in Roma quel pallio che i precedenti pontefici per li loro legati aveano inviato in addietro a Milano. Colà giunto Anselmo, ebbe un bell'allegare privilegii e consuetudini favorevoli al suo diritto. Papa Onorio II stette saldo in volere che [596] ricevesse il pallio o dalle sue mani, o sull'altare di san Pietro. Anselmo, chiesto parere a Roberto vescovo d'Alba, che il dissuase dal sottoporsi a questo aggravio e discredito, se ne tornò senza pallio a Milano. Ma non fu ammesso nel palazzo archiepiscopale, se non dopo avere Uberto da Marignano suo cancelliere e il vescovo d'Alba giurato ch'egli non avea acconsentito a pregiudizio alcuno della chiesa milanese. In quest'anno ancora, per attestato di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1.], i Genovesi colla lor flotta arrivarono alla bocca d'Arno. Sbarcati, furono alle mani colla fanteria e cavalleria de' Pisani. Passati poscia a Vado, distrussero quasi tutto quel castello, e di nuovo per battaglia s'impadronirono del castello di Piombino, che già si cominciava a rifabbricare. Portatisi di poi in Corsica, presero il castello di san Giovanni, con far prigioni trecento Pisani. Parimente in quest'anno [Anonymus Poeta Comensis, tom. 5 Rer. Ital.] tornò l'esercito de' Milanesi contra della città di Como, con bloccarla ed occupare le colline d'intorno e la valle di san Martino. Erano coi Milanesi anche i Lodigiani e Cremaschi, coll'aiuto dei quali si renderono padroni della valle di Lugano. Sempre più perciò peggioravano gli affari del popolo comasco.


   
Anno di Cristo MCXXVII. Indizione V.
Onorio II papa 4.
Lottario III re di Germania e d'Italia 3.

Diede fine in quest'anno alla sua vita in Salerno, capitale allora dei duchi di Puglia, nel dì 20 di luglio [Falco Beneventanus, in Chron.] Guglielmo duca di Puglia, compiuto di poco l'anno trentesimo di sua vita. Non aveva egli ricavata prole alcuna da sua moglie, figliuola del principe di Capoa, la quale vinta dal dolore, tagliatisi i suoi bei capegli, fra le lagrime e gli urli andò a gittarli sopra il [597] petto del defunto consorte. Concorse ancora tutto il popolo di Salerno a deplorar la morte di questo buon principe, il cui cadavero con reale magnificenza fu seppellito in quella metropolitana. Appena arrivò questa nuova a Ruggieri conte di Sicilia, che non perdè tempo a passar con sette galee presso a Salerno, e di là si studiò d'indurre quel popolo a prenderlo per loro signore, allegando la stretta parentela e la promessa fattagli dallo stesso duca Guglielmo di dichiararlo suo erede in mancanza di figliuoli. Hanno anche scritto alcuni che veramente Guglielmo col suo testamento gli mantenne la parola; ma di ciò non resta alcun buon fondamento. Se creder vogliamo a Falcone Beneventano, per dieci giorni si fermò il conte Ruggieri in nave, cercando pur di trarre alle sue voglie i Salernitani, che trovò molto alieni del darsi a lui, forse perchè riputavano erede più legittimo e prossimo ab intestato Boamondo II principe d'Antiochia, nipote di Roberto Guiscardo, oppure per altri motivi. Ma finalmente chiamati a parlamento quei cittadini col loro arcivescovo Romoaldo, diverso dallo storico, con sì belle parole e promesse di buon trattamento loro parlò, che fatto dipoi generale consiglio, l'accettarono per loro signore. Alessandro, chiamato da altri abbate Celesino, ma che senza dubbio si dee appellar Telesino, perchè abbate di Telesa, scrittore di questi tempi, aggiugne una particolarità cioè: [Alexander Telesinus, de Gest. Rogerii lib. 1, cap. 5.] che i Salernitani, parlando con Sarolo ossia Saroto, messo del conte, esagerarono gli aggravii loro fatti dal duca Guglielmo e da' suoi antecessori, e che, temendo altrettanto dal conte Ruggieri, non gli si voleano sottomettere. E perchè Sarolo rispose loro con qualche villania, se gli avventarono addosso e il privarono di vita. Non ostante sì grave offesa, stette fermo il conte; e dissimulando il suo sdegno, seguitò a trattare, finchè indusse quel popolo a riceverlo per principe, a [598] condizione nondimeno che restasse in lor mano la guardia della torre maggiore, ossia della rocca. Ruggieri, uomo che ben sapea il suo conto, accordò loro tutto, purchè si mettesse in possesso di Salerno. Altrettanto fece con Rainolfo conte di Alife, a cui concedette esorbitanti dimande, per averlo dalla sua nella già incominciata conquista della Puglia. L'esempio di Salerno si tirò dietro gli Amalfitani, che, nel darsi al conte Ruggieri, ottennero anch'essi di ritenere in lor potere le fortezze di quella città. Aggiugne Falcone che il conte Ruggieri ridusse dipoi alla sua ubbidienza anche le città di Troia e di Melfi, ed altre parti della Puglia, e se gli suggellarono alcuni baroni di quelle contrade. Ma giunto a Roma l'avviso di questi progressi del conte Ruggieri, se ne alterò forte papa Onorio II con tutta la sua corte, tra perchè dovea pretendere devoluto il feudo della Puglia alla santa Sede, e perchè non gli dovea piacere l'ingrandimento d'un principe signore della Sicilia, il quale, se diveniva padrone anche della Puglia e Calabria, avrebbe potuto dar la legge a Roma stessa. Però cominciò a far pratiche per impedire gli avanzamenti del conte Ruggieri.

Passò esso papa a tal fine a Benevento, indi alla città di Troia, che gli prestò ubbidienza. Gli avea già il conte Ruggieri spediti ambasciatori con ricchi regali, per impetrar l'investitura del ducato di Puglia e Calabria; e tuttochè esibisse di rilasciare al papa la città di Troia e Montefosco, niun partito si volle ascoltare, essendo insperanzito il pontefice di metter sotto l'immediato suo dominio tutto quel ducato, oppure disegnando d'investirne il giovane Boamondo II principe d'Antiochia, a cui con più ragione appartenevano quegli Stati. Ora veggendo il conte Ruggieri sì mal disposto verso di lui l'animo del papa, comandò a' suoi uffiziali di cominciar le ostilità contro la città di Benevento: il che fu cagione ancora ch'esso papa Onorio si trasferisse colà. Quivi egli fulminò [599] la scomunica contra d'esso conte, e di chiunque gli prestasse aiuto: il che servì a Rainolfo conte d'Alife per abbandonar Ruggieri, e seguitar la parte del romano pontefice. Dimorava tuttavia in Salerno il conte Ruggieri, e di là spedì altri ambasciatori a Benevento, pregando il papa di concedergli il ducato; ma furono ancor questi rimandati con sole dure risposte. Il perchè Ruggieri perduta la pazienza, e conoscendo volerci altro che preghiere e parole per piegare l'animo indurito del pontefice, se ne tornò in Sicilia, risoluto di cercar colla forza ciò che non poteva ottener colle maniere amichevoli di pace; e senza licenza del papa assunse il titolo di duca. Intanto i Milanesi, più che mai ansanti di sottomettere la città di Como [Anonymus Poeta Comensis, tom. 5 Rer. Italic.], fecero venir da Genova e da Pisa buona copia d'artefici, atti a fabbricar navi, castelli di legno, grosse baliste ed altri ordigni di guerra. Ottennero gagliardi soccorsi da Pavia, Novara, Vercelli, Asti, Alba, Albenga, Piacenza, Parma, Mantova, Ferrara, Bologna, Modena e Vicenza, siccome ancora dal conte di Biandrate, dalla Garfagnana e da altre parti. Dal che vegniamo a conoscere che tutte le suddette città si governavano a repubblica, nè più erano governate dai ministri imperiali. Con questo possente esercito si portarono i Milanesi all'assedio di Como, che fu con vigore sostenuto da' cittadini, finchè ebbero forze. Ma in fine, veggendo vicina la rovina loro, presero la risoluzione d'imbarcar una notte tutte le loro donne e figliuoli col meglio delle sostanze; e fatto nello stesso tempo un grande strepito nella città, e una sortita sopra i nemici, affinchè non inquietassero le preparate navi, anch'essi dipoi imbarcatisi sul lago, navigarono al castello di Vico, con animo di quivi vendere caro la lor libertà e la vita. Entrati la seguente mattina i Milanesi [600] nella città, si avvidero della fuga degli abitatori. Di là passarono al suddetto castello di Vico; ma trovandolo inespugnabile, e necessario gran tempo e spesa per vincere la costanza de' Comaschi, diedero finalmente orecchio alle proposizioni di pace. Fu questa infatti stabilita, conservati i beni ai cittadini, ma condannata la città a perdere le mura ed ogni altra fortezza, e a prestare ubbidienza e tributo da lì innanzi a Milano. Pretesero il Puricelli e il padre Pagi che l'eccidio di Como seguisse nell'anno susseguente 1128, e il signor Sassi [Saxius, in Not. ad Landulfum junior., cap. 37.] riferisce altri autori del medesimo parere. Ma essendo concordi gli storici milanesi e comaschi e Galvano Fiamma [Gualvan. Flamma, Manip. Flor., tom. 11 Rer. Ital.] in riferir questo fatto all'anno presente, non credo che s'abbia da dipartire dalla loro opinione. E massimamente perchè nell'antico Calendario milanese, da me pubblicato [Rer. Italic. Par. II, tom. 2.], è notato anno Domini MCXXVII capta est civitas Comensium. Forse i primi autori parlano della pace probabilmente conchiusa nell'anno seguente, e gli altri della presa della città accaduta nel presente. Ed ecco come, liberate le città lombarde dal giogo straniero, cominciarono a volgere l'armi l'una contra l'altra; male che mireremo andar crescendo per la matta ambizione da cui chi più può, più degli altri ancora si lascia sovvertire. Celebrò il re Lottario la festa di Pentecoste in Merseburg [Annalista Saxo.], ubi decentissimo multorum principum habito conventu unicam et dilectam filiam suam Gertrudem glorioso Bavariae duci Henrico, ducis Heinrici, et Vulfidae, magni ducis natae, filio, cum multa honorificentia in matrimonii honore sociavit. L'Urspergense narra [Urspergens., in Chronic.] che in Augusta ne furono celebrate le nozze con rara magnificenza. Io ne fo menzione, [601] perchè fatto spettante alla linea estense di Germania.


   
Anno di Cristo MCXXVIII. Indizione VI.
Onorio II papa 5.
Lottario III re di Germania e d'Italia 4.

Nel dì 19 di dicembre dell'anno precedente era mancato di vita Giordano II principe di Capoa [Falco Beneventanus, in Chron.], a cui succedette Roberto II suo figliuolo. Per questa cagione, cioè per sostenere i diritti della sua sovranità, si portò papa Onorio nel dì 30 di dicembre a Capoa, quivi accolto con varie finezze da Roberto. Invitati poscia i vescovi ed abbati sul principio di quest'anno con gran pompa ed allegria alla presenza del sommo pontefice, Roberto fu unto principe e prese l'investitura da esso papa. In tal congiuntura papa Onorio nella copiosa assemblea de' prelati e baroni espose le sue doglianze contra di Ruggieri conte di Sicilia per la guerra mossa ai Beneventani, e per l'usurpazione di vari luoghi della Puglia, invitando tutti alla difesa di quegli Stati, siccome dipendenti dalla Chiesa romana, e dando indulgenza plenaria a chiunque morisse in quella spedizione: ripiego strano, che tuttavia comincia a diventare alla moda, con far servire la religione agl'interessi temporali. Roberto principe di Capoa, Rainolfo conte d'Alife, Grimoaldo principe, o, per dir meglio, signore di Bari, Tancredi di Conversano conte di Brindisi, Ruggieri conte d'Oria, ed altri conti e baroni, tutti con promesse magnifiche assunsero la difesa dei diritti pontificii, e si prepararono a sostener la guerra contra del conte Ruggieri. Confermò di nuovo il papa tanto ivi, quanto dipoi in Troia, la scomunica contra d'esso Ruggieri, ed inviò il principe di Capoa col conte Rainolfo all'assedio del castello della Pillosa nel dì 29 di gennaio, e con esso loro più di due mila Beneventani. Ma ossia [602] che l'osso fosse duro, oppure, come fu allora creduto, che quei comandanti non operassero con buona fede, nulla di rilevante fu fatto per impadronirsene; del che concepì tale sdegno il pontefice, dimorante allora in Monte Sarchio, che se ne tornò nel distretto del ducato romano [Abbas Telesinus, lib. 1, cap. 12.]. Intanto venuta la primavera, il valoroso conte Ruggieri con un poderoso esercito di Siciliani passò lo Stretto; prese e spianò le terre d'Unfredo; se gli renderono Taranto ed Otranto, città di Boamondo iuniore principe d'Antiochia, il quale miseramente poi nell'anno 1130 restò ucciso in Oriente dai Turchi. S'inoltrò il vittorioso Ruggieri, e stretta con vigoroso assedio la città di Brindisi, talmente la battagliò, che la costrinse alla resa. Colla stessa felicità s'impadronì della città di Oria e di molte altre castella. A questi dispiacevoli avvisi tornò papa Onorio II a Benevento, seco conducendo circa trecento soldati a cavallo romani; e ordinato a Roberto principe di Capoa, a Rainolfo conte e agli altri baroni di prendere l'armi, andò con grandi forze per opporsi alle vittoriose schiere del conte Ruggieri. Ma questi unita la sua gente, venne a postarsi al fiume Bradano, e quivi si accampò. Dall'altra parte anche l'esercito pontificio mise le tende, senza osare nè l'una nè l'altra parte di guadare il fiume per cercare il nemico. Alessandro abbate Telesino scrive, essersi trattenuto Ruggieri per riverenza al sommo pontefice. All'incontro Falcone [Falco Beneventanus, in Chron.], favorevole ad esso pontefice, scrive che Ruggieri, sentiens Apostolicum cum exercitu valido militum et peditum, et baronibus suis adversus se venientem, in montana secessit, devitans Apostolici virtutem, ne aliquo modo aliquid ei sinistrum contingeret; et sic per quadraginta dies Apostolicus ille ardenti sole mensis julii fatigatus comitem illum obsedit. Tanta inazione, e l'essersi cominciato a scarseggiar di viveri [603] e di paghe nel campo pontificio, cagione fu che disertavano a furia i soldati, e lo stesso principe di Capoa, siccome persona di delicata complessione, non potendo reggere alla sferza del caldo estivo e agli altri disagi, spiantò il suo padiglione per andarsene. Falcone, l'autor della Vita di questo papa [Cardinal. de Aragon., in Vit. Honorii II.], ed altri scrittori incolpano d'infedeltà que' baroni, quasichè cercassero senza ragione motivi di ritirarsi. Comunque sia, il saggio papa, veggendosi esposto a pericolo di disonore e di perdite gravi, segretamente mandò Cencio Frangipane ad offerire al conte Ruggieri l'investitura del ducato, promettendo di dargliela in Benevento. Altro che questo non cercava Ruggieri, e però furono d'accordo. Andossene il papa a Benevento; gli tenne dietro Ruggieri con un buon corpo di sua gente, e andò a postarsi nel monte di san Felice fuori di Benevento. Pretendeva il pontefice che Ruggieri entrasse nella città a ricever quivi l'investitura; ma Ruggieri, principe cauto ed accorto, persiste sempre in dire che fuori e non entro di Benevento avrebbe ricevuto le grazie pontificie. Convenne pertanto che il papa uscisse, e fatto l'abboccamento al ponte maggiore presso il fiume, nell'ottava dell'Assunzion della Vergine, quivi papa Onorio II investì il conte Ruggieri del ducato di Puglia e Calabria nella stessa forma che s'era praticata con Roberto Guiscardo e col suo figliuolo e nipote.

Si lagnarono forte del papa per questo segreto accordo, fatto senza lor participazione, e, senza parola in lor difesa, i baroni e le città che tenevano la parte d'esso pontefice, perchè restavano alla discrezione del nuovo duca Ruggieri. Ma ebbero un bel gridare. Dopo avere il papa in questa maniera assicurato il suo diritto, se ne tornò da lì a non so quanti giorni a Roma. Non v'era ancor giunto, quando una parte de' Beneventani crudelmente uccise Guglielmo governatore pontificio di quella città. Adirato il papa [604] proruppe in molte minaccie, e spedì il cardinale Gherardo a quel governo, che trovò avere i Beneventani formata una specie di comunità, senza però dipartirsi dall'ubbidienza del romano pontefice. Intanto il duca Ruggieri si portò all'assedio di Troia [Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 17.]; ma ritrovandola ben munita, e i cittadini risoluti di difendersi, si ritirò, attendendo poscia ad entrare in possesso di Melfi e d'altre città che gli aveano mandati ambasciatori. Dopo di che, avvicinandosi il verno, andò a Salerno, e di là in Sicilia. In Lombardia parimente fu gran novità in quest'anno. Federigo duca di Suevia e Corrado suo fratello, siccome figliuoli di Agnese sorella dell'ultimo Arrigo Augusto, pretendeano al regno e all'imperio, e perciò dicemmo nata guerra fra loro e il re Lottario in Germania. Pensò Federigo di fare un bel colpo coll'inviare il fratello Corrado in Italia, acciocchè si procacciasse questo regno [Landulfus junior, Hist. Mediolan., cap. 39.]. Doveva essere preceduto qualche segreto trattato coi Milanesi, perciocchè appena comparve in Milano, che quella nobiltà col popolo tutto si dichiarò in suo favore. Soggiornava in questi tempi l'arcivescovo Anselmo fuori di città nelle sue castella; fu chiamato per parte del clero e popolo a far la coronazione di Corrado, la quale infatti si eseguì nella festa di san Pietro di giugno in Monza, con dargli l'arcivescovo la corona ferrea nella basilica di san Giovanni Batista, e dichiararlo re d'Italia. Fu da lì a qualche giorno rinnovata questa funzione nella basilica di santo Ambrosio di Milano. Alla prima coronazione si trovò presente lo storico Landolfo da san Paolo, ma per suoi affari mancò alla seconda. Scrive egli dipoi d'esso Corrado: Hunc namque gradientem per comitatus et marchias Lombardiae et Tusciae, comites et marchiones cujuscumque nobilitatis, viri potentes et humiles, cum gaudio susceperunt et amaverunt. Ma coloro che gli fecero resistenza, nè il vollero per loro re, [605] ejus acutissimi gladii fortitudinem senserunt, atque mortem et confusionem, ceu Anselmus marchio del Busco, et illustris... comes, susceperunt. Uno scrittore tedesco s'immaginò che questo conte, di cui s'è perduto il nome, fosse Alberto, o Ingelberto, dichiarato, per quanto egli crede, da papa Onorio marchese della Toscana, con citare un documento da me prodotto [Antichità Estensi, P. I, cap. 30.], in cui s'incontra Albertus Dei gratia marchio et dux, lege vivens salica, cooperante gratia et beati Petri, et domini papae Honorii ejus vicarii munere, ec. Ma questo non vuol dire ch'egli fosse marchese veramente di Toscana. In questi tempi si truova Corrado, marchese veramente di Toscana, siccome ho osservato altrove [Antiquit. Italic., Dissert. VI.], e si truovano documenti che parlano di lui agli anni 1121 e 1129. Quell'Alberto, di cui è fatta menzione nelle Antichità estensi, si vede creato da papa Onorio II marchese e duca dopo la morte dell'ultimo imperadore Arrigo, con dargli l'investitura de' beni e Stati della contessa Matilda; ma senza ch'egli esercitasse dominio alcuno nè in Toscana, nè in Mantova, Ferrara, Modena ed altre città sottoposte una volta a Matilda. A noi dunque basterà di sapere che Corrado incoronato re, per tale fu riconosciuto, non dirò da tutti, bensì da moltissimi in Lombardia e Toscana. Ma che? Il pontefice, che avea approvata per mezzo de' suoi legati l'elezione del re Lottario, mosso da lui, pubblicò contra di Corrado una terribile scomunica [Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 17.], per cui cominciò tosto a scemare il suo credito, e fu in fine annientata in Italia la di lui potenza.

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Anno di Cristo MCXXIX. Indizione VII.
Onorio II papa 6.
Lottario III re di Germania e d'Italia 5.

Nella Vita di papa Onorio II è scritto che egli [Cardinal. de Arag., in Vit. Honorii II, P. I, tom. 3 Rer. Ital.] delegavit Petrum presbyterum cardinalem tituli sanctae Anastasiae ad partes Ravennae, qui deposuit aquilejensem et venetum patriarchas. Il cardinal Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.] non seppe il perchè. Ma Bernardo di Guidone [Bernardus Guidon., in Vit. Honori II, P. I, tom. 3 Rer. Ital.] ne adduce il reato, quia invenit eos schismaticis favorabiles exstitisse. Il Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] scrive, quia schismaticis fuerant fautores. Tolomeo da Lucca [Ptolom. Lucens., Histor. Eccl.] vi aggiugne un forte. Non si può intendere questo dall'antecedente scisma, perchè la pace avea abolito tutti i delitti e processi. Adunque, siccome subodorò il Sigonio [Sigon., de Regno Ital.], potè piuttosto procedere la loro condanna per aver promosso o abbracciato il partito di Corrado usurpatore della corona d'Italia contro il giuramento prestato al re Lottario, cioè ad un principe approvato dalla santa Sede. Da una lettera scritta in questi tempi dall'arcivescovo di Salisburgo al vescovo di Bamberga, che si legge fra le raccolte da Udalrico [Udalricus Bambergensis, Corp. Hist. Eccardi, tom. 2, pag. 353.], impariamo che fu eletto in luogo di Gherardo, stirpe inutile e piena di vizii, un altro patriarca, che era decano di Bamberga, uomo dabbene, e perciò eliminatam fuisse veterum spurcitiarum, quae longo illic tempore dominata fuerat, foeditatem, quum abjecta indigna satis omni ecclesiastico regimini persona, clerum et populum vidimus tam honeste tamque canonice de alterius substitutione cogitare. Qui nulla si parla di scisma; solamente [607] è accusato quel Gherardo, chiamato Riccardo dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 5.], di inabilità e di vizii. E però le lodi a lui date dal Candido, da esso Ughelli e da altri, si debbono cancellare. Ma eletto che fu il decano suddetto, quel clero il perseguitò in maniera che fu obbligato a fuggire, e noi non sappiamo se quel Pellegrino che gli succedette, sia lo stesso decano. È nondimeno da stupire come tali scrittori parlino della deposizione di que' due patriarchi, e nulla dicano di quanto avvenne ad Anselmo arcivescovo di Milano. Noi certo abbiamo da Landolfo da san Paolo [Landulfus junior, Hist. Mediol., cap. 39.] che Giovanni da Crema cardinale romano, venuto a Pavia, qui raunò un concilio de' vescovi suffraganei della chiesa di Milano per iscomunicare il suddetto arcivescovo, perchè egli avesse coronato ed alzato Corrado al regno contro il legittimo re Lottario. Anselmo, udito questo rumore, spedì colà molti de' suoi per pregarli di non procedere avanti senza ascoltarlo; ma il cardinale e i vescovi, incitati da alcune città che aderivano ad esso re Lottario, niuna dilazione vollero accordargli, e fulminarono contro di lui la scomunica. Dico la scomunica, perchè non parla quello storico di deposizione. Anzi aggiunge che la maggior parte de' Milanesi, finchè visse papa Onorio II, tennero per loro pastore il soprammentovato Anselmo. Quali poi fossero le città costanti nell'ubbidienza al re Lottario, lo spiega il medesimo storico con dire: At papienses, cremonenses, novarienses quoque, et eorum episcopi, et aliarum civitatum, praedicantes hoc regium opus Anselmi contrarium Deo, et magno regi Lothario, nequaquam illius pontificis (cioè di Anselmo) legationem susceperunt, sed ipsum praestante cardinali illo Johanne excommunicaverunt.

Si aggiunse ai motivi di nimicizia fra le suddette città e Milano l'altro della nobil terra di Crema, oggidì città. Era questa sottoposta nello spirituale e temporale [608] a Cremona, e ribellatasi, implorò la protezione de' Milanesi, che volentieri ne convennero, siccome popolo potente e rivolto ad ampliare il dominio e a sottomettere i vicini. Però i Cremonesi collegati con quei di Pavia, di Novara e d'altre città che di mal occhio miravano il soverchio ingrandimento de' Milanesi, loro mossero guerra: guerra che costò poi tanto sangue, e parecchi anni durò. Ma che divenne del suddetto Corrado re? Lo stesso Landolfo narra che fortis manus Honorii papae ipsum resupinavit, atque ad Germaniam, quasi ad sua propria loca redire fecit. V'ha chi crede che la di lui ritirata seguisse nell'anno presente o nel seguente, ma non ne appariscono le pruove; e che ciò avvenisse solamente nell'anno 1132, lo vedremo fra poco. È stato creduto che esso re Corrado soggiornasse tuttavia in Lucca nel dì 4 di settembre, perchè, secondo l'attestato di Francesco Maria Fiorentini [Fiorent., Memor. di Matil., lib. 2, pag. 346.], in quel giorno e luogo concedette un privilegio al monistero di san Ponziano. Ma da abbracciar sì fatta opinione dee ritenere ognuno il vedere che egli in detto privilegio è intitolato Conradus divina gratta Ravennatum dux, et Thusciae praeses et marchio. Se si trattasse del già menzionato Corrado, coronato re in Milano, avrebbe egli adoperato il titolo di re. Però marchese di Toscana era in questi tempi un Corrado, diverso da Corrado, fratello di Federigo duca di Suevia; e questo ultimo, se crediamo all'Urspergense [Abbas Urspergensis, in Chron.], era duca di Franconia. Per conseguente, neppur sussiste che Corrado marchese di Toscana fosse nipote di Arrigo V Augusto, come immaginò il suddetto Fiorentini. Di questo Corrado marchese di Toscana ho io pubblicalo due diplomi [Antiq. Italic., Dissert. XVII, pag. 959 et seq.], spettanti all'anno 1120 e 1121, i quali ci fan conoscere ch'egli, vivente ancora Arrigo, quarto fra gl'imperadori, governava la Toscana. Ci ha conservato [609] Udalrico da Bamberga [Udalricus Bamberg., apud Eccard., tom. 2, pag. 361, Corp. Hist.] un'altra lettera, scritta da Litifredo vescovo di Novara Lothario Dei gratia Romanorum regi Augusto, in cui leggiamo le seguenti parole: Excellentia vestra pro certo cognoscat, quod Novaria, Papia, Placentia, Cremona, et Brixia, civitates Italiae, firmiter fidelitatem vestram custodiunt, et adventum vestrum unanimiter cupiunt. Cunradus autem Mediolanensium idolum, ab eis tamen relictum, arrepta fuga solum Parmae habet refugium, ubi tam pauper, tamque paucis stipatus viliter moratur, quod ab uno loco ad alium vix fama ejus extenditur. Veggiamo qui che i Milanesi aveano già abbandonato Corrado, e ch'egli poveramente dimorava in Parma. Ciò sembra indicare che anche nell'anno seguente egli si trattenesse in Italia, ma caduto di credito. Nè certamente egli dovea essere Corrado duca di Toscana.

Giunta che fu la primavera [Abbas Talesinus, lib. 1, cap. 16 et seq.], tornato Ruggieri duca di Puglia e conte di Sicilia di qua dallo stretto con un possente esercito, trovò che Tancredi di Conversano si era rimesso in possesso di Brindisi e di altre terre a lui dinanzi tolte. Intraprese l'assedio di quella città; ma trovatala più forte ed ostinata, si ritirò ed attese ad impadronirsi di Montalto, di Rossano e di altre terre, la conquista delle quali cagionò che per timore di tanta potenza molti baroni venissero a prestargli omaggio, e ad onorarlo qual loro sovrano. Fra gli altri non tardò a pacificar seco Rainolfo conte di Alife, marito di una sua sorella, coll'aiuto del quale ridusse dopo pochi giorni d'assedio la città di Troia a sottomettersi ai di lui voleri. Tenuto poscia un parlamento nella città di Melfi, dove chiamò tutti i baroni di Puglia, intimò la pace e concordia fra loro, il mantenimento della giustizia, e il rispetto alle chiese e alle persone sacre. Gli stava poi sul cuore la permissione da lui mal volentieri [610] accordata ai Salernitani di tener essi la guardia della torre maggiore, ossia della fortezza di quella città, parendogli di non essere padrone, se la lasciava in lor mano. Perciò con tutte le sue forze passò sotto Salerno, ed attorniatala da tutte le parti, richiese la cession d'essa torre; e fu d'uopo ubbidirlo. Da quanto poi soggiugne Alessandro abbate telesino, pare che [Abbas Telesinus, lib. 2, cap. 1 et 12.] anche Sergio duca di Napoli fosse allora costretto a giurar suggezione e fedeltà ad esso Ruggieri, se non volle far pruova delle forze di lui. Ma il medesimo storico parla dipoi all'anno seguente della suggezion de' Napolitani. Perciò poco o nulla restò nel paese che ora appelliamo Regno di Napoli e di Sicilia, su cui o immediatamente o mediatamente non signoreggiasse il duca e conte Ruggieri. Avvenne ancora in quest'anno che sedici galee di Genovesi, andando in traccia de' Pisani loro nemici, li trovarono a Messina già scesi in terra [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1.]. Attaccarono una zuffa con loro, e tuttochè i Messinesi accorressero in aiuto de' Pisani, furono tutti respinti fino al palazzo del duca dal valore de' Genovesi, i quali occuparono in tal congiuntura una buona somma di danaro, benchè poi, ad istanza del medesimo Ruggieri, la restituissero. Portossi papa Onorio II nell'anno presente a Benevento nel mese d'agosto, e vi consecrò abbate di santa Sofia Francone [Falco Beneventanus, in Chron.]. Avendo poi pregato i Beneventani di voler rimettere nella città alcuni nobili da loro esiliati, nol potè ottenere. Di questa loro durezza sdegnato, uscì della città, ed abboccatosi col duca Ruggieri, si fece promettere che nell'anno seguente verrebbe coll'armata a gastigare l'orgoglio di quel popolo. Fece ancora dare il sacco a varii luoghi del loro territorio, e così in collera se ne tornò a Roma.

[611]


   
Anno di Cristo MCXXX. Indizione VIII.
Innocenzo II papa 1.
Lottario III re di Germania e d'Italia 6.

Nel dì 14 di febbraio dell'anno presente il sommo pontefice Onorio II diede fine ai suoi giorni, e fu seppellito nella basilica lateranense. La morte sua produsse un fiero sconvolgimento nella Chiesa romana. I più buoni e saggi de' cardinali ben conoscevano i maneggi che facea Pietro cardinale di santa Maria in Trastevere, uomo screditato pe' suoi perversi costumi, figliuolo di Pietro, figliuolo di Leone, cioè di un Ebreo fatto cristiano. Anche san Bernardo [Bernardus, Epist. 139. Sugerius, in Vit. Ludovici Gross.] dà il titolo di judaica soboles ad esso Pietro cardinale, uomo sommamente ambizioso, e potentissimo in Roma per le aderenze e parentele sue, e per le ricchezze tanto di sua casa, che ammassate colla sua rapacità in varie legazioni. Perciò essi buoni, prima che si pubblicasse la morte di papa Onorio [Arnulf. Sagiens., de Schismat.], segretamente elessero papa Gregorio cardinale di sant'Angelo, di nazione romano, personaggio in cui concorrevano le virtù meritevoli di sì alto grado, per confessione d'ognuno, e massimamente di san Bernardo, allora celebre abbate di Chiaravalle. Fece egli quanta resistenza potè, ma in fine accettata l'elezione, assunse il nome d'Innocenzo II. Non istettero molto dopo questa elezione gli altri cardinali della fazion contraria ad eleggere pubblicamente papa e consecrare il suddetto Pietro cardinale, che prese il nome di Anacleto II. Falcone scrive [Falco Benevent., in Chron.], essere succedute sì fatte elezioni nel giorno stesso che morì il papa. Altri vogliono che Innocenzo restasse eletto nel dì 15 di febbraio, ed Anacleto nel dì seguente. Certo è che precedette quella di Innocenzo, e pare che non fosse per anche [612] seppellito il papa morto: il che tenuto fu per cosa contraria ai sacri canoni. Ma da una lettera scritta dal vescovo di Lucca all'arcivescovo di Mariemburgo [Udalricus Bamberg., tom. 2 Corp. Hist. apud Eccardum.] si raccoglie, che celebratis exsequiis, si procedette all'elezione. Certo è altresì, che sebbene si contarono più cardinali dalla parte di Anacleto, pure in maggior riputazione furono i favorevoli ad Innocenzo. Dichiarossi in tale occasione Leon Frangipane con tutta la sua casa in favor d'esso Innocenzo, il quale, non potendosi sostenere nel Laterano, si ritirò nelle forti case de' medesimi; ma Anacleto impadronitosi della basilica vaticana, e spogliatala de' suoi più preziosi arredi, si servì di quel tesoro e dello spoglio d'altre chiese, siccome ancora del ricco erario proprio e di suo fratello, per tirare nel suo partito la maggior parte dei grandi e piccioli di Roma. Assalì poscia di nuovo le case de' Frangipani, che fecero gran resistenza. Ma conoscendo papa Innocenzo che non potea a lungo mantenersi quivi, prese la risoluzione di cedere alla potenza dell'avversario. Imbarcatosi dunque nel Tevere coi cardinali del suo partito [Petrus Diaconus, Chron. Casinens., lib. 4, cap. 54.], a riserva del vescovo sabinense, che lasciato per suo vicario in Roma, poche faccende ebbe per molto tempo, felicemente navigò fino a Pisa, dove fu con sommo onore ricevuto. Di là ito a Genova [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1.], dispiacendogli forte la guerra di quel popolo, tanto operò, che conchiuse fra loro una tregua, da osservarsi finchè egli ritornasse di Francia. Aggiugne Caffaro, scrittore genovese di questi tempi, che il papa suddetto, per maggiormente cattivarsi l'affetto di quel popolo, promise di levare il vescovo Siro di sotto all'arcivescovo di Milano, e di conferirgli la dignità archiepiscopale. Consecrollo anche vescovo, allorchè fu giunto a Sant'Egidio vicino al Rodano. Andossene dunque [613] papa Innocenzo II in Francia, accolto dappertutto come vero papa. Pochi furono in quelle parti coloro che facessero conto delle lettere scritte loro dall'antipapa Anacleto; a cui nondimeno altri popoli e dentro e fuori d'Italia aderirono con somma confusione della Chiesa di Dio.

Fra gli altri procurò Anacleto di guadagnare al suo partito Anselmo arcivescovo di Milano [Landulfus junior, Hist. Mediol., cap. 40.], che già dicemmo scomunicato sotto il predefunto papa Onorio II. Gli mandò dunque il pallio; e perciò il popolo di Milano seguitò quasi tutto la parte di Anacleto e di Corrado re, che furono di accordo in questa congiuntura fra loro. Non potè già Anacleto far lo stesso con Gualtieri arcivescovo di Ravenna, il quale, per la testimonianza del Rossi [Rubeus, Histor. Ravenn.], e molto più d'una sua lettera scritta all'arcivescovo di Mariemburgo [Udalric. Bamberg., tom. 2 Corp. Hist. apud Eccardum.], si sa che fu costante in favorir papa Innocenzo. Ma principalmente ebbe cura Anacleto di assodarsi colla buona corrispondenza di Ruggieri duca di Puglia e Sicilia, del principe di Capoa, e degli altri baroni di quelle contrade. Nè gli fu difficile. Appena ebbe il suddetto Ruggieri slargate cotanto l'ali, che gli nacque o gli fu fatto nascere il pensiero di deporre il titolo ducale, e di assumere quello di re, giacchè tali erano divenute le sue forze, ed ampliato cotanto il suo dominio, che ben si conveniva a lui un titolo più luminoso. Ne trattò coll'antipapa Anacleto [Idem, ibidem.], il quale non vi fece difficoltà per timore di non disgustarlo, e decretò Conte cardinale, ossia il cardinale della famiglia de' Conti, per assistere a questa coronazione. Siccome osservò il padre Pagi [Pagius, ad Annal. Baron.], han creduto gli storici napoletani che Ruggieri di sua propria autorità, e senza saputa e consenso di Roma, assumesse il titolo e la corona regale; e che poscia, per convenzione seguita con Anacleto, di [614] nuovo si facesse coronare. Ma questa doppia coronazione è priva di buon fondamento. Falcone Beneventano [Falco Beneventanus, in Chron.] parla d'una sola, fatta coll'approvazione di Anacleto. Alessandro abbate di Telesa [Abbas Telesinus, lib. 2, cap. 1 et seq.] una sola anch'egli ne riferisce, nè parla punto dell'assenso e della cooperazione dell'antipapa, perchè giudicò meglio di tacere una particolarità che a' suoi dì non facea bel sentire, nè molto onore al re Ruggieri. Ma Pietro diacono scrive che Petrus cardinalis (cioè Anacleto) Rogerio duci Apuliae coronam tribuens, et per privilegium capuanum principatum, et ducatum neapolitanum cum Apulia, Calabria, et Sicilia illi confirmans regemque constituens, ad suam partem attraxit, con eziandio concedergli altri privilegii, che Ruggieri con questo buon vento seppe accortamente chiedere e facilmente ottenere: laonde san Bernardo in una delle sue lettere [Bernardus, Epist. 137.] ebbe a dire che Anacleto habet ducem Apuliae, sed solum ex principibus, ipsumque usurpatae coronae mercede ridicula comparatum. Tutto ciò fu conchiuso verso il fine di settembre, in cui Anacleto si portò ad Avellino e a Benevento. E perciocchè si credette che Palermo capitale della Sicilia fosse il luogo più proprio per la coronazione di Ruggieri, quivi nel sacro giorno del Natale dell'anno presente si fece questa funzione con quella magnificenza che vien descritta dal suddetto abbate di Telesa: rito che si è dipoi conservato e ravvivato pochi anni sono; cioè che in quella città si piglia la corona anche del regno di Napoli. Vi assistè come legato pontificio il cardinale sopraccennato; e Roberto II principe di Capoa, siccome il più nobile riguardevole de' suoi vassalli, gli mise la corona in capo. Il vedremo ben presto mal ricompensato per questa sua attenzione da Ruggieri. Intanto papa Innocenzo giunto in Francia, vi fu accolto con gran venerazione. Presso di Orleans fu a visitarlo il re Lodovico, [615] che già nel concilio di Estampes l'avea riconosciuto per vero papa. Andò a Sciartres, a Clugnì e ad altri luoghi. Nel novembre tenne un concilio numeroso nella città di Chiaramonte. Per cura massimamente di san Bernardo, non solamente i Francesi, ma anche il re Lottario in Germania e il re Arrigo d'Inghilterra nell'anno seguente prestarono ubbidienza a papa Innocenzo, quantunque non mancassero alcuni in quelle parti, che si dichiararono in favore dell'antipapa Anacleto. In quest'anno restò trucidato dai Turchi in Soria Boamondo II principe d'Antiochia, sicchè in lui finì d'estinguersi la prosapia di Roberto Guiscardo, e il re Ruggieri più francamente potè tenere gli Stati a lui occupati in Italia. Terminò ancora i suoi giorni Domenico Michele [Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] doge di Venezia, e fu alzato a quel trono Pietro Polano. Parimente all'anno presente vengono riferiti i privilegii e le esenzioni accordate da Baldovino re di Gerusalemme, dai patriarchi e dal principe di Antiochia alla nazione veneta in Acon e in altri luoghi d'Oriente.


   
Anno di Cristo MCXXXI. Indizione IX.
Innocenzo II papa 2.
Lottario III re di Germania e d'Italia 7.

Verso la metà di gennaio del presente anno papa Innocenzo II andò alla città di Sciartres, e colà comparve ancora Arrigo re d'Inghilterra, per tributargli il suo ossequio, siccome scrisse Orderico Vitale [Ordericus Vital., Hist. Eccles., lib. 13.]. Nel dì 29 di marzo si trovò esso pontefice in Liegi coll'accompagnamento di molti vescovi ed abbati franzesi. Vi concorse ancora Lottario re di Germania e d'Italia con buona parte dei prelati tedeschi [Vit. S. Godeardi. Ægid. Aureae Vallis, Hist. Leod.], e quivi sì egli, come la regina Richenza sua moglie furono solennemente coronati da esso papa. [616] Promise in tal occasione Lottario di venir nell'anno seguente in Italia per liberar la Chiesa romana dallo scisma, e rimettere in possesso di Roma il legittimo pontefice Innocenzo. Venuto poscia a Parigi esso papa, quivi celebrò con incredibil magnificenza e divozion di quel popolo la settimana santa e la Pasqua del Signore. Visitò dipoi altre città della Francia, ed avendo intimato un gran concilio nella città di Rems [Ordericus Vital., ibidem.], lo tenne nel dì 19 di ottobre coll'intervento di tredici arcivescovi e di dugento sessantatrè vescovi (se non è scorretto il testo dell'Urspergense [Urspergensis, in Chron.]), e colla presenza dello stesso re e regina di Francia. In esso fu solennemente pubblicata la scomunica contra dell'antipapa Anacleto [Dodechinus, in Chron.] e di chiunque il favoriva; e non solamente il re de' Romani Lottario ed Arrigo re d'Inghilterra mandarono colà a confermar la loro aderenza al papa, ma anche i re d'Aragona e di Castiglia. Sul principio di quest'anno, per quanto ci assicura Falcone Beneventano [Falco Beneventanus, in Chron.], il suddetto Anacleto, non potendo sofferire la comunità stabilita dal popolo di Benevento, cioè una specie di repubblica, ossia un'unione da lor fatta per resistere, occorrendo, agli ordini del papa loro sovrano, chiamato in aiuto suo con un buon corpo di milizie Roberto principe di Capoa, fece imprigionare i più potenti ed arditi di quella città, in guisa che ridusse quel popolo a dismettere la comunità, e a prestare una piena ubbidienza a' suoi voleri. Andò poscia a Salerno, e di là passò a Roma. Allorchè il popolo d'Amalfi, siccome di sopra è detto, si sottomise a Ruggieri, dichiarato poscia re di Sicilia e Puglia [Alexander Abbas Telesinus, lib. 1, cap. 7.], ritenne in suo potere le fortezze di quella città. Lo scaltro Ruggieri dissimulò allora il suo sdegno per questa lor pretensione. Ora che [617] se la vide bella, spedita per mare una flotta sotto il comando di Giovanni suo ammiraglio, e raunato un forte esercito per terra, mise l'assedio a quella città. Dopo aver preso loro le terre di Guallo, Capri e Trivento, assediò anche Ravello, e talmente colle petriere flagellò la torre di quel castello, che già minacciava rovina. Allora fu che non solamente il popolo di Ravello, ma quello eziandio della città d'Amalfi mandarono a trattare di pace, nei cui capitoli diede il re Ruggieri quella legge ch'ei volle ai sudditi suoi. Dopo di ciò, tornò Ruggieri a Salerno, e quivi soggiornando, si vide comparir davanti Sergio duca di Napoli, che consigliato dal timore dell'ambizione e potenza d'esso re, senza voler aspettare la forza, andò a sottomettersi a lui, amando meglio di conservare il suo dominio come vassallo, che di perderlo affatto col voler fare resistenza. Da ciò pare che si deduca avere bensì Ruggieri ottenuto dall'antipapa Anacleto un non so qual diritto sopra Napoli nell'anno precedente, ma averne egli solamente nel presente acquistata la sovranità per la volontaria dedizione di Sergio. Come poi potesse pretendere Roma diritto sopra quella nobilissima città, che per più secoli si era mantenuta indipendente dall'imperio occidentale, con riconoscere per sovrani i soli imperadori d'Oriente in varii tempi; io lascerò indagarlo ad altri. Non so ben dire se in quest'anno oppure nel seguente succedesse quanto viene scritto da Falcone Beneventano e dall'Anonimo Casinense [Anonymus Casinensis, apud Peregrinium]. Cioè, che essendo fuggita a Salerno, oppure chiamata dal re Ruggieri a Salerno Matilda sua sorella moglie di Rainolfo valoroso conte di Alife, col figliuolo d'esso conte, insorse nemicizia fra loro. Altri baroni ancora, fra i quali Tancredi di Conversano conte di [618] Brindisi, Grimoaldo principe di Bari e Goffredo conte di Andria, si collegarono insieme, veggendo che Ruggieri tendeva a mettere il piede sul collo a tutti. L'Abbate Telesino, siccome parzial di Ruggieri, sopra d'essi baroni rigetta la colpa dei movimenti di guerra che sopravvennero, e de' quali parleremo all'anno seguente. Sarebbe stato da desiderare che questo istorico avesse registrato sotto i suoi precisi anni le imprese di Ruggieri. Ma egli lo trascurò. E ne' testi di Falcone e dell'Anonimo Casinense non v'ha sempre tutta l'esattezza necessaria della cronologia. Era nel precedente anno cominciala la guerra fra i Milanesi dall'una parte, e i Pavesi, Cremonesi e Novaresi dall'altra; e questa durò nel presente e nel susseguente anno. Abbiamo un testimonio autentico, cioè Landolfo da san Paolo [Landulfus junior, Histor. Mediol., cap. 40.], che ci assicura essere stati vincitori in essa tenzone i Milanesi. E secondo Galvano Fiamma [Gualvan. Flamma, Manipul. Flor., c. 166.], in quest'anno si venne ad una battaglia campale fra i Milanesi e Pavesi presso Macognago, nella quale quasi tutto l'esercito pavese restò sbaragliato, preso, e condotto nelle prigioni di Milano. Ebbe principio ancora in quest'anno la divisione fra i popoli di Modena e di Bologna [Annales Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.]. Bollivano liti fra il comune di Modena per cagione d'acque, di giurisdizioni e d'altre occorrenze, e l'insigne e ricchissimo monistero di Nonantola, situato nel territorio di Modena. Prevalendosi di questo litigio, i Bolognesi segretamente indussero quell'abbate Ildebrando a mettersi sotto la lor protezione, anzi a sottoporre quella terra al loro comune con varie vantaggiose condizioni: il che riuscì una grave ferita al cuore del popolo modenese.

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Anno di Cristo MCXXXII. Indizione X.
Innocenzo II papa 3.
Lottario III re di Germania e d'Italia 8.

Per qualche mese ancora si trattenne papa Innocenzo in Francia con aggravio non piccolo di quelle chiese, come scrive Orderico [Ordericus Vital., Hist. Ecclesiast., lib. 13.], perchè egli non avea altra maniera da mantenersi. Nel febbraio fu al monistero di Clugnì e a Lione, da dove passò a Valenza e a Sant'Egidio. Finalmente per montem Genuae (Genevae crede il padre Pagi [Pagius, Crit. ad Annal. Baron.] che si debba leggere; Jacopo da Varagine [Jacob. de Varagine, in Chron.] scrive che Innocenzo II nel suo ritorno fu in Genova) fines Lombardiae intravit, atque apud Astam solemnitate Resurrectionis dominicae celebrata (nel dì 4 di aprile) venit Placentiam. Quivi celebrò il terzo suo concilio coi vescovi di Lombardia, della Romagna, Emilia e marca d'Ancona. Convien dire che egli lungo tempo si fermasse in quelle parti per aspettar l'arrivo del re Lottario, il quale, secondo il concerto, dovea venire in Italia. Vedesi una di lui bolla [Campi, Istor. di Piacenza, nell'Append.], data in Cremona II idus julii dell'anno presente, in favore dei monaci di san Sisto di Piacenza. E in Brescia IV kalendas augusti un'altra. Portano esse bolle l'uso dell'anno pisano. Abbiamo dall'Annalista Sassone [Annalista Saxo.] e dagli Annali d'Ildeseim [Annales Hildesheim.] che il re Lottario celebrò la festa dell'Assunzion della Vergine in Virtzburg, e di là poi mosse alla volta d'Italia, ma con un'armata assai tenue rispetto al suo decoro. Però solamente circa il principio di settembre arrivò per la via di Trento ai prati di Roncaglia sul Piacentino, dove soleano adunarsi i principi, vescovi, baroni e legati delle città di questo regno, allorchè il nuovo re [620] veniva. Colà si portò ancora il papa per abboccarsi con lui, e stabilir le cose occorrenti per liberar dalle mani dell'antipapa la città di Roma, e conferir la corona dell'imperio ad esso re Lottario. Ma con poco suo onore fu Lottarlo ricevuto; perciocchè, secondo l'asserzione di Alberico monaco dei tre Fonti [Alberic. Monachus, apud Leibnitium.], in multis locis tam amore Conradi, quam respectu paucitatis suae, ab incolis terrae subsannatus et despectus fuit. Verum paulo ante Conradus, qui a Mediolanensibus constitutus rex fuerat, paene omnibus suis amissis, periculose ad patriam repatriavit. Questo paulo ante ci fa scorgere insussistente l'opinione di chi credette partito d'Italia Corrado nell'anno 1129. Quivi dovette egli dimorare fino all'anno presente, finchè udita la mossa del re Lottario, non credendosi più sicuro in Italia, se ne fuggì non senza pericoli in Germania. Ora il pontefice dopo il suddetto abboccamento dovette venire sul Modenese al monistero di Nonantola, per cui erano insorte liti fra i popoli di Modena e Bologna. Ho io pubblicata una sua bolla data in quel monistero [Antiquit. Italic., Dissert. LXV.] IV idus octobris coll'anno pisano 1133, che è il volgare 1132. Da tal bolla apparisce l'opulenza d'esso monistero. Dopo ciò, il pontefice, passando per monte Bardone, cioè per la strada di Pontremoli, andò a fermarsi in Pisa. Colà chiamati gli ambasciadori de' Genovesi, trattò fra essi e i Pisani la pace: e per gratificare amendue que' popoli, da' quali avea ricevuti più servigi, levò Siro vescovo di Genova dalla suggezione dell'arcivescovo di Milano, col conferirgli la dignità archiepiscopale [Cardin. de Aragonia, in Vita Innocentii II. Gualvanus Flamma, Manip. Flor., cap. 167.], e sottomettere a lui i vescovati di Bobbio e di Brugneto, e tre altri in Corsica. Dichiarò eziandio primate della Sardegna l'arcivescovo di Pisa, e a lui sottomise inoltre il vescovato di Populonia, e tre altri nella Corsica suddetta, con che contentò amendue quei [621] popoli. Caffaro scrive [Caffari, Annal. Genuens., lib. I.] che in Corneto fu stabilito l'ingrandimento di questi due arcivescovi. Se ciò è, appartiene il fatto all'anno seguente. Ma forse in Corneto furono solamente spedite le bolle di quanto in Pisa era stato accordato. Abbiamo dagli Annali d'Ildeseim [Annal. Hildesheim. Chronogr. Saxo, apud Lebnitium.] e dal Cronografo Sassone che il re Lottario celebrò la festa del santo Natale nella terra di Medicina, sul Bolognese, e non già Modoetiae, ossia Monza, come sospettò il Leibnizio, per poca conoscenza di quella terra. Egli era nel luogo di Fontana sul Piacentino, allorchè concedette, in non so qual giorno, ai canonici di Cremona un privilegio [Antiquit. Italic, Dissert. LXII.], notato coll'anno pisano.

Una gran rivolta di baroni di Puglia era seguita contra Ruggieri re di Sicilia. Verisimilmente sperando la venuta del re Lottario e di papa Innocenzo, si animarono tutti contra di chi faceva a tutti paura. Ma Ruggieri, appena comparsa la primavera, con potente esercito passato lo Stretto [Falco Beneventanus, in Chron. Alexander Telesinus, lib. I.], si portò a Taranto, e di là passò all'assedio di Brindisi, che era di Tancredi di Conversano, con obbligar quella città alla resa. Ritenne prigione Goffredo conte di Andria, che fu astretto a cedergli buona parte delle sue terre. Quindi portò la guerra contra della città di Bari, e in tre settimane indusse quei cittadini a capitolare la resa, e a dargli in mano Grimoaldo principe di quella città, che fu mandato prigione in Sicilia. Venuti poi ad aperta rottura contra di Ruggieri il principe di Capoa Roberto II e Rainolfo conte d'Alife cognato del re medesimo, unirono un'armata, se crediamo a Falcone, di tre mila cavalli e quaranta mila fanti (numero che ha dell'eccessivo). Riuscì all'accorto re Ruggieri, di guadagnar Crescenzio, cardinale dell'antipapa Anacleto, che governava [622] allora Benevento, con indurre parte di quel popolo e Landolfo arcivescovo a giurare la neutralità in que' torbidi di guerra. Ma sparsasi voce che Crescenzio volea dare in poter di Ruggieri essa città di Benevento, quel popolo andò nelle furie; e sollecitato dipoi dal principe di Capoa e da' suoi aderenti, abbracciò il partito di papa Innocenzo II. Portossi il re all'assedio di Nocera, per soccorrere la quale s'affrettò il principe di Capoa, sicchè all'Atripalda, o, come scrive l'Abbate Telesino, al fiume Sarno, in luogo chiamato Scafato, nel dì 24 di luglio si venne ad una battaglia campale. Al primo incontro riuscì a Ruggieri di far piegare e prender la fuga all'ala sinistra comandata dal principe di Capoa; ma il valoroso conte Rainolfo, che guidava l'ala destra, con tal bravura si spinse addosso all'armata del re, che in fine la sbaragliò, ed ottenne piena la vittoria coll'acquisto di un ricco bottino, ma non senza grande spargimento di sangue da ambedue le parti. Vedesi descritta questa vittoria in una lettera del vescovo agatense presso Udalrico da Bamberga [Udalricus Bamberg., tom. 2 Corp. Histor., p. 366, apud Eccardum.]. Non era avvezzo a simili colpi il re Ruggieri: questo servì ad umiliare alquanto la di lui ambizione ed alterigia. Ritirossi egli più che in fretta a Salerno, con volto nondimeno allegro e costanza tale d'animo, come se nulla gli fosse accaduto. Ma questa sua disavventura incoraggì forte tutti i suoi nemici, di modo che i baroni già abbassati ripigliarono l'armi contra di lui. Era dietro a far lo stesso anche il popolo di Bari; ma comparso colà Ruggieri, frenò i loro movimenti colle buone, e coll'accordare a que' cittadini quanto seppero addimandare. Poscia, dopo aver dato un terribil sacco al territorio di Benevento, venuto il dicembre, se n'andò in Sicilia a preparar nuove forze, per poter resistere, anzi per potere dar legge a tanti che s'erano ribellati contra di lui.

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Anno di Cristo MCXXXIII. Indizione XI.
Innocenzo II papa 4.
Lottario III re 9, imper. 1.

Addolcito alquanto il verno, passò in Toscana il re Lottario, e a Calcinaia nel territorio di Pisa si abboccò di nuovo con papa Innocenzo [Cardinal. de Aragonia, in Vita Innocentii II, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Marciò dipoi per la strada regale fino a Viterbo, dove arrivato ancora per la Marittima il pontefice, s'inviarono poscia unitamente per Orta, e pel territorio della Sabina e di Farfa sino a Roma. Dacchè furono vicini a Roma, si accamparono presso a Santa Agnese, e in quel luogo ebbero una visita da Teobaldo prefetto di Roma, da Pietro Latrone (e non Leone, come ha il testo del Baronio) e da altri nobili romani del loro partito. Entrati finalmente in Roma sul fine d'aprile, papa Innocenzo II liberamente prese alloggio nel palazzo lateranense, e Lottario colle sue genti sul Monte Aventino. Buona parte allora de' Romani si dichiarò in favore del legittimo pontefice; ma non lasciò per questo l'antipapa Anacleto coi suoi aderenti di tener saldo castello Sant'Angelo colla basilica vaticana, ed altri siti forti di quella città, coll'andare intanto inviando ambasciatori al re Lottario, pregandolo di voler dar luogo senza guerra ad un esame canonico delle sue ragioni e di quelle d'Innocenzo, con esibire ancora ostaggi e fortezze in deposito. Ma i fatti non corrispondevano alle parole. Nè Lottario avea condotto tali forze da poter metter costui a dovere. Non più di due mila cavalli, scrivono alcuni ch'egli avesse di seguito [Falco Beneventanus, in Chron.]. Vennero bensì in aiuto del papa con otto galee i Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1.]; con altre ancora vi accorsero i Pisani, e presero Cività Vecchia con altri piccioli luoghi, ma neppur questo bastava a snidar l'antipapa ben [624] fortificato ed assistito da molti nobili romani suoi aderenti. Veggendosi adunque mal disposte le cose [Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 18. Annalista Saxo.], fu risoluto di dar come si potea la corona imperiale al re Lottario: al qual fine fu scelta la basilica lateranense, giacchè non si potea far la funzione nella vaticana. Pertanto nel dì 4 di giugno, giorno di domenica, dalla mano di papa Innocenzo II ricevette Lottario la corona e il titolo d'imperadore. Ora egli si truova chiamato Lottario III in quanto era re d'Italia, e Lottario II come imperadore. Da lì a pochi giorni si compose la differenza durata fin qui fra la santa Sede ed Arrigo V imperadore e Lottario suo successore [Baronius, in Annal. Eccles. ad hunc annum.], per l'eredità dei beni allodiali della contessa Matilda. Fu preso questo mezzo termine, che il pontefice ne investisse esso Lottario, e dopo lui Arrigo IV duca di Baviera e Sassonia, genero dello stesso imperadore, con che egli giurasse omaggio e fedeltà per esse terre al pontefice romano. Ne rapporta il cardinal Baronio la bolla pontificia. Abbiam veduto di sopra che la linea estense di Germania, ossia dei duchi di Baviera, per le nozze del duca Guelfo V colla suddetta contessa Matilda, pretese la di lei eredità. Restarono esaudite in quest'anno le sue pretensioni, di modo che il duca Arrigo, il più potente de' principi della Germania, e che riteneva in Italia la porzione sua negli antichi Stati della casa d'Este, maggiormente stese la sua possanza ancora in queste parti colla giunta di quelli della contessa Matilda. Vennero a Roma in tal congiuntura Roberto principe di Capoa e Rainolfo conte di Alife con circa trecento cavalli [Falco Beneventanus, in Chron.], sperando di concertar le maniere di difendersi da Ruggieri re di Sicilia; ma gittarono i passi; perchè troppo smilze erano le forze dell'Augusto Lottario, e meno poteva papa Innocenzo, perchè in [625] mano dell'antipapa restavano quasi tutte le torri e fortezze di Roma.

Approssimandosi intanto i caldi perniciosi della state, l'imperador Lottario, con rimettere a tempo più propizio il totale ristabilimento di papa Innocenzo, sen venne alla volta di Lombardia. Era egli nel campo di san Leonardo sul Mantovano nel dì 30 di luglio [Antiquit. Italic., Dissert. XIII.], quando confermò al popolo di Mantova tutti i suoi privilegii, con facoltà di trasferire il palazzo imperiale dal borgo di San Giovanni al monistero di là dal fiume Mincio. Abbiamo dagli Annali d'Ildeseim [Annales Hildesheim. Annalista Saxo.], che giunto l'Augusto Lottario alla chiusa sull'Adige, nell'andare da Verona a Roveredo, essendogli negato il passaggio dagli abitanti di quel paese, egli mirabilmente s'impadronì della città situata in cima al monte (ben difficile è a credere che ivi fosse una città), fece prigione il padron d'essa, e felicemente passò in Germania, con celebrar la Natività della Vergine in Virtzburg, dove fu gran concorso di principi ecclesiastici e secolari. Dimorò per qualche tempo ancora papa Innocenzo in Roma nel palazzo lateranense; ma trovandosi continuamente infestato dall'antipapa e mal sicuro, ne uscì, e nel mese di settembre andò a ricoverarsi in Pisa, dove con grande onore ed amore accolto, trovò quel popolo costantissimo nel suo servigio. Mentre era in Roma l'imperador Lottario, certificato il re Ruggieri che nulla v'era da temere di lui, con un'armata più poderosa delle passate venne dalla Sicilia in Puglia [Alexander Telesinus, lib. 2, cap. 36.], pieno di veleno contra de' baroni ribelli e mancatori del giuramento a lui prestato. Ciò udito da Roberto principe di Capoa, veggendo egli fallite le sue speranze di ottener soccorso dai Tedeschi, d'ordine del papa, nel dì 24 di giugno se ne andò per mare a Pisa, dove gli riuscì d'impetrar allora alquanto di gente, con cui se ne ritornò a casa, portando seco [626] la promessa d'un aiuto di cento legni nel marzo prossimo venturo. Fece anche un trattato co' Genovesi, senza de' quali non si vollero impegnare i Pisani. Intanto il re Ruggieri, come un folgore, piombò sopra le terre de' baroni ribelli a lui contrarii [Falco Beneventan., in Chron. Romualdus Salernitanus, in Chron.]. Prese Venosa, Nardò, Baroli, Binerbino ed altre città, commettendo tali crudeltà sopra d'esse e sopra gli abitanti, che peggio non avrebbono fatto i Turchi e Saraceni nemici di Cristo. Tentò indarno coll'assedio Brindisi, che fu bravamente difeso. Ma con felicità occupò le terre di Alessandro conte di Matera, il quale si salvò colla fuga in Dalmazia. Goffredo conte di Andria fatto prigione, fu inviato in Sicilia a far penitenza di sua fellonia. Non fu più propizia la sorte a Tancredi di Conversano, che si accinse alla difesa di Montepiloso. Assediata quella terra da Ruggieri, benchè forte di sito e guernita di coraggiosi difensori, pure dovette cedere alla forza ed industria d'esso Ruggieri, che condannò alle prigioni di Sicilia il conte caduto nelle sue mani. Con barbarie inaudita fece Ruggieri tagliare a pezzi tutti gli abitanti di quella terra, senza riguardo alcuno nè a donne nè a fanciulli. Si credette il popolo della città di Troia, allorchè intese incamminato il re alla lor volta, di placarlo; e però gli uscirono incontro con una divota processione e colle reliquie de' santi. Ma l'inumano re con occhi torvi guatata la misera genie, non volle ascoltarla, di maniera che chi qua e chi là presero la fuga. Fece egli mettere ne' ferri molti di quei cittadini, e dare il fuoco alle lor case e beni. Un egual trattamento provò poscia la città di Melfi. Con questo rapido corso di vittorie e di crudeltà s'impadronì egli di Bisseglia, di Trani, d'Ascoli, di Santa Agata e di altre terre. Intanto il conte Rainolfo, temendo che il temporale andasse a scaricarsi sopra le sue contrade, ricorse a Sergio duca di Napoli, il quale avea parimente cangiato mantello; e da [627] lui e dal popolo d'Aversa ottenne promessa di un gagliardo aiuto. Ma per allora cessò il bisogno, perchè il re Ruggieri nell'ottobre passò in Sicilia con molti navigli carichi d'oro e d'argento e d'altre spoglie delle misere terre ch'egli avea non conquistate, ma ridotte all'ultima rovina. Altro da soggiogare non gli restava, se non Roberto principe di Capoa, Rainolfo suo cognato conte d'Alife, e Sergio duca di Napoli. Secondo il padre Pagi [Pagius, ad Annal. Baron.], passò nel dì 3 di dicembre dell'anno presente a miglior vita san Bernardo vescovo di Parma, la cui Vita, scritta da un autore contemporaneo, è passata fino a' nostri tempi. Sappiamo di certo ch'egli avea accompagnato a Roma nell'anno presente l'Augusto Lottario.


   
Anno di Cristo MCXXXIV. Indizione XII.
Innocenzo II papa 5.
Lottario III re 10, imper. 2.

Tenne in quest'anno nel dì 30 di maggio papa Innocenzo II un concilio [Labbe, Concil., tom. 10.] generale nella città di Pisa, eletta da lui per suo domicilio, finchè Dio provvedesse allo scisma di Anacleto. Sono periti gli atti di quell'insigne sacra adunanza, a cui concorsero i vescovi ed abbati, non solamente dell'Italia, ma anche della Francia e Germania. Fra gli altri v'intervenne san Bernardo abbate di Chiaravalle, gran luminare allora della Chiesa di Dio. Sappiamo che in esso concilio fu confermata la scomunica contro il suddetto antipapa e contro tutti i suoi aderenti e protettori [Cardinal. de Aragon., in Vit. Innocentii II, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Furono ivi deposti Pietro vescovo di Tortona, Uberto vescovo di Lucca, e i vescovi di Bergamo, Boiano ed Arezzo, forse perchè fautori dell'antipapa Anacleto. Osservò il cardinal Baronio [Baron., Annal. Ecclesiast.], che nel ritornare da questo concilio varii vescovi ed abbati franzesi, [628] furono essi presi ed incarcerati nella Lunigiana e in Pontremoli. Ne parla Pietro abbate di Clugnì in una lettera a papa Innocenzo [Petrus Cluniacens., lib. 3, Epist. 27.]; ma senza specificare chi fosse l'autore di tale iniquità, cioè se i partigiani dell'antipapa, oppure alcun padrone di quelle terre. Dalle memorie accennate dal Fiorentini [Fiorent., Memor. di Matil., lib. 2, pag. 347.] abbiamo che nel 26 di novembre dell'anno 1131 si trovava nel distretto di Volterra Ramprettus divino munere Thusciae praeses et marchio. Questo suo diploma l'ho io divolgato altrove [Antiq. Italic., Dissert. XVII.]. Leggesi poi negli Annali pisani, all'anno 1135 pisano, cioè nel 1134 nostro volgare, che [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.] III kalendas junii Pisis est celebratum concilium per papam Innocentium, et alios praelatos. In quo concilio Ingilbertus de marchia Tusciae investitus est. Qui postea defensus a Pisanis, et a Lucensibus ubique offensus, et victus apud Ficecchium in campo, Pisas cum lacrymis fugiens, a Pisanis vindicatus est. Chi desse l'investitura della Toscana a questo Ingelberto, non apparisce. Potrebbe credersi che il papa colle pretensioni dell'eredità della contessa Matilda, la desse. Ma questi non potea conferire ad altrui le provincie dell'imperio escluse dall'eredità d'essa Matilda. E se egli le avesse pretese come allodio, già abbiamo veduto che ne aveva investito Arrigo duca di Baviera. All'anno 1137 si scorgerà che l'imperadore mandò soccorso allo stesso Ingelberto; e però dovea questi essere suo vassallo per la Toscana. Ma non volendo i Lucchesi che loro comandasse, quindi nacque la guerra contra di questo marchese. Non è facile a me il determinare se in questo, oppure nel precedente anno fosse dai Milanesi rigettato e deposto Anselmo arcivescovo di Milano, dianzi scomunicato, per aver coronato re d'Italia Corrado. Ne era anche provenuto gran danno alla chiesa di Milano, come attesta san Bernardo [629] in una sua lettera ai Milanesi [Bernardus, Epist. 131.]; perchè papa Innocenzo II l'avea spogliata della dignità di metropoli ecclesiastica, e a lei sottratti i suoi suffraganei, e fra gli altri costituito arcivescovo il già vescovo di Genova sottoposto a Milano. Nega il padre Pagi questo fatto; ma paiono assai chiare le parole di san Bernardo al popolo milanese, dove dice: Quid contulit tibi vetus tua rebellio? Agnosce potius, in qua potestate, gloria, et honore suffraganeorum tuorum tamdiu privata exstitisti, con quel che segue. Non era forestiera in questi tempi una tal pena, e l'abbiam anche veduta usata contro la chiesa di Ravenna. Racconta Landolfo da San Paolo [Landulfus junior, Hist. Mediol., cap. 41.] che i Milanesi, clero e popolo, si sollevarono contra d'esso Anselmo, oramai pentiti d'aver favorito l'antipapa Anacleto e lo spurio re Corrado. Però si arrogarono l'autorità di dichiararlo decaduto, in guisa che egli fu costretto a ritirarsi nelle castella della chiesa milanese. Fu poi confermata, ossia autenticata nel concilio di Pisa la deposizione d'Anselmo dal pontefice Innocenzo. Ma prima d'esso concilio aveano i Milanesi invitato alla loro città san Bernardo, la cui santità ed autorità facea in questi tempi gran rumore dappertutto, acciocchè colla sua presenza e destrezza mettesse fine allo scisma della loro città, e li riconciliasse con papa Innocenzo II e coll'imperadore Lottario. Se ne scusò il santo abbate allora, perchè chiamato a Pisa. Ma appena terminato quel concilio, il pontefice l'inviò colà con Guido, non già arcivescovo di Pisa, ma bensì cardinale di nascita Pisano, col vescovo d'Albano Matteo, personaggio di rare virtù, e con Goffredo vescovo di Sciartres [In Vit. S. Bernardi, lib. 2, cap. 2.]. La divozione con cui il popolo di Milano venne all'incontro di quel celebre abbate, fu incredibile. Il riceverono come angelo di Dio, baciandogli i piedi, e pelandogli il mantello, con dispiacere nondimeno della sua profonda [630] umiltà. Colla mediazione di questi legati apostolici e di san Bernardo abiurò tutto quel popolo non meno l'antipapa che il re Corrado, sottomettendosi al vero papa e all'Augusto Lottario. E perciocchè era vacante per le addotte cagioni la chiesa ambrosiana, universale fu il desiderio di quel popolo per ottenere in loro arcivescovo il santo abbate di Chiaravalle, per la cui intercessione succederono allora molte miracolose guarigioni in Milano. Corsero in folla alla chiesa di san Lorenzo, nella cui canonica era egli alloggiato, richiedendolo per loro pastore; ma il buon santo, che teneva sotto i piedi tutte le grandezze umane, nel dì seguente colla fuga deluse tutte le loro speranze. Altrettanto avea fatto a Genova. Allora fu che alcuni suoi discepoli restati in Milano si accinsero colla raccolta delle limosine a fondare il monistero de' Cisterciensi di Chiaravalle fuori di Milano. Andò poscia san Bernardo a Pavia, e quindi a Cremona, per troncare il corso alla guerra, che quei popoli tuttavia manteneano contra di Milano. Pare che i Pavesi si quetassero alle vigorose insinuazioni di lui, ma non già i Cremonesi, tuttochè vedessero ritornata all'ubbidienza de' varii suoi superiori la città di Milano, come si raccoglie da una lettera d'esso san Bernardo a papa Innocenzo [Bernardus, Epist. 314.].

Tornò sul principio di quest'anno Roberto II principe di Capoa a Pisa, per sollecitare i soccorsi a lui promessi [Falco Beneventanus, in Chron.], e sul fine di febbraio comparve in Capoa, menando seco due de' consoli pisani, e circa mille soldati levati da quella città. Sergio duca di Napoli e Rainolfo conte di Alife approvarono il trattato da lui fatto in Pisa [Alexander Telesinus Abbas, lib. 2, cap. 54.], e somministrarono il danaro occorrente per accelerar la venuta della flotta pisana. Intanto eccoti arrivare a Salerno il re Ruggieri con circa sessanta galee, ch'egli immediatamente spedì contra di Napoli. Ma [631] ritrovarono quel popolo che non dormiva, ed accorse valorosamente alla difesa. Però, dopo aver dato il sacco ad alcune castella di que' contorni, se ne ritornarono a Salerno. Quivi raunata una poderosa armata di Siciliani e Pugliesi, e spintala addosso al castello di Prata, tuttochè fosse luogo forte, quasi in un momento se ne impadronì, e lo diede alle fiamme. Nello stesso primo giorno sottomise Altacoda, la Grotta e Summonte: il che sparse il terrore fra i Beneventani, Capoani e Napoletani suoi avversarii. Inoltratosi poi verso il principato di Capoa, prese Palma e Sarno. Intanto il conte Rainolfo animò tutti i suoi aderenti, ed uscì in campagna collo esercito suo per fermare i progressi di Ruggieri. Ma questi, dopo aver munite le rive del fiume Sarno di cavalieri e d'arcieri, per impedire al conte il passaggio, andò a mettere l'assedio a Nocera, città forte del principato di Capoa. V'era dentro Ruggieri da Surriento con buona guarnigione, animoso guerriero, e risoluto di ben difenderla; ma per tradimento d'alcuni gli convenne depor l'armi e rendersi. Passò di là il re Ruggieri contra le terre del conte Rainolfo, e ne conquistò alcune: il che veduto dal conte, per consiglio de' suoi, mandò a trattar di pace. Ruggieri diede allora luogo alla collera contra del cognato, e purchè egli si sottomettesse, accettò la proposizione di restituirgli la moglie e il figliuolo. Presentossi dunque il conte al re, e inginocchiatosi volle baciargli i piedi. Nol consentì Ruggieri, e baciatolo in volto, pacificossi con lui, e ne ricevette il giuramento di fedeltà. Trattò in tale occasione Rainolfo anche della pace con Roberto principe di Capoa; e il re s'indusse a concederla, purchè Roberto prima della metà del mese d'agosto si riconoscesse suo vassallo, e cedesse le terre perdute. Era in questo mentre ito a Pisa Roberto, per implorare il promesso soccorso da papa Innocenzo e dai Pisani. Passato quel termine, [632] il re, veggendo non essere accettata l'esibita pace, s'impossessò di Castello a Mare, e di altre terre d'Ugo conte di Boiano. Andò al monistero di Telesa [Alexander Telesinus Abbas, lib. 2, cap. 65.], dove fu ben accolto da Alessandro abbate, scrittore poi dei fatti del re medesimo; e di là s'inviò alla volta della nobilissima città di Capoa. Niuna difesa volle far quel popolo, con attendere solo a placarlo; e però uscito in processione, con grande onore l'accolse, e con inni e lodi il condusse alla chiesa maggiore e gli giurò fedeltà. Si accigneva appresso il re Ruggieri, dopo essersi impadronito di Aversa e del resto del principato capoano, a passar contra di Napoli; ma Sergio duca di quell'inclita città, giudicando meglio di non aspettar la tempesta, venne in persona a rendersi, cioè a sottoporsi come vassallo alla di lui sovranità. Altrettanto fecero quei della casa di Borello. Presentossi anche Ruggieri sotto Benevento, con obbligar quel popolo a prestargli giuramento di fedeltà, salvo nondimeno l'omaggio dovuto al papa. Però non fu pigro l'antipapa Anacleto a volar colà, e a ripigliarne il possesso, con far poscia demolir le case d'alcuni di que' cittadini che non erano in sua grazia. Così in breve tempo ridusse il re Ruggieri sotto il suo dominio quel vasto e fioritissimo paese. Dopo di che pieno di gloria se ne tornò a Salerno, e di là in Sicilia. Roberto principe di Capoa restò in Pisa presso papa Innocenzo, aspettando amendue con pazienza migliori venti dal settentrione, cioè dall'imperadore Lottario. Scrive Landolfo da san Paolo [Landulfus junior, Hist. Mediolan., cap. 42.] che in quest'anno il principe Corrado, cioè lo stesso che dai Milanesi avea conseguita la corona del regno d'Italia, altiori consilio potitus, imperatoris Lotharii vexillifer est factus, cioè si era riconciliato coll'imperadore. Ma raccontando altri scrittori, che questa pace solamente seguì nell'anno prossimo venturo, o Landolfo anticipò il tempo, [633] oppure s'incominciò in quest'anno il trattato della concordia, e poi si compiè nel seguente. Fino a questi tempi menò i suoi giorni Folco marchese d'Este, figliuolo del celebre marchese Azzo II, e progenitore della linea de' marchesi di Este, che fiorisce tuttavia nei duchi di Modena. Ciò apparisce da uno strumento di cession di beni da lui fatta al monistero di san Salvatore della Fratta [Antichità Estensi, P. I, cap. 32.]. Quanto di vita gli restasse dipoi, non so dire. Ben so, ch'egli giunto al fine dei suoi giorni, lasciò dopo sè quattro figliuoli, cioè Bonifazio, Folco II, Alberto ed Obizo, e fors'anche il quinto, chiamato Azzo. Portarono tutti il titolo di marchesi, siccome costa dai loro strumenti, e signoreggiarono in Este, Rovigo e nelle altre antiche terre della casa di Este.


   
Anno di Cristo MCXXXV. Indizione XIII.
Innocenzo II papa 6.
Lottario III re 11, imper. 3.

Quanto le conquiste e vittorie rendeano più orgoglioso il re Ruggieri, altrettanto affliggevano il buon pontefice Innocenzo II, dimorante in Pisa, che sempre più mirava allontanarsi la speranza di rientrare in possesso della città di Roma. Seco ancora si trovava Roberto principe di Capoa dopo la perdita del suo principato [Annalista Saxo.]. Però frequenti lettere esso papa andava scrivendo all'imperador Lottario, per muoverlo a soccorrere la Chiesa di Dio, e a reprimere il re Ruggieri nemico dell'imperio. Assicurò in quest'anno l'Augusto suddetto i suoi propri interessi in Germania col dare la pace a varii suoi nemici e ribelli. I più potenti ed ostinati erano finora stati Federigo duca di Suevia e Corrado suo fratello. Fin l'anno precedente Arrigo duca di Baviera e Sassonia, genero dell'imperadore, dopo aver sostenuta con vigore negli anni addietro la guerra contro [634] i due suddetti fratelli, avea tolta loro la città d'Ulma: colpo che sbalordì forte il duca Federigo, di modo che, mentre la imperadrice Richenza si trovava nella badia di Fulda, egli co' piedi nudi comparve alla di lei presenza, per implorar la grazia dell'Augusto suo consorte. Fu accettata la di lui umiliazione, e l'imperadrice dopo averlo fatto assolvere dalla scomunica per mezzo del legato apostolico che si trovava presso di lei [Abbas Urspergensis, in Chron.], trattò dipoi una piena concordia, a cui ebbe parte anche san Bernardo, che in questi tempi, mercè della sua santità ed eloquenza, era il mediatore di tutti i grandi affari. In quest'anno adunque nel dì 17 di marzo tenne l'Augusto Lottario una solenne dieta di quasi tutti i principi della Germania in Bamberga. Colà arrivò anche il duca Federigo, e gittandosi ai piedi dell'imperadore, umilmente il supplicò della sua grazia, che non gli fu negata, con impegnarsi di accompagnare l'imperadore nella spedizion d'Italia, già risoluta per l'anno seguente. Oltre ai legati del papa, che il sollecitavano a venire, mandò ancora Giovanni Comneno imperador de' Greci i suoi al medesimo Lottario con ricchi presenti, per confermar la pace ed amicizia fra l'uno e l'altro imperio, ed anche per muoverlo contra del re Ruggieri, il cui ingrandimento recava già non lieve gelosia ai Greci stessi. Diede udienza Lottario a questi ambasciatori nella festa dell'Assunzione della Vergine in Mersburg, e li rimandò ben regalati e contenti. Poscia dopo la festa di san Michele di settembre, trovandosi esso imperadore in Mulausen, colà venne Corrado fratello del suddetto duca Federigo, tutto umiliato, ed avendo ottenuta l'assoluzion della scomunica da Corrado arcivescovo di Maddeburgo, fu ammesso all'udienza dell'imperadore, a' cui piedi espresse il suo pentimento per la già usurpata corona d'Italia, ed implorò il perdono di tutti i suoi falli, che l'ottimo Augusto [635] buona volontà gli concedette. Nella festa poi del Natale chiamò Lottario alla città di Spira tutti i principi, e con essi concertò la spedizion d'Italia, tanto sospirata dal romano pontefice. Altre novità succederono in quest'anno in Italia. Dopo il suo ritorno in Sicilia gravemente infermatosi il re Ruggieri, fece temer di sua vita [Alexander Telesinus, lib. 3, cap. 1.]. Non s'era egli per anche ben riavuto dal male, che la regina Alberia sua moglie fu sorpresa da più gagliarda malattia, che la portò all'altra vita; principessa per la sua religione e per le sue tante limosine di memoria benedetta fra i Siciliani. Tal malinconia ed afflizione per questa perdita assalì il re consorte, che serratosi in camera, come inconsolabile, per più giorni non si lasciò vedere se non da' suoi più intimi familiari. Come suol accadere in simili casi, cominciò a prendere piede, e a volar dappertutto la fama che Ruggieri più non fosse vivo, e che per politica si occultasse la morte sua.

Pertanto pervenuta questa voce a Pisa, Roberto principe di Capoa affrettò il soccorso promesso a lui da' Pisani, e con circa otto mila combattenti e con venti navi di quel popolo [Falco Beneventanus, in Chron.] si portò nell'aprile di quest'anno a Napoli, dove sì egli che il duca Sergio alzarono bandiera contra del creduto defunto Ruggieri. Altrettanto fece ancora il conte Rainolfo, figurandosi anch'egli di poter così operare a mano salva, perchè persuaso della morte del sovrano a cui aveva giurata fedeltà. Allora fu che il popolo di Aversa, tuttochè non mancasse chi asseriva molto ben vivo il re, ribellatosi, richiamò l'antico suo principe Roberto. Volevano i Pisani marciare di là addosso a Capoa, sperandone la conquista; ma furono ritenuti da chi sapea esservi un buon presidio, comandato da Guarino, consiglier di Ruggieri, uomo accorto, il quale mandò legata a Salerno la gente più sospetta di quella città, ed uscì ancora in campagna contra dei [636] nemici, portandosi al fiume Chiano. Il non veder comparire alcuno dalla Sicilia, accresceva ogni dì più la credenza della morte del re: quand'ecco arrivare esso re a Salerno nel dì 5 di giugno, e dar subito gli ordini per unir tutte le sue forze. La prima sua impresa fu contro la città di Aversa, da cui essendo fuggita buona parte di que' cittadini per paura a Napoli, non credendosi ivi sicuro il conte Rainolfo, anche egli tenne la medesima via. Restò la dianzi opulenta città alla discrezion di Ruggieri, che, dopo averla abbandonata al sacco, la fece dare alle fiamme. Devastò poscia tutti i contorni di Napoli; e Guarino suo cancelliere inviato contro le terre del suddetto conte, s'impadronì dell'amena città di Alife e di sant'Angelo. Perchè Caiazzo e Sant'Agata fecero resistenza, passò lo stesso Ruggieri all'assedio di esse, e le costrinse alla resa. Di là tornò ad infestar Napoli; ma conoscendo troppo difficile la conquista di quella forte città, se ne ritirò, comandando solamente che si rifabbricasse Cucolo ed Aversa, per ristrignere ed infestare coi loro presidii i Napoletani. Alle calde istanze di Roberto principe di Capoa, e, come si può credere, anche di papa Innocenzo, spedirono i Pisani in questo anno altre venti navi con gente guerriera a Napoli per opporsi agli attentati del re Ruggieri. Trovavasi allora la città di Amalfi senza milizia, perchè impegnati gli abili all'armi dal re parte per mare e parte in terra contra de' suoi nemici. Animaronsi perciò i Pisani ad assalire una mattina quella città, e l'assalirla e il prenderla fu lo stesso. Andò tutta a sacco quella ricchissima città; innumerabile e prezioso fu il bottino che vi fecero e ne asportarono alle lor navi i Pisani. In questa congiuntura, vecchia tradizione fra i Pisani è stata che i lor maggiori, trovato in Amalfi l'antichissimo e rinomato codice delle Pandette pisane, lo portassero colle altre spoglie a Pisa, da dove poi per le disgrazie di quella repubblica passò a Firenze. V'ha uno scrittore del secolo quartodecimo, [637] da me dato alla luce, che lo accenna. Se possa l'asserzion sua bastare, s'è disputato fra due valenti letterati in questi ultimi tempi: intorno a che nulla io oserei di decidere. Ben so che nell'anno presente 1135, chiamato da' Pisani secondo il loro stile 1136, toccò ad Amalfi la disavventura suddetta. Poscia i Pisani fecero lo stesso giuoco [Alexander Telesinus, lib. 3, cap. 20.] alla Scala, a Revello e ad altri piccioli luoghi. Ma saputosi dal re Ruggieri il guasto dato dall'armi pisane, da Aversa accorse colà colla sua armata, e trovati i Pisani all'assedio della Fratta, diede loro una considerabile spelazzata con ucciderne o farne prigioni circa mille e cinquecento. Fra i prigioni si contarono due de' consoli pisani, e il terzo vi lasciò la vita. Se ne tornarono i restanti alla lor patria colle navi cariche di spoglie, e con esso loro andò ancora il principe Roberto. Ruggieri, dopo essere tornato ai danni dei Napoletani, e fatto tagliar loro gli alberi portanti le viti, andò a Benevento, dove colla bandiera investì del principato di Capoa Anfuso suo terzogenito (nome che è lo stesso che Alfonso), e dichiarò conte di Matera Adamo suo genero. Disposti poi gli affari della Puglia, e creati nel dì del santo Natale cavalieri Ruggieri duca suo primogenito, e Tancredi principe di Bari suo secondogenito, se ne andò dipoi in Sicilia. Per quanto crede il signor Sassi [Saxius, in Notis ad Hist. Landulfi junior.], nel dì 29 di luglio dell'anno presente eletto fu arcivescovo di Milano Robaldo ossia Roboaldo vescovo d'Alba, il quale fu detto che accettasse l'elezione con patto di ritener il primiero suo vescovato [Landulfus junior, Histor. Mediol., cap. 42.]. E circa questi tempi uscirono i Milanesi in campagna contra de' Cremonesi, ma con poca fortuna, perchè furono fatti prigioni cento trenta de' loro soldati a cavallo. Apparisce ancora da una lettera di san Bernardo [S. Bernard., Epist. 131.] che anche i Piacentini ebbero nelle lor prigioni altri Milanesi. [638] Accadde circa questi tempi che il deposto arcivescovo Anselmo, colla speranza di aver soccorso dall'antipapa Anacleto, si mosse per Po alla volta di Roma. Nelle vicinanze di Ferrara fu preso da Goizo de Martinengo, e inviato prigione a Roma nel mese d'agosto. Quivi l'infelice consegnato a Pietro Latrone ministro del papa, nello stesso mese finì i suoi giorni, senza sapersi se di morte naturale. Come poi si arrischiasse il papa a trasmettere un prigione di tanta conseguenza a Roma, dove comandava l'antipapa, non si può intendere, se non supponendo che anche il partito d'esso pontefice ritenesse tuttavia assai vigore e delle fortezze in quella città.


   
Anno di Cristo MCXXXVI. Indizione XIV.
Innocenzo II papa 7.
Lottario III re 12, imper. 4.

Puossi ben credere che se non era amareggiato, era almeno bisognoso di molta pazienza il cuore del pontefice Innocenzo II, al veder crescere ogni dì più le prosperità del re nemico Ruggieri, e non mai muoversi dai suoi paesi l'imperadore Lottario per venire al soccorso d'esso papa e dei suoi alleati. Però sul principio del presente anno spedì allo stesso Augusto per suo legato Gherardo cardinale [Falco Beneventanus, in Chron.] con Roberto principe di Capoa e Riccardo fratello del conte Rainolfo, a ricordargli vivamente il bisogno e le promesse di lui. Lottario benignamente gli accolse, li regalò, e li rimandò in Italia con sicurezza che in questo anno egli sarebbe calato con formidabile esercito in Italia. Anche Sergio duca di Napoli passò per mare a Pisa, affine d'implorare al suo pericoloso stato gagliardi soccorsi dal papa e dal popolo pisano. Quante buone parole e promesse egli volle, facilmente ottenne, ma nulla di fatti. Qualche segreto emissario dovea avere il re Ruggieri in quella città, che con regali distornò l'affare: laonde convenne al duca tornarsene, ma assai mal [639] contento, a Napoli, città che già penuriava di viveri, non potendone ricevere nè per terra nè per mare, perchè tutti i contorni e il mare stesso erano infestati dalle genti e dalle galee di Ruggieri. Tuttavia Sergio ebbe maniera di arrivare colà con cinque navi cariche di vettovaglia: il che fu di gran conforto a quel popolo. Ma più si animarono essi coll'avere il duca portata la sicurezza che in quest'anno comparirebbe in Italia l'imperadore Lottario con gran potenza, e verrebbe a liberarli dal tiranno Ruggieri. Quali imprese facesse in quest'anno esso Ruggieri, non è giunto a nostra notizia, perchè la storia di Alessandro abbate di Telesa termina col fine dell'anno precedente; e Falcone altro non scrive, se non che crebbe a tal segno la fame nella città di Napoli, che molti fanciulli, giovani e vecchi cadeano morti per le piazze. Contuttociò era disposto quel popolo a soccombere piuttosto alla morte che di andar sotto il dominio dell'odiatissimo re Ruggieri. Nè Sergio duca mancava dal suo canto di rinvigorirli con far loro conoscere imminente l'arrivo dell'imperadore, colle cui forze si sarebbono liberati da quelle angustie. Tuttavia Falcone non dice una parola, che Ruggieri fosse in persona al blocco di Napoli. Tenne in quest'anno l'Augusto Lottario nella festa dell'Assunzione della Vergine una dieta generale in Wirtzburg [Annal. Saxo. Annal. Hildesh. Abbas Ursperg., in Chron.], terminata la quale, si mise in marcia con un potente esercito alla volta dell'Italia. Seco erano gli arcivescovi di Colonia, Treveri e Maddeburgo, con assai altri vescovi ed abbati, Arrigo duca di Baviera e Sassonia, e genero di esso Augusto Corrado duca, dianzi efimero re d'Italia, ed altri non pochi principi e baroni. Presso alla città di Trento ritrovò i ponti rotti, e chi s'opponeva al suo passaggio. Presto se ne sbrigò; ed arrivato alla Chiesa dell'Adige, quivi ancora gli fu contrastato il passo; ma colla morte degli abitanti e del loro signore si [640] fece largo, ed arrivò a Verona, dove fu con grande onore accolto. Andò poscia ad accamparsi presso il fiume Mincio, ed essendo comparsi colà in folla i Lombardi, tenne ivi una magnifica corte nella festa di san Maurizio, cioè nel dì 22 di settembre; e però non è da credere, come si figurò il padre Pagi, ch'egli nell'agosto fosse giunto al castello di san Bassano: e molto meno ch'egli fosse nell'aprile dell'anno precedente in Piacenza, come ha un privilegio pubblicato dal Campi [Campi, Istor. di Piac., tom. 1 nell'Append.], dato alla famiglia de' Bracciforti: documento anche per altre ragioni apocrifo ed insussistente. In tal congiuntura il vescovo di Mantova, che in addietro non s'era voluto sottomettere all'imperadore, fu necessitato ad umiliarsi e ad implorar la sua grazia. Guastalla, chiamata dall'Annalista Sassone oppidum munitissimum Warstal, d'ordine d'esso Augusto (non ne sappiamo il perchè), fu assalita e presa, e posto dipoi l'assedio all'alta sua rocca. Tale era anche allora il costume degl'italiani, e specialmente del re Ruggieri, di fabbricare simili rocche, fortezze, castelli e gironi nelle città, per tenere in freno i cittadini, ed aver un luogo sicuro contra de' nemici. Dubbio nondimeno mi è rimasto, se ivi veramente si parli di Guastalla, perchè sembra parlarsi di luogo posto alla collina, e non al piano, come Guastalla. Nella stessa maniera fu anche presa la città di Garda nel lago Benaco, ossia di Verona: de' quali due luoghi l'imperadore infeudò il suo genero, cioè il duca Arrigo. Ho io dato alla luce [Antichità Estensi, P. I, cap. 29.] uno strumento difettoso nelle note cronologiche, e che appartiene, forse con errore, all'anno presente, in cui si vede fatta donazione del castello di Cavallilo, posto nel Veronese, al monistero delle Carceri di Este da esso Arrigo duca di Sassonia. Lo strumento è fatto in Este, e il duca dice: Cum ad nostrum dominium spectent multa oppida, castra, atque rura sita in marchia trivisana, et ea, quae in districtu veronensi [641] habemus, ec. Può essere che ad un altro anno, e forse al duca Arrigo Leone appartenga quel documento. Ma comunque sia, di qui ancora risulta il dominio che la linea estense di Germania, cioè dei duchi di Sassonia e Baviera, tuttavia riteneva in Italia sopra la sua parte dell'eredità del marchese Alberto Azzo II progenitore anche dell'altra linea de' marchesi di Este.

Si trovò Cremona ribellante all'imperadore; e pure i Cremonesi erano stati fin qui nemici di Corrado innalzato dai Milanesi, e contrarii all'antipapa. Si sa, che avendo loro ordinato l'imperadore di rilasciar i prigioni milanesi, nol vollero ubbidire, nè consentirono alle proposizioni di pace. Ottone Frisingense scrive [Otto Frisingensis, lib. 7, cap. 19.], che dibattuta la controversia de' Milanesi coi Cremonesi, fu data ragione ai primi, e messi gli altri al bando dell'imperio. La disputa era per Crema. Perchè Lottario, in passando pel territorio loro, permise il sacco dei loro poderi e il taglio alle loro vigne. Casalam, item Cincellam oppugnavit, cepit, et destruxit, interfectis, et captis pluribus. Qui si parla di Casal Maggiore; ma qual luogo sia Cincella nol so dire. Arrivato poscia l'imperadore a Roncaglia sul Piacentino, bellissima e larga pianura, quivi per molti giorni si riposò, ed alzò tribunale con rendere a tutti giustizia. Vennero colà ben quaranta mila Milanesi ad inchinarlo con somma allegrezza, e in ubbidienza di lui, castrum munitissimum Samassan oppugnantes, ejus tamdem adjutorio ceperunt. Sono scorretti presso l'Annalista Sassone varii nomi di luoghi e di persone italiane. In vece di Samassan credo io che s'abbia a leggere Soncinum, che veramente fu preso con san Bassano, come si ha da Landolfo da san Paolo [Landulfus junior, Hist. Mediolan., cap. 45.]. Andò poscia Lottario a mettere il campo nei borghi di Pavia, città che al pari della collegata Cremona nol volle ricevere, anzi gli mandò alcune risposte ingiuriose. Male per quel popolo, [642] perchè prevalendosi dell'occasione i Milanesi, acerbi loro nemici, talmente si diedero all'ingegno, che misero il piede in quella città. Già s'era dato principio agli incendii e alle stragi; ma usciti in processione i cherici e monaci, corsero, chiedendo misericordia, ai piedi dell'imperadore, il quale siccome principe clementissimo loro perdonò, e fece desistere i Milanesi dalle offese. Ma perciocchè nel dì seguente restò ucciso un conte tedesco che insolentemente volea rompere una porta dalla città: fu in armi tutto il campo contra de' Pavesi, minacciando la morte a tutti; ma questi, mostrata la loro innocenza, ottennero il perdono, con restar nondimeno condannati a pagar venti mila talenti. Così dall'Annalista Sassone [Annalista Saxo.] narrati ci vengono questi fatti. Ma Landolfo da san Paolo, scrittore di maggior credito in questo, racconta [Landulfus junior, Histor. Mediol., cap. 45.] che Lottario venne a Lardirago sul fiume Olona in vicinanza di Pavia. Usciti in armi i Pavesi, furono rispinti fin sotto le mura dal principe Corrado, e molti ne restarono prigioni. Allora i Pavesi vennero a' piedi dell'imperadore, e dopo aver liberati i prigioni milanesi, ottennero anch'essi la libertà de' suoi. Trovaronsi ancora ribelli all'Augusto Lottario Vercelli, Torino e Gamondo (non so se nome sicuro), e però coll'esercito passò egli colà, e colla forza mise al dovere quelle città, e lo stesso fece con Castello Pandolfo. Post haec ingressus est terram Hamadan principis suae majestati contradicentis, quem destructis innumeris urbibus et locis munitis subjici sibi compulit. Questo principe Hamadan ha gran ciera d'essere Amedeo conte di Morienna, progenitore della real casa di Savoia, che possedeva molti Stati in Italia, ed è chiamato zio del re di Francia da Pietro Cluniacense. Dagli scrittori del Piemonte non è stata conosciuta questa particolarità.

Venne poscia Lottario a Piacenza, anche essa collegata co' Cremonesi e Pavesi, [643] e la espugnò. Da' Parmigiani fu accolto con grande onore, e loro in ricompensa concedette un castello e presidio contra de' Cremonesi loro nemici. Nè si dee lasciar sotto silenzio, che mentre questo imperadore sul principio di novembre tenne la sua magnifica dieta in Roncaglia, pubblicò una legge intorno ai feudi, che si truova fra le longobardiche [Leg. Langobard., P. II, tom. 1 Rer. Ital.] e nel Codice de Feudis. Abbiamo ancora dal Dandolo [Dandul, in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], che trovandosi egli in Correggio Verde sul Parmigiano, confermò i patti e privilegii a Pietro Polano doge di Venezia. Se vogliamo riposar sulla fede di Buonincontro Morigia [Morigia, Annal. Modoet., tom. 12 Rer. Ital.] e di Galvano Fiamma [Flamma, Manip. Flor., tom. 11 Rer. Ital.], scrittori del quartodecimo secolo, l'Augusto Lottario in quest'anno Mediolanum venit, ubi ab Anselmo de Pusterla archiepiscopo mediolanensi primo in Modoetia, secundo in Mediolano coronatus fuit. Postea per Innocentium secundum in Roma coronatus fuit in ecclesia lateranensi. Zoppica di troppo questo racconto. Non era più arcivescovo, anzi neppur vivo in questi tempi Anselmo. E già vedemmo Lottario coronato imperadore in Roma nell'anno 1133. Che se quegli storici si sono intesi dell'anno stesso 1133, allora passava discordia fra esso imperadore e i Milanesi, ed Anselmo arcivescovo era legato dalla scomunica. Verisimil cosa nondimeno sarebbe, che trovandosi Lottario sì vicino a Milano, e così ben ristabilita l'armonia fra lui e quel popolo, si facesse coronare colla corona ferrea del regno d'Italia. Ma nulla dicendo di così importante funzione Landolfo da san Paolo, scrittore presente ai fatti d'allora, non si può far fondamento sull'asserzione de' suddetti storici posteriori, siccome lontani dal medesimo Landolfo [Landulfus junior., Hist. Mediol., cap. 45.], che probabilmente in quest'anno, e prima che calasse in Italia Lottario, seguì un fatto d'armi fra i Milanesi e Pavesi colla [644] sconfitta de' primi. Vexilla Mediolanensium, et eorum agmina capta aut fugata a Papiensibus velut mitissima ovium pecora. Portossi dipoi l'arcivescovo Robaldo a Pisa, dove giurò fedeltà a papa Innocenzo: risoluzione che dispiacque non poco al popolo milanese, quasichè cotale umiliazione sminuisse la dignità e libertà della lor chiesa. Pare nondimeno, secondo l'opinione del Puricelli [Paricellius, Monument. Basil. Ambrosian., num. 376.], che Robaldo sostenesse il suo punto in non volere ricever dalla mano del papa il pallio archiepiscopale, con esigere che gli fosse inviato a Milano, come per tanti secoli s'era praticato in addietro. A questa opinione dà qualche fondamento san Bernardo nella lettera CXXXI; se non che si crede essa scritta nel precedente anno 1135, e però converrebbe rapportare anche l'andata a Pisa di Robaldo a quell'anno. Certo è che questo arcivescovo, allorchè l'imperador Lottario fu in Roncaglia, si portò co' suoi suffraganei a fargli la corte; e che per ordine d'esso Augusto fulminò la scomunica contra de' Cremonesi, ostinati in non voler rendere i prigioni milanesi: scomunica nondimeno non approvata da papa Innocenzo II, il quale in quest'anno, oppure nel seguente, ne mandò l'assoluzione a quel popolo.


   
Anno di Cristo MCXXXVII. Indiz. XV.
Innocenzo II papa 8.
Lottario III re 15, imper. 5.

Portò grandi mutazioni in Italia l'anno presente. Non apparisce in qual luogo l'Augusto Lottario solennizzasse la festa del santo Natale dell'anno addietro. Abbiamo un suo diploma [Ughell., Italia Sacra, tom. 5 Append., pag. 1599 in Episc. Regiens.] dato in Reggio VI. X (cioè sexto decimo) kalendas januarii, anno dominicae Incarnationis MCXXXVI, Indictione XIV, che dovea correre sino al fine dell'anno. Abbiamo inoltre un placito tenuto nella stessa città di Reggio [645] dall'imperadrice Richenza sua moglie [Antiquit. Italic., Dissert. XI, pag. 613.] septima die intrante mense novembri dello stesso precedente anno, Indictione XIV: segno che essa Augusta risiedeva in Reggio, mentre l'imperadore girava per la Lombardia. Non sussiste già che l'imperadore co' Cremonesi assediasse Crema in quest'anno, come volle Antonio Campi [Campi, Istor. di Cremon.]. Erano allora i Cremonesi in disgrazia d'esso Augusto. Sappiamo bensì dall'Annalista Sassone [Annalista Saxo.] che egli si accampò nelle pianure di Bologna, ed assediò quella città con pensiero di venire anche agli assalti, se non fosse stato il rigoroso freddo di quel verno che lo impedì. Presero nondimeno i suoi un castello fortissimo alla montagna, dove tagliarono a pezzi più di trecento persone. Venne poscia a' voleri di lui essa città di Bologna. Ottone vescovo di Frisinga scrisse [Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 19.] che Bononienses et Æmilienses, qui priori eum expeditione despexerant, supplices, ac multum servitii afferentes, ultro occurrunt. Seguita a dire l'Annalista Sassone che Lottario, capta Bononia, venit Cassan pacifice. Forse vorrà dire Cesena, nel nome suo da lui storpiata, come altri luoghi; e quivi celebrò la festa della Purificazion della Vergine, con essere comparso colà anche il duca di Ravenna a pagare i tributi del suo ossequio. Abbiam veduto all'anno 1129 Corrado duca di Ravenna. In questi tempi presso il Rossi troviamo Pietro duca in Ravenna. Se di alcun d'essi si parli nol saprei dire. Di là spedì Lottario il duca Arrigo suo genero in Toscana con un buon corpo di combattenti, per rimettere nel suo posto Eggelberto marchese cacciato da quei popoli, cioè quel medesimo di cui si è parlato all'anno 1134. Non si sentivano più voglia i Toscani di avere un marchese, cioè un superiore che loro comandasse a nome dell'imperadore, dacchè aveano preso ancora quelle città forma di repubblica. [646] Passò dipoi l'imperador Lottario in vicinanza di Ravenna, dove fu onorato da quell'arcivescovo Gualtieri e da tutto il clero e popolo. Post haec aggressus est Lutizan [Annalista Saxo.], quam prioribus satis rebellem et inexpugnabilem imperatoribus, primo impetu cepit. Che città sia questa mi è ignoto. Ben di qui ancora si vede che la Romagna era allora degl'imperadori, e che ne investivano gli arcivescovi di Ravenna. Inde Vanam (Fano), deinde Sinegalla (Sinigaglia) obsedit et expugnavit. Sicque Avennam civitatem adiit. Vuol, credo, dire Ancona. Sono di Otton Frisingense [Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 19.] queste parole: Anconam, Spoletum cum aliis urbibus seu castellis in deditionem accepit. Ciò, secondo il suddetto Annalista, non succedette senza venire alle mani col popolo d'Ancona, e colla morte di due mila d'essi: dopo di che e per mare e per terra assediata quella città, fu costretta a rendersi e a contribuir cento legni al servigio del medesimo Augusto. Ma Buoncompagno, storico di questo secolo ed Italiano [Boncompag., de obsidione Anconae, tom. 6 Rer. Ital.], niega che Ancona si rendesse ai voleri dell'Augusto Lottario, il quale l'assediò bensì, ma senza frutto. Gli scrittori tedeschi sapeano per lo più gli affari d'Italia per fama; e la fama ingrandisce facilmente le cose. Se crediamo all'Urspergense, Lottario, passato l'Apennino, andò a Spoleti, senza sapersi perchè quella città facesse resistenza all'imperadore, e massimamente se mettessimo per vero che allora quelle contrade fossero governate da uno de' duchi Guarnieri, vassalli dell'imperio. Sembra nondimeno più probabile che Lottario non valicasse l'Apennino, sapendo noi dall'Annalista Sassone che celebrò la santa Pasqua nella città di Fermo, e di là entrò nella Puglia, impadronendosi a forza d'armi di Castel Pagano, luogo fortissimo, al cui governatore Riccardo fece poscia il re Ruggieri abbacinar gli occhi per non aver fatta [647] la dovuta resistenza. Spedì egli il duca Corrado ad oppugnandum castellum Rigian, i cui abitatori non aspettarono la forza per rendersi. Arrivato esso Corrado a Monte Gargano, l'assediò per tre giorni, finchè giunto anche l'imperadore col grosso dell'armata, quel popolo depose le armi e venne all'ubbidienza. Dopo aver fatte le sue divozioni alla basilica di san Michele Arcangelo, passò Lottario a Troia, Ranne (forse Canne) e Barletta, gli abitatori delle quali città ostilmente uscirono contro al cesareo esercito, non con altro guadagno che di restar molti d'essi o trucidati o prigioni. Non volle fermarsi l'imperadore ad espugnar quei luoghi, e continuato il cammino, fu volentieri ricevuto dai cittadini di Trani, che all'arrivo suo smantellarono la rocca di Ruggieri. Ed essendo comparse ventitrè navi d'esso re con animo di rinforzar quel presidio, otto di esse furono sommerse, e l'altre si salvarono colla fuga. Tentò il re Ruggieri coll'esibizione di una gran copia d'oro di placare e guadagnare l'imperadore Lottario, ma il trovò sordo a questo canto.

Intanto il duca Arrigo passato in Toscana, per rimettere in posto il marchese Eggelberto ossia Ingelberto, nel piano di Mugello vinse il conte Guido ribello d'esso marchese, e col distruggere tre sue castella, l'obbligò a riconciliarsi con lui [Annalista Saxo.]. Accompagnato poscia ad esso conte assediò Firenze, e, dopo averla costretta alla resa, vi rimise il vescovo dianzi ingiustamente cacciato dalla città. Da Pistoia, ove non trovò opposizione, andò alle castella di san Genesio e di Vico, che colla forza furono sottomesse. Dopo avere distrutta la torre di Capiano, nido d'assassini, s'inviò alla volta di Lucca con pensiero d'assediarla; ma interpostisi alcuni vescovi col santo abbate di Chiaravalle Bernardo, che chiamato, era prima venuto a trovare il papa, quel popolo, a cui non erano ignoti i maneggi de' lor nemici pisani contra di loro, [648] comperò la pace collo sborso di una buona somma di danaro. Scrive l'Abbate Urspergense [Abbas Urspergensis, in Chron.] che il duca Arrigo fu investito del ducato di Toscana dall'Augusto suocero, verisimilmente per le ragioni spettanti alla linea estense di Germania sopra gli Stati posseduti dalla contessa Matilda in Italia. Inviatosi poi alla volta di Grosseto, espugnò Hunsiam, forse Siena, e diede alle fiamme i suoi contorni. Alle chiamate di lui risposero con insolenza i Grossetani; ma assediata la loro città, dopo aver preso colle macchine di guerra un fortissimo castello vicino, diede loro tal terrore, che non tardarono ad arrendersi. Trovossi o venne di marzo in quella città il pontefice Innocenzo, ed onorato e scortato dal duca, con esso lui passò a Viterbo. Erano quivi per la maggior parte i cittadini aderenti all'antipapa Anacleto; aveano anche distrutta dianzi la vicina città di San Valentino; ma per le esortazioni del papa e per la paura del duca si arrenderono col pagamento di tre mila talenti, intorno ai quali nacque discordia, pretendendoli il pontefice come padrone della città, e il duca per diritto di guerra. Giunti che furono a Sutri, quivi Innocenzo depose quel vescovo, e ne creò un altro. Da Monte Casino cacciarono il presidio del re Ruggieri. Capoa collo esborso di quattro mila talenti si esentò dall'assedio, ed ivi fu rimesso in possesso di quel principato Roberto oppresso dianzi dal re Ruggieri [Petrus Diaconus, Chron. Casinens., lib. 4, cap. 105. Falco Beneventanus, in Chron.]. Quindi nel dì 23 maggio passarono il pontefice Innocenzo II e il duca sotto Benevento, dove era una buona guarnigion di Ruggieri e i più de' cittadini fautori giurati dell'antipapa. I maneggi e il timore gl'indussero a rendersi e ad ammettere il legittimo lor sovrano Innocenzo, a cui giurarono fedeltà. Poscia nel dì 25 di maggio esso papa col duca Arrigo andò a ritrovar l'imperadore, che già avea intrapreso l'assedio di Bari; e nel cammino, per attestato di [649] Pietro Diacono, si rendè loro la città di Troia. Con ammirabil onore ed allegrezza fu accolto il papa dall'Augusto Lottario. Senza far resistenza il popolo di Bari si diede ad esso imperadore; ma non già la rocca fortissima, ivi fabbricata dal re Ruggieri, che costò gran tempo, assalti e maneggio di macchine militari per impadronirsene. Fu messa a fil di spada quella guarnigione. La presa di sì importante città fu cagione che Melfi e le altre minori di Puglia e Calabria si sottomettessero. Intanto la flotta de' Pisani composta di cento navi da guerra, pervenuta a Napoli, ebbe ordine dall'imperadore di portarsi contra d'Amalfi, il cui popolo, collo sborso di molto danaro e col rendersi all'imperadore e ai Pisani, schivò l'eccidio. Presero dipoi essi Pisani a forza d'armi Revello, la Scala, la Fratta ed altri luoghi marittimi. Restava la sola città di Salerno, città per copia di popolo, di ricchezze e di fortificazioni allora molto riguardevole, alla divozione del re Ruggieri. Ebbero ordine i Pisani, Sergio duca di Napoli e Roberto principe di Capoa di mettere l'assedio per terra e per mare a quella città; e vi fu spedito anche il duca Arrigo col conte Rainolfo e un corpo di Tedeschi [Annalista Saxo.]. Nel dì 18 di luglio si cominciò quell'assedio, al quale intervennero ottanta legni di Genovesi e trecento di Amalfitani, se pur non v'ha errore in sì sfoggiato numero di navi. Gran difesa fece il presidio di Ruggieri, insigni prodezze vi fecero i Pisani, i quali avevano preparato un'altissima e mirabil macchina per espugnar così dura fortezza. Ma venuti il papa e l'imperadore, cominciarono un trattato coi Salernitani, per cui fu loro conceduto l'ingresso e la signoria di quella città; il che inteso da' Pisani, i quali speravano il sacco di essa, talmente s'indispettirono, che abbandonarono ogni offesa, e, bruciata la macchina preparata, misero alla vela per tornarsene a casa, e gran fatica durò il papa per [650] ritenerli. Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernitan., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.] racconta che dai Salernitani fu dato alle fiamme il castello di legno dei Pisani: del che tanto sdegno concepirono essi Pisani contra dell'imperadore per non avergli aiutati, che si accordarono col re Ruggieri. Cagionò nondimeno questa mala intelligenza che non si conquistasse la torre maggiore, ossia la rocca, in cui si rifugiò gran parte della guarnigione del re Ruggieri.

Dopo aver celebrata la festa dell'Assunzion della Vergine in Salerno, il papa e l'imperadore sen vennero ad Avellino, e quivi trattarono di creare un duca di Puglia che per valore e prudenza fosse atto a governare e sostener que' popoli contro la potenza del re Ruggieri. E perciocchè Roberto principe di Capoa per la delicatezza del suo corpo, e per altri difetti d'animo, non parve a proposito per sì rilevante impiego, ne fu creduto più degno il conte Rainolfo, chiamato da altri Rainone e Reginolfo, ma da altri poi con errore Raidolfo e Rainaldo. Qui insorse lite fra il papa e l'imperadore, pretendendo cadaun d'essi la sovranità in quelle parti e il diritto d'investirlo. Era dianzi nata un'altra controversia fra loro a cagione di Salerno [Petrus Diaconus, Chron. Casinens., lib. 4, cap. 117.], che il papa dicea di suo diritto, e l'imperadore lo sosteneva per città dell'imperio, come s'ha principalmente da Romoaldo Salernitano. Per quasi trenta giorni durò la disputa dell'investitura da darsi al conte Rainolfo, nè altro temperamento trovandosi, finalmente tenendo colle mani amendue, cioè Innocenzo e Lottario, il gonfalone [Otto Frising., Chron., lib. 7, cap. 20. Falco Beneventanus, in Chron.], per mezzo d'esso l'investirono del ducato con infinita allegrezza di que' popoli. Un'altra calda contesa, narrata a lungo da Pietro Diacono, fu ne' medesimi tempi fra questi due supremi principi della Chiesa e dell'imperio, a cagion di Rinaldo [651] eletto abbate di Monte Casino. Perchè ciò era seguito senza consentimento di papa Innocenzo II, e perchè egli pretendea scomunicati que' monaci per avere aderito all'antipapa, non volea ammettere per conto alcuno quell'eletto, e pretendeva che i monaci venuti al campo gli comparissero davanti in abito di penitenza ad implorar l'assoluzione. Si fece una lunga disputa per questo. Lottario sostenne per quanto potè i monaci e la libertà di quell'insigne monistero, siccome camera dell'imperio; ma in fine papa Innocenzo II la vinse. Fu rigettato Rinaldo, e promosso Guibaldo a quella badia. Iti poscia nel dì 4 di settembre a Benevento tanto il papa che l'imperadore, quel popolo per mezzo d'esso papa ottenne dall'Augusto Lottario che fossero levati varii aggravi loro imposti da' vicini conti normanni. Dopo di aver presa Palestrina, asilo allora di assassini, e liberato il monistero di Farfa, vennero poscia amendue alla volta di Roma. Innocenzo, assistito dai Frangipani e da altri nobili, ripigliò il possesso del palazzo lateranense; e Lottario, congedatosi dal papa, s'inviò per ritornare in Germania. Nel cammino prese Narni, domò il popolo di Amelia, e per Orvieto passò ad Arezzo, ed indi per Mugello a Bologna. Quivi congedò l'esercito, lasciando andar cadauno alle loro case. Giunto egli a Trento, e quivi solennizzando con allegria la festa di san Martino, cadde infermo. Ciò non ostante, avendo egli voluto continuare il viaggio, in una vilissima casuccia all'imboccatura dell'Alpi passò all'altra vita, miseram humanae conditionis memoriam relinquens. S'è disputato intorno al giorno della sua morte; ma i più convengono che questa accadesse nel dì 5 di dicembre di questo anno. Non si saziano gli antichi storici di esaltar questo imperadore per la somma sua religione, per l'amore de' poveri, per la gloria militare, per la prudenza e per altre virtù, di modo che non men dagli Italiani che dai Romani fu rinnovato in lui il titolo di Padre della patria. Fu portato [652] il suo cadavero alla sepoltura nel monistero di Luter in Sassonia.

Ed ecco una mirabile scena delle umane instabili grandezze. Ma ne succedette un'altra nello stesso tempo non men considerabile. S'era fin qui ritenuto il re Ruggieri in Sicilia, aspettando miglior volto della fortuna, con applicarsi intanto a raunar milizie, e a preparar l'altre occorrenze di guerra. Saggiamente immaginò egli che non tarderebbe a ritirarsi l'imperadore colla sua possente armata, e che non sarebbe allora difficile il ricuperare il perduto. Così infatti avvenne. Appena era giunto verso Roma l'imperador Lottario, che Ruggieri con tutte le sue forze sbarcò a Salerno; e tra perchè si trovò tuttavia occupata dai suoi la torre maggiore, e per la divozione che gli professava quel popolo, con facilità ne ricuperò il possesso e dominio [Romuald. Salern., in Chron. Falco Benev., in Chron. Petrus Diaconus, in Chron. Cassin.]. Poi senza perdere tempo prese Nocera, e quindi Alife con tutte le terre proprie del duca Rainolfo. Voltossi appresso alla volta di Capoa con furore, e se ne impadronì; ma con lasciare affatto la briglia alla crudeltà. Fu dato il sacco a quella nobil città, e ne furono asportate immense spoglie e ricchezze, perchè si stese l'insolenza militare anche alle chiese, e fin le monache restarono involte in quella orribil calamità. Di molti Saraceni siciliani avea seco Ruggieri, che accrebbero l'esecrabile sfogo dell'avarizia e della libidine senza rispetto alcun alla religione. Roberto principe di Capoa si ricoverò altrove, e tutta la Terra di Lavoro venne in poter di Ruggieri. Intanto Sergio duca di Napoli, al veder tanta mutazione negli affari, non tardò ad implorar perdono e pace da Ruggieri, che l'obbligò a militar seco in quella campagna. Dopo la presa di Avellino arrivò il re sotto Benevento, dove quel popolo, rinunziando ad ogni difesa, si sottopose tosto a lui e all'antipapa Anacleto verso la metà di ottobre. Monte Sarchio dipoi, Monte Corvino ed altre [653] terre parimente gli si diedero. Ma non si atterrì per questo rovescio il nuovo duca di Puglia Rainolfo, risoluto di morir piuttosto valorosamente, che di cedere con vergogna al re nimico. Aveva egli un corpo di Tedeschi lasciatigli dall'imperador Lottario, e raunati i popoli di Bari, Troia, Trani e Melfi, compose una grossa armata, con cui uscito in campagna, andò a mettersi a fronte di quella di Ruggieri. Erano vicini a venire alle mani, quando il mirabil abbate di Chiaravalle san Bernardo, di consenso o per ordine di papa Innocenzo, arrivò al padiglione di Ruggieri per trattar di pace. Non mancò certo al santo abbate facondia e zelo in tal congiuntura; tuttavia tali dovettero essere le condizioni di accomodamento da lui proposte, che non piacquero al re, e massimamente per sentirsi egli superiore di forze a Rainolfo. Rottosi dunque il trattato di pace, e partitosi il santo abbate secundo die stante mensis octobris, che dovrebbe essere, secondo i conti di Camillo Pellegrino, il dì 30 di ottobre, si venne ad un fatto d'armi appresso Ragnano. Per attestato di Romoaldo Salernitano, la prima schiera de' feritori, comandata da Ruggieri duca di Puglia primogenito del re, sì fieramente urtò nel battaglione, che il mise in rotta e l'inseguì sino a Siponto. Ma il duca Rainolfo, colle altre sue schiere, così animosamente assalì il grosso dell'armata nemica, dove era in persona lo stesso re Ruggieri, che lo sconfisse, e riportò piena vittoria. Restarono sul campo circa tre mila persone, fra le quali Sergio duca di Napoli; moltissimi furono i prigioni, immenso il bottino, per cui tutti quei di Bari, Trani ed altri aderenti se ne tornarono ben ricchi alle lor case. Il re Ruggieri col benefizio di un buon cavallo e degli sproni si salvò, ed arrivato nel dì seguente alla Padula, di là passò a Salerno, dove quel popolo corse ad offerirsi al di lui servigio; e i Beneventani, avendo ottenuto in quella congiuntura un grazioso privilegio da lui, tutti si dichiararono per lui. Dopo la vittoria [654] non istette colle mani alla cintola il duca Rainolfo. Con un buon corpo di gente sottomise a' suoi voleri la città di Troia; obbligò ancora colla forza Ruggieri conte d'Ariano a sottomettersi con tutte le sue terre; e di là nel primo dì di dicembre andò col suo esercito a mettere l'assedio al castello della Padula. Non per questo si mosse di Salerno il re Ruggieri. Nel ragionare con san Bernardo, aveva egli mostrato desiderio che se gli mandassero da papa Innocenzo tre cardinali, ed altrettanti dall'antipapa, per esaminare in un congresso le ragioni dell'una e dell'altra parte. Ancorchè fosse per più capi disdicevole una tal proposizione; pure non ebbe difficoltà il papa di spedir colà a questo fine i cardinali Aimerico cancelliere e Gherardo, e con esso loro san Bernardo. Inviò Anacleto anch'egli i suoi, cioè Matteo cancelliere, Pietro pisano, uomo di raro sapere, e Gregorio, cardinali del suo partito. Per quattro giorni ascoltò Ruggieri con somma attenzione le ragioni de' primi, e poscia per altri quattro giorni quelle de' secondi; ma scaltro che' gli era, volle prender tempo; e col pretesto di non saper egli solo terminar questa gran contesa, fece istanza che andasse con lui uno per parte dei cardinali suddetti in Sicilia, dove pensava di celebrare il santo Natale, affinchè nell'assemblea degli arcivescovi, vescovi ed abbati si facesse la decisione opportuna. Infatti l'accompagnarono colà Guido da Castello cardinale di papa Innocenzo II, ed un altro per parte di Anacleto. A questo si ridusse il buon pontefice per desiderio della pace e di terminare amichevolmente il deplorabile scisma.


   
Anno di Cristo MCXXXVIII. Indizione I.
Innocenzo II papa 9.
Corrado III re di Germania e d'Italia 1.

Volle Dio liberare in quest'anno la Chiesa sua dal peso dell'antipapa [655] Anacleto [Ordericus Vital., Hist. Ecclesiast., lib. 13. Falco Beneventanus, in Cronico.]. Il colpì la morte nel dì 25 di gennaio dell'anno presente, e al cadavero suo non si sa dove fosse data sepoltura da' suoi parenti. Per sì favorevol accidente s'innalzò maggiormente in Roma l'autorità di papa Innocenzo, e parea che dovesse anche mettersi fine allo scisma. Ma i fratelli dell'antipapa, cioè i figliuoli di Pier Leone, e gli altri lor fazionarii significarono al re Ruggieri quanto era accaduto, per sapere se doveano far pace, oppure eleggere un altro antipapa. Ruggieri, per isperanza di vendere più caro la sua concordia, ordinò che passassero all'elezione di un altro antipapa; e però verso la metà di marzo alzarono un nuovo idolo nella Chiesa di Dio, cioè Gregorio cardinale, a cui imposero il nome di Vittore IV. Ma sempre più crescendo il concorso de' Romani a papa Innocenzo II, i figliuoli di Pier Leone, non volendo restar soli ed esposti a gravi pericoli, nell'ottava di Pentecoste, come s'ha da una lettera di san Bernardo [S. Bernard., Epist. ad Godefridum.], andarono ad umiliarsi al pontefice Innocenzo, e gli giurarono fedeltà ed omaggio. Ci vorrebbe far credere Pietro Diacono [Petrus Diaconus, Chron. Casin., lib. 4, cap. ult.] che Innocenzo li guadagnasse con buona somma di danaro; ma probabilmente non merita fede. Trovavasi allora in Roma il suddetto santo abbate Bernardo, tutto intento ai vantaggi della Sede apostolica. Riuscì al credito e zelo suo d'indurre il novello antipapa Vittore a deporre la porpora e la mitra; laonde condottolo ai piedi del pontefice, rinunziò ad ogni sua pretensione, ed implorò misericordia pel suo trascorso. Altrettanto fecero quasi tutti i suoi aderenti, con allegrezza inestimabile di tutta Roma, anzi di tutta la Cristianità. Con ciò venne alle mani di papa Innocenzo ogni fortezza della città di Roma, e quivi tornò a rifiorir la pace e la benedizione di Dio. Ma san Bernardo, [656] che nulla curava le umane grandezze, non tardò, dopo aver veduto il frutto delle tante sue lodevoli fatiche, a ritornarsene accompagnato dalla sua umiltà in Francia. Non si sa ben intendere ciò che narra Falcone Beneventano [Falco Beneventanus, in Chron.], con dire che anche il re Ruggieri riconobbe per vero papa Innocenzo, ed ordinò ai Beneventani di sottomettersi a lui: il che fu eseguito; mentre non apparisce seguito fra esso papa e il re accomodamento alcuno; anzi si sa che Innocenzo II continuò la guerra contra di lui, e venne in quest'anno colle sue milizie ad Albano, per andare ad unirsi col duca Rainolfo, e far fronte ad esso Ruggieri; ma sopraggiuntagli un'infermità, gli convenne desistere. Quanto ad esso Rainolfo, seguitò ben egli ad assediare e a tormentar colle macchine militari il castello della Padula; ma scorgendo troppo difficile il superarlo, passò ad Alife, e se ne impadronì. Intanto venuta la primavera, dalla Sicilia comparve in Puglia il re Ruggieri con un possente esercito. Implorato dai Beneventani il suo aiuto, corse colà, e prese alcune castella nemiche di quel popolo. Gli venne contra il duca Rainolfo con una buona armata, cercando di dargli battaglia; ma Ruggieri, addottrinato dal passato, non volle avventurarsi ad un nuovo conflitto, ed accortamente schivando gl'incontri, piombò poscia sopra la città di Alife e la prese. Prima il sacco con tutte le sue crudeli conseguenze, e poscia le fiamme terminarono l'eccidio di quella ricca e bella città. Di là passò all'assedio di Venafro, che parimente gareggiava colle migliori nelle ricchezze e fortificazioni, e con furiosi assalti se ne impadronì. Se gli diedero Presenzano, Rocca Romana e Tocco nel mese di settembre. Nel dì 4 di ottobre fu in Benevento, e poscia prese le castella di Morcone, san Giorgio, Pietra Maggiore, Apice ed altri, ne' quali mise buone guarnigioni per restringere sempre più il duca Rainolfo, il quale custodiva Troia, Bari, Melfi ed altre città [657] da lui dipendenti. Andossene dipoi Ruggieri verso il verno a Salerno per di là passare in Sicilia.

Era intimata in Germania una general dieta in Magonza per la festa della Pentecoste, affin di eleggere il nuovo re [Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 22.]. Ma alcuni de' principi temendo che la corona potesse cadere in Arrigo duca di Baviera e Sassonia, genero del già defunto Lottario, la cui potenza, per signoreggiar egli due così insigni ducati, era oggetto della loro invidia e malevolenza, anticipando quel tempo, adunati nella città di Conflans, promossero al regno il duca Corrado, fratello di Federigo duca di Suevia, cioè quel medesimo che abbiam veduto di sopra momentaneo re d'Italia. A questi principi fece animo Teodoino cardinale e legato pontificio, con promettere loro totius populi romani, urbiumque Italiae assensum. E questa fu la ricompensa delle fatiche fatte dal suddetto duca Arrigo in servigio della sede apostolica. Non solamente restò egli escluso dal regno, ma venne creato re un principe suo nemico, ed anche scomunicato negli anni addietro dal medesimo papa Innocenzo [Annalista Saxo.]. Nella domenica terza di quaresima si fece in Aquisgrana la coronazione d'esso Corrado. Da gran tempo regnava la discordia fra la casa di lui, perchè erede degli Augusti Arrighi di sangue ghibellino, e quella del duca Arrigo suddetto, proveniente bensì dal sangue italiano de' principi estensi, ma erede della famiglia dei Guelfi in Germania: il che è da notare, perchè di qua presero origine le fazioni guelfa e ghibellina, che lacerarono dipoi cotanto la misera Italia, siccome abbiamo dallo stesso Ottone da Frinsinga, e meglio si comproverà andando innanzi. Ora il medesimo duca Arrigo e i suoi popoli di Baviera e Sassonia, siccome non concorsi a tale elezione, si opposero al novello re Corrado. Crescendo nulladimeno di giorno in giorno l'autorità e possanza di lui, que' [658] popoli insieme colla vedova imperadrice Richenza, correndo la festa della Pentecoste, il riconobbero per re in Bamberga. Citato per la festa di san Pietro il duca Arrigo a Ratisbona, comparve colà; e perciocchè in mano sua erano tutte le imperiali insegne, cioè la corona, lo scettro e gli altri ornamenti del defunto Augusto, tante belle promesse gli furono fatte, che le cedette al re nuovo. Ma nulla di tante promesse fu a lui attenuto, e Corrado rivolse tutto il suo odio e studio alla rovina di questo principe, con metterlo al bando dell'imperio, e privarlo dei suoi ducati. A Leopoldo iuniore, figliuolo del santo marchese Leopoldo, diede la Baviera, al marchese Adalberto la Sassonia: il che si tirò dietro non poche guerre, e un fiero sconvolgimento di quelle provincie. Restò il duca Arrigo per la maggior parte colla forza spogliato della Baviera; ma i Sassoni, che del suo governo si pregiavano, imbracciarono lo scudo per lui.


   
Anno di Cristo MCXXXIX. Indizione II.
Innocenzo II papa 10.
Corrado III re di Germania e d'Italia 2.

Sul principio di aprile tenne papa Innocenzo il concilio II generale lateranense [Labbe, Concilior., tom. 10.], a cui intervennero circa mille tra arcivescovi, vescovi ed abbati. Furono quivi fatti molti nobili decreti contra dei simoniaci, usurarii, incendiarii, ecclesiastici incontinenti, ed altri delinquenti. Vi ha chi crede che nel concilio da lui tenuto in Chiaramonte nell'anno 1130, oppure in quello di Rems del 1131 si pubblicasse il famoso canone Si quis suadente Diabolo, con cui è intimata la scomunica contra chi mette violentemente le mani addosso agli ecclesiastici, riserbata al sommo pontefice. Certamente questo canone fu pubblicato oppur confermato nel suddetto concilio lateranense; e quivi ancora fulminata fu la medesima censura contra del re Ruggieri, ed annullate tutte [659] le ordinazioni fatte dall'antipapa Anacleto [Falco Benevent., in Chron.]. Appena era terminato questo concilio, che il valoroso e prudente duca Rainolfo, trovandosi nella città di Troia, sorpreso da un'ardente febbre, nel dì 30 d'aprile diede fine al suo vivere, con incredibil dolore e pianto non solo di quei cittadini, ma di quegli ancora di Bari, Trani, Melfi e Canosa, ridotti all'ultima disperazione, perchè colla morte di lui restavano tutti senza capo, ed esposti al genio crudele e tirannico del re Ruggieri. E a tal nuova all'incontro esultò sommamente esso re, nè tardò a comparire dalla Sicilia a Salerno con assai navi, gente e danaro. Quivi raccolto dalla Puglia, Calabria e Capoa un potente esercito, parte ne diede a Ruggieri duca di Puglia suo figliuolo, e parte ne ritenne per sè. Sottomise egli al suo dominio tutta la provincia di Capitanata, e il duca suo figliuolo si fece rendere ubbidienza da tutte le città della Puglia, fuorchè da Bari capitale di quelle contrade; perchè il principe d'essa vi avea dentro quattrocento uomini a cavallo, e cinquanta mila cittadini atti alle armi: di modo che tentò bensì il duca di soggiogar quella città, ma, conoscendone l'impossibilità, lasciò l'impresa, e andò ad unire il corpo de' suoi combattenti con quello del re suo padre. Trattarono poscia amendue di mettere lo assedio alla città di Troia; ma saputo che v'era dentro un forte e copiosissimo presidio, preso solamente il vicino castello di Bacarezza, quivi lasciarono dugento cavalieri, con ordine di ristrignere ed infestare i Troiani. Assediarono poscia la città di Ariano, ed inutilmente. Alla difesa stavano dugento soldati a cavallo, e copiose schiere di fanti. Però, levato l'assedio, infierirono solamente contro le viti, gli ulivi, alberi e seminati di quel territorio. Con estremo dispiacere sentì anche Innocenzo II la morte del duca Rainolfo; e veggendo in una deplorabil confusione tutta la Puglia, e il re incamminato a sottomettere quell'intero paese, saggiamente [660] si rivolse più di prima a' pensieri di pace, e volle portarsi in persona a trattarne. Uscito dunque di Roma coll'accompagnamento di Roberto principe di Capoa, e di circa mille cavalli, e di gran moltitudine di fanti, giunse alla città di San Germano. Allora il re Ruggieri gli spedì ambasciatori con proposizioni d'amicizia e di pace, che furono amorevolmente accolti dal papa; e il papa anch'egli inviò a lui due cardinali con invitarlo a San Germano. L'invito fu accettato, e Ruggieri col duca Ruggieri suo figliuolo e colla sua armata si portò in quelle vicinanze, e per otto giorni seguirono dei forti maneggi di pace, ma senza potersi accordare fra loro a cagione del principato di Capoa, che il pontefice esigeva per restituirlo a Roberto, e Ruggieri pretendeva devoluto per la di lui pretesa fellonia.

Mentre si faceano tali negoziati, il re prese una parte delle castella de' figliuoli di Borello; e perchè in persona egli era colà, ed era già tramontata la speranza della pace, il papa comandò ai suoi che assalissero e devastassero il castello di Galluzzo. Portata questa nuova al re, a marcie sforzate sen venne egli con tutta l'armata alla volta di San Germano, e si accampò presso a quella città, entro la quale dimorava il pontefice. Non si tenendo esso papa nè i suoi sicuri in quel luogo, sloggiarono ben presto per cercare un sito di maggior sicurezza. Ma il giovine Ruggieri duca, presi con seco circa mille cavalli, e postosi in un'imboscata, dove doveano passare i Romani, all'improvviso fu loro addosso, e li fece dare alle gambe. Salvossi il principe Roberto con Riccardo fratello del defunto Rainolfo, e coi più de' Romani, de' quali nondimeno molti si negarono nel fiume, ed altri rimasero prigioni. Fra questi ultimi per disavventura si contò anche il buon papa Innocenzo, il quale nello stesso giorno, cioè nel dì 22 di luglio, come si ha da Falcone, fu condotto sotto buona guardia alla presenza del re Ruggieri, che gli fece assegnare un padiglione per gli altri cardinali [661] prigioni. Andò a sacco tutto il tesoro e tutti gli arredi del santo padre, a cui e agli altri suoi successori volle Dio dare un nuovo ricordo di quel versetto del salmo: Hi in curribus, et hi in equis: nos autem in nomine Dei nostri invocavimus. Differente nondimeno si vuol confessare il caso presente da quello di san Leone IX papa. Questi andò per combattere, ma pare che Innocenzo II si movesse per cercare la pace, e che per semplice sua scorta camminasse con quegli armati. Fors'anche intervenne qualche iniquità nell'agguato a lui e alla sua gente teso. Che nondimeno seguissero delle ostilità, si raccoglie da Giovanni da Ceccano, di cui son queste parole [Johan. de Ceccano, tom. 1 Ital. Sacr. Ughell.]: Mense junii venit papa cum Romanis ad expugnandum regem Siciliae, et incensa sunt a Romanis Falvatera, Insula, et Sanctus Angelus in Tudicis. Racconta Romoaldo Salernitano [Romuald. Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.], che rex e vestigio prosequutus domnum papam, ad pedes ejusdem voluit humiliter satis accedere. Sed ipse, utpote vir constans et egregius, eum primo recipere noluit. Ma andando innanzi e indietro proposizioni di pace, il saggio pontefice col consiglio de' cardinali, per sottrarre ai disagi i molti nobili romani, rimasti anch'essi prigioni, segnò in fine l'accordo con legittimare a Ruggieri il titolo di re, conferitogli dall'antipapa Anacleto, ed investire lui del regno di Sicilia, e il figliuolo di Ruggieri del ducato di Puglia. Nel diploma di tale investitura presso il cardinal Baronio [Baron., Annal. Ecclesiast.] si legge confermato anche a Ruggieri il principato di Capoa; ma niuno parla del ducato di Napoli e Amalfi. Nella festa di san Jacopo di luglio seguì la suddetta concordia, e quanto la mestizia era stata incredibile fra i popoli cristiani por la prigionia del papa, altrettanto fu la consolazione e l'allegrezza per la pace e liberazione di lui. Presentossi dunque con tutta [662] riverenza il re Ruggieri insieme co' suoi figliuoli, cioè col duca Ruggieri e con Anfuso ossia Alfonso principe di Capoa, ai piedi del pontefice [Falco Beneventanus, in Chron.]; e dopo aver chiesto perdono, ed ottenuta l'assoluzione, ricevette l'investitura degli Stati suddetti col gonfalone dalle di lui mani. Accompagnò egli dipoi con tutto onore il papa fino a Benevento, nella quale città entrarono amendue nel dì primo d'agosto, dove il pontefice fece atterrare il castello fabbricato in quella città da Rossemanno, già creato arcivescovo da Anacleto, e deposto in questa congiuntura, con sostituirgli Gregorio. Furono cagione i prosperosi successi del re Ruggieri che i Napoletani vennero a Benevento anch'essi a mettersi sotto il suo dominio, con accettar per loro duca Ruggieri primogenito d'esso re. Preso poscia congedo dal papa, marciò Ruggieri coll'esercito alla volta di Troia, i cui cittadini non tardarono a rendersi; ma pregatolo che entrasse in città, rispose loro che non vi metterebbe il piede finchè quel traditore (cioè il defunto duca Rainolfo) dimorasse fra loro. Fu costretto con suo gran rammarico quel popolo a far disotterrare il cadavero fetente d'esso Rainolfo, che da alcuni suoi nemici con una fune legata al collo tratto fu per la città, e gittato fuori d'essa nelle fosse: vendetta orribile e detestata da tutti, e infino dal duca Ruggieri, il quale presentatosi al padre, tante preghiere adoperò, che gli fu conceduto di farlo seppellire. Non entrò per questo il re Ruggieri in Troia, ma a dirittura andò a piantar l'assedio por terra e per mare alla città di Bari. Spedì Innocenzo pontefice il vescovo d'Ostia a que' cittadini con esortazioni paterne di cedere amorevolmente alla forza, per sottrarsi al rigore. Ma quel superbo popolo neppur volle lasciarlo entrare in città, nonchè badare ai di lui consigli.

Tornossene il papa dopo il dì 2 di settembre a Roma, ricevuto con immenso gaudio dai Romani, i quali tentarono bensì [663] d'indurlo a rompere la pace fatta per forza; ma Innocenzo, siccome principe di veterana prudenza, non volle acconsentire al parer di que' bravi, che poco dianzi aveano lasciato sì bei segni del loro coraggio nella precedente zuffa. Continuò il re Ruggieri per tutto l'agosto e il settembre l'assedio di Bari; le sue petriere e torri di legno distrussero parte delle mura e torri della città e non pochi palagi; crebbe anche a dismisura la fame fra quel popolo, sino ad aver per grazia di poter mangiare carne di cavallo e un tozzo di pane, di maniera che finalmente trattarono della resa, che fu loro accordata con oneste capitolazioni. Tutto pareva tranquillo e quieto, quando presentatosi al re Ruggieri uno de' suoi soldati, dimandò giustizia contra di Giacinto principe di Bari, perchè gli avesse fatto cavare un occhio. Diede nelle smanie il re, e fatto fare il processo da' giudici di Troia, Trani e Bari, con pretendere rotta la capitolazione, fece impiccare il suddetto Giacinto con dieci suoi consiglieri, e cavar gli occhi a dieci altri, e imprigionare inoltre e spogliare dei loro beni varii prudenti cittadini di Bari: se con giustizia e buona fede, Dio lo sa. Con questi barbarici passi camminava il re Ruggieri, che poscia sul fine di ottobre se n'andò a Salerno, ed ivi stando pubblicò varii confischi e bandi contra di chi avea impugnate l'armi contra di lui. Finalmente nel dì 5 di novembre imbarcatosi in una nave ben corredata, passò a Palermo. Fece gran guerra in quest'anno re Corrado ad Arrigo estense-guelfo duca di Sassonia e Baviera, in maniera che questo principe [Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 23.], ante potentissimus, et cujus autoritas (ut ipse gloriabatur) a mari usque ad mare, idest a Dania usque in Siciliam extendebatur, in tantam in brevi humilitatem venit, ut paene, omnibus fidelibus et amicis suis in Bajoaria a se deficientibus, clam inde egressus, quatuor tantum comitatus sociis in Saxoniam veniret. Ma in Sassonia, assistito da quei [664] popoli, rendè inutili gli sforzi e disegni di esso re Corrado, siccome ancora quei di Adalberto creato duca di Sassonia. Ma mentre egli con vigore e fortuna attende a difendere e a conservar quegli Stati, e già si dispone a portar la guerra in Baviera per ricuperar quel ducato, eccoti la morte che mette fine alla vita e a tutte le di lui applicazioni terrene. Corse voce di veleno a lui dato. Secondo l'Annalista Sassone [Annalista Saxo, apud Eccardum.], facto colloquio in Quidelingeburch, Heinricus nobilissimus atque probissimus dux Bavariae atque Saxoniae, veneficio ibidem, ut fertur, infectus, XIII kalendas novembris vitam finivit. Il suo corpo trovò riposo e sepoltura nel monistero di Luter in Sassonia alla destra dell'imperador Lottario III suo suocero. Questo principe, eguale un tempo ai re per la sua potenza, che godeva anche in Italia, oltre a tanti altri Stati, la sua porzione nell'eredità del sangue estense, a da cui discende la real casa di Brunswich, vien da' moderni storici contraddistinto dagli altri Arrighi estensi-guelfi col titolo di Superbo, non per altro se non perchè non s'inchinò a pregare i principi dell'imperio affine di conseguir la corona germanica. Per altro le virtù abbondarono in lui, e lasciò dopo di sè una gloriosa memoria, e un solo piccolo figliuolo maschio, nomato Arrigo Leone, che superò anche la gloria del padre; e raccomandato ai Sassoni, fu da essi con somma fedeltà e valore sostenuto contro i tentativi del re e degli altri nemici. Nella Toscana, che era stata ad esso duca Arrigo conceduta in feudo dal suddetto Lottario, da qui innanzi comparisce marchese di quella provincia Udelrico, secondo le memorie accennate dal Fiorentini [Fiorent., Memor. di Matild., lib. 2.]. Ma che in questi tempi la Toscana si trovasse in uno stato infelice, si raccoglie da una lettera da Pietro abbate di Clugnì scritta al re Ruggieri, dove scrive [Petrus Cluniacens., lib. 5, Epist. XXXIV.] che nelle parti miserabilis et infelicis Tusciae nunc res divinae atque [665] humanae nullo servato ordine confunduntur. Urbes, castra, burgi, villae, stratae publicae, et ipsae Deo consecratae ecclesiae homicidis, sacrilegis, raptoribus exponuntur. Peregrini clerici, monachi, abbates, presbyteri, ipsi supremi ordinis sacerdotes, episcopi, archiepiscopi, primates, vel patriarchae in manus talium traduntur, spoliantur, distrahuntur. Et quid dicam? verberantur, occiduntur. Così circa questi tempi quell'abbate. Le guerre fra i Genovesi, Lucchesi e Pisani doveano aver prodotto sì esecrandi disordini. In quest'anno [Caffari, Annal. Genuens. lib. 1.] essi Genovesi ottennero dal re Corrado la facoltà di battere moneta. Però essi dipoi fin quasi ai nostri giorni usarono di mettere il nome di questo re nelle loro monete. Durava tuttavia la rabbia de' Cremonesi contra de' Milanesi a cagion dell'occupazione di Crema. Si venne perciò nell'anno presente ad un fatto d'armi fra loro, che riuscì infelicissimo ai primi. Però scrisse il loro vescovo Sicardo [Sicard., Chron., tom. 7 Rer. Ital.]: Anno Domini 1139 magna pars Cremonensium a Mediolanensibus apud Cremam capta, carceralibus vinculis est mancipata.


   
Anno di Cristo MCXL. Indizione III.
Innocenzo II papa 11.
Corrado III re di Germania e d'Italia 3.

In questi tempi cominciò Arnolfo ossia Arnaldo da Brescia a far gran rumore nella Chiesa di Dio. Costui portatosi in Francia, e messosi sotto la scuola di Pietro Abailardo, seminator di nuove e pericolose dottrine, dopo aver profittato nella malizia, se ne ritornò in Italia, e, presa la veste monastica, si diede in Roma a spacciar le sue false merci [Ligurin., de Gest. Friderici Primi, lib. 3.]. Grande adulator de' laici, e bel parlatore, prese a tutta prima a censurare spietatamente i costumi corrotti allora in buona parte del clero secolare e regolare; e, secondo [666] l'arte degli altri eresiarchi, passò oltre a condannar generalmente le soverchie ricchezze de' monaci e degli altri ecclesiastici, e massimamente i loro dominii temporali, sostenendo che ciò non si poteva accordar col Vangelo, e che i loro beni erano del principe, e doveano tornare ai laici. Veniva con piacere accolta questa adulatrice e falsa dottrina dalle persone affatto mondane, e prese anche in Roma stessa buone radici. Perciò fu egli scomunicato nell'anno addietro nel concilio lateranense: perlochè, temendo della pelle, si ricoverò circa questi tempi in Francia. Di là cacciato, andò in Germania, spargendo dappertutto il suo veleno. San Bernardo il teneva d'occhio, e scrisse varie lettere per farlo conoscere a chi buonamente gli dava ricetto. Abbiamo da Falcone Beneventano [Falco Beneventanus, in Chron.] che nell'anno presente il re Ruggieri inviò Anfuso principe di Capoa suo figliuolo con possente esercito di cavalli e fanti a conquistare la provincia di Pescara, che abbracciava allora quasi tutto l'Abruzzo ulteriore. Non poca fatica e tempo costò al principe suddetto il ridurre all'ubbidienza sua le castella di quella contrada: laonde ebbe ordine dal padre anche Ruggieri duca di Puglia di portarsi colà con un grosso corpo di fanteria e mille cavalli. Perchè tali conquiste si facevano ai confini degli Stati della Chiesa romana, se ne ingelosì e turbò non poco papa Innocenzo II, il quale perciò spedì due cardinali ai principi fratelli, facendo lor sapere di non toccare i confini romani. Risposero essi che il loro disegno era, non già d'occupare l'altrui, ma di ricuperare le terre spettanti ai lor principati. Informato di ciò il re Ruggieri, che non volea liti col romano pontefice, verso la metà di luglio sbarcò a Salerno, venne nelle vicinanze di Benevento, e quivi trattò col cardinal Giovanni governatore di quella città, confermando la risoluzione sua di mantenersi fedele al papa. Andò poi a Capoa e a San Germano; e perchè intese che [667] papa Innocenzo era disgustato de' suoi figliuoli, li richiamò da Pescara. Avrebbe egli voluto abboccarsi con esso pontefice, ma questi con varie scuse se ne sottrasse, di modo che Ruggieri, per troncare il corso alle gelosie, licenziò l'esercito. Nulladimeno abbiamo da Giovanni da Ceccano [Johan. de Ceccano, tom. 1, Ital. Sacr.] che i di lui figliuoli nel mese di luglio presero Sora ed altri luoghi fino a Ceperano. Andò Ruggieri a Monte Casino, e levato a que' monaci Monte Corvo, con pretenderlo suo, diede loro in cambio la rocca di Bantra.

Tenne poscia il re un parlamento in Ariano, dove proibì con rigorose pene lo spendere nel regno suo le romesine, cioè, a mio credere, la moneta battuta in Roma; e ne sustituì dell'altra battuta da lui di lega molto inferiore, a cui diede il nome di ducato; e danari di rame, tre de' quali valeano una romesina: il che recò un incredibil danno a tutto il suo dominio, e fece universalmente desiderare la di lui morte. E perciocchè avea comandato anche ai Beneventani di ricever quella moneta, se ne alterò forte il papa, e loro ordinò di non ubbidirlo. Appresso andò il re a Napoli per la prima volta. Fu con immenso onore incontrato da quella nobiltà e popolo fuori di porta Capuana, e alla porta ricevuto dal clero con bella processione. L'addestrarono varii nobili fino alla chiesa maggiore, dove l'aspettava l'arcivescovo Marino. Non mancò di far carezze e regali a quella nobiltà, di visitar tutta la città, e in una notte fece misurare il circuito della medesima, il quale si trovò allora di due mila e trecento settantatrè passi. Nel dì seguente dimandò ai Napoletani, quanto fosse il giro della lor città, e non sapendolo dire alcuno, lo disse egli con ammirazione di tutti. Sul principio poscia di ottobre se ne tornò in Sicilia, lasciando in Puglia il duca Ruggieri, e in Capoa il principe Anfuso. Ci vien meno qui la narrativa di Falcone Beneventano con grave danno della storia di que' paesi. Intenti [668] i Genovesi, al pari d'altre città libere di Italia, ad ingrandire la lor signoria [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1.], nell'anno presente con grande esercito per mare e per terra andarono addosso alla città di Ventimiglia, e costrinsero tanto essa come tutte le castella di quel contado a sottomettersi al loro dominio. Ma non sussiste già ciò che sotto questo anno è scritto negli Annali Pisani [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.], cioè che quel popolo ebbe guerra con Ruggieri re di Sicilia, e tenne in suo potere Napoli per sette anni: favola troppo grossolana. Fu bensì in questi tempi, per attestato del Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], rottura fra il popolo di Fano dall'un canto, e quei di Ravenna, Pesaro e Sinigaglia dall'altro. Non potendo i Fanesi resistere soli a tanti nemici, fecero i loro consoli ricorso ai Veneziani, con promettere fedeltà e censo a Pietro Polano doge, e concedere loro varii privilegii ed esenzioni nella loro città: dal che mossi i Veneziani, con una possente flotta andarono contro ai nemici di quel popolo, e li fecero desistere dalle offese. Intanto non mancava neppure in Germania la guerra. Il duca Guelfo VI, dacchè cessò di vivere Arrigo IV, duca di Baviera e Sassonia suo fratello, mosse le pretensioni sue sopra la Baviera, siccome ducato paterno ed avito, e susseguentemente la guerra a Leopoldo, che n'era stato investito dal re Corrado [Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 25. Abbas Urspergensis, in Chron.]. Mentre questi faceva l'assedio di Falea, eccoti all'improvviso comparire il duca Guelfo colle sue schiere, che gli diede una rotta e l'astrinse alla fuga nel dì 3 d'agosto. Ma avendo voluto lo stesso Guelfo dar battaglia anche al re Corrado, che assediava Winsperg, rimase sbaragliato, e dovette fuggire. Questo ho voluto riferire, perchè si tratta d'un principe della linea germanica de' principi estensi, il quale non lasciò dormire per questo esso re Corrado, con successivamente [669] continuar la guerra contra di lui. Confermò in quest'anno esso re ai Piacentini il privilegio di battere moneta, come costa dal suo diploma riferito da Umberto Locati [Locatus, de Orig. Placent., Chron. Placent., tom. 16 Rerum Italicarum.].


   
Anno di Cristo MCXLI. Indizione IV.
Innocenzo II papa 12.
Corrado III re di Germania e d'Italia 4.

In questi tempi resta quasi affatto al buio la storia d'Italia, per mancanza di scrittori, o, per meglio dire, delle antiche croniche perite. Scrive il cardinal Baronio [Baronius, in Annal. Ecclesiast. ad hunc annum.] che le città d'Italia ostinatamente faceano guerra l'una contro l'altra: Lucenses adversus Pisanos in Tuscia, in Longobardia Patavini adversus Veronenses, Mediolanenses implacabili odio Comenses perdere conabantur. Abbiam veduto già quanti anni prima fosse cessata la guerra fra i Milanesi e Comaschi, col totale abbassamento degli ultimi. La guerra de' Pisani e Lucchesi si ravvivò molto più tardi, siccome vedremo. Crede il cardinale suddetto che a questo anno appartenga quella del popolo romano contra del popolo di Tivoli, narrata da Ottone Frisingense [Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 27.]. Ma, per attestato di Sicardo, succedè essa [Sicard. Cremonens., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.] nell'anno seguente. Non si sa il perchè la città di Tivoli da gran tempo si manteneva disubbidiente e ribelle al pontefice: forse per gare e discordie insorte a cagion de' confini e d'ingiurie e danni fra quel popolo e i Romani. Non potendo Innocenzo II colle buone ridurli alla conoscenza del loro dovere, avea fulminato molto prima d'ora la scomunica contra d'essi. Jam per multum temporis Tyburtinos excommunicaverat, ac aliis modis presserat; sono [670] parole del suddetto Frisingense. Però non aspettò il papa a quest'anno a scomunicarli, come pretese il Sigonio. Ora i Romani indussero il buon Innocenzo a mettere l'assedio a Tivoli, e v'andarono con grande sforzo, già persuasi di divorar quel popolo. Ma i Romani d'allora erano ben diversi da quelli del tempo antico. Poco dianzi voleano muover guerra di nuovo al re Ruggieri, se il papa più saggio di loro avesse acconsentito. Neppur tennero saldo contra il solo popolo di Tivoli. Uscito questo animosamente della città, ed attaccata la mischia cogli assedianti, li caricò sì forte, che gli astrinse a voltar vergognosamente le spalle, e a lasciare indietro un ricco bottino. Per questo accidente sinistro implacabili divennero i Romani contra di quel popolo. Da gran tempo ancora bolliva discordia fra i Veronesi e Padovani [Otto Frisingensis, in Chron.]; e perciocchè i primi aveano divertito dal suo alveo il fiume Adige con pregiudizio degli altri, si venne circa questi medesimi tempi ad una sanguinosa battaglia fra loro. Si dichiarò la fortuna in favore de' Veronesi. Sul campo restò gran copia di Padovani, moltissimi furono i prigioni, ma costò questa vittoria assai caro agli stessi vincitori. Abbiamo dall'Anonimo Casinense [Anonymus Casinensis, tom. 5 Rer. Ital.], che in quest'anno ancora il re Ruggieri venne in Puglia, e si portò al monistero di Monte Casino; e giacchè Dio avea restituita la pace in tutti i suoi dominii, attese a farvi esercitar la giustizia, e a levarne le prepotenze e gli abusi. Vien ciò asserito da Romoaldo Salernitano colle seguenti parole [Romualdus Salernitan., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.]: Rex autem Rogerius in regno suo perfectae pacis tranquillitate potitus, pro conservanda pace camerarios et justiciarios per totam terram instituit; malas consuetudines de medio abstulit.

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Anno di Cristo MCXLII. Indizione V.
Innocenzo II papa 13.
Corrado III re di Germania e d'Italia 5.

Continuando nella lor contumacia i cittadini di Tivoli, per testimonianza di Sicardo [Sicardus Cremonens., in Chron.], assediò il pontefice in quest'anno coi Romani la loro città. Nulla dice dell'esito di quell'impresa lo storico suddetto, lasciando in dubbio se questo sia l'assedio infelice di cui si è parlato nell'anno precedente, oppure un altro. Abbiamo di certo da Ottone Frisingense che furono forzati a capitolare e sottomettersi, ma non so se nel presente oppure nel susseguente anno. Ho io prodotto il giuramento prestato ad esso pontefice da quel popolo, in cui si legge [Antiquit. Italic., Dissert. LXXII.]: Civitatem tiburtinam, donnicaturas, et regalia, quae romani pontifices ibidem habuerunt, et munitionem Pontis Lucani, Vicovarum, sanctum Polum, castellum Boverani, Cantalupum, Burdellum, Cicilianum, et alia regalia beati Petri, quae habet, adjutor erit ad retinendum, ec. Comitatum quoque et rectoriam ejusdem civitatis tiburtinae in potestatem domni papae Innocentii, et successorum ejus, libere dimittam, ec. Di gravi disordini produsse un tale aggiustamento, siccome vedremo all'anno seguente. Non poteano digerire i Modenesi che la terra e badia di Nonantola, posta nel loro contado, si fosse data ai Bolognesi. Però nel presente andarono a campo sotto quella terra [Cron. di Bologna, tom. 18 Rer. Ital. Annal. veter. Mutinens., tom. 9 Rer Italic.], malmettendo tutti i suoi contorni. A tale avviso, uscì in campagna l'esercito de' Bolognesi; il che fu cagione che i Modenesi, lasciato l'assedio, marciarono contra di essi. In Valle di Reno, oppure in Valle di Lavino s'affrontarono le due armate, e [672] sconfitta rimase la modenese. Gran quantità di prigioni fu condotta a Bologna. Dopo la Pasqua dell'anno presente il re Corrado tenne una gran dieta in Francoforte [Dodech., Append. ad Marian. Scot.], dove si trovarono quasi tutti i principi della Germania, e vennero anche i Sassoni ad umiliarsi a lei, che li ricevette in sua grazia. Allora fu ch'egli confermò il ducato della Sassonia al giovinetto duca Arrigo soprannominato Leone estense-guelfo, e indusse la di lui madre Geltruda, figliuola del fu imperador Lottario, a passare alle seconde nozze con Arrigo, fratello del duca Leopoldo; e a questo Arrigo concedè il ducato della Baviera [Abbas Urspergens., in Chron.]: il che fu un seminario di discordie. Imperocchè Guelfo VI, duca, zio paterno del suddetto Arrigo Leone, pretendendo indebitamente tolta la Baviera alla sua casa, continuò la guerra contra di questo novello duca, e sugli occhi suoi entrato in quella provincia, le diede un gran guasto. Arrigo il bavaro anche egli per vendicarsi passò a distruggere le ville e fortezze degli aderenti al duca Guelfo; e così andò seguitando per qualche anno la guerra con varie vicende. Stava da lungi osservando questo fuoco il re Ruggieri [Godefridus Viterbiensis, in Pantheo.], e temendo che, cessata tal guerra, il re Corrado potesse calare in Italia armato a' suoi danni, seppe animare il duca Guelfo a continuar la gara, singulisque annis mille marcas se ob hoc daturum juramento confirmavit. Anche il re d'Ungheria, per paura di Corrado, invitò alla sua corte esso duca Guelfo VI, dataque pecunia non modica, ac deinceps omni anno dandam pollicens, ad rebellandum nihilominus instigat. Con tal vigore, senza mai stancarsi, proseguì di poi esso duca Guelfo ad infestare tanto il re, quanto il duca di Baviera, che Corrado non potè mai trovar tempo ed agio per passare in Italia a prendere la corona.

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Anno di Cristo MCXLIII. Indizione VI.
Celestino II papa 1.
Corrado III re di Germania e d'Italia 6.

Ossia che nell'anno precedente, oppure nel presente, il popolo di Tivoli tornasse all'ubbidienza di papa Innocenzo II, certo è che per l'indulgenza usata da lui con essi, il popolo romano diede principio a molte scandalose novità in pregiudizio dell'antichissima signoria ed autorità temporale de' papi. Erano sì fieramente inviperiti i Romani contra dei Tivolesi [Otto Frisingens., in Chron., lib. 7, cap. 27.], che quando si trattò di capitolar con essi, pretesero che il papa non li ricevesse in grazia se non col patto di smantellar le mura della lor città, e di mandare dispersi fuori di essa gli abitanti. A questa irragionevole ed inumana pretensione non potè acconsentire il benignissimo pontefice; perciò i Romani gonfii di superbia rivolsero anche contra del buon pontefice lo sdegno ed odio loro. Fatta dunque una sedizione, e corsi a folla in Campidoglio col pretesto di rinnovar l'antica gloria della città, ristabilirono il senato, che da gran tempo era scaduto, e senza rispetto alcuno al papa loro signore, intimarono di nuovo la guerra a Tivoli. Abbiam più volte veduta menzione del senato romano anche a' tempi di Carlo Magno, e ne' susseguenti secoli; ma senza sapere qual fosse la di lui autorità in quei tempi, nè quando esso fosse dipoi abbattuto dai papi. Non volevano i Romani di questi tempi esser da meno de' lor predecessori. Il male fu, che non guardarono misure, ed assunsero una specie di sovranità. Nulla tralasciò il pontefice di esortazioni e minaccie per fermare i passi a questa specie di ribellione; adoperò anche i regali; ma indarno tutto: sì grande era la foga del popolo, massimamente della nobiltà. Ed ecco germogliar le sementi delle perverse dottrine, lasciate in quella città da [674] Arnaldo da Brescia. È da credere che siffatti sconcerti servissero a conturbare non men l'animo che la sanità di papa Innocenzo II. Infatti, caduto egli infermo, passò nel dì 24 di settembre dell'anno presente a miglior vita, lasciando sulla terra un'immortal memoria delle sue rare doti, e massimamente della sua incomparabile prudenza e benignità, e dell'aver anche procurata la riforma del clero, con sustituire dovunque potè ai canonici secolari i regolari. Furono ancora varie chiese da lui fabbricate o risarcite. Rimise, fra le altre cose, il tetto della basilica lateranense, che era caduto, con avergli il re Ruggieri somministrate le grandiose occorrenti travi. Ebbe sepoltura in essa chiesa in un avello di porfido. In luogo suo da lì a tre giorni fu eletto papa Guido cardinale di san Marco, di nazione Toscano, del castello di Felicità (forse città di Castello), che assunse il nome di Celestino II, secondo il costume di questi tempi, nei quali si richiedeva il nome de' celebri pontefici che fiorirono ne' primi secoli della Chiesa. Questo pontefice, secondo l'attestato di Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernit., in Chronic., tom. 7 Rer. Ital.], ricusò di confermare la concordia stabilita fra il suo predecessore e il re Ruggieri, e perciò fra loro insorse mala intelligenza. Circa questi tempi, per testimonianza del Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], nacque lite fra i Veneziani e Padovani a cagione di un taglio nel fiume Brenta, fatto non lungi da Sant'Ilario dai secondi con danno dei primi. Spedì Pietro Polano ambasciatori a Padova per chiederne conto. Fu loro data una risposta assai arrogante. Il perchè i Veneziani colle lor forze uscirono a farsi giustizia, ed azzuffatisi coi Padovani alla Tomba, diedero loro una rotta, e condussero circa trecento di que' nobili presi nella battaglia a Venezia. Poscia iti gli ambasciatori de' Padovani, dopo aver protestato che non per far dispiacere o [675] danno al popolo veneziano era seguito quel taglio, si rimise fra loro l'amicizia e concordia primiera. Abbiamo parimente dall'Anonimo Casinense [Anonymus Casin., tom. 5 Rer. Ital.] che il re Ruggieri portatosi in quest'anno al monistero di Monte Casino, la fece alla turchesca, con levare da quel sacro luogo tutto il tesoro, lasciandovi solamente la croce dell'altar maggiore col ciborio, che doveva essere d'argento, e tre tavole da altare. Restano ignoti i pretesti di questa scelleraggine; se non che anticamente erano troppo suggette all'ingordigia e avarizia de' principi le ricchezze delle chiese. S'impadronirono parimente i figliuoli d'esso re della provincia di Marsi, e, per attestato di Giovanni da Ceccano [Johann. de Ceccano, tom. 1 Ital. Sacr.], anche della terra d'Arce: il che probabilmente fu origine de' dissapori insorti fra lui e papa Celestino.


   
Anno di Cristo MCXLIV. Indizione VII.
Lucio II papa 1.
Corrado III re di Germania e d'Italia 7.

Terminò in quest'anno il suo breve pontificato papa Celestino II, non essendo egli giunto a governar la Chiesa di Dio a cinque mesi e mezzo. Nel dì 9 di marzo diede egli fine a' suoi giorni. Venne poscia eletto pontefice nel dì 12 dello stesso mese Gherardo de' Caccianemici, Bolognese di patria, già canonico regolare, e poi cardinale di santa Croce [Cardin. de Aragon., in Vit. Lucii II.]. Da papa Innocenzo II per la sua abilità era stato costituito cancelliere della santa romana Chiesa. Prese il nome di Lucio II. Scrive Romoaldo Salernitano [Romuald. Salern., in Chron.] che il re Ruggieri fece gran festa per l'esaltazione di questo papa, per esser egli suo compadre e molto amico, sperando perciò di averlo in tutto favorevole. Nè tardò egli a spedire i suoi ambasciatori a prestargli ubbidienza, e a pregarlo di voler venire fino [676] ai confini, cioè a Ceperano, per un comune abboccamento. Andò il papa, e il re venuto per mare a Gaeta, si portò poscia ad incontrarlo a Ceperano. Gran dibattimento seguì fra loro intorno la pace, ed inclinava il papa alla concordia; ma ripugnando i cardinali, si sciolse il congresso senza conclusione alcuna. Ruggieri, bollendo per la collera, se ne tornò in Sicilia; ma pria di muoversi, ordinò a Ruggieri duca di Puglia suo figliuolo di farne risentimento. Fu ubbidito. Entrò questi con un copioso esercito nella Campania romana, ossia in Terra di Lavoro, e diede il sacco a tutte quelle contrade sino a Ferento (ma forse sarà ivi scritto Ferentino); dopo di che se ne tornò in Puglia. Così toccò, come d'ordinario succede, agli infelici popoli il far penitenza de' falli altrui. Abbiamo dall'Anonimo Casinense che il re Ruggieri venne a Monte Casino, e quivi si abboccò col papa, e che se ne partì in discordia, con poscia prendere parte della Campania con Terracina. Assediò anche Veroli. Deinde quodam pacto facto, quod ceperat, reddidit. Sembra dunque che seguisse dipoi fra loro qualche aggiustamento. Morì in quest'anno Anfuso ossia Alfonso principe di Capoa e Napoli, figliuolo secondogenito di Ruggieri re di Sicilia. A lui fu sustituito in que' principati Guglielmo, terzogenito del re medesimo. In questi giorni avanzandosi l'ardire de' Romani, oltre all'erezion del senato, fu anche eletto capo d'esso senato, ossia patrizio, Giordano figliuolo di Pier Leone, fratello, a mio credere, del defunto antipapa Anacleto: il che ci fa intendere, essere senza fondamento ciò che alcuni hanno scritto, che la famiglia di Pier Leone fu sterminata in Roma. Una parte del popolo minore teneva coi senatori, e poco mancava ad una patente ribellione. Abbiamo da Otton Frisingense [Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 29.] (giacchè convien mendicare dagli scrittori stranieri le cose nostre) che in questi tempi la pazza discordia sguazzava per le città d'Italia. Aspirava cadauna di [677] esse alla superiorità, e pareva a ciascuna troppo ristretto il suo dominio, nè restava maniera d'allargarlo, se non con pelare o soggiogare i vicini. Durava tuttavia la gara fra i Veneziani e Ravennati, che vicendevolmente si danneggiavano per terra e per mare. I Veronesi uniti coi Vicentini facevano guerra ai Padovani collegati coi Trivisani; e probabilmente quest'anno fu quello in cui misero a ferro e fuoco le castella e le campagne di Trivigi. Maggiore era l'incendio in Toscana per la guerra che da gran tempo andava ripullulando fra i Pisani e Lucchesi, la quale involse in quell'incendio anche le città circonvicine. Non v'era città libera che in sì fatte turbolenze non facesse delle leghe con altre città, per ottenerne aiuto. E queste facilmente v'entravano, por non veder crescere di troppo una città confinante colla depressione dell'altre.

Erano in lega i Lucchesi coi Sanesi, i Fiorentini coi Pisani. L'oste de' Fiorentini, insieme con Ulrico ossia Ulderico marchese di Toscana, corse fino alle porte di Siena, e ne bruciò i borghi. Trovandosi in tali strettezze i Sanesi, ricorsero per aiuto ai Lucchesi, i quali sì per sovvenire a quella città collegata, come ancora per sostenere il conte Guido Guerra, che era malmenato dagli stessi Fiorentini, si dichiararono contro a Firenze. All'incontro i Pisani, a richiesta de' Fiorentini, uscirono in campagna. Un fiero guasto fu dato da essi e da' Fiorentini alle castella e ville del suddetto conte Guido. I Sanesi, che erano venuti per saccheggiare il contado di Firenze, colti in un'imboscata, quasi tutti vi rimasero prigioni. Più rabbiosa riuscì la guerra fra i Pisani e Lucchesi. Moltissimi dall'una e dall'altra parte vi lasciarono la vita; ma innumerabili furono riserbati alle miserie di una lunghissima prigionia. Lo storico suddetto, cioè Ottone vescovo di Frisinga, attesta di averli veduti da lì a qualche anno così squallidi e macilenti nelle pubbliche carceri, che cavavano le lagrime da [678] chiunque passava per di là: segno che non vi doveva essere cartello di cambio fra loro, o che ebbero la peggio i Lucchesi, nè restò ad essi maniera di redimere i suoi. Dagli Annali pisani [Annal. Pisani, tom. 5 Rer. Ital.] abbiamo che la guerra fra questi due popoli fu per cagione delle due castella di Aginolfo e di Vurno, e d'altre terre che l'una città all'altra avea occupato. Misero i Pisani a fuoco quasi tutto il territorio di Lucca, presero il castello dell'isola di Palude con trecento cittadini lucchesi, e seguitò poi la guerra anche degli anni parecchi. Per testimonianza ancora del Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], crebbe in questi tempi la nemicizia fra i Veneziani e Pisani, e dovunque s'incontrarono per mare, l'una nazione all'altra fece quanti danni ed oltraggi potè. Ma si interpose papa Lucio, e pare che li pacificasse insieme. Erano anche in rotta i Modenesi co' Bolognesi [Annales veteres Mutinens., tom. 9 Rer. Ital.], perchè nell'anno addietro il castello di Savignano per tradimento s'era dato agli ultimi. Se noi avessimo le storie di molte altre città d'Italia, forse ne troveremmo la maggior parte involte in altre guerre per questi tempi. Il re Corrado per conto dell'Italia era come non vi fosse; e però senza verun freno ogni città possente insolentiva contra dell'altre. Ricavasi ancora da una lettera di Pietro abbate di Clugnì [Petrus Cluniacens., lib. 6, Epist. 45.], che venendo egli nell'anno seguente (per la via probabilmente di Pontremoli) a Roma per visitar papa Eugenio III, fu nel viaggio svaligiato da un marchese Obizzo (forse Malaspina); ma ricorso egli ai Piacentini, questi colla forza obbligarono quel marchese e tutti i suoi sgherri a dargli soddisfazione, con restituirgli tutto fino a un soldo. E così van le cose del mondo. Pareva un gran dono la libertà ricuperata dai popoli italiani, e pur questa servì a renderli più infelici. Per attestato del Malvezzi [Malveccius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.], la città di Brescia [679] in questi medesimi tempi patì un furiosissimo incendio, per cui fu fatto un verso:

Plangitur immodicis succensa Brixia flammis.


   
Anno di Cristo MCXLV. Indizione VIII.
Eugenio III papa 1.
Corrado III re di Germania e d'Italia 8.

Ebbe fine in quest'anno la vita e il breve pontificato di Lucio II. Se vogliamo prestar fede all'autore conservato a noi dal cardinale d'Aragona [Cardin. de Aragon., in Vit. Lucii II, P. I, tom. 3 Rer. Italic.], egli come uomo prudente e coraggioso, dopo aver ben prese le sue misure coi fautori della maestà pontificia, messa insieme una mano d'armati, forzò i nobili romani, che contra il divieto del suo predecessore Innocenzo II aveano istituito il senato, ad uscire del Campidoglio, e ad abiurare la novità da loro fatta. Non la racconta così questa faccenda Gotifredo da Viterbo [Godefr. Viterbiensis, in Pantheo.], storico del presente secolo. Secondo lui, questo papa ascese bensì accompagnato da alquante soldatesche nel Campidoglio, risoluto di cacciar di là vituperosamente i senatori; ma il senato e popolo romano avendo dato all'armi, ripulsarono in un momento il papa con tutti i suoi aderenti. Anzi fu sì esorbitante il tumulto loro, che esso pontefice percosso da più sassate, finchè sopravvisse (il che fu poco), non potè più sedere nella cattedra sua. Ch'egli fosse colpito da un sasso, lo afferma ancora un altro scrittore, accennato dal cardinal Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.]: laonde dopo pochi giorni infermatosi, dovette soccombere all'imperio della morte. Mancò egli di vita nel dì 25 di febbraio, dopo aver quasi rifabbricata di pianta e arricchita di molto la chiesa di santa Croce in Gerusalemme, di cui era stato titolare. Servì la di lui morte a rendere più che mai orgogliosa quella fazione di nobili romani che s'era rivoltata contra dei [680] sommi pontefici, e che stabilì più fortemente l'unione ed autorità del senato romano in Campidoglio. In mezzo a questi tumulti non trovandosi in piena libertà il sacro collegio dei cardinali, si raunò nella chiesa di san Cesario, e quivi di comune consenso elesse papa nel dì 27 febbraio Bernardo Pisano, abbate cisterciense di santo Anastasio, discepolo negli anni addietro di san Bernardo, uomo di molta bontà di vita. Era questi tenuto per uomo piuttosto semplice, ma per ispezial grazia del cielo riuscì dipoi un eloquente e valoroso pontefice. Prese il nome di Eugenio III [Cardin. de Aragon., in Vit. Eugenii III.], e condotto alla basilica lateranense, fu quivi intronizzato. Si disponeva egli a ricevere nella seguente domenica la consecrazione in san Pietro, secondo l'antica consuetudine; ma inteso che i senatori meditavano d'opporsi e d'impugnare la di lui elezione, qualora ricusasse di confermar coll'autorità apostolica la rinnovazione da lor fatta del senato, in tempo di notte, accompagnato da pochi cardinali, segretamente uscì di Roma, e si ritirò alla rocca di Monticelli. Congregati poscia nel dì seguente gli altri cardinali, che per timore dell'infuriato popolo s'erano qua e là dispersi, se ne andò al celebre monisterio di Farfa nella Sabina, e quivi nel dì 4 di marzo, giorno di domenica, fu solennemente consecrato. Andossene dipoi a Viterbo, dove celebrò la santa Pasqua, e fermossi in quella città per otto mesi. Tornò in questo tempo a Roma l'eresiarca Arnaldo da Brescia, e spargendo con piena libertà il veleno della sua dottrina [Otto Frisingensis, de Gestis Friderici, lib. 2, cap. 20. Guntherus, in Ligur., lib. 3.], aggiunse nuovi sproni alla nobiltà romana per privare della loro autorità i sommi pontefici. Andava costui predicando che si dovea rifabbricare il Campidoglio, rimettere in Roma non solo il senato, ma anche l'ordine equestre, come fu al tempo degli antichi Romani; nè dovere il papa impacciarsi nel governo temporale, ma contentarsi dello spirituale. [681] Tal piede presero questi velenosi insegnamenti, figurandosi coloro di voler vedere di nuovo Roma padrona del mondo, che l'inferocito popolo si diede ad atterrare i magnifici palazzi e le torri non solamente di que' nobili che abborrivano questa sacrilega novità, ma anche de' cardinali, alcuni de' quali inoltre riportarono delle ferite dalla matta plebe che non conosce nei suoi trasporti misura. Abolirono inoltre i Romani [Otto Frisingensis, in Chron., lib. 7, cap. 31.] la dignità del prefetto di Roma; obbligarono tutti i nobili cittadini a giurar suggezione al loro patrizio Giordano, figliuolo di Pier Leone, ed incastellarono, cioè ridussero in fortezza la basilica vaticana, con far poscia delle avanie, e dar anche delle ferite ai pellegrini che per divozione colà concorrevano. Il pontefice Eugenio, dopo aver colla pazienza e colle buone tentato invano di frenar la disubbidienza de' Romani, venne alle brusche, con fulminare la scomunica contra di Giordano dichiarato patrizio. Adoperò ancora gli altri rimedii efficaci della forza temporale per metterli in dovere, avendo congiunte le sue armi con quelle del popolo di Tivoli. Non finì dunque l'anno che furono astretti i Romani ad una concordia, per cui si contentò il papa che sussistesse il senato, come era in uso in tanti secoli addietro, ma con obbligare i Romani ad abolire il patrizio, a rimettere la dignità del prefetto di Roma, e a prestare l'ubbidienza dovuta ai pontefici, padroni legittimi di Roma. Ciò fatto, da Viterbo se ne tornò a Roma verso il Natale del Signore con immenso giubilo di quel popolo e clero [Card. de Aragon., in Vit. Eugenii III, P. I, tom. 3 Rer. Italic.], che gli fece un solenne incontro, cantando il Benedictus, qui venit in nomine Domini: il che può farci maraviglia, per quel che s'è prima veduto. Andato egli al palazzo lateranense, celebrò dipoi con magnifica solennità e quiete di tutti la festa del Natale. Applicossi parimente in quest'anno il buon pontefice a [682] rimettere la pace fra i Pisani e i Lucchesi: al qual fine fece venire in Italia Pietro abbate di Clugnì, personaggio di gran credito, siccome costa da una lettera di esso abbate citata all'anno precedente. Ma qual effetto producesse un tal negozio, resta a noi ignoto.


   
Anno di Cristo MCXLVI. Indizione IX.
Eugenio III papa 2.
Corrado III re di Germania e d'Italia 9.

Poca quiete trovò in Roma il pontefice Eugenio. Troppo erano esacerbati gli animi del popolo romano contra quello di Tivoli [Otto Frisingensis, lib. 7.]. Accecati da quest'odio, tuttodì il tormentavano, perchè si smantellasse la nemica città; nè potendo egli reggere a tanta petulanza e fastidio, si ritirò di là dal Tevere, forse in castello Sant'Angelo, che era tenuto dagli altri figliuoli di Pier Leone suoi fedeli. L'Anonimo Casinense [Anonymus Casinens., tom. 5 Rer. Ital.] sotto all'anno 1145, che è, secondo noi, il 1146, non so come, scrive che papa Eugenio pacem cum Romanis reformans, muros tiburtinae civitatis destrui praecepit. A me non si rende credibile questo fatto, perchè se il pontefice fosse giunto ad accordar questa pretensione ai Romani, non avrebbono essi continuata la guerra ai Tiburtini, nè papa Eugenio avrebbe abbandonata Roma, siccome fece nell'anno presente, per sottrarsi all'indiscretezza e alle violenze de' Romani. Infatti egli si partì assai disgustato da Roma. Il troviamo in Sutri nel dì 25 di aprile [Johann, de Ceccano, Chron.]. Per attestato di altri, se ne andò poscia a Viterbo, poscia a Siena, e, secondo le Croniche accennate dal Tronci [Tronci, Memor. Istor. di Pisa.], di là venne alla sua patria Pisa. Dall'Anonimo Casinense sappiamo [Anonymus Casinensis, tom. 5 Rer. Ital.] che egli si portò anche a Lucca, probabilmente per istabilir, se potea, la [683] pace fra quelle due repubbliche. Valicato poi l'Apennino, se è vero ciò che scrive il Sigonio, passò alla città di Brescia, dove diede una bolla X kalendas septembris, in cui scrive al popolo di Bologna di avere intimato ai Reggiani e Parmigiani di non porgere aiuto ai Modenesi contra la badia di Nonantola: e perchè non aveano ubbidito, col consentimento de' cardinali, del patriarca d'Aquileia e di molti vescovi, avea privato le loro città della dignità episcopale. Temo io che questa bolla appartenga agli anni posteriori. Dalle Croniche di Piacenza abbiamo ch'egli fu in quella città, e di là s'inviò alla volta di Francia. Non si può ben accertare se vivente papa Lucio II, oppur sotto il presente papa Eugenio III, i nuovi senatori di Roma scrivessero al re Corrado, appellato re de' Romani, una lettera a noi conservata da Ottone da Frisinga [Otto Frising., de Gestis Friderici, lib. 1, cap. 28.]. Gli significavano di avere ristabilito il senato, come era a' tempi di Costantino e di Giustiniano; di essere a lui fedeli, e di faticare indefessamente coll'unica mira di esaltare la di lui dignità e persona, nulla più desiderando che la venuta di lui a prendere la corona imperiale. L'avvisavano che i Frangipani e i figliuoli di Pier Leone (eccetto che il loro fratello Giordano) e Tolomeo con altri erano dichiarati in favore del papa, e tenevano castello Sant'Angelo per impedire la coronazion d'esso Corrado, ma che essi rifabbricavano e fortificavano Ponte Molle in di lui servigio. Aggiunsero che il papa e il re di Sicilia tenevano ad una, andando d'accordo in non volere Corrado in Italia, e molto meno in Roma; ed è ben probabile che Ruggieri anche da questa parte s'ingegnasse di contrariare alla venuta di Corrado, le cui armi poteano rinnovar la scena disgustosa dell'imperadore Lottario. Scriveano essi Romani, oltre a ciò, essere seguita concordia fra il papa e lo stesso Ruggieri (ciò sembra indicare lo accordo fatto da papa Lucio II nell'anno [684] 1144), per cui il pontefice avea conceduto a Ruggieri virgam et annulum, dalmaticam et mitram atque sandalia, et ne ullum mittat in terram suam legatum, nisi quem Siculus petierit: il che viene interpretato dai Siciliani per un indizio della decantata lor monarchia. Et Siculus dedit ei multam pecuniam pro detrimento vestro, et romani imperii. Ma il re Corrado niun conto fece di tale rappresentanza, assai informato del sistema delle cose e del buon cuore del papa; anzi venuti a lui due legati pontificii, l'uno de' quali era Guido Pisano cardinale e cancelliere della santa romana Chiesa, per la rinnovazion degli antichi privilegii, con tutto onore gli accettò, e concedè quanto chiedevano. Si trova nell'anno 1147 cancelliere d'essa romana Chiesa Guido cardinale; ma non so dire se sia lo stesso. Abbiamo dalla Cronica di Fossa Nuova [Johann. de Ceccano, tom. 1 Ital. Sacr.] sotto questo anno che Romani venerunt super Tiburim, et multos ex eis decollaverunt. Anche i Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1.] fecero pruova del lor valore contro de' Saraceni dominanti in Minorica, e corsari di professione. Armarono ventidue galee, e molte altre navi con assai macchine militari e castelli di legname. Generale di questa flotta fu lo stesso Caffaro, che diede principio agli Annali di Genova. Sbarcati nell'isola Minorica fanti e cavalli, diedero il guasto al paese, fecero molti prigioni, presero la città, e la distrussero, ma dopo averne cavato un ricco bottino. Di là passarono ad Almeria, città marittima della Spagna nel regno di Granata, e postole l'assedio, cominciarono a flagellarla con petriere, gatti, ed altre macchine usate in questi tempi. Veggendosi in mal punto quegl'infedeli, fecero istanza per tregua o pace. Fu per la tregua accordato che pagassero cento tredici mila marabotini, e ne pagarono venticinque mila in quella notte. Stando i Genovesi a vedere e numerare il danaro, ebbe agio il re d'Almeria di salvarsi in due galee col resto della somma accordata. [685] Creò il popolo d'Almeria la seguente mattina un altro re, che ratificò la promessa antecedente; ma perchè non la mantenne nel tempo prescritto, i Genovesi fecero quanto di male poterono al di fuori della città, ed accostandosi il verno, se ne tornarono con trionfo in patria.

Non potea star quieto in questi tempi Ruggieri re di Sicilia, principe agitato dallo spirito de' conquistatori. Giacchè non potea stendersi dalla parte di Roma, per non disgustare il papa; nè verso la marca d'Ancona, per non tirarsi addosso lo sdegno del re Corrado, determinò di portar la guerra addosso ai Mori di Africa. Pertanto con possente flotta sbarcò su quelle coste, assalì la città di Tripoli, nido di corsari; e tuttochè la trovasse forte per sito, per buone mura e torri, pure, dopo aver presa l'isola delle Gerbe, a forza d'armi s'insignorì di quella città, con trucidar quanti v'erano alla difesa, e condurre le lor donne schiave in Sicilia. Il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron. ad hunc annum.] riferisce questo fatto all'anno presente. Secondo Roberto dal Monte [Robert. de Monte, Chron.], ed anche per attestato dell'Anonimo Casinense [Anonymus Casin., tom. 5 Rer. Ital.], tal conquista si dovrebbe attribuire all'anno precedente 1145. Altri poi ne parlano all'anno 1147, come ha Noveiro scrittore arabo, citato da esso Pagi; e questa è forse la più verisimil opinione. Veramente per la cronologia della Sicilia in questi tempi a noi mancano lumi sicuri. Pensa il suddetto Pagi che appartenga all'anno 1148 la guerra del re Ruggieri contra di Manuello imperador de' Greci, e a quell'anno veramente ne parla Roberto dal Monte [Robert. de Monte, Append. ad Sigebert.]. Ma non è sicura la cronologia di quell'autore. Mette egli nello stesso anno 1148 la presa d'Almeria in Ispagna, e le conquiste fatte da esso re Ruggieri nelle coste d'Africa; e pur vedremo che tali avventure son da riferire all'anno seguente [686] 1147. Nè potendosi credere che Ruggieri in uno stesso anno guerreggiasse contro i Greci e contro i Mori d'Africa, m'induco io a credere che in questo anno egli ostilmente entrasse nel dominio greco. Con tale opinione meglio si accorda Ottone Frisingense, che narra dipoi fatti accaduti nell'anno 1147. Una Cronica del monistero della Cava [Chron. Cavense, tom. 7 Rer. Ital.] mette essa guerra contro i Greci sotto lo stesso anno 1147; ma quivi ancora sono scorretti i numeri per colpa de' copisti, e si conosce che l'autore avrà scritto 1146, perchè, dopo aver narrata l'assunzione di papa Eugenio nel 1145, racconta al seguente anno la guerra della Grecia. Il motivo d'essa fu che passava da lungo tempo nemicizia fra gli Augusti greci e il re Ruggieri, pretendendo sempre gl'imperadori d'Oriente che i Normanni indebitamente ritenessero in lor potere la Sicilia, ed ingiustamente avessero tolto all'imperio greco molte città di Puglia e Calabria. Tentò Giovanni Comneno imperadore, padre di Manuello, di far lega contra di Ruggieri col re Corrado, siccome abbiamo da Ottone Frisingense [Otto Frisingens. lib. 1, cap. 23 de Gestis Federici I.]. Pietro Polano doge di Venezia ne era mediatore, e venne anche per questo un'ambasceria de' Greci in Germania. Ruggieri, per quanto scrive Roberto del Monte, mandò anch'egli i suoi ambasciatori a Costantinopoli per ottener la pace; ma questi furono messi in prigione ad onta del diritto delle genti. Da tale affronto irritato forte il re Ruggieri, spedì, a mio credere, nell'anno presente una poderosa flotta nella Dalmazia e nell'Epiro, comandata da valorosi capitani. Sbarcarono essi in Corfù, e con astuzia s'impadronirono di quella città e di tutta l'isola. Lasciato ivi un buon presidio, e continuato il viaggio, saccheggiarono dipoi la Cefalonia, Corinto, Tebe, Atene, Negroponte, ed altri paesi del greco [687] imperio [Dandulus, in Chron., tom. 12 Rer. Ital.]. Non si può dire l'immensità della preda d'oro, d'argento e di vesti preziose che ne asportarono i vincitori Normanni. Alcune migliaia di Greci, nobili e plebei, donne e fanciulli, ed anche Giudei, furono condotti prigioni in Sicilia, e servirono a popolar molti luoghi che scarseggiavano di gente. Soprattutto notabil fu l'accortezza politica del re Ruggieri, il quale fece prendere tutti quanti gli artefici che lavoravano in quelle parti drapperie di seta, e li fece trasportare a Palermo. Prima non si lavoravano se non in Grecia e in Ispagna gli sciamiti e le stoffe di varii colori di seta, con oro ancora tessute. Costavano un occhio a chi degl'Italiani ne voleva. Da lì innanzi fu introdotta in Sicilia questa bell'arte, che poi col tempo si diffuse per altre parti della nostra Europa, e rendè men caro il prezzo di sì fatte tele. Ugone Falcando [Hugo Falcandus, de calamit. Sicul., tom. 7 Rer. Ital.], scrittore di questo secolo, ne fa una vaga descrizione, come di cosa rara, nel principio dell'opera sua. E tale fu il guadagno che riportarono i Greci dalla nemicizia col re Ruggieri. Trovavansi in cattiva positura gli affari di Terra Santa in questi tempi, massimamente dappoichè gli infedeli aveano tolto a' Cristiani la nobil città di Edessa in Soria. Ora per la zelante eloquenza di san Bernardo nell'anno presente Lodovico VII re di Francia e Corrado III re di Germania presero la croce, e si obbligarono di marciare nell'anno seguente con grandi forze, e coll'accompagnamento di copiosa nobilità in Levante, a militare contra de' nemici del nome cristiano.

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Anno di Cristo MCXLVII. Indizione X.
Eugenio III papa 3.
Corrado III re di Germania e d'Italia 10.

In quest'anno, principalmente per promuovere l'affare importante della crociata, passò in Francia il buon papa Eugenio [Anonymus Casin., tom. 5 Rer. Ital.]. Fu ad incontrarlo il re Lodovico VII a Dijon, e insieme poi celebrarono la santa Pasqua in Parigi. Dopo la Pentecoste esso re andò a prendere alla chiesa di san Dionigi, secondo i riti d'allora, il bordone e la scarsella da pellegrino [Sugerius, in Vita Ludovici.], e la bandiera appellata Orofiamma, e si mosse con gran comitiva di prelati e baroni, e col suo esercito andò ad imbarcarsi per passare in Oriente. Fra gli altri seco condusse [Otto Frisingensis, in Chron, lib. 1, cap. 44 de Gestis Frider.] de Italia Amedeum taurinensem fratremque ejus Guilielmum marchionem de Monte Ferrato avunculos suos. Come fossero fratelli questi due principi, quando si sa che la real casa di Savoia era ben diversa da quella de' marchesi di Monferrato, non si comprende. Probabile è ciò che il Guichenone [Guichenon, Histoire de la Maison de Savoye, tom. 1.] immaginò, cioè che fossero fratelli uterini. Sarebbe da desiderare che ci fossero rimaste in maggior copia antiche memorie o notizie di questi tempi, per meglio intendere quali Stati possedessero, e quai personaggi avessero quelle due nobilissime famiglie. E per conto del suddetto Guglielmo marchese di Monferrato, non voglio tacere ch'egli ebbe per moglie una sorella del re Corrado, attestandolo Sicardo vescovo di Cremona [Sicard., Chron., tom. 7 Rer. Ital.], che fiorì sul fine di questo secolo, là dove, parlando del medesimo Corrado, scrive: Cujus soror marchioni Guilielmo de Monte-Ferrato, nomine Julitta, fuit matrimonio copulata, ex qua [689] quinque filios genuit eximiis meritis, hac serie describendos, scilicet Guilielmum, Conradum, Bonifacium, Fredericum, et Raynerium, quorum diversa fuere dona fortunæ. Questa pare la prima volta che i marchesi di Monferrato portarono le loro armi in Oriente per la fede di Gesù Cristo, dove poi si acquistarono tanta gloria e possanza, siccome andremo vedendo. Poco prima il re Corrado s'era messo in arnese per marciare anch'egli in Oriente [Otto Frisingens., lib. 1.]. Tenne una general dieta in Francoforte, dove fece dichiarare re il fanciullo Arrigo suo figliuolo. Colà comparve il giovane Arrigo Leone guelfo-estense, duca di Sassonia, con fare istanza d'essere reintegrato nel ducato della Baviera, tolto a suo padre e dato ad Arrigo figliuolo di Leopoldo, con pretenderlo a sè dovuto per diritto di eredità. Con sì buone parole trattò di questo affare il re, che indusse il giovanetto principe a sospendere questo interesse sino al suo ritorno da Terra Santa. Adunque dopo l'Ascensione il re Corrado imprese il viaggio d'Oriente con un immenso esercito. Andarono specialmente in compagnia di lui il suddetto Arrigo duca di Baviera, Ottone vescovo di Frisinga, fratello uterino del medesimo re Corrado, e storico nobilissimo di questi tempi, e Federigo iuniore suo nipote, che fu poi imperadore. Suo padre Federigo duca di Suevia, non avendo che questo figliuolo, per troppo affanno di vederlo condotto via, da lì a non molto diede fine a' suoi giorni. Pacificatosi ancora il duca Guelfo, zio paterno del duca di Sassonia, col re Corrado, e presa la croce, andò anch'egli in questa sacra spedizione. Arrivò il re Corrado col suo innumerabil esercito a Costantinopoli, dove Manuello Comneno, che aveva per moglie una sorella della regina Geltruda, e però suo cognato, gli usò di molte finezze e fece dei gran regali. Ma a chi non è nota la fede de' Greci? Promise assaissimo quell'imperadore, e massimamente dei viveri, ma nulla [690] attenne [Romualdus Salernit., in Chron., lib. 1.]. Anzi, dacchè quel terribil nuvolo di crociati fu passato oltre allo Stretto, niuna furberia lasciò intentata per farli perire, mantenendo anche intelligenza coi Turchi. Io non mi fermerò punto nel racconto di queste infelici avventure, perchè nulla spettanti alla storia d'Italia, e lascerò che i lettori consultino sopra ciò gli scrittori della guerra santa. Felice all'incontro fu un'altra crociata di Franzesi e Spagnuoli contra de' Saraceni di Spagna, fatta in quest'anno. Vi accorsero dall'Italia i Pisani, ma principalmente i Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1.] con una poderosissima flotta. Capitatane in quelle parti anche un'altra che andava in Terra Santa, diede mano a far quelle conquiste. Presero Lisbona, Baeza ed altre città. La mira di quella sacra lega soprattutto era la città di Almeria, perchè infame ricettacolo di corsari. Se crediamo agli Annali di Genova, è dovuta al popolo genovese la gloria dell'espugnazione di quella città, nel cui castello rifugiatisi venti mila Saraceni, si riscattarono a forza d'oro. Ma gli storici spagnuoli [Sandoval., in Vita Alphonsi VII.] ci assicurano che a quell'impresa intervennero anche Alfonso re di Spagna, il re di Navarra, ed altri popoli di quelle contrade e di Francia. Ottone Frisingense scrive che Almeria e Lisbona erano città in sericorum pannorum opificio praenobilissimæ. In quest'anno ancora il re di Sicilia Ruggieri portò di nuovo la guerra in Africa contra de' Mori. Abbiamo detto che nell'anno precedente egli conquistò Tripoli. Forse in quest'anno ciò avvenne. Nel quale certamente pare ch'egli, continuando le conquiste, come scrive Noveiro storico arabo citato dal padre Pagi [Pagius, ad Annal. Baronii.], si impadronì di Mahadia, chiamata Africa dall'Anonimo Casinense [Anonymus Casinensis, in Chron. Hugo Falcandus, Hist.], di Safaco, di Capsia e d'altre terre in quella costa di Barberia, con renderle tributarie alla sua [691] corona. Secondo le croniche di Bologna, in quest'anno [Matth. de Griffonibus, tom. 18 Rer. Ital.] quella città patì un fierissimo incendio nella settimana santa. Sì nel secolo precedente che nel presente s'ode la medesima disavventura di altre città, specialmente nella Lombardia; segno che molte doveano essere le case con tetto coperto di scindule, cioè di assicelle di legno, usate molto una volta, e facili a comunicar l'una all'altra il fuoco, oltre ad altre case coperte di paglia, siccome ho dimostrato nelle Antichità italiane.


   
Anno di Cristo MCXLVIII. Indiz. XI.
Innocenzo III papa 4.
Corrado III re di Germania e d'Italia 11.

Nella quaresima di quest'anno tenne papa Eugenio un gran concilio nella città di Rems [Robert. de Monte. Otto Frisingens et alii.], dove furono pubblicati molti canoni spettanti alla disciplina ecclesiastica, e fu chiamata all'esame la dottrina di Guiberto vescovo di Poitiers. Dopo il concilio andò il pontefice a visitar le insigni badie di Cisterzio e di Chiaravalle, e poscia s'inviò di ritorno in Italia. Si truova egli nel dì 7 di luglio in Cremona, dove confermò i privilegii della badia di Tolla, e nel dì 15 di luglio in Brescia, secondochè si ricava da altra sua bolla [Campi, Istoria di Piacenza, tom. 1.] e da una sua lettera scritta al clero romano [Baron., Annal. ad hunc annum.]. Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 5.] rapporta un suo breve, dato in Pisa nel dì 10 di novembre Indictione XII, Incarnationis dominicæ MCXLIX, pontificatus domini Eugenii papæ III, anno quarto. Qui è l'anno pisano e la nuova Indizione cominciata nel settembre. Però appartenendo quel documento all'anno presente, in cui correva l'anno quarto del suo pontificato, vegniamo in cognizione che esso papa visitò nel viaggio la sua patria Pisa. Un'altra simile bolla da lui data nella [692] stessa città di Pisa XIIII kalendas decembris, Indictione XII, Incarnationis dominicae anno MCXLVIII, ho io pubblicato [Antiquit. Italic., Dissert. LXX.]. Ma dovrebbe essere lo stesso anno in tutte e due. Nella di lui vita [Cardin. de Aragon., in Vita Eugenii III.] altro non si legge se non che, terminato il concilio, ad urbem suam, et commissum sibi populum, ductore Domino, incolumis remeavit. Ma o non entrò, oppure non si fermò in Roma. L'Anonimo Casinense [Anonymus Cassinens., tom. 5 Rer. Ital.] scrive ch'egli venne a Viterbo. E da Romoaldo Salernitano abbiamo che il suo soggiorno fu in Tuscolo ossia Tusculano. Erano tuttavia sconcertati gli affari fra lui e il popolo romano. Intanto dopo la perdita d'innumerabil gente il re Corrado imbarcatosi arrivò nella settimana di Pasqua a Tolemaide, appellata allora Acon. Altri de' suoi pervennero a Tiro e Sidone [Otto Frisingensis, de Gest. Friderici I, lib. 7, cap. 58.]. E Lodovico re di Francia anch'egli, dopo avere perduta buona parte de' suoi, verso la metà di quaresima giunse ad Antiochia. Unitisi questi due principi fra le città di Tiro e di Tolemaide, per tre dì assediarono Damasco, ed aveano presa la prima cinta delle mura; ma per frode de' principi cristiani d'Oriente, ossia de' Templari ed Ospitalieri, convenne ritirarsene [Bernard. Thesaur., Chron. cap. 26, tom. 7 Rer. Ital.]. Fu anche risoluto l'assedio di Ascalona, e vi stettero sotto parecchi giorni: senza frutto nondimeno, perchè la città era fortissima, ed entro stava il miglior nerbo de' Saraceni, nè mai vennero le milizie promesse da Gerusalemme. Però, dopo avere i due monarchi infelicemente gittato tempo, danaro e gente, senza alcun profitto della cristianità d'Oriente, troppo discorde, troppo data all'interesse e ai piaceri, ad altro non più pensarono che a ritornarsene alle loro contrade. In questa spedizione caduto infermo Amedeo conte di Morienna, terzo di questo nome presso gli storici della real casa di Savoia, [693] finì di vivere nell'isola di Cipro. Il Guichenon [Guichenon, Histoire de la Maison de Savoye, tom. 1.] colla sua solita franchezza rapporta la di lui morte all'anno seguente; ma che questa avvenisse piuttosto nel presente, si raccoglie da Bernardo di Guidone, là dove scrive [Bernard. Guidonis, P. I, tom. 3 Rer. Ital., in Vita Eugenii III.]: Amedeus comes Marianensis (cioè Maurianensis) in Cypro insula obiit, con raccontare dipoi gli assedii di Damasco e d'Ascalona, certamente succeduti in quest'anno. Ad Amedeo succedette nel dominio Umberto III di lui figliuolo. In quest'anno da Raimondo conte di Barcellona tolta fu ai Mori di Spagna l'importante città di Tortosa; e quantunque sia qui mancante la storia di Caffaro genovese, pure altronde si sa che i Genovesi ebbero mano in quella conquista, e ne riportarono per ricompensa il dominio della terza parte di quella città, oppure il terzo della preda. Per quanto s'ha dagli antichi Annali di Modena [Annales Veteres Mutin., tom. 9 Rer. Ital.], nel primo giorno di luglio tota civitas Mutinae casu combusta fuit.


   
Anno di Cristo MCXLIX. Indizione XII.
Eugenio III papa 5.
Corrado III re di Germania e d'Italia 12.

Durando tuttavia le controversie dei Romani con papa Eugenio, questi colla forza cercò di metterli in dovere. Roberto del Monte scrive sotto il presente anno, che [Robertus de Monte, Append. ad Sigebert.] papa Eugenius in Italiam regressus, cum Romanis vario eventu confligit. Per attestato di Romoaldo Salernitano [Rumualdus Salernit., Chron. tom. 7 Rer. Ital.], non mancò il re Ruggieri, dacchè ebbe inteso l'arrivo d'esso papa nelle vicinanze di Roma, di spedirgli i suoi ambasciatori per attestargli il suo ossequio ed offerirgli aiuto. Aveva già questo pontefice fatta buona massa di combattenti, e guerreggiava contro [694] i disubbidienti romani. Accettò volentieri il pontefice l'esibizione del re, che non tardò ad inviargli un corpo di soldatesche. Ciò che seguisse in tal guerra le storie che abbiamo nol dicono; se non che l'Anonimo Casinense scrive [Anonym. Casinens., tom. 5 Rer. Ital.], che Eugenius papa Tusculanum ingressus, fultus auxilio Rogerii regis, Romanos sibi rebelles expugnat. Intanto i due re Corrado e Lodovico si misero in viaggio per tornare dalla Terra Santa alle lor case, portando con esso loro nulla di gloria e molto di rammarico. Fu anche un gran dire fra i popoli cristiani dell'infelicità di questa spedizione, perchè tanta gente s'era mossa di Francia, Germania, Inghilterra, e altri paesi, che pareano bastanti a subissar tutti gli infedeli di Oriente. Specialmente addosso a san Bernardo si scatenarono le lingue maldicenti del popolo, quasichè egli avesse temerariamente mandate al macello tante migliaia di persone, e si fosse ingannato nelle sue predizioni, con aver promesso vittorie, che poi si convertirono in soli pianti. Non potè contenersi il santo abbate dal fare una savia apologia del suo operato, e la fece ancora per lui Ottone vescovo di Frisinga. Imbarcatosi il re Corrado, arrivò ne' confini dell'Acaia, e della Tessaglia, dove si trovava l'imperador Manuello suo cognato, che cortesemente l'accolse [Otto Frisingens., lib. 1, cap. 59. de Gestis Friderici I.]. I patimenti in addietro fatti, e l'affanno ch'egli seco portava, il fecero cadere gravemente infermo, e gli convenne per forza prendere ivi riposo per qualche tempo. Spedì intanto innanzi Federigo iuniore, nipote suo, acciocchè vegliasse alla quiete dell'imperio, giacchè abbiamo dall'Urspergense, che il duca Guelfo per la Calabria e Puglia ritornato in Germania [Abbas Urspergens., in Chronico.], stette poco a ricominciar la guerra contro la Baviera. Nel suo passaggio per la Sicilia aveva egli ricevuto, non solo grandi finezze dal re Ruggieri, [695] ma anche delle grosse somme d'oro, acciocchè mantenendo il fuoco della guerra in Germania, non restasse tempo nè voglia al re Corrado di venire in Italia, siccome egli infatti meditava e dovea anche averne concertata l'esecuzione coll'imperador de' Greci. Venne poscia Corrado, ristabilito che fu in salute, per l'Adriatico a Pola e ad Aquileia, e di là passò in Germania.

Il motivo appunto per cui si trovava in Acaia l'augusto Comneno, era per vendicarsi del re Ruggieri che gli avea occupata l'isola di Corfù, e dato il sacco a tante altre città e luoghi del suo dominio. Aveva egli, per testimonianza di Niceta Coniate [Niceta Chonial., Hist. lib. 7.], fatto venir dall'Asia e da altri luoghi quante legioni aveva, ordinate nuove leve di soldati, allestite le vecchie navi, e fabbricatone gran numero di nuove, dimanierachè compose una formidabil armata di circa mille legni, con isperanza, non solo di far vendetta, ma di riacquistar anche la Sicilia, Calabria e Puglia. Chiamò inoltre i Veneziani in aiuto suo, con accordar loro una bolla d'oro e privilegii maggiori che quei del tempo addietro [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.]. Era allora doge di Venezia Pietro Polano, e questi in persona con quanto sforzo potè di gente e di navi andò a congiungersi colla flotta imperiale. Passò dunque con sì potente apparato di guerra lo stesso Manuello Comneno augusto in persona all'isola di Corfù, e vigorosamente intraprese l'assedio di quella città, dove si trovava un gagliardo presidio del re Ruggieri, a cui non mancava coraggio e voglia di difendersi. Accadde che in questi tempi Lodovico re di Francia sciolse le vele da Terra Santa per ritornarsene al suo regno. Erano indrizzate le prore verso la Sicilia, ma portò la disgrazia, che abbattutosi in parte della flotta greca, la quale andava scorrendo quei mari, fu fatto prigione. Parve questa ai condottieri d'essa flotta una bella preda da ricavarne una grossa ranzone, e [696] già erano in viaggio per condurre e presentare l'infelice re al loro imperadore. Aveva il re Ruggieri messo in mare sessanta galee ben armate, con ordine di scorrere contra de' suoi nemici. Ne era ammiraglio Giorgio, appellato da altri Gregorio, il quale non ardì di andare a cimentarsi colla troppo superiore armata de' Greci, assediante Corfù, ma veleggiò alla volta di Costantinopoli, dove attaccò il fuoco a que' borghi, gittò saette (non già aureas, come ha Roberto del Monte [Robertus de Monte. Bernardus Guidonis, et alii.], ma igneas, come scrive il Dandolo) contra del palazzo imperiale, ed, entrato per forza ne' giardini d'esso palazzo, per trofeo ne portò via le frutta. Ora avvenne, che tornando indietro quella flotta siciliana, s'incontrò nel convoglio greco che menava prigioniere il re di Francia Lodovico. Venne alle mani coi Greci, li ruppe, ed ebbe la sorte di rimettere in libertà quel re, per le cui generose preghiere l'ammiraglio siciliano s'indusse a rilasciar dalla prigionia molti Greci presi in tal congiuntura. Che gli storici moderni della Francia vogliano dissimular questa avventura di un loro re, può passare; ma che si mettano a negarla, non ne so veder sufficiente ragione, quando abbiamo storici antichi bastevoli ad assicurarcene. Fu condotto sano e salvo il re franzese forse a Palermo, come vuole Bernardo Tesoriere [Bernard. Thesaurarius, in Chron. Anonymus Casinensis, in Chronic.], ma certamente in Calabria nella città di Potenza, dove si trovava il re Ruggieri. Non lasciò indietro il re siciliano finezza alcuna, per attestare al monarca franzese la sua benevolenza e il suo ossequio. Gli fece molti regali, e onorevolmente il fece condurre e scortare per tutti i suoi Stati. Nel dì 5 d'ottobre arrivò il re Lodovico al monistero di Monte Casino, ricevuto con grande onore da que' monaci, e vi si fermò per tre dì. Continuato poscia il viaggio, trovò papa Eugenio in [697] Tuscolo, il quale, secondochè attesta Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernit., in Chron. tom. 7 Rer. Ital.], ricordevole dei favori a lui compartiti in Francia da esso re, eum prout decuit, cum reverentia magna et honore suscepit, dona multa obtulit et in pace ad propria redire permisit. Nè si dee tacere che mentre questo re si trovava nella terra di Ferentino [Johann. de Ceccano, Chron. Fossae novae.], Gregorio signor di Fumone, andò per fargli riverenza. Ma colto nel viaggio da papa Eugenio, restò spogliato d'esso castello di Fumone.

Con tal vigore intanto il greco Augusto continuò l'assedio di Corfù [Niceta, Histor., lib. 7.], che finalmente lo costrinse alla resa, con accordare ai difensori un'onesta capitolazione. Ma il governatore della città siciliano, o perchè maggiormente non si difese, come forse potea, o per altri motivi, temendo l'ira del re Ruggieri, si acconciò coi Greci, nè volle più riveder la Sicilia. Perchè poscia una fiera tempesta scompigliò l'armata navale d'essi Greci, con affondar anche non pochi legni, lo imperador Manuello non credette più tempo di tentar l'impresa di Sicilia, massimamente accostandosi il verno; e però sbarcate le genti alla Vallona, attese a scaricare il suo sdegno contro ai popoli della Servia, che, durante questa guerra, aveano fatte varie scorrerie ne' paesi del suo imperio. Tuttavia non finì questa guerra, senza che la flotta de' Veneziani e dei Greci venisse alle mani con quella del re Ruggieri. Ben calda fu la zuffa, e la peggio toccò ai Siciliani, che lasciarono diciannove galee in potere de' nemici. Pare che non s'accordi colle notizie fin qui addotte la Cronologia di Andrea Dandolo, mentre egli scrive, che Pietro Polano doge di Venezia nell'anno diciottesimo, del suo ducato, cioè nel 1148 dopo aver messa insieme l'armata per andare a Corfù infermatosi, dopo aver dato il comando d'essa flotta a Giovanni suo fratello [698] e a Rinieri suo figliuolo, se ne tornò a Venezia. Finita l'impresa di Corfù si restituì quella flotta vittoriosa alla patria, dove trovò già passato all'altra vita il doge, in cui luogo fu sustituito Domenico Morosino, personaggio di gran bontà e valore, nell'anno stesso 1148. Certo è che nel presente 1149 succedette la guerra e ricuperazion di Corfù. Però converrà intendere che i preparamenti di tale spedizione si facessero nel precedente anno, in cui ancora mancò di vita Pietro Polano, trovato poi morto dai capitani che tornarono da quella felicissima impresa. Abbiamo poi da Romoaldo Salernitano, che, quantunque il re Ruggieri somministrasse aiuti a papa Eugenio III, e mandasse più ambasciatori a lui per istabilir seco una buona pace e concordia, pure nulla potè ottenere. Dio il visitò ancora con un altro flagello in quest'anno; imperocchè per attestato dell'Anonimo Casinense, la morte gli rapì il primogenito suo Ruggieri, duca di Puglia, in età di trent'anni, con infinito cordoglio del re suo padre e di tutti i suoi popoli. Vir speciosus et miles strenuus, pius, benignus, misericors, et a suo populo multum dilectus, vien chiamato da Romoaldo. Lasciò questo principe dopo di sè due piccioli figliuoli, a lui procreati fuori di matrimonio da una nobil dama, figliuola di Roberto conte di Lecce, appellati l'uno Tancredi, che fu poi re di Sicilia, e Guglielmo, de' quali si parlerà a suo tempo. Di cinque legittimi figliuoli, che avea dianzi il re Ruggieri, non restò in vita se non Guglielmo suo quartogenito. Si può credere che papa Eugenio non adoperasse in vano la forza contra de' recalcitranti Romani, al vedere che seguì fra lui ed essi una concordia accennata dall'Anonimo Casinense con queste parole: Eugenius papa pacem (ossia pactum) cum Romanis reformans, Romam reversus est. Anche Romoaldo Salernitano asserisce che questo pontefice, dopo essere dimorato per qualche tempo in Tuscolo, si compose coi Romani, da' quali, non meno che da' senatori tutti, fu con [699] sommo onore qual sovrano accolto. Ma poca sussistenza ebbe una tal pace. Io non so se si possa riposare sulla fede di Girolamo Rossi [Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5.], che a quest'anno mette la guerra fatta dai Bolognesi e Faentini alla città d'Imola collegata coi Ravennati, con impadronirsi di San Cassiano, e rimettere in piedi il castello appellato d'Imola. Seguì, secondo quell'autore, una battaglia fra i popoli di Ravenna e Forlì dall'un canto, e i Faentini dall'altro con ispargimento di gran sangue da ambedue le parti. Ma nulla di ciò parlando gli Annali di Bologna, più sicuro è il sospenderne la credenza. Abbiamo bensì dalle Croniche di Piacenza [Annal. Placentini, tom. 16 Rer. Ital.], Parma e Cremona, che avendo in quest'anno i Piacentini assediato il castello di Tabiano, accorsi i Parmigiani e Cremonesi, diedero loro una grande sconfitta, di modo che la maggior parte di essi Piacentini restò prigioniera. Giovanni da Bazzano negli Annali di Modena [Johan. de Bazano, Annal. Mutin., tom. 1, Rer. Ital.], dopo aver notata la rotta suddetta de' Piacentini, aggiugne che in quest'anno la terra di Nonantola fu distrutta dai Modenesi.


   
Anno di Cristo MCL. Indizione XIII.
Eugenio III papa 6.
Corrado III re di Germania e d'Italia 13.

Benchè fosse seguita pace fra papa Eugenio e i Romani, pure restando assai torbidi gli animi, nè desistendo il pontefice dalla voglia di abbattere la novità del ristabilito senato, fu egli di nuovo forzato a ritirarsi fuori di Roma, mal contento di quella nobiltà. Abbiamo, ma non so ben dir se in quest'anno, dall'Anonimo Casinense [Anonymus Casinensis, in Chron.], che Eugenius papa urbe egressus, Campaniae moratus est; e da quello che poi soggiugne, assai si comprende che per disgusti egli passò a Terra di Lavoro. [700] Avea san Bernardo inviato ad esso papa nel precedente anno il primo libro de Consideratione. Gl'inviò nel presente il secondo, e poscia i tre altri di quella bellissima opera. Prima nondimeno ch'egli uscisse di Roma, venne a visitarlo Pietro, celebre abbate di Clugnì, il quale attesta in una lettera scritta a san Bernardo [Petrus Cluniacens., lib. 6, Epist. 46.], d'aver ricevuto di grandi onori e segni di benevolenza, non solamente da esso papa, le cui mirabili e savie maniere va descrivendo, ma anche dal senato romano, dai vescovi e dai cardinali. Dacchè il re Ruggieri vide nell'anno addietro tutta la sua prole ridotta in un solo rampollo, cioè in Guglielmo, creato da lui o in questo o in esso precedente anno, duca di Puglia, per desiderio d'avere altri figliuoli a maggior sicurezza del suo regno, avea presa per moglie Sibilla sorella di Odone II duca di Borgogna [Romualdus Salernitan., in Chron.]; ma questa principessa tolta fu dalla morte all'anno presente, senza ch'ella desse alcun frutto del suo matrimonio. Pensando i Piacentini alla vendetta, e alla maniera di rifarsi del danno e della vergogna lor fatta nell'assedio di Tabiano dai Cremonesi nell'anno precedente [Annal. Cremonens., tom 7 Rer. Ital.], strinsero oppure confermarono lega coi Milanesi, con indurli a mettersi in campagna coll'esercito loro contra d'essi Cremonesi. Così fece il popolo di Milano. In questo mentre i Piacentini voltarono le lor armi e macchine contra il suddetto castello di Tabiano, del quale infine s'impadronirono, e tosto lo spianarono. Ben diverso fu l'esito dell'armata milanese. Venuta alle mani nel dì cinque di luglio coll'armata cremonese a Castelnuovo, fu forzata a voltar le spalle con perdita di molta gente e cavalli. Peggio anche le occorse, perchè restò in mano de' vincitori il carroccio loro. Era questo allora l'uso delle città più forti d'Italia di uscire in campagna con questo carroccio istituito, siccome già dicemmo, da Eriberto arcivescovo di Milano [701] nel secolo precedente. Nè altro esso era che un carro tirato da due o tre paia di buoi ornati di belle gualdrappe. V'era nel mezzo piantata un'antenna, tenente in cima la croce, oppure il Crocefisso colla bandiera sventolante del Comune. Stava sopra d'essa qualche soldato, e intorno marciava di guardia il nerbo dei più robusti e valorosi combattenti. A guisa dell'Arca del Signore condotta in campo dagli Ebrei, era menato questo carro. Al vederlo si rincorava l'esercito. Guai se cadeva in mano de' nemici: allora tutti a gambe. Grande impegno era il non perderlo; grandi maneggi si faceano per ricuperarlo. Circa questi tempi, per attestato del Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], Domenico Morosino doge di Venezia inviò uno stuolo di cinquanta galee ben armate sotto il comando di Domenico suo figliuolo e di Marino Gradenigo contra la città di Pola ed altre dell'Istria, che erano divenute alloggio di corsari, nè più ubbidivano a Venezia. Riuscì di mettere al dovere quella città, poi Rovigno, Parenzo, Umago, Emonia oggidì Città Nuova. Secondo gli Annali Pisani [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.], in quest'anno seguì battaglia fra i popoli di Pisa e Lucca, colla totale disfatta e gran mortalità de' Lucchesi. Ma, non parlando di questo fatto gli storici pisani moderni, non paiono sicure tali notizie; e tanto più che quegli Annali sono di autore poco esatto. Abbiamo ancora dalla Cronica di Fossa Nuova [Johan. de Ceccano, in Chron. Fossae novae.], che papa Eugenio nel mese di ottobre andò a Ferentino, dove consecrò molti arcivescovi e vescovi. Anche Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernitanus, in Chron.] attesta, che rex Rogerius archiepiscopos et episcopos terrae suae a papa Eugenio jussit consecrari. Aggiugne l'autore di essa Cronica, che la città di Terracina fu presa nel dì 26 di novembre, ma senza dire da chi. Senza dubbio dal papa, a cui in quelle turbolenze s'era ribellata, o che era stata alienata dai suoi [702] antecessori, come chiaramente attesta l'autore della sua Vita nella Raccolta del cardinale d'Aragona [Cardinal. de Aragon., in Vit. Eugenii III.].


   
Anno di Cristo MCLI. Indizione XIV.
Eugenio III papa 7.
Corrado III re di Germania e d'Italia 14.

Verisimilmente in quest'anno il re Ruggieri, voglioso pur di supplir con un nuovo maritaggio alla mancanza di tanti figliuoli a lui rapiti dalla morte, per testimonianza di Romoaldo Salernitano, Beatricem filiam comitis de Reteste in uxorem accepit, de qua filiam habuit, quam Constantiam appellavit. La notizia è d'importanza per le cose che vedremo a suo tempo dopo assaissimi anni, ne' quali questa sua figlia Costanza cagione fu di grandi mutazioni nella Sicilia. Volendo inoltre assicurare il regno a Guglielmo suo figliuolo, in quest'anno [Peregrin., in Not. ad Anonym. Casinens.] il dichiarò suo collega e re nel mese di maggio, biennio antequam moreretur, dice Romoaldo [Romualdus Salern., in Chron.]; ed essendo morto Ruggieri sul fine di febbraio del 1154, parrebbe che ciò appartenesse all'anno seguente. Ma più sotto egli soggiugne, che Guglielmo cum patre duobus annis et mensibus decem regnaverat. Aggiungono gli storici siciliani, che in questo medesimo anno il re suddetto diede per moglie al figliuolo Guglielmo Margherita figliuola di Garzia re di Navarra [Carusi, P. II, lib. 2, Istor. di Sicilia.]; e vogliono che in questo anno se ne celebrassero solennemente le nozze in Palermo. Probabile è, che nell'anno presente seguisse [Otto Frisingens., de Gest. Frider. I, lib. 1, cap. 62.] la morte di Arrigo, picciolo figliuolo del re Corrado; già eletto re di Germania; e, quantunque sopravvivesse un altro figliuolo d'esso re, appellato Federigo, pure questo accidente aprì la strada a Federigo, figliuolo di suo fratello, per acquistar la corona del regno [703] germanico, siccome diremo fra poco. Cessò in questi tempi la guerra che il duca Guelfo avea ricominciata in Germania contra del re Corrado [Abbas Urspergensis, in Chron.] per interposizione appunto del medesimo Federigo, nipote di Corrado e d'esso Guelfo, perchè gli fece assegnare alcune rendite del fisco regale colla villa di Merdingen, e con ciò l'indusse a vivere quieto. Così lasciò scritto l'Abate Urspergense, di cui sono ancora le seguenti parole: Reatina civitas post longam obsidionem a Rogerio rege Siciliae destructa est anno Domini MCLI. Quando non vi sia errore di stampa, la città di Rieti, non men che Ascoli, dovea essere allora compresa nella Puglia, signoreggiata da esso re Ruggieri. Scrive ancora Giovanni da Ceccano [Johann. de Ceccano, Chron. Fossae Novae.], che papa Eugenio nel dì 10 di maggio andò a Castro, e vi dedicò la chiesa di santa Croce, e nel dì 27 d'ottobre dedicò la chiesa del monistero di Casemaro, dopo di che tornò a Segna. Per quanto osservò il cardinal Baronio [Baron., in Annales Ecclesiast.], circa questi tempi vennero a Roma gli arcivescovi di Colonia e di Magonza, contra de' quali bolliva un gran processo, e vennero carichi di danaro, credendosi di comperar la grazia del papa e della sua corte, come nei tempi addietro succedea, e parea più facile allora pel bisogno del pontefice, tuttavia involto nella guerra coi Romani. Ma furono rimandati indietro con tutto il loro tesoro, nova res, dice san Bernardo in iscrivendo ad esso papa [San Bernard. de Consid., lib. 3, cap. 3.]. Quando hactenus aurum Roma refudit? Et nunc Romanorum consilio id usurpatum non credimus. Durando tuttavia la guerra dei Piacentini coi Parmigiani [Annales Placentini, tom. 16 Rer. Ital.], dai primi fu preso e distrutto Fornovo. Con gran concorso di scolari si spiegavano in questi tempi in Bologna le leggi romane, risuscitate circa il principio di questo secolo. Cadde in pensiero [704] a Graziano monaco benedettino, toscano di patria, perchè nato in Chiusi, abitante allora nel monistero di san Felice di Bologna [Ricobaldus, in Pomario.], di compilare ancora il gius canonico, per metterlo nelle scuole e nelle mani della gioventù studiosa. Intraprese dunque il suo decreto, componendolo di canoni, di concilii, lettere di papi (fra le quali non poche apocrife, perchè provenienti da Isidoro Mercatore) e passi di santi Padri. Prima di lui più d'una di simili raccolte era stata fatta; ma questa portò il vanto, e divenne poi celebre ed usata nelle scuole. Stabilirono in questo anno lega insieme i popoli di Modena e Parma, promettendo i Parmigiani di assistere agli altri a loco Rheni usque ad burgum Florenzolae; et ab Alpibus usque ad flumen Padi [Antiquit. Italic., Dissert. LVI.]. Lasciarono ai Reggiani il luogo se voleano entrare in questa lega. Ebbe con ciò principio la stretta alleanza, continuata dipoi per anni moltissimi, fra le città di Modena e di Parma.


   
Anno di Cristo MCLII. Indizione XV.
Eugenio III papa 8.
Federigo I re di Germania e d'Italia 1.

Nel dì 9 di giugno dell'anno presente era papa Eugenio in Spagna, come costa da una sua bolla data in favore di Richilda badessa dell'insigne monistero di santa Giulia di Brescia, da me data alla luce [Antiquit. Ital., Dissert. LXX.]. E fin qui era durata la discordia de' Romani con esso pontefice, il quale per lo più a motivo di maggior quiete e sicurezza era dimorato fuori di Roma. San Bernardo scrivendo in questi tempi al medesimo papa il quarto libro de Consideratione, parve che predicesse il fine di questa briga [San Bernard., lib. 4, cap. 2 de Consideratione.]: Quid tam notum saeculis, dice egli, quam protervia et fastus Romanorum? Gens insueta paci, tumultui [705] assueta; gens immitis et intractabilis usque adhuc, subdi nescia, nisi quum non valet resistere. En plaga: tibi incumbit cura haec, dissimulare non licet. Ridens me forsitan, fore incurabilem persuasus. Noli diffidere. In fatti per attestato dell'Anonimo Casinense [Anonymus Casin., tom. 5 Rer. Ital.], il cui anno 1151 si dee intendere per l'anno presente, papa Eugenio, stabilito un accordo coi Romani, rientrò pacificamente in Roma nel dì 11 d'ottobre. Anche Roberto del Monte [Robertus de Monte, Append. ad Sigebert.] in quest'anno scrive: Eugenius papa cum Romanis pace facta urbem ingreditur, ibique cum eis hoc anno primitus commoratur. Giovanni da Ceccano [Johann. de Ceccano, Chron. Fossae Novae.] aggiugne, ch'egli entrò in Roma nel dì 6 di settembre. Lo stesso abbiamo da Romoaldo Salernitano [Romualdus Salern., in Chron.], il quale attesta che Eugenio fu con sommo onore ricevuto dai senatori e da tutto il popolo romano. Poscia con tante limosine e benefizii si guadagnò il cuore d'esso popolo, che quasi comandava a bacchetta nella maggior parte della città: Et nisi esset mors aemula quae illum cito de medio rapuit, senatores noviter procreatos populi adminiculo usurpata dignitate privasset. Era nell'anno addietro cominciata una gran guerra fra i re dell'Africa. Seppe bene profittarne il re Ruggieri [Anonymus Casinensis. Robertus de Monte.]. Inviò egli colà nel presente anno, se pur non fu nel susseguente, la sua armata navale, a cui venne fatto d'insignorirsi della città d'Ippona, oggidì Bona, e di altre terre in quella costa di Barberia. Ch'egli ancora prendesse Tunisi, lo attesta Roberto del Monte, secondo l'edizione del padre Dachery nello Spicilegio. Ma è da dolersi perchè la storia non ci abbia dato un più distinto ragguaglio di tali imprese. Certo è, che avendo poco prima i Mori Naassamoniti, abitanti verso Fez e Marocco, strangolato il re loro, s'impadronirono delle due Mauritanie: [706] e poscia stendendo le conquiste verso Oriente, distrussero il regno de' Zeridi colla presa della città di Bugia, minacciando con ciò la Sicilia, Puglia e Calabria. Ma fece vedere a costoro il re Ruggieri che non gli metteano paura le loro bravate. Abbiamo dagli Annali Piacentini [Annal. Placentini, tom. 16 Rer. Ital.], che in questo anno il popolo di Piacenza prese a' Parmigiani il castello di Medesana, e lo distrusse: e perciocchè dovette seguir qualche accordo fra loro, in cui ebbero i Cremonesi gran mano, affinchè Parma restituisse i prigioni di Piacenza, in segno di gratitudine i Piacentini cedettero ad essi Cremonesi Castelnuovo di Bocca d'Adda. Un fiero incendio devastò tutto Borgo S. Donnino, a riserva della chiesa maggiore. Maggiori avventure furono quelle della Germania nell'anno presente. Già si preparava il re Corrado per venire in Italia a prendere la corona imperiale [Otto Frisingensis, de Gestis Friderici I, lib. 1, cap. 63. Dodechinus, in Append.], risoluto insieme di far guerra al re Ruggieri in vigor della lega e del concerto fatto coll'imperador de' Greci suo cognato. S'era egli trasferito a Bamberga con pensiero di tenere ivi una gran dieta, quando venne a battere alle sue porte l'inesorabil morte. Mancò egli di vita nel dì 15 di febbraio dell'anno corrente. Scrive Ottone da Frisinga, essere corsa allora voce, ch'egli fosse stato aiutato ad uscire del mondo da alcuni medici del re Ruggieri, che, fingendo d'aver paura di quel re, s'erano rifugiati in Germania. Erano allora veramente in gran credito i medici della scuola di Salerno, e consultati da varie parti. Nè già è inverisimile che l'accorto Ruggieri avesse tentato per questa esecrabil via di liberarsi da un dichiarato nemico, la cui possanza quella sola era che dava a lui una fondata apprensione. Tuttavia in simili casi i sospetti e le dicerie del popolo sono a buon mercato. Allorchè Corrado vide in pericolo la sua vita, trattò coi principi [707] di chi gli dovesse succedere. Gli restava bensì un figliuolo per nome Federigo, ma di età picciola, nè atta al governo. Però saggiamente consigliò che eleggessero Federigo, appellato poscia Barbarossa a cagion del colore della sua barba, figliuolo di Federigo il Guercio duca di Suevia suo fratello; al quale consegnò le insigne reali, e vivamente raccomandò il tenero suo figliuolo. Fu data sepoltura al di lui corpo in Bamberga, vicino alla tomba del santo imperadore Arrigo. Tenutasi poi la gran dieta del regno nel dì 4 di marzo in Francoforte, quivi restò a comuni voti eletto re ed imperadore futuro il suddetto Federigo. Degno è di osservazione, che a tale elezione ebbero parte tutti i principi della Germania, per attestato di Ottone vescovo di Frisinga, che uno fu di que' principi; il che fa conoscere quanto sia mal appoggiata l'opinione di chi pensa tanto prima istituito il collegio de' sette elettori; del che ho parlalo anche io altrove [Antiquit. Ital., Dissert. III.]. Nè a quella dieta mancarono principi e baroni italiani. Non sine quibusdam ex Italia baronibus, scrive il suddetto Frisingense. E Amando [Amand., de prim. Act. Frider.] segretario del medesimo Federigo racconta, che multi illustres heroes ex Lombardia, Tuscia, Januensi, et aliis Italiae dominiis, etc. convenerunt in urbe francofurtensi, etc., per eleggere il nuovo re. Più importante ancora è un'altra osservazione fatta dal medesimo Frisingense [Otto Frisingensis, de Gestis Frider., lib. 2, cap. 2.], zio dello stesso Federigo, cioè che il motivo principale per cui convennero i voti di tutti i principi nella persona di Federigo, fu quello di pacificare ed unire insieme le due potenti e famose famiglie di Germania, cioè la ghibellina e la guelfa. Della prima era erede e capo lo stesso Federigo Barbarossa; dell'altra il duca Guelfo VI, e Arrigo Leone duca di Sassonia, suo nipote.

[708] Era nato Federigo, siccome ho detto, da Federigo duca di Suevia, e da Giuditta figliuola d'Arrigo il Nero estense-guelfo, padre del suddetto Guelfo VI duca: per conseguente veniva ad esser Guelfo zio materno del re Federigo, e il duca di Sassonia Arrigo Leone suo cugino. Unendosi dunque in un solo principe il sangue d'amendue le sopraddette insigni famiglie, si credette che cesserebbe da lì innanzi la nemicizia ed animosità mantenuta fra loro tanti anni addietro. Ecco le parole del Frisingense: Duae in romano orbe apud Galliae Germaniaeve fines famosae familiae hactenus fuere: una Henricorum de Guibelinga, alia Guelforum de Altdorfio: altera imperatores, altera magnos duces producere solita. Istae, ut inter viros magnos, gloriaeque avidos assolet fieri, frequenter se se invicem aemulantes, reipublicae quietem multotiens perturbarunt. Nutu vero Dei, ut creditur, paci populi sui in posterum providentis, sub Henrico V factum est, ut Fridericus dux, pater hujus (di Federigo Barbarossa), qui de altera, idest de regum familia descenderat, de altera, Henrici scilicet Noricorum ducis filiam in uxorem acciperet, ex eaque Fridericum, qui in praesentiarum est et regnat, generaret. Principes ergo non solum industriam, ac saepe dicti juvenis virtutem, sed etiam hoc, quod utriusque sanguinis consors, tamquam angularis lapis, utrorumque horum parietum dissidentiam unire posset, considerantes, caput regni eum constituere adjudicaverunt: plurimum reipublicae profuturum praecogitantes, si tam gravis et diutina inter maximos imperii viros, ob privatum emolumentum simultas, hac demum occasione, Deo cooperante, sopiretur. Ho voluto rapportar intero questo passo, perchè esso è la chiave dell'origine delle famose fazioni ghibellina e guelfa, che recarono ne' secoli susseguenti tanti travagli e guai all'Italia. A questo lume svaniscono varie favole intorno a tale origine, spacciate dai poco informati storici, essendo certo che per le nimistà passate in Germania [709] fra i re ghibellini e la linea dei duchi estense-guelfa di Germania (le quali poi si rinnovarono, siccome vedremo a suo tempo) presero piede in Italia queste maledette fazioni. Adunque il nuovo re Federigo portatosi ad Aquisgrana, nel dì 9 di marzo fu ivi solennemente coronato, e diede principio al suo governo con ispedire i suoi legati a papa Eugenio III e a tutta l'Italia, per notificare ad ognuno la sua elezione, che fu accettata e lodata da tutti. Una delle principali applicazioni ch'egli ebbe in questi principii, fu quella di terminare amichevolmente la lite mossa da Arrigo Leone estense-guelfo duca di Sassonia, che pretendeva il ducato della Baviera, siccome figliuolo ed erede del duca Arrigo il Superbo, contra del re Arrigo figliuolo di san Leopoldo, che ne era in possesso per concessione del fu re Corrado III. Ad amendue fu assegnato il termine per addurre le loro ragioni nel mese d'ottobre in Erbipoli, ossia in Wirtzburg. Presentaronsi ancora a' piedi del novello re con assai lagrime Roberto già principe di Capoa, Andrea conte di Rupecanina, ed altri signori della Puglia, spogliati dal re Ruggieri de' loro Stati, chiedendo giustizia ed aiuto. La determinazione di Federigo fu, che pazientassero finchè egli calasse in Italia per venire a prendere la corona imperiale: spedizione che restò fissata per l'anno 1154, e che, siccome vedremo, diede principio ad infiniti sconcerti e guerre nella misera Italia. Rapporta il cardinal Baronio [Baron., Annal. Ecclesiast., ad hunc annum.] la concordia stabilita in questo anno fra papa Eugenio e il re Federigo per mezzo de' lor deputati. Federigo si obbliga di non far pace nè tregua col popolo romano, nè con Ruggieri re di Sicilia, senza il consentimento di esso Eugenio e de' pontefici suoi successori, e di conservare e difendere tutte le regalie di san Pietro; e all'incontro il papa promette di coronarlo imperadore, e di aiutarlo secondo la giustizia. Ho riferito [710] anch'io un diploma d'esso re Federigo in conferma de' privilegii de' canonici di Vercelli [Antiquit. Ital., Dissert. LXII.], spedito in Wirtzburg XV kalendas novembris anno Domini MCLII, Indictione XV. In quest'anno scrive il Sigonio [Sigon., de Regno Ital., lib. 12.] che ebbe principio la guerra fra i Parmigiani e Reggiani. Vennero i primi saccheggiando fino al fiume Secchia. Accorsero i Reggiani, ma rimasero sconfitti colla prigionia di molti, che nel dì dell'Assunzion della Vergine furono poi rilasciati in camiciuola con un bastone in mano e uno scopazzone. Passarono appresso i vittoriosi Parmigiani nel settembre fino a Borgo San Donnino, e, presolo, ne fecero un dono alle fiamme. Di questi fatti non veggo parola nei vecchi autori. Ma il Sigonio forse li prese da qualche Cronica manoscritta esistente allora, e smarrita oggidì.


   
Anno di Cristo MCLIII. Indizione I.
Anastasio IV papa 1.
Federigo I re di Germania e d'Italia 2.

Meritava bene il piissimo ed ottimo pontefice Eugenio III di vivere più lungamente. Egli s'era già cattivato colle sue liberalità e dolci maniere il popolo di Roma, di modo che già si trovava in istato di abolire il senato, onde era venuta tanta turbazione a lui e ai tre suoi predecessori. Avea fabbricato un palazzo presso san Pietro e un altro a Segna [Cardinal. de Arag., in Vit. Eugenii III.]; avea ricuperata Terracina, Sezza, Normia e la rocca di Fumone, alienate un pezzo fa dal dominio di San Pietro. Le sue rare virtù il facevano venerabile ed ubbidito dappertutto. Ma Iddio il volle chiamare a sè con immenso dolore di tutto quel clero e popolo. Succedette la morte sua nel dì 7 di luglio del presente anno, mentre egli dimorava in Tivoli, e fu il suo sepolcro nella basilica vaticana onorato da Dio con varie miracolose guarigioni. [711] Da lì a due giorni fu promosso al pontificato Romano Corrado vescovo di Sabina, romano di nazione, che prese il nome di Anastasio IV. In quest'anno ancora l'immortal servo del Signore san Bernardo, fondatore di tanti monisteri, andò a ricevere in cielo il frutto delle insigni sue virtù e gloriose fatiche. Tanto angustiarono in questi tempi i potenti Bolognesi uniti co' Faentini la città d'Imola, troppo inferiore di forze [Matth. de Griffonibus, Histor. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.], che, dopo una rotta data a quel popolo, il costrinsero ad una svantaggiosa pace, e a dipendere da lì innanzi dai loro cenni. Scrive ancora il Sigonio [Sigon., de Regno Ital., lib. 12.] che i Piacentini uniti ai Cremonesi nel dì 26 di giugno vennero alle mani coll'esercito de' Parmigiani a Casalecchio, e restarono sconfitti, e, per la maggior parte presi, furono condotti nelle carceri di Parma. Onde si abbia egli tratte queste notizie nol so io dire. Negli antichi Annali di quella città non ne truovo vestigio. Erano già passati quarantadue anni che la città di Lodi stava sotto il giogo de' Milanesi, trattata non con quella piacevolezza che si cattiva il cuor de' sudditi, ma bensì con quell'asprezza che li fa gemere e sospirar tutto dì mutazion di governo. Accadde che due Lodigiani (siccome abbiamo da Ottone Morena [Otto Morena, Hist., tom. 6 Rer. Ital.], storico diligente di questi tempi, e nativo di quella città), l'uno appellato Albernando Alamano, e maestro Omobuono, per proprii affari essendo iti alla città di Costanza, vi si trovarono nel tempo stesso che il nuovo re Federigo tenne ivi un parlamento. Osservato che molti sì ricchi che poveri ricorrevano ad esso per giustizia, e la ottenevano, saltò loro in pensiero di fare un passo forte, senza averne commissione e facoltà alcuna dalla loro città. Cioè prese in ispalla oppure in mano due grosse croci di legno (che tale era allora l'uso in Italia di chi aggravato portava le sue [712] querele al trono de' principi), andarono a gittarsi a' piedi di Federigo nel dì 4 di marzo dell'anno presente, chiedendo con assai lagrime misericordia e giustizia contra de' Milanesi, come tiranni della lor patria Lodi, ed esponendo ad uno ad uno tutti gli aspri trattamenti che avea patito e tuttavia pativa questa infelice città.

Fra le rare doti che si univano in Federigo, principe di grande accortezza e mente, di petto forte e di valore impareggiabile, non era l'ultima l'amore della giustizia, ma inflessibile e congiunto, siccome vedremo, con tal severità, che andava al barbarico. Appena ebbe intese tali doglianze, che ordinò tosto al suo cancelliere di scrivere lettera vigorosa ai consoli e al popolo di Milano in favore e sollievo della città di Lodi, e deputò a portarla un uomo di sua corte appellato Sicherio. Tornati i due buoni Lodigiani a Lodi, notificarono ai consoli e al consiglio della Credenza di quella città quanto aveano operato. Siccome altrove ho io dimostrato, il consiglio della Credenza, nelle città libere d'Italia, non era composto della sola plebe, come ha creduto taluno. V'entravano anche i nobili, qualora aveano parte nel governo. Altro in somma non era che il consiglio segreto, a cui chi interveniva, prestava giuramento di non rivelar quello che ivi si trattava. In gran pena furono que' cittadini per tal novità, temendo, e con ragione, il risentimento e furore de' Milanesi; però in vece di ringraziamenti caricarono di villanie que' due semplici cittadini, e serrarono loro in petto queste novelle. Venne Sicherio a Lodi, credendosi di portar via grosso regalo; ma i consoli di Lodi, riprovando l'operato de' due lor cittadini, non altro fecero che scongiurarlo di tornarsene indietro senza presentar la lettera del re ai Milanesi. Ma egli arditamente ito a Milano, sfoderò gli ordini del re, ricevuti con sì mal garbo da que' consoli e dal loro consiglio, che dopo aver gittata in terra e pestata coi piedi la lettera, si avventarono addosso a [713] Sicherio, ch'ebbe fatica a salvarsi; però se ne tornò egli assai brutto in Germania, ed espose al re e a' suoi baroni il grave affronto fattogli e il pericolo da lui corso. Sommo fu lo sdegno di Federigo e dei suoi principi, e se la legò al dito, per farne vendetta a suo tempo. Crebbe indicibilmente lo spavento ne' Lodigiani. Di dì in dì si aspettavano l'ultimo esterminio, minacciato loro da' Milanesi; e per isperanza di schivarlo, segretamente inviarono al re Federigo una chiave tutta d'oro per mezzo di Guglielmo marchese di Monferrato, raccomandandosi caldamente alla di lui protezione. Tornati in sè i Milanesi, per placare la collera del re, anch'essi gli mandarono una coppa d'oro piena di danaro, che non fu punto accettata da Federigo. Nello stesso tempo comparvero alla corte gli ambasciatori di Cremona e di Pavia con ricchi regali, e insieme con ordine d'esporre in segreto colloquio al re la superbia de' Milanesi, siccome quelli che erano dietro ad ingoiar tutti i loro vicini, e di far premure in favore dell'oppressa città di Lodi; e fu ben eseguita la commessione. Niega il padre Pagi la spedizione di questi ambasciatori, e la niega a torto. Ottone Morena ce ne assicura. Nè sussiste, come vuol esso Pagi, che i popoli di Puglia inviassero ambascerie a Federigo. Le doglianze furono fatte, come ho detto, da que' baroni cacciati dal re Ruggieri, che si trovavano in Germania.

O nel fine di quest'anno, o sul principio del seguente, non volendo il re Federigo che restasse un seminario di guerra in Germania, col lasciare indecisa la lite insorta fra Arrigo Leone duca di Sassonia ed Arrigo duca di Baviera, a cagion della stessa Baviera [Otto Frisingens., de Gest. Friderici I, lib. 2, cap. II.], finalmente diede la sentenza, con aggiudicar quel ducato insigne al suddetto Arrigo Leone, goduto da' suoi maggiori per tanti anni addietro. Si venne poi nell'anno 1156 ad una transazione, per cui restò in dominio dell'altro [714] Arrigo, col titolo di duca, la provincia dell'Austria, oggidì arciducato, che era in addietro parte della Baviera. Oltre a ciò, aveva esso Federigo data già, oppur diede allora al duca Guelfo, zio paterno dello stesso duca Arrigo Leone, e materno d'esso re Federigo [Chron. Weingart apud Lebnitium Scriptor Brunsvich.], l'investitura della marca di Toscana, del ducato di Spoleti, del principato di Sardegna, e de' beni allodiali della fu celebre contessa Matilda. Che Volderico, dianzi marchese di Toscana, cessasse di godere di quella dignità, si raccoglie da una sua magnifica donazione fatta alla chiesa d'Aquileia nell'anno 1170, che io ho dato alla luce nelle Antichità italiane [Antiquit. Ital., tom. 3, pag. 1221.]. Sicchè possedendo la linea degli Estensi di Germania tali Stati in Italia, e in Germania i vasti e nobilissimi ducati della Sassonia e Baviera con Luneburgo e Brunsvich, anche oggidì esistenti sotto il loro dominio; e signoreggiando l'altra linea de' marchesi estensi una fioritissima porzione di Stati, massimamente nella marca trivisana: la potenza del sangue estense arrivò al sommo in questo tempi. Confermò papa Anastasio IV nell'anno presente i privilegii a Pacifico abbate del monistero di Brescello, fondato da Azzo conte o marchese bisavolo della suddetta Matilda, con bolla data [Antiquit. Ital., Dissert. LXX.] Laterani V idus decembris, Indictione II, Incarnationis dominicae anno MCLIII, pontificatus vero domni Anastasii quarti papae anno primo.


   
Anno di Cristo MCLIV. Indizione II.
Adriano IV papa 1.
Federigo I re di Germania e d'Italia 3.

Fu questo l'ultimo anno della vita di Ruggieri, primo re di Sicilia, rapito dalla morte, secondo Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernit., in Chronic., tom. 7 Rer. Ital.], nel dì 26 di febbraio in età di cinquantotto [715] anni: principe glorioso per tante imprese, di statura alta, corpulento, con faccia leonina, saggio, provvido, accorto, più inclinato a raccogliere che a spendere il danaro, fiero in pubblico, benigno in privato, verso chi era fedele liberale in premiarli, aspro sino ad essere crudele contra chi gli mancava di fede. Era più temuto che amato dai suoi sudditi; e più ancora dei sudditi aveano paura di lui, perchè lo avean provato, i Greci e Saraceni. Altre sue lodi si possono raccogliere da Ugo Falcando nel principio della sua Storia [Hugo Falcandus, in Histor.]. A lui si dee principalmente la fondazione dei due bei regni di Sicilia e di Napoli. Veramente è corso anche a me qualche sospetto che nel precedente anno potesse egli essere mancato di vita. Nel testo di Romoaldo la di lui morte è riferita all'anno 1152, nell'indizione I. Certamente l'anno è fallato, perchè la prima indizione correva solamente nel febbraio del 1153; al che non badò il cardinal Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.]. Ma, per quel che dirò, e l'anno e l'indizione sono ivi scorretti. Oltre a ciò, nella lettera di Corrado Domenicano [Conradi Epist., P. II, tom. 1 Rer. Ital.] intorno alle cose di Sicilia, e nella Cronica di Roberto del Monte [Robert. de Monte, Append. ad Sigebert.], Ruggieri si fa morto nell'anno 1153. Quel che è più, Ottone Frisingense, scrittore contemporaneo, ed informato degli affari d'allora, scrive che il re Federigo nel mese di settembre spedì ambasciatori a Manuello imperador de' Greci, non solamente per trattare del suo maritaggio, ma ancora [Otto Frisingens., de Gestis Frider. I, lib. 2, cap. II.] pro Guilielmo Siculo, qui patri suo Rogerio noviter defuncto successerat, utriusque imperii invasore debellando. Tale spedizione, secondo il contesto di quella narrativa, appartiene all'anno 1153. Eppure con più fondamento si dee riferire all'anno presente la morte di Ruggieri, siccome portò opinione Camillo [716] Pellegrino [Peregrinius, in Notis ad Anonym. Casin.], uno de' più accurati critici dell'Italia, opinione confermata dipoi dal padre Pagi [Pagius, in Critic. ad Annal. Baron.], perchè in essa convengono l'Anonimo Casinense e Ridolfo da Diceto; e il Pellegrino, attesta ciò ricavarsi dagli strumenti e diplomi d'allora. Aggiungo io che nella Cronichetta del monistero della Cava, da me data alla luce [Chron. Cavense, tom. 7 Rer. Ital.], si legge anno 1154, Indictione II, obiit Rogerius rex, et Guilielmus filius ejus substituitur. Altrettanto ha Bernardo di Guidone nella Vita di Atanasio IV [Bernardus Guidonis, in Vit. Anastasii IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Quel poi che può decidere tal controversia, si è uno strumento, rapportato da Rocco Pirro [Pirrus, Sicil. Sacr., in Episcop. Syracus.], e scritto anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi MCLIV, regnante domino nostro Willelmo, Dei gratia sanctissimo et gloriosissimo rege Siciliae, Apuliae et Capuae, principatus anno I, mense vero II post obitum beatissimi Rogerii patris sui, mense aprili, Indictione II. Dopo il qual documento non dovrebbe più restar controversia intorno a questo punto. Al re Ruggieri succedette Guglielmo I suo figliuolo, già dichiarato re, ma non erede delle virtù del padre, che diede principio con qualche lode e plauso al suo governo, ma nel progresso di male in peggio andando, si acquistò co' suoi difetti e vizii il soprannome di Cattivo. Si fece egli coronare in Palermo nella Pasqua dell'anno presente, e non approvando egli i saggi ministri lasciati a lui da suo padre, parte ne licenziò, e parte ne bandì o cacciò in prigione.

Leggesi da una bolla di papa Anastasio IV, da me data alla luce [Antiquit. Italic., Dissert. LXV.], in favore della badia della Pomposa, che si dice data Laterani XIV kalendas aprilis, Indictione II, Incarnationis dominicae anno MCLIII, pontificatus vero domni Anastasii papae quarti primo. Quando per avventura non fosse qui adoperato l'anno fiorentino e veneto, [717] si dee scrivere anno MCLIV. Un'altra bolla, spedita VIII kalendas maii, vien riferita da Campi [Campi, Istor. di Piacenza, tom. 2.]. Continuò questo pontefice la sua vita fino al dì 2 di dicembre dell'anno presente, in cui Dio il chiamò a sè. Succedette a lui nella cattedra pontificia Niccolò, nato in Inghilterra nel castello di Santo Albano già canonico regolare in san Rufo d'Arles, poi vescovo di Albano, che, spedito in Norvegia, confermò nella fede di Gesù Cristo quella barbara nazione, eletto nel dì 3 d'esso dicembre, benchè renitente, da' voti concordi di tutto il sacro collegio [Cardin. de Aragon., in Vit. Adriani IV, P. I, tom. 3 Rer. Italic.]. Assunse egli il nome di Adriano IV, personaggio di esemplarissima vita, di sublime intendimento e fermezza d'animo, tardo alla collera, veloce al perdono, e gran limosiniere. Sotto il pontificato di Eugenio III e d'Anastasio IV era sempre dimorato in Roma l'eretico Arnaldo da Brescia, protetto e sostenuto da alcuni perversi potenti, e massimamente dai senatori contro il divieto de' papi. Non cessava costui di seminare il suo veleno, e benchè scomunicato e, bandito dal novello papa Adriano, non solo si rideva delle censure, ma pubblicamente inveiva contra di lui. Avvenne che il cardinale di santa Podenzana, nell'andare a palazzo, fu insultato da uno di quegli eretici e ferito a morte. Adriano per tali eccessi sottopose all'interdetto tutta Roma, e quivi cessarono i divini uffizii: gastigo non mai per l'addietro provato da quell'augusta città [Romualdus Salernit., in Chron.]. All'avviso dell'assunzione di papa Adriano, non tardò il re di Sicilia Guglielmo ad inviargli ambasciatori per attestargli il suo ossequio, e insieme per trattar di pace. Ma ritrovarono ben lontano da questa il nuovo pontefice, che colla venuta del re Federigo sperava di meglio acconciare gl'interessi della Chiesa romana ne' principati di Puglia e di Capoa. Intanto i Milanesi, informati de' mali uffizii [718] fatti contra di loro dal popolo di Pavia, con incitare lo sdegno del re Federigo ai lor danni [Sire Raul, Histor., tom. 6 Rer. Ital.], marciarono coll'esercito per farne vendetta. Galvano Fiamma scrive [Gualvanus Flamma, Manip. Flor., tom. 11 Rer. Italic.], che expulsis Laudensibus et Cremonensibus, super Papiam equitaverunt de mense augusti, eosque in admirabilem servitutem redegerunt. Ma questo autore, fecondo di favole nel raccontar le avventure di questi tempi, troppo dice con quelle parole. Non altro gli autori contemporanei scrivono, se non che ne seguì un gran guasto [Otto Morena, Hist. Laudens., tom. 6 Rer. Italic.]. Coi Milanesi andarono in oste i Comaschi, Lodigiani e Cremaschi, nè v'era memoria di un sì grande esercito come fu questo. Nel dì 11 d'agosto a Lardiraga sopra il fiume Olona vennero alle mani coi Pavesi; e nella battaglia, che durò dubbiosa fino al tramontar del sole, furono molti gli uccisi, molti i prigioni dall'una parte e dall'altra. Ma nel giorno seguente i Milanesi, che s'erano accampati, furono per un accidente presi da un sì panico terrore, che se ne tornarono alle lor case, lasciando indietro un ricco bottino d'armi, tende ed arnesi.

Durante questa guerra calò per la valle di Trento in Italia il re Federigo nel mese di ottobre, coll'accompagnamento conveniente al suo grado, cioè con un fioritissimo esercito. Seco fra gli altri era Arrigo IV guelfo estense, soprannominato il lione, duca di Sassonia e Baviera, il qual, per attestato di Ottone Morena, in Lombardiam cum ipso rege fere non cum minori copia equitum, quam ipse rex, venerat. S'attendò il re presso il lago di Garda, per ivi aspettar tutta la sua gente, e nel dì seguente giunse ad accamparsi nei prati di Roncaglia sul Piacentino. Era il costume, che venendo in Italia il re, ossia l'imperadore, andava a posar colà, e vi si dava la revista di tutti i vassalli, [719] cioè feudatarii, sì di quei di Germania che degl'Italiani, obbligati cadauno a concorrere colà per riconoscere il sovrano. Chi mancava senza licenza del re perdeva i suoi feudi. Li perderono appunto in tal congiuntura i vescovi di Brema e di Alberstad, ma solamente lor vita durante, perchè si toglievano alle persone, e non alle chiese. Non si dee qui tralasciare il ritratto che fece allora dell'Italia Ottone vescovo di Frisinga [Otto Frisingensis, de Gest. Frideric. I, lib. 2, cap. 13.], zio dello stesso Federigo. Confessa che i popoli nulla più riteneano de' barbarici costumi degli antichi Longobardi, e ne' loro costumi e linguaggio compariva molto della pulizia e leggiadria de' vecchi Romani. Talmente si piccavano della libertà, che non voleano esser governati da un solo, eleggendo piuttosto i consoli, scelti dai tre ordini, cioè dai capitani, valvassori e plebe, affinchè niuno d'essi ordini soperchiasse l'altro. Uso era ancora di mutar ogni anno questi consoli. E per maggiormente popolar le città, costrignevano tutti i nobili e signorotti abitanti nelle loro diocesi, ancorchè feudatarii liberi dal lor dominio, di suggettarsi alle città, e di venire ad abitarvi. Ammettevano ancora alla milizia e ai pubblici ufizi gli artigiani più meccanici e vili: il che strano pareva al suddetto Ottone, perchè in Germania non si praticava così, confessando nulladimeno che in tal maniera le città d'Italia in ricchezze e potenza avanzavano tutte l'altre fuori d'Italia. Ma un sì felice stato veniva accompagnato anche dalla superbia e dal pessimo costume di portar poco rispetto al re, vedendolo mal volentieri venire in Italia, e spesso non ubbidendolo, se i di lui comandamenti non erano assistiti dalla forza di un buon esercito. Ma sopra gli altri si facea distinguere l'alterigia del popolo di Milano, che teneva il primato fra queste città, sì per la sua forza e per la copia di uomini bellicosi, come ancora per aver sottoposte al suo dominio le città di Como e di [720] Lodi. Fermossi il re Federigo per cinque o sei giorni in Roncaglia, dove comparvero i consoli di quasi tutte le città a dir le loro ragioni, e tutti a giurargli fedeltà. V'intervenne Guglielmo marchese di Monferrato, signor nobile e grande, e quasi l'unico che si fosse salvato dall'imperio delle città, il quale portò querele contra de' popoli d'Asti e del Cairo. Altrettanto fece degli Astigiani il loro vescovo. Ma più lamentevoli furono le doglianze dei Comaschi e Lodigiani contra de' Milanesi, benchè presenti fossero i consoli stessi di Milano, cioè Oberto dall'Orto e Gherardo Negro. Colà ancora vennero i legati di Genova a venerare il sovrano, a cui presentarono lioni, struzzoli, pappagalli ed altri preziosi regali di Levante. Racconta Caffaro ne' suoi Annali (era egli uno degli ambasciatori) che Federigo [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Ital.] fece loro molto onore e confidenza degli affari del regno, con promesse di onorar sopra l'altre città quella di Genova. Meditava già questo principe di far guerra a Guglielmo re di Sicilia; e però tante carezze dovette fare ai Genovesi, per valersi della lor flotta in quella occorrenza. Non mancarono, come ho detto, i Milanesi d'inviare due de' loro consoli a Roncaglia [Otto Morena, Hist. Laud. Otto Frising., de Gest. Frider.], per attestare la lor fedeltà a Federigo, con cui ancora s'accordarono di pagargli quattro mila marche d'argento, e di restituire i prigioni ai Pavesi. Ma durò ben poco questo sereno. Volendo Federigo marciare alla volta del Piemonte, prese per condottieri i consoli di Milano, che il menarono per luoghi disabitati, dove non si trovarono tappe, nè mercato per comperarne. I due storici Ottoni credono ciò fatto per frode de' Milanesi, e che di qui avesse principio lo scoppio dell'ira di Federigo contro d'essi. Ma Sire Raul pretende che Federigo cercasse col fuscellino i pretesti di prenderla contro il popolo di Milano, perchè pensò la [721] di lui politica che se metteva al basso i Milanesi, gli altri popoli tutti avrebbono chinata la testa. Dovette essere un accidente quel cammino per paese desertato dalle guerre precedenti. E che non venisse da cabala de' Milanesi, lo fecero essi conoscere, perchè saputa l'ira di Federigo, andarono tosto a dirupar la casa di Gherardo Negro, l'uno di que' consoli, per cui balordaggine si può credere che succedesse quell'inconveniente.

Comunque sia, Federigo incominciò le ostilità contro Milano. Arrivato a Landriano, fece restituire a Pavia i suoi prigioni; ma i milanesi prigioni fece legarli alle code de' cavalli, alcuni de' quali si sottrassero poi colla fuga, ed altri si riscattarono con danaro. Arrivò alla terra di Rosate, dove erano di presidio cinquecento cavalli milanesi; e volendovi entrar per forza i Tedeschi affamati, venne ordine da Milano a quella guarnigione e a tutti gli abitanti di uscirne. Entrativi poscia i Tedeschi, dopo il sacco bruciarono tutta la terra. Passò il Ticino su quel di Novara, e bruciò i ponti che vi aveano fatto fabbricare i Milanesi. Mentre era in Biagrasso, comparvero i deputati di Milano per pagare le quattro mila marche accordate; ma Federigo le rifiutò e strapazzò i messi, con trattare il lor popolo da gente di mala fede ed ingannatrice. Aggiunse di più, che non isperassero da lui accordo alcuno, finchè non avessero rimesse in libertà le città di Como e di Lodi. E per conto di Lodi, aveva egli già inviato un suo cappellano colà per farsi giurare fedeltà. Risposero que' cittadini di non poter farlo senza il beneplacito di Milano, a cui erano sudditi. Spedirono poscia colà a chiederne licenza, e questa non fu negata dai Milanesi. Continuò il suo viaggio Federigo con distruggere da' fondamenti tre terre di giurisdizion di Milano, cioè Galliate, che era dell'arcivescovo, Trecate e Mumma. Sire Raul scrive: Castra et villas de Monti, et Trecate. Trovasi nondimeno presso di lui [722] turris de Mommo. In que' contorni celebrò Federigo la festa del Natale con grande allegria, mentre gl'innocenti abitatori di quelle terre piagneano, detestando la di lui crudeltà. Era col re Federigo calato in Italia anche il duca Guelfo, e sappiamo dalla Cronica di Weingart [Chron. Weingart., apud Leibnitium, tom. 1 Scriptorum Brunsvic.] che vennero a trovarlo legati de omnibus civitatibus Tusciae, necnon ex omnibus civitatibus Spoleti, munera condigna offerentes, et subjectionem voluntariam promittentes. Prese egli anche possesso di tutte le castella e beni della fu contessa Matilda, nè apparisce che il pontefice ne facesse alcuna querela [Robert. de Monte, Append. ad Sigebert.]. Vennero in quest'anno i Mori mossamuti al castello di Pozzuolo, e gli diedero il sacco; ma ne pagarono la pena, perchè accorsa la flotta del re Guglielmo, ne prese molti, e sterminò il resto colle spade. Chiuderò le presenti notizie con una spettante alla casa d'Este. Per l'eredità del comune stipite, cioè del marchese Alberto Azzo II, erano state fin qui liti ed anche guerra [Antichità Estensi, p. I, cap. 39.], di cui fa menzione la Cronica di Weingart, fra gli Estensi di Germania duchi di Baviera e Sassonia, e gli Estensi d'Italia marchesi. Per terminar sì fatte differenze, Arrigo il Leone duca di Sassonia, venuto in quest'anno col re Federigo in Italia, trovandosi sul Veronese nella villa di Povegliano nel dì 27 di ottobre, concedette a titolo di feudo tutte le sue ragioni sopra Este, Soresino, Arquada e Merendola ai marchesi Bonifazio, Folco II, Alberto ed Obizzo, dall'ultimo de' quali discende la serenissima casa d'Este, che già ne erano in possesso, facendo lor fine di tutte le offese fatte da essi e dai lor maggiori alla linea de' duchi. Con questa concordia i marchesi tennero da lì innanzi pacificamente quegli Stati. Di Rovigo e d'altri Stati, ch'essi parimente godeano, non si vede parola in questo [723] accordo. Il medesimo accordo fecero dipoi i marchesi con Guelfo duca di Spoleti e marchese della Toscana nell'anno 1160.


   
Anno di Cristo MCLV. Indizione III.
Adriano IV papa 2.
Federigo I re 4, imperad. 1.

Verso la quaresima venne Guglielmo re di Sicilia a Salerno: il che pervenuto a notizia di papa Adriano, gli spedì Arrigo cardinale de' santi Nereo ed Achilleo per affari che noi non sappiamo [Romuald. Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Italic.]. Perchè nella lettera a lui scritta non gli diede il papa il titolo di re, ma quello solamente di signor della Sicilia, se l'ebbe tanto a male, che rimandò il legato senza voler trattare con lui: cosa che turbò forte la corte romana. Nè contento di ciò, prima di tornarsene in Sicilia, diede ordine ad Asclintino o Anscotino suo cancelliere, dichiarato governator della Puglia, di muovere guerra allo Stato ecclesiastico. Portossi costui all'assedio di Benevento, e ne devastò i contorni. Trovaronsi ben animati alla difesa que' cittadini, anzi avendo presa diffidenza di Pietro loro arcivescovo, l'uccisero. Fu questo assedio un suono di tromba che eccitò alla ribellione molti de' baroni di Puglia, o perchè gente facile alla rivolta, o perchè sotto mano commossi dalla corte di Roma. Alcuni d'essi accorsero alla difesa di Benevento, altri abbandonarono l'armata del re: il che fece sciogliere quell'assedio. Entrò poscia [Anonymus Casin., tom. 5 Rer. Ital.] il cancelliere nella Campania romana; diede alle fiamme Ceperano, Babuco, Todi e i luoghi vicini; e, nel tornare indietro, fece smantellar le mura d'Aquino, di Pontecorvo e d'altre terre, e cacciò via tutti i monaci, a riserva di dodici. Per queste ostilità papa Adriano fulminò la scomunica contra del re Guglielmo [Card. de Aragon., in Vit. Adrian. IV.]: [724] il che maggiormente servì ad accrescere la ribellion de' baroni di Puglia. Per le istanze del clero i Romani fecero istanza che si levasse l'interdetto da Roma, promettendo di cacciarne Arnaldo da Brescia. Tornò dunque il papa in Roma, e andò ad abitare al palazzo lateranense. Sul principio di quest'anno marciò il re Federigo coll'esercito suo a Vercelli e a Torino [Otto Frisingens., de Gest. Frider. I.], senza che resti memoria di quanto egli ivi operasse. Passato il Po verso quelle parti, venne alla volta della grossa terra del Cairo e della città d'Asti. Sempre era seco Guglielmo marchese del Monferrato, con inculcar le sue doglianze contra que' popoli per torti a lui fatti. E perciocchè questi non aveano ubbidito ai precetti lor fatti dal re, furono posti al bando come ribelli. Arrivato Federigo al Cairo, trovollo voto di abitatori, ma pieno di vettovaglie. Dopo varii giorni di posata in quel luogo, fece atterrarne le torri, che non erano poche, e tutta la terra diede in preda al fuoco. Eransi anche ritirati gli Astigiani coi lor nobili ad un forte loro castello, creduto Novi dall'Osio, e Anone dal signor Sassi [Saxius, in Notis ad Ottonem Morenam.]. Diede Federigo quella città al marchese di Monferrato, che ne fece smantellar molte torri e una parte delle mura. Aggiungono gli Annali di Asti [Annal. Astens., tom. 11 Rer. Ital.] che quasi tutta quella città fu consegnata alle fiamme. Non cessavano intanto i Pavesi d'incitar Federigo contro la città di Tortona [Otto Morena, Hist. Laudens., tom. 6 Rer. Italic.], allegando varii aggravi ricevuti da que' cittadini. Era nondimeno il reato principale de' Tortonesi l'aver eglino lega coi Milanesi, dai quali ancora animati alla difesa ed anche sovvenuti, benchè Federigo li citasse a comparire, non vennero. Egli dunque intraprese l'assedio di quella città nei primi giorni di quaresima, nel dì 13 di febbraio dell'anno presente. Seco era [725] Arrigo estense-guelfo duca di Baviera e Sassonia, che aveva condotto in sua parte un grosso nerbo di cavalleria; e a quella impresa concorsero ancora colla lor gente i Pavesi e Guglielmo marchese di Monferrato. Elegantemente si vede descritto da Ottone vescovo di Frisinga questo lungo assedio sostenuto con vigore da quel popolo, a cui si era unito anche in tale congiuntura Obizzo Malaspina marchese, potente signore in quelle parti e in Lunigiana. I mangani e le petriere, gli archi, le balestre e le mine furono in un continuo esercizio; ma con tutto lo sforzo dei nemici non sarebbe caduta quella forte città, se la penuria dell'acqua e del pane non l'avesse finalmente astretta a capitolare. Federigo, ansioso di non perdere più tempo, perchè gli premeva forte il viaggio di Roma affine di ricevere la corona imperiale, accordò a tutti gli abitanti l'uscita libera con quanto poteano portar seco. Entrò egli dipoi coll'esercito nell'abbandonata città circa il dì 4 d'aprile (Sire Raul [Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.] scrive nel dì 18 di quel mese), la quale, dopo un sacco generale, tutta fu data in preda alle fiamme. Se vogliam credere ad esso Sire Raul, avea promesso Federigo di lasciarla intatta nel suo stato; ma non fu mantenuta la parola, perchè prima i Pavesi aveano sborsata gran somma di danaro con patto della distruzion della medesima, se cadeva nelle mani del re. Bruno abbate di Chiaravalle di Bagnolo, che avea trattata la resa con quella promessa, veggendosi burlato, fama fu che pel dolore da lì a tre giorni mancasse di vita. Lasciarono i Pavesi un corpo di lor gente, che altro per otto giorni non fece che rovinar dai fondamenti le case non affatto atterrate dal fuoco.

Nel dì 17 di aprile, giorno di domenica, Federigo invitato da' Pavesi alla lor città, quivi, per attestato di Ottone [726] Frisingense [Otto Frisingensis, de Gest. Friderici I, lib. 2, cap. 21.], in ecclesia sancti Michælis, ubi antiquum regum longobardorum palatium fuit, cum multo civium tripudio coronatur. Galvano Flamma, Buonincontro Morigia, ed altri scrittori milanesi lasciarono scritto che Federigo fu coronato in santo Ambrosio di Milano, oppure in Monza, chi dice nell'anno 1154, e chi nel presente 1155. Senza esaminar meglio questa loro opinione, anche io la riferii nel mio trattato de corona ferrea [Anecdot. Latin., tom. 2.] stampato nell'anno 1698. Ora conosco essere una frottola di questi storici. La nimicizia insorta fra lui e i Milanesi non gli permise di visitar Milano o Monza, e molto meno di ricevere la corona del ferro dalle mani di Uberto arcivescovo. Anzi, siccome osservò il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 12.], e dopo lui il signor Sassi [Saxius, in Notis ad Sigonium.], neppur si dee credere che seguisse la coronazione ed unzione di lui in Pavia. Il coronatur del Frisingense unicamente vuol dire ch'egli nella basilica di san Michele si fece vedere colla corona in capo e lo scettro in mano. Venne Federigo a Piacenza, città, che dopo avere nel dì 26 d'aprile ricevuto il soccorso della cavalleria e fanteria di due porte di Milano, s'era ben preparata alla difesa. Questo apparato e la fretta di Federigo esentarono da ulteriori molestie quella città. Celebrò Federigo vicino a Bologna la festa della Pentecoste, e il Ghirardacci [Ghirardacci, Istor. di Bologna, lib. 3.] rapporta un suo diploma dato III idus maii juxta Rhenum, in cui ordina ai Bolognesi di rifare il castello di Medicina, da essi distrutto. Di là passò in Toscana, dove comandò ai Pisani d'armare la lor flotta contra di Guglielmo re di Sicilia, e diede l'arcivescovato di Ravenna ad Anselmo vescovo di Avelberg, stato suo ambasciatore a Costantinopoli, con investirlo, secondo il solito, dell'esarcato di Ravenna. Camminava a gran giornate egli e l'esercito suo verso Roma, [727] e questa sua fretta diede non poca apprensione a papa Adriano [Cardin. de Aragon., in Vit. Adriani IV.], che per anche non sapeva con qual animo venisse questo principe, e principe a cui costava poco l'eccidio della città. Per consiglio di Pietro prefetto di Roma e di Ottone Frangipane, gli mandò incontro, per concertar prima le cose, tre cardinali, che trovarono Federigo in San Quirico. Fra le altre domande che questi gli fecero, vi fu quella di avere in mano Arnaldo da Brescia, che i visconti o conti di Campania aveano tolto alle genti del papa, e il teneano in un lor castello, onorandolo qual profeta. Non tardò Federigo a spedir gente, che prese uno di quei visconti, il quale, per liberarsi, consegnò quell'eretico ai cardinali. Messo costui nelle forze del prefetto di Roma [Otto Frisingens., de Gest. Friderici I, lib. 2, cap. 21.], fu impiccato e bruciato, e le sue ceneri sparse nel Tevere, acciocchè la stolida plebe non venerasse il corpo di questo infame. Andarono innanzi e indietro ambasciatori, prima che seguisse l'accordo fra il papa e l'imperadore; ma finalmente Federigo promise e giurò di conservar tutti gli onori e stati al pontefice e ai cardinali; e il pontefice, di coronarlo. Giunto Federigo nel territorio di Sutri, si attendò coll'esercito nel Campo grasso. Colà venne da Nepi papa Adriano, incontrato prima da molti principi tedeschi; e quando fu per ismontare al padiglione reale, aspettò indarno che Federigo gli venisse a tenere la staffa. Fu cagione questo accidente che i cardinali spaventati se ne fuggissero a Città Castellana, lasciando con pochi familiari il pontefice, che smontato si mise sul faldistorio preparato. Allora comparve Federigo, e baciatigli i piedi, s'accostava per ricevere il bacio di pace; ma il papa intrepidamente gli rispose, che non avendo esso re usata quella riverenza che i di lui predecessori aveano praticata coi romani pontefici, non volea baciarlo. Era papa Adriano di animo grande e forte in [728] sostenere i suoi diritti. Non la cedeva a lui Federigo, e pretendea di non essere tenuto a questo. Durò il dibattimento di questo punto per tutto il dì seguente. Ma fatto conoscere a Federigo che tale era il cerimoniale e costume con varii esempli, egli si arrendè; e passato a Nepi, dove era la tenda del papa, che gli veniva incontro, sceso da cavallo, andò a tenere la staffa ad esso pontefice, che poi lo ammise al bacio di pace; e di là insieme s'inviarono alla volta di Roma. Di questo litigio ho io rapportato altrove [Antiquit. Ital., Dissert. IV. pag. 117.] un documento. Aveano anche i Romani prima spediti a Federigo i loro ambasciatori [Otto Frisingensis, lib. 2, cap. 22.] per rallegrarsi del suo arrivo, offerirgli la lor suggezione, chiedere la confermazion del senato e di molti pretesi privilegii, e inoltre cinque mila lire per la coronazione; e soprattutto che tornasse il governo temporale di Roma, come era ne' secoli vecchi, con esclusione de' papi. All'alterigia e baldanza con cui parlarono i Romani, non potè stare a segno la sofferenza di Federigo. Rispose loro di maravigliarsi che fossero venuti con pensiero di dar legge a chi siccome principe e sovrano di Roma doveva egli imporle ad essi. Esaltò la potenza e il diritto degl'imperadori franchi e tedeschi, e rigettò le lor proposizioni. Participato poi l'affare al papa, fu consigliato a non fidarsi di quel popolo, e di spedire il più presto possibile ad impossessarsi di San Pietro e della città leonina: parere che tosto fu e con felicità eseguito.

Nella mattina del dì seguente, giorno 18 di giugno, solennemente marciò Federigo a San Pietro, accolto dal papa ai gradini della basilica, e dopo aver prestato i soliti giuramenti, cantata che fu la messa, ricevette dalle mani del pontefice la corona imperiale cogli altri ornamenti, e con alte acclamazioni di tutta l'armata. Ma i Romani, che videro fatta la festa senza di loro, come impazziti per la rabbia, dopo aver tenuto consiglio in Campidoglio, [729] diedero all'armi, e circa il mezzogiorno furiosamente uscirono di città, e cominciarono verso San Pietro a far man bassa contra qualunque Tedesco che incontravano. Corsero anche i Tedeschi all'armi, e si diede principio ad una terribil mischia, cedendo ora gli uni ora gli altri; e questa durò fin verso la notte, ma colla peggio de' Romani, de' quali circa mille rimasero sul campo, innumerabili feriti, dugento prigioni: il resto si salvò nella città. Afflittissimo per questa tragedia il papa, tanto si adoperò colle preghiere, che fece rilasciar i prigioni al prefetto di Roma. Nel dì seguente egli e l'imperadore, giacchè mancava loro la sussistenza de' viveri, ritiratisi a Tivoli, quivi diedero riposo all'esercito; e dipoi, venuta la festa di san Pietro, la celebrarono solennemente a Ponte Lucano. Missam Adriano papa celebrante, imperator coronatur, dice il Frisingense [Otto Frisingens., lib. 2, cap. 24.]: cioè vi assistè Federigo colla corona in capo, il qual passo dichiara l'altro sopraddetto di coronatur in Pavia. L'autore della Vita di Adriano IV [Cardinal. de Aragon., in Vit. Adrian. IV.] scrive che in tal occasione: Pontifex et Augustus ad missarum solemnia in die illa pariter coronati processerunt. Crescendo poscia i caldi e le malattie de' soldati, Federigo, lasciato il papa, come si può credere, assai deluso, dopo avergli lasciato il dominio di Tivoli, salvo in omnibus jure imperiali, si rimise in viaggio alla volta della Lombardia. Giunto a Spoleti, nè potendo ottener vettovaglia nè contribuzione da quel popolo che avea anche ritenuto prigione il conte Guido Guerra, il più ricco fra i baroni della Toscana, già inviato da esso Augusto al re di Sicilia, senza volerlo rendere mosse l'oste contra di loro. Uscirono baldanzosi gli Spoletini ed attaccarono la zuffa; ma furono così ben respinti ed incalzati, che con esso loro alle spalle entrarono nella città anche i Tedeschi vittoriosi. Andò la sconsigliata città a sacco, e poi ne fu fatto un miserabil falò: gastigo barbarico [730] e sempre detestabile di questi tempi. Nella Vita di sant'Ubaldo [Vit. S. Ubaldi, in Actis Sanct., ad diem 16 maii.] vescovo di Gubbio è scritto che Federigo passò per quella città, e benchè istigato dai castellani circonvicini a distruggerla, pure per intercession del santo prelato, nessun male le fece. Potrebbe dubitarsi del suo arrivo colà, sapendosi ch'egli nel viaggio arrivò ad Ancona, città allora dipendente dall'imperador de' Greci, dove dai di lui ambasciatori fu visitato e riccamente regalato. Passò poscia il Po a San Benedetto di Polirone, e pervenne nel distretto di Verona. In quella città pubblicò la sentenza contra de' Milanesi, per aver essi distrutte le città di Como e di Lodi [Antiquit. Italic., Dissert. XXVII, pag. 591.], privandoli del diritto della zecca, con trasferirlo alla città di Cremona sua fedele, siccome ancora di tutte l'altre regalie godute in addietro da esso popolo di Milano. Ebbe poscia nel passaggio dell'Adige a dolersi de' Veronesi pel ponte malamente fatto su quel fiume; e alla Chiusa trovò una man di assassini che gli vietavano il passo, richiedendo regali e pagamento per chiunque volesse passare. Fece Federigo salire una brigata de' suoi sull'erto monte, e faticar tanto con rotolar pietre, che avendo snidati da quelle caverne quei malandrini, gli ebbe nelle mani, e di loro fece far la giustizia che meritavano. Così sano e salvo se ne tornò in Germania l'Augusto Federigo, con aver ottenuta la corona, e nulla operato in favore di chi l'avea coronato.

Finita questa scena, un'altra ne ebbe principio in Puglia. Avrebbe desiderato esso imperadore, allorchè fu in Roma, di portar la guerra in quelle parti; ma l'esercito suo, in cui si vedeano cader malati tanti di loro, troppa ripugnanza ne avea dimostrato. Pertanto i baroni fuorusciti altro far non poterono se non impetrar delle patenti da esso imperadore, come inviati da lui a que' popoli. Ricorsero ancora a papa Adriano, che promise [731] loro ogni aiuto, anzi fu egli il principal promotore di quelle ribellioni, come accennano Romoaldo Salernitano [Romualdus Salern., in Chron.], Guglielmo Tirio [Guillelmus Tyrius, lib. 18, cap. 2. Cardin. de Aragon., in Vit. Adrian. IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital. Anonym. Casinens., in Chron.] ed altri. Fra i principali che armati congiurarono contra del re Guglielmo, vi fu Roberto già principe di Capoa, Andrea conte di Rupecanina, e Riccardo dall'Aquila. Anche Roberto di Bissavilla conte di Loritello, benchè cugino germano del re Guglielmo, entrò in quella congiura, anzi ne fu il capo, dacchè il perfido ammiraglio Maione, favorito del re, l'avea messo in disgrazia di lui [Hugo Falcandus, in Chron.]. Mossero pertanto questi baroni una fiera sollevazione in Puglia contra del re Guglielmo. Al principe Roberto riuscì di ricuperare Capoa col suo principato; all'altro Roberto di prendere Suessa, Tiano e la città di Bari, il cui castello fece egli spianare. Il conte Andrea s'impadronì del contado d'Alife. Aveano essi baroni sul principio tenuto trattato con Manuello imperadore di Costantinopoli, per tirarlo in questa guerra: occasione da lui sospirata molti anni addietro [Romualdus Salernit., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.]. Vi entrò egli dunque a braccia aperte, e spedì in Puglia Michele Paleologo, quel medesimo che in Ancona fece l'ambasciata all'imperadore Federigo, con gran somma di danaro al conte Roberto e agli altri baroni, acciocchè assoldassero gente e facessero guerra al re Guglielmo. Mandò inoltre una flotta comandata da un Sebasto, la quale s'impossessò di Brindisi, a riserva del castello. Tutte le altre città marittime s'accordarono coi Greci e col suddetto Roberto conte di Loritello. In somma si sostennero in sì fiera tempesta alla divozione del re Guglielmo solamente Napoli, Amalfi, Surrento, Troia, Melfi, e poche altre città e castella forti. Per accalorar maggiormente questa impresa [732] mosse da Roma papa Adriano [Cardin. de Aragon., in Vit. Adriani IV.], accompagnato da molte schiere d'armati, e circa la festa di san Michele di settembre arrivò a san Germano, dove Roberto, di nuovo principe di Capoa, e gli altri baroni gli giurarono fedeltà ed omaggio. Di là passò a Benevento, e per tutte quelle parti fu riconosciuta la di lui sovranità. Intanto dugento cavalli milanesi con dugento fanti, appena partito da Piacenza Federigo [Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.], entrarono nella distrutta città di Tortona, e vi si afforzarono il meglio che poterono. V'accorsero i Pavesi colla loro armata [Otto Morena, Hist. Landens., tom. 6 Rer. Italic.]; ma o perchè non si attentarono, o perchè il marchese di Monferrato per suoi segreti fini li dissuase, se ne tornarono indietro colle pive nel sacco. Ciò udito dai Milanesi, che dianzi aveano richiamato da Tortona quel corpo di gente senza essere stati ubbiditi, sentendosi animati a soccorrere una città che per loro amore s'era sacrificata, nacque in loro gran voglia di rifabbricarla, e a questo fine spedirono colà le genti di Porta Ticinese e Vercellina, che si diedero a rimettere in piedi le mura. Successivamente vi mandarono i soldati di due altre porte. Ma eccoti nel dì 25 di maggio l'esercito pavese venire a trovarli. Uscirono in campagna i Milanesi, e si affrontarono co' nemici; ma infine toccò loro la mala fortuna, e il dare alle gambe, con lasciare in preda de' Pavesi tutto il loro equipaggio, oltre a molti uccisi o presi. In questo fatto d'armi coi Milanesi si trovò lo stesso Ottone Morena istorico. Nel dì seguente diedero i Pavesi un fiero assalto alla città, e v'entrarono anche due bandiere d'essi, ma furono respinti con bravura. Essendo poi tornati a Pavia i nemici, attesero i Milanesi a rifar le mura e le fosse di Tortona, tutte alle loro spese. E questo passava in Italia. Dacchè fu in Germania l'Augusto Federigo [Otto Frisingens., de Gest. Frider. I, lib. 2, cap. 29.], [733] alla metà d'ottobre tenne una gran dieta in Ratisbona, dove diede il possesso della Baviera ad Arrigo Leone estense-guelfo duca di Sassonia, e ammise all'udienza Tebaldo vescovo di Verona, inviato dalla sua città a scusarsi ed umiliarsi. Nè vi andò indarno. In gratiam, dice Ottone da Frisinga, recepta est Verona. Nam et magnam pecuniam dedit ac militiam, quam habere posset, contra Mediolanenses ducere sacramento firmavit.


   
Anno di Cristo MCLVI. Indizione IV.
Adriano IV papa 3.
Federigo I re 5, imperad. 2.

Nella primavera di quest'anno l'imperador Federigo celebrò in Wirtzburg le sue nozze con Beatrice figliuola di Rinaldo conte di Borgogna [Otto Frisingens., de Gest. Friderici I, lib. 2, cap. 30.], che gli portò in dote molti Stati. Vennero in questi tempi gli ambasciatori del greco Augusto Manuello Comneno, ma non furono ammessi. Curioso è il motivo che ci vien qui narrato da Ottone Frisingense, per cui svanì tutta la precedente amicizia e confidenza che passava tra i due imperii occidentale ed orientale. Sia verità o bugia, fu rappresentato a Federigo che i Greci, allorchè egli passò da Ancona, aveano destramente colta una lettera sigillata col sigillo d'esso imperador Federigo (quasichè niuna di queste lettere si conservasse nella corte di Costantinopoli), e s'erano serviti di quel sigillo applicato ad altra carta, fingendo che Federigo avesse conceduta al greco Augusto la Campania e la Puglia, per tirar dalla sua i popoli di quelle contrade. Con questa frode e con gran profusione d'oro guadagnati non pochi baroni della Puglia, s'erano fatti padroni di un gran tratto di paese, e specialmente di Bari capital della provincia, dove era morto Michele Paleologo, condottiere di quella impresa. Corse anche voce in Germania che Guglielmo re di Sicilia fosse o mancato di vita o [734] impazzito. E infatti abbiamo da Ugone Falcando [Hugo Falcandus, in Chron.] che Guglielmo nell'anno addietro, per artifizio del suo disleale favorito ed ammiraglio Maione, se ne stette come chiuso nelle stanze del suo palazzo in Palermo, senza dar udienza a chi che sia, fuorchè ad esso Maione e ad Ugone arcivescovo di quella città. Ora, benchè Federigo odiasse non poco il re Guglielmo, pure più rabbia in lui cagionava il vedere che i Greci, potenza maggiore e capace di far maggiori progressi in Italia, avessero usurpata la Puglia; e però, chiamandoli traditori, già si disponeva a tornare in Italia per muovere guerra contra di loro. Ma dacchè intese che Guglielmo era vivo e sano di mente, e che altra faccia aveano presa gli affari di Puglia, siccome dirò fra poco, smontò da quel disegno, e solamente rivolse i suoi pensieri contra de' Milanesi, che erano in sua disgrazia, con fare i preparamenti necessarii per tale impresa.

Ora è da sapere che, per attestato del suddetto Ugone Falcando, molte trame furono fatte dal menzionato Maione contra di non pochi baroni della Sicilia, i quali giunsero a ribellarsi con gran confusione di cose in Palermo e in altri luoghi. Servirono tali sconcerti a svegliare l'addormentato Guglielmo, che non arrivò già per questo a conoscere qual mostro egli tenesse appresso nella persona di Maione. Risaputo bensì finalmente il grave sfasciamento de' suoi affari in Puglia, si applicò tosto al riparo. Il suo primo tentativo fu quello di rimettersi, se potea, in grazia di papa Adriano [Cardin. de Aragon., in Vita Adriani IV.], e tanto più perchè si venne a sapere che l'imperador greco facea proposizioni ingorde di danaro al medesimo pontefice per ottener tre città marittime, con promettere ancora di dargli tali forze di gente e d'oro da poter cacciare Guglielmo dalla Sicilia. Venuto dunque a Salerno, inviò al papa il vescovo eletto di Catania ed altri della sua corte, con plenipotenza di far pace colla Chiesa [735] romana, offerendole il danaro esibito dai Greci, tre terre per li danni dati, omaggio ed ubbidienza, e la libertà delle chiese. Non prestò fede a tutta prima il pontefice Adriano a queste proposizioni, e per chiarirsene inviò a Salerno Ubaldo cardinale di santa Prassede. Accertossi egli tutto essere vero; e il papa, trovandovi del vantaggio, inclinava forte alla concordia, se non che gli si oppose la maggior parte de' cardinali che macinavano nella lor mente delle inusate grandezze, in maniera che disturbarono tutto il negoziato. Ebbero bene a pentirsi della lor ingordigia, e a provare che chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia verrà esaltato. Il re Guglielmo, messo insieme un poderoso esercito per mare e per terra [Romualdus Salernit., in Chron. Anonym. Casinens., in Chron. Johann. de Ceccano.], andò alla volta di Brindisi, occupato da' Greci, da dove si ritirò Roberto conte di Loritello, con venire a Benevento. Si teneva tuttavia il castello pel re. Assediata quella città, i Greci co' Pugliesi uscirono in campo aperto, e diedero battaglia. Durò un pezzo dubbioso il combattimento; ma in fine la vittoria si dichiarò in favore di Guglielmo. Molta nobiltà de' Greci fu ivi presa ed inviata nelle carceri di Palermo; gran bottino di danaro e di navi fu fatto, e riacquistata la città nel dì 28 di maggio. A non pochi ancora de' baroni pugliesi ribelli toccò la disgrazia di cader nelle mani del re. Tolta fu ad alcuni la vita, ad altri la vista. Ciò fatto, marciò alla volta di Bari col vittorioso esercito. Uscirono i cittadini ad incontrarlo senz'armi e in abito di penitenza, chiedendo misericordia. Altro non ottennero al re, troppo sdegnato per lo smantellamento della sua cittadella, se non spazio di due giorni per uscir della città con quanto poteano asportare. Dopo di che spianate prima le mura, fu quella dianzi sì superba, sì popolata e ricca città ridotta in un mucchio di pietre, e diviso il suo popolo in varie ville. Un sì lagrimevole spettacolo fece che non tardarono le altre città della Puglia perdute a rimettersi [736] in grazia e sotto il dominio del re Guglielmo, il quale continuò il viaggio sino a Benevento, dove i più de' baroni suoi ribelli s'erano rifugiati.

Tal paura mise il suo avvicinamento a Roberto principe di Capoa, dimorante in essa città di Benevento, che non credendosi sicuro, prese la fuga. Ma nel passare il Garigliano, tesogli un agguato da Riccardo dell'Aquila conte di Fondi, fu preso e poi consegnato a Guglielmo. Con questo tradimento Riccardo rientrò in grazia del re; e Roberto inviato prigione a Palermo, ed abbacinato, finì poco appresso nelle miserie la sua vita. S'interpose il pontefice Adriano, che si trovava in Benevento anche egli, per salvare Roberto conte di Loritello, Andrea conte di Rupecanina, ed altri baroni che erano presso di lui chiusi in quella città; ed il re si contentò di non molestarli, purchè uscissero fuori del regno: grazia di cui non tardarono a prevalersi. E allora fu che esso pontefice, chiarito delle umane vicende, e pensando al suo stato, mandò egli stesso a ricercar quella pace, per cui pochi mesi prima era stato supplicato. Inviò dunque i cardinali Ubaldo di santa Prassede, Giulio di san Marcello e Rolando di san Marco al re Guglielmo, per avvertirlo da parte di san Pietro di non offendere Benevento, di soddisfare per li danni dati, e di conservare i suoi diritti alla Chiesa romana. Furono essi benignamente accolti dal re, intavolarono il trattato della pace, e dopo molti dibattimenti fu essa conchiusa. Mediatore fra gli altri ne fu Romoaldo arcivescovo di Salerno, quel medesimo che ci ha lasciata la sua Storia, da me data alla luce. Rapporta il cardinal Baronio [Baron., Annales, ad hunc annum.] il diploma del re Guglielmo, che contiene le condizioni dell'accordo, e con esso s'ha a confrontare ciò che ne scrivono alcuni moderni. Si obbligò il papa di concedere al re l'investitura del regno di Sicilia, del ducato di Puglia, del principato di Capoa, Napoli, Salerno e Melfi, siccome ancora della [737] Marca e dell'altro paese ch'egli dovea avere di qua da Marsi. E il re si obbligò a prestargli omaggio contro ogni persona, e il giurargli fedeltà, con pagare ogni anno il censo di seicento schifati per la Puglia e Calabria, e cinquecento per la Marca: cose tutte eseguite dipoi nella chiesa di san Marciano fuori di Benevento, dove alla presenza di molta nobiltà e popolo diede Guglielmo il giuramento a' piedi del papa, e ricevette l'investitura. Sotto il nome di Marca è da vedere che paese fosse allora disegnato. Forse quella di Chieti, non osando io spiegar ciò della marca di Camerino, che è la stessa con quella d'Ancona e di Fermo. Confermò papa Adriano IV con sua bolla, riferita parimente dal cardinal Baronio, la concordia suddetta; concordia nondimeno che dispiacque ad alcuni de' cardinali, e molto più all'imperador Federigo, che si vedea precluso con ciò l'adito alla meditata guerra di Puglia. Di grandi regali in oro, argento e drappi di seta lasciò il re Guglielmo al papa, ai cardinali e a tutta la corte pontificia [Cardin. de Aragon., in Vita Eugenii IV.], e poi se ne andò. Da Benevento venne il papa alla volta di Roma, con passare per Monte Casino e per le montagne di Marsi. E perciocchè la città d'Orvieto, per lunghissimo tempo sottratta alla giurisdizione della Chiesa romana, era tornata alla sua ubbidienza, volle il buon pontefice consolar quei popoli colla sua presenza. Con singolar onore quivi ricevuto, alla venuta poi del verno passò alla volta dell'ameno e popolato castello di Viterbo, e di là a Roma, dove pacificamente alloggiò nel palazzo lateranense. Nell'anno presente i Milanesi, ricevuto qualche rinforzo di gente da Brescia, continuarono la guerra contro ai Pavesi [Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.]. Presero loro varii luoghi, e fra gli altri il forte castello di Ceredano, non avendo osato i Pavesi e Novaresi, benchè usciti in campagna con tutto il loro sforzo, di venire ad alcun fatto d'armi, nè di tentar di soccorrere quella terra, che poi [738] fu spianata. Andarono ancora i Milanesi nella valle di Lugano, e suggettarono circa venti di quelle castella. Seguì ancora un conflitto fra essi e i Pavesi, in cui ebbero la peggio gli ultimi. Studiaronsi in questi tempi i Piacentini [Annales Placentini, tom. 16 Rer. Ital.] di fortificar la loro città con buone mura, torri e fosse, ben prevedendo i malanni che sovrastavano alla Lombardia per la ribellion de' Milanesi. Intanto diede fine a' suoi giorni Domenico Morosini doge di Venezia [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], in cui luogo fu sostituito Vitale Michele II, il quale non tardò a far pace coi Pisani. Nell'anno presente ancora, se è da prestar fede alla Cronica di Jacopo Malvezzi [Malveccius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.], i Bresciani, per cagion delle castella di Volpino e Ceretello, mossero guerra ai Bergamaschi. Vennero alle mani coll'esercito d'essi nel mese di marzo vicino a Palusco, e insigne vittoria ne riportarono col far prigioni due mila e cinquecento Bergamaschi, e prendere il loro principal gonfalone, che, portato nella chiesa de' santi Faustino e Giovita, ogni anno nella gran solennità si spiegava. All'incontro fecero i Genovesi pace e concordia con Guglielmo re di Sicilia [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Ital.], e lor ne venne molto vantaggio ed onore.


   
Anno di Cristo MCLVII. Indizione V.
Adriano IV papa 4.
Federigo I re 6, imperad. 3.

Dappoichè papa Adriano avea fatte coll'Augusto Federigo tante doglianze di Guglielmo re di Sicilia, ed era restato con lui in concerto di fargli guerra; cosa che Federigo non avea potuto eseguire dopo aver presa la corona imperiale a cagion delle malattie entrate nell'esercito suo; restò forte esacerbato esso imperadore all'udire nell'anno precedente la pace data dal papa a Guglielmo con accordargli il titolo di re, senza participazione alcuna [739] ed assenso suo. Adirato perciò fin da allora, cominciò a far conoscere il suo mal talento contro d'esso Adriano col difficultare agli ecclesiastici del regno germanico di passare alla corte pontificia per ottener benefizii o per altri affari. Mosso da questa non picciola novità Adriano spedì nell'anno presente due cardinali, cioè Rolando cancelliere e Bernardo del titolo di san Clemente, alla corte cesarea [Radevicus, de Gestis Frider. I, lib. 1, cap. 8.]. Correva il mese d'ottobre, e Federigo Augusto s'era portato a Besanzone per farsi riconoscere padrone del regno della Borgogna, siccome in fatti ottenne, avendo in persona o per lettere prestata a lui ubbidienza gli arcivescovi di Lione, Vienna, Arles, i vescovi di Valenza, d'Avignone e d'altre città. Era concorsa a Besanzone gran foresteria per veder l'imperadore, e per affari. V'erano Romani, Pugliesi, Veneziani, Lombardi, Franzesi, Inglesi e Spagnuoli. Furono ricevuti onorevolmente i legati apostolici, i quali presentarono a Federigo una lettera del papa, conceputa con gravi risentimenti, perch'esso imperadore non avesse finora gastigato quegli scellerati di Germania che aveano preso e messo in prigione Esquilo arcivescovo di Lunden in Isvezia (e non già di Londra, come immaginò il Baronio) nel ritorno di Roma, con ricordargli appresso la prontezza con cui esso pontefice gli avea conferita l'imperial corona; del che non era pentito, nè si pentirebbe, quando anche majora beneficia excellentia tua de manu nostra suscepisset. Letta la lettera, e spiegata a chi non sapeva il latino, si alzò un gran bisbiglio nell'assemblea a cagione de' termini forti in essa adoperati, ma principalmente per quella parola di beneficia, che fu presa in senso rigoroso, quasichè adoperata nel senso de' legisti, presso i quali significa feudo, volesse il pontefice far sapere che l'imperadore dalle mani del papa riceveva in feudo l'imperio. Diede motivo a tale interpretazione l'aver veduto in Roma una pittura, rappresentante nel palazzo [740] lateranense l'imperador Lottario ai piedi del papa, con questi due versi sotto:

REX VENIT ANTE FORES, IVRANS PRIVS VRBIS HONORES,

POST HOMO FIT PAPAE, SVMIT QVO DANTE CORONAM.

Quell'homo vuol dire vassallo. Ne fu fatta doglianza collo stesso papa Adriano che avea promesso di farlo cancellare. Uscirono parole calde su questo nell'assemblea, e s'aumentò il fuoco, perchè dicono avere risposto uno dei legati: A quo ergo habet, si a domino papa non habet imperium? A tali parole poco mancò che Ottone conte palatino di Baviera, sguainata la spada, non gli tagliasse il capo. Quetò Federigo il tumulto, e poi diede ordine che i legati fossero messi in sicuro, acciocchè nel dì seguente per la più corta se ne tornassero a Roma. Notificò poi esso imperadore quest'avvenimento con sua lettera sparsa per tutta la Germania, lamentandosi del fatto dei legati, e del poco rispetto a lui mostrato dal papa, con aggiugnere essersi trovati presso quei legati non pochi fogli in bianco sigillati, per potere a loro arbitrio scrivervi quel che volevano, per accumular danari e spogliar le chiese del regno. Si vede che tanto il papa, quanto l'imperadore erano inclinati alla rottura. L'avere il papa dalla sua il potente re di Sicilia, il facea parlar alto; ma questa loro concordia quella appunto era che a Federigo maggiormente movea la bile. Nè mancavano i baroni pugliesi rifugiati colà di accenderla vieppiù, con isparlar dappertutto del papa. Ottone da San Biagio [Otto de Sancto Blasio, in Chron.] mette l'avvenimento suddetto sotto l'anno 1156, ma Radevico, scrittore di maggior peso, sotto il presente.

Durando tuttavia la guerra in Lombardia, i Milanesi, fatto un grande sforzo contra dei Pavesi, con qualche aiuto ancora de' Bresciani, e dato il comando dell'armata a Guido conte di Biandrate, nel mese di giugno si portarono alla volta di Vigevano, terra insigne de' Pavesi, alla cui [741] difesa s'erano posti Guglielmo marchese di Monferrato, Obizzo Malaspina marchese, che dovea aver cangiata casacca, ed altri baroni [Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital. Otto Morena, Histor. Laudens.]. Distrussero il castello di Gambalò, assediarono dipoi Vigevano, e tanto lo tennero stretto, che per mancanza di viveri lo strinsero alla resa, e dipoi lo spianarono. Seguì in tal congiuntura un accordo fra i Milanesi e Pavesi, che durò ben poco. Ottone Morena scrive per colpa de' Milanesi, e Sire Raul per mancamento de' Pavesi. Perciò il popolo di Milano, che era tornato a casa, di nuovo uscì in campagna, e passato in Lomellina, fertilissimo paese già tolto dai Pavesi ai nobili conti palatini di Lombardia, si diedero a rifabbricar la terra di Lomello, capitale allora di quella provincia. Nel medesimo tempo maggiormente accalorarono il rifacimento e le fortificazioni di Tortona, di Gagliate, Trecate e d'altri luoghi, fecero di buone fosse a Milano, di maniera che, per attestato di Sire Raul, in tali fatture e nel rimettere dei fortissimi ponti sopra i fiumi Ticino ed Adda, spesero più di cinquanta mila marche di argento purissimo. Si mossero contra di loro in quest'anno i Cremonesi; ma senza alcuna impresa di rilievo se ne ritornarono alla loro città. Intanto gl'infelici Lodigiani, secondo l'asserzione di Ottone Morena, storico contemporaneo di quella città, furono con aggravii nuovi maggiormente afflitti dal popolo di Milano. Non si sa che in quest'anno il re di Sicilia Guglielmo alcuna impresa facesse. Perduto ne' piaceri, e ritirato nel suo palagio di Palermo, lasciava le redini all'indegno Maione suo ammiraglio, il quale gli dovea lodar la vita ritirata e lussuriosa dei sultani turcheschi, per farla egli intanto da re e per continuare in questi tempi la persecuzione contra di qualunque barone siciliano che fosse o paresse contrario ai suoi voleri e disegni. Ma nel mese di [742] novembre Andrea conte di Rupecanina [Anonymus Casinensis, in Chron. Johan. de Ceccano, in Chron. Fossaenovae.], uno de' baroni di Puglia ribelli, che dianzi era fuggito fuori del regno, vi tornò per voglia massimamente di vendicare il tradimento fatto a Roberto principe di Capoa da Riccardo dall'Aquila conte di Fondi. Unì egli una picciola armata di Romani, Greci e Pugliesi, e con essa entrato nel contado di Fondi, lo prese insieme colla città d'Acquino, e bruciò il traghetto dove tradito fu il suddetto principe di Capoa. Confermò papa Adriano in questo anno IV idus novembris, stando nel palazzo lateranense, i privilegii a Guifredo abbate del monistero di san Dionisio di Milano, come costa da sua bolla da me data alla luce [Antiquit. Italic., Dissert. LXX.].


   
Anno di Cristo MCLVIII. Indizione VI.
Adriano IV papa 5.
Federigo I re 7, imperad. 4.

L'anno fu questo in cui Federigo imperadore determinò la seconda sua venuta in Italia, per domare i Milanesi, Bresciani e Piacentini, ribelli alla sua corona. A questo fine mise insieme un potentissimo esercito, e ne fece la massa ne' contorni d'Augusta. Erano già tornati a Roma i due cardinali legati, rimandati indietro dall'imperador Federigo [Radevicus, de Gest. Frider. I, lib. 1, cap. 15.], ed aveano riempiuta la corte pontificia di lamenti per l'affronto lor fatto in Germania. Fu diviso il clero romano: l'una parte accusava di mala condotta i legati, con dar ragione all'imperadore; e l'altra sosteneva il loro operato. Sopra di ciò papa Adriano scrisse una lettera agli arcivescovi e vescovi di Germania, gravida bensì di lamenti per lo strapazzo fatto ai suoi legati, ma con raccomandarsi che placassero e mettessero in miglior sentiero l'imperadore. All'incontro quei prelati gl'inviarono una risposta assai vigorosa in difesa della [743] dignità imperiale, rilevando sopra tutto l'insolenza di que' versi, e di quella dipintura che dicono osservata nel palazzo lateranense, la quale dovea per anche essere stata abolita, toccando anche gli abusi ed aggravii introdotti nelle chiese della Germania dai ministri della curia romana. Perciò il saggio pontefice, udendo che Federigo si preparava per tornare coll'armi in Italia, giudicò meglio di smorzare il nato incendio con inviare in Germania due altri legati più prudenti, cioè Arrigo cardinale de' santi Nereo ed Achilleo, e Giacinto cardinale di santa Maria della scuola greca, che per viaggio furono presi, spogliati e posti in prigione da due conti del Tirolo. Furono poi rilasciati, ed Arrigo il Leone duca di Baviera e Sassonia fece poi un'esemplare vendetta di que' nobili masnadieri. Trovarono questi legati Federigo ne' contorni d'Augusta, ed ammessi all'udienza, gli parlarono con gran riverenza, e presentarongli una lettera mansueta del papa. In essa egli spiegava la parola beneficium, dichiarando di aver non mai preteso che l'imperio fosse un feudo. Bastò questo a calmare l'ira di Federigo; ed avendo egli poscia dato buon sesto ad alcune altre differenze che passavano fra lui e la corte di Roma, fu ristabilita la pace, e i legati contenti e nobilmente regalati se ne ritornarono a Roma. Avea già l'Augusto Federigo spediti in Italia per precursori alla sua venuta Rinaldo suo cancelliere e Ottone conte del palazzo. Questi verso la Chiusa sull'Adige s'impadronirono del castello di Rivola, importante per la sicurezza del passaggio dell'armata. Giunti a Cremona, quivi tennero un gran parlamento, al quale intervennero gli arcivescovi di Milano e di Ravenna, quindici vescovi, e molti marchesi, conti e consoli delle città. Visitarono dipoi l'esarcato di Ravenna, e nell'andare alla volta d'Ancona, scoprirono che i Greci, allora dominanti in quella città, assoldavano gente sotto pretesto di volere far guerra a Guglielmo re di Sicilia, ma infatti con disegno [744] d'impadronirsi di altre città marittime dell'Adriatico. A man larga spendevano costoro, e però vi concorrea popolo da tutte le bande. I legati incontratisi nel cammino con Guglielmo Maltraverser (vuol dire Radevico da Traversara), il più nobile dei Ravennati, gli fecero tal paura, che non pensò più a trattar coi Greci. Arrivati poi nelle vicinanze d'Ancona con un drappello d'armati, ne chiamarono fuori i ministri del greco Augusto, e fecero loro una calda ripassata con varie minaccie, in guisa tale che i medesimi stentarono ad iscusarsi. Dopo ciò, sen vennero que' legati a riposare in Modena. Diviso in varii corpi l'immenso suo esercito, Federigo parte ne inviò in Italia pel Friuli, parte pel Mongivì, altri per Chiavenna e pel lago di Como. Calò egli stesso per la valle di Trento col fiore dell'armata, seco conducendo Uladislao duca di Boemia, a cui poco prima avea conferito le insegne e il titolo di re, Federigo duca di Suevia, figliuolo del re Corrado, Corrado duca palatino del Reno suo fratello, con varii arcivescovi, marchesi e conti.

La prima città, in cui sul principio del mese di luglio si scaricò questo terribil nembo d'armati, fu Brescia. Benchè forte di mura, benchè provveduta di gran copia di forti cittadini [Otto Morena, Histor. Laudens.], fece ben qualche opposizione sulle prime al re di Boemia, che non tardò a devastare i suoi contorni; ma giunto che fu l'imperadore in persona, e fermatosi circa quindici giorni in quelle parti, con saccheggiare e bruciar molte castella e ville, mandarono i Bresciani a trattare d'accordo, e con dargli sessanta ostaggi e una grossa somma di danaro, si procacciarono il perdono e la pace da Federigo. Se vogliamo prestar fede al racconto dell'Urspergense [Abbas Urspergensis, in Chron.] pagò quel popolo sessantamila marche d'argento; ma forse quel sessanta cade sopra gli ostaggi, sembrando eccessiva una tal somma, giacchè vedremo in breve quanto meno costò ai Milanesi il loro [745] accordo. Stando sul Bresciano pubblicò l'Augusto Federigo le leggi militari riferite da Radevico [Radevicus, de Gest. Friderici I, lib. 1, cap. 26.], ed intimata la guerra contra di Milano, fu consigliato dai savii e dottori d'allora a citar prima quel popolo, per poter proferire legittimamente la sentenza contra di loro. Comparvero gli avvocati milanesi, sfoderarono leggi e paragrafi con grande eloquenza; ma a nulla servì. Fecero esibizione di molto danaro all'imperadore, si raccomandarono a quanti principi vi erano: tutto indarno. Convenne loro tornarsene colle mani vote, e nel consiglio de' più valenti giurisconsulti d'Italia, chiamati colà, fu proferita contra de' Milanesi la sentenza, e tutti messi al bando dell'imperio. Incamminossi dipoi la formidabil armata alla volta dell'Adda, per passarlo [Otto Morena, Sire Raul.]. Non v'era che il ponte di Cassano per cui si potesse transitare; ma dall'altra parte del ponte v'era un buon corpo di Milanesi con assaissimi villani alla guardia: sicchè si credette disperato il passaggio. Ma venendo il re di Boemia e Corrado duca di Dalmazia all'ingiù dietro il fiume, parve loro di avere scoperto un bel guado; e senza pensarvi più che tanto, spinsero i cavalli nell'acqua. Molti se ne annegarono, ma molti ancora salirono felicemente all'altra riva. Visti costoro di là dal fiume, e portatone l'avviso ai Milanesi che custodivano l'altra testa del ponte: addio, buon pro a chi ebbe migliori le gambe. Allora con tutto suo comodo passò l'imperadore colla nobiltà per quel ponte. Passò anche parte dell'esercito; ma sul più bello una parte d'esso ponte pel troppo peso si ruppe, e precipitarono in acqua molti cavalieri e scudieri. Quei poscia che erano già passati, incalzarono i fuggitivi milanesi, ne uccisero alquanti, e molti ne fecero prigioni. Ingrandì poi la fama talmente questo passaggio, che l'Abbate [746] Urspergense [Abbas Urspergens., in Chronico.] spacciò essersi accampato Federigo juxta flumen Padum, in vece di dir presso l'Adda; e che mancandogli barca da passare, salito a cavallo di un trave, sostenuto di qua e di là da alcune aste, con pochi passò di là, ed assaliti i nemici, li mise in fuga. Dovea lo storico pesar meglio sì bizzarro avvenimento. Recato a Milano questo inaspettato avviso, quando si credeva che il fiume Adda avesse a fermare i passi dell'armata nemica, riempiè di spavento, di lagrime e d'urli il popolo imbelle, e cominciò a fuggire una gran quantità d'uomini e donne plebee, e fino gl'infermi si faceano portar fuori di città. Assediò Federigo il castello di Trezzo, e l'ebbe in poco tempo a patti di buona guerra. Passò di là su quel di Lodi, ed eccoti comparire alla sua presenza una folla di poveri Lodigiani in abito compassionevole colle croci in mano, chiedendo giustizia contra de' Milanesi che gli aveano cacciati dalle lor case e tolti i loro beni. Era pur troppo la verità. Nell'antecedente gennaio aveano i Milanesi voluto obbligare il popolo di Lodi a prestare un nuovo giuramento di fedeltà. Erano pronti i Lodigiani, ma vi voleano inserire la clausola salva imperatoris fidelitate, stante il giuramento da essi fatto all'imperadore con licenza degli stessi consoli di Milano. Ostinatisi i Milanesi di volere una fedeltà senza eccezion di persone, e minacciando l'esilio e la perdita dei beni, amò piuttosto quasi tutto quell'infelice popolo di abbandonar le lor case e tenute, che di contravvenire al già fatto giuramento; e si ritirò chi a Pizzighettone e chi a Cremona, ma con lasciar molti d'essi la vita in quelle parti per le troppe miserie. Compassionò forte l'imperadore lo stato infelice di quel popolo, e gli assegnò un luogo presso il fiume Adda, appellato Monte Ghezone, per potervi fabbricare la nuova loro città, giacchè il vecchio Lodi, lontano di là quattro miglia, era stato diroccato dai Milanesi.

[747] Mentre si tratteneva l'Augusto Federigo sul Lodigiano [Rad., lib. 1, cap. 31.], isperanzito il conte Echeberto di Butena di far qualche bel colpo, senza chiederne licenza, si portò con circa mille cavalieri ben armati fin quasi alle porte di Milano. Uscirono i Milanesi per dimandargli colle lance e spade ciò che egli andasse cercando; ed attaccata la zuffa, che fu ben dura e sanguinosa per l'una parte e per l'altra, restò in essa ucciso il conte con Giovanni duca di Traversara, il più nobile dell'esarcato di Ravenna, e con altri. Si salvò con una veloce ritirata il rimanente de' Tedeschi. Federigo condannò la di lui disubbidienza, e provvide per l'avvenire. Aveva esso Augusto preventivamente mandato ordine pel regno d'Italia [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Ital. Sire Raul, in Histor.], che gli atti all'armi venissero all'oste per l'impresa di Milano. Però giunsero colà assaissimi armati dalle città di Parma, Cremona, Pavia, Novara, Asti, Vercelli, Como, Vicenza, Trevigi, Padova, Verona, Ferrara, Ravenna, Bologna, Reggio, Modena e Brescia, e molti altri della Toscana. Erano allora tutte queste città del regno d'Italia. Sire Raul fa conto che ascendessero a quindici mila cavalli, e fosse innumerabile la fanteria. Radevico solamente scrive che l'armata passava i cento mila combattenti. Passò l'imperadore con questo potentissimo esercito all'assedio di Milano, se crediamo a Radevico, nel dì 25 di luglio; ma più meritano fede Ottone Morena, che scrive ciò fatto nel dì 6 d'agosto, e Sire Raul, che lo riferisce al dì 5 d'esso mese. Intorno alla città fu divisa in varii campi e quartieri l'armata. Trovavasi quella nobilissima città guernita di forti mura, di altissime torri, e di una profonda fossa piena d'acqua corrente. Il suo giro, per quanto scrive Radevico, era più di cento stadii; del che io dubiterei. Nulla mancava ai cittadini di valore e di sperienza nell'armi per ben difendersi. [748] Fecero eglino una sortita vigorosa addosso ai Boemi, accampati al monistero di san Dionisio; e vi fu aspro combattimento; ma accorso l'imperadore con altre molte squadre, furono obbligati a retrocedere in fretta. Aveano essi Milanesi posta gente alla difesa dell'Arco romano, che non era già un castello, come immaginò il padre Pagi, ma una fabbrica di quattro archi con torrione di sopra [Radev. Otto Moren.], composta di grossissimi marmi fuori di Porta romana. Vi alloggiavano quaranta soldati, che per otto giorni bravamente vi si mantennero; ma non potendo resistere al continuo tirare dei balestrieri, in fine si renderono. Colà sopra fece poi l'imperadore mettere una petriera che incomodava forte i Milanesi; ma questi, con opporne un'altra, fecero sloggiare di là i Tedeschi. Non pochi altri fatti d'armi succederono, che io tralascio. Cresceva intanto nella città la penuria de' viveri per la gran gente che vi s'era rifugiata. Entrò anche una fiera epidemia in quel popolo, la quale mieteva le vite di molti. La Martesana, il Seprio, anzi tutte le castella e ville del distretto Milanese andavano a sacco, scorrendo dappertutto i Tedeschi, con tagliare anche gli alberi e le viti, ma più de' Tedeschi sfogando i Pavesi e Cremonesi la rabbia loro contro le case e tenute degli emuli Milanesi. In tale stato si trovava la misera città, quando Guido conte di Biandrate, uomo saggio, e che per l'onoratezza sua era egualmente amato e stimato da' Tedeschi che da' Milanesi, entrato in città, con tale facondia perorò, che indusse que' cittadini ad implorare la misericordia dell'Augusto sovrano. Vennero dunque i consoli e primi della città a trovare il re di Boemia e il duca d'Austria, i quali, interpostisi coll'imperadore, ottennero il perdono e la pace colle condizioni che Radevico distesamente riferisce [Radev., de Gest. Friderici I, lib. 1, cap. 41.]. Le principali furono di lasciare in libertà Como [749] e Lodi; di pagar nove mila marche d'argento, in oro, argento o altra moneta [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 4 Rer. Italic.]; di dare trecento ostaggi; di rilasciare i prigioni; che i consoli sarebbono confermati dall'imperadore; che il comune di Milano dimetterebbe all'imperadore le regalie, come la zecca e le gabelle; che si rimetterebbono i Cremaschi in grazia d'esso Augusto col pagamento di cento venti marche. Sottoscritta che fu dalle parti questa convenzione nel dì 7 di settembre, l'arcivescovo e il clero colle reliquie, i consoli e la nobiltà in veste positiva, co' piedi nudi e colle spade sopra il collo, e la plebe colle corde al collo, vennero nel dì seguente a chiedere perdono al vincitore Augusto [Abbas Urspergens., in Chron. Otto Morena, Hist. Laud., tom. 6 Rer. Italic.], il quale s'era allontanato quasi quattro miglia dalla città per maggior fasto, ed affinchè passassero i supplichevoli per mezzo ai soldati sfilati per tutta la strada. Furono poi rilasciati dai Milanesi i prigioni, fra i quali si contarono mille Pavesi. La bandiera dell'imperadore fu alzata nella torre della metropolitana di Milano, che era la più alta di tutte le fabbriche di Lombardia.

Poscia portatosi l'Augusto Federigo apud Modoicum, sedem regni italici, coronatur, cioè a Monza. Giudicai io [Commentar. de Corona Ferrea, tom. 2. Anecdot. Latin.] una volta che queste parole di Radevico indicassero conferita allora la corona del regno italico a Federigo; ma, secondo le osservazioni fatte di sopra, altro non vogliono significare se non che egli comparve in pubblico colla corona in capo. In die Nativitatis beatae Mariae Virginis imperiali diademate processit coronatus, dice l'Abbate Urspergense. Avea Turisendo, cittadino veronese, occupato il castello regale di Garda, nè volendolo rendere i Veronesi all'imperadore, giacchè il comandar colle lettere non giovava, andò Federigo colà con un corpo di milizie, [750] e, passato l'Adige, cominciò le ostilità nel loro territorio: il che è da credere gl'inducesse ad ubbidire. Volle poi ostaggi da tutte le città del regno; e tutte gl'inviarono, fuorchè Ferrara. All'improvviso arrivò a quella città Ottone conte palatino di Baviera, e, dopo aver ivi regolate le faccende, seco condusse quaranta Ferraresi per ostaggi. Tenne poi Federigo in Roncaglia per la festa di san Martino la general dieta del regno italico, dove intervennero tutti i vescovi, principe i consoli, e furono anche chiamati gli allora quattro famosi lettori delle leggi nello studio di Bologna, cioè Bulgaro, Martino Gossia, Jacopo ed Ugone da Porta Ravegnana, tutti e quattro discepoli di quell'Irnerio ossia Guarnieri che di sopra vedemmo primo interprete delle leggi in Bologna. Interrogati costoro di chi fossero le regalie, cioè i ducati, i marchesati, le contee, i consolati, le zecche, i dazii, le gabelle, i porti, mulini, le pescagioni ed altri simili proventi: Tutto, tutto, gridarono que' gran dottori, è dell'imperadore. E però niuno vi fu di quei principi e signori, il quale, cedendo alla potenza, non dimettesse le regalie in mano di Federigo. Egli ne rilasciò una parte a quei solamente che con buoni documenti mostrarono di goderle per indulto e concessione degl'imperadori. Fu giudicato il resto del fisco, consistente in una rendita annua di trenta mila talenti. Nè si dee tacere una particolarità, di cui poscia fu fatta strepitosa menzione da molti legisti e storici. Cioè, che cavalcando un dì l'imperador Federigo fra Bulgaro e Martino, due de' suddetti dottori, dimandò loro, s'egli giuridicamente fosse padrone del mondo [Otto Morena, in Histor. Laud., tom. 6 Rer. Italic.]. Rispose Bulgaro, che non ne era padrone quanto alla proprietà; ma il testardo Martino disse che sì. Smontato poi l'imperadore, donò ad esso Martino il palafreno su cui era stato: laonde Bulgaro disse poi queste parole: Amisi equum, quia dixi aequum, quod non fuit aequum.

[751] Guadagnò ben Federigo con poca fatica il dominio di tutto il mondo. Sarebbe stato prima da vedere se i Franzesi, Spagnuoli, Inglesi, e molto più se i Greci, Persiani, i Cinesi, ec. l'intendessero così. Ah che l'adulazion sempre è stata e sempre sarà la ben veduta nelle corti dei principi! Pubblicò poscia Federigo alcune leggi per la conservazion della pace, e intorno ai feudi, con proibirne specialmente l'alienazione, e il lasciargli alle chiese; il che operò che non più da lì innanzi agli ecclesiastici, se non difficilmente, pervenissero marchesati, contee, castella ed altri feudi. Portate le doglianze de' Cremonesi dei danni loro inferiti dai Piacentini, contra di questi ultimi, fu proferito il bando imperiale. Per liberarsene, convenne loro pagar grossa somma di danaro, ed atterrare i bastioni fatti nei tre anni addietro alla lor città, siccome ancora le antiche torri delle loro mura. Levò inoltre Federigo Monza dalla suggezion di Milano; ed, accostatosi ai confini del Genovesato, obbligò quel popolo a pagar mille e dugento marche d'argento al suo fisco, e di dismettere la fabbrica delle lor mura. Racconta Caffaro [Caffar., Annal. Genuens., lib. 1.], uno degli ambasciatori spediti a Federigo dai Genovesi, le ragioni addotte in lor favore, per non soggiacere alle rigorose leggi pubblicate allora dal fisco imperiale, allegando massimamente le gravi spese occorrenti a quella città per difendere quelle coste dai nemici dell'imperio: perlochè erano e meritavano d'essere privilegiati. Sì fatte ragioni non furono addotte in vano. Ma nulla dice Caffaro delle mura della città; anzi, secondo lui, queste furono perfezionate nell'anno appresso. Grande imperadore, insigne eroe, gridavano tutti i Tedeschi, allorchè videro con tanta felicità imposto un sì pesante giogo da Federigo agli Italiani; ma fra gl'Italiani coloro ancora che erano amici dell'imperadore, ne' lor cuori ben diversamente parlavano.

Celebrò poi Federigo nella città di Alba il santo Natale; spedì alcuni dei [752] suoi principi a mettere i consoli nelle città. Ed avendo trovato che le rendite dei beni della contessa Matilda erano state disperse e trascurate dal duca Guelfo suo zio, le raccolse e rendè al medesimo duca. Tali furono le imprese di Federigo Barbarossa in quest'anno: principe che s'era messo in pensiero di ridurre l'Italia presso a poco come era al tempo dei Longobardi e de' Franchi, per non dire in ischiavitù, e che cominciò a trovar la fortuna favorevole a così vasti disegni. Neppure la Puglia andò in questi tempi esente da turbolenze [Anonymus Casinens., in Chron. Johann. de Ceccano, in Chron. Fossaenovae.]. Andrea conte di Rupecanina, uno de' baroni fuorusciti, di cui parlammo di sopra, dopo aver preso il contado di Fondi ed altri luoghi, fatta l'Epifania di quest'anno, andò alla città di San Germano, e se ne impadronì, con far prigioni circa dugento soldati del re Guglielmo. Essendo fuggito il resto al monistero di Monte Casino, passò colà Andrea, e diede più battaglie a quel luogo. L'Anonimo Casinense scrive che nol potè avere. Giovanni da Ceccano, nella Cronica di Fossanuova, attesta il contrario; ma amendue concordano ch'egli nel seguente marzo, senza sapersene il motivo, abbandonò quelle contrade, e ritirossi in Ancona, ubbidiente allora ai Greci. Intanto Manuello imperador d'essi Greci spedì una formidabil flotta da Costantinopoli [Nicetas, in Hist.], siccome fu creduto, a' danni del re di Sicilia. Aveva il re Guglielmo anche egli allestita una potente flotta, la quale, secondo l'asserzione del Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], inviata in Egitto, diede il sacco alla città di Tani ossia Tanne alla foce del Nilo. Ma, udito il movimento de' Greci [Romualdus Salernitanus, in Chron., tom. 7 Rer. Ital.], venne Stefano ammiraglio d'essa flotta, e fratello di Maione, in cerca dei nemici; e trovatili nell'Arcipelago, tuttochè inferiore di forze, valorosamente gli assalì, e gloriosamente gli sconfisse, con [753] bruciar molti de' loro legni. Tale era allora il valore e la potenza de' Siciliani. Rimase prigione in tal congiuntura Costantino Angelo generale della greca flotta, e zio dell'imperadore, con Alessio Comneno, Giovanni duca e molt'altra nobiltà e gente, che fu inviata in Sicilia. Scorse poi la vittoriosa armata fino a Negroponte, a cui diede il sacco; e dopo aver fatto altri mali alle contrade dei Greci, se ne tornò trionfante in Sicilia nel mese di settembre. Servì questa sconfitta ad abbassare talmente l'orgoglio dell'Augusto Manuello, che sospirò da lì innanzi di aver pace col re Guglielmo. A questo fine spedì egli ad Ancona Alessio Ausuca, uomo di gran destrezza, che intavolò il trattato, e conchiuse una tregua per trent'anni fra esso Guglielmo e l'Augusto greco: con che si può credere che fossero rilasciati i prigioni fatti nella suddetta sconfitta.


   
Anno di Cristo MCLIX. Indizione VII.
Alessandro III papa 1.
Federigo I re 8, imperad. 5.

Insorsero sul principio di quest'anno principii di nuova discordia fra papa Adriano IV e L'Augusto Federigo. Radevico scrive [Radevicus, de Gest. Frider. I, lib. 2, cap. 15.] che il papa mendicava i pretesti per romperla, senza considerare se fossero giuste o no le doglianze dello stesso pontefice. Lagnavasi Adriano dei messi dell'imperadore, che con somma insolenza esigevano il fodro negli Stati della Chiesa romana, e molto più perchè Federigo avesse coll'aspra legge delle regalie non solamente aggravati i principi e le città d'Italia, ma ancora i vescovi ed abbati. E intorno a ciò gli spedì una lettera, che in apparenza parea amorevole, ma in sostanza era alquanto risentita, per mezzo di una persona bassa, la quale appena l'ebbe presentata, che se la colse. Essendo giovane allora Federigo, l'alterigia si potea chiamare il suo primo mobile; però gli fumò forte questa bravata. Accadde, [754] che morto in questi giorni Anselmo arcivescovo di Ravenna, Guido figliuolo del conte di Biandrate, protetto dall'imperadore, fu eletto con voti concordi dal clero e popolo di Ravenna per loro arcivescovo. Ma essendo egli cardinale suddiacono della Chiesa romana, senza licenza speciale del papa non poteva passare ad altra chiesa. Ne scrisse per questo l'imperadore ad Adriano, il quale rispose con belle parole sì, ma senza volerlo compiacere. Sdegnato Federigo, ordinò al suo cancelliere che da lì innanzi, scrivendo lettere al papa, anteponesse il nome dell'imperadore, come si facea co' semplici vescovi: rituale contrario all'uso di più secoli, e ingiurioso di troppo alla santa Sede. Due lettere che rapporta il Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.] su questo proposito, copiate dal Nauclero, l'una del papa all'imperadore, e l'altra di Federigo al pontefice, a me sembrano fatture di qualche ozioso dei secoli susseguenti, oppur finte allora da qualche sciocco ingegno. In somma andavano crescendo i semi della discordia, e tanto più perchè corse voce d'essere state intercette lettere del papa che incitava di nuovo alla ribellione i Milanesi. Prese poi maggior fuoco la contesa, perchè Adriano inviò a Federigo quattro cardinali, cioè Ottaviano prete del titolo di santa Cecilia, Arrigo de' santi Nereo ed Achilleo, Guglielmo diacono e Guido da Crema, anch'esso diacono cardinale. Proposero questi varie pretensioni della corte romana, cioè che l'imperadore non avesse a mandare suoi messi a Roma ad amministrar giustizia, senza saputa del romano pontefice, perchè tutte le regalie e i magistrati di Roma sono del papa. Che non si dovessero esigere fodro dai beni patrimoniali della Chiesa romana, se non al tempo della coronazione imperiale. Che i vescovi d'Italia avessero bensì da prestare il giuramento di fedeltà all'imperadore, ma senza omaggio. Che i nunzii dell'imperadore non alloggiassero per forza ne' palagi de' vescovi. Che si avessero [755] a restituire i poderi della Chiesa romana e i tributi di Ferrara, Massa, Figheruolo, e di tutta la terra della contessa Matilda, e di tutta quella che è da Acquapendente sino a Roma, e del ducato di Spoleti, e della Corsica e Sardegna. Rispose Federigo che starebbe di tali pretensioni al giudizio d'uomini saggi, al che i legati pontificii non vollero acconsentire, per non sottomettere il pontefice all'altrui giudizio. All'incontro pretendeva egli che Adriano avesse mancato alla concordia stabilita, per cui era vietato il ricevere senza comune consentimento ambasciatori greci, siciliani e romani; e che non fosse permesso ai cardinali di andare per gli Stati imperiali senza permission dell'imperadore, aggravando essi troppo le chiese; e che si mettesse freno alle ingiuste appellazioni, con altre simili pretensioni e querele. Non si trovò ripiego; e Federigo mostrò specialmente dell'indignazione della prima proposizion dei legati, parendogli di diventare un imperador dei Romani di solo nome e da scena, quando se gli volessero levare ogni potere e dominio in Roma. Intanto assai informato il senato romano di queste dissensioni, prese la palla al balzo per rimettersi in grazia di Federigo, e gli spedì nunzii, che furono ben ricevuti, con isprezzo e sfregio dell'autorità pontificia.

Ma da questi guai ed imbrogli del mondo venne la morte a liberare il papa Adriano IV, il quale, se si ha da credere all'Abbate Urspergense e a Sire Raul, avea giù conchiusa lega coi Milanesi, Piacentini e Cremaschi contra di Federigo, meditando anche di fulminare contra di lui la scomunica. Passò egli a miglior vita per infiammazion di gola nel primo dì di settembre, mentre era alla villeggiatura d'Anagni, con lasciar dopo di sè gran lode di pietà, di prudenza e di zelo, e molte opere della sua pia e principesca liberalità. Ma da ben più gravi malanni fu seguitata la morte sua. Nel dì 4 del mese suddetto, raunatisi i vescovi e cardinali per dare un successore al defunto pontefice, [756] dopo tre giorni di scrutinio convennero nella persona di Rolando da Siena, prete cardinale del titolo di san Callisto, e cancelliere della santa romana Chiesa [Cardinal. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Italic.], che ripugnò forte, e prese in fine il nome di Alessandro III. Univansi in questo personaggio le più eminenti virtù morali, la dottrina e la sperienza del mondo, di maniera che tutti i buoni il riguardarono tosto per un bel regalo fatto alla Chiesa di Dio; ed anche san Bernardo, quando era in vita, ne avea conosciuto ed esaltato il merito singolare. Ma l'ambizione del cardinal Ottaviano quella fu che sconcertò così bella armonia, con dar principio e fomento ad un detestabile scisma. V'ebbe segretamente mano anche Federigo, il quale dacchè si mise in testa di aggirare ad un solo suo cenno tutta l'Italia, conoscendo di qual importanza fosse l'avere amico e non nemico il romano pontefice, si studiò di mettere sulla sedia di san Pietro una persona a lui ben nota e confidente; e dovette preventivamente farne maneggi non solamente allorchè Ottaviano fu alla sua corte, ma anche allorchè i Romani nel precedente anno furono in sua grazia rimessi. Era presente all'elezione suddetta esso Ottaviano cardinale di santa Cecilia, di nazione Romano, ed ebbe anche pel pontificato due miseri voti da Giovanni cardinale di san Martino e da Guido da Crema cardinale di san Callisto. Costui invasato dalla voglia d'essere papa, quando si vide deluso, strappò di dosso ad Alessandro il manto pontificale, e sel mise egli furiosamente addosso; ma toltogli questo da un senatore, se ne fece tosto portare un altro preparato da un suo cappellano, e frettolosamente se ne coprì, ma al rovescio, mettendo al collo ciò che dovea andare da piedi: il che dicono che eccitò le risa di tutti, se pur vi fu chi potesse ridere a così orrida tragedia. Assunse Ottaviano antipapa il nome di Vittore IV, e con guardie d'armati tenne rinserrato il [757] legittimo papa in un sito forte della basilica di san Pietro insieme coi cardinali per molti giorni. Ma il popolo romano, non potendo sofferire tanta iniquità, unito coi Frangipani rimise in libertà Alessandro, il quale ritiratosi fuor di Roma con essi cardinali alla terra di Ninfe, quivi fu consecrato papa dal vescovo d'Ostia nel dì 20 di settembre.

Attese intanto l'antipapa a guadagnar dei voti nel clero e popolo; trasse dalla sua due vescovi, ed anche Jomaro vescovo tuscolano, che prima aveva eletto Alessandro, e da lui nel monistero di Farfa si fece consecrare nella prima domenica di ottobre. Due altri cardinali si veggono nominati per lui in una lettera rapportata dal cardinal Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.]. Come prendesse questo affare l'imperador Federigo, si accennerà fra poco, esigendo intanto il racconto che si parli prima di una rotta fra lui e i Milanesi [Radevicus, lib. 2. cap. 21. Otto Morena, Histor. Laudens., tom. 6 Rer. Ital. Sire Raul.]. Mandò egli nel gennaio del presente anno a Milano Rinaldo suo cancelliere, che fu poi arcivescovo di Colonia, e Ottone conte palatino di Baviera, per crear quivi un podestà, ed abolire i consoli: rito che Federigo cominciò ad introdurre nelle città italiane, molte delle quali per forza vi si accomodarono. Erano esacerbati forte i Milanesi contra di questo imperadore, che null'altro cercava tuttodì se non di abbatterli sempre più, e di mettere loro addosso i piedi. Già gli avea spogliati del dominio di Como e di Lodi nella capitolazione; poi contra la capitolazione avea smembrata dal loro contado la nobil terra di Monza, e tutto il Seprio e la Martesana, provincie da lungo tempo sottoposte a Milano. S'aggiunse quest'altra pretensione, di non voler più che potessero eleggere i consoli; il che era chiaramente contrario ai patti riferiti da Radevico, nei quali si legge: Venturi consules a populo eligantur, et ab ipso imperatore confirmentur. Diedero perciò nelle [758] smanie i Milanesi, chiamando Federigo mancator di parola, ed infuriati quasi misero le mani addosso ai ministri imperiali, che si salvarono colla fuga. Il cancelliere Rinaldo mai più loro non la perdonò. Similmente avea Federigo nello stesso mese inviati i suoi messi a Crema, con intimare a quel popolo, suddito o collegato de' Milanesi, che prima della festa della Purificazion della Vergine avessero smantellate le mura e spianate le fosse della lor terra. Ancor questo era contro ai patti; ma i Cremonesi, per guadagnar questo punto, aveano promesso all'imperadore quindici mila marche d'argento. A così inaspettata e dura proposizione i Cremaschi non si poterono contenere; e dato all'armi, poco mancò che non trucidassero i messi cesarei, i quali se ne scapparono a ragguagliar l'imperadore di quanto era loro accaduto.

Federigo per allora dissimulò la sua collera. Ma nel dì 21 di marzo si trovava egli in Luzzara, terra nel distretto di Reggio, dove confermò tutti i suoi privilegii e diritti alla città di Mantova [Antiquit. Ital., Dissert. XIII, pag. 711.]. Di là venne a Bologna, dove celebrò la santa Pasqua nel dì 12 d'aprile. In questo mentre i Milanesi, credendosi disobbligati dai patti, giacchè il primo a romperli era stato Federigo, e considerando ch'egli amico non macchinava se non la loro totale schiavitù e rovina, determinarono di volerlo piuttosto nemico. Adunque nel sabbato dopo Pasqua andarono coll'esercito loro all'assedio del castello di Trezzo, dove era un buon presidio di Tedeschi. Talmente insisterono all'espugnazion di quel luogo con un castello di legno, con petriere e continui assalti, che v'entrarono vittoriosi. Fu dato il sacco, presa una gran somma di danaro ivi riposta come in sicura fortezza da Federigo; fatti prigioni ed inviati a Milano legati più di dugento Tedeschi con varii villani. Poscia diroccarono da' fondamenti quel castello, se vogliam credere, a Radevico; ma, siccome vedremo all'anno 1167, per testimonianza [759] di Acerbo Morena, quel castello tuttavia sussisteva. Romoaldo Salernitano aggiugne [Romualdus Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Italic.] che nella presa di Trezzo eglino liberarono ancora i loro ostaggi ivi detenuti. Di questo non parla nè il Morena, nè Sire Raul, e noi vedremo fra poco quando tali ostaggi furono ricuperati. Due volte poscia dopo la Pentecoste tentarono i Milanesi di sorprendere la nascente città di Lodi nuovo; ma usciti arditamente i Lodigiani, li costrinsero ad una frettolosa ritirata, con far molti di loro prigioni. Si mossero inoltre i Bresciani, collegati di nuovo co' Milanesi, contra del territorio di Cremona: con loro danno nondimeno, perchè respinti dai Cremonesi che ne uccisero o presero in circa quattrocento. Aggiugne Radevico che i Milanesi inviarono anche un sicario per levar di vita Federigo: il che non gli riuscì; ma poi sinceramente confessa d'aver inteso che costui era un furioso, e che innocentemente fu ucciso. Dopo avere l'Augusto Federigo, stando in Bologna fatto dichiarar nemici della corona i Milanesi, anche prima dell'assedio da lor fatto di Trezzo, ed anche senza citarli, attese a far la guerra al loro distretto. Intanto avea spedito pressanti ordini in Germania per far venire con grande sforzo di soldatesche l'Augusta sua consorte Beatrice, e Arrigo il Leone duca di Baviera e Sassonia suo cugino [Radevicus, de Gest. Friderici I, lib. 2, cap. 38.]. In fatti calarono essi, menando seco una possente armata. Di copiosi rinforzi ancora condusse Guelfo principe di Sardegna, duca di Spoleti, marchese di Toscana e zio d'esso Arrigo. Si stende Radevico nelle lodi di questi due insigni principi, che per brevità tralascio, ma meritano di esser lette da chiunque ama l'onor dell'Italia, giacchè amendue traevano il lor sangue dall'Italia, cioè dalla nobilissima casa d'Este. Allora fu che i Cremonesi coll'offerta di undicimila talenti (forse marche d'argento) [760] indussero l'imperador Federigo all'assedio e alla distruzione di Crema, contra della quale immenso era il loro odio [Otto Morena, Hist. Laudens.]. A dì 7 di luglio impresero gli stessi Cremonesi l'assedio di quella terra, e colà dopo otto giorni vi comparve ancora l'imperadore colla sua potentissima armata, e si diede principio alle offese.

Confidato il popolo cremasco nelle buone mura e fortificazioni della lor terra, rinforzato ancora da quattrocento fanti e da alquanta cavalleria inviata da Milano, si accinse ad una gagliarda difesa. Venne poi Federigo a Lodi, parte per far curare il male d'una sua gamba, e parte per impedire ai Milanesi di portare soccorso alcuno a Crema. Di concerto con lui i Pavesi entrarono nel distretto di Milano, mettendolo a sacco; ma usciti i Milanesi, diedero loro addosso con farne molti prigioni: quando eccoti, mentre ritornavano vittoriosi, sbucare il medesimo imperadore da un'imboscata, che li mise in fuga; e non solamente ricuperò i Pavesi, ma prese ben trecento cavalieri milanesi, mandati poscia da lui nelle carceri di Lodi, e di là trasportati a Pavia. Diffusamente descrive Ottone Morena il famoso assedio di Crema. A me basterà di dire, che se i Tedeschi, Cremonesi e Pavesi intorno a quella terra fecero di molte prodezze per vincerla, non minori furono quelle degli assediati per difenderla. Le testuggini, le catapulte, i gatti, i mangani o le petriere d'ogni sorta ebbero di gran faccende in tal congiuntura. Più di dugento botti piene di terra portate alla fossa diedero campo ad un altissimo castello di legno, fabbricato dai Cremonesi per avvicinarsi alle mura. Ma i mangani dei Cremaschi fulminavano grosse pietre, che lo misero in evidente pericolo di rompersi. Allora cadde in mente a Federigo una diabolica invenzione, cioè di far legare sopra esso castello gli ostaggi de' Cremaschi, ed alcuni nobili milanesi prigioni, acciocchè, vinti dalla compassione de' figliuoli o parenti, gli assediati cessassero [761] dalla tempesta de' sassi. Ma questi non perciò desisterono, e restaronvi uccisi nove di que' nobili, ed altri storpii: il che indusse Federigo a ritirare i sopravvivuti da quel macello. Ma accortisi i Milanesi e Cremaschi del male fatto contra de' suoi, talmente s'inviperirono, che sulle mura e sugli occhi dell'armata scannarono molti Tedeschi, Cremonesi e Lodigiani loro prigioni. E perchè Federigo fece impiccar per la gola quelli di Crema, i Cremaschi anch'essi praticarono la stessa crudeltà contro quei dell'imperadore. Con tali orride scene procedette l'assedio fino al fine dell'anno, senza che riuscisse agli assedianti di far punto rallentare il valore di chi difendea quella terra. Restò morto in quelle baruffe Guarnieri marchese della marca di Camerino, ossia d'Ancona, venuto colle sue genti alla chiamata dell'imperadore. Intanto papa Alessandro era passato a Terracina, e stava osservando i portamenti di Ottone conte palatino e di Guido conte di Biandrate, già spediti da Federigo a Roma, vivente ancora papa Adriano IV [Cardinal. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Davano questi buone parole al pontefice; ma in fatti, per non dispiacere all'imperador lor padrone, prestavano favore ed aiuto all'antipapa Ottaviano. Per parere anche dei cardinali determinò papa Alessandro d'inviare i suoi nunzi all'Augusto Federigo, per esporgli le sue buone ragioni, e chiarirsi delle di lui intenzioni. Non fossero mai andati. Il trovarono all'assedio di Crema. Non solamente ricusò egli di ricevere le lettere, ma volle, o finse di voler fare impiccare chi le avea portate, se non si fossero opposti i duchi Arrigo il Leone e Guelfo principi che sempre si fecero conoscer divoti della santa Sede apostolica. Così restò deciso che Federigo era tutto per l'antipapa, il quale appunto, perchè confidato nella di lui protezione, aveva osato di usurpare il pontificato in concorrenza di chi era stato sì [762] canonicamente eletto papa. Ma il re Guglielmo non istette punto sospeso a riconoscere per vero papa Alessandro, congiungendosi colla giustizia anche i motivi politici che il facevano andar di accordo con chi non era amico dell'imperadore. In quest'anno terminarono i Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.] in quarantatrè giorni con ammirabil fretta e lavoro le mura della loro città, ed era il giro d'esse cinque mila e cinquecento piedi, con mille e settanta merli. Federigo facea paura a tutti; e chiunque potea si premuniva.


   
Anno di Cristo MCLX. Indizione VIII.
Alessandro III papa 2.
Federigo I re 9, imperad. 6.

Continuarono i Cremaschi assediati a fare una valida difesa contra dell'esercito imperiale, ma essendo fuggito da essi nel campo nemico il loro principal ingegnere [Otto Morena, Hist. Laudens., tom. 6 Rer. Ital.], e non potendo più reggere a tante vigilie e stenti, ricorsero a Pellegrino patriarca d'Aquileia e ad Arrigo il Leone duca di Baviera, pregandoli di trattar della resa coll'Augusto Federigo. Non altro poterono ottenere, se non che fosse permesso ai Milanesi e Bresciani, che quivi erano, di uscire senz'armi, e che i Cremaschi godessero anch'eglino licenza di uscire con quel che poteano portare addosso. Accettata la dura condizione, tutto quell'infelice popolo colla testa china e colle lagrime sugli occhi, detto l'ultimo addio alla patria, uscì nel giorno 27 di gennaio [Abbas Urspergensis, in Chron.], chi portando in vece di mobili sulle spalle i teneri figliuolini, chi la moglie, o il marito febbricitante, con ispettacolo grande della miseria umana, e insieme dell'amore e della fede. Fu poi la misera terra saccheggiata, incendiata e da' fondamenti distrutta dagl'irati Cremonesi. Terminata [763] questa tragedia, il duca Guelfo VI se ne tornò in Toscana; tenne un gran parlamento nella terra di San Genesio, dove diede colla bandiera l'investitura di sette contadi ai conti rurali di quelle contrade; alle altre città e castella concedette quel che era di dovere, ed anche ricuperò le rendite a lui dovute. Fu con tutta onorevolezza ricevuto dai popoli di Pisa, Lucca ed altre città. Diede lo stesso ordine al ducato di Spoleti; e giacchè avea risoluto di visitare i suoi Stati di Germania, lasciò al governo di quei d'Italia Guelfo VII suo figliuolo, il quale si comperò l'amore di tutti per la sua rettitudine e buone maniere; ma specialmente perchè occorrendo facea testa alle genti dell'imperadore, che voleano danneggiar quel paese; perlochè talvolta ancora se ne dichiarò offeso lo stesso Federigo. Ciò è da notare per disporsi ad intendere l'origine dei Guelfi e Ghibellini, cioè di quelle fazioni funestissime che a suo tempo (siccome andremo vedendo) formarono un terribil incendio in Italia. Se n'andò poscia l'imperadore Federigo a Pavia, ricevuto ivi come in trionfo, e cominciò a trattar dello scisma. Aveano già i cardinali dell'una parte e dell'altra nel precedente anno inviate lettere circolari riferite, da Radevico [Radevicus, de Gest. Frider. I, lib. 2, c. 52.], per avvisare i fedeli delle ragioni che loro assistevano. Quei dell'antipapa dicevano d'essere nove cardinali di quel partito, e quattordici quei d'Alessandro. Questi, all'incontro, asserivano che due soli elessero Ottaviano. Quel che è più strano, protestavano quei di Alessandro che l'elezione di lui s'era fatta col consenso del clero e popolo romano; e pure quei di Ottaviano sostenevano anch'essi che egli era stato alzato alla cattedra electione universi cleri, assensu etiam totius fere senatus, et omnium capitaneorum, baronum, nobilium, tam infra urbem, quam extra urbem habitantium. Perchè Ottaviano avea guadagnato gente a forza di danaro, doveano i suoi parlar così. Ora [764] Federigo, mostrandosi zelante della union della Chiesa, pubblicò lettere circolari con esprimere di aver intimato un gran parlamento e concilio da tenersi in Pavia per l'ottava dell'Epifania dell'anno presente, a cui invitava tutti i vescovi ed abbati d'Italia, Germania, Francia, Inghilterra, Spagna ed Ungheria, per decidere, secondo il loro parere, l'insorta controversia del romano pontificato. Ne scrisse anche a papa Alessandro, chiamandolo solamente Rolando cancelliere, e comandandogli da parte di Dio e della Chiesa cattolica di venire a quel parlamento, per udir la sentenza che proferirebbono gli ecclesiastici. Giusto motivo ebbe il pontefice Alessandro di non accettar questo invito [Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Italic.], fattogli da chi parlava non come avvocato e difensor della Chiesa, ma come giudice superiore e padrone, e quasi peggio di Teoderico re de' Goti; e massimamente trattandosi di luogo sospetto, e sapendo che già Federigo era dichiarato in favor dell'antipapa. Però ai vescovi di Praga e di Verda, che aveano portata ad Anagni la lettera di Federigo, fu data risposta, essere contro i canoni che l'imperadore senza consenso del papa convocasse un concilio; nè convenire alla dignità del romano pontefice l'andare alla corte dell'imperadore, e l'aspettar da esso lui la sentenza. Non così fece l'antipapa Ottaviano. Furono a trovarlo i due vescovi, l'adorarono, cioè l'inchinarono qual vero papa, ed egli ben volentieri sen venne a Pavia. Seco portò l'attestato de' canonici di san Pietro, di vari abbati e del clero di molte parrocchie di Roma, tutti a sè favorevoli.

Questo, unito al non essere comparso colà papa Alessandro III, e fatto credere ch'egli fosse congiurato coi nemici dell'imperio, bastò perchè que' vescovi ed arcivescovi, parte per adulazione, parte per paura, dichiarassero, nel dì 11 di febbraio, vero papa Ottaviano, e condannassero e [765] scomunicassero come usurpatore Alessandro. Rendè poscia Federigo a questo idolo tutti gli onori, con tenergli la staffa e baciargli i fetenti piedi. All'incontro papa Alessandro, udito ch'ebbe il risultato del conciliabolo di Pavia, nel giovedì santo, mentre celebrava i divini uffizii nella città di Anagni, pubblicamente scomunicò l'imperador Federigo, e rinnovò le censure contra dell'antipapa e di tutti i suoi aderenti. Furono anche scritte varie lettere per mostrare l'insussistenza ed irregolarità di quanto era stato conchiuso per politica in Pavia. Poscia inviò Alessandro varii cardinali per suoi legati in Francia, Inghilterra, Ungheria e a Costantinopoli. In essi regni, siccome ancora in Ispagna, Sicilia e Gerusalemme, fu egli dipoi accettato e venerato come legittimo successore nella sedia di san Pietro. Abbiamo inoltre da Sire Raul [Sire Raul, Histor., tom. 6 Rer. Ital.] che Giovanni cardinale nativo di Anagni, legato di esso papa Alessandro, tertio kalendas martii, trovandosi in Milano nella chiesa metropolitana insieme coll'arcivescovo di quella città Oberto, dichiarò scomunicato Ottaviano antipapa e Federigo imperadore. Poscia nel dì 12 di marzo ferì colle censure i vescovi di Mantova e di Lodi, il marchese di Monferrato, il conte di Biandrate, e i consoli di Cremona, Pavia, Novara, Vercelli, Lodi, e del Seprio e della Martesana. Oltre a ciò, nel dì 28 di marzo scomunicò Lodovico, che stava nella fortezza di Baradello, cinque miglia lungi da Como. Intanto papa Alessandro, per attestato di Giovanni da Ceccano, acquisivit totam Campaniam, et misit in suo jure [Johann. de Ceccano, Chron. Fossae novae.]. Perchè tuttavia bolliva la guerra fra l'imperador Federigo e i Milanesi, il primo aiutato da' Pavesi, Cremonesi, Novaresi, Lodigiani e Comaschi, i secondi da' Bresciani e Piacentini [Otto Morena, Hist. Laud., tom. 6 Rer. Italic. Sire Raul, in Histor.], succederono in quest'anno non poche azioni militari. [766] Più d'una volta passarono i Milanesi ai danni de' Lodigiani, ed anche all'assedio di quella città; ma o furono respinti, o per timore de' Cremonesi si ritirarono. Federigo ancora diede il sacco ad alcune parti del distretto di Milano, e vi smantellò qualche luogo. Formarono i Milanesi, coll'aiuto dei Bresciani, l'assedio del castello di Carcano. Vi accorse Federigo colle genti di Pavia, Novara, Vercelli, Como, e di altri luoghi, col marchese di Monferrato e col conte di Biandrate. Avendo egli impedito il trasporto delle vettovaglie ai Milanesi, costretti furono questi nella vigilia di san Lorenzo, cioè nel dì 9 di agosto, a venire ad un fatto d'armi. All'ala comandata dallo stesso imperadore riuscì di sbaragliar le opposte schiere, di giugnere fino al carroccio de' Milanesi, che fu messo in pezzi, uccisi i buoi che lo menavano, e presa la croce indorata che era sull'antenna colla bandiera del comune. Per lo contrario, il nerbo maggiore della cavalleria milanese e bresciana mise in rotta l'altra ala, composta principalmente di Novaresi e Comaschi; ne perseguitò una parte sino a Montorfano, e il marchese di Monferrato sino ad Anghiera. Tornarono dipoi queste vittoriose squadre al campo, dove era restato l'imperadore con poca gente. S'immaginava egli di avere riportata la vittoria. Ma avvertito del pericolo in cui si trovava, perchè già i Milanesi e i Bresciani erano per venire ad un secondo conflitto, non tardò a decampare con lasciar indietro molti padiglioni e prigioni. Spogliarono i Milanesi co' Bresciani il campo e benchè tardi dessero alla coda de' fuggitivi, pure non fu poca la preda che fecero, e i prigioni che guadagnarono. Nel giorno seguente, festa di san Lorenzo, veniva la cavalleria e fanteria de' Cremonesi e Lodigiani per unirsi all'armata dell'imperadore, senza sapere quanto fosse avvenuto nel giorno addietro. Mentre erano fra Cantù e Monte Baradello, i Milanesi e i Bresciani informati del loro arrivo, furono loro addosso, e gli sconfissero, facendone [767] molti prigioni, col cambio dei quali ricuperarono i lor proprii, ed anche gli ostaggi che restavano in mano di Federigo. Continuarono i Milanesi anche per otto dì l'assedio di Carcano; ma perchè fu bruciato il lor castello di legno, nel dì 19 d'agosto se ne tornarono a Milano. Raccontano Ottone Morena e Sire Raul un terribile incendio che nel dì di san Bartolommeo devastò più della terza parte d'essa città di Milano, con essersi dilatato per varii quartieri, ed aver consumata, oltre ad infiniti mobili, gran quantità di vettovaglie. Mandarono i Milanesi cento cavalieri a Crema, la qual di nuovo cominciò ad alzare la testa e ad essere riabitata. Lo stesso arcivescovo Oberto con altrettanti cavalieri s'andò a postare in Varese. Intanto Federigo passò a Pavia; e perchè si trovava assai smilzo di gente, obbligò i vescovi di Novara, Vercelli e d'Asti, e i marchesi di Monferrato, del Bosco e del Guasto, ed Obizzo marchese Malaspina, ed altri principi, a somministrargli de' balestrieri ed arcieri per sua guardia in quella città sino a Pasqua grande dell'anno venturo. Ottone da San Biagio [Otto de S. Blasio, in Chron.] parla poco esattamente di questi affari all'anno presente, e al suo s'ha certamente da anteporre il racconto degli storici italiani.

Continuando il re di Marocco in questo anno l'assedio per mare e per terra della città di Mahadia nelle coste d'Africa, dove il re Guglielmo teneva un copioso presidio [Hugo Falcandus, in Histor. Romualdus Salernit., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.], spedì esso re di Sicilia ordine alla sua flotta, già inviata per far diversione in Ispagna, di portar soccorso all'assediata città. Consisteva essa flotta poco meno che in cento sessanta galee, ed avrebbe questa potuto far di gran cose, se non fosse stata comandata da Gaito Pietro, un degli eunuchi di palazzo, cristiano di nome, saraceno di cuore. Atterrì l'arrivo suo l'armata de' Mori, e gran festa se ne fece da' cristiani di Mahadia, che si aspettavano di vederlo entrare [768] in porto: quando eccoti Gaito Pietro con somma maraviglia di tutti prender la fuga colla capitana, che fu ben tosto seguitata dall'altre vele. Ciò veduto, i Mori, saltati in sessanta loro galee inseguirono i fuggitivi, e presero sette galee siciliane. Romoaldo Salernitano scrive che Gaito Pietro, data battaglia a quei Mori, ne rimase sconfitto colla perdita di molti legni. Comunque sia, la guarnigione cristiana, veggendo già svanita la speranza del soccorso, trattò di rendersi; e benchè ottenesse di potere spedire a Palermo, e di fatto spedisse colà a rappresentare il bisogno, pure per le cabale segrete dell'ammiraglio Maione, niuno aiuto poterono ottenere: dal che furono necessitati alla resa di sì importante città, colla condizione d'essere ricondotti sani e salvi in Sicilia, e la parola fu lor mantenuta. Intanto l'infingardaggine del re Guglielmo, che sì vergognosamente si lasciava menar pel naso da Maione, e le iniquità continue di costui fecero nascer voce che questo mal uomo tramasse di occupare il regno colla morte del re, ed avesse anche tentato sopra ciò papa Alessandro. Vera o falsa che fosse tal voce, servì essa ad accrescere il numero dei malcontenti tanto in Sicilia, quanto in Puglia; laonde si venne in fine a formare contra di costui una congiura, specialmente da Gionata conte di Conza, Riccardo dall'Aquila conte di Fondi, Ruggieri conte di Acerra, Giliberto conte di Gravina, e da altri baroni di Puglia. Vi aderirono anche le città di Melfi e di Salerno. Avvertitone Maione, spedì Matteo Bonello, uno de' principali baroni della Sicilia, già destinato suo genero, in Calabria per tener saldi que' popoli nella union colla corte. Ma ne avvenne tutto il contrario. Tanto fu detto al Bonello intorno alla necessità di rimediare ai disordini del regno, ch'egli stesso prese la risoluzione di divenire il liberator della patria e del re tradito. Tornato dunque in Sicilia, un dì che Maione era ito a visitar l'arcivescovo di Salerno infermo, [769] affrontatolo con varii armati nel ritorno, il trucidò. Fece scempio il popolo del di lui cadavero, e diede il sacco alle case dei di lui parenti ed amici. Svegliossi allora il re Guglielmo dal suo letargo, ed, informato meglio degli affari, non pensò per allora a farne alcuna vendetta, e si calmò ogni movimento de' popoli, con restar egli liberato da un pessimo arnese, tuttochè gli dispiacesse non poco la maniera con cui gli fu prestato questo servigio.


   
Anno di Cristo MCLXI. Indizione IX.
Alessandro III papa 3.
Federigo I re 10, imperad. 7.

L'anno fu questo in cui, accordatisi insieme Lodovico VII re di Francia ed Arrigo II re d'Inghilterra, pubblicamente riconobbero per vero pontefice romano Alessandro III. Al qual fine fu celebrato un copioso concilio in Tolosa, dove si decretò, non doversi ammettere se non questo papa. Non avea lasciato l'imperador Federigo di tentare di tirar nel suo partito con varie lettere que' due monarchi [Gerhous Reicherspergens., de investigand. Anticar., lib. 1.], ed intervennero anche i suoi ambasciatori e quei dell'antipapa al suddetto concilio; ma nulla poterono ottenere. Ritornò in quest'anno a Roma papa Alessandro [Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Italic.], e solennemente quivi consecrò la chiesa di santa Maria nuova. Ma perciocchè non sapea trovar se non pericoli, e una continua inquietudine in quella stanza a cagione del troppo numero degli scismatici e della potenza dell'antipapa; e perchè inoltre scoprì le male intenzioni di que' Romani che si fingevano tutti suoi, ma segretamente favorivano Ottaviano, si ritirò di nuovo nella Campania. Quivi dimorò sin verso il fine dell'anno. Considerando poi che, a riserva di Orvieto, Terracina, Anagni e qualche altra terra, tutto [770] il resto del patrimonio di San Pietro da Acquapendente sino a Ceperano era stato occupato dai Tedeschi e dagli scismatici, col parere del sacro collegio prese la risoluzione di passare nel regno di Francia, usato rifugio de' papi perseguitati. Concertato dunque l'affare con Guglielmo re di Sicilia, che gli fece allestir quattro ben armate galee, e lasciato prima per suo vicario in Roma Giulio vescovo di Palestrina, era per imbarcarsi in Terracina, quando, insorto all'improvviso un vento rabbioso, disperse que' legni, e poco mancò che non li fracassasse negli scogli. Risarcite le galee suddette, e preparatane alcun'altra, negli ultimi giorni dell'anno s'imbarcò il papa coi cardinali, e per la festa di sant'Agnese pervenne a Genova [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.], dove fu con somma divozione ed allegria accolto da quel popolo, che niun pensiero si mise del suo contravvenire agl'impegni contrarii dell'Augusto Federigo. Nel dì 17 di marzo si portò l'esercito milanese all'assedio di Castiglione [Otto Morena, Hist. Laudens., tom. 6 Rer. Italic.], terra situata nel contado di Seprio, e cominciò coi mangani a tempestarla di pietre, e ad accostarsi coll'altre macchine. Erano stretti forte i Castiglionesi; ma ebbero maniera di spedire un messo all'imperadore per chiedergli soccorso. Venuto a Lodi, non perdè egli tempo ad ammassar quante genti potè di Parmigiani, Reggiani, Vercellesi, Novaresi e Pavesi, e di varii principi d'Italia. Con questo esercito andò ad accamparsi sopra il fiume Lambro; nè di più vi volle, perchè i Milanesi, conoscendo la risolutezza di questo principe, dato il fuoco a tutti i mangani, gatti e all'altre macchine di guerra, lasciassero in pace Castiglione, e se ne tornassero a Milano. Diede poi Federigo il guasto a quante biade potè del contado di Milano. Le sue premure intanto portate in Germania per ottener gagliardi [771] rinforzi di gente, affin di domare l'ostinato popolo di Milano, furono cagione che molti principi calassero in Italia con assaissime schiere d'armati. Fra i quali si distinsero Corrado conte palatino del Reno, fratello d'esso imperadore, Federigo duca di Suevia figliuolo del fu re Corrado, il lantgravio cognato d'esso Augusto, il figliuolo del re di Boemia. Rinaldo cancelliere e arcivescovo eletto di Colonia condusse più di cinquecento uomini a cavallo. Altri vescovi, marchesi e conti vennero anche essi ad aumentare l'armata. Con questo gran preparamento sul fine di maggio Federigo marciò alla volta di Milano fin sotto le mura, e fece tagliar ne' contorni per quindici miglia un'infinita quantità di biade, alberi e viti. Di là passò a Lodi, dove nel dì 18 di giugno tenuto fu un conciliabolo dall'antipapa Vittore, e vi intervennero Pellegrino patriarca d'Aquileia, Guido eletto arcivescovo di Ravenna, Rinaldo eletto di Colonia, gli arcivescovi di Treveri e Vienna del Delfinato, e molti vescovi ed abbati. Furono ivi lette le lettere dei re di Danimarca, di Norvegia, Ungheria e Boemia, e di diversi arcivescovi e vescovi, che diceano di voler tenere per papa esso Vittore, e di approvar quanto egli avesse determinato nel conciliabolo suddetto. In essa raunanza fu pubblicata la scomunica contra di Oberto arcivescovo di Milano, e de' vescovi di Piacenza e Brescia, e de' consoli di Milano e di Brescia.

Nel dì 7 di agosto tornò Federigo coll'armata vicino a Milano. Venne avviso al lantgravio, al duca di Boemia e al conte palatino, che i consoli di Milano desideravano d'abboccarsi con loro. Ricevute le sicurezze, vennero i consoli; ma dai soldati dell'eletto arcivescovo di Colonia, che nulla sapeva del concertato, furono presi in viaggio. Portata questa nuova ai Milanesi, disperatamente si mossero per ricuperare i consoli, ed attaccarono battaglia. Saputone il perchè, que' principi, che aveano data la parola, [772] montarono in tanta collera, che se non s'interponeva l'imperadore, aveano risoluto d'ammazzare quell'arcivescovo. Andò innanzi il conflitto, in cui Federigo, dimenticata la sua dignità, la fece da valoroso soldato; gli fu anche morto il cavallo sotto, e ne riportò una leggera ferita. Soperchiati in fine dall'eccessivo numero de' nemici, furono obbligati i Milanesi a retrocedere in fretta, inseguiti sino alle fosse e porte della città, con lasciar molti di loro uccisi sul campo, e prigioni ottanta cavalieri, e dugento sessantasei fanti, che furono menati nelle carceri di Lodi. Finì poscia Federigo di dare il guasto alle biade, agli alberi e alle viti del distretto di Milano, con torre a quel popolo ogni sussistenza. E perciocchè stando in Pavia non avrebbe potuto impedire il trasporlo de' viveri di Piacenza a Milano, determinò di passare il verno in Lodi coll'Augusta Beatrice, col figliuolo del duca Guelfo, e col duca Federigo suo cugino, e diede il congedo a varii altri signori, che tornarono in Germania. Succederono in questo anno altre novità in Sicilia [Hugo Falcandus, Histor.]. Ebbe licenza Matteo Bonello, uccisore del perfido Maione, di ritornarsene a Palermo, dove fu ricevuto con tale applauso ed onore dalla nobiltà e dal popolo, che ne concepì gelosia il re Guglielmo. Si servirono di tal occasione i vecchi amici e le creature di Maione, per accrescere in mente del re i sospetti contra del medesimo Bonello, quasichè le sue linee tendessero ad usurpar la corona. Di ciò avvedutosi il Bonello, formò egli una congiura per veramente deporre dal trono l'incapace re, e di mettere in suo luogo il picciolo di lui figliuolo, cioè il duca Ruggieri. Prima di quel che si voleva, e in tempo che il Bonello era a far de' preparamenti fuor di Palermo, prese fuoco la cospirazione. Sforzarono i congiurati il palazzo, si assicurarono del re Guglielmo, ed esposero il duca Ruggieri alle finestre per farlo acclamare re. Ma [773] si trovò discorde il popolo, i più approvando, ma altri disapprovando l'operato da essi. E massimamente si opposero i vescovi e gli altri ecclesiastici, con ricordare a tutti l'obbligo de' sudditi, e a' vassalli il giuramento prestato. Perciò prevalse il partito di chi volea libero il re, e furono obbligati que' congiurati a rilasciarlo, dopo aver ottenuta la sicurezza di poter uscire liberi fuori della città. Fu così barbaro Guglielmo, se pure è vero ciò che se ne conta, che presentatosegli davanti l'innocente figliuolo Ruggieri, già acclamato re, con un calcio il fece cadere a terra, in guisa che da lì a non molto spirò l'ultimo fiato in braccio della stessa infelice sua madre. Ma Romoaldo Salernitano [Romuald. Salernit., in Chron. tom. 7 Rer. Ital.] ne attribuisce la morte ad una saetta gittata in quel tumulto, che il percosse presso un occhio con ferita mortale. Perseguitò dipoi il re Guglielmo i baroni congiurati; e questi misero sottosopra tutta la Sicilia. Fece cavar gli occhi a Matteo Bonello; assediò Botera, ed, entratovi, tutta la fece diroccare. Intanto essendo rientrato in Puglia Roberto conte di Loritello [Johannes de Ceccano, Chron. Fossaenovae.], mise in rivolta molte di quelle terre e città fino a Taranto. Ma sopravvenuto il re Guglielmo col suo esercito, ripigliò Taranto e tutto il perduto: il che si tirò dietro l'allontanamento dal regno d'esso conte Roberto e d'altri baroni, i quali si rifugiarono presso lo imperador Federigo. Tutte queste scene ed altre, ch'io tralascio, son diffusamente narrate da Ugone Falcando. In questo anno i Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.] stabilirono i patti del commercio con Lupo, chiamato da essi re di Spagna, ma che, secondo il Mariana, non fu se non re di Murcia. Altrettanto fecero col re di Marocco, e spedirono a Gerusalemme per ricuperare i loro diritti nelle città di Terra Santa.

[774]


   
Anno di Cristo MCLXII. Indizione X.
Alessandro III papa 4.
Federigo I re 11, imperad. 8.

Famosissimo divenne quest'anno, perchè in esso finalmente venne fatto all'imperador Federigo di vedere a' suoi piedi il popolo di Milano, e di potere sfogare contra della loro città il suo barbarico sdegno [Acerbus Morena, Hist. Laud., tom. 6 Rer. Italic.]. Il guasto dato a tutti i contorni di Milano avea privato di viveri quel valoroso popolo, nè restava speranza nè maniera di cavarne dai vicini, perchè tutti all'incontro erano lor nemici e collegati per rovina di quell'illustre città. La sola città di Piacenza avrebbe potuto o voluto soccorrere; ma n'era impedita dall'armi di Federigo, acquartierato apposta a Lodi, che facea battere le strade, e tagliar crudelmente la mano destra a chiunque era colto portante vettovaglia a Milano. Però si cominciò stranamente a penuriare in essa città, e alla penuria tenne dietro una grave discordia tra i cittadini, cioè tra i padri e i figliuoli, i mariti e le mogli e i fratelli, gridando alcuni che s'aveva a rendere la città, ed altri sostenendo che no: laonde accadevano continue risse fra loro [Sire Raul, Histor., tom. 6 Rer. Ital.]. Si aggiunse che i principali formarono una segreta congiura di dar fine a tanti guai, in guisa che prevalse il sentimento accompagnato da minaccie di chi proponeva la resa, e fu preso il partito d'inviare a trattar di pace. Iti gli ambasciatori a Lodi, proposero di spianare per onor dell'imperadore in sei luoghi le mura e le fosse delle città. Federigo col parere de' suoi principi, e de' Pavesi, Cremonesi, Comaschi ed altri popoli nemici di Milano, stette fisso in volerli a sua discrezione senza patto alcuno. Durissima parve tal condizione, ma il timore di peggio indusse i Milanesi ad accomodarsi al fierissimo rovescio della lor fortuna. Pertanto nel primo [775] giorno di marzo vennero a Lodi i consoli di Milano, cioè Ottone Visconte, Amizone da porta Romana, Anselmo da Mandello, Anselmo dall'Orto, con altri; e colle spade nude in mano, siccome nobili, giurarono di fare quello che piacesse all'imperadore, e che lo stesso giuramento si presterebbe da tutto il loro popolo. Nella seguente mattina comparvero trecento soldati a cavallo milanesi, che rassegnarono a Federigo le lor bandiere, e insieme le chiavi della città. Nel martedì vennero circa mille fanti da Milano col carroccio, che giurarono come i precedenti. Volle Federigo quattrocento ostaggi, e spedì sei Tedeschi e sei Lombardi, fra i quali fu Acerbo Morena, allora podestà di Lodi, continuatore della storia cominciata da Ottone suo padre, acciocchè esigessero il giuramento di totale ubbidienza da tutto il popolo milanese. Andò l'imperadore a Pavia con tutta la corte, e nel dì 19 d'esso mese di marzo mandò ordine ai consoli milanesi [Acerbus Morena. Sire Raul. Otto de Sancto Blasio.] che in termine di otto giorni tutti i cittadini maschi e femmine evacuassero la città con quel che poteano portar seco. Spettacolo sommamente lagrimevole fu nel dì 25 il vedere lo sfortunato popolo piangente abbandonar la cara patria co' piccoli lor figliuoli, cogl'infermi e coi lor fardelli, portando quel poco che poterono, e lasciando il resto in preda agli stranieri. Alcuni giorni prima, cioè nel dì 18, se n'era già partito l'arcivescovo Oberto coll'arciprete Milone, Galdino arcidiacono ed Alchisio cimeliarca, ed ito per trovar papa Alessandro che tuttavia dimorava in Genova. Chi potè, se ne andò a Pavia, a Lodi, a Bergamo, a Como, e ad altre città; ma l'infelice plebe si fermò fuori della città ne' monisteri di san Vincenzo, di san Celso, di san Dionisio e di san Vittore, sperando pure che non fosse estinta affatto nel cuore dell'imperadore la clemenza, e ch'egli, soddisfatto dell'ubbidienza, permetterebbe il ritorno alle lor [776] case. Non poteva essere più vana una sì fatta lusinga. Comparve nel dì seguente Federigo accompagnato da tutti i suoi principi e soldati, e da' Cremonesi, Pavesi, Novaresi, Lodigiani e Cremaschi, e da quei del Seprio e della Martesana; ed, entrato in Milano, l'abbandonò all'avidità militare. Nel sacco neppure alcun riguardo s'ebbe alle chiese. Furono asportati i lor tesori, i sacri arredi e le reliquie. Ed allora dicono, che trovati i corpi creduti dei tre re magi, e donati a Rinaldo arcicancelliere ed arcivescovo eletto di Colonia, furono portati alla di lui città, dove di presente la popolar credenza li venera. Scrissero alcuni che anche i corpi dei santi Gervasio e Protasio furono portati a Brisacco; ma il Puricelli e il signor Sassi, bibliotecario dell'Ambrosiana, hanno già convinta di falso una tale opinione. Sire Raul, autore di questi tempi, scrive seguito solamente nell'anno 1164 questo pio ladroneccio.

Poscia uscì della bocca imperiale il crudele editto pella total distruzione della città di Milano. Se fosse vero ciò che racconta Romoaldo arcivescovo in questi tempi di Salerno [Romualdus Salernitanus, in Chron.], Federigo nella concordia avea promesso civitatem integram, et cives cum rebus suis permanere illaesos; poi mancò alla parola. Ma non s'accorda questa particolarità con quanto ne scrivono il Morena e Sire Raul, storici più informati di questi fatti. Furono deputati i Cremonesi ad atterrare il sestiere di porta Romana, i Lodigiani a quel di porta Renza, i Pavesi a quel di porta Ticinese, i Novaresi a quel di porta Vercellina, i Comaschi a quel di porta Comacina, e il popolo del Seprio e della Martesana a quello di porta Nuova. L'odio e lo spirito della vendetta animò sì forte questi popoli, che si diedero un'incredibil fretta alla rovina dell'infelice città. Gran somma di danaro aveano anche sborsato a Federigo per ottenerne la permissione. Il fuoco attaccato alle case ne distrusse buona parte; il resto fu diroccato [777] a forza di martelli e picconi, ed anche in pochi giorni si vide smantellata la maggior parte delle mura. Pare che Acerbo Morena si contraddica, perchè, dopo avere scritto, che usque ad dominicam Olivarum tot de moenibus civitatis consternaverunt, quod ab initio a nemine credebatur in duobus mensibus posse dissipari, soggiugne appresso, che remansit tamen fere totus murus civitatem circumdans (forse manca dissipatus), qui adeo bonis et magnis lapidibus confectus fuerat, et quasi centum turribus decoratus, quod, ut existimo, numquam tam bonus fuit visus in Italia. Certo è da credere che, se non prima, lo dirupassero almeno dopo la domenica dell'ulivo, perchè lasciando in piedi un sì forte muro, nulla avrebbono fatto. E Sire Raul scrive che Federigo destruxit domos, et turres, et murum civitatis. Così ha l'Abbate Urspergense [Abbas Urspergensis, in Chron.], Elmoldo, Gotifredo monaco ed altri. Il campanile della metropolitana, mirabile a vedere per la sua vaghezza ed incredibil altezza, venne per comandamento dell'imperadore abbassato. Ma rovesciato sopra la chiesa, ne atterrò la maggior parte. La fama accrebbe poi questa calamità di Milano, essendo giunti alcuni a scrivere [Ptolom. Lucens., in Annalib.] che Federigo vi fece condurre sopra l'aratro, e la seminò di sale: tutte fandonie. Per attestato di Duodechino [Dodech., in Append. ad Marian.] populus expulsus fuit; murus in circuitu dejectus; aedes, exceptis Sanctorum templis, solo tenus destructae. Reservatis tantummodo matrice Ecclesia, et quibusdam aliis, scrive Roberto dal Monte [Robert. de Monte, in Append. ad Sigebert.]. Ordine ancora fu dato che mai più non si potesse rifabbricare, nè abitar quella nobilissima città, a spianar le cui fosse concorse quasi tutta la Lombardia. Io qui niuna menzione farò delle favole della Cronica de' conti di Anghiera, mentovate ancora da Galvano [778] Fiamma [Gualvan. Flamma, Manipul. Flor.], perchè il confutarle sarebbe tempo mal impiegato. Nella domenica delle Palme assistè Federigo Augusto ai divini uffizii nella basilica di santo Ambrosio [Acerbus Morena, Histor. Laudens., tom. 6 Rer. Ital.] fuori della desolata città milanese, e prese l'ulivo benedetto; e nello stesso giorno s'inviò a Pavia. Celebrò egli in essa città la santa Pasqua, col concorso della maggior parte dei vescovi, marchesi, conti ed altri baroni d'Italia. Alla messa e dopo la messa, ad un lauto convito, a cui s'assisero i suddetti principi, e i vescovi colla mitra, e i consoli delle città, si fece vedere colla corona in capo, insieme coll'Augusta Beatrice, giacchè due anni innanzi avea fatto proponimento di non portar più corona, se prima non soggiogava il popolo di Milano. Grande fu allora il giubilo e il plauso del popolo di Pavia per le fortune dell'imperadore; e gli scrittori tedeschi si sciolgono in sonori elogi del suo gran valore e della sua costanza, per aver sottomessa una sì riguardevol città. Ma resterebbe da vedere se gloria vera s'abbia a riputare per un monarca cristiano il portare l'eccidio ad un'intera insigne città, con distruggere e seppellir tante belle fabbriche e memorie dell'antichità, che fino a' tempi di Ausonio quivi si conservavano. Che in pena della ribellione si dirocchino tutte le mura ed ogni fortificazione, ciò cammina; ma poi tutto, chi può mai lodarlo, e non attribuirlo piuttosto ad un genio barbarico? A mio credere, i buoni principi fabbricano le città, e i cattivi le distruggono. Certo intanto è che la caduta e rovina di Milano sparse il terrore per tutta l'Italia, ed ognuno tremava al nome di Federigo Barbarossa. Però non è da stupire se i Bresciani spedirono nella seconda domenica dopo Pasqua i loro consoli, accompagnati da molta nobiltà, a Pavia, per sottomettersi ai di lui voleri. Fu accettata la lor sommessione, con patto di dover demolire tutte le torri e mura della lor [779] città, di spianar le fosse, di ricevere un podestà dall'imperadore, di pagar una buona somma di danaro, e di consegnare ad esso Augusto tutte le rocche e fortezze del loro contado, e di militare con lui, occorrendo, anche a Roma e in Puglia. Sapea ben Federigo nella buona ventura mettere i piedi addosso a chiunque gli cadeva sotto le mani.

Vi restavano i soli Piacentini da mettere in dovere. Già si sapeva che era giurato l'assedio della lor città. Ma conoscendo essi la necessità di prevenir la tempesta, trattarono di pace, e colla mediazione di Corrado conte palatino del Reno, fratello dell'imperadore, l'ottennero. Però i lor consoli colle spade nude si presentarono a Federigo nel dì 11 di maggio, mentre egli era a San Salvatore fuori di Pavia, e se gli sottomisero con promessa di pagargli sei mila marche d'argento, di distruggere le mura e le fosse della lor città, di ricevere un podestà, di restituir tutte le regalie, e di cedere tutte quelle castella del lor territorio che volesse l'imperadore; il che era poco men che perdere tutto l'essere di repubblica. Ciò fatto, mandò Federigo per podestà de' Milanesi il vescovo di Liegi; a Brescia Marquardo di Grumbac; a Piacenza Aginolfo, e poscia Arnaldo Barbavara; a Ferrara il conte Corrado di Ballanuce; a Como maestro Pagano; e così ad altre città. Per grazia speciale permise ai Cremonesi, Parmigiani, Lodigiani ed altri popoli fedeli il governarsi co' proprii consoli. Rapporta il Sigonio [Sigon., de Regno Ital., lib. 13.] l'investitura data ai Cremonesi, molto vantaggiosa per loro. Nel mese di giugno passò Federigo alla volta di Bologna, che era tuttavia restia ai comandamenti di lui. Seguì parimente accordo con quel popolo, obbligato anch'esso a diroccar le mura, a guastar le fosse della città, a fare lo sborso di molta pecunia, e a ricevere pel suo governo il cesareo podestà. Andò poscia ad Imola e Faenza, e ad altri luoghi. In somma non vi restò città dell'Italia [780] di qua da Roma che non piegasse il collo sotto i piedi del formidabil Augusto, a riserva della rocca di Garda, che occupata da Turisendo veronese, e assediata quasi per un anno dal conte Marquardo e da' Bergamaschi, Bresciani, Veronesi e Mantovani, lungo tempo si difese, e finalmente si rendè con onesta capitolazione. Anche i Genovesi, chiamati da Federigo a Pavia, per attestato di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.], vennero all'ubbidienza, ed ottennero buoni patti, con ritener tutte le regalie, perchè s'obbligarono di servire a Federigo nelle spedizioni ch'egli meditava contro il re di Sicilia. Il privilegio conceduto da esso imperadore ai Genovesi può leggersi nelle mie Antichità italiane [Antiquit. Ital., Dissert. XLVIII et LXXII.]. Affinchè restasse memoria della sua crudeltà contra de' Milanesi; quel diploma si vede dato Papiae apud sanctum Salvatorem in palatio imperatoris post destructionem Mediolani, et deditionem Brixiae, et Placentiae, V junii, anno dominicae Incarnationis MCLXII, Indictione X. Altri diplomi segnati in questa forma ci restano. Curiosa cosa è il vedere con che generosità Federigo diede allora in feudo al popolo genovese siracusanam civitatem cum pertinentiis suis, et ducentas quinquaginta caballarias terrae in valle Nothi, ec. et in unaquaque civitate maritima, quae propitia divinitate a nobis capta fuerit, rugam unam (una rua, una contrada) eorum negotiatoribus convenientem cum ecclesia, balneo, fundico, et furno, con altre liberalità. Ma il proverbio dice che il fare i conti sulla pelle dell'orso vivo non sempre riesce.

Nella domenica di passione imbarcatosi di nuovo a Genova papa Alessandro III [Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Italic.], di colà passò a Magalona in Francia, e poscia a Mompellieri, dove mandò il re Lodovico VII a visitarlo e a rendergli l'onore dovuto. Nel giugno si [781] inviò a Chiaramonte. Alle glorie dell'Augusto Federigo mancava quella solamente di terminar la lite del pontificato romano a voglia sua. Mostrando egli in apparenza grande zelo per l'unione della Chiesa, subito che intese l'arrivo in Francia di papa Alessandro, scrisse al re Lodovico, proponendo un abboccamento con lui per dar fine a questo importantissimo affare; e che a San Giovanni di Laune, oppure a Besanzone si tenesse un concilio, dove si presentassero i due contendenti, per esser ivi esaminate le ragioni d'ambedue le parti. Covava nondimeno l'astuto imperadore il pensiero di burlar non meno l'odiato Alessandro che l'antipapa Ottaviano. Apud se cogitavit (lo abbiamo dalla vita di papa Alessandro), sicut homo hujus saeculi prudentissimus, sagax, et callidus, qualiter posset Alexandrum, et idolum suum judicio universalis Ecclesiae pariter dejicere, atque personam tertiam in romanum pontificem ordinare. Trovaronsi insieme papa Alessandro e il re Lodovico a Souvignì, e il re, principe che non andava molto alla malizia, volle persuadere al papa di venir al progettato congresso; ma Alessandro tenne il piè fermo, allegando che non conveniva alla dignità della Sede apostolica il sottoporsi a quel giudizio; e che giusto motivo avea di sospettar artifizii e superchierie dalla parte di Federigo, che già era apposta passato in Borgogna. Di grandi negoziati si fecero dipoi; ma volle Dio che scoperti in fine i raggiri d'esso imperadore, il re di Francia si ritirasse dal contratto impegno: perlochè fu quasi per nascere rottura di guerra fra que' due monarchi, se non fosse accorso in aiuto del re Lodovico il re d'Inghilterra: il che mise freno a Federigo, che oramai si credea di potere dar legge a tutti, e pretendea che ai soli vescovi del suo imperio appartenesse il giudicar dell'elezione del romano pontefice. In somma esso Augusto, mal contento di tanti maneggi inutilmente fatti, fu forzato dalla mancanza de' viveri a tornarsene coll'esercito in Germania; e l'antipapa, [782] veggendosi mal ricevuto in quelle parti, se ne tornò in Italia. Rimandò poco dappoi Federigo in Italia l'eletto arcivescovo di Colonia Rinaldo, principal arnese, ma arnese pessimo della sua corte [Acerbus Morena, Histor. Lauden., tom. 6 Rer. Ital. Romualdus Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Italic.], che fatto un viaggio per la Lombardia, Romagna, marca di Verona e Toscana, si studiò di assodar tutte le città e principi nell'ossequio verso l'imperadore. Intanto il miserabil popolo di Milano [Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.] escluso dalla sua patria, senza tetto dove ricoverarsi, fu ripartito dal vescovo di Liegi in quattro siti, alcune miglia lungi dalla città, con permissione di fabbricar ivi de' borghi per loro alloggio. Tornò in Germania quel vescovo, e lasciò al governo d'esso popolo Pietro di Cunin, che cominciò a far delle estorsioni in varie maniere. Terminò in quest'anno il re di Sicilia la guerra di Puglia [ Romualdus Salernit., in Chron. Johann de Ceccano, Chron. Fossaenovae.] colla presa di Taverna e di Monte Arcano; e, passato a Salerno, senza volervi entrare, s'accampò sotto quella città. Era inviperito contra di quel popolo, perchè esso dianzi avea consentito alla congiura che divampò contro di lui. Pretese il re una gran somma di danaro da que' cittadini; nè potendo eglino colla puntualità ricercata soddisfare al pagamento, con questo pretesto minacciò Guglielmo l'ultimo eccidio alla città. Ed era disposto ad eseguir la parola, quando sul bel mezzo giorno e a ciel sereno, insorto un impetuoso turbine, seguitato poi da una furiosa pioggia, schiantò quasi tutte le tende, e specialmente la regale, in maniera che Guglielmo, il quale allora dormiva, corse pericolo di riportarne gran danno. Se ne fuggì egli in una picciola tenda che era rimasta in piedi, con raccomandarsi a san Matteo apostolo, il cui corpo si pretende conservato in quella città. Fu questo in fatti creduto un miracoloso ripiego del santo Apostolo, per liberar da quel rischio il suo popolo; e però impaurito [783] il re, nel dì seguente sciolse le vele verso Palermo, nè altro male fece a quella magnifica città. Insorse in quest'anno discordia fra i Pisani e i Genovesi nella città di Costantinopoli. Avendo prevaluto i primi, diedero il sacco al fondaco dei Genovesi, con asportarne il valore di trenta mila perperi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Italic.]. Portatene le querele a Genova, il popolo in furia spedì a Pisa, chiedendo soddisfazione, altrimenti intimavano la guerra. Non essendo venuta alcuna buona risposta, i Genovesi con dodici galere volarono a Porto Pisano a farne vendetta. Vi distrussero la torre del porto, e presero molte navi coll'avere e cogli uomini. Accadde che arrivò a Pisa il suddetto Rinaldo arcicancelliere ed arcivescovo eletto in Colonia, che, informato di questa briga, mandò tosto a Genova ordine che cessassero le offese, ed ottenne la liberazion de' prigioni. Ma avendo dipoi i Pisani presi due legni dei Genovesi, si riaccese la guerra che era per andare innanzi, se, interpostosi di nuovo l'arcicancelliere, non avesse rimessa all'imperadore, che era a Torino, la cognizion di questa controversia. Stabilì esso Augusto dipoi una tregua fra loro. Di una tal discordia parlano gli Annali pisani all'anno seguente.


   
Anno di Cristo MCLXIII. Indizione XI.
Alessandro III papa 5.
Federigo I re 12, imper. 9.

Dopo avere papa Alessandro celebrata la festa del santo Natale nella città di Tours [Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.], venuta la domenica di settuagesima, passò a Parigi per una conferenza con Lodovico VII re di Francia. Gli venne incontro il piissimo re coi baroni e colle sue guardie due leghe lungi dalla città, e alla vista di lui smontato, corse a baciargli i piedi. Dopo di che amendue continuarono il viaggio fino a Parigi, dove la processione [784] del clero col vescovo l'accolse. Dimorò ivi il pontefice per tutta la quaresima, e vi solennizzò la Pasqua. Poscia, avvicinandosi il tempo della celebrazion del concilio da lui intimato nella città di Tours, colà si trasferì. Riguardevole fu quella sacra adunanza, a cui fu dato principio nel dì 19 di maggio, perchè v'intervennero diciassette cardinali, cento ventiquattro vescovi, quattrocento quattordici abbati, e una copiosa moltitudine di clerici e laici. Furono ivi pubblicati varii canoni di disciplina ecclesiastica, da' quali apparisce che era già insorta nelle parti di Tolosa, e si andava dilatando, una setta d'eretici, i quali, siccome accenneremo, infettarono in fine tutte quelle contrade. Era anche passato in Francia lo studio delle leggi civili, e molti monaci e canonici regolari, col pretesto d'insegnarle nelle scuole, oppur di spiegare la fisica, o di praticar la medicina, abbandonavano i loro chiostri. Questo fu proibito, e dichiarate nulle e sacrileghe tutte le ordinazioni fatte e da farsi dall'antipapa e dagli altri scismatici. E perciocchè l'andar girando il papa dovea riuscire di non lieve aggravio alle chiese, gli fu fatto sapere che se volea più lungamente fermarsi in Francia, eleggesse una dimora stabile nella città che più gli fosse in grado: laonde egli scelse la città di Sens, dove si trattenne dal principio d'ottobre fino alla Pasqua dell'anno 1165. Circa questi tempi avendo Ulrico, novello patriarca di Aquileia, fatta un'invasione nell'isola di Grado [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], vi accorsero i Veneziani con uno stuolo di galee, e il fecero prigione con assai nobili del Friuli nell'ultimo giovedì del carnevale, e tutti li misero nelle carceri di Venezia. Per liberarsi, egli si obbligò di mandare ogni anno da lì innanzi nell'ultimo mercordì del carnevale al doge dodici porci grassi, e dodici pani grossi in memoria della vittoria de' Veneti e della sua liberazione. Allora fu fatto in Venezia uno statuto, che nel giovedì suddetto in avvenire ad [785] un toro e ad altri simili porci nella pubblica piazza si dovesse tagliar la testa, il qual uso per conto del toro dura tuttavia in essa città. Credevasi dalla plebe ciò istituito per denotare che si tagliava il capo al suddetto arcivescovo e a dodici de' suoi canonici; ma i saggi sapeano che pel solo fine suddetto si facea quello spettacolo.

Era in questi tempi straziato l'infelice popolo milanese dai ministri tedeschi, che tutti aveano nell'ossa il morbo dell'avarizia. Tanta era la parte che il loro vice-governatore Pietro di Cunin esigeva dalle rendite de' poderi [Sire Raul, in Hist., tom. 6 Rer. Ital.], che quasi nulla ne restava ai miseri padroni e ai loro rustici. Oltre di che, da que' poderi che aveano i Milanesi sul Lodigiano e Cremasco, nel Seprio, nella Martesana e in altri luoghi, nulla poteano ricavare. Tutto sel divorano gli uffiziali dell'imperadore. Fabbricarono costoro nel borgo di Noseta una gran torre per far quivi la zecca, e guardarvi il danaro dell'imperatore. Ad un magnifico palagio ancora per servigio d'esso Augusto fu dato principio in Monza; e tutto il dì erano in volta gli strapazzati contadini colle lor carra e buoi per condurre i materiali. Altrettanto si facea per la fabbrica del castello di Landriano, e di un palazzo a Vigiantino. Per queste e per altre doglianze della gente, il vescovo di Liegi richiamò il Cunin, e mandò al governo un Federigo cherico, appellato mastro delle scuole: che così era chiamata una dignità nelle cattedrali. La sperienza mostrò che costui avea l'unghie anche più arrampinate che quelle del precedente ministro. Arrivò poi a Lodi nel dì 29 d'agosto, di ritorno dalla Germania l'imperador Federigo coll'augusta sua consorte Beatrice [Acerbus Morena, Histor. Laudens., tom. 6 Rer. Ital.] e con gran comitiva di baroni. Da lì a quattro giorni vi giunse ancora l'antipapa, il quale nel dì 4 di novembre fece la traslazione del corpo di san Bassiano [786] da Lodi vecchio a Lodi nuovo. Lo stesso Ottaviano, ed anche l'imperadore col patriarca d'Aquileia e coll'abbate di Clugnì, ed altri vescovi ed arcivescovi portarono sulle loro spalle la sacra cassa. Nel dì 16 d'esso mese essendosi trasferito a Pavia esso Federigo, allora fu che i Pavesi fecero tante istanze, avvalorate dal rinforzo di una buona somma di danaro, che ottennero di potere smantellar le mura di Tortona, con rappresentare riedificata quella città in obbrobrio dell'imperadore e di Pavia. Corsero dunque all'esecuzion del decreto; nè contenti d'aver diroccato il muro, vi distrussero ancora con fretta incredibile tutte le case, riducendo quella sventurata città in un monte di pietre. Un alto di clemenza esercitò poco appresso l'imperadore coi Milanesi, perchè rimise in libertà i quattrocento loro ostaggi. Passando poi egli da Pavia a Monza nel dì 5 di dicembre, il popolo milanese, confinato in uno dei borghi nuovi, maschi e femmine gli andarono incontro sulla via. Era di notte, e forte piovea. Prostrati a terra in mezzo al fango, gridavano misericordia; e Federigo lasciò ivi Rinaldo arcivescovo eletto di Colonia, acciocchè gli ascoltasse. Questi ordinò che alcuni d'essi nel dì seguente andassero a Monza, dove darebbe loro udienza. Fece anche venir colà dodici di cadaun borgo, e udito che richiedevano la restituzion de' loro poderi più colle lagrime che colla voce, dimandò, cosa offerissero all'imperadore per ricuperarli. Si scusarono essi per la somma loro povertà e per le tante miserie: il che fece montar in collera l'iniquo arcivescovo, e intimar loro di pagare per tutto gennaio prossimo venturo una somma di danaro, e bisognò sborsarla. Nel precedente anno aveano i Pisani inviata un'ambasceria all'imperador Federigo [Annales Pisani, tom. 6 Rer. Ital.], che ne mostrò molto piacere, e fece di molte carezze ai loro ambasciatori. Nell'anno presente poi investì egli di tutte le regalie quel popolo, che si obbligò di armare sessanta [787] galee in aiuto del medesimo Augusto per la guerra che si andava meditando contro il re di Sicilia. Ma questo lor palese attaccamento a Federigo fu cagione che non si poterono accordare coll'imperador de' Greci Manuello Comneno, pretendente ch'essi rinunziassero all'amicizia di Federigo: al che mai non vollero acconsentire. Ma peggio loro avvenne negli Stati del re di Sicilia, perchè considerandoli il re Guglielmo come nemici della sua corona, benchè avesse pace con loro, pure all'improvviso fece prendere quanti Pisani si trovarono nelle sue contrade, ed occupar tutte le loro mercatanzie. Corse un gran pericolo in quest'anno esso re Guglielmo in Palermo [Hugo Falcandus, Histor, Sicul.]. Folto era il numero de' prigionieri di Stato in quelle carceri. Ebbero costoro maniera di uscire, ed usciti assalirono il palazzo regale con disegno e gran voglia di trucidare il re. Fecero così bene il loro uffizio le guardie, che andò fallito il colpo, e restarono i più d'essi tagliati a pezzi.


   
Anno di Cristo MCLXIV. Indizione XII.
Alessandro III papa 6.
Federigo I re 15, imper. 10.

Continuò papa Alessandro ancora per quest'anno la sua dimora in Francia nella città di Sens, dove ebbe molte faccende per le differenze insorte in questi tempi fra Arrigo re d'Inghilterra e Tommaso arcivescovo di Cantorberì, che fu poi santo martire. Intanto l'ambizioso antipapa Ottaviano, chiamato Vittore III, mentre dimorava in Lucca [Cardin. de Aragon., in Vit, Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.], fu colto da una mortale infermità, e quivi impenitente passò al tribunale di Dio nel dì 20 d'aprile. Pietro Blesense, che ne parla per esperienza, descrive il di lui fasto e la di lui crudeltà; e pure si fece credere alla buona gente che al suo sepolcro erano succeduti non pochi [788] miracoli: Pro cujus sanctis meritis dicitur, Deum multa miracula ibi fecisse: così scrive Acerbo Morena [Acerbo Morena, Histor. Laudens., tom. 6 Rer. Ital.], uno de' suoi parziali: il che sempre più ci dee rendere cauti a distinguere i veri dai finti o dai creduti miracoli. Restavano tuttavia in vita due soli cardinali scismatici, cioè Giovanni da san Martino e Guido da Crema. Costoro fecero un'adunanza di molti ecclesiastici della lor fazione; e giacchè Arrigo vescovo di Liegi ricusò il falso pontificato, fu questo conferito allo stesso Guido da Crema, il quale senza alcuna osservanza degli antichi riti ricevette la consecrazione dallo stesso vescovo di Liegi, con assumere il nome di Pasquale III. Speditone tosto l'avviso all'Augusto Federigo, in vece di valersi egli di tal congiuntura per estinguere lo scisma, approvò il fatto, e riconobbe costui per legittimo papa. Intanto le città di Lombardia avvezze per assaissimi anni addietro a vivere lautamente col godimento delle regalie e della libertà, con decoro ed autorità principesca, al vedersi ora ridotte ad una vile schiavitù, troppo mal volentieri s'accomodavano a questo insolito giogo. Si aggiunsero le continue avanie che faceano i ministri imperiali, oppressori dei grandi e de' piccioli, intenti solo a smugnere danaro dagli afflitti popoli. Fece tutto ciò perdere a que' popoli la pazienza, e cominciarono a risorgere gli spiriti generosi in alcune città, determinate di non lasciarsi così obbrobriosamente calpestar da li innanzi [Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III. Acerbus Morena, in Histor. Laudens. Sire Raul., tom. 6 Rer. Ital.]. Queste furono le città della marca di Verona, cioè Verona, Vicenza, Padova, Trevigi, ed altre minori, che strinsero una segreta società e lega fra loro. Trovavansi mal soddisfatti anche i Veneziani per aggravii patiti dagli uffiziali dell'imperadore, e però anch'essi entrarono in essa lega; e tutti cominciarono a far testa agli ordini di Federigo [789] e de' suoi ministri. Appena scoppiò questo principio di ribellione, che Federigo, messo insieme l'esercito de' Pavesi, Cremonesi e dell'altre città fedeli, e col poco che gli restava de' suoi Tedeschi, marciò verso Verona. Prese e distrusse alcune castella di quel territorio: quando eccoti uscirgli incontro l'esercito delle città collegate, che animosamente venne ad accamparsi in faccia sua, disposto e preparato a ricevere o dar battaglia. Tra perchè era superiore di forze questa armata, e perchè cominciò Federigo ad accorgersi del poco capitale che potea far de' Lombardi suoi seguaci, ne' quali più non concorreva l'odio, che li rendè sì fieri contra di Milano, e si scorgeva in essi piuttosto del compatimento e dell'inclinazione per chi avea preso l'armi per la sua libertà: restò esso Augusto assai confuso. Giudicò dunque miglior partito il ritirarsi, benchè non senza rabbia e vergogna, che di azzardare ad un troppo dubbioso fatto d'armi la sua dignità e riputazione. Da lì innanzi ebbe sempre in sospetto tutte le città d'Italia, perchè conosciute troppo vogliose e gelose della libertà; e però, giacchè non sapea farsi amare da esse, cercò da indi in poi di farsi temere. Aveva egli dalla sua di certo solamente i marchesi, conti ed altri nobili vassalli, perchè questi abbisognavano del di lui braccio e patrocinio per non essere divorati dalle città. Mise pertanto in tutte le rocche e fortezze presidii e governatori tedeschi, de' quali unicamente si fidava, senza valersi più d'Italiani.

Accade in quest'anno [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital. Caffari, Annal. Genuens., lib. 1, tom. 6 Rer. Ital. Acerb. Morena, Hist. Laudens., tom. 6 Rer. Ital.] che Barasone giudice di Turri, ossia di Logodoro in Sardegna, e Pietro giudice di Cagliari, uniti co' Pisani, per vendicarsi di varie ingiurie ricevute da Barasone giudice di Arborea, oggidì Oristagno, gli fecero guerra, con bruciargli il paese e menar via gran copia di prigioni. Allora questo giudice d'Arborea si raccomandò ai Genovesi, [790] perchè l'aiutassero ad impetrare dall'imperador Federigo il titolo di re di tutta la Sardegna. E non già del solo suo giudicato; perciocchè, siccome ho io altrove dimostrato [Antiquit. Italic., Dissert. V et XXXII.], la Sardegna era divisa in quattro giudicati, e que' giudici ben cento anni prima si truovavano intitolati re, perchè niun superiore riconoscevano. Promise costui di gran cose ai Genovesi, dai quali perciò fu condotto a Pavia e presentato a Federigo. Condiscese ben volentieri l'imperadore alla dimanda, non tanto per acquistar diritto sopra la Sardegna, quanto per godersi quattro mila marche d'argento, che gli furono esibite per questa grazia. Gli Annali di Pisa dicono che l'offerta fu di trenta mila lire di soldi imperiali. Forse le quattro mila marche davano questa somma. Ma si opposero forte gli ambasciatori pisani alle istanze del giudice e alla risoluzion dell'imperadore, pretendendo che la Sardegna fosse di lor giurisdizione. Altrettanto ancora pretendevano i Genovesi. Federigo che non volle perdere l'oro promesso, senza curarsi delle lor brighe, nel dì 5 d'agosto, nella chiesa di san Siro di Pavia, solennemente coronò e dichiarò re della Sardegna esso Barasone. Il bello fu, che quando Federigo si credea di mettere le mani sopra il danaro accordato, si trovò che il re novello non aveva un soldo, e lavorava solo di promesse. Era Federigo in procinto di condurlo seco prigione in Germania, finchè avesse soddisfatto; ma costui tanto si adoperò coi Genovesi, che fecero sigurtà per lui, ed essi effettivamente dopo alquanti giorni sborsarono la somma, con prenderla ad usura da varii cittadini. Non trovandosi poi maniera ch'egli soddisfacesse ai Genovesi, fu detenuto prigione in Genova; e i Pisani cogli altri giudici della Sardegna mossero di nuovo guerra ad Arborea, e distrussero quasi tutto il paese, di modo che la vanità di Barasone andò a terminare in un re da teatro. Fecero di [791] più i Pisani. Passò Federigo nell'anno presente in Germania ad oggetto di metter insieme una buona armata, per maggiormente assodare il piede in Italia. Colà spedirono i Pisani Uguccione, uno dei lor consoli, per cui maneggio Federigo investì col gonfalone la città di Pisa di tutta l'isola di Sardegna; nè andò molto che i Pisani la renderono interamente tributaria alla loro repubblica. L'onnipotenza dell'oro quella fu che fece dimenticar sì presto a Federigo di aver già dichiarato principe della Sardegna il duca Guelfo suo zio, e poco prima re d'essa isola il vanissimo Barasone. Dagli Annali genovesi si sa che i Pisani sborsarono tredicimila lire per ottenere quel privilegio. Diede fine in quest'anno alla sua vita nel dì 20 di luglio Pietro Lombardo, Novarese di patria, già vescovo di Parigi, celebre personaggio, e conosciuto da tutti col nome di mastro delle sentenze. Abbiamo ancora dagli Annali di Bologna [Matth. de Griffonibus, Annal. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] e di Modena [Annales veteres Mutinens., tom 9 Rer. Ital.] che Bozzo, luogotenente dell'imperadore in Lombardia, fu ucciso nel contado di Bologna, verisimilmente a cagion delle sue angarie. Nè si dee tacere, che, avendo in quest'anno l'Augusto Federigo richiesto aiuto da' Ferraresi pro motione et guerra Venetorumn, Paduanorum, Vicentinorum et Veronensium, quae cornua rebellionis et superbiae contra nos et imperium erexerunt, concedette o confermò loro tutte le regalie con altri privilegii, siccome apparisce dal diploma da me pubblicato [Antiquit. Ital., Dissert. XLVIII.], e dato apud sanctum Salvatorem juxta Papiam, VIIII kalendas junii, anno dominicae Incarnationis MCLXIV, Indictione XII. Con altro diploma confermò al popolo di Mantova parimente tutti i suoi privilegii. Ma, ossia per errore, come io credo, ossia perchè fu usato l'anno pisano, quel diploma si dice bensì dato Papiae apud sanctum Salvatorem VI kalendas junii, anno millesimo centesimo [792] sexagesimo quinto, Indictione XII; ma è certo ch'esso appartiene all'anno presente.


   
Anno di Cristo MCLXV. Indizione XIII.
Alessandro III papa 7.
Federigo I re 14, imper. 11.

Essendo in questi tempi mancato di di vita Giulio vescovo di Palestrina [Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.], lasciato da papa Alessandro per suo vicario in Roma, fu sostituito in suo luogo Giovanni cardinale de' santi Giovanni e Paolo, il quale, a forza di danaro e di esortazioni, indusse il popolo romano a giurar la solita fedeltà ad esso pontefice, e regolò ancora a suo volere il senato. Avendo egli inoltre tolta di mano agli scismatici la basilica vaticana e la contea della Sabina, giudicando che fosse oramai tempo di richiamare il papa dalle contrade della Francia, gli spedì a questo fine messi e lettere di molta premura. Per consiglio dunque non solamente de' vescovi e cardinali, ma anche dei re di Francia e d'Inghilterra, si preparò egli al suo ritorno. Partitosi dopo Pasqua dalla città di Sens, e passando per Parigi, dopo la festa di san Pietro arrivò a Mompellieri; e dappoichè furono all'ordine i legni che doveano condurlo, fra l'ottava dell'Assunzion della Vergine s'imbarcò, con alcuni cardinali, in una nave di Narbona, e il rimanente de' cardinali con Oberto arcivescovo di Milano, il quale fu poi creato cardinale di santa Sabina, in un altro più grosso legno che era de' cavalieri ospitalieri, oggidì appellati di Malta. Aveano appena date le vele ai venti, che eccoti comparir la flotta de' Pisani, i quali stavano in agguato. A tal vista la nave, dove era il papa, voltò la prora, e se ne tornò in fretta a Magalona. Circondarono i Pisani quella in cui venivano i più dei cardinali, e non avendo essi trovato fra loro il pontefice, senza far male alcuno, la lasciarono andare al [793] suo viaggio. Il Neobrigense scrive [Neubrig., lib. 2, cap. 17 Hist.] che questa nave bravamente si difese, e con poco lor gusto fece retrocedere i Pisani. Comunque sia, tornò il papa ad imbarcarsi in un legno più picciolo, ed ancorchè fosse travagliato da alcune tempeste nel cammino, pure felicemente arrivò a Messina [Romualdus Salernitan., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.]. A questo avviso il re Guglielmo, che era in Palermo, inviò tosto a complimentarlo i suoi ambasciatori con molti regali, e destinò l'arcivescovo di Reggio e di Calabria ed altri baroni, che l'accompagnarono fino a Roma: al qual fine somministrò una forte galea pel papa, e quattro altre per gli cardinali e pel resto della corte pontificia. Pertanto nel mese di novembre mosse papa Alessandro III da Messina, e venne a Salerno, dove fu con grande onore accolto da Romoaldo arcivescovo e da tutto il popolo. Nella festa di santa Cecilia giunse all'imboccatura del Tevere sano e salvo, e riposò per quella notte in Ostia. Nel seguente giorno corsero a venerarlo i senatori romani con gran folla di cherici e laici, e gli prestarono la dovuta ubbidienza. Dopo di che coi rami di ulivo il condussero fino alla porta Lateranense. Quivi era il clero vestito de' sacri ammanti, quivi i Giudei colla sacra Bibbia nelle braccia, e i giudici e le milizie colle loro insegne. Con questa processione e fra gli alti viva del popolo passò il papa alla basilica, ed indi al palazzo del Laterano, con tanta allegria della città, che non v'era memoria d'altra sì lieta giornata in quel popolo.

Giunto in Germania l'imperador Federigo vi trovò accesa la guerra [Otto de S. Blasio, in Chron. Abbas Urspergens. in Chron.]. Imperocchè avendo Ugo conte palatino di Toingen fatto impiccare due uomini del duca Guelfo juniore, al quale il duca Guelfo seniore avea rinunziato gli Stati della Suevia, per attendere a quei dell'Italia, [794] esso giovane Guelfo, non potendo averne soddisfazione, mise a ferro e fuoco il di lui paese. Ricorse il palatino per aiuto a Federigo duca di Rotemburg, cugino dell'imperadore; e siccome fra la casa di lui, erede della guibellinga, che noi ora diciam ghibellina, e la casa estense-guelfa del duca Guelfo era antica la gara e la nemicizia; così Federigo prese volentieri ad assisterlo. Il giovane Guelfo anch'egli ebbe dalla sua Bertoldo duca di Zeringhen ed altri principi. Nei primi giorni di settembre vennero alle mani i due eserciti, e Guelfo ne andò rotto, con lasciarvi prigioni novecento de' suoi cavalieri. A questa nuova il vecchio duca Guelfo, ardente di collera corse dall'Italia in Germania, assediò ed espugnò varie castella, e vittorioso andò a riposarsi nelle sue terre. Ma il palatino colle forze del duca Federigo avendo congiunto l'armata de' Boemi, gente allora fierissima, rinforzò la guerra, che costò immensi danni e guasti a quelle contrade, essendo venuti i Boemi per la Baviera e Suevia sino al lago di Ginevra, commettendo infiniti disordini. S'interpose l'Augusto Federigo, fece rilasciare i prigioni, e dare nella dieta d'Ulma al duca Guelfo soddisfazione: con che si smorzò quell'incendio. Tenne ancora Federigo in quest'anno [Chron. Reicherspergense ad hunc annum.] una dieta in Erbipoli, ossia in Wirtzburg, dove circa quaranta vescovi tedeschi giurarono di ubbidire al falso pontefice Pasquale, ossia Guido da Crema. Nell'anno presente ancora, come s'ha dalla Cronica di Fossanuova [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.], Cristiano, eletto, o, per dir meglio, intruso arcivescovo di Magonza, col conte Gotolino e con alcune soldatesche passò nella Campania romana, e fece giurar fedeltà da tutti que' popoli all'antipapa Pasquale, condotto da lui sino a Viterbo, e all'imperadore. Perchè Anagni ricusò di ubbidire, diede il guasto alle sue campagne, ed incendiò Cisterna. Ma non sì tosto furono costoro [795] tornati in Toscana, che Giliberto conte di Gravina e Riccardo da Gaia coll'esercito del re di Sicilia entrarono in essa Campania, ed uniti coi Romani ricuperarono Veroli, Alatri, Ceccano ed altre terre. Si ruppe ancora in quest'anno la tregua fra i Pisani e Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Italic.], e cominciò l'un popolo all'altro a far quel male che potea, con prendersi le navi. Riuscì a' Pisani, dopo aver bruciato Capo Corso, di giugnere, nel dì 21 d'agosto, allo improvviso addosso alla città d'Albenga, e di prenderla, con darle poscia il sacco e consegnarla alle fiamme. Passarono essi dipoi alla fiera di Sant'Egidio in Provenza con galee trentuna. Ma i Genovesi, ansiosi di vendicarsi, con maggior numero di galee andarono a cercar colà i nemici, e fidandosi che Raimondo conte di santo Egidio non proteggerebbe i Pisani, attaccarono una battaglia, che fu separata dalla notte. Gli Annali Pisani [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.] dicono, esserne uscita vittoriosa la lor nazione; ma per una fiera tempesta nel ritorno perderono dodici delle lor galee con tutta la gente.

Crebbero in quest'anno i guai delle città di Lombardia. Avea l'Augusto Federigo lasciati dappertutto i suoi uffiziali che raccogliessero i dazii e tributi spettanti al fisco imperiale. Per testimonianza di Acerbo Morena [Acerbus Morena, Hist. Laudens., tom. 6, Rer. Ital.] tuttochè parzialissimo dell'imperadore, questi cani ne esigevano sette volte più del dovere: Plus de septem, quam imperatori de jure deberetur, ab omnibus injuste excutiebant. Il Morena va specificando gli smoderati tributi ed aggravi, che l'avidità loro inventò. Ai Milanesi non si lasciava che un terzo delle loro entrate. Sopra ogni casa, sopra ogni mulino, sopra la pescagione imposero dazii: la caccia tutta per essi: tolto ai nobili, padroni delle castella, il distretto ossia la giurisdizione, [796] benchè goduta per trecento anni addietro. Altre estorsioni di grano, di fieno, legna, polli e d'altri naturali tuttodì si faceano da essi uffiziali, per attestato di Sire Raul [Sire Raul, tom. 6 Rer. Ital.]. In somma tutto operavano costoro per ridurre all'ultima disperazione i Lombardi; il che nondimeno si credeva contro l'intenzion di esso imperadore. Teneva intanto il timore di peggio molti di questi popoli in dovere; ma in lor cuore si rallegravano al vedere nella marca di Verona già alzata bandiera per la difesa della libertà, e all'udire che i Veronesi e Padovani aveano tolto di mano ai Tedeschi le due fortissime rocche di Rivoli ed Appendice, e spianatele da' fondamenti.


   
Anno di Cristo MCLXVI. Indizione XIV.
Alessandro III papa 8.
Federigo I re 15, imper. 12.

Assalito da grave infermità in questo anno Guglielmo re di Sicilia, stette languente per due mesi [Romualdus Salern., in Chron., Anonymus. Casinens.], e chiamato a sè Romoaldo arcivescovo di Salerno, che dilettavasi forte della medicina, arte allora di gran credito in quella città, ne ascoltò bene i consigli, ma seguitò poi a regolarsi a modo suo. Veggendosi poscia ridotto all'estremo, fatti chiamare nella sua camera i prelati, i baroni e i ministri della sua corte, dichiarò alla loro presenza per suo successore nel regno Guglielmo II suo maggior figliuolo, al quale, per essere di età tuttavia incapace del governo, diede per tutrice e governatrice del regno la regina Margherita sua moglie e madre del giovinetto re, assegnandole tre consiglieri di Stato. Dichiarò ancora principe di Capoa Arrigo altro suo figliuolo; e dopo avere scusata la sua passata condotta, e pregati tutti della lor fedeltà verso la sua prole, nel mese di maggio cessò di vivere. Septimo die intrantis mensis madii, ha il testo di [797] Romoaldo. Ma nel Necrologio casinense è notata la di lui morte idibus maii. I tanti sconcerti succeduti durante il suo regno per la sua disapplicazione [Hugo Falcandus, in Hist.], lasciandosi egli reggere dalla canaglia dei suoi eunuchi, e per la sua crudeltà e mala condotta che gli tirò addosso tante ribellioni, fecero restare il suo nome in abborrimento e maledizione. Si applicò tosto la regina a guadagnarsi l'amore de' sudditi, col far aprire le carceri, richiamar dall'esilio un buon numero di nobili banditi o fuggiti, e minorar le gabelle. Non lasciarono veramente di fare un'irruzione sopra varie terre della Puglia [Johann, de Ceccano, Chron. Fossaenovae.] i vecchi ribelli Andrea conte di Rupecanina e Riccardo dall'Aquila, dappoichè ebbero intesa la morte del re; ma con poco loro profitto, e finì in un fuoco di paglia il lor tentativo. Due giorni dopo la morte del padre, oppure più tardi, come vuole il Falcando, con gran solennità nella cattedral di Palermo fu coronato il nuovo re Guglielmo II, e somma comparve l'allegrezza del popolo, che sperava giorni più lieti sotto di lui; nè cotali speranze andarono fallite. Da lì a qualche tempo restò liberata la Sicilia da un mal arnese, cioè da Gaito Pietro eunuco, principal ministro e camerlengo di quella corte. Costui nato Saraceno, dopo aver preso il sacro battesimo, ritenne sempre in cuore l'antica sua superstizione; e natogli sospetto che gli emuli suoi tramassero contro la di lui vita, imbarcatosi una notte, e seco portando un gran tesoro, se ne fuggì al re di Marocco. Manuello Comneno imperador de' Greci, dacchè seppe assunto al trono Guglielmo II, gli spedì ambasciatori per rinnovare il trattato di pace, e mosse anche parola di dargli per moglie l'unica sua figliuola. Fu ben confermata la pace, e andarono innanzi e indietro ambasciatori e lettere per trattare di quel matrimonio, ma nulla infine si conchiuse di questo per varii politici intoppi. [798] Tornò in quest'anno nel mese di novembre in Italia l'imperador Federigo con un fiorito esercito. Passò per la Val Camonica, perchè i Veronesi doveano aver preso e ben fortificato il passo della Chiusa, e venne ad accamparsi vicino a Brescia. Lo scrittor della vita di papa Alessandro dice [Cardinal. de Aragon., in Vit. Alexandri III.], che, quantunque egli avesse conceputo grand'odio contro i Lombardi, nè si fidasse di loro, pure, chiudendo in petto la sua fierezza, si mostrò amorevole e cortese verso chiunque si presentò all'udienza sua. Non così parla Sire Raul [Sire Raul, in Histor.], autore più informato di questi affari. Diede Federigo il guasto a molte castella e ville del Bresciano, sino alle fosse della città, e costrinse que' popoli a dargli sessanta ostaggi de' principali e più ricchi, i quali furono inviati a Pavia. Devastò ancora la pianura di Bergamo, e sen venne a Lodi, dove tenne un gran parlamento di Tedeschi e Lombardi. S'erano messi gli afflitti popoli della Lombardia in isperanza di sollievo per l'arrivo dell'Augusto sovrano [Idem, ibidem.] e però a folla comparvero colà grandi e piccioli, chi colle croci in mano, e chi senza, chiedendo pietà. Esposero all'imperadore e a' suoi ministri ad una per una tutte le avanie finora patite; e sul principio parve ch'egli se ne condolesse forte, e fosse per farne risentimento. Ma i fatti dimostrarono che nulla curava di tali doglianze. Allora la povera gente scorata affatto, si vide come perduta, nè vi fu chi non credesse che l'imperadore fosse d'accordo con quegl'inumani uffiziali. Si trasferì poi Federigo da Lodi a Pavia, e quivi solennizzò la festa del santo Natale.

Rapporta il cardinal Baronio [Acerb. Morena, Hist. Laudens.] una lettera scritta da esso Augusto ai cardinali: tale nondimeno è lo stile e il tenore di essa, che si può, senza timor di fallare, tenere per un'impostura di qualche dottorello, [799] o monachetto scismatico di quell'età. Certo è bensì che il suddetto imperador di Costantinopoli inviò in questo anno a Roma Giordano Sebasto del suo imperio, figliuolo di Roberto già principe di Capoa [Card. de Aragon., in Vit. Alexandri III.]. Portò egli dei gran regali a papa Alessandro III, e due proposizioni di grande importanza. Era la prima di riunir le due chiese latina e greca, discordi fra loro da gran tempo. L'altra, che il papa restituisse la corona dell'imperio romano agli Augusti greci, promettendo a questo fine mari e monti; cioè tanto oro ed argento, e tanta copia di truppe da ridurre all'ubbidienza l'Italia tutta. Troppo difficile affare, e degno di gran posatezza parve quest'ultimo al saggio pontefice; tuttavia, non volendo trascurar cosa alcuna, inviò coll'ambasciator suddetto in Levante il vescovo d'Ostia e il cardinale de' santi Giovanni e Paolo, principalmente per trattar della concordia, ed anche per iscorgere che fondamento si potea far de' Greci per l'altro negozio. Più che mai durando la gara tra i Pisani e Genovesi [Annal. Pisani. Caffar., Annal. Genuens., lib. 2] per cagion della Sardegna, in questo anno ancora accaddero rappresaglie di varie navi, e fecero i Pisani di molti prigioni. Guglielmo marchese di Monferrato, non contento di tante terre e castella che l'Augusto Federigo sottopose alla di lui giurisdizione, mosse guerra anch'egli a Genova, e loro tolse le castella di Palodi e di Otaggio. Spedì per questo il popolo di Genova i suoi inviati all'imperadore Federigo, per rappresentargli l'aggravio lor fatto dal marchese, e ne riportarono poco buone parole. Inoltre davanti ad esso Augusto seguì un'altra fiera altercazione fra essi e quei di Pisa. Imperocchè era dianzi riuscito a Genovesi di rendersi tributarii in Sardegna i due giudicati d'Arborea e di Cagliari: laonde i Pisani, investiti di quell'isola da Federigo, fecero istanza perchè fosse interdetto a' Genovesi di mettervi [800] piede. Reclamarono i Genovesi, pretendendo che la Sardegna appartenesse loro, dacchè ne cacciarono il re Musetto, e che l'imperadore non potesse investirne altri senza far loro torto. Addussero fra l'altre ragioni che costumavano in segno del lor dominio i Gaetani e Napoletani, ogni qual volta nell'andare in Sardegna o per mercatanzia, o per sale, s'incontravano in legni genovesi, di mandar loro uno scudo pieno di pesci, e due vasi di vetro pieni di pesce, e due barili di vino. Fu rimessa la lite alla curia imperiale, e intanto fu ordinato il rilascio de' prigioni genovesi, con grande schiamazzo de' Pisani. Venne a morte nel dì 28 di marzo in quest'anno nella città di Benevento Oberto arcivescovo di Milano e cardinale [Acta S. Galdini apud Bolland. ad diem 18 april.], e in luogo suo fu consacrato da papa Alessandro nel dì 8 di maggio Galdino già arcidiacono della chiesa milanese, cardinale anch'esso, che per le sue rare virtù meritò poscia d'essere venerato qual santo.


   
Anno di Cristo MCLXVII. Indizione XV.
Alessandro III papa 9.
Federigo I re 16, imper. 13.

Celebre e memorando è quest'anno nella Storia d'Italia per le strepitose avventure che succederono. Avea l'imperadore Federigo mandato avanti con un corpo di truppe Rinaldo, eletto arcivescovo di Colonia e arcicancelliere d'Italia, uomo fatto più per gl'imbrogli secolareschi, che per maneggiare il pastorale, affinchè riducesse i contorni di Roma all'ubbidienza dell'antipapa Pasquale [Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Tra la forza e i regali ridusse Rinaldo ai suoi voleri molte di quelle terre e città; quelle che fecero resistenza, la pagarono con patire saccheggi, incendii od altre calamità figliuole della guerra. Nè solamente fuori di Roma fece egli de' progressi, [801] ma studiossi con profusione d'oro di guadagnare in Roma stessa partito. E perciocchè, come scrive l'autor della vita di papa Alessandro III, con servirsi di un detto degli antichi, Roma, si inveniret emtorem, se venalem praeberet; non furono pochi i Romani che, adescati dalla pecunia, giurarono fedeltà all'antipapa Guido da Crema e all'imperadore contra di ogni persona. Non mancava il buon papa Alessandro con paterne ammonizioni di esortar tutti alla concordia, alla fedeltà e alla difesa della patria, offerendo ancora il danaro necessario per questo; e davano essi buone parole, ma camminavano con doppiezza, volendo piacere all'una e all'altra parte, infedeli nello stesso tempo a tutte e due. Intanto l'Augusto Federigo nel dì 11 di gennaio si mosse da Lodi colla imperadrice e coll'armata alla volta di Roma [Acerb. Morena, Hist. Laud., tom. 6 Rer. Italic. Sire Raul, tom. 6 Rer. Ital.]. Arrivò sul Bolognese, dove, in vendetta della morte data già al suo ministro Bozzo, diede il guasto sino alle porte della città, e ridusse quel popolo a dargli cento ostaggi, che furono mandati sotto buona scorta a Parma, e a pagare sei mila lire di moneta di Lucca. Passò dipoi a Imola, Faenza, Forlì e Forlimpopoli, e in quelle contrade si fermò sino a San Pietro, esigendo da que' popoli e dagli altri della Romagna grosse contribuzioni di danaro. Non si sa il motivo perch'egli facesse quivi sì lunga dimora, non accordandosi ciò col costume di un principe sì focoso e diligente. Finalmente sul principio di luglio marciò verso la città di Ancona, e ne intraprese l'assedio. Era questa città in quei tempi ubbidiente e suddita a Manuello imperador de' Greci, e contuttochè gli costasse di molto il mantenere tale acquisto, pure se ne compiaceva, lusingandosi che potesse un dì quel piccolo nido riuscire di gran vantaggio alle mire non mai interrotte sopra l'Italia. Ora i cittadini, sì perchè animati dai Greci, e perchè restava ad essi libero il mare, nè mancavano buone fortificazioni alla lor terra, si [802] accinsero con vigore alla difesa. Fece Federigo fabbricar varie macchine di guerra, e succederono varii conflitti con vicendevoli perdite, usale in simili contrasti.

Intanto dacchè fu partito l'imperadore dalla Lombardia, Arrigo conte di Des, lasciato governatore in Pavia, perchè verisimilmente subodorò i segreti maneggi delle città lombarde, nel mese di marzo dimandò e volle cento ostaggi del popolo milanese, cinquanta de' quattro borghi, e altrettanti de' forensi. Da lì a qualche tempo crescendo i sospetti, ne volle altri dugento, che tutti mise nelle carceri di Pavia, e fece anche istanza di danari. Allora l'infelice popolo milanese giunto ai termini della disperazione, al vedersi si maltrattato ed oppresso, diede ascolto a chi proponeva di unirsi in lega con altre città, per iscuotere l'insoffribil giogo tedesco. Fecesi dunque un congresso, a cui intervennero i Cremonesi, Bergamaschi, Mantovani, Bresciani e Ferraresi; e senza dubbio vi si contò ancora qualche inviato della lega della marca di Verona. Quivi, rammentati gli aggravii e le crudeltà che tuttodì pativano per l'insaziabilità e indiscretezza de' ministri cesarei, determinarono di voler piuttosto morire una volta con onore, se occorresse, che di viver con tanta lor vergogna e miseria sotto chi si dimenticava d'essere lor principe, e principe cristiano. Una lega dunque fu stabilita fra loro, con obbligarsi, sotto forte giuramento, di difendersi l'un popolo l'altro, se l'imperadore o i suoi uffiziali volessero da lì innanzi recar loro ingiuria o danno senza ragione, salva tamen imperatoris fidelitate, clausola nondimeno che nulla dovea significare secondo i bisogni. Fu specialmente convenuto il giorno d'introdurre i dispersi Milanesi nell'abbattuta e abbandonata loro città, e di star ivi finchè quel popolo si fosse messo in istato di potervi sussistere da sè solo. Erano stati finora i Cremonesi de' maggiori nemici che avesse Milano, e de' più fedeli che potesse vantar Federigo. È da credere che si movessero a mutar massima [803] dal vedere, e fors'anche dal provar eglino il duro trattamento e l'alterigia de' ministri imperiali sulle città lombarde, e temere col tempo di una somigliante fortuna. Sicardo, che pochi anni dappoi fu vescovo di Cremona, e scrisse una Cronica da me in buona parte data alla luce [Sicard., Chron., tom. 7 Rer. Ital.], si lagna non poco di questa risoluzion del suo popolo, perchè a' suoi dì i Milanesi divenuti potenti, e dimentichi de' benefizii, angustiavano forte la città di Cremona: quasichè in quest'anno essa città avesse fabbricato un martello che dovea poi schiacciare il capo a lei. Ma anche i saggi provveggono al bisogno d'oggi, come possono il meglio, rimettendo poi alla provvidenza di Dio il resto, giacchè niuno vi è che arrivi con sicurezza a leggere nel libro dell'avvenire.

Erano i Milanesi in una somma costernazione, perchè veniva minacciata la distruzione de' loro borghi, e i Pavesi ne lasciavano correre la voce; laonde per quattro settimane stettero come in agonia tra i pianti e le grida; e chi a Como, e chi a Novara, a Pavia, a Lodi trasportava i suoi pochi mobili, perchè di dì in dì aspettavano l'ultimo eccidio. Quando nel felicissimo dì 27 d'aprile comparvero le milizie bresciane, cremonesi, bergamasche, mantovane e veronesi, che introdussero quel popolo nella desolata città, con immenso gaudio di tutti [Acta S. Galdini, apud Bolland. ad diem 18 april.]. Che menassero tosto le mani per alzar terra, e valersi delle reliquie dell'antico muro, e serrarsi in casa, ben giusto è il crederlo. Riportata questa nuova all'imperador Federigo, benchè altamente se ne cruciasse il suo cuore, pure mostrò di non curarsene punto. Ed allorchè i collegati videro la città ridotta in istato di competente difesa, si ritirarono per attendere a guadagnar Lodi. Sussistendo questa città sì attaccata al servigio dell'imperadore, niuno di quei popoli si vedeva sicuro. Però trattarono di tirarla nella lega: e perchè i Lodigiani [804] a niun patto volevano staccarsi dal servigio imperiale dopo i tanti beneficii ricevuti da Federigo, si venne alla forza. Fu assediata quella città dai Milanesi e dagli altri alleati nel dì 17 di maggio: seguirono varii combattimenti; fu dato il guasto al paese, e adoperate tante minacce, che finalmente s'indusse quel popolo, per non poter di meno, ad entrar nella lega, salva imperatoris fidelitate. Passarono i collegati al castello di Trezzo, fortezza di gran polso, perchè cinta di un muro e di una torre che non avea pari in Lombardia. Quivi era riposto un gran tesoro dell'imperadore, come in luogo di somma sicurezza. Tanto nulladimeno lo strinsero e batterono colle macchine di guerra, che il presidio tedesco, a riserva del governatore, fu astretto alla resa, salva la lor vita e libertà. Messo a sacco quel castello, fu poi consegnato alle fiamme ed interamente distrutto. Tali notizie le abbiamo da Acerbo Morena, autore lodigiano e contemporaneo; il perchè o non sussiste ciò che scrisse Radevico all'anno 1159 della distruzion di quel castello oppure convien immaginare che fosse rifatto dipoi. Portato questo spiacevole avviso all'imperadore, ne provò allora un immenso dispiacere; ma impegnato nella guerra contra d'Ancona e di Roma, altro per allora non potè fare che legarsela al dito.

Avvenne in questo mentre che il popolo romano concepì, o, per dir meglio, rinnovò l'odio antico contra quei di Tuscolo e di Albano, perchè li vedea inclinati o aderenti ai Tedeschi, e renitenti a pagar gli eccessivi tributi loro imposti [Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Sul fine dunque di maggio essi Romani con tutto il loro sforzo, ancorchè si opponesse a tal risoluzione il prudentissimo papa Alessandro III, andarono a dare il guasto a tutto il territorio tuscolano, con tagliar le biade, gli alberi e le viti: dopo di che assediarono quella città. Rainone padrone di Tuscolo, non [805] avendo forze da poter resistere, per necessità ricorse all'aiuto dell'imperadore, che assediava Ancona. Ordinò egli tosto a Rinaldo eletto arcivescovo di Colonia, esistente in que' contorni, che con alquante schiere d'armati s'affrettasse al soccorso di Tuscolo. Così fece egli. Ma, se vogliam credere a Ottone da San Biagio [Otto de S. Blasio in Chron.], restò Rinaldo rinserrato ed assediato dai Romani in quella città. Ne fu bensì avvisato Federigo, e perchè parve ch'egli non se ne mettesse gran pensiero, Cristiano eletto arcivescovo di Magonza, con Roberto conte di Bassavilla e con altri baroni, prese l'assunto di marciare in aiuto di lui con poco più di mille cavalieri tedeschi e borgognoni, ma i più bravi dell'armata [Acerbus Morena, Hist. Laud., tom. 6 Rer. Italic.]. Allora i Romani si misero in punto di dar battaglia, confidando nella superiorità delle forze, giacchè si tiene che nel campo loro si contassero tra cavalieri e fanti ben tre mila persone armate. Romoaldo Salernitano scrive [Romuald. Salernit., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.] che i Romani, sedotti dalla lor prosunzione e superbia, vollero venire alle mani, ma senza ordine e cautela alcuna. Si azzuffarono dunque nel dì 30 di maggio coi nemici. Sulle prime poco mancò che i Tedeschi, sopraffatti dal troppo numero degli avversarii, non piegassero; ma uscito di Tuscolo l'arcivescovo Rinaldo coi suoi, e dando alle spalle ai Romani, così vigorosamente li caricò, che la lor cavalleria prese la fuga, lasciando alla discrezion de' Tedeschi la fanteria. Non erano i Romani d'allora come gli antichi loro antenati; però da lì innanzi non fu più battaglia, ma solamente una fuga e un macello di que' miseri. Ingrandiscono qui alcuni a dismisura la perdita de' Romani, facendola Ottone da San Biagio ascendere a quindici mila tra morti e prigioni. Lo scrittor della vita di papa Alessandro apre più la bocca, con dire che [806] appena si salvò la terza parte di sì copiosa armata, e che dalla battaglia d'Annibale a Canne in qua non era più succeduta strage sì grande del popolo romano. Sicardo copiò anch'egli questo bell'epifonema. E l'autore della Cronica reicherspergense arrivò a dire che di quaranta mila Romani paucissimi evaserunt, qui non occisi, aut captivati fuerint. Più ancora ne disse Gotifredo monaco nei suoi Annali. Giovanni da Ceccano nella sua cronica di Fossanuova ne fa morti sei mila, e molte altre migliaia di rimasti prigioni. Ma perchè suol più spesso avvenire che la fama e la millanteria de' vincitori faccia in casi tali di troppe frange al vero, meglio sarà l'attenersi qui alla relazione di Acerbo Morena, autor di questi tempi, che dice d'averlo inteso da Romani disappassionati; cioè esservi restati morti più di due mila d'essi Romani, e più di tre mila fatti prigioni, che legati furono condotti alle carceri di Viterbo. L'Anonimo Casinense scrive di mille e cinquecento uccisi, e di mille e settecento prigioni. Meno ancora dice il continuatore degli Annali genovesi di Caffaro.

Non potè contener le lagrime all'avviso di sì funesto successo il buon papa Alessandro. Tuttavia senza avvilirsi attese a premunir la città di Roma, e a procurar degli aiuti dal di fuori. Mosse la regina di Sicilia e il figliuolo Guglielmo II a spedir le loro truppe, che giunte nella campagna di Roma, si diedero ad assediare un forte castello presediato da' Tedeschi. Secondo Acerbo Morena, pare che il giovinetto re venisse in persona a tale impresa; ma è cosa non sì facile da credere. Ora l'avviso della vittoria riportata dalle sue genti sotto Tuscolo, ma più questa mossa delle armi siciliane, furono i motivi che indussero Federigo a dismettere l'assedio d'Ancona a fine di trasferirsi verso Roma. Per mantener nondimeno il decoro, ed acciocchè non paresse che la ritirata venisse da paura, ammise dopo quasi tre settimane d'assedio ad un [807] trattato d'accordo gli Anconitani, i quali si obbligarono di pagargli una gran somma di danaro, e per sicurezza del pagamento gli diedero quindici ostaggi. S'ingannò Ottone da San Biagio con altri, allorchè scrisse che Ancona si rendè all'imperadore. L'impazienza di Federigo era grande, nè volendo aspettare i lenti passi della fanteria, presa seco la cavalleria e l'Augusta sua moglie, a gran giornate marciò verso la Puglia. Alla nuova che si accostava l'imperadore, e sulla credenza ancora che con tutta l'armata egli venisse, si ritirarono ben prestamente dall'assedio del suddetto castello le soldatesche del re di Sicilia. Con tal fretta marciò Federigo, che raggiunse i fuggitivi al passo di un fiume, dove molti ne fece prigioni. Assediò e vinse un castello tolto dal re Guglielmo a Roberto conte di Bassavilla, con restituirlo poi ad esso conte. Arrivò sino al Tronto, mettendo a sacco e fuoco tutte quelle contrade. Sua intenzione pareva di passar più oltre; ma sì vigorose furono le istanze dell'antipapa Pasquale dimorante in Viterbo, per tirarlo a Roma, sì in virtù delle promesse a lui fatte, come anche per la speranza di cacciarne papa Alessandro, che Federigo con tutto l'esercito si mosse a quella volta, e nel dì 24 di luglio giunse a mettere il campo nel monte del Gaudio, appellato monte Malo dallo scrittor della vita di papa Alessandro, che racconta il di lui arrivo colà XIV kalendas augusti. Nulla più sospirava egli che d'impadronirsi della basilica vaticana; nè tardò a superar la cortina e il portico di san Pietro, con ispogliare e dar alle fiamme tutte quelle case. Ma nella vaticana non potè egli entrare, perchè fortificata e ben difesa dalla masnada di san Pietro, cioè dai soldati raccolti dai beni patrimoniali della Chiesa romana. Diedero i Tedeschi varie battaglie al sacro luogo per una continua settimana, sempre inutilmente, finchè riuscì loro di potere attaccar fuoco alla chiesa di santa Maria del Lavoriere, ossia della torre. Essendo questa contigua a san Pietro, poco [808] mancò che le fiamme non penetrassero anche nella basilica. Mise nondimeno quell'incendio tal paura ne' difensori, massimamente veggendo essi di non potere sperar soccorso alcuno dalla città, che dimandarono di capitolare. Fu loro accordato di potersene andar salvi colle persone; e così san Pietro venne in potere di Federigo. Però nella seguente domenica arrivò l'antipapa Pasquale a cantar messa in quella chiesa, nella quale occasione coronò l'imperadore con un cerchio d'oro, insegna del patriziato. Fin dall'anno 1155, siccome abbiam veduto, aveva egli ricevuta la corona imperiale dalle mani di papa Adriano IV. Tuttavia volle (Acerbo Morena, che v'era presente, ce ne assicura) il piacere di riceverla di nuovo da quelle del suo idolo; funzione fatta nel martedì seguente, festa di san Pietro in Vincola. Fu coronata anche l'Augusta Beatrice; anzi che a lei sola fosse imposta l'imperial corona lo scrive l'autor della Cronica Reicherspergense [Chron. Reicherspergens.], parendogli molto strano che il già coronato imperadore si facesse coronar di nuovo. Altrettanto ha Gotifredo monaco di san Pantaleone ne' suoi Annali [Godefr. Monach., in Annal.]. Ciò fatto, si studiò l'imperador Federigo di guadagnare i grandi e il popolo di Roma [Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Italic.]: e siccome accortissimo principe propose, che se dava lor l'animo di fare che il pontefice Alessandro rinunziasse al papato, astrignerebbe anch'egli il suo papa Pasquale ad imitarlo: con che si verrebbe poi all'elezione di un terzo, ed egli darebbe la pace a tutti, senza più intricarsi nell'elezion de' pontefici. Esibiva eziandio di rilasciar tutti i prigioni. Parve questo un bel partito ai più de' Romani, i quali giunsero fino a dire che il papa era tenuto ad accomodarvisi, e a far anche di più per riscattare e salvare tante sue pecorelle; e il cominciarono a tempestar su questo. Ma Alessandro, dacchè si [809] accorse dei segreti maneggi del popolo co' suoi nemici, dal palazzo lateranense s'era ritirato nelle forti case de' Frangipani, e poscia presso il colosseo, con ispedir quivi le cause spettanti alla Chiesa e allo Stato. Intanto il giovane re Guglielmo, giuntagli la notizia di quanto passava in Roma, mosso dal suo zelo per la salute del papa, spedì due ben corredate galee con gente e danaro assai, ed ordine di condurre in salvo il pontefice. Vennero su pel Tevere le due galee, e fatto sapere l'arrivo loro ad Ottone Frangipane, furono introdotti all'udienza del papa i sopracomiti. Sommamente obbligato si protestò Alessandro III all'amorevol pensiero del re siciliano; prese il denaro inviato; e credendo per allora non necessaria la sua partenza, rimandò le galee indietro con due cardinali, per trattar dei presenti affari colla corte di Sicilia. Poscia distribuì buona parte di quel danaro ai Frangipani e ai figliuoli di Pier Leone, per maggiormente animarli a star seco uniti; e il resto l'inviò ai custodi delle porte. Ma in fine si lasciarono piegare gli incostanti Romani dalle lusinghevoli proposizioni di Federigo, e volendo pur indurre il papa ad acconsentire, questi, accompagnato da alcuni de' cardinali, e travestito, segretamente uscì di Roma, e passando per Terracina, arrivò a Gaeta, dove ripigliò gli abiti pontificali. Di là poi si trasferì a Benevento, dove fu con grande onore accolto da quel popolo.

Eransi interamente dati i Pisani ai servigi dell'imperador Federigo [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.], verisimilmente per que' gran doni e vantaggi che, a guisa dei già conceduti a' Genovesi, dovette compartire anche a quest'altro popolo con un pezzo di pergamena, per l'ansietà di portare in breve la guerra, non solo contra de' Romani, ma anche in Puglia, Calabria e Sicilia; al qual fine abbisognava della loro flotta. Aveano essi Pisani giurata ubbidienza all'antipapa Pasquale. E perchè Villano loro arcivescovo non volle acconsentire [810] a sì fatta abbominazion del santuario, fu costretto a fuggirsene e a ritirarsi nell'isola della Gorgona; e in luogo suo fu intruso in quella chiesa Benincasa canonico sul fine di marzo. Aveano anche prestato aiuto a Rinaldo arcivescovo di Colonia, per prendere Civitavecchia, prima ch'egli passasse a Tuscolo, ossia Tuscolano. Ora Federigo, benchè trattasse di ridurre i Romani a' suoi voleri colle buone, non lasciò per questo di prepararsi per adoperar la forza, se il bisogno lo portava. A questo fine richiese d'aiuto i Pisani, che gli spedirono dodici galee ben armate con due de' loro consoli; e queste dipoi entrate pel Tevere, e salite sino al ponte, infestavano non poco le ville dei Romani, ed impedivano ogni soccorso per quel fiume. Il popolo romano adunque per la maggior parte, tanto per ischivar gli ulteriori danni e pericoli, quanto perchè Federigo confermò il senato romano, ed accordò e quel popolo di molte esenzioni per tutti i suoi Stati, condiscese a quanto egli bramava, con promettere, fra l'altre cose, che justitias suas (cioè dell'imperadore) tam intra urbem, quam extra urbem juvabunt eum retinere; e che terrebbono per papa l'antipapa Pasquale, se pure s'ha in ciò da credere al continuator del Morena; perciocchè da una lettera di Giovanni Sarisberiense fra quelle di san Tommaso Cantuariense si raccoglie che i Romani stettero saldi nell'ubbidienza di papa Alessandro III, nè di Pasquale si parla nel giuramento dei Romani rapportato nella sua Cronica da Gotifredo monaco di san Pantaleone presso il Freero. I Frangipani nondimeno e la casa di Pier Leone con altri nobili non consentirono a questo accordo. Mandò poscia Federigo a ricevere il giuramento di fedeltà da' Romani varii suoi deputati, fra' quali uno fu Acerbo Morena, continuatore della Storia di Ottone suo padre, uomo dabbene ed incorrotto, e diverso da tanti altri dell'armata imperiale, che viveano di sole rapine. Intanto venne Dio a visitare i peccati e l'alterigia dell'imperadore [811] Federigo, principe che nulla meno meditava che di mettere in catene l'Italia tutta, e per politica andava fomentando il deplorabile scisma della Chiesa di Dio. Una improvvisa epidemia cagionata dall'aria di Roma, micidiale anche allora in tempo di state, se pur non fu una vera pestilenza, assalì intanto l'esercito di Federigo, e cominciò a mieterne le centinaia ogni giorno. La mattina erano sani, non arrivava la sera che si trovavano morti, di modo che si penava a seppellir tanta gente [Continuator Acerbi Morenae, tom. 6 Rer. Ital. Otto de S. Blasio. Godefrid. Monachus apud Freherum.]. Nè già sulla sola plebe de' soldati si stese questo flagello, comunemente attribuito alla visibil mano di Dio, ma ancora ai principi e signori più grandi d'essa armata. Vi perirono Rinaldo eletto arcivescovo di Colonia, Federigo duca di Suevia, ossia di Rotemburgo, figliuolo del già re Corrado e cugino germano dell'imperadore, i vescovi di Liegi, di Spira, di Ratisbona, di Verden e d'altre città, con assaissimi altri principi e nobili, fra' quali specialmente è da notare il duca Guelfo iuniore, la cui morte fu compianta anche dagl'Italiani, perchè la di lui perdita fu cagione che si seccasse in lui questa linea di Estensi-guelfi, e che il duca Guelfo suo padre rinunziasse dipoi all'imperadore tutti i suoi Stati in Italia; del che ho assai favellato altrove [Antichità Estensi, P. I, cap. 31.]. Per questa fiera mortalità di gente anche il suddetto Acerbo Morena istorico, nel tornare a casa portando seco il malore, nel dì 19 d'ottobre mancò di vita nei borghi di Siena, come s'ha dal suo Continuatore.

Atterrito da così tragico avvenimento l'imperador Federigo, frettolosamente decampò col resto dell'armata, e per la Toscana venuto a Pisa e a Lucca, continuò il viaggio alla volta di Lombardia. Ma nel voler valicare l'Apennino, trovò il popolo di Pontremoli ed altri Lombardi che gli vietarono per quelle montagne il [812] passo [Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Ital. Continuat. Acerbi Morenae.]. Se non era Obizzo marchese Malaspina che l'affidò per le sue terre della Lunigiana, e gli diede il passaggio, si sarebbe trovato in pericolose angustie. Gran parte nondimeno del suo equipaggio si perdè per istrada. Verso la metà di settembre, e non già di dicembre, come per error de' copisti si legge presso Sire Raul, arrivò egli a Pavia, con avere perduto e ne' contorni di Roma, e nel viaggio per le malattie suddette, oltre a gran copia di soldati, più di due mila nobili, tra vescovi, duchi, marchesi, conti, vassalli e scudieri. Quivi nel dì 21 d'esso mese di quest'anno, e non già del 1168, come ha il testo del continuatore del Morena, mise al bando dell'imperio tutte le città congiurate di Lombardia, riserbando solamente Lodi e Cremona, senza che s'intenda il perchè di quest'ultima, e gittò in aria il guanto in segno di sfida. In vece de' Cremonesi, sospetto io che il continuatore di Acerbo Morena eccettuasse i Comaschi, perchè questi continuarono a tenere il partito di Federigo. Il qual poscia più fiero che mai coi Pavesi, Novaresi, Vercellesi, e coi marchesi Guglielmo di Monferrato ed Obbizzo Malaspina, e col conte di Biandrate cavalcò contro le terre de' Milanesi, con devastar Rosate, Abbiategrasso, Mazzenta, Corbetta ed altri luoghi. Accorsero allora a Milano i Lodigiani, i Bergamaschi e i Bresciani che erano in Lodi, e i Parmigiani e Cremonesi che si trovavano in guardia di Piacenza. Tornossene per questa mossa Federigo a Pavia; ma senza prendere fiato si voltò contra de' Piacentini, alle terre de' quali fece quanto male potè. Ingrossatisi per questo a Piacenza i collegati, erano per affrontarsi con lui, s'egli non si fosse prestamente ritirato a Pavia. Abbiamo nondimeno da una lettera di Giovanni Sarisberiense che seguì fra loro qualche baruffa colla peggio di Federigo, il quale in fugam versus est, come si può vedere fra le lettere di san Tommaso Cantuariense. [813] Nè già sussiste, come scrive il Sigonio, che Federigo andasse sotto Bergamo, e ne bruciasse i borghi. Tante forze egli non aveva. Venuto poscia il verno, si quetò il rumore delle armi in Lombardia.

Durò anche nel presente anno la rabbiosa guerra fra i Pisani e i Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 2, tom. 6 Rer. Italic.], perseguitandosi i loro legni per mare a tutto potere. Furono fatti progetti di pace, e rimesse le differenze in dieci per parte; ma senza che animi tanto alterati potessero punto accordarsi. Intanto il regno di Sicilia era agitato dalle gare di que' baroni e da varie fazioni [Romuald. Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Ital. Hugo Falcandus, Histor. Sicul.], che tutte cercavano di superiorizzare durante la minorità del re Guglielmo II. Le città di Messina e di Palermo tumultuarono, e contribuì ad accendere quel fuoco Giovanni cardinale Napoletano, uomo sol fatto per ismugnere danaro; e per gli suoi vizii biasimato dal Baronio. Queste dissensioni minutamente descritte si leggono nelle storie di Ugone Falcando e di Romoaldo Salernitano. Mi dispenso io dal riferirle per amore della brevità. Si trasferì in quest'anno a Venezia in abito da pellegrino, e di là venne a Milano il novello arcivescovo di quella città Galdino [Continuator Acerbi Morenae, tom. 6 Rer. Ital. Act. S. Galdini apud Bollandist. ad diem 18 april.] nel dì 5 di settembre, con infinita consolazion del suo popolo. Portò egli seco il titolo e l'autorità di legato apostolico: il che servì a maggiormente corroborare ed accrescere la lega delle città lombarde contra di Federigo. Infatti ho io pubblicato i patti d'essa lega, stabiliti nel dì primo di dicembre [Antiquit. Ital., Dissert. XLVIII.], obbligandosi cadauno di difendere civitatem Venetiarum, Veronam et castrum et suburbia, Vicentiam, Paduam, Trivisium, Ferrariam, Brixiam, [814] Bergamum, Cremonam, Mediolanum, Laudum, Placentiam, Parmam, Mantuam, Mutinam, Bononiam, ec. con varii patti, il più considerabile de' quali è l'obbligarsi alla difesa ed offesa contra omnem hominem, quicumque nobiscum facere voluerit guerram aut malum, contra quod velit nos plus facere, quam fecimus a tempore Henrici regis usque ad introitum imperatoris Friderici. Sotto nome di Arrigo porto io opinione che si debba intendere Arrigo quarto fra i re, terzo fra gl'imperadori, perchè sotto di lui vo credendo incominciata la libertà di molte città di Lombardia, che andò poi crescendo finchè arrivò alla sua pienezza; e questa abbiamo dipoi veduta come annichilata dal terrore e dalla fortuna dell'imperadore Federigo.


   
Anno di Cristo MCLXVIII. Indizione I.
Alessandro III papa 10.
Federigo I re 17, imper. 14.

Abbiamo dal continuatore di Acerbo Morena che l'Augusto Federigo quasi per tutto il verno dell'anno presente andò girando, con dimorare ora nelle parti di Pavia, ora in quelle di Novara, ora di Vercelli, del Monferrato e d'Asti. Ma veggendo sempre più declinare i suoi affari, e trovandosi come chiuso in Pavia, e sempre in sospetto che i pochi rimasti a lui fedeli il tradissero, un dì di marzo all'improvviso segretamente si partì, et in Alemaniam per terram comitis Uberti de Savogia, filii quondam comitis Amadei, qui et comes dicitur de Morienna, iter arripuit: così si legge negli antichi manoscritti. Questo Uberto, chiamato dal Guichenon Umberto, è uno de' progenitori della real casa di Savoia; e quantunque ritenesse il nome di conte di Morienna, pure in varii strumenti ha il titolo ancora di marchese; e di qui parimente si scorge ch'egli era principe di molta potenza, e che per andare in Borgogna si passava per li di lui Stati. Fra le lettere di san [815] Tommaso arcivescovo di Cantuaria [S. Thomas Cantuariensis, lib. 2, ep. 66, edit. Lupi.], una se ne legge di Giovanni Sarisberiense, riferita anche dal cardinal Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.], dalla quale si ricavano varie particolarità. Cioè che Federigo non vedendosi sicuro in Pavia, per aver fatto cavar gli occhi ad un nobile di quella città, e sapendo che già i Lombardi mettevano insieme un'armata di venti mila soldati, lasciati in Biandrate trenta degli ostaggi lombardi, passò nel Monferrato, dove, per la fidanza che aveva in Guglielmo marchese di quella contrada, per le di lui castella distribuì gli altri ostaggi. Poscia andò qua e là sempre di sospetto, non osando di pernottare più di due o tre giorni nel medesimo luogo. Frattanto il marchese trattò cum cognato suo comite mauriensi, (leggo mauriennensi), ut imperatorem permitteret egredi, promittens ei non modo restitutionem ablatorum, sed montes aureos, et cum honore et gloria imperii gratiam sempiternam. Poscia raccolti gli ostaggi, e accompagnato da soli trenta uomini a cavallo, andò sino a Santo Ambrosio fra Torino e Susa; e la mattina per tempo rimessosi in viaggio, quando fu presso a Susa barbaramente fece impiccare uno degli ostaggi, nobile bresciano, incolpandolo d'aver maneggiata l'unione dell'esercito che il cacciava dall'Italia. Sire Raul [Sire Raul, in Histor. tom. 6 Rer. Ital.] scrive che Federigo nono die martii suspendit Zilium de Prando obsidem de Brixia juxta Sauricam (forse era scritto Secusiam) dolore et furore repletus, quod Mediolanenses, Brixienses, Laudenses, Novarienses, et Vercellenses obsederant Blandrate, et inde abiit in Alamanniam. Aggiugne, che arrivato a Susa cogli altri ostaggi, i cittadini presero l'armi, e gli tolsero questi ostaggi, mostrando paura di essere rovinati dai Lombardi, se lasciavano condurre per casa loro fuori d'Italia quei nobili, massimamente dopo aver [816] egli tolto poco fa di vita un d'essi, uomo potente e generoso, con tanta crudeltà. Accortosi Federigo del mal tempo che correva per quelle parti, anzi, se è vero ciò che ha Ottone da San Biagio [Otto de S. Blasio, in Chron.], avvertito dal suo albergatore che que' cittadini meditavano d'ucciderlo, avendo lasciato nel letto suo un Artmanno da Sibeneich che il rassomigliava, travestitosi da famiglio e con altri cinque suoi famigli mostrando di andare innanzi a preparar l'alloggio per un gran signore suo padrone, continuò il viaggio per istrade alpestri e dirupate, finchè giunse in Borgogna, dove di gravi minacce fece a que' popoli; e dipoi passò in Germania, con trovar ivi non poche turbolenze, e molti che l'odiavano. Sarebbe da desiderare che le antiche storie ci avessero lasciate notizie più copiose della real casa di Savoia, perciocchè non bastano le moderne a darci de' sicuri e sufficienti lumi. Abbiam veduto all'anno 1155 che Federigo probabilmente avea tolto degli Stati anche ad Umberto conte di Morienna; ma quali non sappiamo. Nella lettera suddetta del Sarisberiense è scritto che Federigo prometteva ad esso conte restitutionem ablatorum; ma quali Stati fossero a lui tolti non apparisce. Il Guichenon [Guichenon, Histoire de la Mais. de Savoye, tom. 1.], che dimenticò di parlare all'anno presente, di questo passaggio di Federigo per la Savoia, e dell'avvenimento di Susa, scrive che Federigo irritato contra d'esso Umberto pel suo attaccamento a papa Alessandro III, diede in feudo ai vescovi di Torino, di Morienna, di Tarantasia, di Genova, ec. quelle città. Veggasi ancora l'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 4 in Archiepisc. Taurinens.], che rapporta un diploma d'esso Federigo in favore del vescovo di Torino, e le liti poi sopravvenute. Quel che è certo, brutta scena fu quella dell'uscita di Federigo imperadore, dico, al cui cenno [817] dianzi tremavano tutte le città italiane, e che già per decisione dei vanissimi dottori di que' tempi, era stato dichiarato padrone del mondo, si vide in fine ridotto a fuggirsene vergognosamente d'Italia sotto un abito di vil famiglio contra imperatoriam dignitatem, come dice Gotifredo Monaco [Godefridus Monachus, in Chron.], tardi conoscendo che più colla clemenza e mansuetudine, che colla crudeltà ed alterigia, si suol far guadagno, e che per voler troppo, bene spesso tutto si perde.

Dopo un vigoroso assedio cadde in potere dei collegati lombardi la terra di Biandrate. Furono ricuperati gli ostaggi quivi detenuti, e tagliati a pezzi quasi tutti i Tedeschi che v'erano di guarnigione [Johann. Sarisberiensis, in Epist.]. Dieci d'essi nobilissimi e ricchissimi vennero consegnati alla moglie del nobile Bresciano fatto impiccare da Federigo, acciocchè ne facesse vendetta, o ne ricavasse un grosso riscatto. In questo anno [Continuator Acerbi Morenae.] nel giovedì santo, cioè a dì 28 di marzo, per le istanze di Galdino arcivescovo di Milano, e per paura di mali maggiori, il popolo di Lodi abiurò l'antipapa Pasquale, e ridottosi all'ubbidienza di Alessandro papa, elesse per suo vescovo Alberto proposto della chiesa di Lodi. Intanto cresciuti gli animi dei popoli collegati della Lombardia per la fuga dell'imperador Federigo, si accinsero questi alla guerra contra de' Pavesi e del marchese di Monferrato, che soli in quelle parti restavano più che mai attaccati al partito d'esso Augusto. Per maggiormente angustiare Pavia, venne loro in capo un grandioso pensiero, cioè quello di fabbricar di pianta una nuova città ai confini del Pavese e del Monferrato. Però i Milanesi, Cremonesi e Piacentini nel dì primo di maggio [Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Italic.] unitamente si portarono fra Asti e Pavia in una bella e feconda pianura, [818] circondata da tre fiumi, e quivi piantarono le fondamenta della nuova città, obbligando gli abitatori di sette terre di quelle parti, e fra l'altre Gamondio, Marengo, Roveredo, Solera ed Ovilia a portarsi ed abitare colà. Poscia in onore di papa Alessandro III, e dispregio di Federigo, le posero il nome d'Alessandria. Perchè la fretta era grande, e mancavano i materiali al bisogno, furono i tetti di quelle case per la maggior parte coperti di paglia: dal che venne che i Pavesi ed altri emuli cominciarono a chiamarla Alessandria dalla paglia; nome che dura tuttavia. Ottone da San Biagio [Otto de S. Blasio, in Chron.] mette sotto l'anno 1170 l'origine di questa città, forse perchè non ne dovette sì presto prendere la forma. Ma è scorretta in questi tempi la di lui cronologia. Il continuatore di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.] anche egli ne parla all'anno presente. Lo stesso abbiam da Sicardo e da altri autori. Certo nondimeno è che di buoni bastioni e profonde fosse fu cinta quella nascente città, ed essere stato tale il concorso della gente a piantarvi casa, che da lì a non molto arrivò essa a metter insieme quindici mila persone, parte di cavalleria e parte di fanteria, atte all'armi e bellicose. E nell'anno seguente i consoli della medesima città, portatisi a Benevento, la misero sotto il dominio e protezione de' romani pontefici, con obbligarsi a pagar loro un annuo censo o tributo. Tutto ciò fu di somma gloria a papa Alessandro. Attaccato fin qui era stato Obizzo marchese Malaspina, potente signore in Lunigiana, ed anche possessore di varii Stati in Lombardia, al partito di Federigo. Ma dacchè egli vide tracollati i di lui affari, non fu pigro ad unirsi colla lega lombarda contra di lui. Egli fu che coi Parmigiani e Piacentini nel dì 12 marzo, secondo Sire Raul [Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.], introdusse il disperso popolo di Tortona nella desolata loro città, la quale perciò tornò a risorgere. [819] Andò intanto crescendo la lega delle città lombarde, entrandovi or questa or quella, chi per ricuperare la perduta libertà ed autorità, e chi per non esservi astretta dalla forza e potenza dell'altre. Il suddetto Sire Raul nomina le città confederate con quella di Milano, cioè le città della Marca, capo d'esse Verona, Brescia, Mantova, Bergamo, Lodi, Novara, Vercelli, Piacenza, Parma, Reggio, Modena, Bologna, Ferrara. Confessa il continuatore di Caffaro [Continuat. Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6 Rer. Ital.] che anche i Genovesi furono invitati ad entrare in questa lega, ed eziandio spedirono i lor deputati per trattarne, ma senza che tal negoziato avesse effetto.

Ho io dato alla luce [Antiquit. Ital., Dissert. XLVIII.] l'atto della concordia seguita nel dì 3 di maggio dell'anno presente fra il suddetto marchese Obizzo e i consoli di Cremona, Milano, Verona, Padova, Mantova, Parma, Piacenza, Brescia, Bergamo, Lodi, Como (degno è di osservazione che ancora i consoli comaschi aveano abbracciata la lega), Novara, Vercelli, Asti, Tortona, Alessandria, nuova città, e Bologna. Leggonsi ivi i patti stabiliti fra loro e i nomi de' deputati di cadauna città. Fu guerra in quest'anno fra i pisani e Lucchesi [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Italic.]. Erano gli ultimi collegati coi Genovesi, e, secondo il concerto fatto con essi, verso la metà di maggio andarono ad assediare il castello di Asciano, e, dategli varie battaglie, se ne impadronirono. Accorsero i Pisani, ma non a tempo, e venuti ad un combattimento, ebbero la peggio, con restarvi molti di loro prigioni, i quali furono mandati dai Lucchesi nelle carceri di Genova: il che venne creduto cosa infame e degna dell'odio di tutti [Caffari, Annal. Genuens., lib. 2.]. Gl'impetrarono i Genovesi per potere col cambio riavere altri loro prigioni detenuti in Pisa. Continuò tuttavia la guerra fra i Pisani e Genovesi, e contuttochè molto si adoperasse [820] Villano arcivescovo di Pisa, che era tornato al possesso della sua chiesa, per metter pace fra queste due sì accanite città, pure non gli venne fatto: tanto predominava in cuor di que' popoli l'ambizione d'essere soli in mare, e soli nel commercio e guadagno. Aveano fin qui i predetti Genovesi tenuto come sequestrato nelle loro città il vanerello re di Sardegna Barisone, sperando ch'egli arrivasse pure a soddisfar pel danaro sborsato a conto di lui. Ma un soldo mai non si vide. Il perchè i Genovesi si contentarono di condurlo in Sardegna, dove diede speranza di pagare. Andarono, e fecero raccolta di danaro; ma perchè molto vi mancò a soddisfare i debiti contratti, ricondussero a Genova quel fantasma di re. In questi tempi i Romani mossero guerra al popolo d'Albano [Cardinal. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Italic.], perchè era stato in favore di Federigo contra di loro, e tanto fecero che distrussero da' fondamenti quella città, ancorchè fosse in quelle parti Cristiano eletto arcivescovo di Magonza, mandatovi da Federigo per sostenervi il suo partito. Rodeva i Romani un pari, anzi maggior desiderio di vendicarsi de' Tuscolani, per cagion de' quali aveano patita sì fiera rotta nell'anno precedente, e recarono loro anche gran danno; ma non consentendo la Chiesa ai loro sforzi, desisterono per allora da tale impresa. Tornò parimente in quest'anno Manuello Comneno imperador de' Greci ad inviare ambasciatori a Benevento, dove era il pontefice Alessandro; e, siccome ben informato delle rotture che passavano fra esso papa e Federigo, si figurò facile di poter ottenere il suo intento: cioè di far privare della corona Federigo, e che questa fosse poi conferita a lui e a' suoi successori. Per ismuovere la corte pontificia, venne cogli ambasciatori un'immensa quantità d'oro. Ma Alessandro, pontefice de' più prudenti che s'abbia avuto la Chiesa di Dio, ringraziò forte il greco Augusto per la sua buona volontà e divozione; [821] ma per conto della corona imperiale fece lor conoscere che troppe difficoltà s'incontravano, nè conveniva a lui il trattarne, per esser uffizio suo il cercare la pace, e non già la guerra. Pertanto rimandò indietro essi ambasciatori colla lor pecunia, e spedì con tale occasione due cardinali alla corte di Costantinopoli. Abbiamo da Giovanni da Ceccano [Johannes de Ceccano, Chron. Fossaenovae.], da Romoaldo Salernitano [Romualdus Salernit., in Chron., tom. 6 Rer. Italic.] e da altri storici che l'antipapa Pasquale III, ossia Guido da Crema, mentre stava nella basilica di san Pietro fuori di Roma, fu chiamato da Dio al rendimento de' conti. Morì egli impenitente nel dì 20 di settembre. Pareva che lo scisma con la morte di costui avesse affatto a cessare, perchè niuno più restava de' cardinali scismatici, e gli antipapi d'allora non soleano crearne dei nuovi, siccome vedremo fatto nel grande scisma del secolo XIV. Tuttavia gli scismatici non si quetarono, e si trovò un Giovanni abbate di Struma, uomo apostata e pieno di vizii, che si fece innanzi ed accettò il falso papato, con assumere il nome di Callisto III. Costui era stato eletto vescovo tuscolano da papa Alessandro, e fece dipoi una miserabil figura fra quei della sua screditata fazione.


   
Anno di Cristo MCLXIX. Indizione II.
Alessandro III papa 11.
Federigo I re 18, imper. 15.

Spese l'imperador Federigo in Germania l'anno presente in istabilire ed ingrandire i suoi figliuoli [Otto de S. Blasio, in Chron. Chronic. Reichersperg.]. Nelle feste di Pentecoste tenne una gran dieta in Bamberga, dove comparvero i legati dell'antipapa Callisto. In essa di comune consenso de' principi fece eleggere re di Germania e d'Italia il suo primogenito Arrigo, e coronarlo per mano di Filippo arcivescovo di Colonia. Al secondo de' suoi [822] figliuoli, cioè a Federigo, giacchè era mancato di vita Federigo duca di Suevia, chiamato di Rotimburgo, l'Augusto imperadore diede quel ducato. Rimasto senza eredi il vecchio duca Guelfo della linea estense di Germania, per la morte del figliuolo accaduta nell'anno 1167 in Italia, aveva egli dichiarato suo erede Arrigo il Leone duca di Baviera e Sassonia, suo nipote, di tutti i suoi Stati e beni posti nella Suevia, a condizione di ricavarne una buona somma di danaro. Ma procrastinando il duca Arrigo di pagare, figurandosi che per l'età avanzata dello zio la morte gli risparmierebbe un tale sborso, il duca Guelfo rinunziò tutto a Federigo Augusto, che pagò il danaro pattuito. A Corrado suo terzogenito conferì poi il ducato della Franconia con altri beni. Al quartogenito Ottone diede il regno d'Arles, ossia della Borgogna. L'ultimo suo figliuolo Filippo era allora in fasce. Altri acquisti, annoverati da Ottone da San Biagio, fece Federigo per ben arricchir la sua prole; e in quest'anno ancora s'impadronì dell'arcivescovato di Salisburgo, facendo colare quanti mai potè de' feudi delle chiese in essi suoi figliuoli, e comperando ed acquistando diritti e beni, ovunque poteva. La Sicilia nell'anno presente, correndo il dì 4 di febbraio, soffrì un fierissimo eccidio per un orribile tremuoto che desolò varie città [Hugo Falcandus, in Chron. Romualdus Salernitanus, in Chron., tom. 7 Rer. Ital.]. Quella sopra tutto di Catania, città allora ricchissima, tutta fu rovesciata a terra colla morte di circa quindici mila persone, e del vescovo (uomo per altro cattivo, e salito in alto colla simonia) e di quasi tutti i monaci, senza che vi restasse una casa in piedi. La stessa disavventura provò la nobil terra di Lentino. Danneggiata di molto restò anche Siracusa con assai altre castella. Negli Annali Pisani [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.] sta scritto che a Catania usque ad Plassa undecim inter civitates et castella et villas cum multis hominibus in via et agro [823] oppressis a dicto terraemotu perierunt. Attesero i Cremonesi a cignere di buone mura la loro città [Sicard., in Chron., tom. 6 Rer. Ital.]. Nè riposavano i Milanesi in fabbricar case, e fortificare la rinata loro città. Degno è d'attenzione ciò che ha Niceta Coniate [Niceta, Histor., lib. 7.]: cioè che Manuello imperador de' Greci per l'apprensione dell'armi di Federigo Augusto, massimamente dappoichè questi aveva tentato di torgli Ancona, somministrò grossi aiuti, cioè di danaro, ai Milanesi, affinchè rifabbricassero la loro città, e si mettessero in istato di poter far fronte ad un imperadore che meditava la rovina di tutti. Certo è che Manuello era in lega col papa, col re di Sicilia e coi Lombardi contro di Federigo. Abbiamo anche da Galvano Fiamma [Gualvan. Flamma, in Manipul. Flor.], che le pie donne di Milano venderono tutti i loro anelli e gioielli, per impiegarne il prezzo nella riedificazione della chiesa metropolitana di santa Maria. Guerra fu in quest'anno nella Romagna [Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 5. Sigonius, de Regno Ital., lib. 14. Ghirardacci, Istor. di Bologna, lib. 3.]. Aveano i Bolognesi, assistiti da' Ravegnani, assediata la città di Faenza. Ricorsero i Faentini per soccorso, ai Forlivesi, che accorsi ed attaccata battaglia verso il fiume Senio, misero in rotta il campo bolognese, con farvi quattrocento prigioni. Il Ghirardacci rapporta questa sconfitta de' suoi, ma pretende che i Bolognesi fossero iti in aiuto de' Ravegnani lor collegati, a' danni dei quali s'erano portati i Faentini e Forlivesi. Veniva in questi tempi agitata da interne guerre civili la città di Genova [Caffari, Annal. Genuens., lib. 2.]. Tanto si adoperò Ugo arcivescovo unito coi consoli, che si conchiuse concordia e pace fra i cittadini. Seguitando intanto la guerra già incominciata fra i Pisani e Lucchesi, perchè i primi s'erano fatti forti coll'aiuto de' popoli della Garfagnana e Versiglia, richiesero gli altri di aiuto i Genovesi, che non mancarono di [824] accorrere per sostenerli. Si trattò poscia di pace, ma senza che potessero venire ad accordo alcuno. Per questa cagione continuarono i Pisani e Genovesi a farsi guerra gli uni agli altri in mare, prendendo chi potea più legni de' nemici.


   
Anno di Cristo MCLXX. Indizione III.
Alessandro III papa 12.
Federigo I re 19, imper. 16.

Tentò in quest'anno l'imperador Federigo d'introdurre trattato di pace con papa Alessandro III dimorante tuttavia in Benevento [Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III.]. Spedì a questo fine in Italia il vescovo di Bamberga Everardo, con ordine d'abboccarsi col pontefice, ma di non entrare negli Stati del re di Sicilia. Alessandro, che stava all'erta, e per tempo s'avvide ove tendeva l'astuzia di Federigo, cioè a mettere della mala intelligenza fra esso papa e i collegati lombardi, non tardò punto ad avvisarne la lega, acciocchè gli spedissero un deputato per assistere a quanto fosse per riferire il vescovo suddetto. Dappoichè fu questi venuto, si trasferì il pontefice in Campania a Veroli, per quivi dare udienza al legato cesareo. Voleva questi parlargli da solo a solo; il che maggiormente accrebbe i sospetti di qualche furberia. Benchè con ripugnanza, fu ammesso ad una segreta udienza, dove espose essere Federigo disposto ad approvar tutte le ordinazioni da esso pontefice fatte; ma intorno al papato, e all'ubbidienza dovuta al vicario di Cristo, ne parlò egli con molta ambiguità, e senza osare di spiegarsi. Comunicò papa Alessandro cotali proposizioni al sacro collegio e al deputato della lega. La risposta ch'egli poi diede al vescovo Bamberga, fu di maravigliarsi, come egli avesse preso a portare una siffatta ambasciata, che nulla conteneva di quel che più importava. Che quanto ad esso papa, egli era pronto ad onorare sopra tutti i principi Federigo, e ad amarlo, purchè anch'esso mostrasse la [825] filial sua divozione dovuta alla Chiesa sua madre; e con questo il licenziò. Mentre il pontefice dimorava in Veroli, i Romani pieni di rabbia contro l'odiata città di Tuscolo, le faceano aspra guerra. Rainone signore di essa città, veggendosi a mal partito, trattò d'accordo con Giovanni, lasciato prefetto di Roma dall'imperador Federigo, e gli cedette quella città, con riceverne in contraccambio Monte Fiascone e il borgo di San Flaviano, senza farne parola col papa, da cui pure egli riconosceva quella città, e con assolvere dal giuramento i Tuscolani, i quali si crederono col nuovo padrone di esentarsi dalle molestie de' Romani. Ma questi più vigorosamente che mai continuarono la guerra contra di essa città, di maniera che quel popolo, fatto ricorso al papa, si mise sotto il dominio e patrocinio di lui. Alla stessa corte pontificia tardò poco a comparire il suddetto Rainone pentito del contratto, perchè quei di Montefiascone vituperosamente l'aveano cacciato dalla lor terra; ed anch'egli, implorata la misericordia del papa, fece una donazion della terra di Tuscolo alla Chiesa romana: il che la preservò per allora dall'ira e dalle forze del popolo romano. Rapporta il Guichenon [Guichenon, Bibliot. Sebus., Centur. II, cap. 35.] una bolla di papa Alessandro, dato in quest'anno Laterani in favore della badia di Fruttuaria. Non può stare, perchè il papa non fu in questi tempi in Roma. Persistendo tuttavia Manuello imperador de' Greci nel vano pensiero di ricuperar la corona imperiale di Roma, per farsi del partito in quella città, mandò nel presente anno una sua nipote per moglie di Ottone Frangipane [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.], la cui nobilissima famiglia era in questi tempi attaccatissima al pontefice Alessandro. Fu essa condotta con accompagnamento magnifico di vescovi e nobili greci, e con gran somma di danaro a Veroli, dove il papa gli sposò: dopo di che Ottone condusse la novella [826] moglie a Roma. Ardevano i Bolognesi di voglia di vendicarsi della rotta loro data nel precedente anno dai Faentini. Però col maggior loro sforzo e col carroccio, che per la prima volta fu da essi usato, s'inviarono contra della città di Faenza, e l'assediarono. Il Ghirardacci scrive [Ghirardacci, Istor. di Bologna, lib. 3.] che sconfissero l'armata de' Faentini. Le vecchie storie di Bologna [Cron. di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.] parlano solamente dell'assedio; e di più non ne dice Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.], che mette all'anno seguente un tal fatto, ed aggiugne, essersi uniti i Ravegnati ed Imolesi col popolo di Bologna contra di Faenza. Concordano poi tutti gli autori in dire che seguì la pace fra questi popoli, con essersi restituiti i prigioni ai Bolognesi. Accenna il suddetto Rossi una battaglia accaduta in quest'anno fra essi Faentini dall'una parte, e i Forlivesi e i Ravennati dall'altra, colla sconfitta degli ultimi. Ma non s'intende come il popolo di Forlì, ausiliario de' Faentini nel precedente anno fosse già divenuto loro nemico. Oltre di che, non è molto da fidarsi degli storici moderni, qualora mancano le croniche vecchie. Tre ambasciatori del greco imperadore Manuello Comneno approdarono in quest'anno a Genova per trattar di concordia con quel popolo [Caffari, Annal. Genuens., lib. 2, tom. 6 Rer. Ital.], portando con seco cinquanta sei mila, oppur ventotto mila perperi (monete d'oro dei Greci); ma non fu loro data udienza, se non dappoichè fu ritornato da Costantinopoli Amico da Murta, ambasciatore d'essi Genovesi. Perchè si trovò gran divario fra la esposizion d'Amico e quella de' legati greci, licenziati questi senza accordo, si riportarono indietro i lor danari. Seguitò ancora nell'anno presente la guerra fra i Pisani e i Lucchesi, colla peggio degli ultimi, che rimasero sconfitti presso Motrone, e lasciarono in poter de' Pisani una gran quantità di [827] prigioni [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.]. Nè cessarono le vicendevoli prede fra essi Pisani e i Genovesi per mare. Fra l'altre prede, venne fatto ai Genovesi di prendere una nave, dove era Carone, uno de' consoli pisani.


   
Anno di Cristo MCLXXI. Indizione IV.
Alessandro III papa 13.
Federigo I re 20, imper. 17.

Somma era stata l'occupazion di papa Alessandro negli anni addietro per rimettere in grazia di Arrigo re d'Inghilterra, e nel possesso della sua chiesa Tommaso arcivescovo di Cantorberì, ed aveva avuta la consolazione di veder terminato così scabroso affare. Ma non fu minore il suo affanno nel principio del presente anno, perchè vennero le nuove che al santo prelato era stata da empii sicarii levata la vita nel dì 29 del precedente dicembre: laonde meritò di essere onorato da Dio con varii miracoli, e poi registrato nel catalogo dei martiri. Ebbe perciò il pontefice da faticar tuttavia non poco per eseguir ciò che la disciplina ecclesiastica prescrive in simili casi [Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Trovavasi egli in Tuscolo nel dì 25 di marzo, allorchè arrivarono gli ambasciatori del re Arrigo, venuti per discolparlo, e protestare ch'egli non avea avuta mano in quel sacrilego fatto. A tutta prima non li volle il papa vedere; ma dopo qualche maneggio gli ammise, e dipoi spedì in Inghilterra due cardinali per formare il processo, e conoscere se il re era innocente o reo. Continuarono ancora in quest'anno con gran vigore i Milanesi a rialzare l'abbattuta loro città; nè contenti di questo, ne ampliarono con nuove mura il circuito chiudendo in essa le basiliche di santo Ambrosio, di san Lorenzo, di san Nazario e di sant'Eusebio, di maniera che le disgrazie loro servirono a maggiormente nobilitare la per altro nobilissima [828] patria loro. Ne resta tuttavia la memoria in un antico marmo rapportato dal Puricelli [Puricell., Monum. Basilic. Ambr.], dove ancora si leggono i nomi de' consoli milanesi di quest'anno. Due d'essi specialmente sono da notare, cioè Ardericus de la Turre, Obertus de Orto; il secondo celebre fra i legisti, per la raccolta delle consuetudini feudali; e il primo, perchè da lui verisimilmente discende l'illustre casa della Torre, ossia Torriana, che signoreggiò dipoi in Milano. Pubblicò nell'anno 1708 il famoso Stefano Baluzio la Storia genealogica della casa della Torre d'Alvernia, ossia dei duchi di Buglione, per cui ebbe di molti guai. Sì egli, come altri han creduto una medesima famiglia quella de' Torriani milanesi e l'altra de' franzesi. Quando non si adducano pruove più sicure di tal connessione, difficile sarà il credere sì fatta unione di sangue. Noi qui a buon conto troviamo un Arderico della Torre console in Milano, e perciò buon cittadino di Milano: ma ch'egli, o i suoi maggiori fossero venuti di Francia, non si dee senza buone pruove asserire.

Cercarono i Lucchesi e Genovesi collegati di tirar nella loro alleanza altri popoli, per poter con più fortuna rintuzzare i Pisani. Riuscì loro di guadagnare i Sanesi e Pistoiesi, e al conte Guido signor potente in Toscana. Fu ciò cagione che anche i Pisani stabilirono lega coi Fiorentini per quaranta anni avvenire. Gli Annali pisani, in vece di anticipar di un anno i successi di questi tempi per accomodarsi all'era pisana, che nove mesi prima dell'era volgare comincia l'anno nuovo, li pospongono di un anno: e però non si può stare alla cronologia d'essa storia. Abbiamo gli Annali genovesi in questo più esatti [Caffari, Annal. Genuens., lib. 2.]. Fabbricarono nel presente anno i Lucchesi coll'aiuto de' Genovesi Viareggio al mare. Verso l'autunno arrivò in Lombardia all'improvviso Cristiano arcivescovo [829] eletto di Magonza, inviato dall'imperador Federigo, per assistere agl'interessi dell'Italia, e massimamente della Toscana, che tuttavia teneva il partito imperiale. Passò egli intrepidamente per mezzo le città lombarde nemiche, ma con gran fretta; e valicando il fiume Tanaro presso Alessandria, si trasferì a Genova, dove per rispetto dell'imperadore fu onorevolmente accolto. Se l'ebbero forte a male i collegati lombardi, e però pubblicarono un bando che niuno avesse da condurre grani e altre vettovaglie a Genova: il che cagionò una gran carestia in quella città. Tornarono ancora in quest'anno essi Genovesi a condurre in Sardegna il re Barisone, sequestrato da essi per debiti, e pare che soddisfatti del loro avere, quivi il lasciassero a scorticare i suoi popoli per le colpe della sua vanità. Aveva l'imperadore Manuello Comneno cacciato da Costantinopoli i Pisani. In quest'anno venuto con essi a concordia, restituì loro i fondachi e il maltolto. Obbligossi egli di pagare per quindici anni avvenire al comune di Pisa cinquecento bisanti (monete d'oro) e due pallii, o un pallio ancora all'arcivescovo di Pisa. Vennero gli ambasciatori di lui a Pisa, e nel dì 13 di dicembre furono segnati i capitoli della concordia. Essendo mancato di vita Guido arcivescovo di Ravenna [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.], succedette in quella chiesa Gherardo, il quale, al pari dei suoi antecessori usò il titolo di esarco, cioè di padron temporale di Ravenna e dell'esarcato, per le concessioni loro fatte dagl'imperadori. Papa Alessandro III con sua bolla data in Tuscolo gli confermò la superiorità sopra i vescovati di Bologna e Parma, per li quali forse era stata in que' tempi qualche controversia. Tolte furono ai Veneziani da Stefano re d'Ungheria le città di Spalatro, Sebenico, Zara e Traù [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.]. Il doge Vitale Michele ricuperò Zara. Ma contra de' Veneziani mosse maggior tempesta [830] Manuello imperador de' Greci. Mostrossi egli tutto benevolo verso questa nazione, e l'invitò a passare in Levante colle lor merci, sicchè moltissimi uomini e navigli v'andarono sotto la buona fede. Poscia spediti gli ordini per tutto il suo imperio, nel dì 22 di marzo fece prendere tutti i legni e l'avere de' Veneziani. Portatane la nuova a Venezia, ne' generosi petti di que' cittadini tanto ardore di giusto risentimento s'accese, che in poco più di tre mesi parte prepararono, parte fabbricarono cento galee e venti navi da trasporto per portare la guerra in Grecia. Vi s'imbarcò lo stesso doge, e mossa nel mese di settembre la poderosa flotta, ricuperò per forza Traù, con darle poscia il sacco, e diroccarne una parte. Costrinse Ragusi a sottomettersi al dominio di Venezia. Passò dipoi a Negroponte, e imprese l'assedio di quella capitale. Fu allora dai Greci mossa parola di pace, e il comandante di quella città inviò persone apposta a Costantinopoli col vescovo d'Equilio, pratico della lingua greca, per parte de' Veneziani. Finchè venissero le risposte, portatosi il doge a Scio, s'impadronì di quella città e dell'isola tutta, e quivi determinò di svernare coll'armata: il che gli fu di gravissimo danno, siccome fra poco si dirà.


   
Anno di Cristo MCLXXII. Indizione V.
Alessandro III papa 14.
Federigo I re 21, imper. 18.

Fin qui il pontefice Alessandro era dimorato fuor di Roma, perchè tuttavia il popolo, o, per dir meglio, il senato romano che avea provato il gusto di comandare, gli contrastava l'esercizio della giurisdizione ed autorità temporale dovuta ai sommi pontefici. Erano anche i Romani forte in collera contro del papa per la protezione ch'egli avea preso dei Tuscolani, popolo troppo odiato da essi per la vecchia nemicizia e per la memoria della sanguinosa sconfitta dell'anno [831] 1167. Si trattò in quest'anno d'accordo. Indussero gli astuti Romani il pontefice a contentarsi che si spianassero le mura di Tuscolo [Romuald. Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Italic.], promettendo essi in ricompensa di riguardarlo da lì innanzi come lor padre e signore, e di ubbidire a tutti i suoi comandamenti. Menarono poi le mani per atterrar quelle mura: dopo di che si scoprì la lor frode, con restare burlato il buon papa, perchè non mantennero punto la promessa fatta dal canto loro. Se ne crucciò altamente Alessandro; e giacchè altro non si potea, fece circondar di fossa e muro la torre di Tuscolo, e, lasciata ivi per sicurezza di quel popolo una buona guarnigion di cavalli e fanti, andò a stare ad Anagni, dove poi dimorò molto tempo. Romoaldo Salernitano quegli è che ci ha conservata questa notizia, la quale dal cardinal Baronio vien riferita all'anno 1168, ma verisimilmente fuori di sito. Nella Cronica di Fossanuova si legge [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.]: Anno 1172, Indictione quinta, Alexander fecit finem cum Romanis, qui destruxerunt muros civitatis tusculanae mense novembri. Questo autore lasciò nella penna l'inganno fatto dai Romani al papa; ma ne parla bene l'autor della vita di papa Alessandro, con dire [Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Italic.] che i Romani non permisero al papa di entrare in città, e di esercitarvi il suo pastorale uffizio: laonde egli si ritirò in Campagna di Roma, aspettando tempi migliori. Dopo avere ricevuto molte finezze da' Genovesi, passò Cristiano arcivescovo eletto di Magonza, ed arcicancelliere dell'imperadore, a Pisa nel dì 3 di febbraio, ricevuto ivi parimente con molta magnificenza. Poscia convocati tutti i conti, marchesi e consoli delle città da Lucca sino a Roma, tenne un gran parlamento nel borgo di San Genesio, per quanto s'ha dagli Annali Pisani [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Italic.], [832] e quivi propose da parte dell'imperadore la pace fra' Genovesi, Lucchesi e Pisani. Il continuatore di Caffaro scrive [Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.] che questo parlamento tenuto fu appresso Siena; ma forse furono due in diversi luoghi, o San Genesio era del Sanese. Sarebbono condiscesi i Pisani ad abbracciar la pace, se loro non fosse paruta troppo dura la condizione di restituir senza compenso alcuno tanti prigioni che aveano de' nemici. Però stando forti su questo, l'arcivescovo in un altro parlamento, certamente tenuto nelle vicinanze di Siena, mise i Pisani al bando dell'imperio, privandoli di tutti i privilegii, e delle regalie, e della Sardegna.

Leggesi negli Annali di Genova la lettera scritta da lui ai Genovesi, con avvisarli che nell'assemblea tenuta presso Siena, in conspectu praefecti urbis Romanorum, et coram marchionibus anconitanis, Conrado marchione de Monteferrato, comite Guidone, comite Aldebrandino, et quamplurimis aliis comitibus, capitaneis, valvasoribus, consulibus, civitatum Tusciae, Marchiae, et vallis spoletanae, et superioris atque inferioris Romaniae, et infinita populi multitudine, avea pubblicato il bando contra de' Pisani, con ordinare ad essi Genovesi di tener pronte cinquanta galee per l'ottava di Pasqua in servigio dell'imperadore. Ho rapportato questo passo, acciocchè il lettore comprenda quai popoli tuttavia aderissero al partito imperiale in Italia per questi tempi. Abbiamo in fatti dall'Abbate Urspergense [Abbas Urspergensis, in Chron.] che Federigo prima di passare in Germania, quemdam Bideluphum ducem Spoleti effecit, Marchiam quoque Anconae, et principatum Ravennae Cunrado de Luzelinhart contulit, quem Italici Muscamincerebro nominabat, eo quod plerumque quasi demens videretur. Tentarono poscia i Pisani coi Fiorentini di togliere San Miniato al presidio tedesco che ivi dimorava: perlochè l'arcicancelliere fu di pensiero di metter anche il popolo di Firenze al [833] bando dell'imperio. Seguitarono inoltre le offese tra i Genovesi e Pisani. Mentre passava il verno nell'isola di Scio l'armata veneta [Dandul., in Chronic.], aspettando pure risposte decisive di guerra o di pace da Manuello imperador de' Greci, che dava quante buone parole si volevano, ma niuna conclusion del trattato: si cacciò la peste in quella flotta, e cominciò a fare un'orrida strage di gente. Per questo il doge Vital Michele salpò per tornarsene a casa. Ma infierì nel viaggio più che mai la pestilenza, di modo che quella dianzi sì fiorita e possente armata arrivò a Venezia poco men che disfatta; e perchè colla venuta di tanta gente infetta s'introdusse anche nella città lo stesso micidial malore, molto popolo ne perì. Rigettata la colpa di tanti mali sopra il doge, insorse col tempo contra di lui un tumulto, per cui nel ritirarsi dal palagio restò mortalmente ferito; poscia finì di vivere nel dì 27 di marzo, oppur di maggio dell'anno presente, se pur non fu nell'anno seguente. Restò eletto in di lui luogo Sebastiano Ziani. Venne in quest'anno il giovinetto re di Sicilia Guglielmo II in Puglia, e fino a Taranto [Anonymus Casinens., in Chron. Romualdus Salernitanus, in Chron.], credendosi che si avessero ad effettuar le sue nozze concertate con una figliuola del greco imperadore Manuello. Ma restò deluso dai Greci. Assai di ciò disgustato, passò a Capoa e a Salerno, e di là se ne tornò a Palermo, menando seco Arrigo suo minor fratello, già creato dal padre principe di Capoa, il qual diede fine ai suoi giorni in quest'anno nel dì 16 di giugno. Abbiamo anche dalla Cronica di Piacenza [Chronic. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] che i Piacentini, Milanesi, Alessandrini, Astigiani, Vercellini e Novaresi fecero un fatto d'armi presso il castello di Mombello col marchese di Monferrato, e lo sbaragliarono, con inseguire per sei miglia i fuggitivi.

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Anno di Cristo MCLXXIII. Indizione VI.
Alessandro III papa 15.
Federigo I re 22, imper. 19.

Fece in quest'anno papa Alessandro, mentre dimorava in Segna, la canonizzazione di san Tommaso arcivescovo di Cantorberì. Federigo imperadore in Germania andava disponendo sè stesso e quei nazionali per calare di nuovo in Italia con grandi forze, voglioso di domare i Lombardi, e già era intimata la spedizione per l'anno seguente 1174 [Godefridus Monachus, in Chron.]. Arrivarono circa questi tempi alla corte d'esso Augusto gli ambasciatori del Soldano di Babilonia, che gli presentarono dei rari e preziosi regali, e poi discesero a chiedere una figliuola dell'imperadore per moglie del figliuolo del medesimo Soldano, con esibirsi il Soldano d'abbracciar col figliuolo e con tutto il suo regno la religion cristiana, e di rendere tutti i prigioni cristiani. L'imperadore trattenne per un mezz'anno questi ambasciatori, e loro permise di visitar le città della Germania, e d'informarsi ben dei riti del paese. Credane quel che vuole il lettore. Per me tengo la proposizione attribuita a quei legati per una vana diceria del volgo, al veder in corte uomini di diversa credenza venuti sì di lontano. Non son facili da smuovere i Maomettani; e quand'anche il Sultano avesse avuta tal disposizione, come potea promettersi de' sudditi suoi? La sua testa avrebbe corso troppo pericolo. Sarà ben vero ciò che scrive Romoaldo Salernitano [Romuald. Salernit., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.]: cioè che Cristiano arcivescovo di Magonza mandò nell'anno seguente persona apposta a Guglielmo II giovane re di Sicilia, offerendogli in moglie una figliuola del suddetto imperador Federigo, e di stabilir buona pace ed amicizia fra loro. Ma il re Guglielmo (o, per dir meglio, i suoi consiglieri) riflettendo all'arti di Federigo, che si studiava di dividere [835] i collegati, per poterli più facilmente divorar tutti, non potè indursi ad abbandonar papa Alessandro, e diede per risposta che non potea dar mano ad una pace, da cui restassero esclusi i suoi confederati. Informato di ciò Federigo, se l'ebbe molto a male; ma da lì a qualche tempo quella stessa sua figliuola cessò di vivere. Udivansi intanto in Lombardia i gran preparamenti che facea l'imperadore, per calar di nuovo in Italia; il che serviva di continuo stimolo a queste collegate città per ben premunirsi, con istrignere le vecchie alleanze e farne delle nuove [Antiquit. Italic., Dissert. XLVIII.]. A questo fine si tenne in Modena nell'anno presente nel dì 10 di ottobre un parlamento, a cui intervennero i cardinali Ildelbrando e Teodino, e il vescovo di Reggio Albericone; nel distinguere i quai nomi non adoperò la solita sua diligenza il Sigonio; mentre, in far menzione di tal atto dice che il papa spedì da Anagni a Modena Hildeprandum Crassum episcopum mutinensem (non era egli più vescovo di questa città) et Albergonum cardinalem utrumque. V'intervennero ancora i consoli di Brescia, Cremona, Parma, Mantova, Piacenza, Milano, Modena, Bologna, e Rimini. Fu ivi confermata la società e lega di Lombardia, con obbligarsi cadauna delle parti di non far trattato nè pace con Federigo imperadore senza il consentimento di tutti, e di non riedificare la terra di Crema senza permissione degli altri collegati. Ho io dato alla luce questo documento, preso dall'archivio della comunità di Modena.

Abbiamo poi dagli Annali Pisani [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.], che avendo i Lucchesi, fiancheggiati da un buon esercito, rimesso in piedi il castello di Motrone, il popolo di Pisa, uscito in campagna, li mise in fuga, e distrusse il nuovo edifizio. Poscia nel dì 27 di giugno Cristiano arcivescovo di Magonza, pentito di averla presa contra de' Pisani, li liberò dal bando. Il che fatto, trasferitosi [836] a Pisa nel primo giorno dì luglio (se pure all'anno presente appartiene questo avvenimento), tenne ivi un parlamento, in cui comandò che cessasse la guerra fra quel popolo e i Fiorentini dall'una parte, e i Lucchesi dall'altra; e che si restituissero i prigioni, con deputar nello stesso tempo persone, le quali si studiassero di terminar tutte le altre differenze, e di stabilir fra que' popoli una buona pace. Furono rilasciati i prigioni; ma iti i consoli di Pisa e gli ambasciatori fiorentini coll'arcivescovo al borgo di San Genesio, quivi, perchè non vollero acconsentire ad alcune proposizioni di poco onore e molto danno delle loro città, l'arcivescovo proditoriamente li fece prendere ed incatenare. Quindi unito coi Lucchesi, Sanesi e Pistoiesi, e col conte Guido, si mise in punto per correre ai danni del territorio pisano. A questo avviso fumanti di collera i Pisani e i Fiorentini uscirono in campagna, e fecero fronte alla meditata irruzione. Passarono anche i Pisani per fare una diversione sul territorio di Lucca, dando il guasto sino a Ponsampieri e a Lunata: il che servì a far correre i Lucchesi alla propria difesa. Ma allorchè questi furono al ponte di Fusso, assaliti dai Pisani nel dì 19 d'agosto, rimasero sconfitti. Seguitò poi l'arcivescovo Cristiano coi Lucchesi a far guerra in Toscana; e i Genovesi nel settembre tolsero a' Pisani il castello dell'isola di Pianosa, e lo smantellarono affatto. Questo fatto negli Annali Genovesi vien riferito al precedente anno [Caffari, Annal. Genuens., lib. 2, tom. 6 Rer. Ital.]: il che mi fa dubitare se appartenga quanto ho tratto qui dagli Annali Pisani all'anno presente, o pure all'antecedente. Da essi Annali Genovesi altro non si vede registrato sotto quest'anno, se non la guerra incominciata prima da Obizzo marchese Malaspina e da Moroello suo figliuolo, contra de' Genovesi, con aver questi assediato e ricuperato il castello di Passano [837] che s'era ribellato. Anche il Tronci [Tronci, Annali Pisani.] rapporta all'anno 1172 i suddetti avvenimenti. Seguitavano in questi tempi le città di Lombardia a farsi render ubbidienza dalle terre e castella già concedute in feudo dagl'imperadori a varii nobili, per reintegrare i loro distretti e contadi, che ne' tempi addietro erano rimasti troppo smembrati. Nè da questo loro empito andavano esenti i vescovi e monisterii. Ne abbiamo un esempio nell'anno presente, in cui il popolo di Modena costrinse varie comunità della montagna sottoposta alla badia di Frassinoro [Antiquit. Ital., Dissert. XIX.] a promettere di pagar tributo a Modena, e di militar sotto ai consoli di essa città in occasion di guerra. Altrettanto faceano anche le altre città, ingrandendo il lor territorio e distretto colle terre e castella loro tolte ne' secoli addietro o dalla forza de' nobili, o dai privilegii dei re ed imperadori.


   
Anno di Cristo MCLXXIV. Indizione VII.
Alessandro III papa 16.
Federigo I re 23, imper. 20.

Dopo aver l'imperadore Federigo tenuta una solennissima dieta in Ratisbona verso il fine di maggio [Chron. Reicherspergense.], nella quale con sacrilega prepotenza fece deporre Adalberto legittimo arcivescovo di Salisburgo, e sostituirne un altro, attese ad unire un potentissimo esercito, con isperanza una volta di conculcar tutte le città della Lombardia. Gli faceano continue premure i Pavesi e il marchese di Monferrato, perchè venisse. Adunque circa la festa di san Michele di settembre, come ha il continuatore di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 2, tom. 6 Rer. Ital.], ossia IV calendas octobris, come ha Sire Raul [Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.], per la Borgogna e Savoia calò in Italia, seco avendo il re di Boemia, e non pochi altri principi di Germania. [838] Occupò Torino ed altre circonvicine città, che spontaneamente se gli renderono. Arrivato a Susa, da dove è da credere che fossero fuggiti tutti quegli abitanti, sfogò la sua collera contro le loro case [Romualdus Salernitan., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.], riducendo quella città in un mucchio di pietre; non già perchè que' cittadini, come taluno ha scritto, seguitassero le parti di papa Alessandro, ma perchè nella sua fuga dall'Italia aveano a lui tolti gli ostaggi, e ridotto lui a fuggirsene travestito per timore di peggio. Passò di là alla città d'Asti, e per otto giorni l'assediò [Cardinal. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Quel popolo, contuttochè fosse stato premunito dalla lega con assai gente e buoni ingegneri, pure spaventato chiese ed ottenne buona capitolazione, con rinunziare alla lega lombarda. Riserbava Federigo il suo furore contro la città d'Alessandria, nata ad onta sua, e che avea preso quel nome per far dispetto a lui. Perciò rivolse tutto il suo sforzo contro quella città, spintovi ancora dal marchese di Monferrato, che coi Pavesi accorse a quell'assedio, e ne fece sperar facile la conquista. Nel dì 29 di ottobre si cominciò dunque ad assediarla; si spiegarono tutte le macchine di guerra, nè si lasciò indietro tentativo alcuno per vincere. Ma si trovarono sì risoluti i cittadini alla difesa, che quantunque fosse quella città, per così dire, bambina, e, secondo Gotifredo Monaco [Godefridus Monachus, in Chron.], non peranche cinta di mura, ma solamente provveduta di una profonda fossa (il che viene asserito dall'autore della vita d'Alessandro III [Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III.]), pure nulla vi profittò l'esercito imperiale. Lascerò considerare ad altri che capitale debba farsi dell'Urspergense, allorchè scrive di Alessandria: Erat tamen circumdata fossatis et muris firmissimis. Federigo, principe di costanza mirabile nelle sue imprese, benchè le piogge avessero allagata [839] quella pianura, pure determinò di passare piuttosto il verno sotto quella città nelle tende, che di ritirarsi a più agiati quartieri. Se vogliamo credere al Sigonio [Sigon., de Regno Ital., lib. 14.], i Milanesi, Piacentini, Bresciani e Veronesi, ciascun popolo col proprio carroccio, vennero in quest'anno a postarsi tra Voghera e Castiggio, per dar soccorso all'assediata città. Alla vista del loro ardire non potendosi contener l'imperadore, venne ad attaccar con esso loro battaglia: Verum acie pulsus vix incolumis Clastidium recepit. Niun fondamento trovo io di questo fatto d'armi e di tal vittoria de' collegati nelle antiche storie, le quali anzi insegnano il contrario. Nè sussiste, come vuole esso Sigonio, che in quest'anno i Cremonesi e Tortonesi si ritirassero dalla lega di Lombardia per paura di Federigo. Molto meno poi si regge in piedi l'opinione del Puricelli [Puricell., Monument. Basilic. Ambros.], che i Pavesi fossero dianzi entrati in essa lega. Costantissimi furono sempre essi nel partito di Federigo. Nella prefazione all'opuscolo di Buoncompagno, da me dato altrove alla luce [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.], fidatomi al testo di Sicardo vescovo di Cremona che vivea in questi tempi, scrissi che l'assedio d'Ancona seguì nell'anno 1172. Ora meglio disaminato questo punto di storia, credo fallato quel testo, e doversi riferire tale impresa all'anno presente, Romoaldo Salernitano [Romualdus Salern., in Chron.], scrittore contemporaneo, ne parla sotto questi tempi, e gli Annali Pisani [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.] più chiaramente ci additano quest'anno.

Non riconosceva la città d'Ancona, come le circonvicine, per suo signore lo imperador d'Occidente; ma godendo della sua libertà si pregiava d'avere per suo sovrano l'imperador d'Oriente, o almeno di stare sotto il di lui patrocinio. Quivi perciò risiedeva un ministro di Manuello Comneno imperadore, principe che, [840] siccome più d'una volta dicemmo, da gran tempo andava ruminando pensieri di conquiste in Italia. Ma nè all'Augusto Federigo, nè ai suoi ministri piacea questo nido de' Greci nel cuore dell'imperio occidentale. Molto men piaceva esso ai Veneziani, i quali, non solamente erano inaspriti per le cose già dette contra dei Greci, ma eziandio aspiravano ad essere soli nel dominio dell'Adriatico, e nel commercio delle merci in Levante; laonde antica era la gara, e vecchio l'odio fra Venezia ed Ancona. Varie guerre ancora ne erano procedute negli anni addietro fra loro. S'intesero dunque insieme essi Veneziani e l'arcivescovo di Magonza Cristiano, legato e plenipotenziario di Federigo in tutta l'Italia, per sottomettere, anzi per distruggere Ancona. Buoncompagno, autore contemporaneo, che descrisse questo avvenimento, ci fa intendere qual fosse allora la potenza de' Veneziani, con dire [Boncompagnus, de obsidione Anconae, tom. 6 Rer. Ital.] che illius civitatis dux aureum circulum in vertice defert, et propter aquarum dignitatem quaedam regalia insignia obtinere videtur. Vennero dunque i Veneziani con una flotta di quaranta galee e con un galeone di smisurata grandezza a bloccare sì strettamente per mare il porto di quella città, che niuno ne poteva uscire. Per terra ancora ne formò l'arcivescovo maganzese l'assedio con quante milizie tedesche egli potè raccogliere, e con altre in maggior numero venute dalla Toscana, Romagna e Spoleti. Dagli Annali Pisani [Annales Pisani.] abbiamo che quell'assedio durò dal primo giorno d'aprile dell'anno presente sino alla metà d'ottobre: cotanto vigorosa fu la difesa di que' cittadini. Ma, più che gli eserciti nemici, cominciò col tempo la fame a far guerra a quel popolo, di maniera che si ridussero a cibarsi de' più sordidi alimenti; e felice si riputava chi poteva avere in tavola carni di cani e gatti, e cuoio di bestie poco fa uccise. [841] Volea l'arcivescovo a discrezione la città, per mandarla del pari colla città di Milano con altre, secondo la barbarie d'allora; e però mai non volle prestar orecchio ad accordo alcuno, senza pensare che sempre ha fatto e sempre farà brutto vedere un vescovo alla testa di un'armata per ispargere il sangue cristiano, e tanto più se privo di clemenza. Non mancava intanto di confortare alla pazienza ed animare alla difesa quei cittadini il legato del greco Augusto, con impiegare ancora quant'oro ebbe in loro soccorso; ma in fine era disperato il caso: ma eccoti un buon vento di Ponente che rincorò gli assediati, e fece seccar tutte le speranze degli assedianti. Guglielmo degli Adelardi, potentissimo e primario cittadino di Ferrara, unitosi con Aldruda contessa di Bertinoro, donna di gran cuore, della nobil famiglia de' Frangipani di Roma, avea raunato un copiosissimo esercito di Lombardi e Romagnuoli. Con questi venne egli nella vicinanza d'Ancona; e di più non vi volle, perchè nella notte l'arcivescovo di Magonza levasse il campo, e precipitosamente si ritirasse. Restò la città libera, e dipoi abbondantemente provveduta di viveri. Romoaldo Salernitano [Romualdus Salern., in Chron.], dopo aver detto che Guglielmo e la contessa di Bertinoro vennero con grandi forze in soccorso d'Ancona, scrive appresso che l'arcivescovo, recepta ab Anconitanis pecunia, ab obsidione recessit. Credane il lettore quel che vuole. Che per altro quell'arcivescovo fosse un gran cacciatore di danaro, si può facilmente provare. Gotifredo monaco di san Pantaleone [Godefridus Monachus, in Chron.], accennando all'anno 1171 le prodezze del suddetto Cristiano arcivescovo fatte in cinque anni di sua dimora in queste parti, non seppe quel che si scriveva, allorchè disse: Anconam civitatem maritimam, expulsis Graecis, imperatori [842] restituit. Differentemente ne parlano gli storici italiani, meglio informati de' nostri affari. Andossene dipoi il glorioso ferrarese Guglielmo alla corte di Costantinopoli, dove fu accolto con onori da principe; e tanti furono i regali di oro e d'argento a lui fatti dall'imperador Manuello, che, tornato in Italia, disimpegnò tosto tutte le sue tenute, sulle quali avea preso grosse somme di danaro per far quell'impresa. Largamente ancor esso Augusto rifece tutti i lor danni a' cittadini d'Ancona. Di questo famoso assedio poco si mostrano consapevoli gli scrittori veneti, quantunque espressa menzione ne faccia il Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.]; ma è da vederne la descrizione a noi lasciata dal suddetto Buoncompagno fiorentino, che era in questi tempi pubblico lettore di belle lettere in Bologna. Nè si dee tacere che il suddetto arcivescovo, per attestato di Romoaldo, prima d'imprendere l'assedio d'Ancona, ad ducatum spoletinum, et ad Marchiam veniens, multa castra regionis illius depopulatus est, et cepit. Assisiam civitatem et spoletinam suo dominio subdidit. E scrivendo l'Abbate Urspergense che in quest'anno nel mese di marzo la città di Terni fu distrutta, si può immaginare che questa fosse una delle belle prodezze di quel barbaro prelato. Questi gran movimenti di guerra cagion furono che seguì pace fra Guglielmo II re di Sicilia e i Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6 Rer. Italic.], i quali ancora stabilirono una buona concordia col marchese Obizzo Malaspina. Un gran flagello nell'anno presente si fece sentire alla città di Padova [Catalog. Consul. Patavinor., tom. 8 Rer. Italic.]. Attaccatosi il fuoco, o per accidente o per iniquità d'alcuno, nel dì 4 di marzo, vi bruciò più di due mila e seicento case.

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Anno di Cristo MCLXXV. Indizione VIII.
Alessandro III papa 17.
Federigo I re 24, imper. 21.

Rigoroso fu il verno di quest'anno, e, ciò non ostante, l'intrepido imperador Federigo non volle muovere un passo di sotto all'assediata città di Alessandria contro il parere di tutti i suoi principi [Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Tali e tanti furono i disagi patiti dalla sua armata in quella situazione, che per mancanza di foraggi gli perì gran quantità di cavalli, e si scemò il numero dei combattenti o per le malattie o per le diserzioni, non potendo i soldati reggere alla penuria di tutte le cose necessarie. Non si rallentava per questo l'ardore d'esso Augusto, lusingandosi egli di uscirne presto con riputazione, mercè di un'invenzione che gli prometteva un felice successo dell'impresa. Questa era una mina condotta sì segretamente sotterra verso la città, che gli Alessandrini non se ne avvidero giammai. Per questa sperava Federigo di penetrare all'improvviso nella città. Racconta Gotifredo monaco [Godefr. Monach., in Chron.], che se cadeva nelle sue mani alcuno de' nemici, d'ordinario li faceva impiccare; ma che un dì ne fece pur una degna di lode. Condottigli davanti tre prigioni, ordinò tosto che fossero lor cavati gli occhi. Eseguita la sentenza sopra i due primi, dimandò l'imperadore al terzo, che era un giovinetto, perchè fosse ribello contro l'imperio. Rispose il giovane: Nulla, signore, ho fatto contra di voi o dell'imperio; ma avendo un padrone nella città, ho fedelmente ubbidito a quanto egli mi ha comandato. E s'egli vorrà servire a voi contra de' suoi cittadini, con egual fedeltà a lui servirò; e quando pur mi vogliate privar della vista, così cieco ancora servirò, come potrò, al mio padrone. Da queste parole ammansato l'imperadore, senza fargli altro male, gli ordinò di ricondurre [844] in città gli altri due accecati. Venuto il marzo, cominciava Alessandria a scarseggiar troppo di viveri: del che avvisati i collegati, non tardarono più a mettersi all'ordine, per dar anche battaglia al campo imperiale. S'unì dunque a Piacenza un formidabil esercito di Milanesi, Bresciani, Veronesi, Novaresi, Vercellini, Trevisani, Padovani, Vicentini, Mantuani, Bergamaschi, Piacentini, Parmigiani, Reggiani, Modenesi e Ferraresi [Sire Raul, in Histor. tom. 6 Rer. Ital.], cavalieri e fanti. Coraggiosamente marciando questa sì poderosa oste, dopo aver prese e distrutte le terre di Broni e di San Nazario de' Pavesi, andò a postarsi nella domenica delle Palme, giorno 6 di aprile, vicino a Tortona, dieci miglia lungi dal campo tedesco. Si trovò allora Federigo tra due fuochi, ma non si sgomentò, perchè sperava vicina la caduta di Alessandria: per ottenere il quale intento (conviene ben confessarlo) si servì di una frode non degna di principe onesto, e molto men di principe cristiano: cioè fece intendere agli Alessandrini nel giovedì santo, che concedeva loro tregua per benignità imperiale fino al lunedì di Pasqua. Affidato da queste parole quel popolo, senza credere bisognevole in tempo tale la moltiplicità delle guardie, dopo le divozioni andò al riposo. Verso la mezza notte Federigo, dimentico della fede data, spinse per la mina sotterranea dugento dei più bravi e nerboruti suoi soldati; e figurandosi che questi, sboccando nella città, darebbono campo a lui d'entrar per la porta, messa in armi tutta la sua gente, stette aspettando l'esito dell'affare poco lungi dalla porta suddetta. Ma appena dalle sentinelle fu scoperto essere entrati in città alcuni de' nemici, che gridarono all'armi; alla qual voce il popolo uscito dalle case, a guisa di lioni, affrontò i nemici, e li costrinse a gittarsi giù dai bastioni, oppure a lasciare ivi la vita. Sopra quelli che non erano per anche usciti dalla mina, cadde la terra superiore, e li soffocò. Poscia in quel bollore di sdegno [845] gli Alessandrini, aperte le porte, assalirono il campo nemico non senza molta strage de' Tedeschi. Riuscì a quel popolo eziandio di attaccar fuoco al castello di legno dell'imperadore, in cui stava un buon drappello di soldati, e di bruciar l'uno e gli altri. Quand'anche volesse talun dubitare se vera fosse la frode suddetta, la qual pure vien raccontata dallo scrittor della vita di papa Alessandro III, confermata da Romoaldo Salernitano e da Sire Raul, certo si meritava Federigo un sì infelice successo, dacchè egli avea meditato e procurato in giorni sì santi l'eccidio di un popolo intero seguace di Cristo. Vedendo egli dunque andare a rovescio tutte le speranze sue, attaccato il fuoco alle restanti macchine di guerra, levò il campo, e venne a fronte dell'esercito collegato [Otto de S. Blasio, in Chron.], per impedirgli l'unione cogli Alessandrini; oppure si mise in viaggio per tornare a Pavia; ma non potendo passare, si fermò nella villa appellata Guignella.

Già pareva imminente una terribil giornata campale, quando in vece di battaglia seguì pace e concordia fra l'imperadore e i Lombardi. Gli storici tedeschi, soliti a far nascere allori in tutti i passi di questo e d'altri Augusti, scrivono [Godefridus Monachus, in Chron. Cronographus Saxo.] che al comparire dell'esercito cesareo sorpresi i Lombardi da timor panico, mandarono tosto a chieder pace a Federigo, ed ottenutala con aver deposte le armi, s'andarono a gittar colle spade sul collo ai di lui piedi. Ma queste son da credere millanterie. L'autore della vita di papa Alessandro, e Romoaldo Salernitano, scrittor gravissimo di questi tempi, ci assicurano che il timore fu dalla parte di Federigo; nè è da credere altrimenti, perchè egli era molto inferiore di forze ai Lombardi, e i Lombardi sapeano molto bene contra di chi s'erano mossi col loro esercito. Ora nel lunedì di Pasqua, mentre i Lombardi, preparati [846] a menar le mani, erano incerti se dovessero eglino assalire, oppure aspettar l'assalto [Caffari, Annal. Genuens., lib. 3.], alcuni religiosi ed uomini savii, e non sospetti, cominciarono a correre di qua e di là, per consigliar la pace e risparmiare il sangue cristiano. Finalmente acconsentì l'imperadore di rimettere le controversie, e di stare nell'arbitrio d'uomini dabbene, purchè restasse salvo il diritto dell'imperio. E i Lombardi accettarono il partito, purchè si salvasse la lor libertà e quella della Chiesa romana. Gherardo Maurisio [Gherard. Maurisius, in Chron.] e Galvano dalla Fiamma [Gualv. Flamma, in Manipul. Flor., cap. 204.] scrivono che Eccelino primo, avolo del crudele, ed Anselmo da Doara, padre di Buoso, furono tra i mediatori di questo accordo. E specialmente Eccelino sic humiliter verbis et factis supplicavit eidem imperatori, quod tam sibi quam dictis Lombardis, et Obitioni marchioni estensi suam indignationem remisit. Dovette anche il marchese Obizzo di Este trovarsi nell'esercito collegato contra di Federigo. Insomma sottoscritto e giurato l'accordo con fare il compromesso in Filippo eletto arcivescovo di Colonia, in Guglielmo da Pozasca capitano di Torino, e in un Pavese di San Nazario per parte di Federigo, e per parte de' Milanesi in Gherardo da Pesta milanese, e in Alberto da Gambara bresciano, e in Gezone veronese: non lasciarono i Lombardi di comparire con tutta umiliazione e riverenza davanti all'imperadore, che gli accolse con molta benignità, e si ritirò poscia a Pavia colla moglie e coi figliuoli. E perchè erano ormai sazii i soldati del re di Boemia dei tanti patimenti fatti, ottennero licenza di tornarsene alle loro case: il che sempre più sforzò l'imperadore a dar orecchio a trattati di tregua o pace. Non era egli uomo, se non si fosse veduto in bassa fortuna e in pericolo, da rimettere sì per poco la spada nel fodero. Tornando poscia i Lombardi per Piacenza alle loro [847] città, trovarono per viaggio i Cremonesi che venivano col loro carroccio all'armata [Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III.]. Non erano saldi nella lega essi Cremonesi per l'amicizia che passava fra loro e i Pavesi, e però consigliatamente tardarono tanto per isperanza d'impedir la mossa degli altri collegati. Saputo poi che senza di loro s'era intavolata la concordia, n'ebbero gran vergogna; e il popolo di Cremona, mosso per questo da bestial furore, ed incolpatine i consoli, andò ad atterrare i loro palagi, e a dare il sacco a tutti i loro beni, con poscia crearne dei nuovi. In quest'anno papa Alessandro diede il primo vescovo alla città d'Alessandria, cioè Arduino suddiacono della Chiesa romana, e privò il vescovo di Pavia della prerogativa del pallio e della croce per cagione del suo attaccamento allo scisma.

Intanto l'Augusto Federigo, facendo credere di voler pace anche nella Chiesa romana, fece sapere a Roma che ne avrebbe volentieri trattato con Ubaldo vescovo d'Ostia, Bernardo vescovo di Porto, e Guglielmo pavese cardinale di san Pietro in Vincola. Vennero tutti e tre a Pavia [Romualdus Salernit., in Chron.]; fors'anche più a requisizion de' Lombardi che di Federigo; loro fu fatto grande onore; molte furono le conferenze d'essi coi deputati dell'imperadore e colle città della lega. Ma infine trovandosi esorbitanti in tutto le pretensioni di Federigo per quello che riguardava la libertà tanto della Chiesa quanto de' Lombardi, si sciolse in fumo il trattato, e i legati apostolici se ne tornarono a Roma. Le segrete mire di Federigo erano di guadagnar tempo, tanto che calasse in Italia un nuovo esercito, che s'aspettava di Germania, e non già di ridursi ad accordo alcuno, in cui si avessero a moderar le alte sue pretensioni. Per altro certissimo è che fu fatto in quest'anno nel dì 16 d'aprile, vicino a Mombello, il compromesso dell'imperadore [848] e de' Lombardi. Lo strumento intero, da me tratto dagli antichi registri della comunità di Modena, si legge nelle mie Antichità italiane [Antiquit. Italic., Dissert. XLVIII.], ed è di gran luce a questi avvenimenti. Degno è d'osservazione che Uberto conte di Savoia fa la figura di uno dei principali aderenti e confidenti dell'imperador Federigo; e però sembra che sieno favole quelle che ci racconta il Guichenon [Guichenon, de la Mais. de Savoie, tom. 1.] intorno a questi tempi della real casa di Savoia. Si conferma eziandio ciò che abbiam detto di sopra di Eccelino primo e di Anselmo da Doara; perchè da quegli atti apparisce che amendue erano rettori di Lombardia, cioè direttori della lega e società delle città lombarde: dignità di sommo credito in questi tempi, e indubitato indizio della lor nobiltà e saviezza. Vedesi inoltre che la lega abbracciava le città della Lombardia, Marca di Verona, Venezia e Romagna, e che Federigo segretamente se la dovea intendere coi Cremonesi, benchè collegati di Milano, perchè in loro è rimessa la decision de' punti che restassero controversi. Tralascio il resto di quell'atto, da cui niun frutto poscia si ricavò.

Abbiamo dalle storie di Bologna [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] che nel dì 7 di febbraio dell'anno presente quel gran faccendiere di Cristiano arcivescovo di Magonza, usato a maneggiar più l'armi che il pastorale, co' Faentini, co' Forlivesi condotti dal conte Guido Guerra, e colle milizie di Rimini e d'Imola e della Toscana, venne ad assediare il castello di San Cassano, alla cui difesa stavano trecento cavalieri dei migliori di Bologna, che per più di tre settimane bravamente si sostennero. Contuttochè i Bolognesi ottenessero un buon soccorso, cioè da Milano trecento cavalieri, trecento da Brescia, trecento da Piacenza, cento da Bergamo, cinquecento da Cremona, ducento da Reggio, cento da Modena, trecento da Verona, [849] ducento da Padova, con altri della contessa Sofia e della città di Ferrara, e marciassero per liberar quel castello; tuttavia nulla fecero, perchè i difensori ormai stanchi, attaccatovi il fuoco ed usciti, ebbero la fortuna di salvarsi correndo a Bologna. Il Sigonio diversamente narra questo fatto. Impadronissi poscia l'arcivescovo del castello di Medicina, e fece altri mali al contado bolognese, e sconfisse la lor gente presso al castello de' Britti. Mentre dimorava lo imperador Federigo in Pavia, comandò che venissero a trovarlo i deputati di Genova e Pisa con plenipotenza delle loro città [Caffari, Annal. Genuens., lib. 3.]; e venuti che furono, stabilì fra queste due emule nazioni, la pace, con assegnare ai Genovesi la metà della Sardegna (il che rincrebbe forte ai Pisani), e con ordinare la distruzion di Viareggio ai Lucchesi. Proibì ai Pisani il battere moneta ad imitazion del conio lucchese. Secondo gli Annali di Pisa [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital. Guillelm. Tyrius, Hist. Hierosolymit., lib. 21.], in quest'anno (se pur non fu nel precedente) Guglielmo II re di Sicilia, desideroso di far qualche prodezza contra de' Saraceni, che ogni dì più faceano progressi in Oriente colla rovina del regno gerosolimitano, sul principio di luglio inviò in Egitto un'armata di cento cinquanta galee e di ducento cinquanta legni da trasporto per la cavalleria; se pure è credibile sì poderosa flotta. Fecero sbarco vicino ad Alessandria, diedero il sacco a que' contorni, nè si sa che riportassero alcun altro vantaggio. Forse per questo niuna menzione fece di tale spedizione Romoaldo arcivescovo di Salerno nella sua Cronica.

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Anno di Cristo MCLXXVI. Indizione IX.
Alessandro III papa 18.
Federigo I re 25, imper. 22.

Dacchè le alte pretensioni di Federigo fecero svanir tutte le speranze di pace, andò egli infestando gli Alessandrini, ma senza maggiormente stuzzicare il vespaio, dissimulando il suo sdegno finchè arrivassero i soccorsi aspettati dalla Germania, per ottenere i quali avea nell'anno precedente spedite lettere a tutti i principi di quelle contrade. Stavano all'erta per lo contrario anche i Lombardi, a' quali non mancavano spie per sapere ciò che si manipolava oltramonti. Vedesi parimente nel gennaio di questo anno il giuramento di chi era direttore della lega lombarda [Antiquit. Ital., Dissert. XLVIII.]. Ora Wichmanno arcivescovo di Maddeburgo, e Filippo arcivescovo di Colonia, con tutti que' vescovi e principi ch'eglino poterono raunare [Chronograph. Saxo, apud Leibnitium.], dopo Pasqua misero in marcia l'esercito preparato, per venire in aiuto dell'Augusto Federigo. Dalla parte dell'Adige non v'era libero il passo, e però per montagne alpestri calarono finalmente verso il lago di Como. Appena udì Federigo essere quella gente in viaggio, che non si potè contenere di andar, ma sconosciuto, a riceverli a Como, ed anche a Bellinzona. Con questa armata e colle forze de' Comaschi suoi fedeli, perchè doveano aver di nuovo aderito al di lui partito, si mise in marcia per Cairate alla volta del Ticino, con pensiero di unirsi coi Pavesi e col marchese di Monferrato, e ricominciar la festa. Non dormivano i Milanesi; e premendo loro che non seguisse l'union di Federigo coll'esercito pavese, sollecitarono tutti i lor collegati per uscire in campagna, ed opporsi al di lui passaggio. Non erano ancor giunte tutte le milizie che s'aspettavano, quando s'udì che l'armata nemica era già pervenuta a Como. [851] Però, senza perdere tempo, le scelte schiere de' Milanesi, Bresciani, Piacentini, Lodigiani, Novaresi e Vercellini mossero col carroccio, e fecero alto fra Borsano e Busto Arsiccio, ossia fra Legnano e il Ticino [Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital. Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Italic.]. Mandarono innanzi settecento cavalli, per riconoscere qual via tenesse l'esercito tedesco, e questi, appena fatte tre miglia di viaggio, si videro venire all'incontro circa trecento cavalieri tedeschi. Imbracciati gli scudi, e colle lance in resta tutti spronarono, e tosto si attaccò battaglia: battaglia memorabile per tutti i secoli avvenire. Il giorno, in cui essa seguì, dal Panvinio vien detto il dì 26 di maggio; dal Sigonio il dì 30 d'esso mese, correndo la festa de' santi Sisinnio, Martirio ed Alessandro. Il padre Pagi pretende che abbia a prevalere a tutti l'autorità della vita di papa Alessandro III, dove si legge che questo fatto d'armi accadde circa finem mensis junii. Nell'edizion da me fattane è scorretto in essa vita l'anno [Rerum Italic., P. I, tom. 3.], leggendosi anno MCLXXV, quando ha da essere MCLXXVI, come si truova negli estratti che ne fece il cardinal Baronio. Tanto poi nell'edizion suddetta, quanto presso il Baronio è difettoso quel circa finem junii. E si conosce dal vedere che si fa incamminato Federigo a Como circa il fine di giugno, con soggiugnere appresso che i Milanesi in primo sabbato mensis junii uscirono in campagna, nè tardarono a venire alle mani. Ma neppur sussiste che nel primo sabbato di giugno succedesse quella campal giornata. Avvenne essa nell'ultimo sabbato di maggio, che era in quell'anno il dì 29 di maggio, ossia il dì IV kalendas junii, correndo veramente allora la festa dei santi suddetti, che fu posta dal Sigonio, sedotto da Galvano Fiamma, III kalendas junii. Sire Raul, autore allora vivente in [852] Milano [Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.], chiaramente mette la battaglia suddetta quarto kalendas junii, in die sabbati. Il continuatore di Caffaro scrive [Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.] succeduto ciò in hebdomada Pentecostes. E nel Calendario milanese, da me dato alla luce, si legge [Kalend. Mediolan., P. II, tom. 2 Rer. Ital., pag. 1037.]: IV kalendas junii, sanctorum Sisinnii, Martyrii, et Alexandri, anno Domini MCLXXVI inter Legnianum et Ticinum Mediolanenses expulerunt de campo imperatorem Federicum cum toto exercitu suo, et infiniti Teutonici capti sunt ibi, et gladio occisi, et fere totus populus Cumanorum ibi remansit. Il suddetto Galvano Fiamma [Gualvanus Flamma, in Manipul. Flor.] anch'egli mette questo fatto nella festa de' suddetti santi, benchè per errore nel suo testo sia scritto III kalendas junii. E però in essa festa il popolo di Milano annualmente da lì innanzi continuò a rendere un pubblico ringraziamento alla misericordia di Dio, di maniera che non è più da mettere in dubbio questa verità: cioè nel dì 29 maggio seguì quel famoso conflitto.

Incominciarono dunque la baruffa i settecento cavalieri milanesi incontratisi coi trecento tedeschi, quando sopraggiunse l'imperadore col grosso dell'armata, al cui arrivo non potendo essi reggere, presero la fuga. Con questo buon principio arrivò Federigo dove l'aspettava col carroccio il nerbo maggiore dell'esercito collegato, e con tutto vigore l'assalì. Quivi trovò gran resistenza, e sulle prime vide steso a terra e stritolato dai piedi de' cavalli chi portava l'imperial bandiera. Contuttociò tal fu lo sforzo de' Tedeschi, che piegarono alcune schiere di Bresciani, e presa in fine la fuga, furono inseguite per parecchie miglia. Ma perchè restava un altro gran corpo de' più valorosi collegati alla guardia del carroccio, e parte de' Tedeschi s'era perduta a dar la caccia ai fuggitivi, non [853] solamente non potè Federigo romperli, ma restò rotto egli stesso, massimamente perchè andarono sopravvenendo al campo de' collegati nuovi rinforzi di gente che dianzi era in viaggio [Romuald. Salernit., in Chron., tom. 9 Rer. Italic.]. Fece delle maraviglie di bravura in quel dì Federigo, e fu anche degli ultimi a ritirarsi; ma finalmente rovesciato da cavallo, come potè il meglio si sottrasse al pericolo, e sparì, lasciando i suoi alla discrezione de' vincitori. Restarono moltissimi vittima delle spade de' collegati, o affogati nel Ticino, moltissimi altri rimasero prigioni; ma principalmente toccò la mala ventura alle milizie di Como, che quasi tutte rimasero tagliate a pezzi, o condotte in prigionia. Diedesi poscia il sacco al campo nemico, ed oltre ad una quantità d'armi, di cavalli, d'arnesi e d'equipaggio, fu presa la cassa di guerra, che portava all'imperadore il tesoro raunato in Germania per sostener la guerra in Italia, con altri arredi e robe preziose. In una lettera scritta dai Milanesi a Bologna, e rapportata da Radolfo di Diceto, si legge [Radulph. de Diceto, pag. 591.]: Interfectorum, submersorum, captivorum non est numerus. Scutum imperatoris, vexillum, crucem, et lanceam habemus. Aurum et argentum multum in clitellis ejus reperimus, et spolia hostium accepimus, quorum aestimationem non credimus a quoquam posse definiri. Captus est in praelio dux Bertholdus, et nepos imperatoris, et frater coloniensis archiepiscopi. Aliorum autem infinitas captivorum numerum excludit, qui omnes Mediolano detinentur. Chi non sapesse che i vittoriosi ingrandiscono sempre il valore e la fortuna loro, di qua può impararli. E chi avesse anche da imparare che i vinti sogliono inorpellar le loro perdite, legga qui le storie degli scrittori tedeschi [Otto de S. Blasio, in Chron. Godefridus Monachus, in Chron. Chronographus Saxo, apud Leibnitium.], che scrivono aver avuto i collegati ben cento mila combattenti in quest'azione, [854] quando era di poche migliaia l'armata imperiale. V'ha licenza di credere che superiori di forze fossero i collegati, ma non per questo era sterminato l'esercito loro, come si può raccogliere da Sire Raul. Nè Federigo, principe, che come mastro di guerra sapeva bene il suo conto, ito sarebbe ad attaccare i Lombardi con poche migliaia d'armati. Aggiungono finalmente, che l'imperadore fece una grande strage di essi Lombardi, e che finalmente soperchiato dalle lor forze, si aprì colla spada il passaggio a Pavia. La verità si è [Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III.] che celatamente fuggito Federigo, fu creduto ucciso in battaglia, e si cercò diligentemente il di lui cadavero. Prese tal piede questa credenza, che la imperadrice restata in Como si vestì da corruccio; e molti giorni si stette in tale ambiguità, senza sapersi dove fosse il fuggitivo imperadore, finchè all'improvviso egli comparve vivo e sano in Pavia. Presso il Malvezzi abbiamo [Malvec., in Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.] che Federigo fu fatto prigione dai Bresciani, e condotto a Brescia, da dove fuggì in abito di mendico. Questa favola ci vorrebbe far credere molto poco avveduti i signori Bresciani.

Comparve dunque in Pavia l'imperador Federigo, ma molto umiliato, riconoscendo egli finalmente la mano di Dio sopra di sè, e di meritar anche peggio, per aver sì lungamente fomentata la disunione e lo scandalo nella Chiesa di Dio, e per tante sue crudeltà, prepotenze ed altri suoi peccati. Pertanto ammaestrato dalle disgrazie, e forse più per trovarsi sprovveduto di danaro e di gente, e consigliato da varii suoi principi, cominciò una volta a concepir daddovero pensieri di pace. Però non tardò molto a spedire con plenipotenza Cristiano eletto arcivescovo di Magonza, Guglielmo eletto arcivescovo di Maddeburgo, e Pietro eletto vescovo di Vormazia, per farne l'apertura a papa Alessandro III, che si trovava [855] in Anagni. Ammessi all'udienza, esposero il desiderio di Federigo, ed ebbero per risposta che il papa era prontissimo alla concordia, purchè in essa avessero luogo anche il re di Sicilia, i Lombardi e l'imperador di Costantinopoli: al che acconsentirono gli ambasciatori. Per quindici dì si tennero segrete conferenze, e restò smaltita la controversia spettante alla Chiesa romana, siccome si può vedere dallo strumento pubblicato dal padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron., ad hunc annum. Sigonius, de Regno Ital., lib. 14.]. Ma per quel che riguardava la lite coi Lombardi, niuna determinazione si potè prendere, e solamente si giudicò bene che il papa in persona venisse verso la Lombardia, per dar più facilità e calore all'aggiustamento. Presentito questo negoziato di pace dai Cremonesi, si credettero eglino o sul fine di questo, o sul principio del seguente anno, di vantaggiare i loro interessi con darsi di buona ora all'imperadore; e però si aggiustarono con lui senza il consenso dei collegati e contro del giuramento. Antonio Campi [Antonio Campi, Cremon. fedel.] ne rapporta lo strumento dato nell'anno presente. Altrettanto fecero dipoi i Tortonesi: passi tutti sommamente detestati dal papa e dagli altri collegati, che li chiamarono traditori, vili ed infami. Per quanto s'ha dall'Anonimo Casinense [Anonymus Casinens., in Chron.] e dalla Cronica di Fossanuova [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.], Cristiano arcivescovo di Magonza sul principio di marzo dell'anno presente assediò il castello di Celle ai confini della Puglia. Ruggieri conte di Andria e il conte Roberto, messo insieme un copioso esercito, andarono per isloggiarlo di là. V'ha chi scrive, che venuti a battaglia coll'armata imperiale, ne riportarono vittoria. Tutto il contrario sembra a me di leggere nella Cronica di Fossanuova, dove son queste parole: Comites regni Siciliae cum ingenti exercitu insurrexerunt in eum; et gens quidem [856] Alemannorum fuit super eos; et plerosque cepit; atque in fugam verterunt VI idus martii. Altro non si sa di una tale impresa che questo poco. L'anno poi fu questo in cui Guglielmo II re di Sicilia determinò di ammogliarsi [Romualdus Salernit., in Chron.], e a tal fine spedì col titolo di legati in Inghilterra Elia vescovo eletto di Troia, ed Arnolfo vescovo di Capaccio, a chiedere Giovanna figliuola del re Arrigo II in sua moglie [Radulphus de Diceto, pag. 594.]. Conchiuso il parentado per interposizion di papa Alessandro, fu da una squadra di navi inglesi condotta questa principessa sino all'isola di Sant'Egidio in Linguadoca. Colà vennero a levarla Alfano arcivescovo di Capoa, Riccardo vescovo di Siracusa e Roberto conte di Caserta con venticinque galee, e la condussero a Napoli, dove per non poter più essa soffrir gl'incomodi del mare, sbarcò, e celebrò la festa del santo Natale. Continuato poscia il viaggio per Salerno e Calabria, arrivò in fine felicemente a Palermo, e quivi con gran solennità fu sposata e poi coronata nel dì 13 dell'anno seguente. Nel dì 18 d'aprile di quest'anno Galdino arcivescovo di Milano [Acta Sanct. Bolland., ad diem 18 april.], appena fatta sul pulpito della metropolitana una fervorosa predica contra degli eretici Catari che aveano cominciato ad infettare la città di Milano, colpito da un accidente mortale, rendè l'anima a Dio, e fu poi annoverato fra i santi. Erano i Catari una specie di Manichei, che venuti dalla Bulgaria, a poco a poco s'introdussero in Lombardia, in Francia e in Germania. Nella storia ecclesiastica sotto varii nomi, secondo la diversità de' paesi dove si annidarono, veggonsi nominati. Qui in Italia per lo più venivano chiamati paterini, e durò gran tempo questa peste, senza poterla sradicare. Ne ho parlato ancor io nelle Antichità italiane [Antiquit. Ital., Dissert. LX.].

[857]


   
Anno di Cristo MCLXXVII. Indizione X.
Alessandro III papa 19.
Federigo I re 26, imper. 23.

Felicissimo fu il presente anno, perchè in esso ebbe fine una volta il deplorabile scisma della Chiesa di Dio, e cominciò la pace a rifiorire in Italia. Erano già state con articoli segreti composte le differenze che passavano fra la Chiesa romana e Federigo imperadore, e restavano tuttavia pendenti quelle de' Lombardi. Per agevolar l'aggiustamento ancora di queste, il pontefice Alessandro, siccome era il concerto, avea da venire a Ravenna o a Bologna [Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III.]. Prima di muoversi da Anagni, per maggior cautela, volle che lo stesso Federigo autenticasse col giuramento la sicurezza della sua persona, a lui promessa dai plenipotenziarii. Però spedì apposta il vescovo d'Ostia e il cardinale di san Giorgio, i quali dalla Toscana venuti in Lombardia, trovarono Federigo ne' contorni di Modena, e furono accolti onorevolmente e con buon volto. Fece egli confermare col giuramento a nome suo da Corrado figliuolo del marchese di Monferrato il passaporto accordato al pontefice; e lo stesso giuramento prestarono tutti i principi della sua corte. Informato di ciò papa Alessandro III, dopo avere spediti innanzi sei cardinali, che trovarono l'imperadore a Ravenna, s'inviò egli a Benevento, dove dimorò dalla festa del santo Natale sino all'Epifania. Di là per Troia e Siponto passò al Vasto, dove trovò sette galee ben guernite d'armi e di viveri, che il re di Sicilia gli aveva allestite, con ordine a Romoaldo [Romualdus Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Italic.] arcivescovo di Salerno (lo stesso che scrisse la storia di questi fatti) e a Ruggieri conte d'Andria, gran contestabile e giustiziere della Puglia, di accompagnare la Santità sua, e di accudire agl'interessi del suo regno. Perchè il [858] mare fu lungamente in collera, non potè il pontefice imbarcarsi se non il primo dì di quaresima, cioè a dì 9 di marzo. Undici poi furono le galee che il servirono nel viaggio; e con queste e con cinque cardinali nella prima domenica di quaresima arrivò a Zara, e nel dì 20, oppure nel dì 24 d'esso mese felicemente giunto a Venezia, prese riposo nel monistero di san Nicolò al Lido. Nel dì seguente Sebastiano Ziani doge co' patriarchi d'Aquileia e di Grado, coi lor vescovi suffraganei ed immenso popolo, andò a levarlo e il condusse a san Marco, e di là al palazzo del patriarca. Dimorava intanto Federigo Augusto in Cesena, ed udito l'arrivo del papa a Venezia, inviò colà l'arcivescovo di Maddeburgo, il vescovo eletto di Vormazia e il suo protonotaio, a pregarlo di far mutare il luogo del congresso, che già era destinato in Bologna, perchè non si attentava d'inviare a Bologna Cristiano arcivescovo di Magonza suo cancelliere, persona troppo odiata da' Bolognesi, per li danni loro inferiti dal medesimo poco dianzi. Nulla volle conchiudere il saggio pontefice senza il parere e consenso de' collegati; e però scrisse, acciocchè spedissero i lor deputati a Ferrara, dove egli si troverebbe nella domenica di Passione. In Ferrara dunque, dove al determinato giorno comparve con undici galee il santo padre, vennero a rendergli ossequio Algisio novello arcivescovo di Milano, e l'arcivescovo di Ravenna coi lor suffraganei, e i consoli delle città lombarde, e gran copia di abbati e di nobili. Disputossi per molti giorni del luogo del congresso, insistendo i Lombardi per Bologna, e i ministri dell'imperadore per Venezia. Prevalse l'ultimo partito, in maniera che il papa col suo seguito imbarcatosi nel dì 9 di maggio, se ne tornò a Venezia, dove ancora si trasferirono i deputati dell'imperadore, e insieme quei delle città della lega, cioè i vescovi di Torino, Bergamo, Como ed Asti, ed altri dell'ordine secolare, e si diede principio alle [859] conferenze. Empierei quivi di gran carta se volessi minutamente descrivere le pretensioni delle parti e i maneggi di quel trattato. Chi più diffuso ne desidera il racconto, dee consultare la Cronica di Romoaldo Salernitano, e gli atti da me pubblicati nelle Antichità italiane [Antiquit. Ital., Dissert. XLVIII.], siccome ancora i prodotti dal Sigonio [Sigonius, de Regno Ital.], avvertendo nulladimeno che esso Sigonio li riferisce all'anno precedente, quando è fuor di dubbio che appartengono al presente.

Dirò in poche parole, avere preteso l'imperadore che i Lombardi eseguissero quanto era stato decretato nella dieta di Roncaglia nell'anno 1158 col consiglio dei dottori bolognesi intorno alla cession delle regalie, oppure che rimettessero le cose nello stato in cui erano, allorchè il vecchio Arrigo, cioè il quarto fra i re e il terzo fra gl'imperadori, venne in Italia. Poca cognizion di storia convien dire che avesse Gerardo Pesta deputato dei Milanesi, allorchè, per attestato di Romoaldo Salernitano, rispose che Arrigo il vecchio fu un tiranno, e ch'egli fece prigione papa Pasquale (quando ciò accadde sotto Arrigo quinto), nè alcuno vivea che si ricordasse degli atti e statuti d'esso Arrigo seniore. E però che essi erano pronti a rendere a Federigo quei doveri, quae antecessores nostri juniori Henrico, Conrado, et Lothario, et ei usque ad haec tempora reddiderunt; e che fossero salve le consuetudini delle città colle lor libertà. Questa, a mio credere, cominciò fin sotto Arrigo seniore; nè vivea allora alcuno che si ricordasse del suo principio, laonde, ab immemorabili erano esse città in possesso dei diritti di eleggersi i lor ministri, e delle regalie. Apparisce poi dagli atti da me prodotti che le città e i luoghi del partito imperiale erano in questi tempi Cremona, Pavia, Genova, Tortona, Asti, Alba, Acqui, Torino, Ivrea, Ventimiglia, Savona, Albenga, Casale di Sant'Evasio, Montevio, Castello Bolognese, [860] Imola, Faenza, Ravenna, Forlì, Forlimpopoli, Cesena, Rimini, Castrocaro, il marchese di Monferrato, i conti di Biandrate, i marchesi del Guasto e del Bosco, e i conti di Lomello. All'incontro nella lega di Lombardia erano Venezia, Trivigi, Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Ferrara, Mantova, Bergamo, Lodi, Milano, Como (benchè da noi poco fa veduto aderente di Federigo), Novara, Vercelli, Alessandria, Carsino e Belmonte, Piacenza, Bobbio, Obizzo Malaspina marchese, Parma, Reggio, Modena, Bologna, Doccia, San Cassano ed altri luoghi e persone dell'esarcato e della Lombardia. Le dispute andarono in lungo, e niuna conclusione potè avere il negoziato, non volendo cedere l'una delle parti all'altra. Allora fu che papa Alessandro propose una tregua: il che riferito all'Augusto Federigo, andò nelle smanie. Ciò non ostante, segretamente fece intendere al papa, che si contenterebbe di accordare ai Lombardi una tregua di sei anni, e di quindici al re di Sicilia, purchè il papa permettesse ch'egli per quindici anni godesse le rendite de' beni della famosa contessa Matilda, che erano in sua mano, dopo i quali ne dimetterebbe il possesso alla Chiesa romana. Contentossene il papa, e in questa maniera si stabilì la concordia. Lagnaronsi dipoi non poco i Lombardi del papa [Sire Raul, Hist., tom. 6 Rer. Ital.], perch'egli avesse acconci i fatti propri, con lasciar essi tuttavia in ballo, quando eglino aveano tutto il peso della guerra con tanto loro dispendio di gente e di roba, per ridur pure Federigo a far pace colla Chiesa. Ma il più ordinario fin delle leghe suol esser questo. Cercano prima i potenti il maggior loro vantaggio, e tocca dipoi ai minori l'accomodarsi al volere degli altri, e ringraziar Dio se non anche restano abbandonati. Non erano ancora bene smaltiti tutti questi punti, quando l'Augusto Federigo venne a Chioggia. Suscitossi allora una gran commozione fra la plebe di Venezia, mostrandosi [861] essa risoluta di andare a condurlo tosto in città: il che fu quasi cagione che il papa e i ministri del re di Sicilia si ritirassero da Venezia; e già ne erano partiti alla volta di Trevigi i deputati de' Lombardi. Ma il doge, uomo savissimo, trovò riparo a questo disordine, e diede tempo che fosse giurata la pace, e concertato l'abboccamento da farsi in Venezia [Romuald. Salern., in Chron., tom. 7 Rer. Ital. Cardinal. de Aragon., in Vita Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Nel giorno adunque 24 di luglio, giorno di domenica, saputosi che Federigo imperadore veniva a Venezia, il papa di buon'ora con gran solennità si trasferì a san Marco, e mandò ad incontrarlo i vescovi d'Ostia, di Porto e di Palestrina, con altri cardinali, che gli diedero l'assoluzion della scomunica; e allora Cristiano arcivescovo di Magonza con gli altri prelati abiurarono Ottaviano, Guido da Crema e Giovanni da Struma antipapi. Andò il doge con gran corteggio di bucentori e barche a levar l'imperadore da san Niccolò del Lido, e processionalmente poi col patriarca di Grado e clero il condusse fin davanti alla basilica di san Marco, dove il papa in abito pontificale con tutti i cardinali, col patriarca d'Aquileia, e molti arcivescovi e vescovi lo stava aspettando. Allora Federigo alla vista del vero vicario di Cristo, venerando in lui Dio, lasciata da parte la dignità imperiale, e gittato via il manto, con tutto il corpo si prostese ai piedi del sommo pontefice, e glieli baciò. Non potè contener le lagrime per la gioia il buon papa Alessandro, e sollevatolo con tutta benignità, gli diede il bacio di pace e la benedizione. Allora fu intonato ad alta voce il Te Deum: e Federigo, apprehensa pontificis dextera, il condusse fino al coro della basilica di san Marco, dove ricevette la benedizione pontificia, e di là passò ad alloggiare nel ducal palagio. Nel giorno seguente, festa di san Jacopo apostolo cantò il papa solenne messa, e predicò al popolo in san Marco. [862] Federigo gli baciò i piedi, fece l'oblazione, e dopo la messa gli tenne la staffa; presa anche la briglia del cavallo pontificio, era in procinto di addestrarlo, se il papa affettuosamente non l'avesse licenziato. Seguirono poi visite, conviti e colloqui, e nel dì primo d'agosto fu solennemente ratificata la pace e tregua, e poscia assoluti gli scismatici. E nella vigilia dell'Assunzion della Vergine tenne il papa un concilio in san Marco, dove scomunicò chiunque rompesse la pace e tregua suddetta. Fece dipoi istanza a Federigo per la restituzion dei beni della Chiesa romana: al che si mostrò pronto l'imperadore, ma con salvare per sè le terre della contessa Matilda e il contado di Bertinoro, che poco fa era vacato per la morte di quel conte accaduta in Venezia, pretendendo quegli Stati, come cosa dell'imperio, ed esibendo di rimetterne la cognizione a tre arbitri per parte. Ne restò amareggiato non poco papa Alessandro, e tanto più perchè il suddetto conte di Bertinoro ne avea fatta una donazione alla Chiesa romana; ma per non disturbare la pace fatta, consentì ai di lui voleri.

Con questo glorioso fine terminò lo scisma della Chiesa; al che specialmente dopo la mano di Dio contribuì assaissimo la prudenza e pazienza del buon papa Alessandro, che sempre si guardò dallo inasprir gli animi coi rigori, e colse in fine il frutto della sua mansuetudine. Il buon esito ancora di sì grande affare è dovuto all'inclita repubblica di Venezia, ne' cui rettori da tanti secoli passa come per eredità la prudenza e saviezza, essendosi mirabilmente adoperati que' nobili, e sopra gli altri il loro doge Ziani, affinchè si eseguisse la tanto sospirata riunione, con aggiungersi ancora questa alle tante glorie della città di Venezia. Alla verità delle cose fin qui narrate fecero poscia i tempi susseguenti varie frange con dire: che Federigo andò nell'anno 1176 coll'esercito suo ad Anagni, perseguitando papa Alessandro, il quale travestito se ne fuggì a Venezia, dove fu riconosciuto [863] ed onorato: che esso Federigo passò fino a Taranto in cerca del papa: che una flotta di settantacinque galee da lui messa in ordine fu disfatta da' Veneziani, con restarvi prigione Ottone figliuolo di esso Augusto: che quando Federigo fu a' piedi del papa, mettendogli Alessandro il piè sulla gola, prorompesse in queste parole: Super aspidem et basiliscum ambulabis, ec., e Federigo rispondesse: Non tibi, sed Petro. Ed è ben vecchio questo racconto. Andrea Dandolo circa l'anno 1340 [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] cita le storie di Venezia (se pur quella non è una giunta fatta a quel savio scrittore) e una leggenda di fra Pietro da Chioggia. Fra Galvano Fiamma [Gualvanus Flamm., in Manipul. Flor.], contemporaneo del Dandolo, ne parlò anch'egli, di modo che divenne famosa questa relazione nelle storie de' susseguenti storici. E perciocchè il Sigonio e il cardinal Baronio dichiararono sì fatti racconti favole e solenni imposture; e lo stesso Sabellico prima d'essi avea assai fatto conoscere di tenerli per tali: don Fortunato Olmo monaco benedettino nell'anno 1629 con libro apposta si studiò di giustificarli con dar fuori un pezzo di storia di Obone Ravennate ed altre cronichette, e con addurre varie ragioni. Ma si tratta qui di favole patenti, e sarebbe un perdere il tempo in volerle confutare. Gli autori contemporanei s'hanno da attendere, e qui gli abbiamo, e gravissimi, in guisa tale che niuna fede merita la troppo diversa o contraria narrativa degli scrittorelli lontani da que' tempi. Che non si disse del duro trattamento fatto a Canossa da Gregorio VII al re Arrigo IV? Altrettanto e più sarebbe detto di papa Alessandro III con Federigo I, se fondamento avesse avuto tal diceria. Ma Alessandro fu pontefice moderatissimo, e però, secondo l'attestato del Cronografo Sassone [Chronograph. Saxo apud Leibnitium.], Federigo dai cardinali [864] honestissime, e dal papa in osculo pacis suscipitur. Per essere gloriosa la città e repubblica di Venezia, non v'ha bisogno di favole, bastando la verità per onor suo, essendo essa stata il teatro di sì memorabil pace, a cui con tanta prudenza, e con ispese e regali sommamente contribuì quel doge con altri nobili. Curioso è bensì un catalogo di tutti i vescovi, principi, abbati e signori che intervennero a quella gran funzione di Venezia colla nota della famiglia di cadauno, pubblicato dal suddetto Fortunato Olmo. Fra gli altri si veggono annoverati Alberto ed Obizzo marchesi da Este con uomini cento ottanta, cioè con accompagnamento superiore a quello della maggior parte degli altri principi che colà concorsero. E questi poi si truovano con altri principi registrati in varii diplomi dell'Augusto Federigo dati in Venezia nell'anno stesso, siccome ho io altrove dimostrato [Antichità Estensi, P. I, cap. 35. Antiquit. Ital., Dissert. XIX.]. Si partì poscia da Venezia Federigo, dopo aver baciati i piedi al sommo pontefice, e dato il bacio di pace a tutti i cardinali, e andossene a Ravenna, e di là a Cesena. Papa Alessandro anch'egli circa la metà di ottobre con quattro galee ottenute dai Veneziani, perchè già s'erano partiti i legati del re di Sicilia colle lor galee, si imbarcò, e giunse nel dì 29 d'esso mese a Siponto e presa la strada di Troia, Benevento e San Germano, con felicità e sanità arrivò ad Anagni verso la metà di dicembre; se non che in Benevento finì i suoi giorni Ugo da Bologna cardinale, in Aversa Guglielmo da Pavia vescovo di Porto, e Manfredi vescovo di Palestrina in Anagni. Per attestato di Sire Raul, nel settembre di quest'anno un orribil diluvio, tale che di un simile non v'era memoria, si provò nelle parti del lago Maggiore, il qual crebbe sino all'altezza di dieciotto braccia (se pure, come io vo credendo, non è scorretto quel testo), e coprì le case di Lesa, con restare allagati [865] dal fiume Ticino tutti i contorni, di maniera che dalla Scrivia s'andava sino a Piacenza in barca.


   
Anno di Cristo MCLXXVIII. Indiz. XI.
Alessandro III papa 20.
Federigo I re 27, imper. 24.

Incredibil fu l'allegrezza di tutta la Chiesa di Dio per la pace stabilita in Venezia fra il papa e l'imperadore. I Romani ne fecero anch'eglino festa [Cardin. de Aragon., in Vit. Alexandri III, P. I, tom. 3 Rer. Italic.]; e considerando il grave danno che loro era venuto tanto nello spirituale che nel temporale per le passate discordie, e per la lontananza del vero pontefice, cominciarono seriamente a trattare di richiamar papa Alessandro in Roma. Gli spedirono a questo fine un'ambasceria di sette nobili, pregandolo di ritornare alla sua città. Prima di farlo, volle il saggio pontefice che si acconciassero le differenze passate, e deputò Arrigo vescovo d'Ostia, che con due altri cardinali ne trattasse coi senatori; ed egli intanto venne a Tuscolo per essere più vicino ai bisogni del negoziato. Dopo lunghi dibattimenti restò conchiuso che sussisterebbe il senato, ma con obbligazione di giurar fedeltà ed omaggio al papa, e di restituirgli la chiesa di san Pietro e tutte le regalie occupate. Nel giorno adunque 12 di marzo, festa di san Gregorio, con trionfale accoglimento del popolo entrò in Roma, e dopo aver visitata la basilica lateranense, andò a riposarsi nel contiguo palazzo; e celebrò dipoi la santa Pasqua con gran solennità. Nel mese d'agosto passò a villeggiare in Tuscolo, ossia Tuscolano [Romualdus Salernit., in Chron., tom. 7 Rer. Italic.]. Quivi fu che nel dì 29 d'esso mese ebbe la consolazione di veder a' suoi piedi Giovanni abbate di Struma, già antipapa sotto nome di Callisto III. Costui dacchè intese riconciliato l'Augusto Federigo col pontefice, si ritirò a Viterbo, ostinato come [866] prima nel suo proposito. Avvertitone l'imperadore, gli ordinò di ubbidire e di sottomettersi: altrimente l'avrebbe messo al bando dell'imperio. Spaventato da questo tuono, lasciò Viterbo, e si rifugiò in Monte Albano, ricevuto ivi molto cortesemente da Giovanni signore di quel castello, per isperanza di ricavarne molto oro da papa Alessandro. Ma ciò inteso da Cristiano arcivescovo di Magonza, volò ad assediar Monte Albano, con dare il guasto alle viti e alle biade di quel distretto. Lasciata poi quivi gente sufficiente per tenere ristretto quel luogo, andò a prendere il possesso di Viterbo a nome del papa, e trovò il popolo ubbidiente, ma non già i nobili, che, fomentati da Corrado figliuolo del marchese di Monferrato, si opposero coll'armi all'arcivescovo e al popolo; e perchè non poteano resistere alla plebe, implorarono l'aiuto de' senatori e del popolo romano. Nè mancarono questi, siccome gente ben presto dimentica de' suoi giuramenti, di accorrere in aiuto de' nobili; ed era per seguirne grande spargimento di sangue, se il saggio papa non avesse ordinato all'arcivescovo e al popolo di schivar la battaglia. Ma conoscendo l'antipapa Callisto la rovina de' proprii affari, finalmente tutto umiliato andò nel dì 29 di agosto a buttarsi a' piedi di papa Alessandro in Tuscolo, col confessare il suo peccato e chiedere misericordia. Quem Alexander papa, ut erat pius et humilis, non objurgavit et reprehendit, sed secundum sibi innatam mansuetudinem benigne recepit: sono parole di Romoaldo Salernitano, che poscia soggiugne: Alexander papa eum, et in curia et in mensa sua honorifice habuit. Abbiamo inoltre [Anonymus Casinensis, tom. 4 Rer. Italic.] che il papa eum postea rectorem Beneventi constituit. Basta ciò a far conoscere qual credenza meriti chi inventò l'accoglimento indecente di Federigo Augusto in Venezia. Se il buon papa così amorevolmente trattò costui, che non avrà poi fatto ad un imperadore, e imperadore [867] qual fu Federigo, ed essendo mediatrice la saviezza veneta, a cui stava a cuore anche l'onor d'esso Augusto? E ben pareva a tutti con ciò estinto affatto lo scisma, quando venne in pensiero ad alcuni disperati scismatici delle parti di Roma di far nascere un altro fantoccio col nome di papa. Ecco le parole di Giovanni da Ceccano [Johan. de Ceccano, in Chron. Fossaenovae.]: Tertio kalendas octobris quidam de secta schismatica inito concilio Landum Sitinum elegerunt in papam Innocentium III, qui ab eisdem est consecratus. Nella Cronica Acquicintina [Apud Pagium, in Crit. Baron., ad hunc an.] è scritto che costui era de progenie illorum, quos Frangipanes Romani vocant: il che difficilmente si può credere di quella così nobile e cattolica famiglia; e che un fratello di Ottaviano già antipapa gli diede ricovero in una sua fortezza in vicinanza di Roma.

Vegnendo ora all'imperador Federigo, appena egli fu giunto nell'anno addietro a Cesena, che si accostò alla terra di Bertinoro [Cardin. de Aragon., in Vita Alexandri III.], e ai due cardinali, che erano stati già mandati dal papa a prenderne il possesso, fece istanza di prenderlo ed averlo egli, pretendendolo, a mio credere, come dipendenza della Romagna, di cui allora gl'imperadori erano padroni, senza che se ne udissero lamenti o proteste dei papi; ed anche perchè, secondo la legge da lui pubblicata in Roncaglia, non si potevano senza licenza sua lasciar feudi alle chiese. Risposero essi con tutta mansuetudine di non poter farlo senza ordine del papa. Altro non vi volle perchè Federigo intimasse immantinente la guerra, e, raunato l'esercito, si portasse sotto quel castello. Non vollero mettersi in difesa i due cardinali, e massimamente perchè v'erano dentro le fazioni de' Bulgari e de' Mainardi, l'una delle quali teneva per l'imperadore. Sicchè quell'inespugnabil castello (oggidì città episcopale) senza sfoderar la spada venne alle mani di Federigo; e benchè il papa gliene facesse [868] delle doglianze con ammonizioni paterne, nulla si mosse egli dal proponimento suo. Non si sa per altro intendere come tanto l'imperadore che il papa pretendessero sopra Bertinoro, quando esso era della Chiesa di Ravenna, ed io ne ho rapportata l'investitura [Antiquit. Ital., Dissert. XI, pag. 633.], data nell'anno 1130 da Gualtieri arcivescovo a Cavalcaconte conte, i cui antecessori similmente ne erano stati investiti da essa Chiesa di Ravenna. Passò dipoi esso Augusto a Spoleti, e di là in Toscana. Truovasi negli Annali de' Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 3.] che nel gennaio di quest'anno egli arrivò a Genova, dove era anche pervenuta nel dì innanzi l'Augusta sua consorte Beatrice, e nel dì seguente comparve il giovinetto re Arrigo lor primogenito. Dopo essersi fermati alquanti giorni in quella città, sontuosamente regalati, se n'andarono. Galvano Fiamma scrive [Gualv. Flamma, in Manipul. Flor.] ch'egli venne a Milano; ma questo autore non è tale da poter noi riposare sulla sua parola ne' tempi lontani da lui. Ora, giacchè la tregua co' Lombardi non permetteva a Federigo di continuar il suo mestiere, che era quel della guerra [Otto de S. Blasio, in Chron.], determinò di passare in Borgogna. Nè fidandosi degl'Italiani [Godefridus Monachus, in Chron.], ordinò a Bertoldo duca di Zeringhen di venir di qua dalle Alpi con un buon corpo di truppe per iscortarlo. Passò dunque pel Monsenisio in Borgogna, e stando in Arles si fece coronare re di quelle contrade. Bernardo di Guidone [Bernard. Guidonis, in Vit. Alexandri III.] mette questa coronazione nel dì III nonas augusti. Tenne poscia il parlamento di quel regno in Besanzone nella festa dell'Assunzion della Vergine. Era egli forte in collera contra di Arrigo il Leone duca di Baviera e Sassonia (ne dirò le cagioni fra poco): e però sotto mano fece che Filippo arcivescovo di Colonia cominciasse a muovergli guerra. Giunto che fu Federigo [869] a Spira, andò il duca a rendergli i suoi rispetti, e a dolersi degli attentati dell'arcivescovo [Arnold. Lubec., Chron. Slav., cap. 24 aut 29.]; ma benchè Federigo dissimulasse, pur fece abbastanza conoscere che covava dei cattivi pensieri contra di lui. Intanto non dormivano i Lombardi. Era ben uscito d'Italia Federigo, era fatta la tregua; contuttociò eglino sempre in sospetto non lasciavano di prendere le misure competenti per la difesa della lor libertà. Da un documento pubblicato dal Puricelli [Puricell., Monum. Basilic. Ambr., n. 573.], e scritto nel dì 15 di settembre dell'anno presente, si scorge che i rettori della Lombardia, Marca e Romagna tennero un congresso per loro affari nella città di Parma. I nomi loro son questi: Guillelmus de Ossa de Mediolano, Ardizo confanonerius Brixiae, Amabeus Veronae, Obertus de Bonifacio Placentiae, Guillelmus de Mapello Pergamensis, Eleazarus Laudensis, Guidotus Reginus, Malvelius de Mantua, Pius Manfredi de Mutina, Albericus de Padua, Astulfus de Tarvisio, Rodulfus Bononiensis, Mainfredus de Parma. Servirà ancora questa memoria a farci conoscere che la nobil casa de' Pii, una delle molte de' figliuoli di Manfredi, era di patria modenese. Nella breve Cronica di Cremona, da me data alla luce [Chron. Cremonens., tom. 7 Rer. Ital.], si legge che nell'anno 1177 i Cremonesi per la prima volta elessero il loro podestà, che fu Gherardo da Carpineta nobile reggiano, il quale finì ivi i suoi giorni nel 1180. Post illum Manfredus Fantus de filiis Manfredi mutinensis, gener ipsius Girardi fuit potestas electus. Hic suo tempore Castrum Manfredum aedificavit, et illi nomen suum imposuit. Dal che parimente intendiamo che i Pii, i Fanti, Pichi, ed altri de' figliuoli di Manfredi erano di schiatta modenese. Circa questi tempi Guglielmo II re di Sicilia [Anonym., Hist. Hierosolymit.] spedì un'armata di cinquanta galee in soccorso dei cristiani d'Oriente, sommamente afflitti dalle forze di Saladino [870] sultano d'Egitto. L'arrivo d'essa a Tiro con genti e vettovaglie fu la salute d'Antiochia e di Tripoli.


   
Anno di Cristo MCLXXIX. Indizione XI.
Alessandro III papa 21.
Federigo I re 28, imper. 25.

Per saldare affatto le piaghe lasciate dal lungo scisma nella Chiesa di Dio, lo zelantissimo papa Alessandro avea intimato un concilio generale nell'anno presente (e non già nel 1180, come alcuno ha creduto) sul principio di marzo nella basilica lateranense [Labbe, Concilior., tom. 10. Baron., in Annal. Eccl. Pagius, in Crit. ad Annal. Baron.], coll'intervento di più di trecento arcivescovi e vescovi, e di una sterminata moltitudine d'altri ecclesiastici e laici. Vi furono fatti ventisette canoni, ne' quali fu riformata la disciplina ecclesiastica; provveduto alla simonia; scomunicati gli eretici albigensi (ancor questi erano manichei), che si andavano sempre più dilatando in Tolosa e ne' suoi contorni; e dato buon sesto a molte chiese che aveano patito non poco durante lo scisma. Al medesimo concilio, secondochè scrisse Roberto dal Monte [Robert. de Monte, in Chron.], intervenne ancora Burgundio pisano, uomo in questi tempi dottissimo non meno nella latina che nella greca lingua. Delle di lui fatiche letterarie accuratamente ha parlato il celebre padre don Guido Grandi abbate camaldolese, e pubblico lettore di Pisa. Due diete in questo anno tenne l'imperador Federigo in Germania, l'una in Wormazia, l'altra in Maddeburgo; e cercando pur le vie di sfogar la sua vendetta contra di Arrigo il Leone duca di Sassonia e di Baviera, invitò quanti principi potè a muovere delle querele, e fino accuse di tradimento dell'imperio contro di lui. Perlochè il citò a rispondere in giudizio [Arnold. Lubec., in Chron. Slav., cap. 24 aut 29.]. Il duca, poco fidandosi de' consiglieri e giudici dell'imperadore, [871] non volle comparire. Ottenne da Federigo un'udienza privata, e si studiò di placarlo nella miglior maniera che potè. Gli disse Federigo che il consigliava di pagare cinque mila marche alla sua camera; che in questa maniera il farebbe rientrare nella grazia de' principi. Parve dura al duca una tal dimanda, e senza volerne far altro, se n'andò. Gli costò ben caro il non essersi appigliato a questo consiglio. Tornò l'arcivescovo di Colonia a portar la guerra ne' di lui Stati; e il duca sopportò con pazienza anche questo nuovo insulto senza fargli resistenza. Sono parole di Gotifredo monaco di san Pantaleone a questo anno: Christianus moguntinus episcopus capitur a Marvio Ferrei Montis [Godefr. Monach., in Chron.]. Scorretta è la parola Marvio, e facilmente s'intende che lo storico avrà scritto Marchione. Ma in che luogo e perchè questo arcivescovo fosse preso dal marchese di Monferrato, questo restò nella penna dello scrittore. Roberto dal Monte ne parla fuor di sito, cioè all'anno 1180, se pur egli non usò l'era pisana. Abbiam veduto all'anno precedente che questo guerriero arcivescovo per guadagnarsi l'affetto del papa, contra di cui avea tanto operato in addietro, fece guerra alla nobiltà di Viterbo, che non volea sottomettersi al dominio temporale del papa. Erano sostenuti que' nobili da Corrado figliuolo del marchese di Monferrato, e in lor soccorso venne ancora l'oste de' Romani. Seguitando quella rissa, l'arcivescovo di Magonza dovette restar prigione del suddetto Corrado. Ma per buona ventura Buoncompagno, storico di questi tempi, qui ci somministra lume, con dire [Buoncompagn., de obsidione Ancon., cap. 25, tom. 6 Rer. Ital.] che Conradus Marchio Montisferrati cum praefato cancellario (cioè col suddetto Cristiano arcivescovo) commisit praetium juxta Camerinum, in quo eum super quadam rupe prope arcem, quae dicitur Pioragum, cepit, ipsumque apud Aquampendentem detinuit [872] non modico tempore catenis ferreis religatum. Exivit demum de carcere, et quum consuetam duceret vitam, mors eum Tusculani conclusit. Et tunc illum poenituit de commissis, quum non potuit amplius lascivire. Parleremo a suo tempo della morte di questo scandaloso prelato.

Ma giacchè s'è fatta menzione di un figliuolo del marchese di Monferrato, esige quella nobilissima casa italiana che io qui accenni alcune illustri sue parentele, per le quali si rendè essa tanto celebre non meno in Occidente che in Oriente. Il marchese di Monferrato, di cui s'è più volte udito il nome di sopra, aderente costantissimo di Federigo Augusto, era Guglielmo, principe di gran senno e valore. Questi, per attestato di Sicardo [Sicard., Chron., tom. 7 Rer. Ital.], fu stretto parente d'esso Federigo, perchè ebbe per moglie Giuditta sorella di Corrado III re di Germania e d'Italia, che gli procreò cinque figliuoli maschi, cioè Guglielmo, Corrado, Bonifazio, Federigo e Rinieri. Avvenne, che ito in Terra santa Guglielmo il primogenito, soprannominato Longaspada, Baldovino il Lebbroso re di Gerusalemme, innamorato della di lui gagliardia, bravura ed avvenenza, doti unite ad una grande nobiltà, gli diede per moglie Sibiglia sua sorella, e la contea di Joppe in dote. Da Bernardo Tesoriere [Bernard. Thesaurar., de acquisit. Terr. sanct., cap. 138.] egli vien chiamato Bonefacii illustris marchionis Montisferrati filius, ma con errore. Sicardo ne sapea più di lui. Morì Sibiglia poco più di un anno dipoi, con avergli generato un figliuolo, a cui fu posto il nome di Baldovino. Questi, dopo la morte di esso re Baldovino suo zio materno, fu dichiarato re di Gerusalemme, ma mancò di vita in tenera età. Anche Manuello Comneno imperador di Costantinopoli, pel gran credito in cui era in questi tempi la casa di Monferrato, fece sapere al marchese Guglielmo seniore, che gli mandasse uno de' suoi figliuoli, perchè desiderava di dargli una sua [873] figliuola, cioè cira Maria, ossia donna Maria, per moglie, cioè quella stessa che fu promessa dianzi a Guglielmo II re di Sicilia, ma che egli non potè poi avere, e neppur potè ottenere l'Augusto Federigo per Arrigo suo primogenito. In que' tempi due figliuoli d'esso Guglielmo marchese, cioè Corrado e Bonifacio, erano ammogliati. Federigo vestiva l'abito clericale, e poi fu creato vescovo d'Alba. Colà dunque mandò Guglielmo il minore de' suoi figliuoli, cioè Rinieri, giovane di bellissimo aspetto, a cui l'Augusto greco diede la destinata moglie, e per dote la corona del regno di Tessalonica, ossia di Salonichi, porzione la più nobile di quell'imperio dopo Costantinopoli, perciocchè l'altiera figliuola, per testimonianza di Roberto dal Monte [Robert. de Monte, in Chron.], protestò di non voler marito che non fosse re. Furono celebrate quelle nozze con gran solennità, per attestato di Guglielmo Tirio [Guillelm. Tyrius, lib. 22, cap. 4.]. Benchè Roberto ne parli all'anno 1180, si scorge nondimeno appartenere questo fatto all'anno presente, perchè succeduto nell'anno del concilio III lateranense. Benvenuto da san Giorgio scrive [Benvenuto da S. Giorgio, Storia del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.] che Giordana, sorella del suddetto Rinieri, fu data in moglie ad Alessio imperadore, figliuolo del suddetto Manuello Comneno imperadore. Ma è contraria alla storia una tal notizia, perchè Alessio in età di tredici anni, e in questo medesimo anno, prese unicamente per moglie Agnese figliuola di Lodovico VII re di Francia, la quale sopravvisse al marito. Del resto le prodezze de' principi della casa di Monferrato in Levante tali furono, che il nome loro con gloria penetrò dappertutto. Nel dì 13 d'aprile dell'anno 1178, secondochè scrive il Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], terminò i suoi giorni Sebastiano Ziani degnissimo doge di Venezia, ed ebbe per successore Aureo, ossia Orio Mastropetro, eletto dai [874] voti concordi del popolo. Ma seguitando a dire il Dandolo che eodem anno Alexander papa lateranense congregavit concilium, ed essendo certo che tenuto fu in quest'anno esso concilio, può nascere sospetto che al presente, e non al precedente anno appartenga la morte dell'un doge e la creazione dell'altro. Se si ha a credere alle storie di Bologna [Cronica di Bologna, tom. 18 Rer. Ital.], la città d'Imola in quest'anno fu presa dai Bolognesi, che ne spianarono le fosse, e ne condussero in trionfo le porte a Bologna. Ma ciò non s'accorda nel tempo con altre storie.


   
Anno di Cristo MCLXXX. Indizione XIII.
Alessandro III papa 22.
Federigo I re 29, imperad. 26.

Peggioravano sempre più gli affari de' cristiani in Oriente per la gran potenza e valore di Saladino sultano dell'Egitto: e però in quest'anno papa Alessandro III scrisse lettere compassionevoli ai re di Francia e d'Inghilterra, e a tutti gli altri principi e vescovi della cristianità per muoverli a recar soccorso a quel regno, maggiormente ancora posto in pericolo per l'infermità della lebbra del valoroso re Baldovino. Rapporta queste lettere il cardinal Baronio [Baron., in Annalib. ad hunc annum.]. Mancò di vita in quest'anno Lodovico VII re di Francia, a cui succedette Filippo Augusto. Questo novello re, e parimente Arrigo II re d'Inghilterra, mossi dalle esortazioni del santo padre, s'impegnarono di somministrar de' gagliardi soccorsi a così pio bisogno. L'anno fu questo, in cui la linea germanica degli Estensi da un altissimo stato fu precipitata al basso dall'ira di Federigo imperadore. Uno de' principi più gloriosi dell'Europa era Arrigo il Leone per le tante imprese da lui fatte, che si possono leggere nella Cronica slavica di Elmoldo e di Arnoldo abbate di Lubecca. Tale era la sua potenza, che dopo i re non v'era principe che l'uguagliasse, [875] perchè possessore dei ducati della Sassonia e Baviera, più vasti allora che oggidì, e di Brunswich e Luneburgo, e d'altri paesi che io tralascio. Ma egli incorse nella disgrazia di Federigo, perchè non volle aiutarlo a mettere in catene l'Italia, e a sostenere lo scandalo degli antipapi: il che fu bensì la salute dell'Italia e della Chiesa, ma egli ne pagò il fio, perchè cadde sopra di lui tutta la rovina che era destinata per gl'Italiani. Arnoldo da Lubecca [Arn. Lubec., Chron., lib. 2, cap. 15 aut. 20.], Ottone da San Biagio [Otto de S. Blasio, in Chron.], Corrado abbate Urspergense [Abbas Urspergens., in Chron.] ed altri raccontano i motivi dello sdegno di Federigo, con qualche diversità bensì, ma nella sostanza convengono che Federigo nell'anno 1175, abbisognando di grossi soccorsi della Germania per vincere pure l'izza sua contra de' Lombardi, fece venire a Chiavenna il duca Arrigo suo cugino, cioè il solo che in questi tempi, non meno per la sua riputazione in fatti di guerra, che per la gran potenza e per le molte ricchezze, potea raddrizzare la sua declinante fortuna. Venne il duca; adoperò Federigo quante persuasioni potè per tirarlo in Italia. Si scusò Arrigo per essere vecchio e consumato dalle fatiche; esibì genti e danaro, ma per la sua persona stette fermo in dire che non potea servirlo. Allora Federigo (tanto gli premeva questo affare), con inginocchiarsegli a' piedi, si figurò di poter espugnare la di lui ripugnanza. Sorpreso e confuso da atto tale il duca, l'alzò tosto di terra, ma neppure per questo s'arrendè ai voleri di lui. Ecco il reato del duca Arrigo, di cui finalmente giunse a Federigo il tempo di farne vendetta.

Gli appose che passasse intelligenza fra esso duca e il papa e i Lombardi, nemici dell'imperio. Mi maraviglio io che non saltasse fuori ancora, esser egli stato guadagnato dall'imperador di Costantinopoli, perchè essendo ito il medesimo duca Arrigo nell'anno 1172, oppure 1173, [876] per sua divozione al santo Sepolcro, ricevette immensi onori dappertutto dove passò, ma specialmente alla corte del greco Augusto. In somma citato più volte, senza ch'egli volesse comparire alla dieta tenuta in Geylinhusen da Federigo verso la metà di quaresima [Godefridus Monachus, in Chron. Chron. Reichersperg.], fu posto al bando dell'imperio, e dichiarato decaduto da tutti i suoi Stati. Diede incontanente l'imperadore il ducato di Baviera ad Ottone conte palatino di Witelspach, da cui discende la nobilissima casa del regnante duca ed elettore di Baviera, oggidì imperador de' Romani. Investì del ducato della Sassonia Bernardo conte di Anhalt, e della Westfalia ed Angria Filippo arcivescovo di Colonia. Si difese poi per quanto potè generosamente il duca Arrigo, ma furono tanti e sì poderosi i suoi nemici, e massimamente dacchè lo stesso Federigo congiunse con loro l'armi sue, che restò interamente spogliato di que' ducati, senza che nè il re d'Inghilterra suocero suo, nè alcun altro principe movessero una mano per aiutarlo. Tuttavia rimasero a lui gli Stati di Brunswich e Luneburgo, oggidì pur anche posseduti da' suoi nobilissimi discendenti, che a' dì nostri seggono ancora sul trono della gran Bretagna. Diede fine alla sua vita nel settembre di quest'anno Manuello Comneno, glorioso imperador de' Greci, ed ebbe per successore Alessio suo figliuolo, principe infelice, perchè nell'anno 1183 da Andronico tiranno fu barbaramente levato dal mondo. Per la morte di Manuello, scrive il Continuatore di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6 Rer. Ital.], Christianitas universa ruinam maximam et detrimentum incurrit. Cominciarono inoltre ad andare di male in peggio gli affari temporali dell'imperio orientale per le iniquità, per le dissensioni e per la debolezza de' successori Augusti. Già dicemmo creato antipapa un certo Landone col nome d'Innocenzo III, [877] dappoichè l'altro antipapa Callisto, ossia Giovanni abbate di Struma, pentito, era ricorso alla misericordia di papa Alessandro III. Abbiamo dall'Anonimo Casinense [Anonymus Casinens., in Chron., tom. 5 Rer. Ital.] che costui nell'anno presente apud Palumbariam cum sociis captus, ad Cavas est in exsilium deportatus. Altrettanto s'ha da Giovanni da Ceccano, che scrive [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.]: Lando Sitinus falso papa dictus, captus ab Alexandro papa, et illaqueatus est, et apud Caveam cum complicibus suis in exsilium ductus est. E nella Cronica Acquicintina si legge [Chron. Acquicinctinum.] che Alessandro papa comperò dal fratello dell'antipapa Ottaviano la Palombara, dove dimorava Landone, e l'ebbe in questa maniera nelle mani: con che cessarono una volta tutte le reliquie dello scisma. Scrive ancora il suddetto Giovanni da Ceccano, che, traboccato dagli argini il fiume Tevere, inondò non poca parte di Roma: dal che nacque una fiera epidemia che infestò gravemente quella gran città, ed insieme Terra di Lavoro. Roberto dal Monte scrive anch'egli un'importante particolarità sotto il presente anno [Robert. de Monte, in Chron.], ma che, per mio avviso, appartiene al precedente: cioè che il re di Marocco potentissimo principe, perchè signoreggiava tutta la costa dell'Africa sul Mediterraneo, e a lui ubbidivano anche i Saraceni di Spagna, mandava a marito ad un altro re saraceno una sua figliuola. S'incontrarono le navi che la conducevano nella flotta di Guglielmo II re di Sicilia, che, fatta prigione questa principessa, la condusse a Palermo. Una sì riguardevol preda servì per ristabilir la pace fra quei due potentati. Guglielmo restituì al re padre la figliuola; e il re di Marocco a quel di Sicilia le due città di Africa, ossia Mahadia e Siviglia, situate in Africa. Nulla di questo s'ha dalle vecchie storie di Sicilia. Abbiamo bensì dall'Anonimo Casinense [878] che nel seguente anno 1181 Dominus noster rex fecit treguam apud Panormum cum rege Maxamutorum usque ad decem annos, mense augusti.


   
Anno di Cristo MCLXXXI. Indizione XIV.
Lucio III papa 1.
Federigo I re 30, imper. 27.

Fu chiamato da Dio in quest'anno a miglior vita papa Alessandro III. Accadde la morte sua in Città Castellana nel dì 30 d'agosto, secondo i conti del padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron. ad hunc annum.]. In lui mancò uno de' più insigni successori di san Pietro: tanta era la sua letteratura, tale la sua moderazione e saviezza, per cui gloriosamente si governò in tempi sommamente torbidi, e in fine felicemente arrivò a restituire il sereno alla Chiesa di Dio. Appena gli fu data sepoltura, che raunati i vescovi e cardinali, con voti unanimi concorsero nella persona di Ubaldo vescovo d'Ostia e di Velletri, di nazione Lucchese, personaggio di singolare sperienza e prudenza, perchè adoperato in addietro in tutti i più scabrosi affari della Chiesa romana. Egli, eletto che fu papa, prese il nome di Lucio III, e venne poi coronato nella domenica prima di settembre in Velletri. Abbiamo da Tolomeo da Lucca [Ptolom. Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Italic.] sotto questo medesimo anno ch'esso pontefice concessit Lucensibus monetam cudendam, quam civitatem summe commendans, omnibus civitatibus Tusciae, Marchiae, Campaniae, Romagnolae, et Apuliae in moneta praeponit. Ma convien spiegar questa concessione. Noi sappiam di certo, e se ne possono veder le pruove nelle mie Antichità italiane, che Lucca fin dai tempi dei re longobardi godeva il privilegio della zecca, ossia di battere, come diciamo, moneta. Nè altra città in Toscana che Lucca si sa che avesse allora un tal diritto continuato poscia in essa sotto gli Augusti franchi e tedeschi. E questo [879] diritto nelle città del regno d'Italia si otteneva dai soli re od imperadori. Però verisimile a me sembra che la concession di papa Lucio si restrignesse al volere che la moneta lucchese avesse corso negli Stati della Chiesa romana. Aggiugne lo stesso Tolomeo che in quest'anno seguì pace fra i Lucchesi e Pisani, avendo giurato questi di tenere i Lucchesi per cittadini di Pisa, con dar loro la facoltà di mercantare in Pisa al pari degli stessi Pisani. Fin qui era stato detenuto prigione in Acquapendente Cristiano arcivescovo di Magonza da Corrado marchese di Monferrato, senza che s'intenda come esso Corrado figliuolo di Guglielmo marchese, cioè di un principe sì strettamente unito con Federigo Augusto, trattasse così male un arcivescovo primo ministro d'esso imperadore, e che in questi tempi guerreggiava in favore della Chiesa romana. Il sospettare che Federigo, al vederlo divenuto sì parziale del papa, non avesse dispiacere ch'egli fosse maltrattato, potrebbe parere un pensier troppo malizioso. Ora noi abbiamo da Gotifredo monaco [Godefridus Monachus, in Chron.] che Cristiano nell'anno presente riacquistò la libertà, dato non modico argento. Scrive Roberto dal Monte [Robertus de Monte, in Chron.], per relazione d'alcuni, che in quest'anno, oppure nel seguente, Giovanna figliuola d'Arrigo II re d'Inghilterra, e moglie di Guglielmo II re di Sicilia, gli partorì un figliuolo, a cui fu posto il nome di Boamondo; ed appena battezzato, fu dichiarato dal padre duca di Puglia. Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.] lasciò scritto all'incontro, che Dio conclusit uterum consortis illius, ut non pareret, vel conciperet filium. Nè di questo figliuolo ebbero notizia altre istorie de' Siciliani. Però se altronde non viene miglior lume, convien per ora sospenderne la credenza. Negli Annali di Genova [Caffari, Annal. Genuens., lib. 3.] è scritto che il re di Sicilia Guglielmo [880] inviò un potente stuolo di galee e di uscieri (navi da trasporto) sotto il comando di Gualtieri da Moach suo ammiraglio, con disegno di portar la guerra contro l'isola di Minorica. Svernò questa flotta in Vado, nè apparisce che facesse altra impresa.


   
Anno di Cristo MCLXXXII. Indiz. XV.
Lucio III papa 2.
Federigo I re 31, imper. 28.

Seguitò ancora in quest'anno papa Lucio a far la sua residenza in Velletri: segno che dopo la morte di Alessandro III s'era di nuovo sconcertata l'armonia fra lui e il senato romano: ed egli, ad imitazione dei suoi predecessori, perchè non si trovava nè quieto nè sicuro fra i Romani, meglio amava di starsene in quella città. Nella Cronica di Fossanuova [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.] si legge, che essendo morto Landolfo conte di Ceccano, i suoi figliuoli Castrum reddiderunt papae Lucio. Abbiamo ancora dall'Anonimo Casinense [Anonymus Casinens., in Chron., tom. 5 Rer. Italic.] che per tre giorni fra l'ottava della Epifania spirò un vento sì impetuoso per tutta l'Italia, che uccise molti uomini ed animali, e fece seccar gli alberi. Erano in oltre cinque anni che infieriva la carestia per tutte le contrade dell'Italia, di maniera che in alcune parti neppure con un'oncia d'oro si potea trovare una salma, ossia somma di grano: il perchè assaissimi contadini perirono, null'altro avendo essi da cibarsi che erbe. Di questi guai fa anche menzione Gaufredo priore del monistero vosiense, con inscrivere [Gaufrid. Vosiens., in Chron. apud Labb.]: Romae mortalitas populum multum prostravit. Petrus legatus (arcivescovo bituriciense) kalendis augusti apud Ostiam, praesente papa Lucio, decessit. In Germania Arrigo il Leone estense-guelfo, spogliato dei ducati di Sassonia e [881] Baviera [Robertus de Monte, in Chron. Godefridus Monachus, in Chron. Arnoldus Lubecensis, in Chron.], non potendo resistere alle forze di tanti nemici, e dello stesso imperadore, passò in Normandia colla moglie Matilda e co' figliuoli, a vivere presso il re Arrigo d'Inghilterra suocero suo, con isperanza di ricuperar gli Stati coll'appoggio d'esso re. Ma più non venne questo favorevol vento. Secondo i conti di Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.], in quest'anno terminò il corso di sua vita Gherardo arcivescovo di Ravenna, perchè si truova in uno strumento nominato Cappella domni Gerardi archiepiscopi bonae recordationis. Ma questa formola fu anche usata altre volte per le persone viventi; e trovandosi anche da lì innanzi un Gherardo arcivescovo di quella città, verisimile a me sembra che lo stesso arcivescovo, e non già un altro dello stesso nome, continuasse a vivere. Siccome ho io provato nelle Antichità Estensi [Antichità Estensi, P. I, cap. 35.], la linea italiana de' marchesi estensi, per essere stata finora diramata in varii personaggi, ciascuno dei quali godeva la sua parte di Stati e di beni allodiali, per qualche tempo cessò di far figura nella Storia d'Italia. Ma ridottasi finalmente ne' marchesi Alberto ed Obizzo, e in Bonifazio loro nipote, cominciò di nuovo a risplendere come prima. Impariamo dalle Storie di Padova [Catalogus Potestatum Patav. post Rolandin.] che nell'anno 1177, e nel seguente, esso Marchese Obizzo governò la nobilissima città di Padova, eletto e confermato per suo podestà da quel popolo libero. Ed, insorta in quest'anno lite fra essi marchesi e il popolo d'Este, si vede lettera dell'imperador Federigo data in Magonza nel dì 28 d'aprile, con cui conferma la sentenza proferita in favore de' marchesi contra di quel popolo, che avea appellato al tribunale cesareo.

[882]


   
Anno di Cristo MCLXXXIII. Indizione I.
Lucio III papa 3.
Federigo I re 32, imper. 29.

Celebre è nella storia d'Italia l'anno presente per la pace finalmente conchiusa fra l'imperador Federigo e le città collegate della Lombardia, Marca e Romagna. Già erano vicini a spirare i sei anni della tregua conchiusa nell'anno 1177 in Venezia. E perciocchè premeva forte al giovane re Arrigo, figliuolo di Federigo, di assicurarsi il regno d'Italia, si crede ch'egli promovesse il trattato della concordia. Ben verisimile nondimeno è che anche i Lombardi ne facessero destramente muover parola alla corte. Trovavasi allora Federigo nella città di Costanza, e, dato orecchio a chi gliene parlava, deputò Guglielmo vescovo d'Asti, il marchese Arrigo soprannominato il Guercio, frate Teoderico e Ridolfo camerlengo, che ne trattassero, dando loro l'opportuna plenipotenza. Ma il popolo di Tortona, senza voler aspettar gli altri della lega, nel dì 4 di febbraio del presente anno fece la pace coll'imperadore, come costa dai documenti da me prodotti nelle Antichità italiane [Antiquit. Ital., Dissert. XLVIII.]. Fu dunque intimato il congresso della lega coi deputati cesarei nella città di Piacenza, e in questo, che tenuto fu nel dì 30 aprile, si abbozzò la desiderata concordia. Gli atti preliminari tutti, per quanto ho io potuto, raccolti da varii archivii, si leggono nelle suddette Antichità. Finalmente si conchiuse l'accordo; e portatisi i deputati delle città a Costanza, quivi nel dì 25 di giugno l'Augusto Federigo col re Arrigo suo figliuolo diede la pace all'Italia, confermandola con un suo famoso diploma, che abbiamo ne' testi civili de Pace Constantiae, ma scorretto non poco. Mi son io studiato di levarne gli errori col confronto de' manuscritti. Le città che erano prima contra l'imperadore son queste: Milano, Brescia, [883] Piacenza, Bergamo, Verona, Vicenza, Padova, Trivigi, Mantova, Faenza, Bologna, Modena, Reggio, Parma, Lodi, Novara, Vercelli, ed Obbizzo marchese Malaspina. Le città che tenevano la parte dell'imperadore, ivi enunziate, sono Pavia, Cremona, Como, Tortona, Asti, Alba, Genova e Cesarea. Sotto quest'ultimo nome venne la città d'Alessandria, la quale, siccome da questi atti apparisce, staccatasi nel precedente marzo dalla lega, al pari di Tortona, avea fatta una pace particolare coll'imperadore, ma con obbligazione di deporre il nome primiero, odiato da Federigo, e di chiamarsi Cesarea. Il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 15.] e il Ghilino [Ghilin., Annal. Alexandrin.] rapportano il diploma e le condizioni della pace degli Alessandrini. Ma se non prima, dappoichè cessò di vivere esso Federigo, quella città ripigliò il nome d'Alessandria, che dura tuttavia. Ne' preliminari si truova fra i principi della parte dell'imperadore comes de Savolia: il che fa conoscere che l'oggidì real casa di Savoia si era molto prima amicata coll'Augusto Federigo. Non furono ammesse a questa pace, probabilmente perchè non inviarono i loro agenti, Imola, il castello di San Cassiano, Bobbio, la Pieve di Gravedena, Feltre, Belluno, Ceneda e Ferrara, alle quali fu riserbata la grazia dell'imperadore, se nel termine di due mesi si accordassero coi Lombardi, oppure coll'imperadore. Ancorchè Venezia fosse dianzi nella lega, pure d'essa non si vede menoma menzione in questi trattati, perchè non era città del regno d'Italia. Non mi fermerò io a specificare i capitoli della pace suddetta, perchè son fra le mani di tutti i letterati. Basterà solamente accennare che le città suddette restarono in possesso della libertà e delle regalie e consuetudini, ossia dei diritti che da gran tempo godevano, con riservare agl'imperadori l'alto dominio, le appellazioni e qualche altro diritto. Che le appellazioni della marca di Verona fossero concedute [884] ad Obizzo marchese d'Este, e ad Azzo VI suo figliuolo, lo vedremo fra poco.

Incredibil fu l'allegrezza di tutta la Lombardia per questa pace, mediante la quale si stabilì coll'approvazione imperiale la forma di repubblica in tante città con governo sì diverso da quello de' precedenti secoli. I Piacentini in loro parte pagarono dieci mila lire imperiali all'imperadore, e mille a' suoi legati [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Verisimilmente sudarono anche le borse dell'altre città. Duravano intanto le controversie fra papa Lucio e i Romani, i quali, non deponendo la memoria dei danni patiti nella guerra contra di Tuscolo, ossia Tuscolano, in quest'anno, conceputa speranza d'impadronirsene, coll'oste loro andarono all'assedio di quella città [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae. Godefridus Monach., in Chron. Anonym. Casinens., in Chron.]. Ma inutile riuscì lo sforzo loro. Trovavasi forse non lungi da quelle parti Cristiano arcivescovo di Magonza, ed avvisato dal pontefice di questo insulto fatto ad una sua terra dai Romani, vi accorse tosto con un'armata di Tedeschi. Non aspettarono già i Romani l'arrivo di lui, e bravamente si ritirarono; ma Cristiano cominciò a devastare il lor territorio, ed era per far peggio, se colpito da una malattia in Tuscolo non fosse passato al tribunale di Dio a rendere conto della sua vita troppo aliena dal sacro suo carattere. Secondo il solito, in casi tali, corse qualche voce che i Romani l'avessero aiutato a far questo viaggio. Certo è che egli si meritò da Roberto dal Monte il seguente elogio [Robert. de Monte, in Chron.]: Anno 1182 (dee essere 1183) Christianus moguntiensis archiepiscopus obiit, qui se non habebat secundum morem clericorum, sed more tyranni, exercitus ducendo, et Brebansones (cioè i soldati borgognoni). Multa mala fecit (prima dell'anno 1177) Ecclesiae romanae, et hominibus sancti Petri, et quibusdam [885] civitatibus Longobardiae, quae erant contrariae Imperatori Alemanniae domino suo. L'Anonimo Casinense scrive che in quest'anno Guglielmo II re di Sicilia nel dì 26 di gennaio venne a Monte Casino, e nel dì seguente a Capoa. Intanto papa Lucio continuava il suo soggiorno in Velletri, e, quivi stando, eresse, non già nell'anno 1182, ma nel presente, in arcivescovato il regal monistero di Monreale in Sicilia [Bullar. Casin., tom. 2, Constit. CXCV.], nonis februarii, Indictione I, Incarnationis dominicae anno MCLXXXII. L'indizione prima indica l'anno presente, e quello dee essere anno fiorentino.


   
Anno di Cristo MCLXXXIV. Indizione II.
Lucio III papa 4.
Federigo I re 33, imper. 30.

Per testimonianza di Arnoldo da Lubeca [Arnold. Lubec., Chron., lib. 3, cap. 9.], e di Gotifredo monaco [Godefridus Monachus, in Chron.], nella Pentecoste di quest'anno tenne l'imperador Federigo in Magonza una delle più superbe e magnifiche corti bandite, che da gran tempo si fossero vedute, perchè v'intervenne, non solamente dalla Germania ed Italia, ma anche da altri regni gran copia di principi ecclesiastici e laici, e infinita moltitudine di persone. Il motivo fu quello di crear cavaliere il giovane re Arrigo suo figliuolo. Ma perchè non era capace la città di quella immensa foresteria, in una vasta pianura contigua d'ordine di Federigo fu fabbricato un vasto palagio di legno, con un'alta cappella, dove si fece la solenne funzione, e sotto i padiglioni alloggiò quella gran frotta di nobili. Ma in uno de' seguenti giorni insorto un fiero temporale, gittò a terra quel grande edificio, e sotto vi restarono morte quindici o venti persone: il che fu creduto un presagio di calamità, che pur troppo vennero. Poscia nel mese d'agosto l'Augusto Federigo calò in Italia per visitar le città già rimesse [886] in sua grazia. Abbiamo dalla Cronica di Piacenza ch'egli primo pacifice intravit Mediolanum, deinde Papiam, postea Cremonam, deinde Veronam ad loquendum cum papa Lucio, qui successerat Alexandro. Postea ivit ad alias civitates, videlicet Paduam, Vicentiam, Bergomum, Laudem et Placentiam [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Con sommo onore fu accolto dappertutto, e si dee anche credere con gravissime spese e regali a lui fatti da que' popoli. Abbiamo da questo scrittore e da altri, che s'abboccarono insieme nell'anno presente il pontefice e l'imperadore in Verona [Rodulph. de Diceto, Imag. Histor. ad hunc annum. Sigonius, Rubeus, Panvinius, etc.], e non già nel seguente anno, come pare che per errore si legga nella Cronica di Arnoldo da Lubeca, seguitato in ciò dal cardinal Baronio. Sicardo sembra d'accordo con Arnoldo, e Gotifredo monaco chiaramente scrive che quel congresso seguì nel 1185. Ma certo è che fu nel presente. Convien ora spiegare la cagion di questo abboccamento fra i due primi luminari nel mondo cristiano. Più che mai si scoprivano i Romani inviperiti contro la vicina città di Tuscolo, e siccome essi non si prendevano gran suggezione di papa Lucio, così, per attestato di Giovanni da Ceccano [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.] nel mese d'aprile, ripigliate le ostilità, si portarono a dare il guasto a tutto il territorio di quella terra. E, dopo aver anche donato alle fiamme Palliano, Ferrone ed altri luoghi, se ne tornarono a casa. La Cronica Acquicintina [Chron. Acquicinctinum.] e il Nangio [Guillelm. Nang., in Chron.], oltre a questo, raccontano che i Romani, avendo presi alcuni cherici aderenti al papa, cavarono loro gli occhi, a riserva d'uno, acciocchè fosse condottiere degli altri; e messe loro in capo delle mitre per ischerno, gli obbligarono con giuramento a presentarsi davanti al pontefice in quella guisa. Anche frate Francesco Pipino [Franciscus Pipin., Chron., tom. 9 Rer. Ital.] scrive nella vita di [887] questo papa: Multi ex suis excaecantur, mitrati super asinos aversis vultibus ponuntur, et, uti juraverunt, se papae taliter repraesentant. A tale spettacolo inorridì e sommamente si afflisse il buon pontefice; nè potendo più reggere a dimorar in quelle vicinanze, prese il partito di venire a trovar l'imperadore, non tanto per implorare il suo aiuto, quanto per trattare di altri assai importanti affari. Tutte le suddette Croniche asseriscono ch'egli venne in quest'anno in Lombardia, ed il suddetto Giovanni da Ceccano, non meno che l'Anonimo Casinense attestano che egli lasciò, o piuttosto poscia mandò il conte Bertoldo, legato dell'imperadore, alla difesa della Campania, il quale con uno stratagemma s'impadronì della rocca di Papa, e fece varie scorrerie nel distretto di Roma.

Ora papa Lucio incamminatosi per la Toscana [Ptolom. Lucensis, in Annalib. brevib., tom. 11 Rer. Italic.], passò per Lucca, e, siccome abbiamo dalle Croniche di Bologna, in quest'anno die octava julii intravit Bononiam, et consecravit ecclesiam sancti Petri majoris [Matth. de Griffon., Memorial. Historic., tom. 18 Rer. Ital.]. Poscia, secondo gli Annali vecchi di Modena [Annal. Veter. Mutinenses, tom. 11 Rer. Italic.], nel dì 12 del medesimo mese di luglio con dieci cardinali e molti arcivescovi e vescovi arrivato a Modena, alle preghiere di Gherardo arcivescovodi Ravenna, di Ardicione vescovo di Modena, de' consoli della città e dei rettori della Lombardia, marca di Verona e Romagnuola, consecrò la cattedrale nel dì seguente, e fece vedere al popolo il sacro corpo di san Geminiano vescovo e protettore d'essa città. Uscendo poi della città nel dì 14 dello stesso mese per la porta di Cittanuova, rivolto ad essa, la benedisse con dire: Benedicta sit haec civitas ab omnipotenti Deo Patre, Filio, et Spiritu Sancto, et a beata Maria semper Virgine, et a beato Petro Apostolo, et a beato Geminiano. Augeat eam Dominus [888] Deus, et crescere et multiplicare eam faciat. Di questa dedicazione si fa tuttavia l'anniversario in Modena. Passò dipoi il pontefice a Verona, dove era concertato il congresso con Federigo imperadore. Ne abbiamo l'attestato da Sicardo vescovo di Cremona, di cui sono le seguenti parole: Anno Domini MCLXXXIV papa Lucius Veronam venit, qui me anno praecedenti subdiaconus ordinaverat, et pro hoc adventu ad imperatorem direxerat [Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.]. Nella Cronica veronese di Parisio da Cereta si legge: Anno MCLXXXIII dominus Lucius papa, et dominus Fredericus imperator ultimo die julii fuerunt Veronam, et hilariter recepti et honorifice pertractati [Parisius de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.]. Ma il testo è fallato, e si dee scrivere anno MCLXXXIV. Aggiugne il medesimo storico che nel principio di gennaio dello stesso anno maxima pars alae arenae Veronae cecidit, terraemotu magno per prius facto, videlicet ala exterior. In Verona tenne il papa un concilio nell'anno presente, piuttosto che nel susseguente, a cui intervenne lo stesso imperadore, e in esso fulminò la condanna e scomunica contra gli eretici catari, paterini, umiliati, poveri di Lione, passagini, giuseppini ed altri, tutti specie di manichei sotto diversi nomi. Scomunicò ancora gli arnaldisti e i Romani disubbidienti e ribelli alla temporale autorità del papa. Quivi parimente si trattò del soccorso di Terra santa, il cui pericolo ogni dì più cresceva per la potenza e per le vittorie di Saladino sultano dell'Egitto. Abbiamo inoltre da Arnoldo da Lubeca [Arnold. Lubecensis, lib. 3, cap. 10.] che si dibatterono poscia in privato varii punti particolari fra il papa e l'imperadore, e massimamente quello del patrimonio della contessa Matilda. Ne era in possesso Federigo, e il papa ne faceva istanza, come di beni donati alla Chiesa romana. Si disputò lungamente, furono prodotti varii strumenti, ma in [889] fine la controversia restò nell'essere di prima. Neppure s'accordarono il papa e l'imperadore nel punto di varii prelati scismatici, o eletti in discordia. Mosse anche Federigo la pretensione che il papa concedesse la corona dell'imperio al re Arrigo suo figliuolo: al che il pontefice non acconsentì, con dire che non era più in uso l'aver due imperadori nello stesso tempo, nè poter egli dar la corona al figliuolo, se prima il padre non la deponeva. In somma, mal soddisfatti l'uno dell'altro, in fine si separarono. Restò papa Lucio in Verona, e Federigo andò a visitar l'altre città di Lombardia. Noi abbiamo una bolla del medesimo papa in favore dell'insigne monistero delle monache di santa Giulia in Brescia, data Veronae XV kalendas septembris, Indictione II, Incarnationis dominicae MCLXXXIV, pontificatus vero domni Lucii papae III anno IV [Bullar. Casinens., tom. 2, Constit. CCII.]. Un'altra sua bolla spedita similmente in essa città X kalendas decembris viene riferita dall'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 in Episcop. Veron.]. Ho io finalmente dato alla luce lo strumento, da cui apparisce che anno dominicae Nativitatis MCLXXXIV, die Veneris, qui est tertiodecimo exeunte mense octobris, Indictione secunda, quum Federicus Romanorum imperator apud Veronam in palatio sancti Zenonis cum maxima curia esset, quivi egli investì marchionem Obizonem de Hest de marchia Genuae, et de marchia Mediolani, et de omni eo, quod marchio Azzo (suo avolo) habuit et tenuit ab imperio [Antichità Estensi, P. I, cap. 6.]. Questo rilevante atto, quantunque fosse solamente a titolo d'onore, perchè già Milano e Genova godevano la lor libertà, nè più erano sottoposte ai marchesi, tuttavia è di singolar gloria per la nobilissima casa d'Este, perchè da esso risulta che i di lei maggiori doveano essere stati marchesi di Milano e di Genova, e Federigo volle conservar loro il titolo, giacchè non poteva il possesso, per [890] le mutazioni delle cose. Altri esempli simili di Stati non più posseduti si truovano in questi tempi, ed anche oggidì si mirano nelle investiture date dagli imperadori a varii principi di Germania, e alla stessa casa d'Este. E da ciò ancora vien confermato l'abboccamento seguito in quest'anno in Verona fra il papa e il medesimo imperadore.


   
Anno di Cristo MCLXXXV. Indizione III.
Urbano III papa 1.
Federigo I re 34, imper. 31.

Continuò papa Lucio il suo soggiorno in Verona, e l'Ughelli rapporta una sua bolla data Veronae idibus junii, Indictione III, Incarnationis dominicae anno MCLXXXV, pontificatus vero domni Lucii III papae anno quarto [Ughell., Ital. Sacr., tom. 5 in Episcop. Veronens.]. Trattenevasi tuttavia in Italia anche l'imperador Federigo, se pure non aveva egli fatta una scappata in Germania. E però il papa dovette persister ivi per continuare i negoziati scabrosi con esso Augusto. Rapporta il Margarino un diploma di esso Federigo, dato apud Veronam V nonas januarii, anno dominicae Incarnationis MCLXXXV [Bullar. Casinens., tom. 2, Constit. CIII.]. Trovossi poi il medesimo Augusto in Reggio III idus februarii, cioè nel dì 11 di febbraio del presente anno, e quivi confermò i privilegii al popolo milanese, con estensione di molte grazie, tutte probabilmente ben pagate. Il Puricelli [Puricell., Monum. Basilic. Ambr.] rapporta l'intero diploma, degno ben di considerazione, perchè in esso restituisce a' Milanesi le antiche loro giurisdizioni dalla parte d'occidente e settentrione, e tutte l'altre dalla parte di levante, con obbligarsi di rimettere in piedi la terra di Crema: il che servì ad alterar sommamente gli animi de' Cremonesi, i quali, dopo tante spese e dopo tanto sangue e fatiche, vedeano sè stessi spogliati delle lor conquiste, e premiato [891] chi sì lungamente avea sostenuta la guerra contra di esso Federigo. All'incontro i Milanesi si obbligano di aiutar l'imperadore, di ritenere e ricuperare tutti i diritti dell'imperio in Italia, e nominatamente i beni della contessa Matilda. Fra i testimoni si veggono nominati, Conradus dux Spoleti, e Conradus marchio anconitanus, cioè che allora governava la marca d'Ancona, benchè non apparisca se la stessa città d'Ancona allora ubbidisse a lui. Un altro diploma d'esso Federigo, spedito in Milano IV nonas maii, in favore del monistero di santo Ambrosio, si legge presso il suddetto Puricelli. Però non dovrebbe sussistere lo scriversi dal Sigonio [Sigonius, de Regno Ital. lib. 15.] che Federigo, partitosi da Reggio, arrivò a Bologna nel dì primo di aprile, e di là passò alla visita delle città della Romagna. Aggiugne il medesimo Sigonio che dalla Romagna andò in Toscana nel mese di luglio, e che tolse a tutte quelle città le regalie, fuorchè a Pisa e a Pistoia, con privarle della libertà, e sottometterle agli uffiziali da lui destinati; e ciò perchè nelle guerre passate aveano tenuto colla Chiesa contra di lui. Prese queste notizie il Sigonio da Giovanni Villani [Villani, Istor. lib. 5, cap. 12.], che le racconta all'anno 1184, anticipando d'un anno il tempo. Concorrono nella stessa narrativa gli Annali antichi di Siena [Annales Senens., tom. 15 Rer. Ital.], con asserire sotto il presente anno l'arrivo in Toscana dell'imperador suddetto. Già cominciavano nelle città a pullulare i semi ascosi delle fazioni guelfa e ghibellina. Teneano i nobili la parte dell'imperadore, per difendere le lor castella e i lor feudi, che dianzi erano esenti dalla giurisdizione delle città. All'incontro il popolo, che volea, non solo godere della libertà, ma rimettere ancora sotto il suo dominio tutti i luoghi che anticamente erano del suo distretto, e forzava i nobili ad ubbidire, ripugnava all'autorità dell'imperadore. Per questa cagione in Faenza [892] s'accese la discordia fra il popolo e i nobili. Inferiori di forze gli ultimi ricorsero a Federigo [Hieronymus Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.], il quale ordinò a Bertoldo suo cancelliere di assediar quella città colle forze della Romagna. Dopo una gagliarda difesa i Faentini in fine furono costretti a sottomettersi alla volontà dell'imperadore.

S'era poi cangiato l'animo de' Cremonesi, sì caldo negli anni addietro in favor d'esso Augusto, dacchè videro che egli avea confermata Crema al popolo di Milano; e non essendo ignota a Federigo questa loro alienazione d'affetto, ne fece vendetta con ordinare che si rifabbricasse quell'abbattuta terra. Così ne scrive Sicardo [Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.]: Anno Domini MCLXXXV, imperator in Italiam rediens, Cremam in odium Cremonensium reaedificavit. Quo anno ego Sicardus, praesentis operis compilator et scriba, Cremonae, licet indigne, electus sum ad episcopale officium. Trattenevasi tuttavia in Verona il buon papa Lucio III, quando Iddio volle chiamarlo a sè. Concordano gli storici in asserire [Martin. Polonus, in Chron. Radulph. de Diceto et alii.] che la sua morte accadde verso il fine di novembre, e data gli fu sepoltura nel dì 25 di quel mese. Era stato eletto in questo medesimo anno arcivescovo di Milano Uberto Crivello chiamato Lamberto con errore da altri. Tale dovea essere il di lui merito, che il collegio de' cardinali appena dopo le esequie del defunto papa Lucio s'accordarono in eleggerlo sommo pontefice. Prese egli il nome di Urbano III, e continuò a governar come arcivescovo la chiesa di Milano per tutto il tempo del suo pontificato, siccome han già concludentemente provato il p. Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] e il signor Sassi [Saxius, in Notis ad Sigon., de Regno Ital., lib. 6.]. Un de' motivi, per li quali l'imperador Federigo andava rondando per l'Italia, quello era eziandio di trattare il matrimonio di Costanza figliuola [893] postuma del fu re Ruggieri avolo di Guglielmo II re di Sicilia, col re Arrigo suo primogenito. Vedeva egli quel re senza successione, e bramoso di unire il fioritissimo regno della Sicilia, che abbracciava ancora la Puglia, la Calabria, Napoli e il principato di Capoa, si diede a far maneggi nella corte di Sicilia per ottenere il suo intento. Vi si trovarono delle difficoltà, ripugnando i consiglieri del re Guglielmo all'unione di quegli Stati coll'imperio, e alla signoria de' Tedeschi, il governo de' quali era assai screditato ne' tempi d'allora. Più ancora par verisimile che segretamente si opponesse il romano pontefice, per non trovarsi un dì fra le forbici e senza l'appoggio dei re di Sicilia, stati in addietro difensori della Chiesa romana. Ma ebbe maniera Federigo di guadagnar il punto. Abbiamo dall'Anonimo Casinense [Anonymus Casinens., in Chron., tom. 5 Rer. Ital.] che in questo anno fu conchiusa la pace fra esso Augusto e il re Guglielmo. Fra i patti di quella pace vi dovette entrare il matrimonio suddetto, di cui parleremo nell'anno prossimo seguente. Abbiamo anche dal suddetto storico, da Niceta Coniate [Niceta Choniates, in Histor.], da Sicardo [Sicard., in Chron.] e dalla Cronica di Fossanuova [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.] che il predetto Guglielmo II re di Sicilia, per vendicarsi dei Greci che l'aveano molto prima beffato nel trattato di matrimonio con una figliuola di Manuello Comneno loro imperadore, e per la loro barbarie contro de' Latini, animato ancora da Alessio Comneno, che era ricorso a lui, spedì nel dì 11 di giugno una potentissima flotta a' danni di Andronico (tiranno allora regnante sul trono di Costantinopoli) sotto il comando del conte Tancredi suo cugino. S'impadronì questa armata nel dì 24 di giugno della città di Durazzo, e nella festa di san Bartolommeo d'agosto, dell'insigne città di Tessalonica, ossia di Salonichi. [894] Conquistò molte altre città, castella e rocche, le quali tutte giurarono fedeltà al re siciliano, le cui genti commisero ogni sorta di crudeltà e sacrilegii in tale occasione. Ucciso in questo mentre Andronico, succedutogli Isacco Angelo nell'imperio, non tardò ad inviare una poderosa flotta per fermar questi progressi; e non finì la faccenda, che ebbero una rotta i Siciliani per terra; e dipoi s'intavolò una pace fra loro, ma con frode, perchè gli uffiziali del re Guglielmo traditi, furono condotti prigioni a Costantinopoli. Li fece ben rilasciare Isacco; ma a buon conto egli ricuperò tutto il perduto, e la flotta siciliana molto confusa se ne tornò a' suoi porti.


   
Anno di Cristo MCLXXXVI. Indizione IV.
Urbano III papa 2.
Federigo I re 35, imper. 32.
Arrigo VI re d'Italia 1.

Continuò anche Urbano III papa la sua dimora in Verona: il che si raccoglie dalle di lui lettere scritte in quella città nel dì 12 di gennaio dell'anno presente, pubblicate dal cardinal Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.], e da due bolle che si leggono nel Bollario casinense [Bullar. Casin., tom. 2, Constit. CCIV et CCV.]. Venne a Milano il re Arrigo primogenito dell'imperador Federigo, e colà parimente fu condotta Costanza zia di Guglielmo II re di Sicilia, che si trovava allora in età d'anni trentuno; nè mai fu monaca, come chiaramente dimostrò il suddetto cardinal Baronio. Per attestato di Gotifredo da Viterbo [Godefridus Viterbiensis, in Chron.], che con questo racconto dà fine alla sua Cronica, furono celebrate le nozze di questi principi presso Milano nel palazzo contiguo alla basilica di santo Ambrosio, con incredibil magnificenza e concorso di nobiltà, e coll'assistenza dell'imperador Federigo nel dì 27 di gennaio. Gotifredo, monaco di san Pantaleone, lasciò scritto che esso Augusto celebrò il santo Natale [895] in Milano, e che in octava Epiphaniae nuptias filii sui opulentissime cum magna poene cunctorum procerum frequentia apud Ticinum agit [Godefridus Monachus S. Pantal., in Annal.]. Ma merita qui più fede il suddetto Gotifredo da Viterbo, perchè italiano, e perchè scrittore di cose da sè vedute, che ciò riferisce avvenuto in Milano. Anche Sicardo contemporaneo [Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.], oltre ad Ottone da san Biagio [Otto de S. Blasio, in Chron.] e a Galvano Fiamma [Gualvanus Flamm., in Manipul. Flor.], asserisce lo stesso. E però molto meno è da ascoltare Arnoldo da Lubeca, dove scrive che la solennità di quelle nozze fu data in confinio Papiensium et Mantuanorum [Arnol. Lubec., lib. 3, cap. 14.]: che è un evidente errore a chiunque sa che Pavia non confina con Mantova. Frate Francesco Pipino dell'ordine dei predicatori aggiugne una particolarità, cioè che l'imperador Federigo nel precedente anno mense julio cum aliquot Theutonicis et Lombardis perrexit Apuliam, accepturus filiam regis Willielmi (dee dire Rogerii) Constantiam nomine, Henrico filio suo in uxorem [Pipinus, Chron., cap. 2, tom. 9 Rer. Ital.]. Però probabile è che Federigo nell'anno addietro dalla Toscana passasse ai confini del regno, detto oggidì di Napoli, per trattar più da vicino della pace e delle nozze di Costanza col re Guglielmo. Soggiugne il Pipino: Pro cujus dote recepit ultra centum quinquaginta somarios, auro, argento, palliis et aliis pretiosis jocalibus onustos. Praefatam igitur Constantiam hyeme sequenti, de mense scilicet februarii (januarii) anno Incarnationis dominicae MCLXXXVI, idem Henricus cum maximis solemnitatibus desponsavit uxorem, et ambos idem imperator coronis regalibus insignivit. Lo stesso vien confermato dalla Cronica di Piacenza, sì per l'andata di Federigo verso la Puglia, come ancora per la dote. Et habuit ex ea plusquam CL equos oneratos auro et argento, et samitorum, et palliorum, et grixiorum, [896] et variorum, et aliarum bonarum rerum [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Attesta anch'egli che Costanza passò per Piacenza, eundo Mediolanum, ubi dicto anno desponsata fuit per dominum Henricum regem, et ipsi jugales ibi coronati fuerunt. Il medesimo abbiam dalla Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.]. E perciocchè i Cremonesi non intervennero a quella suntuosa funzione, l'ebbe sì forte a male Federigo, che, trovati dei pretesti, li mise al bando dell'imperio. Il Sigonio [Sigon., de Regno Ital., lib. 15.], seguitando un po' troppo confidentemente Galvano Fiamma [Gualvanus Flamma, in Manipul. Flor.], scrisse che nell'anno 1184 il re Arrigo ricevette la corona ferrea in santo Ambrosio di Milano. Lo stesso Fiamma altrove, cioè nella Cronica maggiore manoscritta, ci vien dicendo che Arrigo e Costanza fuerunt coronati in sancto Ambrosio et in Modoetia. All'incontro il cardinal Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.] e il Puricelli [Puricell., Monum. Basilic. Ambros., n. 596.] credono seguita cotal coronazione nell'anno 1185. Ma s'imbrogliano poi tali ed altri scrittori in assegnare l'arcivescovo di Milano che gli desse la corona, adducendo alcuni Algisio, altri Uberto, ed altri Milone.

La verità si è, che il re Arrigo e Costanza sua moglie furono coronati in quest'anno correndo il mese di gennaio, come si ricava dai sopra allegati autori. Ascoltisi Rodolfo da Diceto [Radulphus de Diceto, Imag. Histor.]: Inter Henricum, dice egli, regem teutonicum et Constantiam filiam Rogeri siculi regis, amitam vero Guillielmi regis siculi, generi regis Anglorum, matrimonium celebratum est: sexto kalendas februarii viennensis archiepiscopus Fredericum imperatorem romanum Mediolani coronavit: cioè colla corona del regno di Borgogna. Eodem in die aquilejensis patriarcha coronavit (cioè colla corona del regno d'Italia) Henricum regem teutonicum, et ab ea die vocatus est Caesar. Quidam episcopus teutonicus [897] coronavit Constantiam, amitam Willelmi regis siculi (cioè come regina della Germania). Haec acta sunt in monasterio sancti Ambrosii, e non già in Monza. All'arcivescovo di Milano apparteneva il dar la corona ferrea al nuovo re d'Italia. E perciocchè allora papa Urbano III riteneva tuttavia come arcivescovo quella chiesa, nè volle, per dissapori già insorti tra lui e l'imperadore, intervenir a quella funzione, Gotifredo patriarca di Aquileia, uomo arditissimo, e persona assai mondana, senza riguardo al papa si usurpò quel diritto, e conferì al re Arrigo la corona del regno d'Italia. Per questa sua prosunzione fu sì egli, come gli altri vescovi assistenti a quella coronazione, sospeso dai divini uffizii da papa Urbano. Ne abbiamo l'attestato presso l'autor della Cronica acquicintina, che narrando le dissensioni nuovamente nate fra papa Urbano e Federigo Augusto, così ne parla: Praecipue quod patriarcha aquilejensis, et quidam episcopi interfuerunt, absque consensu papae, coronationi Henrici regis die quadam solemni in Italia: quos omnes papa a divino suspendit officio [Chron. Acquicinct. apud Pagium ad hunc annum.]. Ci ha conservati Arnoldo da Lubeca [Arnold. Lubec., Chron., lib. 3, cap. 16.] gli altri capi delle querele di papa Urbano contra di Federigo imperadore. Lamentavasi in primo luogo ch'egli indebitamente occupasse il patrimonio della contessa Matilda, da lei donato alla Chiesa romana. Poscia che l'imperadore, venendo a morte qualche vescovo, entrasse in possesso de' beni di quelle chiese, con fare lo spoglio in danno intollerabile dei vescovi successori. In terzo luogo, che, col pretesto di toglier le badesse scandalose, occupasse le rendite de' monisteri, e non ne sostituisse altre di miglior professione. Eravi anche lite per cagione del nuovo arcivescovo di Treveri, e per le decime possedute od usurpate dai laici. Di più non ne dico per non diffondermi troppo; ma si può ben credere che una delle [898] cose che maggiormente amareggiava l'animo del pontefice e de' cardinali, fossero le nozze di Costanza col re Arrigo, ben conoscendo essi le mire di Federigo sopra un regno spettante alla Chiesa romana, senza averne egli ricercato l'assenso del sommo pontefice, e prevedendo i guai che ne poteano venire, e che vennero in fatti all'Italia per questa alleanza.

Lo sdegno conceputo dall'imperador Federigo contra de' Cremonesi, e maggiormente fomentato dai Milanesi, il condusse quest'anno ai loro danni. Con tutte dunque le forze d'essi Milanesi, de' Piacentini, Bresciani ed altri popoli, ostilmente passò nel territorio di Cremona sul principio di giugno, prese varie terre e castella; e trovato Castel-Manfredo, poco dianzi fabbricato da' Cremonesi, che facea resistenza, ne intraprese l'assedio, e superatolo colla forza, lo distrusse. Fu in tale occasione ch'egli concedette ai Milanesi varie castella poste fra i fiumi Adda ed Oglio, cioè Rivolta, Casirate, Agnanello ed altri. Il diploma di tal concessione, da me dato alla luce, si vede scritto in quest'anno in territorio cremonensi, in destructione castri Meimfredi, quinto idus junii [Antiquit. Italic., Dissert. XLVII.]. Veggendosi perciò a mal partito i Cremonesi, cominciarono a trattar d'accordo, e a questo fine spedirono all'imperadore un personaggio a lui noto, cioè Sicardo loro vescovo, il quale così efficacemente si adoperò, che rimise in grazia di lui il suo popolo. Così ne parla nella sua Cronica lo stesso Sicardo: Anno Domini MCLXXXVI imperator quoddam castrum Cremonensium, quod Manfredi nomine vocabatur, omnino destruxit. Sed auctore Domino per meum ministerium facta est inter imperatorem et cives meos reconciliatio [Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.]. Si truova dipoi Federigo nel dì 22 di giugno in Varese, nobil terra del Milanese, dove concedette un privilegio alla badia del Mezzano, pubblicato dal Campi [Campi, Istor. di Piacenza.]. Dopo queste imprese [899] Federigo se ne tornò in Germania, e fece tosto conoscere il suo mal talento contra di papa Urbano [Arnoldus Lubecensis, lib. 3, cap. 17.] con far serrar tutte le vie dell'Alpi, acciocchè niuno dalla Germania potesse venire in Italia alla santa Sede. Aveva egli anche lasciato al figliuolo Arrigo il governo dell'Italia, e speditolo coll'esercito alla volta di Roma, per maggiormente angustiare il papa, sulla speranza di ridurlo ai suoi voleri. Per quanto vo io conghietturando, andava Arrigo d'accordo col senato romano; laonde portò la guerra unito con essi Romani alle terre che tuttavia si mantenevano sotto l'ubbidienza del romano pontefice. Ed ecco quanto breve durata ebbe la pace di Venezia. Scrive Giovanni da Ceccano [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.] che esso re in quest'anno soggiogò tutta la Campania, cioè quella che apparteneva al romano pontefice, fuorchè la rocca di Fumone; e assediò castello Ferentino per nove giorni. Altri gran danni recò l'armata sua a quelle parti; ed egli restituì Ceperano a Riccardo Reberi. Aggiugne, che i Romani sul principio di dicembre passarono nella stessa Campania, diedero alle fiamme Monte Lungo, e dopo varii saccheggi se ne tornarono a casa. Che il re Arrigo facesse delle altre ostilità in quelle parti, lo raccolgo da uno strumento altrove da me pubblicato [Antiquit. Ital., Dissert. L.]. Abbiamo anche dalla Cronica acquicintina [Chron. Acquicinct. apud Pag.], che incontratosi il re Arrigo in un famiglio del papa che portava a Verona una buona somma di oro e d'argento, gli tolse tutto, e fecegli anche tagliare il naso in disprezzo del papa. Intanto non bastò ai Cremonesi di aver acconciati i loro interessi coll'imperador Federigo; vollero similmente assicurarsi [900] del sole nascente, cioè del medesimo re Arrigo. Speditagli adunque una ambasceria, ottennero anche da lui pace. Lo strumento fu scritto in quest'anno, qui fuit sextus intrante mense julii. Actum sub temptorio regis Henrici feliciter, quando erat in obsidione Urbis Veteris. Fra i testimoni si conta Otto Frangenspanem praefectus Romae. Altri deciderà se qui si parli dell'assedio d'Orvieto, oppure di Civita vecchia. Il Sigonio dice Orvieto, e a lui mi attengo anch'io. Accennai di sopra che le appellazioni della marca di Verona furono appoggiate ad Obizzo marchese d'Este. In confermazione di ciò ho prodotto altrove [Antichità Estensi, P. I.] due sentenze date dal medesimo marchese, l'una in quest'anno die Mercurii, qui fuit quarto idus decembris, dove si truova marchio Opizo, commissis nobis per imperatorem appellationibus totius Paduae, atque ejus districtus, ec.; e l'altra nell'anno seguente 1187, proferita in Este, nella quale si legge: Ego Opizo marchio de Hest, vicarius et nuncius domni imperatoris Federici, ad audiendas causas appellationum Veronae, et ejus districtus, ec. In passando il re Arrigo nel mese di giugno di quest'anno per la Toscana, avea ricevuto in sua grazia i Sanesi, ma con rigorose condizioni, come apparisce dallo strumento da me dato alla luce [Antiquit. Ital., Dissert. L.]. Ma dovette quel popolo ingegnarsi, e verisimilmente con quel segreto che ha tanta forza nel mondo, per ricuperare i perduti diritti; e però sul fine d'ottobre, mentre esso re dimorava in Cesena, VIII kalendas novembris, Indictione V, ottennero da lui un diploma grazioso, che si può leggere nelle mie Antichità italiane [Ibidem.].

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Anno di Cristo MCLXXXVII. Indizione V.
Gregorio VIII papa 1.
Clemente III papa 1.
Federigo I re 36, imper. 33.
Arrigo VI re d'Italia 2.

Fu segnato il presente infelicissimo anno colle lagrime di tutta la cristianità. La santa città di Gerusalemme, che avrebbe dovuto ispirare in tutti i suoi abitanti cristiani la divozione e il timore di Dio, già era divenuta il teatro dell'ambizione, della incontinenza e degli altri vizii che accompagnano il libertinaggio; e questi si miravano baldanzosi fra quella gente. Però Dio volle finirla. Insorsero fra i principi delle dissensioni a cagione del regno; e perchè non si mantenea la fede a Saladino potentissimo sultano di Babilonia e dell'Egitto, nè agli altri vicini [Sicard., Chron., tom. 7 Rer. Italic. Bernard. Thesaurar., Histor., tom. 7 Rer. Ital. Guillelm. Nangius, in Chron. Chron. Acquicinct. apud Pagium. Chron. Reicherspergense.], esso Saladino con ismisurato esercito marciò alla volta della Palestina. Rimasero sconfitti i Cristiani (e fu creduto per tradimento di Rinaldo principe di Montereale, e di Raimondo conte di Tripoli) con istrage di molti, e colla prigionia del re Guido, e di moltissimi altri nobili, fra' quali si abbattè il vecchio Guglielmo marchese del Monferrato, che era andato alla visita de' luoghi santi, ed anche per assistere al picciolo suo nipote. Cotal disgrazia si tirò dietro la perdita di molte città. Dopo di che Saladino condusse l'armata terrestre e marittima sopra l'importante città di Tiro, e ne formò l'assedio. Era perduta quella nobil città, se per avventura Corrado figliuolo del suddetto marchese Guglielmo, venendo da Costantinopoli per andare ai luoghi santi, intesa la perdita di Tiberiade, ossia di Accon, voltata vela, non fosse qualche tempo prima approdato ad essa città di Tiro, dove da quel popolo ricevuto come angelo di Dio, fu eletto per loro signore. [902] Guidò Saladino sotto quella città il vecchio marchese suo prigione, esibendone la libertà a Corrado, se gli rendeva la terra: altrimente minacciandone la morte, se non accettava l'offerta. Nulla si mosse il marchese Corrado; anzi rispose ch'egli sarebbe il primo a saettare il padre, se Saladino l'avesse esposto per impedir la difesa. La costanza di questo principe fece mutar pensiero a Saladino, che niun danno per questo inferì al vecchio marchese. Non amando poi egli di consumare il tempo sotto una città sì dura, con perdere il frutto della vittoria, rivolse l'armata contro le città circonvicine a Gerusalemme; e impadronitosene, obbligò infine alla resa la santa città nel dì 2 di ottobre: colpo che riempiè d'incredibil dolore tutti quanti i fedeli. Tornò poscia il vittorioso Saladino all'assedio di Tiro nel mese di novembre. Avea il valoroso marchese Corrado nei giorni addietro coll'aiuto de' Pisani battuta due volte la flotta nemica, prese ancora alcune lor galee e navi nel porto di Accon, provveduta la città di viveri, e fabbricato un forte barbacane. Caddero, il dì innanzi che arrivasse Saladino, quaranta braccia di questo muro: il che atterrì sommamente il popolo cristiano, ma non già l'intrepido marchese Corrado, che, impiegati uomini e donne, riparò in un dì quel danno. Fatte poi vestire da uomo le donne, e messele sulle mura, inviò i Pisani di nuovo ad Accon, da dove condussero due navi cariche di vettovaglie. E questi medesimi da lì a non molto presero cinque altre galee nemiche piene di gente e di viveri. Per queste perdite arrabbiato Saladino, fece dei mirabili sforzi contra del barbacane, adoperando assalti e quante macchine di guerra erano allora in uso, con gran perdita de' suoi, e lieve degli assediati. E perciocchè ai Pisani venne fatto, inseguendo nove galee della flotta infedele, di pressarle di maniera che i Barbari attaccarono ad esse il fuoco, Saladino, che avea perduta molta gente, trovandosi anche sprovveduto di [903] aiuto per mare, finalmente nell'ultimo giorno di decembre, oppure nel dì primo del seguente gennaio, dopo aver bruciate tutte le macchine, si ritirò pieno di dispetto dalla città di Tiro. In segno ancora del suo dolore fece tagliar la coda al proprio cavallo, per incitare in questa maniera i suoi alla vendetta. Di qui probabilmente ebbe principio il rito de' Turchi di appendere allo stendardo loro la coda del cavallo per segno di guerra. Distesamente parla di questi fatti Bernardo Tesoriere, la cui Storia ho dato alla luce, oltre a molti altri scrittori, che un lacrimevol racconto lasciarono di questi infelici successi de' Latini in Oriente. Di tante conquiste tre sole città restarono in lor potere, cioè Antiochia, Tiro e Tripoli.

Andavano intanto maggiormente crescendo i dissapori fra papa Urbano III e l'imperador Federigo; e quantunque il pontefice, il quale nel dì 4 di giugno, stando in essa città di Verona, diede una bolla in favor delle monache di santa Eufemia di Modena [Antiquit. Italic., Dissert. XXVI.], si vedesse in molte strettezze, perchè dall'un canto Federigo avea serrati i passi fra la Germania e l'Italia, e teneva come in pugno tutta la Lombardia e la Romagna, e dell'altro gli Stati della Chiesa romana erano malmenati dal giovane re Arrigo; tuttavia, come personaggio di gran cuore e zelo, prese la risoluzione di usar l'armi spirituali contra di Federigo [Arnold. Lubec., lib. 3, cap. 18.]. Citollo nelle debite forme; ma quando fu per fulminare la scomunica, i Veronesi, con rappresentargli che erano servi ed amici dell'imperadore, il pregarono di non voler nella loro città far questo passo, che avrebbe fatto grande strepito, e cagionato loro dei gravi disturbi. Il perchè Urbano si partì di Verona, ed incamminossi alla volta di Ferrara, con pensiero d'effettuar ivi il suo disegno. Gervasio Tiberiense [Gervas. Tiberiens., in Chron.] all'incontro scrive che s'era intavolato, anzi sottoscritto un accordo [904] fra esso papa e Federigo: dopo di che Urbano sen venne a Ferrara. Lo stesso abbiamo dal Cronografo Sassone. Comunque sia, appena giunto il pontefice in quella città, quivi caduto infermo, passò a miglior vita nel dì 19 d'ottobre. Dopo avergli per sette giorni il popolo ferrarese fatte solenni esequie, gli diede sepoltura nella cattedrale. Buona parte degli storici [Hugo Antissiodor. Ptolomaeus Lucensis, Neubrig. et alii.], copiando l'un l'altro, lasciarono scritto che il buon pontefice Urbano, pervenutagli la dolorosa nuova della perdita di Gerusalemme, non potendo reggere all'afflizione, mancò di vita. Difficile è ben da credere che in sì poco tempo fosse portato a Ferrara quel funestissimo avviso. Se egli morì d'affanno, come vien preteso, dovette piuttosto essere per la notizia ricevuta della rotta precedentemente data da Saladino ai cristiani, e della presa di varie città, e dell'assedio di Tiro. Dopo la sepoltura del defunto papa Urbano, fu in suo luogo assunto al pontificato Alberto cardinale di san Lorenzo in Lucina, cancelliere della santa romana Chiesa, che prese il nome di Gregorio VIII. Non tardò questo pontefice, lodatissimo da tutti gli scrittori, a spedir lettere circolari a tutta la cristianità, che si leggono presso Ruggieri Hovedeno [Rogerius Hovedenus, in Annalib.], e son anche riferite dal cardinal Baronio [Baron., in Annal. Eccl.]. In esse caldamente esorta tutti i fedeli al soccorso di Terra santa, con prescrivere ancora digiuni e preghiere per placare l'ira di Dio. Una lettera di questo pontefice ad Arrigo, regi electo Romanorum imperatori, pubblicata dal Leibnizio [Leibnitius, Prodr. ad Cod. Jur. Gent.], per provare usato fin allora il titolo d'imperadore eletto, non può stare, perchè contraria all'uso di que' tempi. Leggonsi ancora presso l'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 3 in Episcop. Pisan.] i privilegii e le esenzioni concedute nell'ottobre dell'anno presente da Corrado marchese, che s'intitola [905] figliuolo del marchese di Monferrato, ai Pisani, pel soccorso a lui dato nella difesa di Tiro. Per attestato degli Annali Genovesi [Annal. Genuens., lib. 5, tom. 6 Rer. Ital.], scrisse il medesimo Corrado lettere all'imperadore, e ai re di Francia, Inghilterra e Sicilia, implorando aiuto per gli urgenti bisogni della cristianità in Levante. Verisimilmente venne nel dì 10 di dicembre a Pisa il nuovo papa Gregorio VIII, appunto per muovere quel popolo e i Genovesi a far maggiori sforzi per sostenere la cadente fortuna de' cristiani latini in Levante. Ma Iddio dispose altrimenti; imperciocchè questo pontefice, degnissimo di lunga vita per le sue rare virtù, infermatosi in essa città di Pisa, fu chiamato da Dio ad un miglior paese nel dì 17 del mese suddetto, e fu seppellito il sacro suo corpo in quella cattedrale. Che vacasse la cattedra di san Pietro venti giorni, onde solamente nel gennaio dell'anno seguente fosse eletto il di lui successore, lo credettero il Sigonio, il Panvinio, il Baronio ed altri. Ma, secondo le pruove recate dal padre Pagi [Pagius, in Critic. ad Annal. Baron.], l'elezione di un altro pontefice seguì nel dì 19 del suddetto dicembre. Nelle Croniche Pisane [Chron. Pisan., apud Ughellium, tom. 3 Ital. Sacr.] è scritto: XIV kalendas ejusdem mensis cardinalis Paulus praenestinus episcopus in eadem Ecclesia majori pontifex summus est electus, levatus ab hospitio sancti Pauli de Ripa Arni, et largiente Domino Clemens III vocatus est. Sicchè fu eletto papa e consecrato Paolo cardinale e vescovo di Palestrina, di nazione Romano, che si fece chiamare Clemente III.

Ho detto di sopra che l'ottimo papa Gregorio VIII si portò a Pisa per incitar non meno quel popolo che l'altro di Genova all'aiuto di Terra santa; ma ho detto poco. Fu di mestieri il mettere prima pace fra quelle due nazioni, giacchè di nuovo s'era accesa la guerra fra esse. Abbiamo dai continuatori degli Annali [906] Genovesi di Caffaro [Annal. Genuens., lib. 3.] che in quest'anno i Pisani, contravvenendo ai trattati e giuramenti della pace, con un'armata passarono in Sardegna, dove spogliarono e cacciarono da tutto il giudicato di Cagliari quanti mercatanti genovesi trovarono in quelle parti. All'avviso della rotta pace, allestirono immediatamente i Genovesi un potente esercito per passare a Porto Pisano, quand'ecco comparire a Genova una lettera del re Arrigo, che i Pisani aveano segretamente procacciata al bisogno. In essa pregava il re i Genovesi di desistere per amor suo dall'offesa de' Pisani; e però si disarmò la preparata flotta, a riserva di dieci galee, che, passate in Sardegna, infestarono non poco i Pisani, e preso il castello di Bonifazio, fabbricato da essi Pisani, lo distrussero da' fondamenti. Bernardo di Guidone [Bernardus Guidonis, P. I, tom. 3 Rer. Ital.] ed altri scrivono che la pace fra questi due popoli fu maneggiata e conchiusa dal suddetto papa Gregorio VIII. Ma di ciò nulla ha il continuatore de' suddetti Annali di Genova, che pur era contemporaneo. Sul fine di quest'anno, o sul principio del seguente, come ha dimostrato il signor Sassi [Saxius, in Not. ad Sigon. de Regno Ital.], arcivescovo di Milano fu eletto Milone da Cardano vescovo di Torino, e Milanese di patria. E, se vogliam credere a Galvano Fiamma [Gualvanus Fiamma, in Manip. Fior.], l'anno fu questo, in cui il popolo di Milano elesse per suo primo podestà Uberto de' Visconti di Piacenza. Nè vo' lasciar di dire una particolarità a noi conservata da Bernardo Tesoriere [Bernard. Thesaurar., Chron., cap. 165.]: cioè che alcune migliaia di cristiani cacciati da Gerusalemme pervennero ad Alessandria d'Egitto, e quivi svernarono sino al marzo dell'anno seguente, trattati con assai carità ed ospitalità da que' Saraceni. Arrivarono in quel mese trentasei navi di Pisani, Genovesi e Veneziani, che imbarcarono quanti cristiani poteano pagare il nolo. [907] Essendo restato in terra un migliaio di essi, il governator saraceno volle saperne la cagione, e inteso che era perchè non aveano di che pagare, fece una severa parlata a que' capitani di navi per la poca lor carità verso de' cristiani loro fratelli, con vergogna del nome cristiano, quando Saladino ed egli stesso gli aveano trattati tutti con tanta amorevolezza e clemenza. E perchè non perisse quella povera gente, e non divenisse schiava, volle che la ricevessero nelle navi, e la trasportassero in Italia, con dar loro di sua borsa tanto biscotto ed acqua dolce, quanto potea bastare pel viaggio. Tutti raccontano che Saladino più de' cristiani medesimi era misericordioso verso de' poveri cristiani. Sicchè i più de' nostri non per motivo alcuno di religione, ma per sete di guadagno, e per vivere più liberamente, usavano in quei tempi di andare in Terra santa. Nè si vuol tacere che l'ingrandimento e la ricchezza de' Pisani e Genovesi s'ha in parte da attribuire alle caravane de' pellegrini che le lor navi conducevano e riconducevano da que' paesi, con ricavarne un buon nolo, ed occupar la roba di chi moriva nel viaggio. Molti privilegii, esenzioni e diritti accordati circa questi tempi al popolo pisano dai re di Gerusalemme, dal principe d'Antiochia, dal conte di Tripoli, dal principe di Tiro e da altri principi cristiani di Levante si possono leggere nelle mie Antichità italiane [Antiquit. Ital., Dissert. XXX, p. 907 et seq.].


   
Anno di Cristo MCLXXXVIII. Indiz. VI.
Clemente III papa 2.
Federigo I re 37, imper. 34.
Arrigo VI re d'Italia 3.

Le calamità di Terra santa quelle furono che quetarono in questi tempi le differenze pullulate di nuovo fra i sommi pontefici e l'imperador Federigo. Cessarono le ostilità per molti anni continuate fra il re d'Ungheria e i Veneziani a cagion [908] della Dalmazia. Si fece anche pace fra i re di Francia e d'Inghilterra. In somma la religione, che tante volte s'è veduta sotto i piedi dell'ambizione dei principi, questa volta restò in molti paesi al disopra: tanto rimasero sbalorditi e compunti i sovrani d'allora per la miserabil perdita di Gerusalemme, e per gli immensi progressi di Saladino. D'altro allora non si parlava se non di queste disavventure, e del loro rimedio. Aveva il pontefice Clemente III, siccome quegli a cui più che ad ogni altro stava a cuore il sussidio di Terra santa, spediti alle corti di tutti i principi della cristianità varii cardinali legati per promuovere questo importante affare [Abbas Urspergens., in Chron. Otto de Sancto Blasio, in Chron. Chronograph. Saxo, Godefrid. Monachus et alii.]. Comparvero due d'essi alla dieta generale tenuta dall'imperador Federigo in Magonza verso la metà della quaresima; e perorarono così forte a nome del papa, che lo stesso Federigo Augusto prese la risoluzione di andar egli in persona alla testa di una armata in Levante. Già la pace regnava in Italia e Germania; lieve non era la soma de' peccati di questo imperadore, de' quali bramava egli di far penitenza con sagrificare il resto de' cadenti suoi giorni alla difesa del cristianesimo. Vi entrò anche il desiderio della gloria, perchè egli andando si teneva in pugno la liberazion di Terra santa. Però prese la croce egli, e coll'esempio suo trasse alla risoluzion medesima Federigo duca di Suevia suo figliuolo, e una gran quantità di vescovi e principi. Fu dunque intimata la spedizione nell'anno prossimo venturo, e che intanto ognun si preparasse. Grandi guerre addietro erano state tra Filippo re di Francia ed Arrigo re d'Inghilterra. Guglielmo arcivescovo di Tiro, spedito dal papa, ed altri legati pontificii non solamente condussero que' due monarchi alla pace, ma gl'indussero ancora a prender la croce, e a promettere di passare in persona colle lor forze in Terra [909] santa. Predicata parimente la crociata per tutte le altre provincie della cristianità, commosse i popoli alla sacra impresa. I primi a portar colà dei soccorsi furono gl'Italiani, chiamati dall'Abbate Urspergense homines bellicosi, discreti, et regula sobrietatis modesti, prodigalitatis expertes, parcentes expensis, quum necessitas non incubuerit, et qui inter omnes gentes soli scripta legum sanctione reguntur. Sotto nome d'Italiani sono qui compresi i Veneziani, i Lombardi, i Toscani e gli altri popoli di qua dal regno di Napoli. Imperciocchè quanto a Guglielmo II re di Sicilia e di Puglia, spedì egli una flotta di dugento vele in soccorso della città di Tiro [Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.], che unita a quella di Corrado marchese di Monferrato liberò Tripoli dall'assedio di Saladino. Ma Sicardo [Bernard. Thesaurar., Hist., cap. 170.] con poca lode parla de' Siciliani. Essendo stato in questo mentre rimesso in libertà Guido re di Gerusalemme da Saladino con varii nobili dianzi suoi prigionieri, egli si animò a nuove imprese, giacchè gli giunse in soccorso una flotta numerosa di Veneziani, sopra la quale era anche l'arcivescovo di Ravenna Gherardo col vescovo di Faenza. A questo, secondo alcuni, s'unì l'altra de' Pisani, che era condotta dal loro arcivescovo Ubaldo. Imperocchè allo zelantissimo papa Clemente III riuscì in questo anno, col mezzo di due cardinali deputati, di rimettere la pace fra essi Pisani e i Genovesi, come costa da una sua bolla pubblicala dal Tronci [Tronci, Annal. Pisan.].

Ora il re Guido con questo possente rinforzo deliberò di far l'assedio di Tolemaide, ossia di Accon, importante città marittima. Non giunse però la flotta pisana, secondo il suddetto Sicardo, alla città di Tiro, se non nell'anno seguente. In questo sì, trovandosi Tiro senza vettovaglie, l'indefesso marchese Corrado inviò la sua flotta navale ad Azoto. Presa fu quella terra dai cristiani, [910] fatto prigione l'ammiraglio di Saladino con cinquecento soldati, liberati molti fedeli dalla schiavitù. Ricco bottino e abbondanza di viveri fu riportata da quelle vittoriose navi a Tiro, e Corrado col cambio di quell'ammiraglio riebbe in libertà il marchese Guglielmo suo padre. Perchè il mio argomento nol richiede, non mi stenderò io molto a narrar quelle strepitose avventure, bastandomi di solamente accennarle. A chi più ne desidera, non mancano libri che diffusamente trattano dalla guerra sacra. Mandò intanto l'imperadore Federigo in Levante a Saladino il conte Arrigo di Dedi con lettere, nelle quali gl'intimava la restituzion di Gerusalemme [Roger. Hovedenus, in Chron.]: altrimenti lo sfidava. Saladino se ne rise, e seguitò a fare il fatto suo, con impadronirsi in quest'anno di varie altre città. Con tutte le disgrazie di Terra santa non si calmarono in quest'anno le discordie tra i Piacentini e Parmigiani [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Vennero questi due popoli ad un fatto d'armi, in cui restarono sconfitti i Parmigiani col marchese Maroello Malaspina in valle di Taro. Ma rinforzati dipoi i Parmigiani dai Cremonesi, Modenesi e Reggiani, andarono all'assedio della torre di Seno e di Castelnuovo, e dopo tre giorni impadronitisi di quelle castella, le diruparono. Mosse intanto parola di pace col senato romano il pontefice Clemente; e siccome egli era lor concittadino, e i guai del cristianesimo venivano allora uditi come una gran predica dell'ira di Dio; così trovò quel popolo disposto all'accordo. Leggesi presso il cardinal Baronio [Baron., in Annalib. ad hunc annum.], e più compiuto nelle mie Antichità italiche [Antiquit. Ital., Dissert. XLII, pag. 783.], lo strumento della concordia stabilita fra esso papa e i Romani nell'ultimo dì di maggio, ove si veggono restituite al pontefice romano tutte le regalie, ma con aver egli sacrificato allo sdegno implacabile de' Romani la città di Tuscolo [911] troppo vicina a Roma, ed anche Tivoli, con aver conservato il medesimo senato, e accordate ad esso varie prerogative. Nulladimeno prima del suddetto strumento papa Clemente era venuto a Roma, ricavandosi ciò da una sua lettera scritta a Guglielmo re di Scozia, e riferita dallo stesso Baronio, come data Laterani tertio idus martii, pontificatus nostri anno primo. Una sua bolla ancora s'ha nel Bollario Casinense, data XVI calendas junii, Indictione VI, pontificatus anno primo [Bullar. Casinens., tom. 2, Constit. CCVII.]. Era stato spedito in Germania dai Cremonesi Sicardo lor vescovo [Sicard., in Chron.] per impetrare la licenza di rifabbricare Castel-Manfredo. Senza poterla ottenere se ne ritornò. In sua vece i Cremonesi fondarono Castel-Leone, ossia Castiglione.


   
Anno di Cristo MCLXXXIX. Indiz. VII.
Clemente III papa 3.
Federigo I re 38, imper. 35.
Arrigo VI re d'Italia 4.

Nella festa di san Giorgio di questo anno, cioè nel dì 23 d'aprile, Federigo imperadore diede principio alla sua spedizion verso Oriente, conducendo seco il suo figlio Federigo (e non già Corrado, come pensò il padre Pagi) duca di Suevia, con assaissimi altri principi, e circa trenta mila cavalli, oltre alla fanteria. Arnoldo da Lubeca [Arnold. Lubec., lib. 3, cap. 29. Chron. Reicherspergense.] fa qui una sparata grande, con dire, che giunto Federigo al fine dell'Ungheria, si trovò avere un esercito di cinquanta mila cavalli, e di altri cento mila combattenti. Sicardo [Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.] non gli dà se non novanta mila soldati, fra' quali dodici mila cavalli. Passò Federigo per l'Ungheria, ben accolto da quel re e dalla regina sua moglie, e sofferti molti incomodi per la Bulgheria, poi s'inoltrò verso la Romania. [912] Avendo conceputo dei sinistri sospetti di questa poderosa armata Isacco Angelo imperador de' Greci, fra il quale ancora, se vogliam credere ad alcuni autori, e Saladino sultano de' Saraceni passava stretta intelligenza ed amicizia, trattenne e maltrattò il vescovo di Munster e il conte di Nassau, ambasciatori a lui inviati; e spedì soldatesche per impedire il passaggio di Federigo Augusto, il cui figliuolo Federigo, principe di raro valore, sbaragliò chiunque se gli oppose. Diede per questo l'armata tedesca il sacco dovunque passò; ma finalmente lasciati in libertà gli ambasciatori, e dati dal greco imperadore gli ostaggi richiesti, si quetò il rumore. Furono nondimeno cagione cotali sconcerti che l'armata imperiale dovette svernare in Grecia, ma senza mai fidarsi de' Greci, che sotto mano manipolavano la rovina de' Latini. Se lo imperador Federigo non veniva dissuaso da' suoi principi, voleva ben egli farne vendetta con mettere l'assedio a Costantinopoli. Erasi intanto riaccesa la guerra tra Filippo re di Francia ed Arrigo re di Inghilterra [Radulph. de Diceto, Imag. Histor.]. Tanto si adoperarono allora Giovanni da Anagni cardinale legato della santa Sede, e varii arcivescovi e vescovi, che in fine si ristabilì nella vigilia di san Pietro la pace fra loro: laonde cominciarono a prepararsi per compiere il voto di Terra santa. Ma venuto a morte da lì a poco il re Arrigo, a lui succedette nel regno Riccardo già duca d'Aquitania, suo primogenito, il qual poscia prese l'impegno d'eseguir ciò che il re suo padre, prevenuto dalla morte, avea lasciato imperfetto. Essendo già concorsa a Tiro da tutte le parti d'Italia una tal copia di combattenti, che non potea più capire in Tiro, e nascendo ogni dì dei disordini, Guido re di Gerusalemme condusse questo popolo all'assedio di Tolemaide, ossia di Accon, o di Acri, a cui fu dato principio nel mese d'agosto. Sicardo scrive che v'intervenne coi Pisani il loro arcivescovo, legato apostolico, e [913] vi arrivò anche una grossissima nave fabbricata dai Cremonesi, e ben armata di loro gente. Giunservi ancora molti legni de' Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6 Rer. Ital.] con buona copia di combattenti, desiderosi di segnalarsi in quelle contrade per la fede cristiana. Ma non andò molto che l'esercito de' fedeli mutò faccia, perchè di assediante divenne assediato. Colà accorse Saladino con una formidabil armata, e piantò il campo contra de' cristiani, i quali perciò si trovarono ristretti fra la città e il nemico esercito, e in un miserabile stato. Evidente si scorgeva il pericolo di restar quivi tutti vittima delle sciable nemiche: sì picciolo era il numero loro in confronto dell'innumerabil oste de' Saraceni [Bernardus Thesaur., Hist., cap. 171.], se non che all'improvviso comparvero dalla Frisia e dalla Danimarca cinquanta vascelli, e trentasette dalla Fiandra, che sbarcarono un buon rinforzo di gente e di viveri, e rincorarono a maraviglia il campo cristiano, il quale seguitò costantemente a tenere il suo posto, ancorchè ogni dì convenisse aver l'armi in mano, e difendere dagli assalti nemici le linee e i trincieramenti, coi quali s'erano fortificati.

Perchè intanto durava in Lombardia la guerra fra i Piacentini e Parmigiani [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.], Pietro e Siffredo cardinali legati della santa Sede s'interposero, e fecero seguir pace tra loro, compresovi il marchese Malaspina. Una terribil mutazione di cose accadde nel presente anno in Sicilia, che riuscì anche di sommo danno all'Italia tutta e all'armi cristiane in Levante. Nel dì 16 di novembre [Richardus de S. Germano.] venne a morte Guglielmo II re di Sicilia, soprannominato il Buono, in età di soli trentasei anni, principe pio, principe glorioso, e padre de' suoi popoli, i quali perciò in dirotti pianti si sciolsero, non tanto per la perdita del bene presente, quanto per la previsione [914] de' mali avvenire, perch'egli non lasciava dopo di sè prole alcuna. Secondo le promesse e i patti del matrimonio di Costanza con Arrigo VI re di Germania e d'Italia, dovea succedere nel regno essa Costanza. Scrive ancora il Cronografo Acquicintino [Chron. Acquicinctinum apud Pag.] che Guglielmo prima di morire dichiarò suo figliuolo ed erede il medesimo re Arrigo. Ma si sa dall'Anonimo Casinense [Anonymus Casinens., in Chron., tom. 5 Rer. Italic.] ch'egli morì senza far testamento. Certo non è da mettere in dubbio che Costanza fosse stata dinanzi riconosciuta per erede presuntiva di quella corona, mentre sappiamo che lo stesso Tancredi, a cui toccò il regno, avea con altri giurata fedeltà alla medesima regina Costanza. Ma i Siciliani abborrivano di andar sotto di principe straniero, che, per cagion degli altri suoi Stati, poteva trasportare altrove la corte. Apprendevano ancora come duro e barbarico il governo dei Tedeschi d'allora; nè s'ingannavano. Però somma fu la confusione di que' vescovi, conti e ministri in tal congiuntura. Scrive il suddetto Anonimo che dopo la morte del re vennero alle mani i cristiani coi Saraceni abitanti in Palermo (e ve n'era ben qualche migliaio), in guisa che degli ultimi fu fatta grande strage, e il resto venne obbligato a ritirarsi ad abitar nelle montagne. Il perchè non si sa. Trovavasi in grave perplessità quella corte, e convocato il parlamento de' baroni, Gualtieri arcivescovo di Palermo, per cui opera erano seguite le nozze di Costanza con Arrigo, sostenne il loro partito [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.]. Ma il gran cancelliere Matteo da Salerno prevalse coll'altro, il quale, giacchè vi restava un rampollo maschio de' principi normanni, a questo credea dovuta la corona, per benefizio ancora del regno. Vi si aggiunse ancora l'autorità e il maneggio, se non palese, almeno segreto della corte di Roma, affinchè non si unissero [915] quegli Stati in chi era re d'Italia e doveva essere imperadore; e tanto più vi s'interessò il pontefice, dacchè senza riguardo della sua sovranità altri volea disporre di quel regno. Fu dunque spedita gente a Lecce a chiamar Tancredi conte di quel paese, col notificargli la risoluzione presa di volerlo per re. Era Tancredi figliuolo di Ruggieri duca di Puglia, cioè del primogenito del re Ruggieri, ma nato fuor di matrimonio da una nobil donzella, che molti nondimeno crederono sposata da lui. Sotto il re Guglielmo fu detenuto prigione. Fuggitone si ricoverò in Costantinopoli. Dopo la morte d'esso re zio se ne tornò in Puglia, ben veduto dal re Guglielmo II suo cugino, la cui morte aprì a lui l'adito alla corona. E n'era degno per le sue belle qualità, perchè signore d'animo sublime e di molta prudenza [Hugo Falcandus, in Chron.], e che alle virtù politiche accoppiava ancora un amor distinto alle lettere, e sapeva anche le matematiche, l'astronomia e la musica: cosa rara in questi tempi. Ma al di lui merito mal corrispose la fortuna, siccome vedremo.


   
Anno di Cristo MCXC. Indizione VIII.
Clemente III papa 4.
Arrigo VI re di Germania e d'Italia 5.

Venuta la primavera, l'imperador Federigo rimise in viaggio l'esercito suo, ed arrivato a Gallipoli [Niceta Choniates. Godefridus Monachus. Chron. Reichersperg. Sicardus, in Chron.], trovò quivi un'immensa quantità di legni piccioli e grandi, preparati, affinchè potesse passar l'Ellesponto, dall'imperador greco, premuroso di levarsi d'addosso un'armata sì potente, che il teneva in continue gelosie e timori. Verso il fine di marzo valicò essa armata lo stretto in cinque giorni. Tenne la vanguardia Federigo duca di Suevia, la retroguardia l'Augusto Federigo suo padre. Di gravi incomodi cominciò [916] a patire questo esercito; passato che fu in Asia, per le segrete mine dei Greci; ma peggio avvenne, allorchè giunse nelle terre de' Turchi e del sultano d'Iconio, perchè mancavano i viveri per gli uomini e per li cavalli; e scopertasi nemica quella gente, non passava giorno che non si avesse a combattere. Arrivarono ad Iconio, nè potendo aver per danari vettovaglia, ordinò Federigo che si espugnasse quella città: il che fu eseguito con incredibil bravura e strage de' Turchi. Rifugiossi il sultano nel castello, e si ridusse allora a dar dei viveri, benchè a caro prezzo. Di là passò l'imperadore in Armenia, dove trovò buona accoglienza e miglior mercato. Arrivato poscia al fiume Salef, che scorre per deliziose campagne, essendo il caldo grande, volle Federigo bagnarsi in quell'acque, ma in esse sventuratamente lasciò la vita, chi dice, perchè annegato nuotando, e chi perchè il soverchio freddo dell'acqua l'intirizzì laonde dopo poche ore mancò di vita. Succedette la morte sua nel dì 10 di giugno. Altri scrivono nel dì 12, ma senza fondamento, perchè fu in domenica, e questa cadde nel dì 10 suddetto. Non può negarsi: uno de' più gloriosi principi che abbiano governato l'imperio romano fu Federigo I Barbarossa, alle cui lodi, espresse da varii autori, nulla ho io da aggiugnere. Non mancarono già fra molte sue virtù moltissimi vizii e difetti considerabili, tali ancora che la memoria di lui resterà sempre in abbominazione presso degli Italiani. Ma non si può negare, egli almeno coll'ultima sua piissima risoluzione compiè la carriera del suo vivere gloriosamente, e con dispiacere universale, perchè niuno era più a proposito di lui per umiliar la fortuna di Saladino: tanto era il suo valore e il suo credito anche in Oriente. Il duca Federigo suo figliuolo, valorosissimo principe [Abbas Urspergensis, in Chron.], prese il comando dell'armata rimasta in una grave costernazione; la condusse fino ad Antiochia, dove per l'intemperanza del vivere [917] quasi tutta perì, in maniera che egli giunse con pochi all'assedio di Accon, ed ivi terminò anch'egli la vita nel principio dell'anno seguente. Seguitava intanto l'assedio di Accon, assedio de' più famosi che mai si sieno intesi, e vi succederono varii fatti d'armi, tutti degni di storia, ma non convenevoli alla mia, che ha altra mira. A me basterà di accennare qualmente in una giornata campale, che i cristiani vollero azzardare, restarono sconfitti dall'esercito di Saladino; e che ciò non ostante continuarono essi a ristringere quella città, tuttochè bloccati da Saladino. Entrata la carestia nel campo cristiano, cagione fu che ne perissero ben sette mila. Giunse anche una flotta saracena nel porto di Accon, che ridusse a maggiori angustie l'accampamento de' cristiani; ma il valoroso marchese di Monferrato Corrado, portatosi a Tiro, e tornato con uno stuolo di navi, prese i legni nemici carichi di vettovaglie, che servirono al bisogno de' cristiani. Tuttavia disperati pareano questi affari, quando nell'anno seguente giunsero colà i re di Francia e d'Inghilterra, che fecero mutar faccia alle cose, siccome diremo.

Intanto è da sapere che questi due monarchi avendo preparata cadauno una gran flotta, coll'accompagnamento d'assaissimi principi, fecero vela verso l'Oriente. Abbiamo dal continuatore di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 3.] che Filippo Augusto re di Francia arrivò nel dì primo d'agosto in Genova. Colà parimente nel dì 13 d'esso mese giunse Riccardo re d'Inghilterra, il quale, dopo essersi abboccato col re Filippo, continuò tosto il suo viaggio. Sul fine d'esso mese approdarono amendue a Messina, dove con grandi finezze e regali furono accolti da Tancredi, che nel gennaio di quest'anno era stato coronato re di Sicilia col consenso del romano pontefice. Dopo la sua esaltazione avea atteso Tancredi ad assicurarsi [918] della Puglia [Richardus de S. Germano, in Chron. Anonymus Casinens.], dove non mancavano baroni e città, o malcontenti per invidia della di lui fortuna, o aderenti alla regina Costanza, fra' quali specialmente Ruggieri conte d'Andria. Diede il comando dell'armi a Riccardo conte di Acerra suo cognato; e questi parte colla dolcezza, parte colla forza tirò all'ubbidienza di Tancredi quasi tutta la Puglia e Terra di Lavoro. Intanto Arrigo VI re di Germania e d'Italia si disponeva per far valere le ragioni della regina Costanza sua moglie, ma non con quella fretta che avrebbono desiderato i suoi parziali. Mandò ben egli Arrigo Testa suo maresciallo con un corpo d'armata che, unitosi col conte d'Andria, prese molti luoghi in Puglia, lasciando dappertutto segni di crudeltà per li continui saccheggi. Ma ingrossato l'esercito del re Tancredi, ed entrate le malattie e la penuria de' viveri nel nemico esercito, il comandante tedesco si ritirò, lasciando in ballo il conte d'Andria, che si rifugiò in Ascoli. Ad assediarlo in quella città venne il conte d'Acerra, e un dì sotto buona fede chiamato fuor delle porte esso conte d'Andria, proditoriamente il fece prendere, e poi tagliargli la testa. Col tempo anche la città di Capua, dianzi favorevole alla regina Costanza, abbracciò il partito del re Tancredi: con che poco o nulla restò che nol riconoscesse per suo sovrano. Ma un più pericoloso affare ebbe Tancredi in casa propria. Appena fu giunto al porto di Messina il re inglese Riccardo, che mosse varie pretensioni contra d'esso Tancredi; cioè che gli desse cento navi promesse dal re Guglielmo al re Arrigo di lui padre, per valersene nel passaggio di Terra santa. Pretese eziandio che gli fosse rimandata la regina Giovanna sua sorella e vedova del re Guglielmo II, e insieme o restituita la dote, o assegnato per essa un stato competente. Perchè si tardava a soddisfarlo, Riccardo principe ferocissimo [919] mise mano all'armi, e colla forza s'impossessò di due fortezze situate fuor di Messina. Ciò veduto da' Messinesi, non tardarono a cacciar fuori di città quanti Inglesi vi si trovarono. E ne sarebbe seguito peggio, se, frappostosi il re di Francia, ch'era approdato anch'egli a Messina, non avesse calmata l'ira di Riccardo, e trattato di aggiustamento. Ma non andò molto che, portata a lui una falsa nuova che i Messinesi macchinavano contra di lui, alla testa dei suoi egli ostilmente prese una porta di quella città [Hovedenus, in Chron.]; fece macello di quanti cittadini gli vennero all'incontro, e piantò le sue bandiere sopra le mura. O perchè si smorzasse la sua collera, o perchè prevalesse il parere de' suoi consiglieri, uscì della città. Venne poscia ad accordo con Tancredi, il quale si obbligò di pagare venti mila oncie d'oro per la dote della vedova regina, e di provvedere a Riccardo alquante navi pel viaggio di Terra santa. Restò ancora conchiuso che Tancredi darebbe una sua figliuola in moglie ad Arturo duca di Bretagna, nipote d'esso re Riccardo, con dote di ventimila oncie d'oro. Nè mancaron motivi di discordia fra gli stessi due re di Francia e d'Inghilterra; ma il franzese, più moderato e saggio dell'altro, sopportò tutto per non disturbare il piissimo suo disegno di soccorrere i cristiani in Terra santa. Fu in questa occasione che, ad istanza del re Riccardo, fu chiamato a Messina Gioachino abbate cisterciense del monistero florense, tenuto allora in gran concetto di probità, e di profetizzar l'avvenire [Idem, in Annalib.]. Interrogato egli se si libererebbe Gerusalemme, rispose che non era per anche giunto il tempo di questa consolazione. Hanno combattuto e combattono tuttavia gli scrittori, chi trattando esso abbate Gioachino da impostore, e fin da eretico, e chi tenendolo per uomo d'esemplarissima vita, di buona credenza e [920] santo. Veggasi il padre Pagi a quest'anno. A me nulla appartiene l'entrare in sì fatto litigio. In quest'anno i Genovesi elessero per loro primo podestà Manigoldo nobile bresciano, che diede principio con vigore al suo governo in quella troppo disunita e tumultuante città [Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.]. Per quanto s'ha dalla Cronica Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], nell'anno presente guerra fu fra i Ferraresi e Mantovani, e si venne alle mani nella terra di Massa, distretto ferrarese. Toccò ai Mantovani il voltare le spalle.


   
Anno di Cristo MCXCI. Indizione IX.
Celestino III papa 1.
Arrigo VI re 6, imperad. 1.

Diede fine al corso di sua vita il sommo pontefice Clemente III verso il fine di marzo nel corrente anno [Chron. Reicherspergens. Anonymus Casinens. Necrolog. Casinense.], e gli fu data sepoltura nel dì 28 di marzo. Da lì a due giorni fu eletto papa Giacinto cardinale di santa Maria in Cosmedin, in età di circa ottantacinque anni, che prese il nome di Celestino III. Doveva egli, secondo il rito, essere consecrato nella seguente domenica; ma intendendo che venisse alla volta di Roma Arrigo VI re di Germania e d'Italia, con gran baldanza, per ricevere la corona dell'imperio, volle differir la propria consecrazione, per ritardar quella di Arrigo, e guadagnar tempo, tanto che si concertassero gli affari con decoro della santa Chiesa romana. Si dovettero concordar tutti i punti; e Arnoldo da Lubeca scrive [Arnold. Lubecensis, lib. 4, cap. 4.] che i Romani segretamente s'accordarono con esso Arrigo, e poi pregarono il papa di dargli la corona. Però il novello pontefice ricevette la propria consecrazione nel dì 14 d'aprile, giorno solenne di Pasqua. Nel dì seguente poi il re Arrigo, che scortato da un copioso esercito [921] era giunto nelle vicinanze della basilica vaticana colla moglie Costanza, ma senza entrare in Roma, le cui porte, se crediamo a Ruggieri Hovedeno [Rogerius Hovedenus, in Annal.], furono ben chiuse e guardate dal popolo romano, senza lasciarvi entrare i Tedeschi: venne incontro al papa, che dal Laterano si trasferì al Vaticano. Sopra la scalinata di san Pietro prestò il giuramento consueto, e poscia nella basilica introdotto, fu solennemente coronato imperadore. Racconta il suddetto Hovedeno che Celestino sedebat in cathedra pontificali tenens coronam auream imperialem inter pedes suos, et imperator inclinato capite recepit coronam, et imperatrix similiter de pedibus domini papae. Dominus autem papa statim percussit cum pede suo coronam imperatoris, el dejecit eam in terram, significans, quod ipse potestatem ejiciendi cum ab imperio habet, si ille demeruerit. Sed cardinales statim arripientes coronam, imposuerunt eam capiti imperatoris. Questo racconto vien preso dal cardinal Baronio come moneta contante. Ma niuno de' lettori ha obbligo di creder vero un fatto che più conviene alla scena che al sacro tempio, e troppo disdice ad un vicario di Cristo, ed è contra il rituale di tutti i tempi, e si conosce sommamente obbrobrioso a questo imperadore. Tale non era egli da sofferire in faccia del suo esercito e di Roma un insulto e strapazzo sì fatto. Però quanto più si esaminerà questo racconto, tanto più si scorgerà inverisimile. Nella Cronica Reicherspergense è scritto che Arrigo fu ab ipso Caelestino papa consecratus honorabiliter Romae, et coronatus [Chron. Reicherspergens.]. Fra i patti accordati fra esso Augusto Arrigo e i Romani prima della sua coronazione [Abbas Urspergens., in Chron.], il primario fu ch'egli cederebbe loro la città di Tuscolo, entro la quale era stato posto presidio imperiale. Abbiamo veduto che anche papa Clemente III aveva abbandonata quella città al volere del popolo [922] romano. E Ruggieri Hovedeno scrive che anche papa Celestino ne fece istanza ad Arrigo: altrimenti non volea coronarlo. Perciò la guarnigion cesarea d'ordine del novello imperadore, appresso ne diede la tenuta ai Romani, senza avvertirne i cittadini. Pretende il cardinal Baronio che i Romani infierissero solamente contro le mura e le case, nè maltrattassero gli abitanti. L'Abbate Urspergense, che vivea in questi tempi, così parla del presidio imperiale: Hi accepta legatione imperatoris, incautam civitatem Romanis tradiderunt, qui multos peremerunt de civibus, et fere omnes sive pedibus sive manibus, seu aliis membris mutilaverunt. Pro qua re imperatori improperatum est a multis. Lo stesso vien confermato da Gotifredo Monaco [Godefridus Monachus, in Chron.]. E Sicardo vescovo allora di Cremona scrive [Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.]: Imperator Apostolico dedit Tusculanum, et Apostolicus Romanis. Romani vero civitatem destruxerunt et arcem, Tusculanos alios excaecantes, et alios deformiter mutilantes. Però neppur il papa dovette andar esente da biasimo per tali crudeltà, degne de' barbari tempi che allora correvano. Non restò pietra sopra pietra della misera città, e questa mai più non risorse. Dicono che gli abitanti rimasti in vita si fabbricarono in quei contorni capanne con frasche, dal che prese poi il nome la città di Frascati d'oggidì.

Intanto Tancredi re di Sicilia [Ricardus de S. Germano.] avea conchiuso un trattato di matrimonio fra Irene figliuola di Isacco Angelo imperador de' Greci, e Ruggieri suo primogenito, già dichiarato duca di Puglia. E perchè questa principessa era in viaggio alla volta d'Italia, egli passò di qua dal Faro, per esser pronto a riceverla. Dopo aver dunque ridotti al loro dovere alcuni popoli dell'Abruzzo, che teneano col conte Rinaldo suo ribello, si portò a Brindisi, dove accolse la regal sua nuora, le cui nozze furono con singolar magnificenza [923] celebrate. Quivi ancora diede il titolo di re allo stesso figliuolo, e fece coronarlo: dopo di che con gloria e trionfo se ne tornò in Sicilia. Strano è il vedere che l'Anonimo Casinense [Anonymus Casinens., in Chron.] metta la solennità di queste nozze nell'anno 1193. Si dee credere scorretto il suo testo. Pareva con ciò stabilita, non men la fortuna di Tancredi, che la pace del suo regno; ma poco andò che alzossi una terribil tempesta di guai, che recò a lui la rovina e la desolazione a tutto quel fioritissimo regno. Sul fine d'aprile, o sul principio di maggio, l'imperadore Arrigo ostilmente entrò nella Puglia [Arnold. Lubec., lib. 4, cap. 5.], ancorchè il pontefice Celestino se l'avesse forte a male, e facesse quanto potesse per ritenerlo. Mise l'assedio alla terra d'Arce, difesa da Matteo Burello; nè giovò che il dì seguente que' cittadini si rendessero amichevolmente. Egli, ciò non ostante, diede quella terra alle fiamme: esecuzione, da cui restarono atterriti i popoli vicini, che senza voler aspettare la chiamata, nonchè la forza, si diedero a lui, cioè l'abbate di Monte Casino, i conti di Fondi e di Molise, e le città di San Germano, Sora, Arpino, Capoa, Teano, Aversa, ed altre terre. Di là passò coll'esercito a Napoli, e trovata quella nobil città preparata alla difesa, ne imprese l'assedio. V'era dentro un buon corpo di gente comandato da Riccardo conte d'Acerra, cognato del re Tancredi, e risoluto di far fronte a tutti i tentativi dei nemici. Molti furono gli assalti, molte le prove per vincere la forte città: tutto nondimeno senza frutto, perchè i difensori, che aveano aperto il mare, e nulla loro mancava di gente e di viveri, di tutti gli sforzi ostili si rideano. Intanto l'importante città di Salerno si rendè all'imperadore. Erano venuti i Pisani con istuolo di navi, per secondar l'impresa d'Arrigo sotto Napoli, quando eccoti giugnere la flotta del re di Sicilia, composta di settantadue galee, condotta dall'ammiraglio [924] Margaritone, uomo famoso, che assediò i Pisani in Castellamare. Si studiò ancora l'Augusto Arrigo di aver dalla sua i Genovesi in questo bisogno: al qual fine spedì a Genova l'arcivescovo di Ravenna, chiamato Ottone dal continuatore di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6, Rer. Ital.]. Per testimonianza del Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.], tenea quella chiesa allora Guglielmo arcivescovo. S'egli non avea due nomi, l'uno di questi autori ha sbagliato. Quel che è più, l'arcivescovo di Ravenna era passato in Oriente, e quivi ancora sotto Accon lasciò la vita. Il Rossi di ciò non parla. Ora per guadagnare il popolo di Genova, Arrigo gli confermò tutti i privilegii, assegnogli Monaco e Gavi, e si obbligò di concedergli la città di Siracusa, con altri vantaggi, se alle sue mani veniva la Sicilia: promesse ch'egli non voleva poi mantenere. Misero dunque alla vela con trentatrè galee ben armate i Genovesi sotto il comando di due de' loro consoli, e tirarono verso Napoli; ma vi trovarono mutato l'aspetto delle cose. La stagione bollente e l'aria poco salubre di quei tempi cominciò a far guerra all'armata tedesca, di maniera che una fiera epidemia ne cacciò sotterra alquante migliaia, senza perdonare agli stessi principi [Arnold. Lubec., lib. 4, cap. 6.], fra' quali mancò di vita Filippo arcivescovo di Colonia, e Ottone duca di Boemia. Cadde gravemente infermo lo stesso Arrigo imperadore, fino ad essere corsa voce che avea cessato di vivere. Fecero queste disavventure risolvere Arrigo tuttavia malato di ritirarsi dall'assedio di Napoli nel mese di settembre. Lasciato pertanto alla guardia di Capoa Corrado per soprannome chiamato Moscaincervello, e l'imperadrice Costanza a Salerno, conducendo seco Roffredo abbate di Monte Casino, sen venne a Genova, dove con ricche promosse di parole impegnò quel popolo a sostenere i suoi disegni sopra la Sicilia, e di là poscia [925] passò in Germania. Ebbero i Pisani la fortuna di sottrarsi colla fuga all'ammiraglio di Sicilia, il quale, data anche la caccia ai Genovesi, gli obbligò a tornarsene al loro paese. Appena fu slontanato dalla Campania l'Augusto Arrigo, che uscito di Napoli il conte di Acerra con quante soldatesche potè unire, venne a dirittura a Capoa, che se gli diede [Richardus, de S. Germano.]. Ritiratosi nel castello il Moscaincervello, per mancanza di viveri capitolò in breve, e se n'andò con Dio. Tornarono all'ubbidienza del re Tancredi Aversa, Teano, San Germano, ed altre terre.

Allora i Salernitani, che erano stati de' più spasimati a darsi all'imperadore, e presso i quali si credea sicurissima l'imperadrice Costanza, veggendo la mutazion degli affari, per riacquistare la grazia del re Tancredi, condussero a Palermo e gli diedero nelle mani l'imperadrice stessa. L'Anonimo Casinense scrive che Arrigo, prima d'uscire di Terra di Lavoro, mandò a prendere Costanza; ma restò questa tradita dai Salernitani. Con gran piacere accolse Tancredi una sì rilevante preda, e non lasciò di trattarla con tutta onorevolezza. L'Augusto Arrigo all'incontro, risaputa la disgrazia della moglie, con lettere calde tempestò papa Celestino per riaverla col mezzo suo. Infatti indusse questo pontefice il re Tancredi a rimetterla in libertà, e a rimandarla in Germania nell'anno seguente. Non si sa ch'egli la cedesse con patto alcuno di suo vantaggio. Solamente sappiamo che, dopo averla generosamente regalata, la rimandò. Vero è che il concerto era ch'essa Augusta passasse per Roma, dove il pontefice pensava di trattar di concordia; ma essa gli scappò dalle mani, e in vece d'arrivare a Roma, voltò strada, e se ne andò a Spoleti. Se i principi d'oggidì, trovandosi in una situazione tale, fossero per privarsi con tanta facilità, e senza alcuna propria utilità, di una principessa che seco portava il diritto sopra la Sicilia, lascerò io che i saggi [926] lettori lo decidano. Ben fu ingrato dipoi Arrigo, che niuna riconoscenza ebbe di sì gran dono. Per conto di Terra santa [Sicard., in Chron. Arnoldus Lubecens. Abbas Urspergens. Godefridus Monachus. Bernard. Thesaur. et alii.], giunto sotto Accon, ossia Acri, Filippo re di Francia, trovò che la fame e la peste aveano fatto gran macello della gente cristiana che assediava quella città, con essere anch'essa ristretta dal campo di Saladino. L'arrivo suo rimise in buono stato quegli affari, di maniera che da lì cominciò daddovero a tormentar colle macchine l'assediata città. Intanto Riccardo re d'Inghilterra, giunto in Cipri, ebbe o cercò delle ragioni per muover guerra ad Isacco, ossia Chirsacco, signore o tiranno greco di quell'amenissima isola, il quale si facea chiamare imperador de' Greci. Il mise in fuga, e assediatolo poscia in un castello, l'ebbe in sua mano con un immenso tesoro. Venne in potere di lui ogni città e terra di quell'isola, ch'egli spogliò di tutte le sue ricchezze, e poscia per venticinque mila marche d'argento la vendè ai cavalieri templari, e toltala in fine ai medesimi, la rivendè per ventisei mila bisanti a Guido Lusignano, già re di Gerusalemme, i cui discendenti gran tempo dipoi ne furono possessori. Arrivò sotto Accon questo feroce re, ma entrò ben tosto anche l'invidia e la discordia fra lui e il re di Francia. Bastava che l'uno volesse una cosa, perchè l'altro la disapprovasse. Contuttociò le larghe breccie fatte nelle mura di quella città, che fin qui era costata la vita d'innumerabili cristiani, e di moltissimi principi, obbligarono i Saraceni a renderla con sommo giubilo della cristianità nel dì 12, oppure nel 13 di luglio dell'anno presente. L'immensa preda fu divisa fra gl'Inglesi e Francesi, con grave doglianza delle altre nazioni, che più d'essi aveano faticato e patito in quell'assedio, e nulla guadagnarono.

Allora Saladino si ritirò in fretta; e perchè non volle approvar le proposizioni [927] di render Gerusalemme, il re Riccardo con inudita barbarie fece levar di vita cinque mila prigioni saraceni. Le torbide passioni che mantenevano la discordia fra i due re crebbero maggiormente da lì innanzi, e furono cagione che non si prendesse la santa città: il che era facile allora. Il re Filippo, principe saggio, tra perchè non gli piacea di star più lungamente in quella dimestica guerra, e perchè si trovava oppresso da una grave malattia, se ne tornò in Italia, e dopo aver presa in Roma la benedizione da papa Celestino, ripatriò. Il re Riccardo restò in Sicilia. Nè si dee tacere, che essendo morta nell'assedio di Accon Sibilia regina di Gerusalemme, moglie di Guido Lusignano, succedendo in quel diritto Isabella sua sorella, figliuola del già re Aimerico, fu dichiarato nullo il matrimonio d'essa con Unfredo signore di Monreale, e questa data a Corrado marchese di Monferrato, il più prode ed accreditato fra que' principi cristiani, il quale perciò potè aspirare al titolo di re. Erasi accesa o riaccesa guerra in quest'anno tra i Bresciani e Bergamaschi. In aiuto degli ultimi accorsero i Cremonesi [Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.]; ma sopraffatti dai Bresciani, o, come altri scrivono, atterriti dalla voce sparsa che venivano anche i Milanesi [Gualvanus Flamm., in Manipul. Flor.], ne riportarono una fiera sconfitta, di cui durò un pezzo la memoria col nome di mala morte; perciocchè incalzati, moltissimi di loro s'annegarono nel fiume Oglio, altri furono presi, ed altri tagliati a pezzi, colla perdita del loro carroccio, che trionfalmente fu condotto a Brescia. Jacopo Malvezzi [Jacopus Malveccius, in Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital. Annales Placentini, tom. 16 Rer. Italic.] scrive a lungo questa vittoria. Ritornando poi l'imperadore Arrigo di Puglia, fece rilasciar loro i prigioni, e con suo privilegio concedè la terra di Crema al popolo di Cremona: il che essendo contrario a quanto avea stabilito l'imperador [928] Federigo suo padre in favore dei Milanesi, alienò forte l'animo di questi dall'amore d'esso Augusto, e fu seme di nuove guerre fra le emule città suddette. Secondo le Croniche d'Asti [Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital.], in questo anno nel dì 19 di giugno gli Astigiani vicino a Montiglio ebbero battaglia con Bonifazio marchese di Monferrato, e ne riportarono una rotta sì fiera, che circa due mila d'essi furono condotti prigionieri nelle carceri dei Monferrato, dove penarono per più di tre anni, finchè si riscattarono. Durò questa guerra dipoi per quindici anni, con farsi ora pace ed ora tregua, male osservate sempre da esso marchese, e dal marchese Guglielmo suo figliuolo. Finalmente nell'anno 1206 seguì fra esso Guglielmo e gli Astigiani una vera pace, in cui gli ultimi guadagnarono Loreto e la contea delle Castagnole.


   
Anno di Cristo MCXCII. Indizione X.
Celestino III papa 2.
Arrigo VI re 7, imperad. 2.

Avea l'imperadore Arrigo lasciato per castellano della rocca d'Arce Diopoldo suo uffiziale [Anonymus Casinens., Chron., tom. 5 Rer. Ital. Johan. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.]. Costui nel mese di gennaio messa insieme un'armata di Tedeschi, e delle terre della Campania e di Roma, assediata la città di San Germano, la costrinse alla resa, e diede il sacco non meno ad essa, che ad altre terre da lui conquistate, facendo dappertutto quanto male gli suggeriva la sua crudeltà ed avarizia. Da ciò mosso il re Tancredi, giudicò meglio di venire egli in persona ad assistere a' suoi interessi di qua dal Faro. Giunse fino a Pescara, e riuscitogli di riporre sotto la sua ubbidienza buona parte del paese, e di mettere a dovere Riccardo conte di Celano, se ne tornò poscia in Sicilia. Fu assediato dalle sue truppe San Germano, ma inutilmente, [929] perchè difeso da Arnolfo monaco, decano di Monte Casino. Rimandò poscia l'imperadore in Italia con un corpo d'armati Roffredo abbate di quell'insigne monistero, il quale tutto s'era dato a lui, con ordine a Bertoldo conte di marciare con quanta gente potea in compagnia di esso abbate verso Terra di Lavoro. Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.] ciò riferisce all'anno seguente. Fermossi Bertoldo in Toscana, e diede la gente all'abbate, che fece molta guerra in quelle parti, e con Diopoldo s'impadronì d'Aquino, e stese le sue scorrerie fino a Sessa. Lo stesso Bertoldo nel mese di novembre anch'egli comparve, ed acquistò Amiterno e Valva, ed occupò i contadi di Molise e di Venafro. Perchè il re Tancredi e il conte di Acerra suo cognato non si opponessero agli avanzamenti di questi uffiziali cesarei, la storia nol dice. Abbiamo dal Malvezzi [Malveccius, in Chron. Brixian.] che in quest'anno l'imperadore Arrigo, dimorando in Germania, confermò ed aumentò i privilegii al comune di Brescia. Leggesi presso quello storico il cesareo diploma, in cui si veggono obbligati i Bresciani ad aiutar l'imperadore a mantener l'imperio in Lombardia, Marchia, Romandiola, et specialiter terram quondam comitissae Mathildis. Di grandi prodezze fece in quest'anno Riccardo re d'Inghilterra, tuttavia dimorante in Oriente, benchè con poco frutto di quella cristianità. Fra l'altre imprese, non essendo giunto a tempo per soccorrere la città di Jafet vinta per assedio da Saladino, ebbe l'ardire d'entrarvi dentro con pochi dei suoi, dove fece strage di quegl'infedeli, finchè, seguitato da tutti i suoi, interamente la ricuperò. Rifabbricò varie città, diede anche una rotta all'immenso esercito di Saladino. Era così temuto nelle contrade dei Saraceni il nome di questo re per le sue bravure [Bernardus Thesaurar., Hist., cap. 177.], che le donne saracene, per far paura ai piccioli figliuoli, lor diceano: Viene il re Riccardo. Un [930] grand'eroe sarebbe stato, se a tanta bravura avesse aggiunto la moderazion dell'animo, che in lui difficilmente si trovava. Ma gli sconcerti del suo regno il richiamavano a casa. Propose dunque che si creasse un generale dell'armata cristiana, che portasse anche il titolo di re [Sicard., in Chron.]. Concorrevano alcuni in Guido già re di Gerusalemme, altri in Arrigo conte di Sciampagna; ma i più si dichiararono in favore di Corrado marchese di Monferrato e signore di Tiro, di cui ci fanno questa dipintura Corrado abbate Urspergense e Bernardo il Tesoriere: Fuit autem idem marchio Conradus armis strenuus; ingenio et scientia sagacissimus; animo et facto amabilis; cunctis mundanis virtutibus praeditus; in omni Consilio supremus, spes blanda suorum; hostium fulmen ignitum; simulator et dissimulator in omni re; omnibus linguis instructus; respectu cujus facundissimi reputabantur elingues. Era solamente tacciato per aver tolta in moglie la principessa Isabella, vivente ancora Unfredo suo marito, stante il non credersi legittima la dissoluzion del loro matrimonio. Ma che? Trovavasi in Tiro questo sì illustre principe nel dì 24 di aprile, quando gli furono presentate le lettere coll'avviso della sua assunzione; e in quello stesso giorno, secondochè abbiam da Sicardo, tolta gli fu da due sicarii con varie coltellate la vita. Si divulgò l'atroce caso. Chi l'imputava al suddetto Unfredo; altri ne faceano autore il re Riccardo, che veramente lo ebbe sempre in odio, perchè dichiarato parziale di Filippo re di Francia [Alberic. Monachus, in Chron. Godefridus Monachus, in Chron.]; e questa voce corse per tutto l'Occidente. Altri scrittori poi convengono in credere che il vecchio della montagna, signore di un tratto di paese chiamato degli Assassini, i cui sudditi mirabilmente eseguivano tutti i di lui ordini senza far conto della lor vita (onde poscia venne il nome d'assassino in Italia per denotare un sicario), lo [931] avesse fatto proditoriamente levare dal mondo in vendetta d'aver Corrado tolta ad alcuni mercatanti d'esso vecchio una gran somma di danaro senza volerla restituire. Appena udita la morte del valoroso marchese, il re Riccardo, entrato in nave, corse a Tiro, e tre giorni dopo quella brutta scena obbligò la regina Isabella, benchè fosse gravida, e benchè contra sua voglia, a sposare il suddetto conte di Sciampagna Arrigo, nipote del medesimo Riccardo, a cui conferì anche il titolo di re: cose tutte che servirono a maggiormente accrescere i sospetti della morte di Corrado contra dello stesso re Riccardo. Stabilita poi con Saladino una tregua di cinque anni s'imbarcò Riccardo, e, dato l'ultimo addio alla Palestina e Soria, sciolse le vele verso l'Occidente [Pipinus, Chron., lib. 2, cap. 26, tom. 9 Rer. Italic.]. Battuto da una fiera tempesta, fu spinto per l'Adriatico verso Aquileia, dove sbarcato con pochi, prese quella via che potè. Ebbe difficoltà di scampare dagli uomini del conte di Gorizia, che gli presero alcuni de' suoi. Passando poi per le terre di Leopoldo duca d'Austria, benchè travestito, venne per sua mala fortuna, o per tradimento d'alcuno de' suoi famigli, riconosciuto all'osteria da chi lo avea veduto in Oriente, e ne fu portato l'avviso al duca, il quale spedì tosto nel dì 20 di dicembre gente armata a prenderlo, e il confinò in una sicura prigione. Non era già Leopoldo della gloriosa famiglia austriaca, la quale dopo la morte dell'ottimo Carlo VI imperador de' Romani, torna a rifiorire in Maria Teresa regina d'Ungheria e Boemia, sua figlia. Era egli poc'anzi tornato da Accon, dopo avere bravamente militato in quelle parti, ed avea, al pari di tant'altri, in quella occasione ricevuti non pochi strapazzi dal violento re inglese, principe che in alterigia e in isprezzar tutti sopravanzava chiunque si fosse. Venne il tempo di farne vendetta, benchè ciò fosse contro i privilegii della crociata; e parve che Dio [932] permettesse questo accidente per umiliarlo, ed anche per punirlo, se pur egli fu reo della morte del marchese Corrado. Gran rumore cagionò ancor questo fatto per tutta la cristianità; e chi l'approvò, e chi sommamente lo disapprovò, perchè egli infine era benemerito della crociata, e vi aveva impiegato gente e tesori non pochi. Diede fine nell'anno precedente ai pensieri secolareschi Aureo, ossia Orio Mastropetro doge di Venezia [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], con ritirarsi nel monistero di santa Croce a far vita monastica. In quest'anno nel dì primo di gennaio in luogo suo fu eletto doge Arrigo Dandolo, personaggio de' più illustri e benefici che s'abbia mai avuto quell'inclita repubblica.


   
Anno di Cristo MCXCIII. Indizione XI.
Celestino III papa 3.
Arrigo VI re 8, imperad. 3.

Continuò ancora in quest'anno la confusione in Puglia e in Terra di Lavoro [Richardus de S. German., in Chron. Anonymus Casinensis, in Chron.]. Bertoldo generale dell'imperadore cogli altri uffiziali cesarei, coll'abbate di Monte Casino, che, dimentico dei canoni, era divenuto guerriero, e coi conti di Fondi e di Caserta, prese varie castella. Ingrossò l'armata con tutti coloro che teneano la parte dell'imperadore, di modo che quantunque venisse di qua del Faro il re Tancredi con un grosso esercito, non lasciò di tener la campagna, anzi di andar a fronte dell'armata nemica a Monte Fuscolo. Erano inferiori molto di forze i cesarei; eppure si astenne Tancredi di venire a battaglia, perchè i suoi gli rappresentarono andarvi del suo onore, s'egli, essendo re, si cimentava con chi non era par suo. Assediò Bertoldo il castello di Monte Rodone. Una grossa pietra scagliata da un mangano lo stritolò. Nel generalato succedette a lui Corrado Moscaincervello, che, impadronitosi di quel castello, non lasciò vivo [933] alcuno degli abitanti. All'incontro il re Tancredi riacquistò la rocca di sant'Agata, Aversa, Caserta ed altre terre; e sentendosi poi aggravato da febbri, si ridusse verso il fine dell'anno in Sicilia, dove restò trafitto da inesplicabil dolore per la morte che gli rubò sul fior degli anni il primogenito suo, cioè il re Ruggieri. Questo colpo quel fu che sul principio dell'anno seguente fece tracollar la sanità dell'infelice Tancredi, il qual tenne dietro al figliuolo, e riempiè di pianto la Sicilia tutta, ben prevedendo ognuno le sinistre conseguenze di perdite cotanto inaspettate. Lasciò egli sotto la tutela della regina Sibilla sua moglie il secondogenito suo, cioè Guglielmo III, erede piuttosto di lagrimevoli disavventure, che della corona reale e di un bellissimo regno. Miracolo è che, secondo l'uso dei fallaci umani giudizii, niuno susurrò che questi principi fossero stati aiutati a sloggiare dal mondo. Siccome osserva il cardinal Baronio [Baron., in Annal. Ecclesiast.], incitato papa Celestino III in quest'anno da replicate forti lettere della regina d'Inghilterra Eleonora, madre del re Riccardo, che era prigione in Germania, finalmente s'indusse a minacciar le censure contra Leopoldo duca d'Austria, e contra dello stesso imperadore Arrigo, se non mettevano in libertà il fatto prigioniere, con trasgredire i capitoli e giuramenti della crociata. Ho detto anche Arrigo Augusto, perchè anche egli volle essere a parte di quella preda, con aver fissata la massima di ricavarne un grossissimo riscatto. Adduceva egli quella gran ragione, che un re non dovea star nelle carceri di un duca, e però o colle minacce o colle promesse di parte del guadagno, fatte al duca medesimo, gliel trasse di mano, con divenir egli principale in quest'affare, e con accusare dipoi Riccardo di varii insussistenti reati, fra i quali entrò il preteso assassinamento del marchese Corrado. Fu dunque proposto a Riccardo, se bramava la libertà, un enorme pagamento di danaro. A queste [934] disavventure del re inglese una più dolorosa si aggiunse, perchè Filippo re di Francia, sentiti in tal occasione più vigorosi i consigli dell'interesse che dell'onore, uscì armato in campagna, e cominciò ad occupar gli Stati che Riccardo possedeva di qua del mare.

Abbiamo dalla Cronica Cremonese [Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.] che fu guerra in quest'anno fra i Milanesi e Lodigiani. Aveano questi tirata una fossa dalla lor città sino al Lambro. Dovette ciò dispiacere ai Milanesi, i quali perciò venuti coll'esercito sul Lodigiano, la spianarono, bruciarono un tratto di paese, e condussero prigioni molti Lodigiani. Galvano Fiamma [Gualv. Flamma, in Manipul. Flor., cap. 225.] di ciò parla all'anno precedente, ma il Malvezzi [Malveccius, Chron. Brixian., c. 71, tom. 14 Rer. Ital.] ne scrive sotto il presente. Secondo questi autori, i Cremonesi collegati coi Lodigiani, e accampati nel territorio d'essi, si diedero a far delle scorrerie nel distretto di Milano. Uscirono in campagna anche i Milanesi, e diedero loro battaglia. Nel conflitto si sparse voce che venivano i Bresciani: laonde i Cremonesi pensarono più a fuggire che a combattere. Restò in mano de' Milanesi il loro carroccio. Ma son da ricevere con gran riguardo tali notizie, perchè Galvano Fiamma troppe altre cose narra o favolose, o accresciute oltre al dovere. Era stato podestà di Bologna nell'anno precedente Gherardo degli Scannabecchi vescovo di quella città [Matth. de Griffonibus, Annal. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.], e con lode aveva esercitato quel principesco uffizio. Continuò anche nel presente; ma più non piacendo il governo suo, furono ivi di nuovo creati i consoli; e perchè il vescovo non volea dimettere il comando, si fece una sollevazione contra di lui, per la quale fu assediato il palazzo episcopale, colla morte di molti. Il vescovo, fuggito per una cloaca travestito, ebbe la fortuna di mettersi in salvo. Genova [935] anch'essa provò i mali effetti della discordia civile [Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6 Rer. Ital.]. Tutto dì vi si commettevano omicidii e ruberie; e l'una famiglia dalla sua torre facea guerra all'altra. Durò questo infelice stato di cose fino all'anno seguente, in cui, fatto venir da Pavia Oberto da Olevano per loro podestà, questi, siccome persona di gran cuore e prudenza, diede buon sesto a tanti disordini. Era incorso nella disgrazia dell'imperadore Arrigo, e posto anche al bando dell'imperio, il popolo di Reggio di Lombardia, perchè avea costretto molti castellani dipendenti dall'imperio a giurar fedeltà e ubbidienza al loro comune: cosa praticata in questi tempi anche da altre città. Li rimise Arrigo in sua grazia nell'anno presente con diploma [Antiquit. Italic., Dissert. L.] dato Wirceburc XIV kalendas novembris, Indictione XI (indizione che non si doveva mutare nel settembre); ma con aver prima i Reggiani assoluto da' giuramenti que' vassalli imperiali, e restituiti i luoghi occupati. Passavano delle differenze fra i Bolognesi e Ferraresi. Furono in questo anno composte nel dì 10 di marzo nella villa di Dugliuolo, come costa dallo strumento da me pubblicato altrove [Ibidem, Dissert. XLIX.].


   
Anno di Cristo MCXCIV. Indizione XII.
Celestino III papa 4.
Arrigo VI re 9, imperad. 4.

Dopo sì lunga prigionia, finalmente sul principio di febbraio di quest'anno fu rimesso in libertà Riccardo re d'Inghilterra [Roger. Hovedenus, Guillelm. Neubrig., Abbas Urspergens. et alii.]. Gli convenne pagare cento mila marche ossia libbre d'argento, e promettere altra somma all'imperadore Arrigo, che la terza parte ne diede a Leopoldo duca d'Austria. In Inghilterra, per mettere insieme questo tesoro, che sembra quasi incredibile, furono venduti [936] fino i calici sacri: laonde per tale avania Arrigo si tirò addosso il biasimo e la indignazione universale. Intanto giunse la nuova d'essere mancato di vita il re Tancredi col figliuolo maggiore, e rimasto il regno di Sicilia in mano d'un re fanciullo, e sotto il governo di una donna, cioè della regina Sibilia, o Sibilla, sua madre. Che tempo propizio fosse questo per conquistare quegli Stati, più degli altri l'intese Arrigo Augusto; e trovandosi egli anche ben provveduto d'oro, gran requisito per chi vuol far guerra, s'affrettò a mettere insieme un possente esercito per la spedizion di Sicilia. Nel mese di giugno calò in Italia, e premendogli di aver sufficienti forze per mare alla meditata impresa, personalmente si trasferì a Genova, dove con larga mano regalò quel popolo di promesse in loro vantaggio. Si per vos, disse egli [Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6 Rer. Ital.], post Deum, regnum Siciliae acquisiero, meus erit honor, proficuum erit vestrum. Ego enim in eo cum Teutonicis meis manere non debeo; sed vos et posteri vestri in eo manebitis. Erit utique illud regnum non meum, sed vestrum. Con degli ampli privilegii ancora, ben sigillati, confermò loro questi monti d'oro. Non è dunque da stupire se i Genovesi fecero un grande sforzo di gente e di navi per secondare i disegni dell'imperadore. Portossi Arrigo anche a Pisa verso la metà di luglio, ed impetrò da quel popolo un altro stuolo di navi. Ho io dato alla luce un suo diploma [Antiquit. Ital., Dissert. L.], emanato nell'anno precedente, in cui, oltre al confermare tutte le lor giurisdizioni e varii privilegii, concede anche loro in feudo la metà di Palermo, di Messina, di Salerno e Napoli, e tutta Gaeta, Mazara e Trapani: tutte belle promesse per deludere quei popoli poco accorti, ed averne buon servigio. In Pisa si trovarono i deputati di Napoli, che gli promisero di rendersi al primo arrivo dell'imperiale armata. Con [937] questa dunque s'inviò egli per la Toscana alla volta della Puglia e di Terra di Lavoro [Richardus de S. Germano. Anonymus Casinens. Johann. de Ceccano, Chron.]. Piuttosto verso il principio che sul fine d'agosto arrivato colà, le più delle città corsero ad arrendersi. Atinio e Rocca di Guglielmo tennero forte. Capoa ed Aversa nè si renderono, nè furono assediate. Se si vuol credere ad Ottone da San Biagio [Otto de S. Blasio.], che con errore ciò riferisce all'anno 1193, Arrigo, fatto dare il sacco a tutte le città della Campania e della Puglia, le distrusse, e massimamente Salerno, Barletta e Bari, con asportarne un immenso bottino. Ma della sovversione di tante città non parlando nè l'Anonimo Casinense, nè Riccardo da San Germano, benchè si potesse sospettare che tacessero per paura di chi allora comandava in Sicilia, pure non è credibile tutto quanto narra quello scrittore, specialmente stendendo egli queste crudeltà a tutte le città di quelle contrade. Fuor di dubbio è che Arrigo fece assediar Gaeta, e che colà nello stesso tempo arrivò la flotta de' Genovesi. Non volle quella città far lunga resistenza all'armi cesaree, e si rendè a Marquardo siniscalco dell'imperadore, a Guglielmo marchese di Monferrato, e ad Oberto da Olevano podestà e generale de' Genovesi. Passò dipoi l'esercito e la flotta nella vigilia di san Bartolommeo a Napoli, città che si rendè tosto all'imperadore, e gli giurò fedeltà, siccome ancora Ischia, ed altre isole e terre. La rabbia maggiore dell'Augusto Arrigo intanto era contra de' Salernitani, per aver essi tradita l'imperadrice Costanza sua moglie. E però inviò il suddetto Guglielmo marchese ad assediar quella ricca e nobil città [Radulph. de Diceto, Imag. Histor.]. Tuttochè quei cittadini facessero una valorosa difesa, pure non poterono lungamente resistere agli assalti del marchese, il quale poscia, per ordine di Arrigo, infierì contra d'essi, con levar la [938] vita a moltissimi, permettere il disonor delle donne, imprigionare e tormentar altri, e bandire i restanti. Tutto fu messo a sacco, e poscia senza perdonare alle chiese, restò interamente smantellata la città che da lì innanzi non potè più risorgere all'antico splendore. Per la Calabria s'inoltrò l'esercito cesareo, e, passato il Faro, giunse a Messina, che tosto se gli diede. Che ciò accadesse sul fine di agosto si può argomentar dagli Annali di Genova, che dicono arrivata a Messina la lor flotta nel dì primo di settembre; tempo in cui quella città era già pervenuta alle mani dell'imperadore.

Questi vittoriosi progressi furono allora turbati da un accidente occorso fra i Genovesi e i Pisani. L'odio fra queste due emule nazioni, originato dalla gara dell'ambizione, e più da quella dell'interesse, era passato in eredità; e si potea ben con tregue e paci frenare, ma per poco tornava a divampare in maggiori incendii. Appena si trovarono le lor flotte a Messina, che vennero alle mani, e nel lungo conflitto molti dei Pisani vi restarono o morti o feriti. Per questo gli altri Pisani, che erano nella città, corsero al fondaco de' Genovesi, e gli diedero il sacco, con asportarne molto danaro. Altrettanto fecero alle case dove si trovarono de' Genovesi, molti ancora de' quali furono fatti prigioni. Ciò inteso dai Genovesi, che stavano nelle navi, infuriati corsero a farne vendetta sopra le galee pisane, e tredici ne presero, con tagliare a pezzi molti de' Pisani. S'interpose Marquardo imperial siniscalco, e riportò dalle parti giuramento di restituire il maltolto, e di non più offendersi. Eseguirono la promessa i Genovesi. Poco o nulla ne fecero i Pisani, che godeano miglior aura alla corte; anzi fecero nuovi insulti per le strade ai Genovesi, e presero una lor ricca nave che veniva di Ceuta. Per tali affronti e danni morì di passione il podestà e generale de' Genovesi Oberto da Olevano. Allorchè si seppe in Palermo la resa di Messina, la [939] regina Sibilla si fortificò nel palazzo reale, e il fanciullo re Guglielmo si ritirò nel forte castello di Calatabillotta. Allora i Palermitani spedirono all'imperadore Arrigo, invitandolo alla lor città. Così l'Anonimo Casinense. Ma, secondo gli Annali Genovesi, pare che i Palermitani resistessero un tempo, e si facessero pregare per ammetterlo. Intanto i Genovesi accorsero in aiuto di Catania, che s'era data all'imperadore, e trovavasi allora assediata dai Saraceni abitanti in Sicilia, siccome fautori della fazion di Tancredi, e la liberarono. Presero poi per forza la città di Siracusa. Tengo io per fermo che l'Anonimo Casinense e Riccardo da San Germano per politica parlarono pochissimo di questi affari, che pur furono sì strepitosi, mettendo un velo sopra molte iniquità e crudeltà di Arrigo. Non mancò egli di addormentare con graziosissime promesse i Palermitani [Johann. de Ceccano, Richardus de S. Germano.]. Il magnifico di lui ingresso in quella città ci vien descritto da Ottone da San Biagio [Otto de S. Blasio, in Chron.]. Ma perchè conobbe dura impresa l'impadronirsi del regal palazzo, e del castello di Calatabillotta, mandò alcuni suoi ministri a trattare colla regina Sibilla, con cui, secondo il suo costume, fu liberalissimo di promesse: cioè impegnò la sua parola di concedere a Guglielmo di lei figliuolo la contea di Lecce, e di aggiugnervi il principato di Taranto; condizioni che furono da lei abbracciate, perchè già vedea disperato il caso di potersi sostenere. Diede dunque sè stessa e il figliuolo in mano di Arrigo, il quale non sì tosto fu padrone del palazzo regale, che lo spogliò di tutte le cose preziose, e lasciò il sacco del resto ai soldati. Secondo gli scrittori moderni siciliani, Arrigo si fece coronare re di Sicilia nella cattedral di Palermo. Non truovo io di ciò vestigio alcuno presso l'Anonimo Casinense, nè presso Riccardo da San Germano. Ne parla bensì [940] Radolfo da Diceto, che il dice coronato nel dì 23 di ottobre. Rocco Pirro rapporta un suo diploma, dato Panormi III idus januarii, Indictione XIII, anno MCXCV [Pyrrhus, Chronolog. Reg. Sicil. et in Notit. Ecclesiast. Panor.], dove, parlando della chiesa di Palermo, dice: In qua ipsius regni coronam primo portavimus. Ma falla esso Pirro in iscrivere che tal coronazione seguì nel dì 30 di novembre dell'anno 1195. Se il diploma da lui poco fa accennato, e dato nel dì 11 di gennaio dell'anno 1195, la suppone già fatta, come differirla al novembre dell'anno medesimo? Oltre di che, nel novembre del 1195 Arrigo non era più in Sicilia. Sicchè egli dovette esser coronato in Palermo o nell'ottobre o nel novembre del presente anno 1194. Neppure sussiste il dirsi da Rocco Pirro che l'imperadrice Costanza ricevette anche essa la corona in tale occasione. Abbiamo da Riccardo da San Germano che in quest'anno imperatrix Exii civitate Marchie filium peperit nomine Fredericum mense decembri in festo sancti Stephani. Non era ella dunque giunta per anche in Sicilia, e da Jesi non si potè partir così presto, come ognun comprende.

E qui si noti la nascita di questo principe, che fu poi Federigo II imperadore, della cui nascita, e del luogo dove Costanza Augusta il partorì molte favole si leggono presso gli storici lontani da questi tempi. V'ha anche disputa intorno all'anno della sua nascita. Ma, oltre al suddetto Riccardo, l'Anonimo Casinense [Anonymus Casinens., in Chron.] e Alberto Stadense [Albert. Stadens., in Chron.], il fanno nato nel fine dell'anno presente, perchè il loro anno 1195, cominciato nel dì della Natività del Signore, abbraccia la festa di santo Stefano di quest'anno 1194. Finalmente nella vita d'Innocenzo III papa [Vita Innocentii III, num. 19.] troviamo che i principi in Germania nell'anno 1196 elessero re [941] Federigo II puerum vix duorum annorum, et nondum sacri baptismatis unda renatum: il che ci assicura doversi riferire all'anno presente la nascita d'esso Federigo. Qual fosse la coscienza ed onoratezza dell'imperadore Arrigo VI lo scorgeremo ora. Dopo aver tanto speso e faticato per lui i Genovesi, richiesero il guiderdone loro promesso, cioè il possesso di Siracusa e della valle di Noto [Caffari, Annal. Genuens., lib. 3.]. Andò Arrigo per qualche tempo allegando varie scuse, e pascendo quel popolo di varie speranze. La conclusione finalmente fu, che non solamente nulla diede loro del pattuito, ma levò ad essi ancora tutti i diritti e privilegii goduti da loro sotto i re precedenti in Sicilia, Calabria, Puglia, e in altri luoghi. Proibì sotto pena della vita ai Genovesi il dar nome di console ad alcuno in quelle parti. Anzi minacciò d'impedir loro l'andar per mare, e giunse fino a dire che distruggerebbe Genova. Il continuatore di Caffaro non potè contenersi dal chiamarlo un nuovo Nerone, per così orrida mancanza di fede. Certo è che neppure i Pisani riportarono un palmo di terra in Sicilia, e sparvero agli occhi ancora di questi gli ampli Stati che si leggono promessi loro nel diploma di sopra accennato. E pur poco fu questo. Nel giorno santo di Natale tenne un solenne parlamento di tutto il regno in Palermo, e quivi cacciò fuori delle lettere, credute dai più di sua invenzione, dalle quali appariva una cospirazione formata contra di lui da alcuni baroni del regno. Dopo di che fece mettere le mani addosso a moltissimi vescovi, conti e nobili, e cacciar in prigione anche la stessa vedova regina Sibilla, ossia Sibilia, e il figliuolo Guglielmo, fintamente da lui proclamato conte di Lecce e principe di Taranto, dimenticando il bell'atto del re Tancredi, che gli avea restituita la moglie Costanza, e mettendosi sotto i piedi la fede e le promesse date alla regina e al figliuolo. Alcuni d'essi baroni furono accecati, altri impiccati, altri fatti morir [942] nelle fiamme, e il resto mandato e condotto in Germania in esilio. Anche Ottone da San Biagio fa menzione di queste crudeltà, accennate parimente da Giovanni da Ceccano e da Innocenzo III papa in una sua lettera, prevedute ancora da Ugo Falcando sul principio della sua Storia, che dovettero fare un grande strepito per tutta l'Europa. Fece fino aprire il sepolcro di Tancredi e del figliuolo Ruggieri, e strappar loro di capo la corona regale. Sicardo, vescovo allora di Cremona, e parziale d'Arrigo, scrive che i Siciliani se la meritarono, per aver tese insidie allo imperadore. Ma sarebbe convenuto accertarsi prima se sussisteva la congiura; poichè per conto dell'aver eglino preferito Tancredi a Costanza contra del loro giuramento, non aveano essi operato ciò senza l'approvazione del romano pontefice, al quale apparteneva il disporre di quel regno, come di feudo della santa Sede. Vuole il padre di Pagi che non sussista tanta barbarie dell'Augusto Arrigo in Sicilia, citando in pruova di ciò Giovanni da Ceccano. Ma questo medesimo autore è buon testimonio dell'inumanità d'Arrigo VI.


   
Anno di Cristo MCXCV. Indizione XIII.
Celestino III papa 5.
Arrigo VI re 10, imperad. 5.

Dopo avere Arrigo Augusto sfogato in parte il suo crudel talento contra gli aderenti del fu re Tancredi, venne in Puglia, dove tenne un gran parlamento di baroni. Trovavasi nella corte di Sicilia Irene vedova del giovane re Ruggieri figliuolo di Tancredi. La trovò assai avvenente Filippo fratello dell'imperadore; e forse pensando egli che questa principessa potesse anche portar seco dei diritti d'importanza, per essere figliuola d'un greco imperadore, la prese per moglie [Conrad. Abbas Urspergens., in Chron.] di consentimento di Arrigo, che allora gli diede a godere il ducato della Toscana, e i beni della fu contessa Matilda. Vedesi [943] presso il Margarino [Bullar. Casinens., tom. 2, Const. CCXVIII.] un diploma d'esso Filippo coi titoli suddetti, spedito in san Benedetto di Polirone nel dì 31 di luglio, trovandosi egli in quel monistero. Dopo aver tenuto in Puglia il parlamento suddetto, ed inviata l'imperadrice in Sicilia, prese Arrigo la strada di terra, per tornarsene in Germania. Convengono tutti gli scrittori in dire ch'egli per mare e per terra mandò in Germania innumerabili ricchezze; tutte spoglie de' miseri Siciliani e del regale palazzo di Palermo. Arnoldo da Lubeca scrive [Arnol. Lubec, lib. 4, cap. 20.] ch'egli reperit thesauros absconditos, et omnem lapidum pretiosorum et gemmarum gloriam, ita ut oneratis centum sexaginta somariis (cavalli o muli da soma) auro et argento, lapidibus pretiosis, et vestibus sericis, gloriose ad terram suam redierit. Bella gloria al certo guadagnata con tanti spergiuri, coll'ingratitudine, colla barbarie, e con lasciare in Sicilia un incredibil odio e mormorazione contra della sua persona. Oltre ad assaissimi baroni prigionieri, ed oltre agli ostaggi di varie città, fra' quali fu l'arcivescovo di Salerno, seco egli menò la sfortunata regina Sibilla con tre figliuole e col figliuolo Guglielmo, e li tenne poi sotto buona guardia chiusi in una fortezza. Crede il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron. ad hunc annum.] che Arrigo solamente nel Natale dell'anno presente imperversasse contra de' Siciliani, e poscia se ne tornasse in Germania. Ma Giovanni da Ceccano [Johann., de Ceccano, Chron. Fossaenovae.] parla del Natale dell'anno precedente. Ed Arrigo in quest'anno venne a Pavia, e di là passò in Germania, come si ha dagli Annali genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom 6 Rer. Italic.] e da altri autori. Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.] cita un suo diploma dato in Vormazia IV kalendas decembris, Indictione XIIII, anno Domini MCXCV. L'indizione è quivi mutata nel settembre. Anche il Sigonio accenna [944] un suo diploma, dato VII kalendas junias apud burgum sancti Donnini, anno MCXCV, regni Siciliae primo [Sigon., de Regno Ital., lib. 15.]. Lasciò esso Arrigo per suo vicario, ossia per vicerè nel regno di Sicilia il vescovo d'Ildeseim già suo maestro, che fra tanti suoi studii non dimenticò quello di far danaro per quanto potè. In quest'anno il celebre Arrigo Leone, già duca di Sassonia e Baviera, della linea estense di Germania, terminò i suoi giorni in Brunsvic, città restata a lui con altre adiacenti dopo il terribil naufragio di sua grandezza. Ma in questo medesimo anno essendo morto Corrado conte palatino del Reno, zio paterno dell'Augusto Arrigo, succedette ne' di lui Stati Arrigo, uno de' figliuoli di esso Arrigo Leone, perchè marito dell'unica figliuola del medesimo Corrado: sicchè in qualche maniera tornò a rifiorire in Germania la potenza de' principi estensi-guelfi. Nè si dee tacere che l'imperadore Arrigo suddetto in quest'anno creò e confermò duca di Spoleti Corrado Moscaincervello, e dichiarò duca di Ravenna e marchese d'Ancona Marquardo. È considerabile lo strumento di concordia seguita fra lui e il popolo di Ravenna, di cui Girolamo Rossi ci ha conservato la memoria. Da esso apparisce che anche Ravenna si governava in repubblica, ed avea il suo podestà, e giurisdizione, e rendite; ma doveano al duca restar salve le regalie, quas imperator, et ipse Marchoaldus in civitate Ravennae et ejus districtu habere consuevit. La terza parte di Cervia apparteneva ad esso Marquardo o Marcoaldo, un'altra all'arcivescovo, e un'altra al comune di Ravenna, che partivano insieme le intrate massimamente del sale.

Racconta il continuatore di Caffaro che i Pisani, trovandosi in favorevole stato alla corte imperiale, seguitarono in questi tempi a recar insulti, danni e ingiurie ai Genovesi, e rifabbricarono anche, ad onta di essi, il castello di Bonifazio in Corsica, che divenne un nido di [945] corsari, fingendo di non esserne eglino padroni. Non potendo più reggere a tali strapazzi il popolo genovese, spedì in Corsica con varii legni un corpo di combattenti, che a forza d'armi entrarono in Bonifazio, e vi si fortificarono. Presero dipoi varie navi pisane, ed altri danni inferirono a quella nemica nazione, della quale in questi tempi ci manca l'antica istoria. Spedirono anche i Genovesi Bonifazio loro arcivescovo, e Jacopo Manieri lor podestà a Pavia all'imperadore, che prima di passare in Germania soggiornava nel monistero di San Salvatore fuori della città, per ricordargli le promesse lor fatte e confermate con un solenne diploma. Si accorsero in fine, nulla essere da sperare da un principe che niun conto faceva della sua fede. Dissi già che esso Augusto avea conceduto Crema al popolo cremonese. Anche nell'anno presente a dì 6 di giugno [Antiquit. Italic., Dissert. XI, pag. 621.] lo stesso imperadore Arrigo confermò ai medesimi Cremonesi col gonfalone l'investitura di tutti i loro Stati, fra' quali anche la terra di Crema era compresa. Ma perchè di questa erano in possesso i Milanesi per concessione e diploma di Federigo I Augusto padre del regnante, nè si sentivano essi voglia di cedere una sì riguardevol terra, restò fin qui ineffettuata la concessione d'Arrigo. Probabilmente cadde ancora in quest'anno un altro documento, da me dato alla luce [Ibidem, Dissert. L.] colle note guaste, da cui apparisce che avendo Giovanni Lilò d'Hassia, messo e camerlengo dello imperadore Arrigo, mandato a prendere la tenuta d'essa Crema, non era stato ammesso il suo deputato, e però egli mette al bando dell'imperio i Cremaschi, Milanesi e Bresciani per tal disubbidienza. Quell'atto fu fatto in Cremona anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi MCXC, Indictione XIII, die Mercurii tertiodecimo intrante junio. Ma conviene all'anno presente, in cui correa la [946] Indizione XIII; se non che il dì 13 di giugno non era in mercordi. Dalla Cronichetta Cremonese [Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.] abbiamo che in quest'anno fu qualche guerra fra essi Milanesi e Cremonesi, e che restarono prigioni alquanti degli ultimi.


   
Anno di Cristo MCXCVI. Indizione XIV.
Celestino III papa 6.
Arrigo VI re 11, imperad. 6.

Per le crudeltà loro usate dall'imperadore Arrigo andavano tutto di i Siciliani e Pugliesi, massimamente di nazione normanna, meditando rivoluzioni; e verisimilmente accaddero non poche sollevazioni e sconcerti in quelle contrade, delle quali ci dan qualche barlume, ma non già una chiara notizia, gli antichi storici. A tali avvisi lo spietato Arrigo (ne è incerto il tempo) fece cavar gli occhi agi' innocenti ostaggi che erano in Germania, fuorchè a Niccolò arcivescovo di Salerno. Or mentre si trovava esso Arrigo in Germania, fu gagliardamente sollecitato da papa Celestino III a portare soccorsi in Terra santa. Ci è permesso di credere che si prevalesse egli di questa occasione per muovere i popoli della Germania a prendere l'armi, col fine di valersene egli prima a gastigare i popoli di Sicilia e Puglia, siccome avea fatto nell'anno 1194, in cui sappiamo ch'egli si servì d'alcune migliaia di pellegrini crociati, che erano in viaggio verso la Soria, per conquistar la Puglia e Sicilia. Infatti raunò una possente armata. Ma prima di muoversi alla volta d'Italia, tenne una general dieta [Godefridus Monachus, in Chron.], in cui tanto si adoperò, che indusse que' principi ad eleggere re de' Romani e di Germania il suo figliuolo Federigo II, ancorchè appena giunto all'età di due anni, e non per anche battezzato. Ciò fatto, venne in Italia. Egli si truova in Milano secundo idus augusti, come consta da un [947] suo diploma, dato, nell'anno presente, presso il Puricelli [Puricellius, Monument. Basilic. Ambros.]. Poscia il vediamo in Piacenza VI idus septembris, ciò apparendo da un altro suo diploma pubblicato dal Campi [Campi, Istor. di Piacenza, tom. 2.]. Da tre altri, che si leggono nel Bollario Casinense [Bullar. Casinens,, Constit. CCXX, et seq.], impariamo ch'egli era in Monte Fiascone XIII kalendas novembris, e in Tivoli XVI kalendas decembris. Per attestato di Giovanni da Ceccano [Johannes de Cercano, Chron. Fossaenovae.], nell'ultimo giorno di novembre arrivò a Ferentino, e vi dimorò sette giorni, mostrando, secondo il suo finto animo, pensieri di pace e di equità. Se n'andò poscia a Capoa, nelle cui prigioni trovò il valoroso, ma sfortunato Riccardo conte di Acerra, che poco prima, nel voler fuggire per prevenir l'arrivo d'esso Augusto, tradito da un monaco bianco, cadde nelle mani di Diopoldo uffiziale cesareo [Richardus de S. Germano, in Chron.]. Il fece giudicare, e poi tirare a coda di cavallo pel fango di tutte le piazze, e finalmente impiccar per li piedi, finchè morisse; nè il suo cadavero fu rimosso dalla forca, se non dappoichè giunse la nuova della morte d'esso Augusto nell'anno seguente. Dopo la festa del Natale s'incamminò verso la Sicilia. Essendo in questo mentre mancato di vita senza figliuoli Corrado suo fratello duca di Alemagna, ossia di Suevia [Otto de S. Blasio, in Chron.], diede quel ducato all'altro suo fratello Filippo, dianzi dichiarato duca di Toscana, e mandollo a prenderne il possesso: il che fu da lui volentieri eseguito, con tener una corte solenne in Augusta nell'agosto dell'anno presente. Abbiamo ancora da Riccardo di San Germano che Arrigo, prima di giugnere in quelle contrade, anzi stando in Germania, avea spedito il vescovo di Vormacia per suo legato in Italia. Andò questo prelato a Napoli col guerriero abbate di Monte Casino, e con molte squadre di soldati italiani e tedeschi, et imperiale implens [948] mandatum, Neapolis muros et Capuae funditus fecit everti. Per assicurarsi di quel regno, altro ripiego non volle adoperar questo Augusto, che quello del rigore e terrore, duri maestri del ben operare. Coi benefizii e non colla crudeltà si guadagnano i cuori de' popoli.

Ebbero in quest'anno i Genovesi per loro podestà Drudo Marcellino [Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6 Rer. Ital.], uomo di petto, che con vigore esercitò la sua balia, non la perdonando a malfattore alcuno, e gastigando tutta la gente inquieta; talchè rimise in buono stato quella sì discorde città. Fra l'altre sue prodezze, perchè molti cittadini contro i pubblici divieti aveano fabbricate torri altissime, delle quali poi si servivano a far guerra ai lor vicini nemici, intrepidamente le fece abbassare, riducendole tutte alla misura d'ottanta piedi d'altezza. La continuata dissensione e guerra che in questi tempi bolliva fra essi Genovesi e Pisani, dispiacendo al paterno cuore di papa Celestino III, cagion fu ch'egli inviasse a Genova per suo legato Pandolfo cardinale della basilica de' dodici Apostoli, per trattar di pace. Fra i deputati dell'una e dell'altra città alla presenza di lui si tenne un congresso in Lerice sul principio d'aprile. Questo, per cagion della vicina Pasqua, si sciolse senza frutto, e fu rimesso ad altro tempo. Prevalendosi di tal dilazione i Pisani, segretamente spedirono in Corsica uno stuolo di navi, credendosi di poter levare il castello di Bonifazio ai Genovesi, ma lo ritrovarono ben guernito. A questo rumore accorsero ancora i Genovesi con una bella armata di mare, e andarono a sbarcare e a postarsi in Sardegna nel giudicato di Cagliari, di cui era allora padrone il marchese Guglielmo (di qual casa, io non so dire). Raunò questo marchese un esercito di Sardi, Catalani e Pisani, per isloggiare i Genovesi; ma ne riuscì tutto il contrario. Fu messo in fuga coi suoi, e la sua bravura gli costò l'incendio del [949] suo palagio e d'altri ancora. Dopo di che i Genovesi se ne tornarono a Bonifazio. Tentarono un'altra volta i Pisani d'assediar quel castello, ma indarno. Vennero anche a battaglia le flotte pisana e genovese, ma con poco divario nella perdita. A quest'anno il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 15.] e il Rossi [Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 6.] riferiscono il matrimonio di Azzo V, figliuolo di Obizzo marchese di Este con Marchesella degli Adelardi. Ho io provato [Antichità Estensi, P. I, cap. 36.] che molto prima di questi tempi dovettero accader queste nozze: nozze di somma importanza per la linea estense d'Italia, perchè aprirono alla nobilissima casa dei marchesi estensi la porta per signoreggiare in Ferrara [Richobald., in Pomario.]. Abbiam veduto di sopra all'anno 1174 qual fosse la potenza e riputazione di Guglielmo Adelardi, soprannominato della Marchesella, per cui valore fu liberata Ancona dall'assedio. Egli era principe della fazion guelfa in Ferrara; giacchè erano nate e andavano crescendo le fazioni de' Guelfi e de' Ghibellini. Salinguerra figliuolo di Taurello, ossia Torello, era il capo dell'altra fazione. Morto egli, e mancato parimente di vita Adelardo suo fratello, e rimasta erede dell'immensa loro eredità Marchesella figliuola di Adelardo, fu questa sposata al suddetto Azzo estense, acciocchè egli sostenesse il partito de' Guelfi in quella città. Da lì innanzi i marchesi d'Este, signori del Polesine di Rovigo, di Este, Montagnana, Badia, e d'altre nobili terre, cominciarono ad aver abitazione in Ferrara, e a far figura di capi della fazion guelfa non solo in essa città, ma anche per tutta la marca di Verona, di modo che lo stesso era dire la parte marchesana, che la parte guelfa.

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Anno di Cristo MCXCVII. Indizione XV.
Celestino III papa 7.
Arrigo VI re 12, imperad. 7.

Le più strepitose avventure dell'anno presente furono in Sicilia; ma per disavventura non han voluto raccontarle per qualche politico riguardo gli antichi scrittori italiani di quelle parti, che erano sudditi di Federigo II Augusto, figliuolo di Arrigo VI imperadore. Più ne han parlato gli scrittori inglesi e tedeschi, ma non senza mio timore ch'essi lontani ingannati dalle dicerie, possano ingannare ancor noi. Scrive adunque Arnoldo da Lubeca [Arnold. Lubec, Chron., lib. 5, cap. 2.] che, giunto in Sicilia l'Augusto Arrigo, vi fu occupato da molte traversie e battaglie, perciocchè constava del tradimento dell'imperadrice Costanza sua moglie, e degli altri nobili di quelle contrade. Perciò, raunata gran gente a forza di danaro, d'essi congiurati ben si vendicò, dopo averli fatti prigioni. A colui che era stato creato re contra di lui, fece conficcare in capo una corona con acutissimi chiodi; altri nobili condannò alla forca, al fuoco e ad altri supplizii. Poscia in un pubblico parlamento perdonò a chiunque aveva avuta mano in quella cospirazione, e talibus alloquiis multam gratiam illius regni invenit, et de cetero terra quevit. Che l'imperadrice Costanza mirasse di mal occhio le crudeltà del marito contra de' poveri siciliani, e massimamente del sangue normanno, si può senza fatica credere, perchè era nata in Sicilia, e Normanna di nazione, e si riconosceva anche obbligata alla famiglia di Tancredi, perchè sì generosamente rimessa da lui in libertà. Finalmente suo era quel regno, e non del marito, nè potea piacerle ch'egli lo distruggesse col macello di tanta nobiltà, e con votarlo di tutte le ricchezze per portarle in Germania. Ma non è mai credibile che, avendo ella un figliuolo, potesse consentire che altri si mettesse in [951] testa quella corona. Par dunque più probabile che l'imperadrice fosse in sospetto al marito Augusto d'aver parte in quelle sollevazioni, ma non già ch'ella ne restasse convinta. E però convien sospendere la credenza in parte di quello che scrive Ruggieri Hovedeno [Rogerius Hovedenus, Annal.], storico inglese, e perciò nemico d'Arrigo, con dire che Arrigo prese i magnati della Sicilia, e parte ne imprigionò, parte dopo varii tormenti fece morire. Aveva dianzi dato il ducato di Durazzo e il principato di Taranto a Margarito, ossia Morgaritone, grande ammiraglio. Questa volta il fece abbacinare ed eunucare. Per le quali inumanità l'imperadrice Costanza fece lega colla sua gente contra dell'Augusto consorte; e, venuta a Palermo, prese i tesori dei re suoi antenati; dal che incoraggiti i Palermitani, uccisero gran copia di Tedeschi. L'imperadore fuggendo si racchiuse in una fortezza, con pensiero di ripatriare, se gli veniva fatto; ma i suoi nemici gli aveano serrati i passi. Credane ciò che vuole il lettore. Sicardo storico italiano [Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.], e allora vivente, scrive che Margaritone fu accecato da Arrigo nell'anno 1194, e non già nel presente. Che in Sicilia fossero e congiure e rumori o nel precedente, o nel corrente anno, ammettiamolo pure. Ma che Arrigo, ito colà con un'armata di sessanta mila combattenti fosse ridotto in quello stato, non ha molto di verisimile. Meno ne ha che la imperadrice a visiera calata impugnasse il marito. Riceva dunque il lettore come meglio fondato il racconto di Gotifredo monaco, di cui sono le seguenti parole all'anno presente: Imperator in Apulia moratur. Ibi quosdam principes, qui in necem ejus conspirasse dicebantur, diversis poenis occidit. Rumor etiam de eo ac de imperatrice Constantia varia seminat, scilicet quod ipse in variis eventibus praeventus, etiam in vitae periculo saepe constitutus sit; quod imperatricis voluntate [952] semper fieri vulgabatur [Godefridus Monachus, in Chron.]. Quetati i rumori della Sicilia, e riconciliato l'imperadore Arrigo colla moglie, allora egli permise che la gran flotta de' pellegrini, desiderosi di segnalarsi in Terra santa, sciogliesse le vele, con aggiugnervi egli alcune delle sue squadre, e dar loro per condottiere Corrado vescovo di Wirtzburgo suo cancelliere. Andarono, fecero alquante prodezze in quelle parti; più ancora n'avrebbono fatto, se non fosse giunta la morte dell'imperadore, che sbandò tutti i principi tedeschi, volendo ciascuno correre a casa, per intervenire all'elezion del nuovo Augusto. Succedette essa morte nella seguente forma, che si ha da Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.]. Fece Arrigo venire a sè l'imperadrice Costanza sua moglie, e mentre essa era nel palazzo di Palermo, Guglielmo castellano di Castro-Giovanni si ribellò all'imperadore. Portossi in persona Arrigo all'assedio di quella fortezza, e, quivi stando, fu preso da una malattia, a cagion della quale condotto (per quanto s'ha da Giovanni da Ceccano [Johann, de Ceccano, Chron. Fossaenovae.] e dall'Hovedeno [Rogerius Hovedenus.]), a Messina, quivi terminò i suoi giorni nella vigilia di san Michele, cioè nel dì 28 di settembre. Altri dicono nella festa di san Michiele, altri nel dì quinto d'ottobre, e negli Annali Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 4.] la sua morte è riferita nell'ultimo dì di settembre.

Voce corse ch'egli morisse attossicato dalla moglie, a cui si attribuiscono tutte le traversie patite dal marito; ma Corrado abbate Urspergense la giustifica di tal taccia con dire: Quod tamen non est verisimile. Et qui cum ipso (Augusto) eo tempore erant familiarissimi, hoc inficiabantur. Audivi ego id ipsum a domno Conrado, qui postmodum fuit abbas praemonstratensis, et tunc in saeculari habitu constitutus, in camera imperatoris exstitit [953] familiarissimus [Abbas Urspergensis, in Chron.]. Non so io qual fede meriti l'Hovedeno, allorchè scrive che Arrigo morì scomunicato da papa Celestino III per non avere restituito il danaro indebitamente estorto a Riccardo re d'Inghilterra, e perciò proibì il papa che se gli desse sepoltura in luogo sacro, tuttochè l'arcivescovo di Messina molto si adoperasse per ottenerlo. Aggiugne che lo stesso arcivescovo venne da Roma per questo, e di tre cose fece istanza. La prima, che fosse permesso il seppellire esso Augusto: al che rispose papa Celestino di non poterlo concedere senza consentimento del re d'Inghilterra, e restituito prima il maltolto. La seconda, che facesse ritirare i Romani che aveano assediato Marquardo nella marca di Guarnieri, cioè d'Ancona: il che dovette succedere dopo la morte dell'imperadore. E la terza, che permettesse la coronazione del piccolo Federigo in re di Sicilia. Sono sospetti gli scrittori inglesi in parlando di questo imperadore. Nondimeno anche Galvano Fiamma [Gualvanus Flamma, in Manipul. Flor.] lasciò scritto che egli morì scomunicato. Quel ch'è più, vedremo che anche papa Innocenzo III il pretese scomunicato da esso papa Celestino. Forse implicitamente si pretendea incorso Arrigo nella scomunica per la violenza usata al re d'Inghilterra; ma che espressamente fossero fulminate contra di lui le censure, non si truova in altre memorie d'allora. All'incontro Ottone da san Biagio, dopo aver notata la morte d'Arrigo in Messina, soggiugne: Ibidem cum maximo totius exercitus lamento cultu regio sepelitur [Otto de S. Blasio, in Chron.]. Sono ancora di Sicardo storico e vescovo, allora vivente, le seguenti parole: Anno Domini MCXVCII reversus imperator in Italiam, in Sicilia mortuus est et sepultus [Sicard., in Chron.]. E l'Abbate Urspergense discorda bensì nel luogo della sepoltura, ma questa ce la dà [954] per certa, scrivendo [Abbas Urspergens., in Chron.]: Henricus imperator obiit in Sicilia, et in ecclesia panormitana magnifice est sepultus; nè alcun di essi parla di scomunica. Comunque sia, la morte di questo Augusto fu sommamente compianta dai Tedeschi, che l'esaltano forte, per avere stesi i confini dell'imperio, e portati dalla Sicilia in Germania immensi tesori; ma all'incontro essa riempiè d'allegrezza tutti i popoli della Sicilia, e d'altri paesi d'Italia, che l'aveano provato principe crudele e sanguinario, nè gli davano altro nome che di tiranno. Odasi Giovanni da Ceccano [Johann, de Ceccano, Chron. Fossaenovae.]:

Omnia cum papa gaudent de morte tyranni.

Mors necat, et cuncti gaudent de morte sepulti,

Apulus, et Calaber, Siculus, Tuscusque, Ligurque.

Certo è che la morte di questo principe portò una somma confusione nella Germania, e si tirò dietro un fiero sconvolgimento e una gran mutazione di cose anche in Italia, siccome andremo vedendo. Per lume intanto di quel che poscia avvenne, considerabile è una notizia a noi conservata dall'autore della vita di Innocenzo III papa [Vita Innocentii III, P. I, tom. 3 Rer. Italic.]. Scrive egli che dopo la rotta data, siccome vedremo, nell'anno 1200 a Marquardo marchese di Ancona, si trovò fra' suoi scrigni il testamento del suddetto imperadore Arrigo VI, con bolla d'oro, che ora si legge stampato da me e da altri. In esso ordinava egli che Federigo Ruggieri suo figliuolo riconoscesse dal papa il regno di Sicilia; e mancando la moglie e il figliuolo senza erede, esso regno tornasse alla Chiesa romana. Che se il papa confermasse al figliuolo Federigo l'imperio, in ricompensa si restituisse alla Chiesa stessa tutta la terra della contessa Matilda, a riserva di Medicina e di Argelata sul Bolognese. Ordinò ancora a Marquardo, ut ducatum ravennatem, terram Brictinori, marchiam Anconae recipiat a domino papa, et romana Ecclesia, et recognoscat etiam [955] ab eis Medisinam et Argelata. E mancando egli senza eredi, vuole che quegli Stati restino in dominio della suddetta Chiesa. Una parola non vi si legge del ducato di Spoleti. Solamente vi si dice che sia restituita al papa tutta la terra da Monte Paile sino a Ceperano, siccome ancora Monte Fiascone. Secondochè abbiamo da Parisio da Cereta [Paris. de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.], i Veronesi in questo anno attaccarono battaglia coi Padovani, assistiti da Eccelino da Romano, e da Azzo marchese d'Este, e li sconfissero colla morte di molti. Questo Eccelino, per soprannome il Monaco, fu padre del crudele Eccelino da Romano. Di questo fatto parla ancora Gherardo Maurisio [Mauris., Hist., tom. 8 Rer. Ital.], con dire che i Vicentini dopo una gran rotta loro data dai Padovani e dal suddetto Eccelino, per cui restarono prigionieri più di due mila d'essi, ricorsero per aiuto ai Veronesi, i quali con sì formidabil armata entrarono nel Padovano, guastando e bruciando sino alle porte di Padova, che atterriti i Padovani, altro ripiego non ebbero per liberarsi da questo turbine, che di restituire tutti i prigioni: il che fatto, ebbe fine la guerra. Ma questo avvenimento da Rolandino vien riferito all'anno seguente, e in altri testi all'anno 1199. Un documento da me prodotto nelle Antichità italiane forse ci fa vedere tuttavia duca di Toscana Filippo fratello dell'imperadore Arrigo. Esso fu scritto nell'anno 1196 nel dì 30 d'agosto, correndo l'Indizione XV. Ma perchè tale indizione spetta all'anno presente, però, o ivi dovette essere l'anno 1197, ovvero s'ha da scrivere Indictione XIV, e sarà veramente l'anno 1196.


   
Anno di Cristo MCXCVIII. Indizione I.
Innocenzo III papa 1.
Vacante l'imperio.

Venne a morte papa Celestino III nel dì 8 di gennaio, VI idus januarii dell'anno [956] presente, e fu seppellito il corpo suo nella basilica lateranense. A lui succedette nella cattedra di san Pietro Lottario, figliuolo di Trasmondo conte di Segna, cardinale de' santi Sergio e Bacco, che prese il nome d'Innocenzo III, e riuscì uno de' più insigni e gloriosi pontefici che s'abbia mai avuto la Chiesa di Dio; e al quale eterne obbligazioni professa specialmente la romana, al cui ingrandimento non meno nel temporale che nello spirituale egli assaissimo contribuì mercè delle prospere congiunture, e più ancora dell'elevatezza dell'ingegno suo [In Vita Innocentii III, num. 5.]. Era egli allora in età di soli trentasette anni, ma maturo di senno e ornato delle scienze, studiate in Roma, in Parigi e in Bologna. Nella di lui vita è scritto che fu eletto nel dì 8 di gennaio, sexto idus januarii. Ma, o papa Celestino dovette morire un giorno prima, o egli esser eletto un giorno dopo; perciocchè sappiamo che non si veniva all'elezione se non dappoichè era stata data sepoltura all'antecessore; e questo pio cardinale apud basilicam constantinianam voluit decessoris exequiis interesse. Fu poi consecrato papa nella festa della cattedra di san Pietro, cioè nel dì 22 di febbraio. Trovò egli smantellato il patrimonio della Chiesa romana, perchè il poco fa defunto imperadore Arrigo avea occupato tutto quasi fino alle porte di Roma, a riserva della Campania, in cui nondimeno era esso Augusto più temuto che il papa. Trovò ancora che niun ostacolo restava alla sua autorità dalla parte degl'imperadori per le ragioni che addurrò fra poco. Una delle sue prime imprese dopo la consecrazione fu questa: Petrum urbis praefectum ad ligiam fidelitatem recepit, et per mantum, quod illi donavit, de praefectura eum publice investivit, qui usque ad id tempus juramento fidelitatis imperatori fuerat obligatus, et ab eo praefecturae tenebat honorem. Leggesi il di lui giuramento fra le [957] lettere d'esso papa Innocenzo [Innocent. III, lib. 1, Epist. 577.]: notizia degna di osservazione per la conoscenza de' tempi addietro e di quelli che succederono, perchè spirò qui l'ultimo fiato l'autorità degli Augusti in Roma, e da lì innanzi i prefetti di Roma, il senato e gli altri magistrati giurarono fedeltà al solo romano pontefice.

Non tardò il generoso papa, giacchè più non v'era ostacolo, a ripigliare il dominio della Marca d'Ancona, nulla badando alle offerte, preghiere e larghe promesse che fece fargli Marquardo, già investito di quelle contrade dal predefunto Arrigo. A riserva d'Ascoli, vennero alle di lui mani Ancona, Fermo, Osimo, Camerino, Fano, Jesi, Sinigaglia e Pesaro: il che ci fa intendere di quale estensione fosse allora la marca d'Ancona, chiamata in altri tempi, ora di Camerino ed ora di Fermo. In breve ancora ricuperò dalle mani di Corrado Suevo, dianzi duca di Spoleti e conte d'Assisi, tutte quelle contrade; cioè il ducato di Spoleti, che abbracciava le città di Rieti, Spoleti, Assisi, Foligno e Nocera. E poscia tornarono in suo potere le città di Perugia, Gubbio, Todi e Città di Castello. Tentò ancora di ridurre sotto il suo dominio l'esarcato di Ravenna, Bertinoro e la terra del conte Cavalcaconte, con ispedir colà lettere e legati; ma non gli venne fatto, perchè l'arcivescovo di Ravenna tenne forte, allegando e mostrando le investiture imperiali, da lungo tempo addietro date di quel paese a' suoi antecessori e alla chiesa sua: il che fermò i passi alle pretensioni del papa. Nè lasciò indietro papa Innocenzo la ricerca e la ricuperazione dei beni della contessa Matilda; nel che provò non pochi intoppi e contraddizioni. Erano da un gran tempo malcontente degl'imperadori suevi le città della Toscana, cioè Firenze, Lucca, Pistoia, Siena ed altre; perchè laddove tante altre città di Lombardia godevano una piena libertà, nè sopra di loro aveano marchese o duca che esercitasse [958] giurisdizione, elleno sole si trovavano maltrattate, prima da Federigo Barbarossa, poi da Arrigo suo figliuolo, ed ultimamente da Filippo già dichiarato duca di Toscana, figliuolo anche esso del medesimo Federigo. Però, giacchè il vento era propizio coll'essere mancato l'imperadore Arrigo, la cui crudeltà e potenza facea star tutti col capo chino, si misero al forte, per non voler più sopra di loro ministro alcuno imperiale, senza pregiudizio nondimeno della sovranità cesarea. Strinsero dunque una lega collo stesso pontefice Innocenzo per sostenersi colle forze unite contro chiunque in avvenire volesse pregiudicare alla lor libertà. Simile era questa alla lega di Lombardia. I Pisani, siccome quei soli che in Toscana godevano di tutte le regalie, nè poteano guadagnar di più, essendo già attaccatissimi agl'imperadori, non vollero entrare in essa lega, che noi riguarderemo da qui innanzi per lega guelfa. Imperciocchè questo nome di Guelfi e Ghibellini originato, siccome accennai di sopra, dalle gare continue della casa de' duchi ed imperadori di Suevia discendenti dalla casa ghibellina degli Arrighi Augusti per via di donne, colla casa degli Estensi di Germania, duchi di Sassonia e Baviera, discendenti per via di donne dagli antichi Guelfi; questo nome, dissi, cominciò a prendere gran voga in Italia. Chi era aderente de' papi, per custodire la sua libertà, nè essere più conculcato dagli uffiziali cesarei, si dicea seguitar la parte o fazione guelfa. E chi aderiva all'imperadore, si chiamava di parte o fazion ghibellina. In quest'ultima si contavano per lo più que' marchesi, conti, castellani, ed altri nobili, che godeano feudi dell'imperio, per mantenersi liberi dal giogo delle città libere, le quali tuttodì cercavano di sottomettersi alla lor giurisdizione. Vi entravano ancora alcune città, che, oltre all'essere ben trattate dagli Augusti, aveano bisogno della lor protezione, per non essere ingoiate dalle vicine più potenti città. [959] Tali furono Pavia, Cremona, Pisa ed altre. E massimamente presero piede, siccome andremo vedendo, queste due fazioni negli anni susseguenti, perchè risvegliossi più che mai la discordia fra le case suddette de' Guelfi e Ghibellini in Germania, a cagione dei due re che vedremo fra poco eletti, cioè di Filippo duca di Suevia di sangue ghibellino, e di Ottone IV procedente dai Guelfi. Ai quali poi succedette Federigo II figliuolo di Arrigo VI, e perciò d'origine ghibellina, fra i quali e i romani pontefici e varie città d'Italia passarono sanguinose discordie; e chiunque a lui si oppose si gloriava d'essere del partito de' Guelfi. Che sconcerti, che guerre civili, che rovine producessero col tempo queste lagrimevoli e diaboliche fazioni, l'andrò accennando nella continuazion della storia: giacchè penetrò a poco a poco questo veleno nel cuore delle stesse città, rompendo la concordia de' cittadini e delle famiglie; dal che derivarono infiniti mali.

Intanto è da dire che Filippo duca di Suevia nell'anno precedente fu chiamato in Italia dall'imperadore Arrigo suo fratello, con disegno ch'egli conducesse in Germania il picciolo Federigo II, eletto già dai principi tedeschi re de' Romani, per farlo coronare [Otto da S. Blasio. Abbas Urspergens. Godefridus Monachus. Arnoldus Lubecensis.]. Arrivò Filippo sino a Monte Fiascone, e non già a Falcone, vicino a Viterbo, dove ricevette l'avviso dell'immatura morte del fratello Augusto. Allora, senza più mettersi pensiero del nipote Federigo, ed unicamente ruminando i proprii vantaggi, voltò strada per tornarsene in Germania. Talmente erano esacerbati gli animi degl'Italiani contra de' Tedeschi pel governo barbarico di Federigo I e di Arrigo VI suo figliuolo, che dovunque passò Filippo, sia per la Toscana, sia per le altre città, fu maltrattato e in pericolo della vita, e restarono uccisi anche alcuni de' suoi cortigiani. [960] Giunto in Germania, cominciò i suoi maneggi per essere eletto re, e gli venne fatto. Il buon uso del danaro e delle promesse, e la protezione di Filippo re di Francia operarono che moltissimi principi della Germania, niun caso facendo del giuramento prestato nell'elezione del fanciullo Federigo, il proclamassero re. Dopo di che fu egli coronato non già in Aquisgrana, ma in Magonza; nè dall'arcivescovo di Colonia, ma da quello di Tarantasia; cose tutte contro il rituale. All'incontro Riccardo re d'Inghilterra, entrato anch'egli in questa briga, si studiò di promuovere Ottone, figliuolo del già duca di Sassonia e Baviera Arrigo Leone, estense-guelfo, e di Matilda sua sorella, che era allora duca di Aquitania e conte del Poitù. Confessa Arnoldo da Lubeca che Riccardo impiegò, per vincere il punto, settanta mila marche d'argento, troppo dispiacendogli l'esaltazione di Filippo, fratello di chi con tanta indegnità avea fatto mercato della di lui persona. In somma da Adolfo arcivescovo di Colonia e da' suoi suffraganei, da Arrigo duca di Lorena, dal vescovo d'Argentina, e da alcuni altri vescovi, abbati e conti, di numero nondimeno inferiore agli elettori dell'altro, fu esso Ottone IV eletto re de' Romani, e coronato dipoi in Aquisgrana. Arnoldo da Lubeca e Ottone da San Biagio scrivono che a questa elezione intervenne anche Arrigo conte palatino del Reno, fratello maggiore di esso Ottone, tornato in fretta da Terra santa. Ma Ruggieri Hovedeno [Rogerius Hovedenus.] e Federigo monaco [Fridericus Monach.] raccontano ch'egli arrivò dipoi, e sostenne gl'interessi del fratello, con essersi ad Ottone uniti i vescovi di Cambray, Paderbona ed altri, e i duchi di Lovanio e Limburgo, e il landgravio di Turingia ed altri. Ebbe anche mano nell'elezion di Ottone IV Innocenzo III papa, perchè egli era di una casa stata sempre divota [961] della santa Sede, e casa che, per la sua parzialità verso i papi, avea perduti i ducati di Baviera e Sassonia. Il perchè egli favorì la di lui elezione, e riprovò quella di Filippo Suevo, allegando che questi era stato scomunicato da papa Celestino III per varie usurpazioni fatte dianzi degli Stati della Chiesa romana, e rammentando gli eccessi commessi dal padre e dal fratello suo. Lo scisma di questi due re si tirò dietro in Germania di molte guerre, turbolenze e danni infiniti, de' quali parlano gli storici tedeschi.

Intanto, dacchè si videro i Siciliani liberi dall'odiato imperadore Arrigo VI per l'inaspettata sua morte, si diedero a sfogar la rabbia loro contra de' Tedeschi che erano in quell'isola. Il che vedendo l'imperadrice Costanza, che aveva assunto il governo di quel regno e la tutela del figliuolo Federigo Ruggieri, con farlo venire da Jesi (dove era stato lasciato sotto la cura de' conti di Celano e di Copersano [Richardus de S. Germano, in Chron.], ovvero, come altri scrive, della duchessa di Spoleti), e con farlo coronare dipoi, ordinò che uscissero di Sicilia le truppe straniere: risoluzione che per allora mise in calma gli animi alterati di quei popoli. E tanto più perchè ella, scoperte le trame e le mire di Marquardo, già duca di Ravenna e marchese d'Ancona, il dichiarò nemico del re e del regno, e volle che tutti il trattassero come tale. Inviò poscia ambasciatori a papa Innocenzo [Vita Innocentii III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.], per ottenere l'investitura pontificia degli Stati al fanciullo Federigo. Tentò allora la corte di Roma di profittar di questa occasione per abbattere quella che oggidì si chiama la monarchia di Sicilia, benchè si creda che Adriano e Clemente papi avessero conceduti que' privilegii. Su questo si disputò lungamente. Mossesi l'imperadrice a spedire anche Anselmo arcivescovo di Napoli a Roma, sperando miglior mercato dalla di lui eloquenza. Ma più di lui sapeano parlare i ministri pontificii; e [962] però convenne accettar l'investitura (cosa di troppa premura in quelle circostanze) con quelle leggi che piacquero al papa, cioè capitulis illis omnino remotis, e con obbligazione di ricevere nella corte di Sicilia Ottaviano vescovo e cardinale ostiense, come legato della santa Sede. Ma questa investitura arrivò in Sicilia in tempo che l'imperadrice era passata all'altra vita. Certo è che la medesima finì di vivere nel dì 27 di novembre, dopo aver dichiarato balio ossia tutore del re suo figliuolo papa Innocenzo III, ed ordinato che durante la di lui minorità si pagassero ogni anno trenta mila tarì per tal cura ad esso pontefice, oltre a quelli ch'egli spendesse per difesa del regno. L'educazione del re fanciullo fu lasciata agli arcivescovi di Palermo, Monreale e Capoa. Non mancò in questi tempi papa Innocenzo di procurare con vigorosi e caritativi uffizii la liberazione di Sibilia, già moglie di Tancredi re di Sicilia, detenuta prigione in Germania colle figliuole. Posta in libertà, oppure aiutata a fuggire, si rifuggì essa in Francia, dove maritò la sua primogenita con Gualtieri conte di Brenna, di cui avremo a parlare andando innanzi. V'ha chi crede che Guglielmo suo figliuolo, già dichiarato re dal padre, fosse morto. Nè si può negare che l'autor della vita di Innocenzo III e Giovanni da Ceccano lo scrivono. Se con certezza, nol so. Imperocchè Ottone da San Biagio racconta che Arrigo, dopo averlo fatto accecare (altri hanno scritto che solamente il fece eunucare), il condannò ad una perpetua prigionia in una fortezza de' Grigioni. Qui ubi ad virilem aetatem pervenit, de transitoriis desperans, bonis operibus, ut fertur, aeterna quaesivit. Nam de activa translatus coacte, contemplativae studuit, utinam meritorie. In questo anno i Milanesi stabilirono pace col popolo di Lodi. Lo strumento d'essa, da me dato alla luce, fu [Antiquit. Ital., Dissert. XLIX.] scritto in civitate Laude, anno dominicae Incarnationis millesimo [963] centesimo nonagesimo nono, die lunae V calendas januarii, Indictione secunda. Il dì 28 di dicembre dell'anno presente cadde in lunedì; e però scorgiamo che in Lodi si cominciava l'anno nuovo nel Natale, oppure nel dì 25 del precedente marzo alla maniera pisana; e che l'indizione si mutava nel settembre. Abbiamo da Rolandino [Rolandin., Histor., lib. 1, cap. 8.] che in quest'anno i Padovani coll'aiuto di Azzo VI marchese d'Este loro collegato andarono all'assedio della terra di Carmignano, una delle migliori del Vicentino, e a forza d'armi se ne fecero padroni. Antonio Godio [Godius, in Histor., tom. 8 Rer. Ital.] mette questo fatto sotto l'anno seguente. Altri testi lo riferiscono al precedente. Dopo di che i Veronesi venuti in soccorso de' Vicentini, fecero gran danno e paura ai Padovani, siccome ho detto nell'anno antecedente.


   
Anno di Cristo MCXCIX. Indizione II.
Innocenzo III papa 2.
Vacante l'imperio.

Benchè molti odiassero in Sicilia, Puglia e Calabria il picciolo re Federigo II, prole di chi avea spogliato quel regno di tante vite e di tanti tesori; pure s'erano essi quetati al riflettere che loro tornava meglio l'avere un re proprio, e massimamente dappoichè pareva ch'egli non potesse aspirare alla Germania, del cui dominio disputavano allora Filippo ed Ottone. Ciò non ostante, sopravvennero a quel regno altri non pensati guai, che l'afflissero molto e per lungo tempo [Innocentius III, lib. I, Epist. 557 et seq.]. Marquardo, cacciato dalla marca d'Ancona, si ridusse in Puglia, nè sì tosto ebbe intesa la morte dell'imperadrice Costanza, che, raunato un esercito di Tedeschi e d'altri suoi aderenti e scapestrati, sfoderò la sua pretensione di voler assumere il baliato, cioè la tutela del fanciullo Federigo, a lui lasciata dall'imperadore Arrigo VI nell'ultimo suo testamento. [964] Era costui anche animato e spronato con occulta intelligenza dal re Filippo zio paterno di Federigo. Passò dunque, dopo aver prese alcune castella, ad assediare la città di San Germano sul principio di quest'anno, e impadronitosene, l'abbandonò al sacco de' suoi, per animarli a maggiori imprese. La guarnigione dei soldati con buona parte de' cittadini ebbe la fortuna di potersi ritirare a Monte Casino [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae. Richardus de S. Germano.]. Fu per otto dì assediato quel sacro luogo dal Marquardo, e forse giugnea costui a compiere le sue sacrileghe voglie, se la mano di Dio non rompeva i suoi disegni. Era nel dì 15 di gennaio, festa di san Mauro abbate, sereno il cielo. Sorse all'improvviso un fiero temporale, misto di vento, gragnuola e pioggia, che rovesciò tutte le tende degli assedianti, i quali, forzati a cercare scampo colla fuga, lasciarono indietro tutto lo equipaggio, e inseguiti perderono anche molta gente. Papa Innocenzo III, attentissimo a questi affari, siccome quegli che era risoluto di difendere il re Federigo alla sua cura commesso, mise anch'egli insieme un buon esercito, per distornare i progressi di Marquardo, che mostrò di pentirsi, e tanto seppe fare, che indusse il papa ad assolverlo dalle censure, nè stette poi molto a tradirlo. O prima o dopo questa simulata concordia fece costui varie scorrerie per la Puglia; mise a sacco la città d'Isernia; prese, o tentò d'occupar varie altre terre; e si ridusse infine a Salerno, città affezionata al suo partito. Aveva egli con precedente trattato indotti i Pisani a fornirlo di una buona flotta di legni, e questi appunto li trovò preparati in Salerno, quantunque papa Innocenzo, con iscrivere a Pisa più lettere, si fosse studiato di divertire quel popolo dall'aiutar questo perfido. Imbarcatosi dunque esso Marquardo su questa armata, fece vela alla volta della Sicilia, dove era desiderato e aspettato dai Saraceni, abitanti tuttavia con libertà di coscienza [965] e di rito in quell'isola, per timore che il papa si servisse di questa favorevol congiuntura per iscacciarli fuori del regno. L'avea ben preveduta questa lor ribellione Innocenzo, e ne avea scritto anche ad essi per tenerli in dovere; ma a nulla servì. Che l'andata di Marquardo in Sicilia succedesse nel novembre di quest'anno, lo raccolgo da una lettera d'esso pontefice [Innocentius III, lib. 2, Epist. 221.], scritta a tutti i conti e baroni di Sicilia VIII kalendas decembris. E però non sussiste ciò che scrive Odorico Rinaldi [Raynaldus, in Annal. Eccl. ad hunc annum.], con dire che riuscì in quest'anno a Marquardo di occupar Palermo col palazzo regale, mediante una composizione seguita col conte Gentile di Palear, lasciato ivi custode del re Federigo da Gualtieri gran cancelliere del regno. Vero è che ciò si legge nella Cronica di Riccardo da San Germano; ma ciò è detto fuor di sito, e forse questa è una giunta fatta da qualche ignorante alla sua Cronica. Tale fors'anche è il leggersi quivi poco innanzi che Diopoldo conte, cioè la man destra di Marquardo, a Guilielmo Casertae comite captus est, et quamdiu vixit, eum tenuit vinculatum. Sed, eo mortuo, Guilielmus filius ejus, accepta filia ejus in uxorem, liberum dimisit illum. Bisognerà ben dire che quel conte di Caserta mancasse presto di vita, perchè noi troviam da lì a poco lo stesso Diopoldo in armi. Ciò che veramente succedette in Sicilia, lo diremo all'anno seguente.

Più non ci essendo chi tenesse in briglia le emule città di Lombardia, ed ita per terra la dianzi forte lega de' Lombardi, ripigliarono esse più che prima le armi l'una contro dell'altra. Fra i Parmigiani e Piacentini gran discordia era insorta a cagione di Borgo San Donnino. Apparteneva quella nobil terra, non so ben dire se alla città di Parma, oppure ai marchesi Pelavicini (oggidì Pallavicini) in questi tempi. Arrigo VI Augusto ultimamente l'aveva impegnata ai Piacentini [966] per due mila lire imperiali. Guerra ne venne per questo. Abbiamo da Sicardo vescovo di Cremona [Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.], allora vivente, che nel presente anno, e fu di maggio, con grande sforzo di gente si portarono essi Piacentini all'assedio del borgo suddetto. Negli Annali Piacentini [Annales Placentini, tom. 16 Rer. Ital.] e Bresciani [Chron. Brixianum, tom. 14 Rer. Ital.] ciò è riferito all'anno precedente. Ma è più sicuro l'attenersi a Sicardo, con cui va d'accordo la Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.]. In aiuto de' Piacentini accorsero i Milanesi, Bresciani, Comaschi, Vercellini, Astigiani, Novaresi ed Alessandrini. Ebbero i Parmigiani dalla loro parte le forze de' Cremonesi, Reggiani e Modenesi. Il Malvezzi nella Cronica di Brescia scrive [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.] che anche i Pavesi e i Bergamaschi inviarono gente in favore di Parma. Per alquanti giorni durarono le offese dei collegati contra di Borgo San Donnino; ma indarno, perchè stava alla difesa di quella terra un buon corpo di animosi combattenti: il che indusse i Piacentini e collegati e battere la ritirata. Allora i Parmigiani in armi coi lor confederati diedero alla coda dell'armata nimica, e la fecero camminar di buon trotto sino ai confini di Piacenza. Quivi i Piacentini e Milanesi, voltata faccia, s'affrontarono con chi gl'incalzava. Duro fu il combattimento, da cui si sbrigarono con gran perdita i primi; e maggiore ancora sarebbe stato il danno, se non giugnevano a tempo i Bresciani in loro aiuto. Circa dugento cavalieri piacentini rimasero prigioni, e furono condotti nelle carceri di Parma. Scrivono ancora gli antichi storici che i Piacentini uniti ai Milanesi andarono coll'oste a Castelnuovo di bocca d'Adda, e v'ebbero cattivo mercato. Se questo sia un fatto diverso dall'altro, nol so dire. Negli Annali di Piacenza è riferito sotto un differente anno. Credo ben falso che di [967] quel castello s'impadronissero, come lasciò scritto Galvano Fiamma [Gualvan. Flamm., in Manip. Flor., cap. 235.]. Sicardo e i suddetti Annali di Piacenza dicono il contrario. Abbiamo inoltre dal medesimo Sicardo che in quest'anno Veronenses Mantuanos discumfecerunt, ex eis innumeram multitudinem captivantes. Il che vien confermato da Parisio da Cereta [Parisius de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.], il quale notò il luogo del conflitto, cioè in capite pontis Molendinorum de Mantua, oggidì Ponte Molino. E questi aggiugne che nell'anno presente andarono gli stessi Veronesi a fabbricare il castello d'Ostiglia sul Po. Nè si dee tralasciare che papa Innocenzo III, avvertito della rabbiosa gara che passava fra i Piacentini e Parmigiani a cagion di Borgo San Donnino, scrisse lettere all'abbate di Lucedio, V kalendas maii [Innocent. III, lib. 2, Epist. 39.], incaricandolo di unirsi coll'arcivescovo di Milano e coi vescovi di Vercelli, Bergamo, Lodi, ec., per indurre a concordia questi popoli, con adoperar le scomuniche contra de' renitenti. Da essa lettera apparisce che i medesimi popoli universam Lombardiam commoverunt ad arma, et alteri cum universis fautoribus suis, alteris et omnibus eorum complicibus generale proelium indixerunt. Secondochè scrive Ottone da San Biagio [Otto de S. Blasio, in Chron.], passarono in quest'anno dall'Italia in Germania, venendo da Terra santa, Corrado arcivescovo di Magonza e Bonifazio marchese di Monferrato, con commessione avuta dal papa di trovar ripiego allo sconvolgimento della Germania per l'elezione e guerra dei due re Filippo ed Ottone. Riuscirono inutili i lor negoziati, perchè Ottone troppo abborriva il depor le insegne regali.

[968]


   
Anno di Cristo MCC. Indizione III.
Innocenzo III papa 3.
Vacante l'imperio.

Dopo aver prese varie terre e città in Sicilia, Marquardo coll'esercito suo si portò all'assedio di Palermo, dove trovò difensori ben animati alla difesa. Intanto papa Innocenzo III avea spedito Jacopo suo cugino per maresciallo, e il cardinale di San Lorenzo in Lucina con dugento cavalli verso la Sicilia. Di un sì smilzo aiuto parla il testo della Vita di papa Innocenzo [Vita Innocentii III, num. 17, P. I, tom. 3 Rer. Ital.], qui forse difettoso. Che altre forze inviasse colà il papa, si può argomentare da quanto avvenne dipoi. Lo stesso Innocenzo, scrivendo al re Federigo, in una lettera rapportata in essa Vita, dice di aver inviato Jacopo suo cugino cum exercitu nostro in favore di lui. Riccardo da San Germano anch'egli narra che il papa spedì in aiuto del pupillo Federigo re di Sicilia il suddetto Jacopo cum militari exercitu [Richardus de S. Germano, in Chron.]. Dugento cavalli non formano un esercito. Arrivò felicemente quest'armata a Messina, e quivi, inteso il tentativo di Marquardo sopra Palermo, dopo aver fatta massa di quanti soldati erano in favore di Federigo, si mise in marcia alla volta dell'assediata città. Giunta che fu colà, non si dimenticò l'astuto Marquardo di far pruova se potea addormentarli con far proposizioni di pace; e si fu sull'orlo di conchiuderla. Ma, osservato che il papa onninamente vietava il venire ad accordo alcuno con chi s'era già fatto sì palesemente conoscere mancator di parola, fu presa la risoluzion di deciderla colle spade. Nella pianura adunque posta fra Palermo e Monreale si venne nel mese di luglio ad una sanguinosa battaglia, in cui interamente restò disfatto l'esercito di Marquardo, colla strage di moltissimi dei suoi, e colla perdita [969] dell'equipaggio, in cui fu ritrovato il testamento dell'imperadore Arrigo VI. Uscito ancora di città il conte Gentile colla guarnigione, diede addosso a cinquecento Pisani, che con una gran moltitudine di Saraceni custodivano varii siti in quelle montagne, e ne fece un fiero macello. Per questa vittoria poi papa Innocenzo, riconoscendola spezialmente da Jacopo suo cugino e maresciallo, che mercè della sua buona condotta e valore corrispose in quel dì all'espettazion d'esso papa, procurò che in ricompensa gli fosse conceduta dal re Federigo e dal suo consiglio la contea d'Andria. Questa vittoria avrebbe dovuto tirarsi dietro dei considerabili vantaggi per la quiete della Sicilia: pure ad altro non servì che a liberar per allora Palermo dagli artigli di Marquardo. Mancando i danari per pagare l'esercito, fu questi obbligato a ripassare il mare: il che servì a far tornare in auge l'abbattuto Marquardo, che si rinvigorì di forze, e colle minacce e coi maneggi tornò a cercare di mettere il piede nella corte di Palermo [Vita Innocentii III, num. 33.]. E gli venne fatto. Gualtieri vescovo di Troia, allora gran cancelliere del regno, uomo di sfrenata ambizione, essendo morto l'arcivescovo di Palermo, ebbe maniera di farsi eleggere suo successore, ma senza poter ottenerne l'approvazione del papa, il quale ben conosceva di che tempra fosse questo arnese. Costui non solamente alzò sopra gli affari Gentile conte di Monopello suo fratello, ma si diede anche a trattar di concordia con Marquardo, tanto che l'introdusse in corte, con dividersi poi amendue fra loro il governo del regno. Sommamente dispiacque al pontefice Innocenzo questa cabala, siccome quella che escludeva lui dal baliato del regno e dalla tutela di Federigo; e allora fu che si sparsero delle gravi diffidenze e ciarle. Mostrava Roma di credere più che mai che Marquardo aspirasse al regno colla depressione del picciolo Federigo. E all'incontro il gran cancelliere andava [970] spacciando che papa Innocenzo macchinava delle novità pregiudiziali al regno, coll'aver fatto venire Gualtieri conte di Brenna, di cui favelleremo fra poco, per farne un re nuovo, ad esclusione di Federigo. Così con tutto il padrocinio di papa Innocenzo, il quale sopra ciò scrisse lettere risentite, dettate nulladimeno da gran prudenza, peggioravano gli affari della Sicilia.

S'è nominato poco fa Gualtieri conte di Brenna: quello stesso egli è che avea sposata la primogenita del re Tancredi, fuggita dalle carceri di Germania in Francia colla regina Sibilia sua madre. Povero cavaliere egli era, ma valoroso e di rara nobiltà, parente ancora dei re di Francia e d'Inghilterra. Volle egli far valere le pretensioni della moglie, e venuto a Roma colla suocera e colla moglie, trovò buon accesso presso di papa Innocenzo, a cui non dispiacque di avere un personaggio tale dipendente da sè, non solamente per opporlo allora agli uffiziali tedeschi, che malmettevano il regno di Sicilia e di Puglia, ma forse anche per farlo salire più alto, caso che fosse accaduta la morte del fanciullo Federigo. Si adoperò dunque egli con vigore, acciocchè ad esso conte di Brenna e a sua moglie fosse conceduta la contea di Lecce col principato di Taranto: al che s'era obbligato Arrigo VI imperadore, allorchè la regina Sibilia a lui si arrendè sotto questa condizione, con aver nondimeno ricavata promessa dallo stesso conte di non pretendere di più, e di far guerra ai nemici del picciolo re Federigo [Vita Innocentii III, num. 31, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Tornò il conte in Francia per condurre in suo aiuto qualche squadra di combattenti in Italia. Ed eccolo comparir di nuovo a Roma con pochi sì, ma scelti uomini d'armi. Con questi intrepidamente entrò in Puglia, e tuttochè tanti fossero gli avversarii che si credeva doverne restare ingoiato, pure, venuto a battaglia col conte Diopoldo presso a [971] Capoa, gli diede una rotta con istupore de' Capoani, che saltarono fuori a spogliare il campo. Aiutò poscia il conte di Celano ad acquistar la contea di Molise; e quindi, passato in Puglia, s'impadronì del castello di Lecce, e poscia d'alcune città del principato di Taranto, cioè di Matera, Otranto, Brindisi, Melfi, Barolo, Montepiloso e d'altri luoghi; e si mise a far guerra a quei di Monopoli e di Taranto, che non si volevano sottomettere al di lui dominio. Non furono minori in questi tempi gli sconcerti in Lombardia, divorandosi l'una coll'altra quelle sfrenate città. Narra Sicardo [Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.] che i Milanesi e Bresciani impresero l'assedio di Soncino, appartenente ai Cremonesi, e con poco onore se ne partirono. Essendosi poi affrontati essi Milanesi coi Pavesi a Rosate, rimasero sconfitti. Vennero anche alle mani i Cremonesi coi Piacentini a Sant'Andrea vicino a Busseto, e li sbaragliarono. Secondo gli Annali di Piacenza [Annal. Placentini, tom. 16 Rer. Ital.], restarono prigionieri più di secento sessanta Piacentini col loro podestà Guido da Mandello Milanese. Seguì ancora un'altra battaglia al castello di san Lorenzo fra i Piacentini dall'una parte, e i Cremonesi e Parmigiani dall'altra, colla peggio de' primi. Per lo contrario fu conchiusa pace in quest'anno fra i Cremonesi e Mantovani, dopo essere per alcuni anni durata la discordia e guerra fra loro. Trovavansi assaissimi Mantovani prigioni in Cremona: per questo motivo giovò il venire ad un accordo. Fin qui s'era mantenuta la buona armonia del popolo di Brescia, ma si sconcertò nell'anno presente, perchè la plebe si sollevò contro la nobiltà: disgrazia che verso questi tempi cominciò a propagarsi per altre città. Jacopo Malvezzi [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.] attribuisce la cagione della domestica rottura dei Bresciani all'aver alcuni voluto unirsi coi Milanesi ai danni [972] de' Bergamaschi: al che altri s'opposero. Il fine della dissensione fu, che toccò ai nobili l'uscir di città, e questi, ricorsi ai Cremonesi, coll'aiuto loro si diedero a far guerra alla fazion popolare dominante, alla quale fu posto il nome di Bruzella. D'altri vantaggi riportati dai Cremonesi sopra i Bresciani parla la Cronichetta Cremonese [Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.]. Cercavano anche i Romani di dilatare il loro distretto; e però con tutte le loro forze e bandiere spiegate andarono in quest'anno addosso a Viterbo, e talmente strinsero e combatterono quella città, che fu astretta a sottomettersi alla lor signoria, ossia a quella del papa. All'anno presente scrive Galvano dalla Fiamma [Gualv. Flamma, in Manipul. Flor., cap. 233.] che nel dì 4 di settembre i Milanesi col carroccio entrarono nella Lomellina dei Pavesi, e vi presero Mortara con venticinque altre castella. Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.] e il Sigonio [Sigon., de Regno Ital., lib. 15.] riferiscono che Salinguerra figliuolo di Torello, capo della fazion ghibellina in Ferrara, all'improvviso ostilmente assalì coll'esercito ferrarese la terra d'Argenta, e, dopo averla presa, la mise a sacco. Accorsa una mano di Ravegnani per dar soccorso a quella guarnigione, restarono prigioni, e, condotti nelle carceri di Ferrara, quivi miseramente finirono i lor giorni. Per questa disgrazia, e per timore di peggio, furono obbligati i Ravegnani a fare una pace svantaggiosa coi Ferraresi, i capitoli della quale si leggono da me dati alla luce [Antiquit. Ital., Dissert. XLIX.]. Tolta parimente fu ad esso popolo di Ravenna la città di Cervia da quei di Forlì.


   
Anno di Cristo MCCI. Indizione IV.
Innocenzo III papa 4.
Vacante l'imperio.

Arrivò in questi tempi al sommo l'ambizione e prepotenza di Gualtieri vescovo [973] di Troia, eletto arcivescovo di Palermo, e gran cancelliere del regno di Sicilia [Vita Innocentii III, num. 32 et seq.]. Oltre all'aver tirato in corte il perfido Marquardo, cominciò a farla da re, dando e levando le contee a sua voglia, creando nuovi uffiziali, vendendo o impegnando le dogane e l'altre rendite regali, e soprattutto sparlando di papa Innocenzo III, a cagione del conte di Brenna, da lui oltremodo odiato. Tanto ancora operò, che il legato apostolico si levò di Sicilia. Non potè più lungamente il pontefice sofferir questi eccessi, ridondanti in dispregio della sacra sua persona, e del baliato a lui commesso nel regno di Sicilia. Adunque lo scomunicò e privò d'amendue le chiese, e fece ordinar altri vescovi in suo luogo. Di più non occorse perchè, scoppiando l'odio d'ognuno contra di costui, egli restasse abbandonato da tutti; laonde si vide in necessità di fuggirsene dalla corte. Venuto poi in Puglia, ed unitosi col conte Diopoldo, attese da lì innanzi a far quanto di male poteva al sommo pontefice. E, quantunque trattasse dipoi di riconciliarsi con Pietro vescovo di Porto, legato del papa in Puglia, pure, ostinato in non voler promettere di non opporsi al conte di Brenna, meglio amò di persistere nella sua contumacia, che di ottenere il perdono offertogli. Intanto Marquardo divenne onnipotente in Sicilia. Aveva in suo potere il re Federigo col palazzo, e già pendeva da' suoi voleri tutta la Sicilia, a riserva di Messina e di qualche altro luogo. Opinione corse che costui avrebbe usurpata la corona, se non l'avesse ritenuto il timore del conte di Brenna, a cui, dopo la morte di Federigo, perveniva quel regno. Ma non andò molto che colei, la quale scompiglia tanti disegni de' mortali, pose fine anche ai suoi. Era egli tormentato da asprissimi dolori di pietra, ed avendo voluto farsi tagliare (giacchè ancora in que' tempi erano in uso i tagliatori di pietra), così sinistramente andò l'operazione, che nell'atto stesso egli spirò l'anima. Fecesi [974] allora avanti Guglielmo Capperone, di nascita anch'egli Tedesco, ed, occupato il palazzo reale colla persona del re Federigo, sotto il titolo di capitan generale del regno si arrogò tale autorità, che superò quella dello stesso Marquardo. Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.] rapporta all'anno seguente la morte d'esso Marquardo, e forse convien differirla sino a quel tempo. Vivente ancora costui, il conte di Brenna riportò un'altra vittoria in Puglia. Quivi egli trovavasi presso al famoso luogo di Canne, e con poche squadre di combattenti, quando comparve a fronte di lui il conte Diopoldo con un esercito superiore di lunga mano al suo. Al vedersi così alle strette, e tanto più perchè il legato apostolico provvide alla sua sicurezza con una pronta ritirata, restò pieno d'affanno. Tuttavia, rivolgendo le sue speranze a Dio, invocato ad alta voce il nome di san Pietro, procedette alla battaglia, che fu ben dura. Ma infine i pochi rimasero superiori ai molti. Fece il conte alcuni riguardevoli prigioni; e dopo questi felici avvenimenti papa Innocenzo III pensava a spedirlo in Sicilia, colla speranza ch'egli avesse da liberare quel regno, e la corte da chi l'opprimeva. In quest'anno ancora i Cremonesi [Sicard., in Chron. Cremonens., tom. 7 Rer. Italic.] riportarono un'insigne vittoria. Per sostenere il partito de' nobili cacciati da Brescia, uscirono armati in campo contro la plebe bresciana; e seguì un fiero conflitto fra loro nelle vicinanze di Calcinato, in cui restò sconfitto l'esercito dei Bresciani. Il loro carroccio preso trionfalmente fu condotto a Cremona. Jacopo Malvezzi racconta [Malvecius, in Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.] che intervennero a questo fatto d'armi i Bergamaschi e Mantovani in favor di Cremona; che i Veronesi, chiamati in aiuto del popolo di Brescia, erano in viaggio colle lor forze, ma non giunsero a tempo. Aggiugne [975] che la battaglia si diede nel dì 9 d'agosto, e vi fu grande strage dall'una e dall'altra parte; ma tace la perdita del campo e del carroccio, asserita dal vescovo Sicardo allora vivente. Servirono poi questi malanni a produrre un bene; perciocchè, interpostisi gli ambasciatori spediti da Bologna, nel mese di novembre fu ristabilita la pace fra i Cremonesi, Bergamaschi, Comaschi e Bresciani, per cui tornò in Brescia la nobiltà dianzi bandita, ma con serbare in suo cuore un odio implacabile verso la plebe.

Anche nell'anno presente con gagliardo esercito entrarono i Milanesi in Lomellina de' Pavesi, e vi diedero il guasto. Assediarono poscia l'importante castello di Vigevano, tentato già due altre volte indarno, e nel dì 4 di giugno se ne impadronirono, con farvi prigioni mille e dugento Pavesi. Il nome di Vigevano è scorretto nel testo di Sicardo e d'altri autori. Se crediamo a Galvano Fiamma [Gualvan. Flam., in Manip. Flor.], ipso armo de mense angusti Papienses in manibus Philippi archiepiscopi juraverunt perpetuo obedire mandatis civitatis Mediolani. S'egli vuol dire che seguì pace fra loro, si può credere; ma non già che i Pavesi per allora si riducessero a giurare ubbidienza e suggezione alla città di Milano. Prima nondimeno della perdita di Vigevano ebbero un'altra scossa i Pavesi, raccontata nella Cronica Piacentina [Annal. Piacentini, tom. 16 Rer. Ital.]: cioè presso al castello di Nigrino si azzuffò l'esercito loro con quello dei Piacentini e Milanesi, e restò rotto, con lasciar prigionieri de' vincitori quattro cavalieri e trecento trentadue fanti. Disfecero poscia i Piacentini la torre di Santo Andrea, e ridussero in ottimo stato le fosse della loro città. A cagion dell'acque del fiume Secchia, che corre fra i Modenesi e i Reggiani, a parte delle quali volevano essere i Reggiani, quando i Modenesi pretendeano d'averne una piena padronanza, erano state negli anni addietro varie liti e rumori fra questi due [976] popoli. Nell'anno presente si diede mano all'armi daddovero. Venuti i Reggiani coll'esercito loro fin verso Formigine di qua da Secchia, attaccarono battaglia co' Modenesi, e li misero in rotta [Memoriale Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital. Annal. Veter. Mutin., tom. 9 Rer. Ital. Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.], inseguendo i fuggitivi sino al Prato della Tenzone, creduto da me quello in cui, secondo i costumi delle città d'Italia d'allora, s'esercitavano nell'armi specialmente i giovani ne' giorni di festa. Vi restarono prigionieri più di cento cavalieri col podestà di Modena, che era allora Alberto da Lendenara, nobile veronese. In queste guerre de' Lombardi è da notare che d'ordinario non si perdeva la memoria dell'umanità. Si dava quartiere a tutti, mettendo i popoli la loro gloria non già nell'uccidere, ma nel prendere il più che poteano de' loro nemici. Nell'anno presente conculcati i Faentini dal popolo di Forlì, implorarono l'aiuto de' Bolognesi, i quali con possente esercito e col carroccio andarono a campo a Forlì. Scrive il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 15.] che diedero una rotta ai Forlivesi. Di ciò non parlano le storie bolognesi da me date alla luce. Nè si dee tacere che, quantunque gli affari del re Ottone IV fossero in poco buona positura in Germania, e superiori senza paragone fossero le forze del re Filippo, pure papa Innocenzo nell'anno presente [Godefridus Monachus, in Chron.], con ispedire a Colonia Guido cardinale vescovo di Palestrina, solennemente confermò l'elezione di esso re Ottone, e fulminò le scomuniche contra del re Filippo: il che fu occasione a molti di sparlare d'esso pontefice. Le di lui ragioni e giustificazioni si leggono negli Annali ecclesiastici del Rinaldi [Raynaldus, in Annalib. Eccles. ad hunc ann.]. Fece sul fine di quest'anno lega il comune di Modena con quello di Mantova, siccome costa dallo strumento da me dato alla luce [Antiquit. Italic., Dissert. XLIX.].

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Anno di Cristo MCCII. Indizione V.
Innocenzo III papa 5.
Vacante l'imperio.

Furono in quest'anno rivolti gli occhi di tutti gl'Italiani alla ragguardevol crociata che s'incamminava verso Oriente per liberar la Terra santa. Erano già tre anni che in Francia e in Fiandra e in altri paesi oltramontani si predicava questo riguardevol impiego della pietà cristiana per que' sacri luoghi, e non poco calore diede a tale impresa lo zelo di papa Innocenzo. Capo dell'esercito dei crociati era stato scelto il conte di Sciampagna; ma, venuto questi a morte, fu proposto il bastone del comando ad Eude duca di Borgogna, e a Tebaldo conte di Bar, che se ne scusarono. Grande era anche di là da' monti il credito di Bonifazio marchese di Monferrato, fratello di quel valoroso marchese Corrado, che vedemmo principe di Tiro, e proclamato in fine re di Gerusalemme [Vita Innocent. III. P. I, tom. 3 Rer. Ital. Albericus Monachus. Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital. Bernardus Thesaur., tom. 7 Rer. Ital.]. Concorsero que' principi nel desiderio d'averlo per generale, ed avendo spedito messi in Italia a questo fine, il trovarono prontissimo ad assumere così nobil peso. Andò egli in Francia, prese la croce, e concertò con que' principi la maniera dell'esecuzione. Sei deputati vennero in Italia, e, trovato più comodo il dar principio al viaggio per Venezia, colà s'inviarono alcuni deputati per trattarne con Arrigo Dandolo, insigne doge di quella repubblica. Infine tu risoluto che i Veneziani somministrerebbono una flotta di tanti legni che fosse capace di condurre quattro mila e cinquecento uomini a cavallo, nove mila scudieri e venti mila fanti con viveri per nove mesi: il tutto col pagamento di ottantacinque mila marche d'argento. Par credibile che in più volte, e non in una sola, si avesse a far lo trasporto [978] per mare di tanta gente e cavalli. Ne fu scritto al pontefice Innocenzo [Vita Innocentii III, num. 83.], che lodò bensì questo pio movimento dei cristiani, ma rispose che l'approverebbe con un patto ed obbligazione, cioè che non fosse loro permesso di nuocere ai cristiani, se non in caso che volessero frastornare il loro passaggio. Non piacque ai Veneziani questa condizione, perchè già andavano meditando di valersi in lor pro di questa spedizione. Comparvero dunque nell'anno presente a Venezia in folla principi, vescovi e nobili di Francia, di Fiandra, di Borgogna e d'altre contrade, e a migliaia i crociati, tutti vogliosi di far prodezze in Oriente per la fede. Molti Italiani vi concorsero, e fra gli altri Sicardo vescovo di Cremona, il quale per conseguente nella sua Storia, da me data alla luce, può parlar di quegli avvenimenti con fondamento. Ma con tutte le pratiche fatte dal pontefice Innocenzo per pacificar insieme i Genovesi e Pisani, affinchè poi secondassero colle lor forze l'impresa meditata di Terra santa, nulla si potè ottener da loro, prevalendo più in lor cuore l'odio particolare, che il bene universale della cristianità. Fra questi apparati della guerra sacra venne a frammischiarsi un altro affare di tal rilievo, che in breve lo vedremo d'accessorio divenir principale. Ad Isacco Angelo imperador dei Greci aveva Alessio suo fratello levato nell'anno 1495 gli occhi e il trono, e tenuto fin qui in istretta prigione Alessio suo nipote, figliuolo del suddetto [Villharduinus, Sicard., in Chron. Dandul., in Chron. Niceta, in Chron. Abbas Urspergens., in Chron. Vita Innocentii III.]. Ebbe questo giovane principe la fortuna di salvarsi; e, venuto a Roma, si presentò ai piedi di papa Innocenzo III, implorando giustizia contro il tiranno suo zio. Se ne andò poscia in Germania a trovar la regina Irene moglie del re Filippo, sorella sua. Filippo, veggendo già disposto il passaggio de' crociati in Levante, caldamente raccomandò a Bonifazio marchese di [979] Monferrato la persona e gl'interessi di questo suo cognato.

Avevano intanto i Veneziani allestita la gran flotta promessa pel trasporto del preparato esercito; ma a muoverla s'incontrarono varie difficoltà, la maggior delle quali era, che mancava molto a compiere il pagamento accordato dai principi crociati. Il ripiego che si trovò, fu di obbligarsi i Franzesi e i Fiamminghi di dar mano ai Veneziani per ricuperare la città di Zara, loro occupata negli anni addietro dal re d'Ungheria. Fece dunque vela nel dì 8 di ottobre da Venezia l'armata navale, in cui s'imbarcò lo stesso doge Dandolo, benchè vecchio, e benchè quasi cieco; ed arrivò nel dì 10 di novembre a Zara. Cercarono quegli abitanti di rendersi, ma per mala intelligenza fu presa quella città e messa a sacco, con dividersi le ricche spoglie d'essa fra i conquistatori. Ne furono poi atterrate tutte le mura e fortificazioni, per levare ai cittadini la comodità di ribellarsi in avvenire. La troppo avanzata stagione consigliò l'armata a passare il verno in quelle parti. Sommamente dispiacque al pontefice Innocenzo questa prima impresa de' crociati, perchè fatta contra di Arrigo re d'Ungheria, il quale aveva anche esso con Andrea suo fratello presa la croce, e perchè eseguita contro la precedente proibizione del medesimo papa, al cui giudizio s'erano rimessi gli Zaratini. Ne scrisse perciò delle gravi doglianze all'esercito de' crocesignati [Innocentius III, lib, 5, Epist. 161.], trattandoli come scomunicati, e loro comandando la restituzione di quella città. Ma Bonifazio marchese di Monferrato giudicò meglio di non lasciar correre la lettera pontificia, per timore che si sciogliesse in fumo tutta la spedizione. Essendo morto in quest'anno, oppure nel precedente, Marquardo arbitro della Sicilia, ed avendo prese le redini del governo Guglielmo Capperone, siccome dicemmo, ad onta dal papa, si formò contra [980] di lui una fazione degli aderenti dello stesso Marquardo. Non lasciò Gualtieri gran cancelliere, già vescovo di Troia, di pescare in questo torbido. Maneggiossi egli colla corte di Roma, e, prestato giuramento di ubbidire ai comandamenti del pontefice, impetrò l'assoluzione della scomunica. Dopo di che passò in Sicilia, ed unissi cogli avversarii del Capperone, mostrandosi tutto attaccato alla santa Sede, quantunque non potesse più riavere le mitre perdute. Lo strepito della crociata fu cagione che in quest'anno si osservasse tregua dal più delle città. Contuttociò i Modenesi, non potendo digerire la vergogna della battaglia perduta nel precedente anno coi Reggiani, nel presente, chiamati in aiuto i Ferraresi e Veronesi coi lor carrocci (il che portava seco il maggior nerbo della gente di quelle città), passarono ostilmente all'assedio di Rubiera di là dal fiume Secchia; e coi mangani cominciarono a tormentar quella terra, e dare il guasto al paese, senza che potessero i Reggiani col soccorso dei Bolognesi impedir questi danni. Secondo le Croniche di Bologna [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Italic.], Rubiera fu presa. Dell'assedio bensì, ma non dell'acquisto parlano gli Annali di Modena [Annales Veteres Mutinens.]. E quei di Reggio [Memorial. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.] scrivono che non fecero danno alcuno a quel castello. Cerio è che s'interposero Lupo marchese, podestà allora di Parma, e Guarizone ed Aimerico, amendue podestà di Cremona, per condurre a pace questi popoli sì animati l'un contra dell'altro. La pace fu conchiusa nella ghiara di Secchia nel dì 6 d'agosto, e giurata da Manfredi Pico podestà di Modena, e da Gherardo figliuolo di Rolandino bolognese, podestà di Reggio. Fu divisa l'acqua di Secchia, e rilasciati i prigioni. Lo strumento si vede da me dato alla luce [Antiquit. Italic., Dissert. XLIX.]. Abbiamo anche dalla Cronica Piacentina [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] che in questo [981] anno i Cremonesi e Parmigiani andarono all'assedio di Fiorenzuola, nobil terra de' Piacentini, senza sapersene l'esito.


   
Anno di Cristo MCCIII. Indizione VI.
Innocenzo III papa 6.
Vacante l'imperio.

Strepitose furono le imprese fatte dai Latini in quest'anno, non già in servigio di Terra santa, come richiedeva l'impegno da lor preso, ma in favore del giovane Alessio, figliuolo del deposto imperadore Isacco Angelo [Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital. Villharduinus. Godefridus Monach. Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.]. Passò a Zara il predetto principe Alessio, dove fu con onore accolto dal Dandolo doge di Venezia, e dal marchese di Monferrato; e loro fatte varie promesse, qualora l'aiutassero a ricuperare il perduto imperio, e con parte della flotta, essendo l'altra incamminata innanzi, dirizzò le prore verso l'Epiro. La città di Durazzo il ricevette come suo principe. Sbarcarono in Corfù, e quegl'isolani promisero di suggettarsi a lui, dappoichè avesse conquistata la città di Costantinopoli. Tale appunto in fine fu il disegno di que' principi per favorire quel fuggiasco principe, mossi dalle raccomandazioni del re Filippo di Germania, e dalla parentela del re di Francia, contratta coi greci Augusti, mercè delle nozze di Agnese figliuola di Lodovico re con Alessio Comneno; ma più per isperanza di ricavar danari e viveri, senza i quali non vedeano la maniera di arrivare in Soria o in Egitto, secondo il primo loro concerto. Vero è che il papa Innocenzo, informato delle mire d'essi, proibì loro per varie ragioni d'invadere gli Stati del greco Augusto; ma essi, figurandosi forse ch'egli così scrivesse per politica, e che internamente avrebbe caro il lor pensiero, seguitarono il lor viaggio fino a Costantinopoli. Ciò che ivi operassero, s'io volessi prendere a raccontarlo, mi dilungherei troppo dall'assunto [982] mio. In brevi parole dirò, che fatta la chiamata ad Alessio Angelo, occupatore del trono imperiale, nè volendo egli cedere, ruppero i Latini la catena del porto: con che liberamente in quel porto entrarono tutte le lor navi. Per terra e per mare impiegarono sette giorni per espugnar la città. Nell'ottavo uscì Alessio fuori con trenta mila cavalli e infiniti pedoni, disposto a dar battaglia ai Latini; ma, veduta la lor fermezza, fece vista di differire al dì seguente il fatto d'armi; ma, venuta la notte, segretamente presa la fuga, si ritirò ad Andrinopoli. Rinforzò allora l'esercito latino gli assalti, ed entrò per forza in Costantinopoli, con molta strage de' Greci, e saccheggio dei loro averi. Cavato dalle carceri il cieco Isacco Angelo, fu riposto sul trono; e proclamato imperatore anche Alessio suo figliuolo, per cui la festa era fatta, nel mese di luglio solennemente ricevette la corona nel gran tempio di santa Sofia. Marciò poscia coll'esercito contra del fuggitivo Alessio suo zio ad Andrinopoli; lo sconfisse, e l'obbligò a cercarsi un più lontano ricovero. Non so io se prima o dopo quest'ultima azione succedesse ciò che sono per dire. Ossia che i Greci per l'antico odio, o per le fresche perdite, non sapendo soffrire i Latini, ne andassero di quando in quando uccidendo, come scrive Sicardo, oppure, come altri ha scritto, perchè una mano di Fiaminghi i Pisani volle dare il sacco alle case e alle moschee de' Saraceni abitanti di Costantinopoli: diedesi principio un dì ad una fiera mischia fra i Latini e Greci. Attaccato il fuoco ad alcune case, perchè soffiava forte il vento, si dilatò ampiamente per la città, e fece un orrido scempio d'innumerabili chiese, palagi e case. Gran bottino riportarono ancora i Latini da questo fiero accidente. Il resto lo accennerò all'anno seguente.

Sembra che nel presente anno per qualche disgusto ricevuto dai Romani, non mai quieti, papa Innocenzo uscisse di Roma, e si ritirasse a Ferentino. Nonis maji, [983] scrive Giovanni da Ceccano, indignatione Romanorum dominus papa venit Ferentinum [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.]. Lettere sue quivi scritte si leggono. Andò ad Anagni, dove, colto da una grave infermità, diede motivo alla voce ch'egli fosse morto [Vita Innocentii III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Fu questo un colpo mortale a Gualtieri conte di Brenna, perchè su tali dicerie alcune città se gli ribellarono, e fra le altre Matera, Brindisi ed Otranto. Anche Baroli si sottrasse all'ubbidienza di Jacopo, cugino del papa, il quale ricuperò poi le città di Andria e di Minerbio. Inviò papa Innocenzo in Sicilia per suo legato Gherardo cardinale di Santo Adriano suo nipote, con isperanza di dar pace a quegli affari, dappoichè Gualtieri gran cancelliere, e il Capperone, benchè nemici, si mostravano dispostissimi a voler quel solo che piacesse ad esso papa. Non corrisposero gli effetti alle parole. Il cardinale, dopo essere stato alquanti giorni in Palermo, si ritirò a Messina, per quivi aspettar le risoluzioni del pontefice zio. Prosperarono in quest'anno gli affari del re Ottone in Germania [Godefridus Monachus, in Chron.] con singolar piacere del papa che il proteggeva. Ma in Brescia si riaccese la pazza discordia [Malvecius, in Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.]. Dopo avere per qualche tempo i nobili covato il lor odio contro la plebe, e meditata vendetta per gli affronti e danni patiti in addietro, la eseguirono nel gennaio dell'anno presente, dimenticando i giuramenti della precedente pace. Tutti dunque in armi assalirono il basso popolo, che fece quella resistenza che potè. Ne uccisero molti, e più ne costrinsero a cercar colla fuga l'esilio. Racconta il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 15.] sotto quest'anno un gran movimento de' Bolognesi, incitati dalla ambizione, figliuola della potenza e grassezza, per islargare il lor territorio, con danno dei Modenesi; ma senza poter [984] trarre alla loro lega i Cremonesi e Parmigiani collegati di Modena. Anzi, per evitare questa guerra, spedirono i Parmigiani a Bologna Matteo da Correggio lor podestà, e i Cremonesi i lor ambasciadori per pregare e consigliare il popolo di Bologna che si degnasse di rimettere in loro la cognizion di tali differenze. Rispose Guglielmo, podestà di Bologna, di non volere compromettersi nè in loro, nè in persone religiose. Il male è vecchio. Chi ha più forza, dee anche aver più ragione. Leggesi quest'atto nelle mie Antichità Italiane [Antiquit. Ital., Dissert. XLIX.].


   
Anno di Cristo MCCIV. Indizione VII.
Innocenzo III papa 7.
Vacante l'imperio.

Gran mutazione di cose succedette in Costantinopoli nell'anno presente. Non sapeano i Greci mirar di buon occhio il nuovo loro imperador Alessio [Pipinus, in Chron. Bononiens., tom, 9 Rer. Ital. Sicard., in Chron. Godefridus Monachus, in Chron.], perchè s'era servito de' Latini a salire sul soglio con tanto loro obbrobrio e danno. Insorse ancora lite fra esso Alessio e i Latini a cagion delle paghe promesse ai medesimi, il compimento delle quali si andava troppo differendo. Perciò la nobiltà greca elesse imperadore un certo Costantino, e il popolo ne elesse un altro, cioè Alessio soprannominato Murzulfo; nè solamente l'elesse, ma il fece anche coronare Augusto. Questo crudele mise tosto le mani addosso al giovane Alessio Augusto; e cacciatolo in prigione, o col veleno, o in altra guisa il levò dal mondo. Poco stette a tenergli dietro Isacco Angelo suo padre, vinto dal dolore, oppure aiutato da altri ad uscire di questi guai. Questi avvenimenti funesti quei furono che fecero prendere allora, se pur non vi pensavano prima, una risoluzione all'armata latina d'impadronirsi di Costantinopoli, e di piantarvi il loro dominio. [985] Il Continuatore di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Italic.] vorrebbe farci credere che finto fu il disegno di que' principi cristiani di passare in Terra santa; e il vero essere stato fin sul principio quello di sottomettere al loro comando l'imperio de' Greci. Assalirono dunque con battaglia di terra e di mare quella regal città. Murzulfo dopo qualche difesa, considerando la bravura altrui e il pericolo proprio, si ritirò in salvo fuori della città; laonde in fine i cittadini capitolarono la resa nel mese di marzo, la quale non si sa intendere perchè fosse seguitata dal sacco di quell'augusta città, per cui tutti i soldati arricchirono, e da altri eccessi e disordini, di cui è capace in tali congiunture la sfrenata licenza della gente di guerra. Quetati i rumori, fu proposto nel consiglio di que' vittoriosi principi di eleggere un imperador latino, e il più degno fu creduto Baldovino conte di Fiandra. Poscia, secondo i patti, fu fatta la division dell'imperio. Ai Veneziani toccò la quarta parte, consistente in varie provincie, isole e città, specificate tutte ne' documenti aggiunti alla Cronica di Andrea Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], e inoltre la facoltà di eleggere il patriarca latino di Costantinopoli. Questo onore toccò per quella volta a Tommaso Morosino. A Bonifazio marchese di Monferrato in sua parte fu confermato il regno di Tessalonica, ossia di Salonichi, coll'isola di Candia. Agli altri signori furono concedute in feudo altre provincie e terre. Prima di questi sì strepitosi avvenimenti il pontefice Innocenzo III, o prevedendo, o sapendo cosa andassero macchinando i principi crociati, avea con varie lettere e minaccie cercato di rimuoverli dal danneggiare l'imperio greco, perchè di cristiani. Mostrossi anche in collera per tale conquista; ma da saggio se la lasciò passare ben tosto, perchè sotto di lui era accaduto un sì gran cambiamento di cose, vantaggioso non poco alla santa Sede e alla Chiesa latina, con cui, volere o non volere, [986] non tardarono ad accordarsi i Greci, da che Dio avea cotanto umiliato la loro superbia.

In quest'anno Gualtieri conte di Brenna, collegato con Jacopo conte di Tricarico e con Ruggieri conte di Chieti, prese Terracina. Assediato poi dal conte Diopoldo e dai Salernitani, e ferito da una saetta, restò privo d'un occhio; ma al soccorso di lui si affrettarono i due conti suddetti, e il liberarono. Tutto ciò abbiamo da Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.], il quale aggiugne che il soprascritto Diopoldo fu ignominiosamente coi suoi cacciato di Salerno. Profittando i Pisani delle discordie che bollivano in Sicilia, trovarono maniera d'impossessarsi della città di Siracusa, con obbligare a ritirarsi molti di que' cittadini, e fin lo stesso vescovo e i di lui fratelli [Caffari, Annal. Genuens., lib. 4.]. Ciò udito da' Genovesi, tra per l'odio antico contra de' Pisani, e perchè da Arrigo VI Augusto era stata loro assegnata in dominio quella città, vennero in parere di levarla ai Pisani. Unitesi dunque varie loro navi ed armatori nell'isola di Candia, si portarono a Malta, e tirarono con esso loro in lega Arrigo conte di quell'isola, valoroso signore, che in persona con varie galee e colla sua gente accorse alla meditata impresa. Nel dì 6 d'agosto arrivarono sotto Siracusa, e cominciarono le offese contra dei difensori, e dopo sette giorni a forza d'armi v'entrarono, con tagliare a pezzi assaissimi Pisani, e rimettere in casa il vescovo co' suoi fratelli. Ritennero per sè quella città, e il lasciarono un governatore che la reggesse a nome della repubblica di Genova, se pur non gliela diedero in feudo. Ma in Genova una fiera tempesta di mare affondò varie loro navi mercantili, con gravissimo danno di merci e danari. Vi fu anche una sedizione d'alcuni cittadini contro del podestà, che, colla mediazione di persone religiose e d'altri savii, si sopì ben presto. Anche [987] in Piacenza la divisione entrò fra gli ecclesiastici e laici di quella città [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.], e toccò ai primi, siccome inferiori di forze, col loro vescovo Grimerio di abbandonare la città; e tuttochè papa Innocenzo fulminasse le censure contro gli autori di tali eccessi, per tre anni e mezzo stettero quegli ecclesiastici esclusi dalla città. Era stato in addietro lo studio delle città libere quello di sottomettere al loro imperio i castellani e nobili che godeano feudi indipendenti dalle città, con ampliare il loro distretto per quanto poterono. Si rivolsero poi contra de' vescovi, abbati ed altri ecclesiastici, parendo loro che possedessero troppe giurisdizioni e beni in pregiudizio del comune: e, senza rispettare i sacri canoni, gli andarono spogliando di molte terre e di varii diritti, e mettendo talvolta anche delle taglie sopra i loro stabili. Ciò che fece Piacenza, si truova in altri anni praticato da altre città; perciocchè l'esempio è un efficace maestro del mal fare. La nuova della presa di Costantinopoli sparsa per Italia cagione fu che circa mille Cremonesi [Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.] presero il viaggio verso colà, sulla speranza d'arricchire anch'essi alle spese de' Greci. Erano già vicini i Bolognesi e i Modenesi a romperla [Annales Veteres, Mutinens., tom. 11, Rer. Ital.]; e bisogna ben credere che il popolo di Modena si sentisse debole di polso; imperocchè sul principio di gennaio giunse a compromettere le differenze che vertivano cogli avversarli, nello stesso podestà di Bologna, ch'era Uberto Visconte. Ciò che doveva aspettarsene, avvenne. Nel dì 9 di maggio proferì egli il laudo, che stendea i confini del Bolognese sino alla Muzza, con patente ingiustizia. Se ne lagnarono forte i Modenesi; ma, per non potere di più, chinarono la testa, e sofferirono i colpi della contraria fortuna. Noi vedremo ritrattato lo stesso laudo da Federigo II Augusto all'anno [988] 1226. Cercarono poi essi di rifarsi contra de' capitani e castellani del Frignano, viventi in libertà in quelle montagne che dai Liguri Friniati presero il nome: il che diede motivo ai Parmigiani di accorrere col loro carroccio alla difesa di que' popoli. Crema in quest'anno [Gualvan. Flamma, in Manipul. Flor.] restò tutta consumata dal fuoco. Non si era per anche ammogliato Azzo VI marchese d'Este. L'anno fu questo, in cui egli solennizzò le sue nozze con Alisia, figliuola di Rinaldo principe d'Antiochia, che portò nella famiglia estense il nome di Rinaldo, una ricca dote e un nobilissimo parentado. Imperciocchè una sorella fu maritata [Alberic. Monachus, Trium Font., in Chron.] in Manuello Comneno imperador de' Greci, e un'altra, per nome Agnese, divenne moglie di Bela re d'Ungheria. Di questo matrimonio, siccome ancora d'altri atti spettanti ad esso marchese, ho io parlato nelle Antichità Estensi [Antichità Estensi, P. I, cap. 39.].


   
Anno di Cristo MCCV. Indizione VIII.
Innocenzo III papa 8.
Vacante l'imperio.

Terminò in quest'anno Gualtieri conte di Brenna la carriera del suo vivere [Richardus de S. Germano, in Chron. Vita Innocentii III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Passava il suo valore in temerità. Essendo consigliato da chi gli volea bene di aver più guardia a sè stesso, diede una risposta da Guascone, con dire prosuntuosamente che i Tedeschi armati non oserebbono di assalire Franzesi disarmati. Non andò molto che ne fece la pruova. Aveva egli messo l'assedio al castello di Sarno, entro cui rinserrò il conte Diopoldo, e se ne stava con poca guardia. Accortosene Diopoldo, una mattina per tempo co' suoi in armi andò a fargli una visita, ma non da amico; e trovato lui co' suoi, che nudi agiatamente dormivano fra le morbide piume, ne fece un macello. [989] Il conte ferito da più saette e lancie, condotto prigione nel castello, da lì a pochi giorni spirò l'anima, lasciando gravida la moglie sua, chiamata da Rocco Pirro Alteria, o Albiria, figliuola del già re Tancredi, la quale, dopo aver partorito un figliuolo, in cui fu ricreato il nome del padre, passò alle seconde nozze con Jacopo conte di Tricarico. Giovanni conte di Brenna suo fratello fu dipoi creato re di Gerusalemme. Sbrigatosi Diopoldo da questo bravo avversario, e tornatosene vittorioso a Salerno, dove teneva in suo potere la torre maggiore, prese molti Salernitani, e come traditori li punì a suo talento. Infausto riuscì l'anno presente anche ai Latini signoreggianti in Costantinopoli [Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital. Nicetas et alii.]. Portatosi lo imperador Baldovino all'assedio di Andrinopoli, fu quivi preso vivo dai Bulgari, e poi barbaramente ucciso. In luogo suo fu alzato al trono Arrigo suo fratello. Per attestato del Continuatore di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., tom 6 Rer. Ital.], Bonifazio marchese di Monferrato e re di Tessaglia, ossia di Salonichi, si portò all'assedio di Napoli di Malvasia e di Corinto, dove tuttavia signoreggiava quell'Alessio che tirannicamente aveva usurpata la corona del greco imperio. Il fece prigione colla moglie e col figliuolo, e li mandò in una nave di Porto Venere sino a Genova. Di ciò avvisato Guglielmo marchese suo figliuolo, corse immantenente a Genova, e, presi questi illustri prigionieri, seco li condusse in Monferrato. Confessa nulladimeno Sicardo vescovo di Cremona che in quest'anno il suddetto marchese Bonifazio a Graecis et Blachis (Bulgari erano costoro) multa passus est; e che la fortuna nell'anno presente favorevole fu ai Greci, contraria ai Latini. In quest'anno ancora, conoscendo il suddetto marchese di non poter tenere l'isola di Candia, ne fece vendita ai Veneziani per mille marche d'argento, e tanti poderi, che rendessero dieci [990] mila perperi di entrata ogni anno. Lo strumento si legge presso Benevento da San Giorgio [Benvenuto da S. Giorgio, Storia del Monferrato.]. Si rodevano intanto i Pisani per cagion di Siracusa, tolta loro da' Genovesi, e per ansietà di ricuperarla, fecero in quest'anno un grande armamento, ed ebbero soccorso dal conte Rinieri e da altri Toscani. Con queste forze andarono a mettere l'assedio a Siracusa, e la strinsero per tre mesi e mezzo. Mossesi allora Arrigo conte di Malta con quattro galee ben armate, e, venuto a Messina, vi trovò alcune navi de' Genovesi, ed altre ne unì per soccorrere quella città. Dichiarato generale di quella flotta, da Messina passò alla volta di Siracusa. Gli vennero incontro i Pisani con dodici galee ed altri legni, ed attaccarono battaglia, ma con lor danno; perchè, a riserva di cinque galee di Lombardi che presero la fuga, l'altre vennero in potere de' Genovesi. Uscito anche di Siracusa Alemanno conte di quella città, diede addosso ai Pisani ch'erano in terra, e li mise in rotta, con prendere le bandiere, tende e bagaglio del campo loro. Succedette questo fatto nel lunedì avanti alla Natività del Signore.

Molte altre prodezze e prese di ricche navi mercantili veneziane fatte da esso Arrigo conte di Malta, e l'aiuto da lui prestato al conte di Tripoli, si leggono negli Annali Genovesi. In questi tempi la pirateria, ossia il fare il corsaro, era un mestiere che non dispiaceva neppure a molti cristiani; e questo conte non era l'ultimo a praticarlo. All'udire i Genovesi, erano corsari i Pisani, e lo stesso nome veniva dato da altri ai Genovesi. Riuscì in quest'anno al popolo di Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.] di ridurre con amichevol trattato i capitani, cioè i nobili padroni di terre e castella nel Frignano, a sottomettersi alla loro comunità, con divenir cittadini di Modena, promettere di abitar in essa [991] città qualche mese dell'anno, e di militare, secondo le occorrenze, in aiuto del comune. Così il distretto di Modena ripigliò gli antichi suoi confini, e così andavano anche facendo le altre città libere d'Italia. Abbiamo da Gerardo Maurisio che in quest'anno venit studium scholarium in civitate Vicentiae, et duravit usque ad potestariam domini Drudi [Maurisius, Hist., tom. 8 Rer. Ital.], cioè sino all'anno 1209. Antonio Godio [Godius, in Chron., tom. 8 Rer. Ital.] anche gli attesta che nell'anno presente studium generale fuit in civitate Vicentiae, doctores que in contrata sancti Viti manebant. I primi ad istituire lo studio delle leggi nel secolo undecimo o duodecimo furono i Bolognesi, e in quella sola città durò per molti anni questo ornamento, con essersi a poco a poco aggiunti anche i lettori di lettere umane, di filosofia e medicina. Mirando poi gli altri popoli quanto onore e vantaggio venisse a Bologna dal gran concorso degli scolari, s'invogliarono di nobilitar le loro città con somigliante studio. Ciò specialmente fecero anche i Modenesi e i Padovani: del quale argomento ho io trattato altrove [Antiquit. Italic., Dissert. XLIV.]. Era in questi tempi capo della fazion ghibellina in Ferrara Salinguerra figliuolo di Torello. Capo della guelfa tanto in quella città, che per tutta la marca di Verona, era Azzo VI marchese d'Este. Fra sì contrarii genii ed impegni troppo era difficile che lungamente durasse la concordia. In fatti, secondo la Cronica di Bologna [Chron. Bononiense, tom. 17 Rer. Ital.], nell'anno presente il marchese Azzo, non gli piacendo che Salinguerra avesse fortificata la Fratta, castello ne' confini dei suoi Stati, gliel prese e lo dirupò: il che fu principio delle tante dissensioni che seguirono poscia fra loro. La Cronica Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] parla di questo fatto all'anno 1189; ma fuor di sito, a mio credere, perchè solamente nell'anno seguente fra [992] questi due emuli si accese la guerra. Essendo mancato di vita in Costantinopoli l'insigne doge di Venezia Arrigo Dandolo nel dì primo di giugno, portatane la funesta nuova a Venezia, si venne nel dì 5 d'agosto all'elezione d'un nuovo doge, e questa cadde nella persona di Pietro Ziano [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] conte d'Arbe, figliuolo del già doge Sebastiano.


   
Anno di Cristo MCCVI. Indizione IX.
Innocenzo III papa 9.
Vacante l'imperio.

Dopo tanta opposizione fatta fin qui da Diopoldo conte tedesco a papa Innocenzo III in Puglia, costui finalmente cercò di rimettersi in grazia d'esso pontefice [Richardus de S. Germano.], con promettergli una totale ubbidienza e sommissione, e specialmente per gli affari del governo del regno di Sicilia. Fu dunque chiamato a Roma, ed ottenuta che ebbe l'assoluzion dalle scomuniche, con licenza del sommo pontefice se ne tornò a Salerno. Sperava Innocenzo col braccio di questo ministro di ristabilir la pace, e insieme la sua autorità nella corte reale di Palermo. Passò infatti Diopoldo, secondo l'Anonimo Casinense [Anonymus Casinens., in Chron.], in quest'anno, oppure, come ha Riccardo da san Germano, nell'anno seguente in Sicilia; e tanto si adoperò con Guglielmo Capperone, che l'indusse a consegnare il giovinetto re Federigo nelle mani del cardinale legato. Ma Diopoldo si trovò ben presto tradito. Fu sparsa voce ch'egli con sì belle apparenze era dietro ad impossessarsi del re, e ad atterrare lo stesso Capperone e Gualtieri gran cancelliere, che cozzavano da gran tempo fra loro. Fondata, o immaginata che si fosse dai malevoli una tal diceria, la verità è che, avendo Diopoldo preparato un convito per solennizzare la pace fatta, contra di lui fu svegliata una sedizione, in cui preso, egli andò a far [993] delle meditazioni in prigione. Ma non vi si fermò molto, perchè ebbe chi Io aiutò a fuggire; e fortunatamente uscito di Palermo, si ricoverò di nuovo a Salerno. Allora il gran cancelliere giunse ad aver in suo potere il re Federigo. Circa questi tempi Bonifazio marchese di Monferrato fu coronato re di Tessalia; ed abbiamo dal Continuatore di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom. 6 Rer. Ital.] che in Genova furono armate quattro galee per condurre a Costantinopoli una figliuola d'esso marchese, destinata in moglie ad Arrigo di Fiandra, nuovo imperador latino in quelle parti. Proseguiva con calore l'astio e la guerra fra i due competitori nel regno germanico, cioè tra Filippo di Suevia e Ottone estense-guelfo [Godefridus Monachus, in Chron. Alberic. Monachus, in Chron.]. Ebbe una rotta in quest'anno il re Ottone: il che indusse il popolo di Colonia ad accomodarsi col re Filippo. Trovossi allora Ottone a mal termine, e, portatosi a Brunsvich, dopo aver dato buon sesto a' suoi affari, passò in Inghilterra a chiedere soccorso al re Giovanni suo zio, e vi fu ricevuto con grande onore sì dal re, come da tutti i baroni. Dopo esservisi trattenuto per qualche tempo, se ne tornò in Germania, portando seco un gagliardo rinforzo di danaro. Verso questi tempi i nobili, che soli governavano Brescia [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.], vennero fra loro alle mani, e si sparse molto sangue: il che fu cagione che fu richiamata in città quella plebe che n'era stata cacciata. Ma poca durata in quella sconvolta città ebbe la pace. Sorse Alberto conte di Casalalto, che aspirava al comando sopra gli altri, e si venne all'armi. Coi suoi aderenti fu forzato a fuggirsene dalla città, e continuò dipoi la guerra civile. Essendo mancato di vita in questo anno Filippo arcivescovo di Milano, in luogo suo venne eletto Uberto da Pirovano, il quale, secondo le pruove addotte dal [994] signor Sassi [Saxius, in Not. ad Sigon., de Regno Ital.], fu insieme cardinale della santa romana Chiesa. Terminò ancora i suoi giorni Alberto arcivescovo di Ravenna, ed ebbe per successore Egidio vescovo di Modena [Annal. Veter. Mutin., tom, 11 Rer. Ital. Rubens, Hist. Ravenn., lib. 6.]. Entrò in quest'anno la discordia anche nella città di Verona. Bonifazio conte, figliuolo di Sauro conte di San Bonifazio, che era chiamato conte di Verona, non già perchè la governasse allora, ma perchè era discendente dagli antichi conti, o, vogliam dire, governatori perpetui di quella città, siccome del partito de' Guelfi, ebbe controversie [Paris. de Cereta, Chron. Veronense, tom. 8 Rer. Ital.] coi Monticoli, ossia Montecchi, potenti cittadini di Verona, di partito contrario. Nel di 14 di maggio venute alle mani queste due fazioni, seguì un fiero conflitto; e soccombendo i Monticoli, si sottrassero colla fuga al pericolo di peggio. Furono in questa occasione bruciate le case loro, le botteghe de' mercatanti e le case dei nobili dalla Carcere e di Lendenara.


   
Anno di Cristo MCCVII. Indizione X.
Innocenzo III papa 10.
Vacante l'imperio.

Era in grande auge di gloria e di potenza Bonifazio marchese di Monferrato, perchè re di un bel regno, cioè di Salonichi e della Tessalia. All'udire [Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.] che i Saraceni aveano assediata Satalia, benchè non di sua giurisdizione, non potè contenersi il suo valore dall'accorrere in aiuto de' cristiani. Ma, venuto a battaglia con quegl'infedeli, ferito da una saetta avvelenata, diede gloriosamente fine alla sua vita. Restarono di lui due figliuoli maschi, Guglielmo, che fu marchese di Monferrato, e Demetrio, a cui toccò la corona del regno tessalico. Soggiornava in Salerno il conte Diopoldo [Anonymus Casinens., in Chron. Richardus de S. Germano.], mal soddisfatto [995] de' suoi emuli che governavano la Sicilia, e probabilmente anche della corte di Roma. Insorsero dissapori fra lui e i Napoletani, e si venne a decidere col ferro la loro contesa. Rimasero disfatti i Napoletani, con gravissima loro perdita di gente. Fra gli altri prigioni vi restò Giffredo da Montefuscolo, che era loro generale. Essendo prevaluta in Verona la fazione de' Guelfi, per fortificarla maggiormente si studiarono essi di avere per loro podestà in quest'anno Azzo VI marchese d'Este: uffizio ben volentieri accettato da lui, perchè l'andare per podestà nelle città libere d'allora si chiamava andare in signoria, cioè andar a fare il principe in quelle città [Roland., lib. 1, cap. 9. Gerard. Maurisius, tom. 8 Rer. Ital.]. Unitosi dunque col conte Bonifazio da San Bonifazio, nobile e potente signore tanto in Verona che nel suo distretto, cominciò il marchese ad esercitar con vigore il suo governo. Ma i Montecchi esiliati, ai quali troppo dispiaceva la patita depressione, collegatisi col marchese Bonifazio d Este, zio d'esso Azzo, e alieno da lui per liti civili, e con Eccelino da Onara, padre del crudele Eccelino, e non già del conte Bonifazio da San Bonifazio, come per qualche errore de' copisti si legge nella Cronica di Parisio da Cereta [Parisius de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Italic.], furtivamente introdotti una notte in Verona, costrinsero il marchese Azzo ad abbandonar la città. Allora fu che anche Salinguerra, capo de' Ghibellini in Ferrara, scopertosi intrinseco amico di Eccelino, cacciò da quella città tutti gli aderenti del marchese Azzo, e senza lasciar più luogo a lui, cominciò a farla da signore di Ferrara. Ma che non andasse impunita l'insolenza di costoro, lo vedremo all'anno seguente. Ritirossi il marchese alla terra della Badia, e negli altri suoi Stati, dove attese a far gente. Parla di questo fatto anche la Cronica [996] Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], con aggiugnere che Salinguerra prese in quest'anno ai Ravennati la grossa terra d'Argenta, e, consegnatala alle fiamme, se ne tornò trionfalmente a Ferrara con assaissimi prigioni. Fin l'anno addietro papa Innocenzo III, che vedea in gran declinazione gli affari del re Ottone in Germania, ricevute che ebbe lettere di gran sommessione dal re Filippo [Arnold. Lubec., lib. 7, cap. 6.], siccome personaggio provveduto di una buona bussola per sapere con vantaggio navigare secondo i venti, cominciò a parlar dolce con esso Filippo; e, spediti in quest'anno in Germania due cardinali legati, diede ordine che si trattasse di pace. V'ha chi scrive [Abbas Urspergens., in Chron.] essersi questa conchiusa con obbligarsi il re Filippo di dare una sua figliuola per moglie al re Ottone col ducato della Suevia. Altri niegano che seguisse accordo alcuno; e giacchè non si potè ottener altro, i legati stabilirono una tregua d'un anno, e fecero depor l'armi a Filippo. Ciò non ostante [Arnol. Lubec., Chron., lib. 7, cap. 6. Albert. Stad., ad annum 1207.], papa Innocenzo diede mano ad un accomodamento proprio con Filippo, disposto a dargli la corona dell'imperio, tuttochè avesse già riconosciuto Ottone per legittimo re de' Romani. Racconta Corrado abbate Urspergense d'avere inteso da persone veridiche che Filippo si guadagnò l'animo del pontefice colla promessa di concedere in moglie a Riccardo fratello d'esso papa, già fatto conte, una sua figliuola, e di dargli in dote la Toscana, Spoleti e la marca d'Ancona. Probabilmente queste furono dicerie de' fautori del re Ottone, oppure di coloro che facilmente fanno gl'interpreti de' gabinetti de' principi. Per altro non dimenticò mai questo pontefice, in mezzo ai pubblici affari, i privati della propria casa. Sparsasi poi per l'Italia la nuova del favorevol ascendente del re Filippo, non perde tempo Azzo VI marchese [997] d'Este ad inviar deputati in Germania, per ottener la conferma delle appellazioni della marca di Verona, cioè di Verona, Vicenza, Padova, Trivigi, Trento, Feltre e Belluno, e l'investitura di cinque ville poste nel territorio di Vicenza, per sè e per la principessa Alisia sua moglie. Leggonsi questi due diplomi, spediti in Argentina XIV kalendas julii, nelle Antichità Estensi [Antichità Estensi, P. I, cap. 39.]. Un altro diploma, con cui Filippo concede in feudo a Tommaso conte di Savoia nel dì primo di giugno alcune castella, mentre stava in Basilea, si legge presso il Guichenon [Guichenon, Histoire de la Mais. de Savoye, tom. 3.].


   
Anno di Cristo MCCVIII. Indizione XI.
Innocenzo III papa 11.
Vacante l'imperio.

Già il tutto era disposto per la riconciliazione ed esaltazione del re Filippo; già avea egli spedito i suoi ambasciatori a papa Innocenzo III per la confermazione dei capitoli accordati coi legati apostolici: quando un funesto accidente scompigliò e rovesciò tutti questi disegni [Arnold. Lubecensis, lib. 7, cap. 14. Otto de S. Blasio. Abbas Urspergens. Godefridus Monachus.]. Soggiornava il re Filippo in Bamberga, raunando un potente esercito contra del re Ottone, oppur contra di Waldemaro re di Danimarca, collegato d'esso Ottone. Trovandosi alla sua corte Ottone palatino conte di Witelspach, uomo facinoroso, sdegnato con esso Filippo per alcune cagioni, e specialmente per non aver potuto impetrare da lui in moglie Cunigonda di lui figliuola, benchè ne fossero seguiti gli sponsali o le promesse: nel giorno in cui s'era Filippo fatto salassare ad amendue le braccia, chiese udienza per parlargli. Ammesso nella camera del re, sguainato il ferro, con un sol colpo vibrato alla testa, lo stese morto a terra. Sbrigato poi con altri colpi da chi voleva arrestarlo, e salito co' suoi nei [998] preparati cavalli, felicemente si mise in salvo. Quest'orrido eccesso, commesso nel dì 21 di giugno, oppure nel seguente, si tirò dietro la detestazione di tutti, e massimamente del re Ottone, che nulla ebbe che fare nella risoluzion presa da questo assassino. Tornò bensì in vantaggio di esso Ottone l'altrui iniquità; perciocchè, tenuta una dieta ad Alberstad, quivi con unanime consenso dei principi fu di nuovo eletto re de' Romani e di Germania. Poscia in un altro più solenne parlamento congregato in Francoforte nella festa di san Martino, non solamente ricevette le regali insegne, ma conchiuse ancora un altro importante affare, cioè di prendere in moglie Beatrice figliuola dell'ucciso re Filippo, la quale gli portò poi in dote trecento cinquanta castella, e gli altri allodiali della casa di Suevia, quasichè per nulla si contasse allora Federigo II re di Sicilia, nipote d'esso Filippo. Così per tutta la Germania rifiorì la pace e la tranquillità; e papa Innocenzo, dopo aver detestato l'assassinio fatto a Filippo, rivolse tutto il suo studio e le sue carezze in favore del re Ottone. Attese dal suo canto anche Ottone a guadagnarsi gli animi de' principi già suoi avversarii, con rinunziare particolarmente alle pretensioni sue sopra quegl'immensi Stati, de' quali era stato spogliato a' tempi di Federigo Barbarossa il duca Arrigo Leone suo padre.

Per vendicarsi dell'affronto ricevuto nell'anno addietro in Verona dagli emuli suoi, Azzo VI, marchese d'Este [Gerardus Maurisius Hist., tono. 8 Rer. Ital.] congregò un potente esercito di Lombardi, Romagnuoli e della marca di Verona, e massimamente ebbe in suo aiuto il comune di Mantova. Con queste forze entrato in Verona, s'impadronì di qualche fortezza. In aiuto della fazione contraria dei Montecchi accorse Eccelino da Onara, soprannominato poi il Monaco, con un buon corpo di gente. Vennero anche i Vicentini fino alle porte, per desiderio di [999] metter pace; ma guerra vi fu, e si venne a battaglia nella Braida di Verona, in cui, dopo ostinato combattimento e strage di molti, la vittoria si dichiarò in favore del marchese. Fuggirono i Montecchi, e si fecero forti nelle rocche di Garda e di Peschiera. Le lor torri e case in Verona furono diroccate, e da lì innanzi il marchese Azzo col conte di San Bonifazio signoreggiò, finchè ebbe vita, in quella città. Ho ben io raccontato questo avvenimento sotto l'anno presente colla scorta di Rolandino [Roland., lib. 1, cap. 9.]. Ma Parisio da Cereta [Paris. de Cereta, Chron., tom. 8 Rer. Ital.] mi par più degno di fede, perchè scrittor veronese, e non men antico dell'altro. Questi lo riferisce all'anno 1207, e ci assicura che quel conflitto accadde nel dì 29 di settembre, festa di san Michele. Scrive ancora Rolandino che il suddetto Eccelino, padre del crudele Eccelino, restò prigione del marchese, che il trattò con gran cortesia ed onorevolezza, e infine, donatagli la libertà senza riscatto, il fece nobilmente accompagnare fino a Bassano. E quivi Rolandino prorompe in lode di questi tempi, ne' quali sì buon trattamento si faceva ai nemici prigionieri, laddove cinquanta anni dappoi ogni sorta di crudeltà si cominciò a praticar contra di essi. Gherardo Maurisio, scrittore parzialissimo della casa d'Eccelino, scrive ch'egli ebbe la fortuna di salvarsi co' suoi dopo la rotta suddetta; e che avendo poi il marchese Azzo messo l'assedio alla fortezza di Garda, e ridottala a tale, che già alla guarnigione erano mancati i viveri, Eccelino con alcune schiere d'armati raunati in Brescia comparve all'improvviso sotto Garda, e la fornì di vettovaglie per un anno: sicchè fu obbligato il marchese a ritirarsi. All'incontro abbiamo dal poco fa mentovato Parisio che Garda fu presa dal marchese, e condotti prigioni ad Este quei difensori: il che vien anche asserito da Andrea Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.].

[1000] Qui non si fermò l'attività e il valore del marchese d'Este. Venuto a Ferrara con grande sforzo di genie, ne cacciò Salinguerra capo de' Ghibellini. E allora fu che il popolo di Ferrara, per mettere fine alle interne sue turbolenze, determinò di mettersi nelle braccia d'un solo, e di proclamare per suo signore il marchese. Fu eseguito il pensiero, e data a lui una piena balia sopra quella città e suo distretto con uno strumento che si legge nelle Antichità Estensi [Antichità Estensi, P. I, cap. 39.]. Di questo suo dominio in Ferrara abbiamo anche la testimonianza di Gherardo Maurisio. Negli Annali antichi di Modena [Annal. Veter. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.] è scritto che Salinguerra, cacciato da Ferrara, si ricoverò in Modena. E merita riflessione che il predetto marchese Azzo fu il primo, per quanto io sappia, che acquistasse principato in città libere per volere de' cittadini, acciocchè cessassero gli abbominevoli effetti delle fazioni e guerre civili: il che servì poscia d'esempio ad altre per fare lo stesso. Venivano allora così fatti principi considerati come capi delle repubbliche, perchè tuttavia restava il nome e l'autorità d'esse repubbliche. La lega fatta dallo stesso marchese colla città di Cremona, nelle suddette Antichità Estensi si può leggere. E d'un'altra stabilita col popolo di Ravenna parla Girolamo Rossi [Rubeus, Histor. Ravenn., lib. 6. Parisius de Cereta, in Chron., tom. 8 Rer. Ital.]. Ricuperò ancora il marchese la fortezza di Peschiera, e quivi caduti nelle sue mani i Montecchi, li mandò nelle carceri d'Este. A quell'assedio intervennero i Veronesi e Mantovani coi loro carrocci. Truovasi poi nei suddetti Annali di Modena che in questo anno il popolo modenese andò in aiuto de' Mantovani, perchè loro si era ribellata Suzara. Secondo la Cronica di Reggio [Memoriale Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.], all'assedio di quella terra furono i Mantovani, il marchese d'Este, i Modenesi [1001] e Cremonesi. Ma sopraggiunti i Reggiani coi loro collegati, si sciolse quell'assedio. Quali fossero questi collegati, si raccoglie dagli Annali di Modena, nei quali è scritto sotto il presente anno: Bononienses cum suo carroccio. Imolenses, et Faventini iverunt in servitio Regiensium per burgos civitatis Mutinae. Ed ecco come in questi tempi erano sempre in armi e in moto i popoli della Lombardia, per opprimersi o difendersi l'un l'altro. La lor libertà era un gran bene, ma insieme un gran male la loro ambizione ed inquietudine. Se crediamo agli storici moderni della Sicilia, Inveges, Pirro ed altri, il pontefice Innocenzo III nell'anno presente per mare si portò a Palermo, e vi arrivò nel dì 30 di maggio, per dar sesto agli affari del re Federigo. Sono favole, fondate, a mio credere, sopra una lettera d'esso papa, in cui dice d'essere entrato nel regno. Ma questa sua entrata altro non vuol dire, se non ch'egli andò a Sora, ricuperata con altre terre in quest'anno dalla tirannide degli uffiziali tedeschi, delle quali creò egli conte Riccardo suo fratello. Poscia se n'andò a San Germano e a Monte Casino. Questo è tutto quello che di lui raccontano l'autore anonimo della sua Vita [Vita Innocentii III, P. I, tom. 3 Rer. Ital.], l'Anonimo Casinense [Anonymus Casinensis, in Chron.] e Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.]. Se il pontefice avesse fatto un viaggio fino in Sicilia, siccome avvenimento tanto più considerabile, non l'avrebbono taciuto quegli autori. Aggiungasi che esso Riccardo storico e Giovanni da Ceccano [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.] minutamente descrivono i passi di questo pontefice, con dire ch'egli nel dì 16 di giugno, uscito di Roma, andò ad Anagni, poscia a Piperno, al monistero di Fossanuova, e nel dì 23 d'esso mese a San Germano, dove tenne un parlamento coi baroni del regno per aiuto del re Federigo, e per la pace di quelle contrade. [1002] Che luogo dunque resta all'immaginato suo viaggio in Sicilia?

Racconta Galvano Fiamma [Gualv. Flamma, in Manipul. Flor., cap. 241.] che in quest'anno i Milanesi, udita l'esaltazione di Ottone IV re, non più dubbiosa, gli spedirono ambasciatori fino a Colonia, pregandolo di venire a ricevere la corona del regno d'Italia. Duranti le discordie passate fra la nobiltà e la plebe di Brescia, era venuta alle mani de' Cremonesi la terra di Ponte Vico. Vollero i Bresciani ricuperarla, e la strinsero d'assedio. Si mossero bensì i Cremonesi, con avere in aiuto il marchese d'Este; ma sopraggiunti i Milanesi collegati de' Bresciani, misero in rotta il campo cremonese, con far prigionieri quattrocento de' loro uomini a cavallo; e Ponte Vico tornò in potere de' Bresciani. Nella Cronichetta di Cremona [Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.] è scritto di Assagito da San Nazario, potestà in quest'anno di Cremona: Hic suo tempore cepit Pontevicum, et suo tempore perdidit. Aveva Arrigo conte di Malta [Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom. 6 Rer. Ital.] fiancheggiato dai Genovesi, tolta ai Veneziani l'isola di Creta, ossia di Candia, nell'anno 1206. Inviarono in quest'anno i Veneziani una flotta contra di lui; ma furono rotti, e restò prigione Rinieri Dandolo loro ammiraglio. L'insigne storico veneto Andrea Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] differentemente parla di questi affari: cioè che nell'anno 1206 fu spedito Rinieri Dandolo con una armata di galee trentuna, il quale prese Leone Vetrano corsaro genovese con galee nove di suo seguito; dal che nacque guerra fra i Genovesi e Veneziani. Impadronissi ancora il suddetto Rinieri di Corfù, Modone, Corone, Atene e d'altri luoghi. In questi tempi Arrigo chiamato Pescatore, conte di Malta, colle forze de' Genovesi mise piede in Candia, coll'impadronirsi di molto paese. Nell'anno 1207 l'armata veneta giunta colà, ricuperò la capitale [1003] dell'isola, e mise in fuga il Maltese, con prendergli quattro navi. Nell'anno presente, uscito in campagna esso Rinieri Dandolo contra d'alcuni ribelli, ferito da una saetta in un occhio, terminò i suoi dì, e fu seppellito nella città di Candia. Seguitò poi la guerra coi Genovesi; ma pare che l'isola di Candia restasse interamente sotto il dominio veneto. Ebbero anche i Veneziani il possesso di Negroponte e di Cefalonia, ed infeudarono quei paesi per lor minore fastidio ad alcuni nobili.


   
Anno di Cristo MCCIX. Indizione XII.
Innocenzo III papa 12.
Ottone IV imperadore 1.

Solennizzò in quest'anno con dispensa pontificia Ottone IV re de' Romani in Wirtzburg le sue nozze con Beatrice figliuola del re Filippo ucciso [Abbas Urspergensis, in Chron. Godefridus Monachus, in Chron., et alii.]. Aveva egli messo al bando dell'imperio Ottone conte palatino di Witelspach uccisore del medesimo, e confiscati i di lui Stati, con distribuirli a varie persone. Questi nell'anno presente colto da Arrigo di Calendin maresciallo, restò con più ferite tolto dal mondo. Inviò in Italia Volchero patriarca d'Aquileia a riconoscere i diritti imperiali, e a disporre le città per la sua venuta. Sopra di che è da leggere il Sigonio. Acconciò egli intanto tutti i suoi affari con papa Innocenzo III, per poter passare a Roma, e ricevere la corona imperiale. Tutto quanto seppe dimandare il pontefice, fu liberalissimamente accordato e promesso da lui, mentre era nella città di Spira, con obbligarsi di restituire alla Chiesa romana tutta la terra di Radicofani sino a Ceperano, la marca d'Ancona, il ducato di Spoleti, la terra della contessa Matilda, la contea di Bertinoro, l'esarcato di Ravenna, la Pentapoli, e tutto quanto era espresso in molti privilegii d'imperadori e re dai tempi di Lodovico Pio. Ciò fatto, Ottone, [1004] dopo aver celebrata in Augusta la festa de' santi Apostoli Pietro e Paolo, con forte esercito per la valle di Trento calò in Italia. Passò l'Adige sopra un ponte fabbricato dai Veronesi [Gerard. Maurisius, Hist. tom. 8 Rer. Ital.], da' quali pretese e ricevette la rocca di Garda. Furono a pagargli il tributo de' loro ossequii Azzo VI marchese d'Este, ed Eccelino da Onara, fra' quali passavano nimicizie, ed, altercando insieme, si sfidarono alla presenza d'esso re. Curioso è quanto racconta il Maurisio dell'incontro di questi due emuli, e della cura ch'ebbe Ottone di pacificarli, e de' sospetti poi conceputi di loro. Ne ho parlato nelle Antichità Estensi. Ordinò egli al marchese di rimettere in libertà i prigioni; e fu ubbidito. Venne Ottone verso Modena [Annales Veteres Mutinens., tom, 11 Rer. Italic.], e si attendò nel distretto di Spilamberto. Indi, per testimonianza di Ottone da San Biagio [Otto de S. Blasio, in Chron.], passò a Bologna, dove concorsero tutti i principi e deputati delle città d'Italia, e vi fu fatta gran corte e festa. Di là portossi a Milano, ricevuto con gran pompa ed allegria da quel popolo. In tale occasione gli storici milanesi scrivono [Gualvan. Flamm., in Manip. Flor., cap. 244. Corius, Bossius, et alii.] che esso re prese nella basilica di santo Ambrosio la corona del regno d'Italia, nè per tal funzione volle chiedere o ricevere quella contribuzion di danaro che, secondo il costume, si pagava dai popoli. Tristano Calco [Tristan. Calcus, Histor. Mediolan.] differisce all'anno seguente la di lui coronazione italica: il che sembra poco verisimile, l'uso essendo stato che la corona del regno d'Italia precedentemente alla romana si conferisse. Ma certo non sussiste il dirsi da Galvano Fiamma, che Ottone fosse coronato nel sabato santo di quest'anno, perchè egli non era per anche disceso in Italia; e tal asserzione può piuttosto persuaderci l'opinione del Calchi, che riferisce la di lui coronazione [1005] in Milano al sacro giorno di Pasqua dell'anno susseguente. Dopo aver quivi dato ordine agli affari del regno d'Italia, si rimise in viaggio il re Ottone, e, passato l'Appennino, per tutta la Toscana fu ben veduto ed accolto. Trovò a Viterbo papa Innocenzo [Johan. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.], che l'aspettava; e concertata con lui la coronazione romana, e confermati i giuramenti, continuò il viaggio alla volta di Roma coll'esercito suo, accresciuto di molte migliaia d'Italiani, e andò ad accamparsi nelle vicinanze di san Pietro, cioè della basilica vaticana. In essa poi dalle mani di papa Innocenzo III ricevette l'imperial corona e benedizione. Il giorno di sì solenne funzione è controverso fra gli storici [Otto de S. Blasio, in Chron., Arnold. Lubec. Godefridus Monach. Matthaeus Paris. Histor. Angl.]. Alcuni la scrivono fatta nel dì 27 di settembre, giorno di domenica, altri nella seguente domenica, giorno 4 d'ottobre. Non ho io trovato finora lumi bastanti per decidere questo dubbio, parendomi nulladimeno più probabile la seconda opinione. Accompagnò Ottone colla corona in capo il pontefice sino alla porta di Roma fra la gran calca delle sue truppe, e tornossene dipoi al suo padiglione.

Ma questa gran festa ed allegria mutò ben presto aspetto. Ossia, come vogliono alcuni [Abbas Urspergens., in Chron. Jordanus, in Chron.], che accidentalmente venissero alle mani i Romani coi Tedeschi a cagione di qualche danno o insolenza loro fatta; oppure, secondo altri, che il popolo romano pretendesse quei grossi regali, che da alcuni precedenti Augusti erano stati lor fatti nella coronazione romana, e Ottone ricusasse di soddisfarli; certo è che seguì fra i Romani e Tedeschi una calda baruffa, e la peggio toccò alle genti del novello imperadore. Non sine strage magna suorum, dice Riccardo da San Germano [Richard. de S. Germ., in Chron.]. Giordano [1006] ed Alberico monaco dei tre Fonti [Albericus Monachus, in Chronic. Appendix ad Robert. de Monte.] amplificando, a mio credere, questo avvenimento, scrivono: Multi de Teutonicis occisi sunt, et plurimi damnificati, ita quod dictum est postea, in illo bello mille centum equos amisisse imperatorem, praeter homines occisos, et alia damna. Non ci è fondamento bastante di credere così gran perdita. Ma verisimilmente per questo accidente cominciò a turbarsi la buona armonia fra il papa e l'imperadore, il quale, venuto in Toscana, parte quivi e parte in Lombardia passò il verno seguente, con aver licenziata la maggior parte dell'armata sua. Parmi ancora credibile che non tardasse molto l'Augusto Ottone ad occupare o a non restituire alcuni degli Stati della Chiesa romana, non ostante la promessa e il giuramento da lui prestato. La storia è qui molto scarsa, nè ci scuopre le cagioni tutte che produssero dipoi tanti sconcerti fra la santa Sede e il suddetto imperadore. Sappiamo da tutti che papa Innocenzo III accusò di usurpazione e perfidia Ottone; e che, all'incontro, Ottone pretendeva di non operar contro il giuramento fatto in favor del pontefice, con dire ch'egli prima avea nella sua coronazione germanica giurato di conservare e ricuperare gli Stati e i diritti imperiali. Si può credere che mettessero la zampa nel consiglio imperiale i legisti politici, con rappresentare ad Ottone l'esempio de' suoi predecessori, che aveano goduto il dominio di quegli Stati, e date ne aveano le investiture: il che era stato praticato anche da Arrigo I imperadore santo. Forse ancora chiamarono ad esame i diplomi delle concessioni fatte ai papi dagli imperadori fin da' tempi di Lodovico Pio sino a questi, con trovarvi delle difficoltà. Comunque sia, egli è fuor di dubbio che grande strepito fece il pontefice contra di Ottone, l'ammonì per mezzo dell'arcivescovo di Pisa, ma indarno sicchè [1007] giunse infine ad atterrarlo, siccome vedremo. Più che mai seguitava intanto il vigilantissimo papa a tenersi ben unito con Federigo II re di Sicilia, considerando il bisogno che potrebbe occorrere di quel principe, qualora le speranze da lui concepute di Ottone IV rimanessero deluse. Fu egli dunque che consigliò a Federigo di accasarsi; fu egli ancora mediatore del matrimonio di lui con Costanza figliuola del re d'Aragona. Nel mese di febbraio del presente anno, essendo stata condotta questa principessa a Palermo, con rara magnificenza se ne celebrarono le nozze. Abbiamo da Gerardo Maurisio [Gerard. Maurisius, Hist., tom. 8 Rer. Ital. Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] e da altri storici che in quest'anno Salinguerra capo de' Ghibellini in Ferrara, co' suoi aderenti seppe far tanto, che rientrò in Ferrara, spogliò di quel dominio Azzo VI marchese d'Este, e cacciò in esilio tutti i di lui partigiani. Trovavasi allora il marchese collo esercito suo accompagnato dai Veronesi e Vicentini verso la Brenta, per passare alla distruzione della nobil terra di Bassano, dove Eccelino da Onara nemico suo signoreggiava. Erano anche in armi i Trivisani, per dar aiuto ad esso Eccelino. Arrivò al marchese la nuova della perdita di Ferrara: allora precipitosamente levò il campo e tornossene a Vicenza, ubbidiente in questi tempi ai suoi cenni, e fu inseguito da Eccelino sino alle porte di quella città. Non andò più innanzi questa briga, perchè, arrivato il re Ottone, che veniva allora dalla Germania, ad Orsaniga, tanto il marchese che Eccelino dovettero ire alla corte, siccome ho di sopra accennato. In Cremona [Chron. Cremonens., tom. 7 Rer. Italic.] ancora nell'anno presente v'entrò la discordia. Il popolo si divise in due fazioni: l'una teneva la città vecchia, e l'altra la nuova, di modo che arrivarono nell'anno seguente cadauna delle parti ad eleggere il suo podestà.

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Anno di Cristo MCCX. Indizione XIII.
Innocenzo III papa 13.
Ottone IV imperadore 2.

Trovavasi l'imperadore Ottone tuttavia in Toscana XIII kalendas februarii dell'anno presente, ciò apparendo da un suo diploma dato ad Azzo VI marchese d'Este apud Clusinam civitatem [Antichità Estensi, P. I, cap. 39.]. Intorno al qual documento è da avvertire che il saggio pontefice Innocenzo negli anni addietro, attento a ricuperar dalle mani de' Tedeschi gli Stati della Chiesa romana, standogli forte a cuore la marca d'Ancona, perchè non avea forze bastevoli per ricuperare e sostener quel paese alla sua divozione, lo concedette con investitura al suddetto marchese d'Este, ben conoscendo di che valore egli fosse dotato. Abbiamo di ciò la sicura testimonianza di Rolandino [Roland., Chron., lib. 1, cap. 10.] storico di questo secolo. Ma avendo l'Augusto Ottone IV preteso che quello Stato appartenesse all'imperio, giudicò meglio il marchese Azzo di prenderne l'investitura anche da esso imperadore, e forse con tacito consenso del pontefice, acciocchè non si annidasse in quel dominio qualche persona mal affetta alla santa Sede. Ottone dunque l'investì di quella marca, che abbracciava allora le città d'Ascoli, Fermo, Camerino, Osimo, Ancona, Umana, Iesi, Sinigaglia, Fano, Pesaro, Fossombrone, Cagli e Sassoferrato. Viene ivi chiamato cognatus noster Azzo marchio estensis da Ottone, perchè amendue discendeano dal marchese Azzo III, comune stipite della linea di Germania e dell'italiana. Un altro diploma d'esso Ottone, dato in Foligno nel dì cinque di gennaio, ho io quivi accennato. Presso l'Ughelli [Ughel., Ital. Sacr., tom. 3 in Episcop. Pistoriens] un altro se ne legge, dato apud Pratum in Toscana VIII idus februarii. Era esso [1009] Augusto apud Imolam III calendas aprilis, come costa da un altro suo diploma riferito dal medesimo Ughelli [Ughel., Ital. Sacr., tom. 2 in Episcop. Parmens.]. Trasferitosi anche a Ferrara, quivi pubblicò un editto contro gli eretici paterini, ossia gazari, mettendoli al bando dell'imperio, coll'intimar pene gravissime contra dei medesimi. Il suo diploma, da me pubblicato [Antiquit. Ital., Dissert. LX.], fu dato Ferrariae VIII kalendas aprilis del presente anno. Probabilmente in questa congiuntura ch'egli pacificò insieme il suddetto Azzo VI marchese di Este e Salinguerra competitori nella signoria di Ferrara [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Imperator praedictus venit Ferrariam, et pacem fecit inter marchionem estensem et dominum Salinguerram: così è scritto nella vecchia Cronica Estense. Altrettanto abbiamo dagli antichi Annali di Modena [Annal. Veter. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.]. Passò dipoi l'imperadore Ottone a Milano, dove furono da lui spediti nel mese d'aprile tre diplomi accennati dal signor Sassi [Saxius, in Not. ad Sigonium, de Regn. Italic.]. Ch'egli si trattenesse in quelle parti, e si trovasse in Piacenza nel mese di giugno, in Cremona, in Alba, in Brescia e in Vercelli, apparisce da altri suoi diplomi. Che parimente egli soggiornasse vicino a Pavia nel dì 17 agosto dell'anno presente, si raccoglie da un altro suo diploma presso il suddetto Ughelli nel catalogo de' vescovi di Parma. Tenne anche un parlamento in essa città di Parma [Chron. Parmense, tom. 11 Rer. Ital.]. Era antico l'odio di Ottone, perchè erede della casa de' Guelfi, contra di Federigo II re di Sicilia, erede della casa ghibellina di Suevia. Crebbe questo alla pubblica notizia ch'esso Federigo aspirava all'imperio, anche prima della coronazion di Ottone. E giacchè s'erano stranamente imbrogliati gli affari fra esso Ottone e papa Innocenzo, che gran parzialità mostrava per Federigo, Ottone, senza voler far caso che il [1010] regno di Sicilia da tanto tempo dipendeva dalla sovranità dei soli romani pontefici, sconsigliatamente e contra de' giuramenti si lasciò trasportare a dichiarar la guerra al medesimo Federigo, e ad invadere i di lui Stati di qua dal Faro. Abbiamo da Rigordo [Rigord., de Gest. Philip. Reg. Franc.] che egli aveva ancora occupato castra et munitiones, quae erant juris beati Petri, Aquapendens, Radicofanum, Sanctum Quiricum, Montem Flasconis, et fere totam Romaniam. Intanto egli ebbe dei segreti negoziati in Puglia col conte Diopoldo tante volte nominato di sopra, e il guadagnò col dargli l'investitura del ducato di Spoleti. Scrive il Sigonio [Sigon., de Regno Ital., lib. 16.] di averla veduta, data XIII kalendas februarias dell'anno presente.

Tirò eziandio nel suo partito Pietro conte di Celano, potente signore in quelle contrade. Studiossi inoltre di metter pace fra i Genovesi e Pisani [Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom. 6 Rer. Italic.], per aver aiuto da loro nella meditata impresa. A questo fine, mentre era in Piacenza, chiamò colà i lor deputati; si fece consegnare i prigioni dell'una e dell'altra parte, e intimò una tregua fra loro dalla vicina festa di san Michele sino a due anni. Ciò fatto, verso il principio di novembre s'incamminò con un possente esercito di Tedeschi, Toscani e Lombardi alla volta della Puglia. Fin qui avea il pontefice Innocenzo III adoperate esortazioni e minaccie per rimettere in buon cammino questo principe; ma nulla avendo operato le parole, e scorgendolo più che mai spinto dalla sua passione a perdere affatto il rispetto alla santa Sede, venne finalmente ai fatti, cioè il dichiarò scomunicato [Godefr. Monach. Albertus Stad. Richardus de S. Germano. Rigordus. Sicardus et alii.]. L'intrepidezza di questo papa bastante era a fargli prendere sì gagliarda risoluzione; ma non lasciò egli di misurar prima anche le forze temporali, che potevano assisterlo in tal congiuntura. Non lieve odio portavano [1011] i Romani ad Ottone: il che assicurava il pontefice della loro aderenza e costanza. Faceva anche gran capitale delle forze di Federigo II re di Sicilia, unitissimo seco di interessi. Nè minore speranza fondava egli su quella di Filippo re di Francia nemico di Ottone, alla cui esaltazione dianzi aveva egli fatto ogni possibil contrasto. Sapeva inoltre papa Innocenzo quanto poteva promettersi di molti de' più possenti principi della Germania; e ne vedremo presto le pruove. Però al prudente e zelante pontefice non mancavano i mezzi umani per sostenere i suoi atti. Ciò non ostante, marciò l'Augusto Ottone in Puglia [Richardus de S. Germano, in Chron. Johan. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.], e, dalla parte di Rieti entrato, s'avanzò a Marsi e a Comino, con riempiere di terrore quelle contrade. Roffredo abbate di Monte Casino contro il parere de' suoi monaci andò a trovarlo, e benignamente ricevuto ne riportò salvaguardie per li suoi Stati. Celebrata la festa di san Martino vicino a Sora, passò Ottone all'assedio della città d'Aquino, che fu valorosamente difesa da Tommaso, Pandolfo e Roberto conti di quella città. Venne alle sue mani Capoa col suo principato, datagli da Pietro conte di Celano. Salerno gli fu consegnato da Diopoldo creato duca di Spoleti. Oltre ad altre città, anche i Napoletani, per odio che portavano alla città d'Aversa, spontaneamente se gli diedero, con attizzarlo poi a mettere l'assedio a quella città. Durò questo sino alla Natività del Signore, e vedendo Ottone di non poter più sussistere in campagna a cagion della stagione, dopo aver fatta una composizione cogli Aversani, si ritirò ai quartieri di verno in Capoa, dove attese a far fabbricar macchine da espugnar le città. In tale stato erano gli affari di quelle parti. Fu in quest'anno fieramente agitata la città di Cremona [Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.] dalle civili fazioni insorte fra il popolo della città [1012] nuova e quel della vecchia, e si venne molte volte alle mani. Interpostosi il vescovo Sicardo, restituì loro la pace, ma pace che, secondo il costume di que' tempi sconcertati, ebbe corta durata. Una delle applicazioni del popolo di Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 6 Rer. Italic.] in quest'anno fu quella d'indurre l'abbate di Frassinoro, che sulle montagne possedeva molte terre, a sottomettersi alla città per godere del suo patrocinio. Così le città libere d'allora andavano pelando i vescovi ed abbati, con intromettersi nelle loro giurisdizioni, giugnendo in fine a liberarli dalla cura di que' temporali governi, ed accrescendo in questa maniera il proprio distretto. Fabbricarono ancora essi Modenesi il castello di Spilamberto. Vo io credendo che riducessero quella terra in fortezza, poichè anche ne' tempi posteriori se ne truova memoria.


   
Anno di Cristo MCCXI. Indizione XIV.
Innocenzo III papa 14.
Ottone IV imperadore 3.

Venuta la primavera, continuò l'imperadore Ottone le conquiste nel regno siciliano di qua dal Faro [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.]. Sottomise a' suoi voleri tutta la Puglia, la Terra di Lavoro, e quasi interamente la Calabria, ed arrivò fino a Taranto. Abbiamo dall'Abbate Urspergense [Abbas Urspergens., in Chron.] che papa Innocenzo III, desideroso pur d'estinguere questo fiero incendio, avea, durante il verno, mandato innanzi e indietro a Capoa l'abbate di Morimondo, per indurre alla pace, o a qualche aggiustamento, Ottone, contentandosi piuttosto di patir del danno negli Stati, che di permettere la rovina del re Federigo. Ma indarno andarono i messi e le proposizioni d'accordo. Ubbriacato Ottone dalla ridente fortuna, tutto rigettò, perchè persuaso di poter oramai balzare dal trono il giovinetto [1013] re [Godefridus Monachus, in Annal.]. Infatti i Saraceni di Sicilia segretamente gli fecero sapere che prenderebbono l'armi per lui. Abbiamo anche dagli Annali Pisani [Annal. Pisani, tom. 6 Rer. Ital.] che in aiuto di esso Augusto furono armate in Pisa quaranta galee, le quali andarono fino a Procida, credendo di potere trovar quivi l'imperadore. In somma si disponeva Ottone IV a passare in Sicilia, e pareano in total decadenza gli affari del re Federigo II, quando ecco scoppiare una terribil mina, da Ottone non preveduta. Tanto seppe fare il non dormiglioso papa Innocenzo, col favore ancora di Filippo re di Francia, che indusse molti vescovi della Germania non solamente a pubblicar la scomunica contra di Ottone, e a dichiararlo decaduto, ma ancora a trattar di eleggere in suo luogo re de' Romani Federigo II. In questa lega concorsero Siffredo arcivescovo di Magonza, legato apostolico, l'arcivescovo di Treveri, il lantgravio della Turingia, il re di Boemia, il duca di Baviera, il duca di Zeringhen, ed altri vescovi e principi. Soffiò non poco in questo fuoco anche il suddetto re di Francia Filippo, che, per aver tolta la Normandia al re d'Inghilterra, non potea tollerar le prosperità di Ottone Augusto, parente strettissimo e collegato coll'Inglese. Gotifredo monaco scrive che questi principi si raunarono in Bamberga, e fu proposta l'elezion di Federigo; ma che, non accordandosi fra loro, restò sospeso il colpo. L'arcivescovo di Magonza bensì pubblicò dappertutto le censure contra di Ottone: dal che presero motivo Arrigo conte palatino del Reno, fratello d'esso Ottone, e il duca del Brabante e i nobili della Lorena di dare un terribil guasto al territorio di Magonza. Nella Cronica di Fossanuova [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.], e presso Alberico [Alberic. Monach., in Chron.], Sicardo [Sicard. in Chron., tom. 7 Rer. Ital. Abbas Urspergens., in Chron.] ed altri, si legge che seguì di fatto l'elezion [1014] di Federigo in Germania. Sembra almen certo che intanto que' principii sollecitassero il pontefice a spignere in Germania il giovinetto Federigo. Quel che è certo, furono cagione questi disgustosi avvisi che Ottone tagliasse il corso alle sue vittorie in Puglia, e ai disegni di portar la guerra in Sicilia, e cominciasse a pensare alla propria casa, a cui era attaccato il fuoco. Congregati dunque i baroni di quelle contrade, raccomandò loro la costanza nella sua fedeltà, virtù per altro poco conosciuta da quegli instabili popoli; e, preso da loro congedo, venne nel mese di novembre in Lombardia per impedire a Federigo il passaggio in Germania. I Pisani [Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom. 6 Rer. Ital.], ch'erano iti fino a Napoli in aiuto di lui colle lor quaranta galee, non sentendone più nuova, se ne tornarono, senza far altro, al loro paese. Venuto l'Augusto Ottone in Lombardia [Sicard., in Chron.], tenne in Lodi un parlamento, per esaminar qual conto egli potesse fare degli animi e de' soccorsi di questi popoli. Trovò che il pontefice avea già preoccupato più d'uno contra di lui. Estensis enim marchio jam cum Papiensibus et Cremonensibus, et Veronensibus consensit summi ponteficis foedus inire contradictionis; sono parole di Sicardo allora vescovo di Cremona. Infatti nè il marchese d'Este, nè i deputati di Pavia, Cremona e Verona vollero intervenire a quella dieta. Ma i Milanesi, siccome quelli che amavano forte la casa estense-guelfa dei duchi di Sassonia, e odiavano la ghibellina dei duchi di Suevia, da cui tanti mali aveano ricevuto, larghe promesse fecero all'Augusto Ottone, e gli altri non mancarono di dargli buone parole [Richardus de S. Germano.]. Avea il pontefice Innocenzo solennemente confermata nel giovedì santo la scomunica contra di lui. Poscia mise l'interdetto a Napoli e a Capoa, perchè aveano comunicato con lui. Scrisse contro [1015] i Pisani, i Bolognesi ed altri che favorivano lo scomunicato Augusto. In questi tempi l'indefesso marchese d'Este Azzo VI coll'aiuto de' Cremonesi [Chron. Cremonens., tom. 7 Rer. Ital. Annales Estenses, tom. 15 Rer. Ital.] ricuperò Ferrara, e ne cacciò Ugo da Guarnasio, lasciato ivi per podestà da esso Ottone. Che anche Salinguerra mutasse aria in tal congiuntura, se non è certo, è almen credibile. Troviamo parimente presso papa Innocenzo menzione della presa di Ferrara, fatta dal marchese d'Este, in una lettera scritta in quest'anno VII idus junii [Innocent. III, lib. 14, Epist. 76.]. In Cremona la parte del popolo di città nuova, non potendo reggere alla forza di quei della città vecchia, restò abbattuta e spogliata de' suoi averi. Tanto ancora si industriò in questi tempi Eccelino da Onara, signor di Bassano, che ottenne dall'imperadore il governo della città di Vicenza [Maurisius, Histor., tom. 7 Rer. Ital.]: il che fu il primo gradino, che portò dipoi il crudele Eccelino da Romano suo figliuolo alla potenza che vedremo.


   
Anno di Cristo MCCXII. Indizione XV.
Innocenzo III papa 15
Ottone IV imperadore 4.

V'ha degli scrittori [Godefridus Monachus, in Chron. Sicardus, in Chron. et alii.] che narrano partito l'imperadore Ottone d'Italia nell'anno precedente, per accudire agl'interessi della Germania, che cominciavano a prendere un cattivo sistema. La verità si è, ch'egli era tuttavia in Milano nel dì 10 di febbraio dell'anno presente, ciò ricavandosi da due suoi decreti, da me dati alla luce [Antichità Estensi, P. I, cap. 40.], nei quali prende la protezione di certe pretensioni civili che avea Bonifazio marchese d'Este contra del marchese Azzo VI suo nipote. E Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.] coerentemente [1016] lasciò scritto che Ottone regnum (di Puglia) festinus egreditur mense novembri (del precedente anno), et mense martio (del presente) in Alemanniam remeavit. Anche l'Abbate Urspergense [Abbas Urspergens., in Chron.] attesta lo stesso. Nel passare per Brescia, secondo il Malvezzi [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.], rimise la pace fra i nobili e la plebe di quella città. Arrivato in Germania, circa la festa della Pentecoste tenne una solenne dieta in Norimberga, dove espose a que' principi, che v'intervennero, i motivi della sua rottura col papa. Fece poi guerra ad Ermanno lantgravio di Turingia, uno di que' principi che se gli erano ribellati, mettendo a ferro e fuoco tutte le di lui contrade. Ma intanto per le replicate instanze de' principi tedeschi del partito di Federigo II re di Sicilia, avvalorate ancora dalle altre di Filippo re di Francia, papa Innocenzo III fece premura a Federigo di passare in Germania, dove la sua presenza recherebbe più calore ed animo ai suoi partigiani. Si oppose forte a tal risoluzione la regina moglie, per timore ch'egli potesse correre troppi pericoli oltra monti; ma in cuore del giovinetto re prevalsero le spinte dell'ambizione e della gloria; e però, lasciata la moglie, che già dato avea alla luce un figliuolo appellato Arrigo, imbarcatosi, venne a Gaeta, e nel dì 17 di marzo di quest'anno, e non già del precedente, come ha il testo di Riccardo da San Germano [Richardus de S. German., in Chron.], entrò in Benevento. Di là poi passò a Roma [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae.], dove fu con ogni dimostrazion d'onore accolto dal papa e dai Romani. Dopo pochi giorni per mare si portò a Genova [Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom. 6 Rer. Italic.], e quivi ben trattato si fermò quasi tre mesi, concertando intanto le maniere di passare in Germania, giacchè l'imperadore Ottone avea messe guardie dappertutto per impedirgli il passaggio. Nel dì 15 di luglio [1017] si mosse da Genova, e andò a Pavia. Erano per lui i Pavesi e il marchese di Monferrato; e però scortato dalla loro armata, arrivò fino al Lambro, dove li aspettavano con tutte le lor forze i Cremonesi ed Azzo VI marchese d'Este, i quali con gran festa il menarono a Cremona. Nel tornarsene addietro, i Pavesi all'improvviso furono assaliti dai Milanesi, e in quel fatto d'armi furono fatti dall'una e dall'altra parte alquanti prigioni.

Come si ha da Rolandino [Roland., Chron., lib. 1, cap. 11.] e da Alberico monaco [Alberic. Monachus, in Chron.], il più zelante a scortare verso l'Alemagna il re Federigo fu il suddetto marchese d'Este, che con grande accompagnamento d'armati il menò per disastrose e non praticate strade sicuramente sino a Coira ne' Grigioni. Lo stesso Federigo, siccome costa da una sua lettera [Rolandinus, Chron., lib. 4, cap. 8.] scritta ad Eccelino da Romano molti anni dappoi, riconosceva specialmente da esso marchese il principio della sua esaltazione. Arrivò dunque il giovane Federigo a Costanza tre ore prima di Ottone. Se tardava un poco più, sarebbe stato costretto a tornarsene indietro. Andò poscia a Basilea e per l'altre parti del Reno, dove trovò tutti i principi che si erano dichiarati per lui. Si abboccò con Filippo re di Francia a Valcolore, e stabilì lega con lui. Scrittori non mancano che il dicono eletto in quest'anno re dei Romani e di Germania; anzi gli Annali di Genova, scritti da autori contemporanei, e l'Abbate Urspergense ci assicurano ch'egli fu coronato in Magonza sul principio di dicembre. Godifredo monaco differisce questa coronazione fino all'anno 1215, e la dice fatta in Aquisgrana. Due volte probabilmente dovette egli farsi coronare. Giacchè i Milanesi stavano pertinaci in favorir l'imperadore Ottone, Azzo VI marchese d'Este e d'Ancona strinse, nel dì 25 d'agosto, una lega colle città di Cremona, Brescia, Verona, Ferrara [1018] e Pavia, e col conte Bonifazio da San Bonifazio. Se ne legge lo strumento nelle Antichità Estensi [Antichità Estensi, P. I, cap. 40.]. In quest'anno poi esso marchese coll'esercito e carroccio veronese, e coi rinforzi venuti di Mantova, Cremona, Reggio, Brescia e Pavia, mosse guerra a Vicenza. Dopo aver preso Lunigo, si accostò alla città. Eccelino co' Vicentini e Trivisani il fece ritirar in fretta. Ma questo glorioso principe e il suddetto conte di San Bonifazio nel novembre seguente terminarono i lor giorni nel più bell'ascendente della loro fortuna [Gerard. Maurisius, Histor. Monachus Patavinus, Chron. Rolandinus, lib. 1, cap. 11.]. Lasciò il marchese Azzo VI dopo di sè due figliuoli, Aldovrandino ed Azzo VII, principi che ereditarono non solamente gli Stati, ma anche il valore del padre. Restò similmente di lui Beatrice, che per le sue rare virtù meritò poi il titolo di beata, procreata da una figliuola di Tommaso conte di Savoia, moglie d'esso marchese. Videsi in questo anno una novità in Italia. Circa sette mila tra uomini, ragazzi, donne e fanciulle, da pio entusiasmo mossi dalla Germania, con avere per capo un fanciullo nomato Niccolò, arrivarono a Genova sul fine d'agosto [Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom. 6 Rer. Italic.], per andare in Terra santa. Ma quivi trovarono un gran fosso da passare, e però si sciolse la loro unione, e chi restò in Genova, e chi andò in altri paesi. Di trenta mila di questi fanciulli, venuti fino a Marsiglia col suddetto spropositato disegno, parlano Alberico monaco dei tre Fonti [Alberic. Monachus, in Chron.], e Alberto Stadense [Alberic. Stadiens., in Chron.], con aggiugnere che furono assassinati dai ribaldi, parte affogati in mare, parte venduti ai Saraceni. Nell'anno precedente era nata guerra fra i Bolognesi e Pistoiesi [Matth. de Griffonibus, Histor. Bonon.]; e venuti alle mani, restarono molti de' Bolognesi prigioni. Per vendicarsene, essi Bolognesi in quest'anno, [1019] coll'aiuto ancora de' Reggiani [Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.], Faentini ed Imolesi, menarono un forte esercito a' danni di Pistoia; e piantato il campo sul monte della Sambuca, ammazzarono molti de' nemici, e molti altri presi li trassero alle carceri di Bologna: con che ricuperarono i lor prigioni. Carestia così grave in quest'anno flagellò la Puglia e Sicilia, paesi per altro soliti ad essere i granai dell'Italia, che, per attestato di Sicardo, vescovo allora di Cremona [Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.], le madri giunsero a mangiare i loro figliuoli.


   
Anno di Cristo MCCXIII. Indizione I.
Innocenzo III papa 16.
Ottone IV imperadore 5.

Svantaggiosa era stata nel precedente anno per li Pavesi la battaglia loro data dai Milanesi fautori di Ottone, nel ritorno che faceano a casa, dopo avere accompagnato il re Federigo sino al Lambro [Sicard., in Chron. Alber. Monac., in Chron.]. Per rifarsi del danno, uscirono questi in campagna con grande sforzo nell'anno presente. Mossero ancora i Cremonesi col loro carroccio, aiutati da trecento cavalieri bresciani, con animo di unirsi coi Pavesi. Erano già pervenuti a Castello Leone, ossia Castiglione, quando all'improvviso nel dì 2 di giugno, giorno di Pentecoste, fu loro addosso l'oste dei Milanesi, forte non solamente per le proprie milizie, ma anche per li cavalieri ed arcieri piacentini, e per la cavalleria e fanteria de' Lodigiani e Comaschi, e per trecento altri cavalieri bresciani del partito contrario. Fiero, lungo ed ostinato fu il combattimento, in cui sulle prime ebbero la peggio i Cremonesi. Ma, rinforzato da questi l'assalto, riuscì loro di mettere in rotta il campo milanese, con far prigioni alcune migliaia d'essi, e con prendere il loro carroccio: segno di piena vittoria e di gran vergogna per chi [1020] perdeva. La fama de' Cremonesi per questo illustre fatto si sparse per tutto l'Occidente, come attesta il Monaco Padovano [Monach. Patavinus, in Chron.]. Dalla pia gente d'allora fu attribuita questa vittoria a miracolosa assistenza di Dio, perchè i Milanesi teneano saldo per lo scomunicato Ottone; ma si può anche essere pio senza obbligo di credere si fatti miracoli. Scrive inoltre Alberico monaco dei tre Fonti che il popolo di Milano, ripigliate le forze, in questo medesimo anno uscì contro i Pavesi, ed assediò un lor castello. Ma sopravvenuta l'armata de' Pavesi, diedero i Milanesi alle gambe, con abbruciar le loro tende. Furono seguiti dai Pavesi, che fecero quantità di prigioni, e spogliarono il campo loro. Così due rotte ebbe in un sol anno il popolo di Milano. Aggiugne il medesimo Alberico, che essendo stato ucciso l'abbate del monistero di santo Agostino di Pavia da' suoi monaci neri, il legato apostolico diede quel sacro luogo ai canonici regolari di Mortara, che tuttavia ne sono in possesso. Dalle cose fin qui narrate si può comprendere che Galvano Fiamma [Gualv. Flamm., in Manipul. Flor. cap. 246.] cercò di inorpellar le perdite de' Milanesi con dire ch'essi, dopo aver presa gran copia di prigioni, cavalli, carriaggi e tende de' Cremonesi, volendo mettere in salvo tante spoglie, raccomandarono il loro carroccio a pochi Piacentini (il che troppo è inverisimile) a' quali tolto fu dai Cremonesi. Scrive inoltre che i Milanesi nel dì 12 di giugno entrarono armati in Lomellina, distrussero Mortara, Gambalo e Lomello, e misero a sacco tutta quella contrada. Presero anche il castello di Voghera. Tace poi le busse lor date dal popolo pavese: sicchè gran sospetto porge l'adulazione. A questi fatti aggiugne il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 16.] delle altre particolarità, senza ch'io sappia onde le abbia ricavate. Ben so io ch'egli si servì del Fiamma in questo racconto. [1021] Il Continuatore di Caffaro scrive [Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom 6 Rer. Ital.] che quattro mila Milanesi tra fanti e cavalieri rimasero prigionieri in mano de' Cremonesi, e che i popoli d'Alessandria, Tortona, Vercelli, Acqui ed Alba, co' marchesi Guglielmo e Corrado Malaspina, e settecento cavalieri milanesi, entrarono nel Pavese ostilmente, e presero Sala. Usciti anche i Pavesi in campo, diedero una rotta a questi collegati, con farne due mila prigioni. A questi autori pare che si possa credere senza timor di fallare.

Succeduto al marchese Azzo VI suo padre Aldrovandino marchese d'Este e di Ancona, continuò a tenere col conte Riccardo da San Bonifazio il dominio di Verona, dove fu creato podestà nell'anno presente [Paris. de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.]. Ma egli ebbe di gravissimi contrasti con Salinguerra in Ferrara. In aiuto di lui furono i Modenesi [Annales Veteres Mutinens., tom. 6 Rer. Italic.]. Tornando questi a casa col loro podestà, cioè con Baldovino Visdomino da Parma, caddero in un agguato posto dal nipote d'esso Salinguerra, in cui restò morto esso podestà, e fatti prigionieri circa quaranta de' lor soldati. Fabbricarono in quest'anno essi Modenesi il castello del Finale [Antichità Estense, P. I, cap. 41.], per avere un antemurale contra de' Ferraresi. Secondo la Cronica Estense [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.], seguì pace fra il suddetto marchese Aldrovandino e Salinguerra, ed io ne ho rapportato altrove lo strumento. Ma più gravi disturbi ebbe esso marchese dai popolo di Padova, che, al pari degli altri, si studiava di dilatare i suoi confini alle spese de' vicini. Era da loro indipendente la nobil terra d'Este. Perchè egli non avea fatta giustizia ad alcuni Padovani, l'assediarono essi in questo anno, ed intervenne a quell'assedio Eccelino [1022] da Onara col giovinetto suo figliuolo Eccelino da Romano [Roland., lib. 1, cap. 12. Monachus Patavin., in Chron. Antichità Estensi, P. I, cap. 41.]. Fu obbligato il marchese a venire ad un accordo, e a prendere la cittadinanza di Padova: la qual violenza fu appresso riprovata da papa Innocenzo III, e col tempo ancora da Federigo II Augusto. Sei anni e due mesi era stata fuori di Verona la fazion ghibellina de' Montecchi, la quale, rifugiata nella terra di Cereta, quivi creava il suo podestà. Interpostosi in quest'anno Marino Zeno podestà di Padova unitamente col comune stesso di Padova [Chron. Estense, tom 15 Rer. Ital. Gerardus Maurisius, Hist., tom. 8 Rer. Italic.], tanto fece, che quel dì Verona lasciò tornarli pacificamente in città. Non così avvenne alla città di Brescia. Poco durò la concordia fra i nobili e il popolo. Nella festa de' santi Faustino e Giovita presero l'armi i popolari, e cacciarono fuor della città tutta la fazion de' nobili; nè ciò loro bastando, infierirono contra le lor torri e case, con atterrarle: crudeltà meritamente detestata dal Malvezzi cronista bresciano [Malvecius, in Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.]. L'aver essi similmente data la fuga a Tommaso da Torino, lasciato ivi per governatore dall'imperador Ottone, fa intendere che que' popolari aveano abbracciato il partito del re Federigo. Ma probabilmente questo fatto appartiene all'anno precedente, giacchè lo stesso storico scrive che per cura di Alberto da Reggio vescovo della lor città, e prelato di rara virtù, fu nell'ottobre dell'anno presente conchiusa pace fra que' discordi cittadini. Tale fu la fede di cadauno in quel buon vescovo, che a lui diedero anche il politico governo della città. Fecero lega in quest'anno i Bolognesi coi Reggiani obbligandosi di far guerra ai Modenesi ad ogni lor cenno [Memoriale Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.].

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Anno di Cristo MCCXIV. Indizione II.
Innocenzo III papa 17.
Ottone IV imperadore 6.

Succedette in quest'anno una famosa battaglia campale fra l'imperadore Ottone e Filippo re di Francia [Godefridus Monachus. Alberic. Monachus. Abbas Urspergens.]. Si trovarono a fronte i due potentissimi eserciti nel dì 27 di luglio a Ponte Bovino, e vennero alle mani. Dalla parte di Ottone militavano le forze del re d'Inghilterra, i duchi del Brabante e di Limburgo, e i conti di Fiandra e di Bologna. Il fiore dei Franzesi col duca di Borgogna era nella altra parte. Lungo tempo durò l'ostinato combattimento, e infine i Franzesi riportarono una piena vittoria, con far moltissimi prigioni di conto, e grosso bottino. Questa disgrazia diede il crollo agl'interessi dell'imperadore Ottone, che da lì innanzi stentò a sostenersi in piedi. Se vogliamo prestar fede a Galvano Fiamma [Gualvan. Flam., in Manip. Flor., cap. 147.], in quest'anno i Milanesi vogliosi di vendicarsi de' Cremonesi, per la rotta ricevuta nel precedente anno, con potente sforzo andarono sino a Zenevolta. S'incontrarono coi Cremonesi, e menarono così ben le mani, che li sconfissero e presero il loro carroccio. In pruova di ciò il Fiamma cita la Cronica di Sicardo. Ma giusto fondamento c'è di sospettare immaginaria e finta questa rotta de' Cremonesi. Ne' due testi, dei quali mi sono servito per pubblicar la Cronica di Sicardo, nulla di ciò si legge. Nulla nelle Croniche di Cremona, Piacenza, Parma ed altre, che, dopo aver parlato sì chiaramente della vittoria riportata dai Cremonesi all'anno precedente, se questa gran percossa data loro dai Milanesi sussistesse, ne avrebbero anche esse fatta menzione. Aggiugne esso Fiamma che, entrati i Milanesi nella Lomellina de' Pavesi, vi espugnarono varie castella. Questo potrebbe stare. Abbiamo bensì dalla [1024] Cronica di Cremona che nell'anno presente i Cremonesi fecero oste sopra i Piacentini, con bruciar molto paese, e prender alcune lor terre. Irritati anche i Modenesi [Chron. Parmanense, tom. 7 Rer. Ital. Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.] per l'affronto e danno loro inferito nell'anno precedente da un nipote di Salinguerra, messo insieme un grosso esercito, con cui s'accoppiarono ancora i Parmigiani, Mantovani e Ferraresi del partito di Aldrovandino marchese d'Este, andarono a mettere l'assedio a Ponte Dosolo, ed, impadronitisi di esso nella festa di san Martino, diedero alle fiamme e smantellarono quel castello, con portarne a Modena in segno di vittoria la campana, che fu posta nella torre maggiore, e adoperata dipoi a sonar nona. Somma tranquillità godeva in questi tempi la città di Padova. Accadde che si tenne gran corte, e si preparò un giuoco o spettacolo pubblico nella città di Trivigi, descritto da Rolandino [Roland., Chron., lib. 1, cap. 13.]. V'intervenne da Venezia e da Padova molta nobiltà dell'uno e dell'altro sesso. Nel combattimento che si fece per prendere un finto castello, si appiccò lite fra i Veneziani e Padovani, gareggiando tutti per aver la preminenza del conquisto. Fu nella mischia stracciato un pezzo della bandiera di san Marco portata dai Veneziani, e ne sorse tal rumore, che i presidenti al giuoco lo fecero dismettere. S'ingrossò forte per questo accidente l'odio dei Veneziani contra de' Padovani, in guisa che serrarono tutti i passi delle mercatanzie, e andò poi più innanzi la briga. Le replicate istanze di papa Innocenzo mossero nell'anno presente Aldrovandino marchese d'Este a passare nella marca d'Ancona. N'era egli al pari di suo padre stato investito dalla Sede apostolica. Ma sopraggiunta l'immatura morte del padre, e per varii suoi scabrosi affari trovandosi egli impegnato in Lombardia, i conti di Celano, fautori di Ottone Augusto, s'erano impadroniti di quella contrada. Potè [1025] egli solamente ora accudire a quel dominio. Impegnò tutti i suoi allodiali, e lo stesso fratello suo Azzo VII ai prestatori fiorentini per mettere insieme delle grosse somme di danaro da far gente [Roland., Chron., lib. 1, cap. 15. Monachus Patavinus, in Chron. Antichità Estensi, P. I, cap. 41.]. Allorchè ebbe in pronto un buon esercito, marciò verso quella marca, dove gli convenne un gran coraggio per le molte opposizioni a lui fatte, parte dai popoli della terra, e parte dai conti suddetti. Tuttavia diede loro varie rotte; ed avea messo in buono stato quella signoria, quando la morte venne a rompere tutte le di lui misure, come dirò all'anno seguente.


   
Anno di Cristo MCCXV. Indizione III.
Innocenzo III papa 18.
Ottone IV imperadore 7.

L'anno fu questo in cui lo zelantissimo papa Innocenzo III celebrò uno de' più insigni concilii generali che abbia tenuto la Chiesa di Dio, cioè il lateranense quarto [Abbas Ursperg., in Chron., Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae. Richard. de S. Germano, et alii.]. Nel dì 11 di novembre gli fu dato principio nella basilica lateranense, e v'intervennero più di quattrocento tra patriarchi, arcivescovi e vescovi, e più di ottocento abbati e priori. Furono quivi pubblicati [Labbe, Concilior., tom. 11, P. I.] non pochi decreti spettanti al soccorso di Terra santa, agli eretici di questi tempi, che faceano gran guasto e resistenza nel contado di Tolosa e nelle vicine città; e fu anche trattato della disciplina ecclesiastica, che s'era molto infievolita in sì torbidi tempi. Avendo preso in quel concilio i Milanesi a difendere la parte dell'imperadore Ottone, il marchese di Monferrato, siccome parente di Federigo, aringò forte in favore di lui, ed ebbe maggior fortuna. Fra gli altri delitti di Ottone si contò ancora, ch'egli avea [1026] chiamato Federigo il re dei preti. Ora è fuor di dubbio che esso Federigo, per attestato di Gotifredo monaco [Godefridus Monachus, in Chron.], fu in quest'anno solennemente coronato re di Germania da Siffredo arcivescovo di Magonza, e legato apostolico in Aquisgrana. Sappiamo altresì che, ad istanza del papa, egli prese la croce, e si obbligò a militare in Terra santa. E perciocchè egli in quest'anno fece proclamar re di Sicilia Arrigo suo figliuolo, non piacendo al pontefice che una sola persona nello stesso tempo fosse imperadore e re di Sicilia, fu astretto a rifare una solenne obbligazione al papa, che qualora egli ottenesse la corona dell'imperio, immediatamente deporrebbe il governo al re figliuolo, il quale lo riconoscerebbe dalla santa Sede. Poteva allora chiedere papa Innocenzo III quanto voleva, che tutto largamente si prometteva, per timore che si facesse giocar l'opposizione dell'emulo. Vedremo a suo tempo qual memoria e cura di queste promesse e giuramenti mostrasse lo stesso Federigo. Non è forse ben chiaro se il papa, che avea barcheggiato finora per osservare dove andassero a terminare gl'impensati accidenti della guerra, veramente in questo anno confermasse l'elezion di Federigo: perciocchè, finchè visse Ottone mai non si volle in Roma far l'ultimo passo di concedere a Federigo la corona imperiale. Ma non mancano autori, e fra gli altri Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.], che scrivono essersi Innocenzo apertamente dichiarato per l'elezion di Federigo in re de' Romani.

Avea Aldrovandino marchese d'Este colla prudenza, col valore e colla liberalità ridotta quasi tutta in suo potere la marca d'Ancona [Roland., lib. 4, cap. 15. Monachus Patavinus, in Chron.]. Ma nel più bel fiore dell'età sua la morte il rapì, con essersi creduto che i conti di Celano trovassero la maniera di farlo attossicare. [1027] Fu questo un colpo di sommo svantaggio alla casa d'Este, perchè di maschi non restò in essa se non Azzo VII marchese d'Este, che cominciò ad appellarsi anche marchese d'Ancona; ma in tenera età, nè capace per anche di gareggiar co' suoi maggiori nelle imprese che esigono gran cuore e senno. Conservò egli bensì gli Stati suoi aviti di Este, Rovigo e dell'altre terre poste in un felicissimo paese; ma da lì a qualche anno venne meno la sua autorità in Ferrara, perchè troppo vi crebbe quella del ghibellino Salinguerra, siccome dirò a suo tempo. Seppe questo volpone nell'anno presente con sì buone parole e promesse entrare in grazia di papa Innocenzo (probabilmente dopo la morte del marchese Aldrovandino), che ottenne da lui l'investitura delle terre che già furono della contessa Matilda, ne' vescovati di Modena, Reggio, Parma, Bologna ed Imola, con obbligarsi a servire in campagna coll'armi al pontefice. L'atto e giuramento suo, prestato nel dì 7 di settembre, si legge negli Annali ecclesiastici del Rinaldi [Raynaldus, in Annal. Eccles. ad hunc ann., num. 39.]. Andando innanzi, vedremo la fedeltà di costui ai sommi pontefici. Fu cagione la discordia insorta fra i Padovani e Veneziani, che i primi in quest'anno [Roland., lib. 1, cap. 14.] passassero con grandi forze e preparativi verso Chioggia, ed imprendessero l'assedio della torre di Baiba in tempo di autunno. Sopravvennero tali pioggie, che furono obbligati a ritirarsi. Diedero loro alla coda i Chioggiotti e Veneziani, e presero molti uomini, e non poco del loro equipaggio. Assediarono anche i Reggiani coi Cremonesi nell'anno presente il castello di Gonzaga, che era dei Mantovani [Paris. de Cereta, tom. 8 Rer. Ital.]. Ricorsero questi all'aiuto de' Veronesi, che non mancarono di uscire in campo con loro. La venuta di questa armata fece risolvere gli assedianti ad una pronta ritirata. Secondochè abbiamo [1028] da Ricordano Malaspina [Ricordano Malaspina, Istor., cap. 104.], per morte data in Firenze a Buondelmonte de' Buondelmonti, entrò in quella città la divisione, e chi tenne alla parte dei Guelfi, e chi a quella de' Ghibellini. Ricordano fa un catalogo delle nobili famiglie che abbracciarono chi questa e chi quella fazione. Scrive Galvano Fiamma [Gualv. Flamma, in Manipul. Flor., cap. 104.] essere entrati ancora in questo anno i Milanesi ostilmente nella Lomellina de' Pavesi, con prendere per forza Garlasco, e menar via gran quantità di bestie e mobili. Aggiugne, che, avendo essi fatta lega con Tommaso conte di Savoia, il quale personalmente venne con mille cavalli in loro aiuto, si portarono all'assedio di Casale di Sant'Evasio, terra nobile, che, venuta in loro potere nel dì 20 d'agosto, per aderire alle preghiere del popolo di Vercelli, fu da essi disfatta da' fondamenti. Andarono poscia anch'essi in favor d'esso conte nel Piemonte, ed obbligarono il marchese di Pimasio (se pure non è scorretto questo nome) a cercar accordo col conte di Savoia. Scrive il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 16.] che questo marchese fu quello di Monferrato. Mancò di vita nel giugno dell'anno presente, e non già nel precedente, come lasciò scritto Galvano Fiamma, Sicardo, uno de' più riguardevoli vescovi di Cremona, di cui è restata una Cronica [Sicard., in Chron., tom. 7 Rer. Ital.] da me data alla luce.


   
Anno di Cristo MCCXVI. Indizione IV.
Onorio III papa 1.
Ottone IV imperadore 8.

Le premure d'Innocenzo III papa pel soccorso di Terra santa erano incessanti. Conoscendo egli quanto potesse influire al bene di quegli affari la potenza de' Genovesi e Pisani, provveduti di tanti legni e gente brava specialmente in mare [Martin. Polonus, Chron. Pontific.], si doleva forte della discordia e [1029] guerra che da tanti anni bolliva fra queste due nazioni. Determinò dunque di portarsi in persona in sito, dove potesse trattar di pace fra loro. Ma pervenuto a Perugia, quivi cadde malato, e l'infermità fu sì grave, che il rapì da questa vita nel dì 6 di luglio dell'anno presente. Mancò in lui uno de' più abili e gloriosi pontefici che sieno seduti nella cattedra di san Pietro: gran giurisconsulto, gran politico, che all'esperienza grande da lui mostrata nel governo spirituale aggiunse l'ingrandimento temporale della Chiesa romana, con procurar nello stesso tempo quello de' suoi parenti. Ma a questo insigne pontefice non mancarono censure, facili ad uscir della penna di chi si consiglia colla propria passione ed interesse. Ai grandi avvenimenti che furono sotto il suo pontificato, tra' quali specialmente è da riporre l'essere caduta in mano de' Latini la città di Costantinopoli con buona parte del greco impero, si dee aggiugnere la nascita di due insigni ordini religiosi, che illustrarono poi e tuttavia illustrano la Chiesa di Dio, cioè de' Predicatori, istituito da San Domenico, e dei Minori, fondato da san Francesco d'Assisi. Ci son di quelli che li credono confermati dal medesimo papa Innocenzo III; il che non mi sembra ben fondato. Nell'universale concilio lateranense IV, tenuto nel precedente anno, fu stabilito così al capo tredicesimo [Labbe, Concilior., tom. 11.]: Nenimia religionum diversitas gravem in Ecclesia Dei confusionem inducat, firmiter prohibemus, ne quis de cetero novam religionem inveniat. Sed quicumque voluerit ad religionem converti, unam de approbatis assumat. Però è ben vero che sotto Innocenzo ebbe principio l'uno e l'altro di questi due ordini sì benemeriti della Chiesa [Antiquit. Ital., Dissert. LXV.], ma quello de' Predicatori non ebbe bisogno di conferma, perchè San Domenico scelse la regola de' canonici regolari, e per molto tempo que' religiosi ritennero il nome di canonici, assumendo col tempo quello di [1030] Predicatori. L'altro de' Minori, in considerazione della mirabil vita del suo istitutore, e delle sante sue regole, fu veramente approvato da papa Onorio III, del quale ora son per parlare. In luogo dunque del defunto Innocenzo III fu nel seguente giorno eletto sommo pontefice Cencio cardinale de' santi Giovanni e Paolo, di nazione Romano, che, secondo le mie conghietture, quel medesimo fu che ci ha lasciato il libro de' censi della Chiesa romana, da me dato alla luce [Antiquit. Ital., Dissert. LXIX.]. Assunse il nome di Onorio III, pontefice anche egli di gran vaglia [Raynaldus, in Annal. Eccl.], il quale fu poi consecrato nel dì 11 d'agosto. E perciocchè tuttavia durava la guerra de' Milanesi e Piacentini contra de' Pavesi, senza voler ascoltare consigli di pace, esso pontefice, in vigore di un decreto del suddetto concilio lateranense, scomunicò di nuovo i rettori di Milano e Piacenza, e pubblicò l'interdetto in quelle città. Diede ancora in governo al comune di Modena alcune delle terre, delle quali Salinguerra era stato investito dal suo predecessore.

Determinò in quest'anno il re Federigo II di chiamare in Germania l'unico suo figliuolo Arrigo, già dichiarato re di Sicilia, benchè fosse in tenera età, per ottenergli l'amore de' principi tedeschi, e forse anche per sospetto di qualche rivoluzione in Sicilia, durante la sua lontananza. Venne da Palermo questo fanciullo re, accompagnato dall'arcivescovo di Palermo, sino a Gaeta per mare. Ch'egli passasse per la Toscana e per Lucca, si può arguire dagli Atti del comune di Modena da me pubblicati [Antiquit. Ital., Dissert. LXVII.]. Imperciocchè Frogieri podestà di Modena cogli ambasciatori d'essa città, cioè con Gherardo Rangone, Aldeprando Pico ed altri, andò a riceverlo con un corpo d'armati sino allo spedale di San Pellegrino, che era l'ultimo luogo della giurisdizione di Modena, e condottolo per le montagne sino [1031] al ponte di Guiligua, il consegnò ivi agli ambasciatori di Reggio e di Parma. Anche la regina Costanza sua madre per altra via s'incamminò verso la Germania. Le Croniche di Bologna [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Italic.] e di Reggio [Memor. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.] attestano ch'ella passò per quelle città nell'anno presente. Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.] differisce l'andata sua sino all'anno 1218. Abbiamo poi da esso Riccardo che in quest'anno Diopoldo duca di Spoleti, volendo passare travestito a cavallo di un asino in Puglia, tradito e scoperto, fu preso in vicinanza del Tevere, e consegnato al senatore di Roma, che il mise in prigione. L'onnipotente forza della pecunia servì poscia a liberarlo. Per quanto s'ha da Galvano Fiamma [Gualvan. Flamma, in Manip. Flor., cap. 248.], in quest'anno i Milanesi irritati per le censure pontificie, pretendendo che fossero nulle od ingiuste, maggiormente esercitarono la rabbia loro contra de' Pavesi. Presero e distrussero varie loro castella; misero l'assedio ad Arena (non già ad Arona, come sta scritto nel testo del Sigonio [Sigon., de Regn. Ital., lib. 16.]), ma non poterono averla. Tornarono anche a spogliar la Lomellina. Tace poi questo autore ciò che si legge nella Cronichetta di Cremona [Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.]: cioè che il popolo cremonese, collegato de' Pavesi, neppur egli stette colle mani alla cintola in questi tempi. Col guasto e col fuoco distrusse le terre de' Milanesi e Cremaschi ne' contorni dell'Adda. Lo stesso danno recò a un tratto del Piacentino. Prese e smantellò Ponte Vico: se pure non è scorretto questo nome. Azzuffatosi poi l'esercito loro con quel dei Piacentini presso a Montile fra Ponte Vico e Piacenza, lo sconfisse, e molti prigioni condusse a Cremona. Gelò sì forte in quest'anno il Po, che le carra e le bestie vi passavano sopra, e seccarono perciò le viti. La Cronica di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] [1032] conferma il danno recato da' Piacentini e Milanesi collegati al distretto di Pavia, coll'incendio di molte castella, e soggiugne in fine: Eodem anno fuit praelium de Pontenurio. Questa battaglia di Pontenura è spiegata dalla Cronica di Parma [Chron. Parmens., tom. 9 Rer. Ital.]. Ivi dunque si legge che l'oste parmigiano andò sino a Ponte Nura sul Piacentino, e vi si fece una baruffa colla peggio d'essi Piacentini. Poscia nel dì 30 di settembre ebbero battaglia i Parmigiani con parte de' Piacentini, Lodigiani, Cremaschi e Milanesi vicino al medesimo ponte verso Fontana, e fecero molti prigioni: al qual combattimento intervennero pochi Cremonesi. Nelle Croniche di Bologna [Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.], di Reggio [Memoriale Potest. Regiens., tom. 3 Rer. Italic.] e Cesena [Annal. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] è scritto che in quest'anno nel dì 14 di giugno ebbero i Cesenati dai Riminesi una mala percossa, con lasciare in man loro mille e settecento prigionieri. Implorato l'aiuto dei Bolognesi, due mesi dappoi questi con grande sforzo di gente, rinforzati anche dalla cavalleria e dagli arcieri di Reggio, assediarono il castello di Sant'Arcangelo per sei settimane. La Cronica Bolognese racconta che lo presero per forza, con dare il guasto a tutto il paese intorno. Di questo acquisto non parla la Cronica di Reggio, più antica dell'altra, e neppur gli Annali di Cesena. Quel che è certo, costrinsero i Riminesi a rendere tutti i prigioni. Non par già certo che i Cesenati allora promettessero ubbidienza al comune di Bologna.


   
Anno di Cristo MCCXVII. Indizione V.
Onorio III papa 2.
Ottone IV imperadore 9.

Venne in quest'anno a Roma Pietro conte d'Auxerre, pretendente della corona imperiale di Costantinopoli [Johann. de Ceccano, Chron. Fossaenovae. Richard. de S. Germano, in Chron. Raynaldus, Annal. Eccl.]. Ogni [1033] di più andavano prevalendo agli odiati Latini i Greci, che aveano per loro capo Teodoro Comneno. Nel dì 9 d'aprile fu egli con gran gloria e solennità coronato imperadore d'Oriente da papa Onorio III nella chiesa di san Lorenzo. Confermò questo efimero Augusto a Guglielmo marchese di Monferrato, e a Demetrio di lui fratello il regno di Salonichi, tuttavia posseduto da questi principi. Io punto non mi affaticherò a seguitare gl'infelici suoi passi in Oriente. Passò pel Mediterraneo in quest'anno una possente crociata di cristiani incamminata verso l'Egitto; e Andrea re d'Ungheria con altri principi e con un copiosissimo esercito marciò anch'esso a quella volta. Non ommise diligenza veruna in tempi di tanto bisogno papa Onorio per rimettere la pace fra i popoli dell'Italia. A questo fine, per attestato del Continuatore di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom. 6 Rer. Ital.], inviò a Genova Ugolino cardinale e vescovo d'Ostia, che fu poi papa Gregorio IX, personaggio di raffinata prudenza, per condurre quel popolo a far pace coi Pisani. S'obbligarono i Genovesi di stare a quello che avesse decretato il pontefice. Altrettanto fecero i Pisani: il che aprì la strada, dopo tanti anni di guerra, alla concordia fra quelle due emule città. Abbiamo ancora dal medesimo scrittore contemporaneo che in quest'anno, ob multas discordias, quae vertebantur inter civitates Lombardiae, quum multae religiosae personae se intromitterent de pace et concordia componenda, tandem auxilio Dei inter Papiam, Mediolanum, Placentiam, Terdonam et Alexandriam pax firma fuit, et firmata mense junii. Restò bensì viva la guerra fra essi Milanesi e Cremonesi. Leggesi nella Cronica di Cremona [Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.] che nell'anno presente i Cremonesi, assistiti di forze dai Parmigiani, Reggiani e Modenesi, andarono a fronte dell'esercito milanese, il quale col rinforzo dei Piacentini, Comaschi, Novaresi, [1034] Vercellini ed Alessandrini, era giunto fin presso a Zenevolta. La loro comparsa produsse il mirabil effetto d'indurre i Milanesi a ritirarsi in fretta. Ascoltisi ora Galvano dalla Fiamma là dove scrive [Gualv. Flamma, in Manipul. Flor., cap. 250.] che in quest'anno i Milanesi col carroccio andarono sul Cremonese, s'impadronirono di Ruminengo e di Zenevolta, presero il carroccio de' Cremonesi, fecero anche prigione il vescovo di Cremona con innumerabili Cremonesi. Mandò il podestà di Cremona a minacciarli, ma non osò uscire della città. Dopo altri fatti l'armata milanese passò ai danni de' Parmigiani. E finalmente i Pavesi per la terza volta giurarono di ubbidire ai Milanesi. Noi non siam tenuti a credere tutto a Galvano Fiamma, adulatore non rade volte della patria sua. Merita ben più fede il Cronista Piacentino [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Italic.], il quale, dopo aver detto che i Piacentini coi lor collegati furono a dare il guasto al territorio di Cremona, aggiugne che i Pavesi dall'una parte, e i Milanesi e Piacentini dall'altra fecero compromesso delle lor differenze nel podestà di Piacenza, il quale sentenziò che i Milanesi rilasciassero Vigevano ai Pavesi per dieci anni, e che ai Piacentini restassero alcune ville. Negli Annali vecchi di Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.] è bensì scritto che nell'anno presente riuscì ai Bolognesi di prendere al comune di Modena le castella di Bazzano, San Cesario e Nonantola, e di sottomettere tutta la Romagnuola; ma fuor di sito è una tal memoria, essendo succeduti tal fatti molto più tardi.

Diedero in quest'anno principio i crociati alle lor imprese in Egitto. Gran copia di Veneziani, Genovesi e Pisani, e d'altre città d'Italia intervenne a quella gloriosa impresa. Dalle memorie che rapporta il Rinaldi [Raynaldus, Annal. Eccles. ad hunc ann.] si scorge che Guglielmo marchese di Massa (e perciò di casa [1035] Malaspina) era stato padrone del giudicato di Cagliari in Sardegna. Morto lui, una sua figliuola ereditò quegli Stati, e ne prese il possesso di consenso de' popoli suscepto baculo regali, quod est signum confirmationis in regnum. Da lì a non molto, per mettere fine alle guerre che erano state in addietro fra quel giudicato e l'altro di Arborea, ella sposò il giudice d'essa Arborea, oggidì Oristagni. I Pisani, che pretendevano il dominio della Sardegna, giunti colà un giorno con una squadra di navi, obbligarono la marchesana di Massa e il marito a giurar loro fedeltà, e a prendere da essi l'investitura col gonfalone. Col tempo i Pisani cominciarono ad usurpar quelle giurisdizioni, e a farla quivi da padroni assoluti: per lo che la marchesana fece ricorso a papa Onorio, implorando il suo aiuto. Per attestato del Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], in questo anno il patriarca d'Aquileia, per delegazione del papa, rimise pace fra i Veneziani e Padovani, che erano in rotta per l'accidente occorso nel giuoco di Trivigi. Ma Rolandino [Roland., Chron., lib. 2, cap. 1.] non s'accorda con questa notizia, scrivendo egli che anche nell'anno 1220 durava la nemicizia fra quelle due repubbliche. Siccome costa dalle bolle da me date alla luce [Antichità Estensi, P. I, cap. 42.], in quest'anno papa Onorio III diede l'investitura della marca di Guarnieri, cioè di Ancona, ad Azzo VII marchese d'Este, benchè giovinetto, coll'annoverare cadauna città di quella marca.


   
Anno di Cristo MCCXVIII. Indizione VI.
Onorio III papa 3.
Ottone IV imperadore 10.

Dopo Pasqua cadde infermo in un suo castello chiamato Hartzburg l'imperadore Ottone IV; ed, aggravandosi il male [Albert. Stadens., in Chron.], con gran compunzione di cuore e molte lagrime chiese l'assoluzione dalla [1036] scomunica, la quale, dopo aver egli promesso di stare a quanto gli fosse ordinato dal sommo pontefice, gli fu conceduta dal vescovo d'Ildeseim. Ricevuti poscia i sacramenti con tutta divozione, terminò la sua vita nel dì 19 di maggio. Gotifredo monaco [Godefridus Monachus, in Chron.] la mette al dì 15 di quel mese. Il Continuatore di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 4, tom. 6 Rer. Ital.] uno die ante Ascensionem Domini, cioè nel dì 23 di maggio. Ma il Meibomio sta per la prima sentenza. Ne dovette ben intendere il re Federigo la morte senza rammarico. Una grande scossa fu questa alla nobilissima linea degli Estensi in Germania, perchè sbrigato da questo competitore esso re Federigo tolse il palatinato del Reno ad Arrigo fratello del defunto Ottone, senza far caso d'un accordo stabilito con lui, nè dell'avergli esso Arrigo consegnate le insegne dello imperio dopo la morte del fratello. Venne perciò a restar quella casa coi soli Stati di Brunsvic, tuttavia da lei posseduti, coll'accrescimento ai nostri giorni d'altri paesi, e della corona della gran Bretagna. Che in questo anno seguisse la pace tra i Genovesi e Pisani, lo raccoglie il Rinaldi [Raynaldus, Annal. Ecclesiast.] da un diploma pontificio. Di questo parlano gli Annali di Genova solamente all'anno precedente, e sono scritti da autori contemporanei. Abbiamo bensì da essi Annali che in un congresso tenuto in Parma fra i deputati di Venezia e quei di Genova restò conchiusa una pace di dieci anni fra quelle due repubbliche. Lasciò scritto Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.] che nell'anno presente d'ordine del re Federigo II, Diopoldo duca di Spoleti fu preso da Jacopo da San Severino. Dovettero i non mai quieti Romani inquietare in quest'anno il buon papa Onorio. Nel mese di giugno si portò egli alla villeggiatura di Rieti. Nell'ottobre seguente andò a Viterbo, e di là a [1037] Roma, sed quum propter Romanorum molestias esse Romae non posset, coactus est Viterbium remeare.

Non avendo più che temere dalla parte di Pavia i Milanesi, dopo aver unito alle armi sue quelle degli stessi Pavesi, de' Vercellesi, Novaresi, Tortonesi, Comaschi, Alessandrini, Lodigiani e Cremaschi, vennero fino a Borgo San Donnino, con disegno di farne un regalo ai Piacentini [Chronic. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.]. Trovarono quivi accampato l'esercito dei Cremonesi, Parmigiani, Reggiani e Modenesi; e però, delusi delle loro speranze, voltarono verso il Po. Arrivati verso Ghibello, i Cremonesi coi lor collegati comparvero anche essi colà, e nel dì 6 di giugno presentarono loro la battaglia. Durò questa dalla nona fino alla notte, e vi restarono sconfitti i Milanesi. Molti d'essi furono condotti nelle carceri di Cremona. La Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] ha che questo fatto d'armi seguì nel primo giovedì di giugno, e che i Reggiani non arrivarono a tempo: laonde passò in proverbio il soccorso dei Reggiani. L'autore della Cronica Piacentina altro non dice [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.], se non che seguì fra loro in quest'anno una gran battaglia, e che i Milanesi s'impossessarono di Busseto. Ma il vigilantissimo papa Onorio III, cui troppo dispiacevano gli odii sanguinarii di questi popoli [Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.], spedì anche ad essi Ugolino vescovo di Ostia e di Velletri suo cardinale legato. Tale fu la di lui eloquenza e destrezza, che gli venne fatto di metter pace fra i Milanesi e Piacentini dall'una parte, e i Cremonesi e Parmigiani dall'altra. Ascoltiamo ora anche Galvano Fiamma [Gualvan. Flam., in Manip. Flor., cap. 252.], il quale fuor di sito, cioè all'anno 1219, scrive che, usciti in campagna i Milanesi coi lor collegati, nel dì 6 di giugno presero il castello di Santa Croce. E nel dì 17 di luglio assediarono i Cremonesi, Parmigiani, Reggiani e Modenesi [1038] in un luogo inespugnabile appellato Gibello, e si venne ad un fatto d'armi, in cui molti perirono dall'una e dall'altra parte. Nel giorno appresso presero Busseto con trenta e più luoghi de' Cremonesi. Ma alle preghiere degli ambasciatori di Bologna, che erano venuti a far pace, si ritirarono dal Cremonese. Se Cremona possedesse allora tanti luoghi di qua dal Po nol saprei dire. Ma Galvano quasi nulla parla della pace suddetta, e neppur ben conobbe chi la maneggiò. Così si andavano mordendo a guisa di cavalli sfrenati, e consumando le città della Lombardia fra loro; ma il peggio era, quando s'introduceva la matta discordia fra gli stessi abitatori d'una città. In quest'anno appunto, in occasione della guerra suddetta, entrò la divisione fra i nobili e il popolo di Piacenza; e prevalendo, come per lo più succedeva, la forza del popolo, questo vergognosamente cacciò dal suo governo il podestà, che era allora Guido da Busto Milanese [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Peggio ne avvenne dipoi, siccome vedremo. Ci riferiscono gli Annali di Cesena [Annales Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] che in questo anno i Faentini uniti coi Cesenati assediarono Imola. Temo io che agli anni seguenti appartenga questa notizia, giacchè si aggiugne che nell'anno seguente i Bolognesi la presero: il che accadde più tardi. E tanto più perchè il Sigonio [Sigon., de Regno Ital., lib. 16.] scrive che in quest'anno i Forlivesi fecero guerra più che mai ai Faentini, i quali, veggendosi al disotto, implorarono l'aiuto de' Bolognesi. Vollero questi tentar prima se la loro autorità potea bastare ad estinguere quella guerra senza metter mano all'armi. Spediti dunque ambasciatori a Forlì, fecero istanza che fosse compromessa nel loro podestà ogni contesa di quelle città. E così fu fatto. E il podestà pubblicò tosto una tregua, per conoscere con più agio i motivi delle loro discordie.

[1039]


   
Anno di Cristo MCCXIX. Indizione VII.
Onorio III papa 4.
Vacante l'imperio.

L'assedio di Damiata, fortissima ed importante città nell'Egitto, terminato fu in quest'anno dopo immense fatiche col costo d'infinito sangue di popolo battezzato, dall'esercito de' crociati, colla presa di quella città in faccia all'innumerabil esercito di Corradino sultano de' Saraceni nel dì cinque di novembre [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital. Bernardus Thesaurar., tom. 7 Rer. Ital. Monachus Patavinus, et alii.]. Riempiè questa nuova d'immenso gaudio tutta la cristianità, e un tal acquisto produsse un incredibil tesoro e bottino a tutta quell'armata di cristiani. Racconta Godifredo monaco [Godefridus Monachus, in Chron.] una particolarità confermata dall'Urspergense [Abbas Urspergens., in Chron.], cioè che il sultano, per non perdere così cara città, aveva esibito ai cristiani di restituir loro il legno della vera croce, tutti i prigionieri, e di somministrar le spese per rimettere in piedi le mura da lui smantellate di Gerusalemme. Insuper regnum hierosolymitanum totaliter restitueret, praeter Craccum, et Montem regalem, pro quibus retinendis tributum obtulit, quamdiu tregua duraret. Ma il legato pontificio, i templari, ed altri rigettarono sì bella esibizione, spacciandola per una illusione e furberia del sultano; e sostenendo che quelle due sole fortezze erano bastanti ad inquietare continuamente Gerusalemme. Insomma stabilirono di voler prima conquistar Damiata, e poscia far trattato col sultano. Damiata fu presa, e niun trattato si fece dipoi. Non lasciava intanto papa Onorio [Raynaldus, Annal. Eccl.] di sollecitare il re Federigo II ad eseguire il voto della croce da lui presa, per portare soccorso ai cristiani militanti in Egitto. Ed egli colle più belle lettere del mondo [1040] rispondeva di essere tutto acceso di voglia d'impiegar colà le sue forze in pro della cristianità, e il buon papa se lo credeva. La vera intenzione di Federigo, siccome col tempo si venne a conoscere era di cavar dalle mani del romano pontefice la corona dell'imperio: al che appunto egli arrivò nell'anno seguente, per quanto si vedrà. Nè voglio tacere che, per testimonianza di Jacopo da Vitry [Jacobus de Vitriaco, Hist. Orient.], cardinale e scrittore contemporaneo, il mirabil servo di Dio san Francesco d'Assisi fu all'assedio di Damiata, ed ebbe coraggio di passare all'udienza del sultano, che, deposta la sua fierezza, l'ascoltò predicare della fede di Cristo. Ma veggendo il santo che niun frutto faceano le prediche sue con quegl'indurati Maomettani, se ne tornò in Italia. Crebbe in quest'anno la rottura fra i nobili e il popolo di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.], di maniera che toccò ai primi di uscire dalla città con tutte le loro famiglie. Ritiraronsi essi a Podenzano, dove, creato il loro podestà, cominciarono ad impedire che i contadini del distretto non andassero al mercato di Piacenza.

Fecero pace in quest'anno i Bolognesi [Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.] col popolo di Pistoia. È da vedere il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 16.] che minutamente descrive gli atti di queste due città in occasione di questa pace. Durando ancora le nemicizie de' Faentini contra degl'Imolesi, i primi, assistiti dal popolo di Bologna, ostilmente procederono contro Imola. Mentre davano il guasto al paese, sopravvennero Jacopo vescovo di Torino e Guglielmo marchese di Monferrato, che andavano ambasciatori del re Federigo a Roma. Questi intimarono al podestà di Bologna di non molestar il popolo d'Imola, e di restituire il maltolto. Mostrò il podestà di non credere ch'essi fossero ministri di Federigo, al quale per altro tutto il popolo bolognese professava riverenza. Andò nelle [1041] smanie il vescovo, e, dopo aver messa Bologna al bando dell'imperio, in fretta se ne andò con Dio. Furono poi rimesse quelle differenze degl'Imolesi e Faentini nel medesimo podestà di Bologna. Nell'anno seguente capitato ad essa città di Bologna Anselmo da Spira legato di Federigo, avendolo i Bolognesi unto con unguento di mirabil efficacia, furono da lui assoluti. Era il marchese di Monferrato non solamente per vincolo di parentela, ma per affetto e per comunione d'interessi, attaccatissimo al re Federigo. Ed appunto racconta Benvenuto da San Giorgio [Benvenut. de S. Giorgio, Stor. del Monferr., tom. 23 Rer. Ital.] che in quest'anno egli ottenne da esso re quattro castella situate sulle rive del Po, con diploma, che vien rapportato dal medesimo storico, dato apud Spiram anno MCCXIX, nono kalendas martii, Indictione VII. Ma forse circa questi tempi una fiera scossa patì l'insigne casa dei marchesi di Monferrato, perchè Demetrio fratello del suddetto Guglielmo marchese, re di Tessalonica, ossia di Salonichi, e della Tessalia, fu dal greco Teodoro Lascari spogliato di quel regno, e gli convenne tornare in Italia, e ricoverarsi nell'avito suo paese. Fra esso marchese Guglielmo e Andrea Delfino conte di Vienna e di Grenoble passarono delle controversie a cagione del castello e borgo di Brianzone. Furono queste nell'anno presente composte con aver data il marchese Beatrice sua figliuola in moglie al Delfino, ed assegnatagli in dote quella terra. Da ciò si può arguire quanto ampiamente si stendesse allora il dominio de' marchesi di Monferrato, da' quali si diramarono senza fallo i marchesi di Saluzzo.


   
Anno di Cristo MCCXX. Indizione VIII.
Onorio III papa 5.
Federigo II imperadore 1.

Con lettere efficacissime andava più che mai papa Onorio spronando il re Federigo [1042] alla spedizione di Terra santa, e al compimento del voto suo [Raynald., Annal. Eccl.]; e Federigo, che sapeva, quantunque giovane, tutta la quintessenza dell'astuzia, ne scriveva delle altre al papa le più rispettose, le più affettuose che mai si potessero immaginare, adducendo scuse e promettendo gran cose. Scrisse ancora lettere adulatorie al senato e popolo romano, coll'avvertenza di esortarli alla ubbidienza dovuta al sommo pontefice, al quale già notammo che avevano recato dei disgusti, e data occasione di ritirarsi fuor di Roma. Il ritardo di Federigo in Germania, a cui per altro un'ora parea mille anni di venire in Italia a ricevere la sospirata corona imperiale, proveniva dai maneggi ch'egli andava facendo per l'elezione del re Arrigo suo figliuolo in re de' Romani e di Germania. E li faceva senza farne consapevole il papa, e senza ricercarne il di lui consenso, con aver poi con varie mendicate ragioni scusato il suo procedere. Seguì in fatti l'elezione suddetta, e Federigo fece credere al pontefice d'averne sospesa l'esecuzione, finchè questa venisse approvata dalla santa Sede. Sbrigato da così importante affare mosse Federigo di Germania, e con un fiorito esercito giunse a Verona, da dove nel dì 15 settembre spedì nuove lettere al papa. Se vogliam prestar fede a Galvano Fiamma [Gualvan. Flam., in Manip. Flor., cap. 254.], fece istanza ai Milanesi per la corona di ferro. Essi gliela negarono. Più probabile è che, conoscendo il lor animo, risparmiasse a sè stesso un tale affronto. Essendo egli in San Leone vicino a Mantova quintodecimo kalendas octobris, diede un diploma in favore di Azzo VII marchese d'Este, comandando al popolo di Padova di non inquietare il marchese nel pacifico possesso e dominio d'Este, Calaone, Montagnana, e degli altri antichi Stati della casa d'Este [Antichità Estensi, P. I, cap. 41.]. Passato dipoi per Modena e Bologna, di là nel dì 3 d'ottobre scrisse altre lettere [1043] al medesimo papa, tutte infiorate delle solite proteste dell'ingrandimento temporale della Chiesa romana, della filiale ubbidienza, e di altre tenerezze, che poco costano alla penna. Il pontefice, a cui forte premeva oltre all'altre cose solite promettersi dai novelli Augusti, che il regno di Sicilia e di Puglia, se si conferiva la corona dell'impero a chi ne era padrone, non venisse ad incorporarsi nello stesso imperio con danno esorbitante della Chiesa romana; ed inoltre sommamente desiderava che il nuovo imperadore impiegasse le forze sue in soccorso della cristianità in Egitto, o in Soria, volle prima assicurarsi di questi due punti. Federigo non vi fece difficoltà veruna. Però, continuato il viaggo, felicemente giunse a Roma, dove nel dì 22 di novembre fu solennemente coronato imperadore insieme con Costanza sua moglie nella basilica di san Pietro per mano di papa Onorio, con gran concorso e pace del popolo romano. Nello stesso giorno il nuovo imperador Federigo [Godefr. Monach. Richardus de S. Germano. Monach. Palavinus, Chronicon. Austral et alii.] pubblicò nel Vaticano un famoso editto contro gli eretici manichei ossia patarini, che allora quasi per tutte le città di Italia, o pubblicamente o segretamente viveano, e similmente in favore della libertà degli ecclesiastici. Fece dono di qualche Stato alla Chiesa romana, e le restituì i beni della contessa Matilda. Alberico monaco [Albericus Monachus, in Chronic.] vi aggiugne una particolarità: cioè ch'egli papam per manum validam Romani introduxit, jam ab ea per septem menses exclusum, et Romanos eidem reconciliavit. Per conto dell'impresa di Terra santa, di nuovo prese la croce dalle mani di Ugolino cardinale vescovo d'Ostia, con obbligarsi di spedire nel prossimo venturo marzo un gagliardo soccorso ai crocesignati, e di passar fra pochi mesi anche egli in Palestina, allegando di non poter farlo allora, perchè avea dei ribelli in Puglia, e i Saraceni in Sicilia da domar [1044] prima. Nel dì 26 di novembre si trovava Federigo tuttavia presso Roma, dove confermò i privilegii ad Arrigo vescovo di Bologna, ciò apparendo dal diploma rapportato dal Ghirardacci [Ghirardacci, Istor. di Bologna, lib. 5.]. Passò dipoi a San Germano, magnificamente accolto ivi da Pietro abbate di Monte Casino [Richardus de S. Germano.]. Mensam Campsorum, et jus sanguinis, quod usque tunc habuerat concessione imperatoris Henrici ecclesia casinensis, recipit ab eodem. Crede il padre abbate Gattola [Gattola, Access. ad Istor. Casinens., P. I.] che Federigo confermasse questi due diritti all'insigne monistero casinense. Voglia Dio che Riccardo non dica il contrario: cioè che il primo regalo fatto da Federigo II ai Casinensi non fosse quello di levar loro quel gius. Così seguita a scrivere Riccardo, che esso Augusto tolse ed uni al dominio regale Suessa, Teano e la Rocca di Dragone, che godeva il conte Ruggieri dall'Aquila. Poscia s'incamminò a Capoa, dove in un gran parlamento pubblicò le assise, cioè venti costituzioni pel buono stato e governo del regno, e formò la corte capuana.

Abbiamo dai Continuatori di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 5, tom. 6 Rer. Ital.] che, saputasi dai Genovesi l'arrivo in Italia di Federigo, gli spedirono Rambertino dei Bonarelli da Bologna lor podestà, con molti nobili, sperando di riportarne molti vantaggi, per le larghe promesse lor fatte con varie lettere da esso principe. Il trovarono fuor di Modena, il seguitarono fino a Castel San Pietro, dove, sfoderati i lor privilegii, il supplicarono per la conferma d'essi. Appena volle egli confermar una parte di quello che apparteneva all'imperio, scusandosi di nulla poter concedere intorno al regno di Sicilia, se non dappoichè fosse giunto colà, e promettendo, secondo il suo solito, di voler far molto: il che come fosse ben eseguito lo vedremo in breve. Voleva [1045] che i Genovesi l'accompagnassero alla coronazion romana; ma se ne sottrassero questi con allegare di non poter farlo senza licenza del consiglio di Genova, e di non aver mai usato il loro popolo d'inviare a quella funzione. Così, ottenuto il congedo, malcontenti se ne tornarono a casa. Per la guerra che durava fra i Reggiani e Mantovani, in quest'anno [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.] i primi, avendo in aiuto i Parmigiani e Cremonesi, andarono all'assedio del castello di Gonzaga, tenuto dai Mantovani. In vigor della lega contratta coi Mantovani, in soccorso d'essi volarono i Modenesi. Portò la buona sorte che l'arcivescovo di Maddeburgo, legato dell'Augusto Federigo, arrivò a Modena, dove, chiamati con plenipotenza i deputati di amendue le città, facendo valere la sua autorità, stabilì pace fra loro. Abbiamo parimente dall'antica Cronica di Reggio [Memoriale Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.] che in quest'anno nel dì 16 di giugno uniti insieme i Mantovani, Veronesi, Ferraresi e Modenesi, presero il castello del Bondeno, probabilmente ai Reggiani, il distretto de' quali una volta si stendeva fino colà. Circa questi tempi [Raynald., in Annal. Eccles.] il popolo di Trivigi diede il guasto alle diocesi di Ceneda, Feltre e Belluno, ed uccise i vescovi delle due ultime città. Per l'atrocità di questi fatti il pontefice Onorio fulminò le censure contra di loro, e li minacciò di peggio, se nel termine di un mese non riparavano i danni e restituivano l'ingiustamente occupato. Erano que' vescovi padroni delle loro città. A tali notizie una altra ne aggiugne Rolandino [Roland., Chron., lib. 2, cap. 1.] storico padovano: cioè che i Veneziani per timore che i Trivisani si unissero co' Padovani, co' quali seguitava tuttavia la nimicizia, nata nella congiuntura del giuoco di Triviso, fecero lega con essi Trivisani. [1046] Ciò saputosi da Bertoldo patriarca d'Aquileia (giacchè anch'egli si sentiva maltrattato da essi Trivisani), per avere un buon appoggio, in quest'anno elesse di farsi cittadino di Padova, e di giurare di far quello che facessero i Padovani: al qual fine mandò a fabbricare a sue spese alcuni bei palagi in Padova. Servì l'esempio suo, perchè i vescovi di Feltre e di Belluno prendessero anch'essi la cittadinanza di Padova. Infatti, avendo il popolo di Trivigi in quest'anno portata la guerra ad alcune terre del patriarca, i Padovani, usciti in campagna coll'esercito loro, si portarono sotto Castelfranco terra di Trivigi: e questo sol movimento bastò a far tornare i Trivisani di galoppo a casa. Andò in quest'anno il popolo di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] oltre al fiume Trebbia, e bruciò Campo Maldo di sotto, che era de' nobili fuorusciti. S'attrupparono, a tal avviso, i nobili, e raggiunti i popolari vicino alla Trebbia, li misero in isconfitta. Molti se ne affogarono nel fiume; circa seicento fanti rimasti prigioni, furono condotti, parte nelle carceri di Fiorenzuola, parte in quelle di Castello Arquato.


   
Anno di Cristo MCCXXI. Indizione IX.
Onorio III papa 6.
Federigo II imperadore 2.

Un gran passaggio di cristiani si fece nella primavera di quest'anno alla volta della conquistata Damiata. Per attestato di Jacopo da Vitry [Jacobus de Vitriaco, Hist. Orient.], cardinale e vescovo di Accon, ossia di Acri, vi arrivarono fra gli altri Arrigo da Settala arcivescovo di Milano, e i vescovi di Faenza (come ha Bernardo il Tesoriere [Bernardus Thesaurar., cap. 204, tom. 7 Rer. Italic.], e non già di Genova, come il Vitry), di Reggio e di Brescia. Vi giunsero ancora i legati dell'imperador Federigo, portando nuove ch'egli in persona verrebbe. Aderat et Italiae militia copiosa. Noi sappiamo dall'annalista [1047] Rinaldi [Raynald., in Annal. Eccl.], che papa Onorio III cominciò a far di gravi doglianze contra dell'imperador Federigo, perchè non avesse adempiuta la promessa di mandar un gagliardo soccorso ai cristiani guerreggianti in Egitto. Ma certa cosa è ch'egli con buon animo fin qui soddisfece all'impegno preso col papa; perciocchè spedì colà una flotta di quaranta galee ben armate [Richard. de S. Germ. Bernard. Thesaurar., cap. 204. Caffari, Annal. Genuens., lib. 5, tom. 7 Rer. Ital.], sotto il comando di Arrigo conte di Malta, il più bravo e sperimentato capitano di mare che allora ci fosse, accompagnato da Gualtieri di Palear suo gran cancelliere. Non so io dire se in questo stuolo sieno comprese otto galee condotte dal conte Matteo di Puglia, che Jacopo da Vitry e Bernardo Tesoriere scrivono esser giunte di luglio a Damiata, dopo aver preso in viaggio due navi corsare de' Saraceni. Sembra ancora ch'egli somministrasse legni pel trasporto del duca di Baviera, che, affrettato da esso Augusto, con gran copia di nobiltà e di soldatesche della Germania approdò a Damiata. Era già insorta discordia, specialmente per la signoria di Damiata, soffiando l'interesse e l'ambizione nel cuor di molti, più che l'amor della religione, fra Giovanni re di Gerusalemme e Pelagio Portoghese, cardinale, vescovo d'Albano e legato pontificio, uomo testardo, a cui viene da alcuni attribuita la rovina degli affari della cristianità in Oriente. Prese il re alcuni pretesti, e si ritirò ad Accon; e intanto il legato scomunicò i di lui aderenti. Trovandosi poi questo legato con una sì fiorita armata, che Godifredo monaco [Godefridus Monachus, Annal.] fa ascendere a quasi dugento mila persone, ma che di gran lunga minore vien asserita da altri, non volendo stare in ozio, propose di far qualche grande impresa. Trovò che le milizie non si volevano muovere senza avere alla testa un generale di sperienza, cioè il suddetto [1048] re Giovanni, parendo loro che un cherico, benchè d'altissima dignità, non fosse atto a maneggiar il baston del comando. Perciò il legato fu costretto a pregare il re che tornasse, promettendo di pagargli cento mila bisanti che gli dovea. Venuto il re, e tenutosi consiglio di guerra, fu egli di parere che si avesse da andare a dirittura a rifabbricar Gerusalemme, e a riacquistar quel regno: cosa allora facile, e che avrebbe potuto agevolar dipoi altre conquiste in Egitto [Alberic. Monachus, in Chron.]. Il legato, che si credea miglior mastro di guerra, volle nel mese di luglio che si marciasse alla volta del Cairo, città capitale dell'Egitto. Il sultano non lasciò in questi tempi di far nuove proposizioni di pace, se gli si restituiva Damiata, con offerire la restituzion de' prigioni e del regno di Gerusalemme, a riserva della fortezza del Krach, e di pagar le spese per la riparazion delle smantellate città, e una tregua di trenta anni. Tutta l'armata cristiana acconsentiva; il solo legato Pelagio ruppe il trattato, e volle guerra. Gotifredo monaco e Bernardo Tesoriere ci assicurano di questo fatto. Finiamola con dire, che, inoltratasi l'armata de' crociati, il sultano le tagliò la strada per cui da Damiata aveano da venir le vettovaglie, ed aprì varie bocche del Nilo, che maggiormente ristrinsero i Cristiani, di maniera che affamati, e senza modo di uscire di quel labirinto, necessitati furono a chieder pace al Saraceno. Per ottenerla convenne cedere Damiata colla vicendevol restituzion de' prigioni. Tale esito ebbe l'ostinazion del legato: dopo di che di male in peggio andarono da lì innanzi gli affari di Terra santa. A nulla servì in tal occasione la flotta spedita a Damiata dall'imperador Federigo, ossia perchè, siccome ha il Continuator di Caffaro, non sapendo l'esercito cristiano l'arrivo di essa, non se ne prevalse; oppure perchè i Saraceni le impedirono il poter continuare il viaggio pel Nilo. Quel che è certo (e l'abbiamo da Riccardo da San Germano), [1049] il gran cancelliere Gualtieri vescovo di Catania, ed Arrigo conte di Malta, condottieri della medesima, per giusto timore d'essere gastigati dall'Augusto Federigo, l'uno, cioè Gualtieri, se ne fuggì a Venezia, dove poi terminò i suoi giorni; e l'altro, cioè Arrigo, tornato in Sicilia, e preso, restò spogliato della sua contea di Malta. Ma il suddetto Continuatore degli Annali di Genova scrive che egli perdè Malta solamente nell'anno 1223, per sospetti d'intelligenza coi Saraceni di Sicilia ribelli. Oltre di che, il troveremo all'anno 1227 di nuovo in grazia di Federigo.

Attese in quest'anno esso imperadore a vendicarsi di chi in Puglia avea prese l'armi contra di lui, o veniva da lui creduto indebito possessor de' suoi Stati. Levò Sora ed altri luoghi a Riccardo fratello d'Innocenzo III, con pretendere che esso Innocenzo nel tempo della di lui fanciullezza avesse abusato della sua autorità in danno di lui. Non meritava papa Innocenzo un trattamento sì fatto ne' suoi parenti, dopo aver tanto operato per sostener Federigo fanciullo in Sicilia, e per fargli ottenere il regno di Germania: il che fu un sicuro gradino alla corona dell'imperio. Obbligò Federigo parimente Stefano cardinale di Santo Adriano a rilasciar la rocca d'Arce. Spogliò delle lor terre Tommaso conte di Celano e il conte di Molise. Ricuperò Boiano, e, ad istanza de' Tedeschi, rimise in libertà il conte Diopoldo, ma con torgli Alife, Caiazzo ed Acerra. Di quest'ultima città investì Tommaso conte d'Aquino, con dichiararlo ancora gran giustiziere della Puglia. Scrivono inoltre alcuni che fece morir qualche vescovo stato in addietro ribello. Certamente con varie pene li maltrattò. Ora tanti baroni abbassati tutti si riducevano a Roma, con far ivi di gravi doglianze al papa contra di Federigo, il quale all'incontro si lamentava del pontefice [Abbas Urspergens., in Chron.], perchè faceva buon accoglimento a chiunque era in disgrazia [1050] sua. Il papa infatti cominciò, o pur seguitò maggiormente ad alterarsi contra di lui; ed imputando a lui tutte le disgrazie succedute in Oriente, uscì in questo medesimo anno in minaccie di scomunica, se egli non dava compimento al voto di Terra santa. Dopo aver disposte le cose di Puglia, passò poi Federigo in Sicilia, e tenuto in Messina un general parlamento del regno, pubblicò ivi alcuni regolamenti pel buon governo d'esso. Per far pruova i Genovesi di che metallo fossero le belle promesse lor fatte nell'anno precedente [Caffari, Annal. Genuens., lib. 5.], spedirongli nel presente per loro ambasciatori Oberto da Volta, Sorlaone Pevere e Uberto da Novara. La ricompensa de' tanti servigii a lui prestati, fu, ch'egli tolse loro e al conte alemanno lor vassallo il possesso e il governo di Siracusa; li spogliò del palazzo di Margaritone, già grande ammiraglio, donato ai medesimi tanti anni prima; e gli obbligò a pagare, al par degli altri, tutti i diritti delle dogane per l'introduzione ed estrazione di merci; dimodochè se ne tornarono a Genova, non so se bestemmiando, certo non benedicendo la generosità di questo imperadore. E di questo passo camminava Federigo, chiudendo gli occhi e le orecchie a tutto, purchè ben assodasse la sua potenza in Sicilia, ed impinguasse l'erario suo. Ch'egli in quest'anno venisse a Genova, lo scrisse bensì il Sigonio [Sigon., de Regno Ital., lib. 17.], ma non colla sua solita accuratezza. Il Continuator di Caffaro parla della di lui venuta a Genova nell'anno 1212, e non già d'un'altra nell'anno presente, in cui egli non si mosse dal regno. Erasi ribellata la città di Ventimiglia ai Genovesi negli anni addietro. Con potente oste procederono essi in questo anno contra di quel popolo, il quale venne bensì all'ubbidienza, ma nel dì seguente si rivoltò. Fecero i Genovesi delle mirabili fortificazioni intorno a quella città; e, lasciatala da ogni intorno bloccata, [1051] ridussero a casa l'esercito. L'anno fu questo, in cui, secondo Galvano dalla Fiamma [Gualvan. Flam., Manipul. Flor., cap. 254.], cominciò la discordia a spargere il suo veleno fra i nobili e popolari della città di Milano. Nascevano tutte queste civili divisioni nelle città libere d'Italia dall'ambizione, ossia dal soverchio desiderio degli onori. Aveano i popolari la lor parte nel governo, nè sapeano sofferire che i nobili ambissero i migliori uffizii, le ambascerie ed altri posti o più onorevoli o più lucrosi. Quindi le doglianze, e infine si dava di piglio all'armi. Non potendo resistere i nobili alla possanza degli avversarii, convenne loro uscir della città colle lor famiglie. Ma non già ne usci l'arcivescovo Arrigo da Settala, come scrive il suddetto Fiamma, perchè noi l'abbiam veduto in questi tempi crocesignato in Damiata.

Per lo contrario il cardinale Ugolino vescovo di Ostia, glorioso per aver procurata pace dovunque arrivava, nel mese di settembre dell'anno presente compose le differenze che passavano fra il popolo e la nobiltà fuoruscita di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.], con fare rimettere in libertà i prigioni popolari: con che i nobili se ne ritornarono in città. Belle erano sì fatte concordie; ma che? se con gran difficoltà si stringevano, con facilità mirabile si discioglievano. Aveva il cardinale posto in Piacenza per podestà generale della città Ottone da Mandello Milanese. Dovette parere al popolo ch'egli avesse della parzialità per li nobili; e però nel mese d'ottobre elesse per suo podestà Guglielmo dell'Andito, che è oggidì la famiglia dei marchesi Landi. Nel seguente novembre il suddetto Ottone da Mandello in tempo di mezza notte coi nobili andò alla casa di Guglielmo Landi per farlo prigione. Trasse a questo rumore il popolo, ed, attaccata battaglia, fece prigione Ottone da Mandello con tutta la sua famiglia. Furono presi anche cento nobili, ma poscia rilasciati. Anche in Ferrara [1052] avvennero delle novità [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Azzo VII marchese d'Este e di Ancona, chiamato anche Azzolino ed Azzo Novello, giovinetto spiritoso e insieme prudente, dopo la morte del marchese Aldrovandino suo fratello, abitava spesse volte in Ferrara, siccome capo della fazion guelfa, e possessor quivi di gran copia di beni e di vassalli, uno de' quali era lo stesso Salinguerra, capo de' Ghibellini. Duro pareva agli aderenti del marchese che Salinguerra co' suoi godesse i migliori uffizii della repubblica. Però nel mese d'agosto, prese l'armi, assalirono la parte di Salinguerra, e dopo aspro combattimento la forzarono ad abbandonar la città; e in tal occasione fu dato alle fiamme il palazzo del medesimo Salinguerra. Si dovettero interporre saggi mediatori di pace, perchè da lì a pochi giorni i fuorusciti ritornarono alle lor case. Secondo le Croniche di Bologna [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.], nell'anno presente a dì 23 di luglio in luogo detto il Corneglio seguì un fatto d'armi fra i Bolognesi ed Imolesi. Ai men possenti, cioè agli ultimi, toccò la rotta, e circa mille e cinquecento d'essi rimasero prigionieri. Ma nulla di questo ha il Sigonio, scrittore informatissimo delle cose di Bologna. Scrive egli bensì [Sigonius, de Regno Ital., lib. 17.] che gl'Imolesi irritati contra del castello d'Imola lo distrussero, e tutti quegli abitatori accolsero nella città, come lor veri cittadini. Venne in quest'anno a morte nella città di Bologna [Bolland., Act. Sanct. ad diem 4 augusti.] il glorioso servo di Dio san Domenico, institutore dell'ordine dei predicatori, e al corpo suo fu data sepoltura nella chiesa dei suoi religiosi già piantati in quella città. Abbiamo da Girolamo Rossi [Rubeus, Histor. Ravenn., ad hunc ann.] che Ugolino di Giuliano conte della Romagna, mentr'era podestà di Ravenna, tagliato fu a pezzi, senza dire da chi. In suo luogo Federigo Augusto creò conte di quella provincia Goffredo [1053] conte di Biandrate, con dargli il godimento di tutte le gabelle e de' porti spettanti all'impero, mercè d'un diploma spedito in Messina nel giugno di questo anno. Abbiamo di qui che Federigo, al pari dei suoi predecessori, seguitava a signoreggiar nella Romagna; nè apparisce che il papa ne facesse doglianza. Diede ancora esso imperadore l'investitura degli Stati aviti ad Azzo VII marchese d'Este [Antichità Estensi, P. I, cap. 42.], con diploma spedito in Brindisi nel marzo del corrente anno.


   
Anno di Cristo MCCXXII. Indizione X.
Onorio III papa 7.
Federigo II imperadore 3.

Le disavventure occorse ai cristiani in Egitto, per le quali il buon pontefice Onorio III preso fu da somma afflizione, il tenevano in continui pensieri e cure per riparare il danno sofferto, e mettere in migliore stato il cadente regno dei cristiani in quelle parti [Raynaldus, Annal. Eccl. ad hunc ann.]. Pertanto concertò coll'imperador Federigo di fare un solenne congresso in Verona per la festa di san Martino, dove desiderava di trovarsi egli con esso imperadore, col re di Gerusalemme Giovanni e col legato pontificio Pelagio vescovo d'Albano, a' quali scrisse per questo. Il concerto di questo general parlamento fu fatto primieramente in Veroli; perciocchè, per attestato di Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.], nel mese di febbraio uscito di Roma il pontefice, andò ad Anagni, ed invitò l'Augusto Federigo a venire a trovarlo. Trovaronsi dunque insieme in Veroli, e per quindici dì dimorati in quella terra, ebbero agio di trattar di varii affari. Fu ivi risoluta la suddetta gran corte in Verona, e Federigo s'obbligò in certo termine di tempo di passar come imperadore in sussidio di Terra santa. Ma nulla seguì poi del progettato parlamento, forse per la infermità del papa, il quale, secondo il [1054] suddetto Riccardo, patì in quest'anno un grave male in una gamba. I Romani, che per lo più aveano nemicizia coi Viterbesi, fecero esercito nell'anno presente contro la loro città. Neppur mancavano dei fastidii all'imperador Federigo. La rocca di Magenul in Puglia si manteneva ribellata: fece assediarla da Tommaso conte d'Acerra. In Sicilia, i Saraceni quivi abitanti, perchè aggravati di grosse taglie, e maltrattati dai cristiani, s'erano sollevati, con recare immensi danni alla valle di Mazzara, avendo per loro capo un certo Mirabetto. Fu obbligato per questo Federigo a tornarsene in Sicilia, dove, ammassato un buon esercito, marciò contra di coloro. Terminò i suoi giorni nel dì 23 di giugno dell'anno presente in Catania l'imperadrice Costanza di lui moglie, la qual perdita dicono che gli fu molto sensibile. Uscito segretamente dalla rocca di Magenul Tommaso conte di Celano, ebbe maniera di ricuperar la sua terra di Celano, e per ben vittovagliarla scorse tutta la Marsia. Allora il conte d'Acerra, lasciata quanta gente occorreva per tener bloccata la rocca suddetta di Magenul, venne ad assediar Celano. Si rendè poi la rocca predetta, e Federigo diede in Sicilia delle buone percosse ai ribellati Saraceni. In un conflitto vi restò ucciso il loro condottiere Mirabetto.

Fu posto fine in quest'anno alla guerra de' Bolognesi e Faentini contro Imola con ridurre quella città ad accettar la legge che le vollero imporre i due più potenti avversarii. Ne parla a lungo il Sigonio [Sigon. de Regno Ital., lib. 16.], che su questo diligentemente consultò gli atti pubblici e le storie di Bologna. Solamente accennerò io che con tutte le lor forze il popolo di Bologna e quel di Faenza nell'agosto dell'anno presente ostilmente si portarono sotto essa città d'Imola, e ne impresero l'assedio. Ma eccoti giugnere al campo loro Diotisalvi da Pavia, spedito dall'arcivescovo di Maddeburgo, legato in Lombardia dell'imperador Federigo, coi podestà [1055] di Parma e Cremona, e cogli altri ambasciatori di Brescia, Verona, Mantova, Reggio e Modena, per trattar pace e impedir quell'assedio. Contuttochè Diotisalvi a nome dell'arcivescovo, sotto pena di mille marche d'oro, intimasse loro il non molestar quella città, e a questo comandamento aggiugnessero gli altri le più efficaci preghiere; pure gli assedianti, sentendo di avere il vento in poppa, stettero saldi nel loro proposito. Partiti che furono quegli ambasciatori, il popolo d'Imola, per non ridursi agli estremi, inviò i suoi deputati al campo per rendersi. Dure furono le condizioni dell'accordo, Imola restò sotto la guardia ed autorità de' Bolognesi e Faentini; convenne spianar le fosse; e le porte della città furono trionfalmente portate a Bologna, e non già in altro anno, come alcuno ha creduto. Portata questa nuova all'imperador Federigo, ne andò forte in collera; fece anche citare al suo tribunale Giuffredo da Pirovano podestà di Bologna; e da lì innanzi covò sempre un mal animo contra de' Bolognesi. Di cattiva ricordanza fu l'anno presente pel terribil tremuoto che nello stesso dì del santo Natale del Signore si fece sentire in Lombardia, e per due settimane replicò due volte il giorno le scosse. Secondochè scrive Goffredo Monaco [Godefr. Monachus, in Chron. Rolandin., lib. 2, cap. 3.], in più luoghi abbattè le case e le chiese, con opprimere gli uomini e i sacerdoti. Fece anche gran male in Genova [Caffari, Annal. Genuens., lib. 5, tom. 6 Rer. Italic.]. Ma principalmente si scaricò questo flagello sopra la città di Brescia, avendone atterrata la maggior parte colla morte di molto popolo. Tutto ciò vien confermato dallo storico bresciano Jacopo Malvezzi [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.], confessando egli che non solamente innumerabili fabbriche nella città, nelle castella e ville furono rovesciate a terra, ma che vi perì anche una gran quantità [1056] di persone, massimamente di pargoletti e di bestiame. E perciocchè seguitò questa calamità lungo tempo dipoi, quasi tutti, abbandonate le loro abitazioni, si ridussero a vivere in mezzo alle campagne.

Tommaso arcidiacono di Spalatro, la cui Storia salonitana fu data alla luce da Giovanni Lucio [Thom. Spalatr. apud Johann. Lucium de Reg. Delmat., pag. 338.], scrivendo le cose de' suoi dì, fa menzione di quest'orribil disastro, con aggiugnere che ne ebbe gran danno la Liguria, l'Emilia e la Marca Venetica, cioè di Verona; e che Brescia in gran parte cadde, con rimaner seppellita nelle rovine una moltitudine di uomini, e specialmente di eretici. Nè voglio tacere una bella particolarità, che egli di veduta soggiugne intorno a san Francesco d'assisi: Eodem anno, dice egli, in die Assuntionis Dei Genitricis quum essem Bononiae in studio, vidi sanctum Franciscum praedicantem in platea ante palatium publicum, ubi tota paene civitas convenerat. Fuit autem exordium sermonis ejus angeli, homines, daemones; de his enim tribus spiritibus rationalibus ita bene et discrete proposuit, ut multis literatis, qui aderant, fieret admirationi non modicae sermo hominis idiotae; nec tamen ipse modum praedicantis tenuit; sed quasi concionantis. Tota vero verborum ejus discurrebat materies ad extinguendas inimicitias, et ad pacis foedera reformanda. Sordidus erat habitus, persona contemtibilis, et facies indecora. Sed tantam Deus verbis illius contulit efficaciam, ut multae tribus nobilium, inter quos antiquarum inimicitiarum furor immanis multa sanguinis effusione fuerat debacchatus, ad pacis consilium reduceretur. Erga ipsum vero tam magna erat reverentia hominum et devotio, ut viri et mulieres in eum catervatim ruerent, satagentes vel fimbriam ejus tangere, aut aliquid de pannulis ejus auferre. Prevalse in questo anno nella città di Ferrara la fazione di Salinguerra, capo de' Ghibellini, in guisa [1057] che Azzo VII marchese d'Este e d'Ancona con quei del suo partito guelfo fu obbligato ad uscir della città. Per rifarsi di questo affronto [Roland., Chron., lib. 2, cap. 2.] il marchese mise insieme un esercito raccolto da Rovigo, e dagli altri suoi Stati, e dalla Lombardia e marca di Verona, e andò a mettere il campo sotto Ferrara vicino al Po. Salinguerra, volpe vecchia, temendo che si sollevasse il popolo contra di lui, mandò al marchese, con accordargli che entrasse in Ferrara, dove si tratterebbe amichevolmente di concordia fra le parti. Cadde buonamente nella rete il marchese, ed entrò con cento nobili del suo partito nella città. Allora Salinguerra, fatta correr voce che gli entrati con mala maniera prendevano il vivere per sè e per li loro cavalli, e faceano altre insolenze, gridò all'armi, all'armi. Parte degli entrati ebbe la fortuna di salvarsi col marchese, gli altri restarono uccisi, e fra questi Tisolino da Campo San Pietro, nobilissimo cavalier padovano, nel ritirarsi fu fermato dai contadini d'una villa chiamata Girzola, o Guzola. Dopo averne ammazzati alcuni, senza mai volersi rendere, per mano di quella canaglia perdè miseramente la vita, del che fu non lieve dolore e compassione per tutta la marca veronese. Contuttociò neppure per questo imparò il marchese d'Este a conoscere se Salinguerra fosse personaggio da fidarsi di lui. I nobili milanesi fuorusciti [Gualv. Flamma, in Manip. Flor., cap. 255.] ed Arrigo da Settala arcivescovo, che aveano per loro capo Ottone da Mandello, erano tuttavia in rotta coi popolari padroni della città, governati da Ardigetto Marcellino. Seguirono guasti ed incendii non pochi nel distretto. Finalmente i due nemici eserciti vennero a fronte in campagna, ed ognun si aspettava che si venisse alle mani; quando, essendosi interposte persone savie e zelanti del pubblico bene, segui pace fra loro. Nel mese di marzo del presente anno Sozzo, o Gozzo de' Coleoni [1058] da Bergamo, podestà di Cremona, ebbe la gloria di far pace fra i nobili e i popolari di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Italic.], e di pubblicarla nella piazza maggiore di quella città, con determinare che i nobili avessero la metà degli onori e due parti delle ambascerie, e il popolo la metà degli onori e la terza parte delle ambascerie. Ecco i motivi ordinarii delle guerre civili in questi tempi fra la nobiltà e il popolo delle città libere. Ma non passarono molti mesi che i nobili, costretti ad abbandonar la città colle lor famiglie, tornarono alle lor castella, e ricominciarono la guerra contro la città. Riuscì in quest'anno ai Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 3, tom. 6 Rer. Italic.] dopo un lungo e forte blocco di ridurre all'antica lor suggezione ed ubbidienza la città di Ventimiglia. Ereditario era l'odio e l'emulazione fra essi Genovesi e i Pisani; e, dovunque si trovavano, poco ci voleva ad accendersi lite fra loro, e la lite per lo più si decideva coll'armi. In quest'anno appunto nella città d'Accon, ossia d'Acri, segui una fiera baruffa fra queste due nazioni. Ebbero la peggio i Pisani. La vendetta che ne fecero fu di appiccar fuoco alle case de' Genovesi, per cui non solamente rovinò la lor torre, che era di mirabil bellezza e di grande altezza, ma ne rimase anche la maggior parte di quella città distrutta. Il re Giovanni favoriva i Pisani, e però gran danno n'ebbero i Genovesi.


   
Anno di Cristo MCCXXIII. Indizione XI.
Onorio III papa 8.
Federigo II imperadore 4.

O era sul fine del precedente anno venuto, o certamente sul principio di questo venne a Roma Giovanni di Brenna re di Gerusalemme, con somma benignità e molte carezze accolto dal pontefice Onorio III. Erano con lui i gran mastri de' cavalieri templarii, ospitalarii [1059] e teutonici [Ricard. de S. German., in Chron. Raynald., Annal. Eccl.]. Allora il papa invitò l'imperador Federigo II ad un congresso, che si dovea tenere in San Germano. Non mancò Federigo, mossosi di Sicilia, d'essere colà al tempo prefisso; ma perciocchè il sommo pontefice tuttavia si trovava incomodato dal male della gamba, nè potè fare quel viaggio, Ferentino fu destinato per quell'abboccamento. V'intervennero il papa, l'imperadore, il re di Gerusalemme co' suoi, e molti altri signori, colà invitati dal papa zelantissimo per gli affari di Terra santa. Restò ivi conchiuso, che giacchè duravano le tregue coi Saraceni, e tempo si richiedeva per fare i necessarii preparamenti, l'Augusto Federigo da lì a due anni nella festa di san Giovanni Batista farebbe il passaggio in Levante con tutte le forze sue: al che egli si obbligò con solenne giuramento, sotto pena della scomunica. Fu stabilito inoltre che esso Federigo contraesse allora gli sponsali con Jolanta figliuola unica del suddetto Giovanni re di Gerusalemme, per celebrarne il matrimonio a suo tempo: con che si figurò il saggio pontefice di maggiormente animar Federigo a quell'impresa per la speranza di acquistare un regno, di cui doveva essere erede la suddetta Jolanta. Terminato il congresso, passò il re Giovanni in Francia, in Inghilterra e in Ispagna a cercar de' soccorsi. Onorio papa anch'egli continuò con calde lettere le paterne esortazioni e preghiere sue ai re e principi della cristianità, acciocchè ciascuno dal suo canto porgesse mano ai bisogni di Terra santa. Federigo, preso congedo dal papa, passò per Sora, e andò a Celano, che si trovava allora assediato dalle sue milizie. Era quella forte terra difesa da Tommaso antico conte d'essa. Benchè facesse venire la moglie e il figliuolo del medesimo conte per esortarlo a rendersi, nulla potè ottenere. Incamminossi Federigo verso la Sicilia; e non per anche s'era imbarcato, che, frappostosi [1060] il papa, il conte di Celano venne ad un accordo, per cui cedette all'imperadore Celano ed altre sue terre, con obbligo di uscire del regno, e facoltà di condur seco tutte le robe e gli aderenti suoi. Alla moglie di lui fu riserbata la contea di Molise, e datone anche il possesso. Eseguita la capitolazione, fu ordinato agli abitanti di Celano di uscirne coi loro mobili, e poi da' fondamenti fu distrutta quella terra, e gli abitanti furono col tempo trasportati in Malta per popolar quell'isola che oggidì è sì famosa. Passò dunque Federigo in Sicilia per attendere a domare i Saraceni più che mai ostinati nella lor ribellione. Il terribil flagello del tremuoto, che nel Natale dell'anno precedente recò tanta rovina a Brescia, se non apportò gran danno, cagionò ben gran terrore alla città di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Però quei popolari e nobili fuorusciti, prima divisi, compunti ora al vedere l'ira di Dio, spontaneamente conchiusero la pace fra loro; e il popolo, ito ad incontrare la nobiltà, l'introdusse lietamente nella patria comune. Ne' vecchi Annali di Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.] si legge che in quest'anno multae paces compositae fuerunt occasione Carthaginis. Ciò che si voglia dir questo autore, nol so io indovinare con quel nome di Cartagine. E che non paia errore in vece di terremoto, si può dedurre dal soggiugner egli: Eodem anno fuit terraemotus magnus. Altri ancora hanno riferito al presente anno il famoso terremoto dell'anno precedente, perchè accaduto nel Natale del Signore, da cui molte città cominciavano a contare l'anno nuovo. Benvenuto da San Giorgio [Benvenuto da S. Giorgio, Storia del Monferrato.] accenna sotto questo anno una concession d'alcune castella fatta da Federigo imperadore a Guglielmo marchese di Monferrato con diploma dato nel mese di aprile di quest'anno [1061] in obsidione Cetani (Celani, credo io), e fra' testimoni si legge Rainaldus dux Spoleti. Questo medesimo duca di Spoleti il truovo io in altro diploma d'esso Federigo dell'anno 1220 da me dato alla luce [Antichità Estensi, P. I, cap. 41.], e in altri diplomi riferiti dal suddetto Benvenuto nel 1224, e dal Margarino [Bullar. Casinens., tom. 2, Constit. CCXLVI.] nel 1226. È cosa da osservare, perchè in questi tempi il pontefice era in possesso del ducato di Spoleti. Dovea quel Rinaldo portarne solamente il titolo, perchè figliuolo di chi già ne era stato investito.


   
Anno di Cristo MCCXXIV. Indizione XII.
Onorio III papa 9.
Federigo II imperadore 5.

Tanto da Gotifredo Monaco [Godefridus Monachus, in Chron.], quanto dalle lettere dello stesso imperador Federigo, rapportate dal Rinaldi [Raynaldus, Annal. Eccl.], abbiamo che esso augusto per mostrare, oppure per far credere al pontefice l'animo suo risoluto per la liberazion di Terra santa, ed animar con ciò i principi di Germania a dar soccorsi per la sacra impresa, scrisse d'aver quasi in pronto cento galee ne' suoi porti ben armate; e ch'egli inoltre facea fabbricar cinquanta uscieri, ossia grosse navi da trasportar cavalleria: di modo che, secondo i suoi conti, potea condurre in esse sole cinquanta navi duemila cavalieri coi lor cavalli, e inoltre dieci mila fanti. Aveano questi uscieri i lor ponti da gittare in terra, per li quali avrebbono potuto gli uomini uscire a cavallo dalle navi stesse. Oltre a ciò, aspettava assaissimi altri legni da varie parti dell'Italia, capaci di una altra armata. Spedì ancora suoi uffiziali in Germania per far gente, e muovere que' principi, ed anche il re d'Ungheria, alla crociata, offerendo a tutti passaggio e danaro pel suo regno. Insomma pare ch'egli operasse daddovero fin qui per [1062] l'esecuzion delle sue promesse. Ma si doleva di saper di certo che niun soccorso si potea sperare dalla Francia ed Inghilterra, ch'erano in guerra fra loro; e fors'anche ricusavano di accudire alla sacra impresa, che finora era costata la vita di tante centinaia di migliaia d'uomini, e tanti tesori ai cristiani, con sì poco frutto in fine della cristianità. Intanto Giovanni re di Gerusalemme, ito in Ispagna, s'indusse a prendere in moglie Berengaria sorella del re di Castiglia. Non dovette già piacere all'Augusto Federigo un tal matrimonio, dacchè per isperanza di ereditare il di lui regno s'era indotto agli sponsali colla figlia del medesimo re Giovanni. E fin qui era durata la guerra in Sicilia contra de' Saraceni ribelli, che, afforzati nelle montagne, mostravano poca paura dell'armi cristiane. Tuttavia nell'anno presente furono così stretti, che finalmente la maggior parte d'essi implorò perdono, che ben volentieri concedette loro l'Augusto Federigo. Ma affinchè non inquietassero in avvenire la Sicilia, e cessasse ancora il pericolo che costoro tirassero un dì dall'Africa dei rinforzi della loro setta, prese Federigo lo spediente di trasportarli in Puglia, lungi dal mare, con dar loro ad abitare nella provincia di Capitanata la città di Nocera disabitata, che da lì innanzi fu appellata Nocera de' Pagani a distinzion d'altre Nocere. Scrive Giovanni Villani [Giovanni Villani, Chron., lib. 6, cap. 14.] che furono più di venti mila Saraceni da arme condotti colà: il che mi sembra esorbitante numero, considerando le lor famiglie che non sarebbono capite in Nocera. Ebbe anche Federigo la mira, colla fondazion di questa colonia maomettana, di tenere in briglia i Pugliesi. Col tempo ne fece doglianza la corte di Roma. Non mancano scrittori che credono succeduto molti anni dappoi un tal trasporto. Certo è che non finì qui la guerra coi Saraceni, e ne restò almeno in Sicilia un'altra parte di tuttavia [1063] contumaci [Richardus de S. Germano, in Chron.]. Federigo si servì di questo pretesto per chiamare in Sicilia Ruggieri dall'Aquila, Jacopo da San Severino, e il figliuolo del conte di Tricarico, fingendo di volersene valere contra d'essi Saraceni. Andarono que' baroni; furono messi in prigione; e sulle lor terre i regii uffiziali stesero le griffe. Il perchè non viene espresso. Tolse ancora alla contessa di Molise le sue terre, ed impose delle nuove gravezze ai popoli. S'egli fosse lodato per questo non occorre ch'io il dica.

Insorsero in quest'anno ancora delle brighe fra i nobili e popolari di Piacenza a cagion d'un omicidio [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Italic.]; e di nuovo la nobiltà prese la risoluzione di ritirarsi fuori di città. Anche in Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.] cominciò a metter piede la discordia in quest'anno fra i cittadini, e le fazion furono in armi. L'una d'esse prese la torre maggiore di San Geminiano, e vi si afforzò: laonde il podestà fece di molte condanne. Scritto è negli stessi Annali di Modena che Guglielmo marchese di Monferrato con grande accompagnamento di nobili lombardi andò in Alemagna, dove da lì a due anni mori. In vece di Alemanniam, s'ha quivi da scrivere Romaniam. Abbiamo da Benvenuto da San Giorgio [Benvenuto da San Giorgio, Storia del Monferrato.] che questo principe, lasciandosi trasportar dalla voglia di ricuperare il regno di Tessalia, che era stato da Teodoro Lascari tolto a Demetrio suo fratello, fece grande ammasso di gente, e specialmente di nobili suoi amici per quella impresa, ch'egli concepiva molto facile. Ma, mancandogli il danaro occorrente per tante spese, passò nell'anno presente in Sicilia affine d'impetrarne dall'imperador Federigo. Ottenne infatti da lui sette mila marche di argento al peso di Colonia, ciascuna delle quali pesava mezz'oncia, ma con dargli in pegno [1064] la maggior parte delle sue terre e dei suoi vassalli di Monferrato, tutte e tutti ad un per uno annoverati nello strumento riferito da esso Benvenuto; il che è una prodigiosa quantità. Potrebbe sospettarsi errore in quel sette mila, parendo troppo poco rispetto al pegno. Nè solamente impegnò a Federigo quegli Stati, ma gliene diede il possesso e le rendite da godersi finchè fosse restituita tutta la somma di esso danaro. Lo strumento di tale sborso e pegno fu fatto in Catania nel dì 24 di marzo dell'anno presente. Andò il marchese col fratello Demetrio e con Bonifazio suo figliuolo a Salonichi, e pare che riavesse quella ricca città; ma nel seguente anno vi lasciò la vita attossicato, per quanto fu creduto, dai Greci. Dopo aver perduta quasi tutta la sua armata, suo figliuolo Bonifazio se ne tornò in Italia, e Demetrio suo zio poco stette a venirsene anch'egli, cacciato di nuovo dai Greci. Questo infelice fine ebbe la spedizion del marchese Guglielmo. Come poi Bonifazio suo figliuolo disimpegnasse le terre suddette non l'ho ben saputo discernere.

La frode fatta in Ferrara l'anno 1222 da Salinguerra ad Azzo VII marchese d'Este, e la morte di Tisolino da Campo San Piero, che era de' più cari amici di esso marchese, stavano fitte nel cuore di questo principe [Roland., Chron., lib. 2, cap. 4. Chronicon Estense, tom. 14 Rer. Italic. Monachus Patavinus, in Chron.]. Egli perciò nell'anno presente, raunato un buon esercito dei suoi Stati, e degli amici di Mantova, Padova e Verona, volendone far vendetta, ritornò all'assedio di Ferrara. Tanto seppe fare e dire con lettere ed ambasciate affettuose l'astuto Salinguerra, che indusse il conte Riccardo da San Bonifazio con una certa quantità d'uomini a cavallo ad entrare in Ferrara, sotto specie di conchiudere un amichevole accordo. Ma, entrato, fu ben tosto fatto prigione con tutti i suoi, e però il marchese d'Este deluso si ritirò da quell'assedio. [1065] È da stupire come signori savii, i quali doveano essere abbastanza addottrinati dal precedente inganno, si lasciassero di bel nuovo attrappolare da quel solenne mancator di parola. Adirato per questo successo il marchese Azzo, si portò all'assedio del castello della Fratta, de' più cari che si avesse Salinguerra; e tanto vi stette sotto, che a forza di fame se ne impadronì, con infierir poi barbaramente contra que' difensori ed abitanti. Di ciò scrisse Salinguerra ad Eccelino da Romano suo cognato con amarezza; ed amendue cominciarono più che mai da lì innanzi a studiar le maniere di abbattere la fazion guelfa, di cui capo era il marchese d'Este. Negli Annali vecchi di Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.] si legge che i Veronesi, Mantovani e Ferraresi furono all'assedio del Bondeno, e se ne partirono con poco gusto ed onore. I Ferraresi uniti co' Veronesi dovettero essere i fuorusciti, aderenti al marchese d'Este. Mossero in quest'anno guerra gli Alessandrini ai Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.] per cagion della terra di Capriata, pretesa da essi di loro ragione. Ricavati molti aiuti dai Tortonesi, Vercellini e Milanesi, uscirono in campagna contra di quella terra. Non furono lenti ad accorrere alla difesa i Genovesi, alla vista de' quali batterono gli Alessandrini la ritirata. Restò preso ed incendiato Montaldello, castello degli Alessandrini, e Tessaruolo, castello de' Genovesi. Tornaronsi dopo queste baruffe le armate ai lor quartieri. Secondo gli Annali di Bologna [Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.], passò in quest'anno per quella città Giovanni di Brenna re di Gerusalemme colla moglie, di ritorno dalla Germania.

[1066]


   
Anno di Cristo MCCXXV. Indizione XIII.
Onorio III papa 10.
Federigo II imperadore 6.

Tali vessazioni ebbe in quest'anno papa Onorio III da Parenzio, senatore di Roma, e dal senato romano, che fu necessitato a partirsi da quella città con passare ad abitare in Tivoli [Richardus de S. Germano.]. Era venuto in questo mentre da oltramonti Giovanni re di Gerusalemme colla moglie Berengaria. Prese stanza in Capoa, ben accolto e trattato d'ordine dell'imperadore. Quivi gli partorì la regina una figliuola. Andò poi a Melfi ad aspettar l'imperadore, il quale in questi tempi chiamò tutti i baroni e vassalli di Puglia, per continuar la guerra ai Saraceni. Ma perciocchè cominciava ad avvicinarsi il tempo de' due anni pattuiti, dopo i quali s'era obbligato a fare il passaggio di Terra santa, nè egli avea gran voglia di passare quel sì gran fosso, inviò il re Giovanni a papa Onorio per ottener nuove dilazioni. Era il pontefice in Rieti; ascoltò benignamente le dimande e scuse di Federigo, e poscia spedì a San Germano Pelagio vescovo d'Albano, e Guala cardinale di San Martino, acciocchè stabilissero con lui una nuova convenzione. Colà comparve ancora Federigo, e fu risoluto che egli nell'agosto dell'anno 1227 irremissibilmente passerebbe in aiuto di Terra santa, e militerebbe per due anni in quelle contrade con mille uomini d'armi da tre cavalli l'uno, e cento legni da trasporto, e cinquanta galee ben armate. In questo mezzo egli darebbe il passaggio a due mila uomini d'armi coi lor famigli. Se non eseguiva, gli era intimata la scomunica papale; ed egli fece giurare Rinaldo duca di Spoleti nell'anima sua, che compierebbe la promessa fatta. Dava non poco da pensare ad esso imperadore il contegno de' Milanesi, che fin qui non lo aveano voluto riconoscere per re, nè per imperadore. Perciò spedì lettere circolari [1067] ai principi di Germania e di Lombardia, e ai podestà delle città libere d'Italia, acciocchè comparissero per la Pasqua di Risurrezione dell'anno seguente a Cremona, dove pensava di tenere un gran parlamento. Intanto insorsero delle amarezze fra lui e papa Onorio. Ne fu la cagione l'avere il pontefice provveduto di vescovi le chiese vacanti di Salerno, Capoa, Consa ed Aversa, senza che ne sapesse parola Federigo. Stimò egli questo di grave pregiudizio alla sua corona, e però vietò il possesso di quelle chiese a quei prelati. Venuto poscia il mese di novembre, arrivò felicemente a Brindisi Jolanta figliuola di Giovanni re di Gerusalemme; e in quella città si celebrarono solennemente le di lei nozze con Federigo. Scrisse il Sigonio [Sigon., de Regno Ital., lib. 17.] con altri che queste nozze furono fatte in Roma, ed aveva il pontefice coronata Jolanta nel Vaticano. Riccardo da San Germano, autore contemporaneo, chiaramente attesta che tal funzione seguì in Brindisi. Circa questi tempi i Milanesi ed altre città di Lombardia cominciarono a rinnovar la lega lombarda, già nata sotto Federigo I Augusto. Vedevano essi che Federigo II era principe che in Sicilia e Puglia aggravati tenea, bassi e in briglia i suoi popoli e baroni, voleva anche comandare a bacchetta per mezzo de' suoi uffiziali in Lombardia; insomma facea paura a tutti, siccome principe di gran potenza, di non minore attività, ambizione ed accortezza, ma di poca fede. Se vogliam credere a Gotifredo Monaco [Godefridus Monachus, in Chron.], papa Onorio III, neppur egli fidandosi di Federigo, fu il promotore della rinnovazion della lega di Lombardia. Abbiamo poi da Rolandino [Rolandinus, Chron., lib. 2, cap. 4.], che i rettori di Lombardia (il che vuol dire della lega) tanto si adoperarono, che fecero mettere in libertà Riccardo conte di San Bonifazio con tutti i suoi, fraudolentemente presi nell'anno addietro in Ferrara da [1068] Salinguerra. Tornossene egli alla sua città di Verona [Monachus Patavinus, in Chron.]; ma pochi mesi passarono che molti nobili e potenti della sua fazione in essa città, corrotti dal danaro di Salinguerra, si unirono coi Montecchi ghibellini della fazione contraria, e il cacciarono da Verona. Allora fu che Eccelino da Romano, il quale unitissimo con Salinguerra tenne mano a questi trattati, corse a Verona in rinforzo de' Montecchi, e incominciò a prendere un po' di dominio in quella città. Si ricoverò il conte Riccardo in Mantova, città che l'amava forte, e sua protettrice fu sempre. Ma dispiacendo queste civili rotture ai rettori della lega lombarda, in tempo ch'era cotanto necessaria l'unione per resistere ai disegni dell'imperador Federigo, impiegarono sì vigorosamente i loro uffizii, che per ora pace seguì, e il conte ritornò a Verona.

Perchè continuavano le discordie fra i cittadini di Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.], il marchese Cavalcabò, podestà d'essa città, fece atterrar tutte le torri de' nobili, per levar loro il comodo di farsi guerra l'uno all'altro dalle medesime torri. Altrettanto si praticò in altre città in varii tempi pel medesimo fine. Per attestato di Galvano Fiamma [Gualv. Flamm., in Manipul. Flor., cap. 258.], cessò in quest'anno la divisione fra i nobili e popolari di Milano. Il suono della vicina venuta dell'imperador Federigo persuase loro la pace ed unione per evitare i pericoli di perdere la lor libertà. Nè si dee tacere, che in questo anno ebbe principio la nimistà fra esso imperadore e il suocero suo Giovanni re di Gerusalemme. Avea Giovanni conseguito il titolo di re per avere sposata la principessa Maria erede del regno gerosolimitano. Da questo matrimonio essendo nata un'unica figliuola, cioè Jolanta, divenuta moglie di Federigo II Augusto, certo è che la medesima portava seco in eredità lo stesso regno; nè Federigo tardò [1069] molto ad aggiugnere nei suoi sigilli e diplomi il Rex Hierusalem, e mandò anche uffiziali a prenderne il possesso; cosa che fu mal sentita da tutti. Giovanni, principe per altro di gran valore e senno, che non avea pensato a premunirsi contra di questo colpo, immaginandosi che la figliuola e il genero gli lascerebbono godere, finchè egli vivesse, quel per altro troppo lacerato regno, perchè della maggior parte erano possessori i Saraceni, trovandosi ora deluso, la ruppe con Federigo nell'anno vegnente, e mosse da lì innanzi cielo e terra contra di lui. Le Croniche di Bologna [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Italic.] riferiscono a quest'anno il divieto fatto da Federigo Augusto dello studio generale di Bologna, acciocchè gli scolari andassero a quel di Napoli, istituito veramente da lui nel precedente anno, per testimonianza di Riccardo da San Germano [Richardus de S. German., in Chron.], con invitar colà da tutte le parti insigni professori dell'arti e delle scienze. Più probabile è, che questa percossa arrivasse a Bologna solamente nell'anno seguente: percossa gravissima, se fosse durata a quella città, perchè dall'università degli studii colavano in Bologna immense ricchezze, che poi servivano a renderla sì orgogliosa e manesca contra di tutti i vicini. Vi furono degli anni, nei quali si contarono dieci mila scolari in Bologna. Tutti vi portavano buone somme di denaro. E forse circa questi tempi ebbe principio l'università di Padova pel divieto fatto nell'anno presente, o, per dir meglio, nel seguente, dal suddetto imperador Federigo [Raynaldus, in Annal. Eccles.]. Procurò parimente esso Augusto che il sommo pontefice si interponesse per ridurre al loro dovere i Milanesi ed altri popoli di Lombardia, i quali più che mai si faceano conoscere alieni d'animo dall'imperadore, e gli negavano ubbidienza per antico odio contro la casa di Suevia, e per nuovi sospetti, che Federigo pensasse a mettergli in ischiavitù. [1070] Scrisse il papa delle forti lettere ma i Lombardi, o perchè sapevano che non le avea scritte di buon cuore, o perchè queste non furono bastanti ad affidarli, continuarono a far de' preparativi per difendersi dai di lui attentati. Seguitò in quest'anno ancora la guerra fra gli Alessandrini e Tortonesi dall'un canto, e i Genovesi ed Astigiani comperati con danaro dall'altro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.]. Fecero i Genovesi lega ancora con Tommaso conte di Savoia, che si obbligò di mantenere in lor favore ducento uomini d'armi, cadauno con un donzello armato e due scudieri. Si fece anch'egli ben pagare. I Milanesi, all'incontro, e i Vercellini spedirono dei rinforzi agli Alessandrini. Diedersi i loro eserciti varie spelazzate, ma si guardarono di decider le liti con una giornata campale. Abbiamo nondimeno dalla Cronica d'Asti [Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital.] che circa la metà di giugno gli Astigiani, ad istanza de' Genovesi, uscirono in campagna, e presso a Quatorda venuti alle mani cogli Alessandrini, voltarono infine le spalle, con lasciarvi circa dugento prigioni. Tornarono poscia in campo, e vicino a Calamandrona, attaccata di nuovo battaglia cogli Alessandrini, nel dì 7 di settembre ne riportarono una rotta più sonora, per cui circa ottocento de' loro soldati rimasti prigionieri stettero nelle carceri di Alessandria con incredibili patimenti per quasi due anni e mezzo, e molti vi morirono. Ebbero gli Astigiani per questa guerra danno per più di ducento mila lire. Di tali svantaggi non si vede parola negli Annali di Genova, secondo il costume degli storici che tacciono o infrascano i sinistri loro avvenimenti, ed ingrandiscono ed esaltano i prosperosi. In Milano, per saggio maneggio di Aveno da Mantova podestà, si formò nuova concordia fra i nobili e popolari. Il Corio [Corio, Istor. di Milano.] ne rapporta lo strumento colle note cronologiche, [1071] poco esattamente, a mio credere, copiate, dove si leggono tutte le condizioni dell'accordo.


   
Anno di Cristo MCCXXVI. Indiz. XIV.
Onorio III papa 11.
Federigo II imperadore 7.

Il minor pensiero, che si avesse in questi tempi l'imperador Federigo, era quello della spedizione in Terra santa. Unicamente gli stava a cuore la Lombardia, in cui collegatisi i Milanesi con altri popoli, davano abbastanza a conoscere di non volere che egli mettesse loro il giogo. Per altro erano in Italia de' cattivi umori in volta. Federigo sospettava che il papa segretamente lavorasse delle mine contra di lui, e tenesse buone corrispondenze coi Lombardi. All'incontro al papa non mancavano dei gravi motivi d'essere disgustato di Federigo, che dispoticamente taglieggiava non meno i laici che gli ecclesiastici del suo regno, per adunar tesori, da impiegare non già in soccorso della cristianità in Levante, ma per opprimere i Lombardi. Taccio altri motivi, nell'esame de' quali io non oso entrare, perchè i gabinetti de' principi son chiusi agli occhi miei. Ma non si può far di meno di non riconoscere che in questi tempi era forte imbrogliata la politica colla religione, e che Federigo II specialmente anteponeva la prima alla seconda. Fuor di dubbio è, che [Raynaldus, Annal. Ecclesiast.] esso Federigo scrisse con dell'alterigia una mano di doglianze al sommo pontefice, il quale gli rispose in buona forma, tacciandolo d'ingratitudine verso la santa Sede e verso il re Giovanni, di maniera che esso imperadore tornò poi a scrivere delle lettere meglio concertate ed umili, perchè conobbe di quanto pregiudizio gli potesse essere il romperla colla corte di Roma. Abbiamo da Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.] che sul principio di questo anno Federigo, ben lontano dal voler [1072] passare in Levante, e dall'adempiere le promesse e i giuramenti, intimò a tutti i baroni e vassalli di tenersi pronti per la spedizione di Lombardia a Pescara nel dì 6 di marzo. Lasciata poi l'imperadrice in Terracina di Salerno, al divisato giorno fu in Pescara; e di là, mosso l'esercito, venne nel ducato di Spoleti, dove comandò ai popoli di quella contrada di accompagnarlo coll'armi in Lombardia. Ricusarono essi di ubbidirlo senza espresso ordine del papa, di cui erano sudditi. Replicò lettere più vigorose colla minaccia delle pene; e que' popoli le inviarono al papa, il quale risentitamente ne scrisse a lui, lamentandosi di un tale aggravio. Allora fu che corsero innanzi e indietro le querele di sopra accennate. Questo ci fa ben intender quai giusti motivi si avessero allora di sospettare che questo principe fosse dietro a calpestar gl'Italiani, dacchè niun riguardo avea neppure pel sommo pontefice. Come poterono, il meglio vi provvidero i Lombardi, col rinforzar maggiormente la loro lega. Nel dì 2 di marzo nella chiesa di San Zenone nella terra di Mosio, distretto di Mantova, fu stipulato lo strumento di essa lega pubblicato dal Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 17.], in cui i deputati di Milano, Bologna, Piacenza, Verona, Brescia, Faenza, Mantova, Vercelli, Lodi, Bergamo, Torino, Alessandria, Vicenza, Padova e Trivigi, stabilirono fra loro una stretta alleanza di difesa ed offesa per venticinque anni avvenire, in vigore della concession loro fatta da Federigo I Augusto di poter fare e rinnovar leghe per la propria difesa. Dalle lettere di papa Onorio III apprendiamo [Raynaldus, in Annal. Eccles.] che anche il marchese di Monferrato, Crema, Ferrara, i conti di Biandrate, ed altri luoghi e signori furono di questa lega. Da Spoleti si trasferì l'Augusto Federigo II a Ravenna, dove celebrò la santa Pasqua nel dì 19 d'aprile; e perciocchè Bologna e Faenza gli erano contrarie, passò lungi da esse città, e [1073] venne a postarsi coll'armata a San Giovanni in Persiceto. Di là portossi ad Imola, e tanto vi si fermò, che, come prima, fu cinta di bastioni e fosse quella città per dispetto de' Bolognesi. Andava egli differendo la sua venuta a Cremona, per tenervi la progettata dieta, sulla speranza che il re Arrigo suo figliuolo, chiamato dalla Germania, coll'esercito tedesco e molti principi di quel regno calassero. Ma questi, secondo l'attestato di Gotifredo Monaco [Godefridus Monachus, in Chron.], venuti fino a Trento, per sei settimane furono astretti a fermarsi colà, perchè i Veronesi aveano presa ed armata la Chiusa nella valle dell'Adige, nè lasciavano passar persona che andasse o venisse dalla Germania. Perciò il re Arrigo co' suoi, senza poter vedere l'Augusto suo padre, se ne tornò indietro, con lasciar nondimeno in Trento una trista memoria della sua venuta; perciocchè nella di lui partenza accidentalmente attaccatosi il fuoco a quella città, la ridusse quasi tutta in un mucchio di pietre. Venne poscia l'imperador Federigo sino a Parma, e quivi s'accorse che poche città in Lombardia, oltre a Modena, Reggio, Parma, Cremona, Asti e Pavia, erano per lui. E portatosi di là a Cremona, vi tenne ben la dieta [Chron. Cremonens., tom. 7 Rer. Ital.], ma non già col concorso di gente ch'egli sperava, e senza che alcuno v'intervenisse della lega lombarda. Vi spedirono i Genovesi il loro podestà Pecoraio da Verona con una nobil comitiva. I Lucchesi, i Pisani e i marchesi Malaspina si fecero anch'essi conoscere fedeli ad esso Augusto. Amareggiato al sommo Federigo dall'avere scoperto maggiore di quel che credeva il numero dei collegati contra di lui, e tutti preparati a ripulsare coll'armi le offese, sen venne a Borgo San Donnino, dove mise al bando dello imperio e dichiarò ree di lesa maestà le città della lega, cassando i lor privilegii. Fece anche fulminar dal vescovo d'Ildesein [1074] la scomunica contra di que' popoli, che ne dovettero ben fare una risata.

Era egli nel mese di giugno in essa terra di Borgo San Donnino, siccome costa da tre suoi diplomi [Antiquit. Italic., Dissert. XXVII, pag. 705, et XLVII, et XLIX.], spediti in favore della città di Modena. Nel primo conferma i suoi privilegii e diritti ad essa città, concedendole ancora la facoltà di batter moneta. Nel secondo annulla l'ingiusto laudo già proferito da Ubertino podestà di Bologna intorno ai confini tra il Modonese e Bolognese, con dichiarare minutamente essi confini con dei nomi, oggidì difficili ad intendersi, ma con apparir chiaramente che la potenza di Bologna col tempo usurpò non poco territorio al popolo di Modena. Il terzo è una conferma della concordia seguita fra i Modonesi e Ferraresi, Costituì l'imperadore suo legato in Italia Tommaso conte di Savoia [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.]; ed avvenne che i popoli di Savona, di Albenga e di altri luoghi della riviera di Ponente, sottrattisi dall'ubbidienza de' Genovesi, si diedero al medesimo conte di Savoia, e gli giurarono fedeltà: il che sommamente turbò il popolo di Genova. Trovato che ebbe l'imperador Federigo sì mal disposti contra di lui gli animi di tante città di Lombardia, e di non aver seco forze da potersi far rispettare e temere, se ne tornò malcontento in Puglia. Quivi, scorgendo che era tempo di trattar soavemente col pontefice Onorio, ammise alle lor chiese gli arcivescovi e vescovi di Salerno, Brindisi, Consa, Aversa ed altri, già creati senza suo consentimento; ed insinuò al medesimo papa di voler lui per arbitro delle differenze che passavano fra la persona sua e le città lombarde. Niuna difficoltà ebbero le stesse città di rimettersi anch'elleno nel sommo pontefice; e però spedirono a Roma i lor deputati [Richardus de S. Germano.]. Federigo del pari inviò [1075] colà per suoi plenipotenziarii gli arcivescovi di Reggio, di Calabria e di Tiro; e il gran mastro dell'ordine de' Teutonici. Sentenziò poscia il papa che Federigo concedesse il perdono alle città e persone collegate, e cassasse tutti i processi e le sentenze emanate contra di loro, e nominatamente quella dello Studio e degli scolari di Bologna; e facesse confermar tutto dal re Arrigo suo figliuolo. Obbligò le città collegate a somministrar quattrocento uomini d'armi all'imperadore in sussidio di Terra santa; e che si restituissero tutti i prigioni, e che esse facessero pace colle città aderenti all'imperadore, con altre condizioni ch'io tralascio. Si accomodò a tutto Federigo per non potere allora di meno; ma covando nel medesimo tempo un fiero rancore, da lì innanzi andò ruminando le maniere di vendicarsi. E ben se l'immaginavano i Lombardi: perlochè seguitarono a vegliare e a fortificarsi per tutto quello che potesse occorrere. In questa occasione fu che i Bolognesi fabbricarono ai confini del Modonese [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.] Castelfranco, e i Modonesi all'incontro d'esso castello fabbricarono Castello Leone. Le Croniche di Bologna [Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.] mettono la fondazion di questi castelli all'anno seguente. Passò a miglior vita in quest'anno nel dì 4 di ottobre il mirabil servo di Dio san Francesco d'Assisi nella patria sua, con aver veduto in sua vita l'ordine suo già dilatato per tutta quasi la cristianità. Seguì nell'anno presente pace fra i nobili e popolari di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. E i Bolognesi mandarono a Mantova in servigio de' collegati lombardi [Matth. de Griffonibus, Chron. Bonon., tom. 18 Rer. Ital.] ducento cinquanta cavalieri e cinquanta balestrieri, forse per sospetti che potesse calar gente di Germania, o per sopire qualche discordia in quella città. Dagli Annali di [1076] Asti [Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital.] abbiamo che in questi tempi cominciarono gli Astigiani a prestare ad usura in Francia e in altri paesi d'oltramonti, e vi fecero dei gran guadagni; ma col tempo di molti guai soffrirono nelle persone e nella roba. Questo iniquo e scandaloso traffico (ed è ben da notare) era in questi tempi il più favorito mestiere d'altri Lombardi; ma sopra gli altri vi si applicavano e in esso s'ingrassavano i prestatori ed usurai fiorentini, ed altri Toscani sparsi per Francia ed Inghilterra. Dal che, a mio credere, ebbe principio la potenza del popolo fiorentino. Di così pestilente costume ho io trattato altrove [Antiquit. Ital., Dissert. XVI.]. Benvenuto da Imola ne' suoi Commenti sopra Dante [Benvenut., tom. 1 Antiq. Ital.] scriveva circa il 1390, che anche a' suoi tempi gli Astigiani erano ricchissimi perchè tutti usurai.


   
Anno di Cristo MCCXXVII. Indizione XV.
Gregorio IX papa 1.
Federigo II imperadore 8.

Leggesi da me prodotto un diploma [Antiquit. Ital., Dissert. XLVI, pag. 909.], con cui Federigo II Augusto nel dì primo di febbraio in quest'anno 1227 rimette in sua grazia ed assolve da ogni offesa a lui fatta le città di Milano, Piacenza, Bologna, Alessandria, Torino, Lodi, Faenza, Bergamo, Mantova, Verona, Padova, Vicenza, Trivigi, Cremona, il marchese di Monferrato, il conte di Biandrate, ed altri luoghi, affinchè la discordia non pregiudichi al negozio della Terra santa, specialmente cassando la costituzione sua, con cui aveva abolito lo Studio pubblico di Bologna. In Bologna appunto s'era ritirato Giovanni di Brenna re di Gerusalemme, dacchè esso imperador Federigo, facendo valere i diritti di Jolanta figliuola d'esso Giovanni, e moglie sua, l'uvea spogliato di quella parte del regno di Gerusalemme [1077] che restava libera dal giogo de' Saraceni. In quella città, secondo le Croniche di Bologna [Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.], si fermò per sei mesi, nel qual tempo gli mori una figliuola partoritagli dalla regina Berengaria sua moglie. Parve a tutti, e massimamente al pontefice Onorio III, un'insoffribil crudeltà quella di Federigo, di avere ridotto, per così dire, in camicia un principe di tanto valore e prudenza, di cui più che mai abbisognavano gl'interessi di Terra santa. Ne scrisse con fervore esso papa all'imperador Federigo [Raynaldus, in Annal. Eccl.], esortandolo a qualche accordo, e a trattar meglio un sì degno suocero. Ma l'ambizioso ed interessato Federigo fece le orecchie sorde, nè un soldo, nè un ritaglio di Stati gli volle concedere. Il perchè, mosso a pietà il suddetto pontefice, generosamente diede ad esso re il governo di tutta la terra che è da Radicofani sino a Roma, con escluderne la marca d'Ancona, il ducato di Spoleti, Rieti e la Sabina. Questo tratto di paese abbracciava Acquapendente, Montefiascone, Montalto, Civitavecchia, Corneto, Perugia, Orvieto, Todi, Bagnarea, Viterbo, Narni, Toscanella, Orta, Amelia, ed altre terre e città. Intanto non cessava il buon papa di sollecitare in Lombardia e in Germania i soccorsi di Terra santa, figurandosi pure che Federigo avesse da compiere il voto con cui s'era tante volte obbligato alla spedizione d'Oriente. Ma mentre il buon pontefice è tutto intento a rimettere la pace fra i cristiani, e a promuovere l'impresa di Gerusalemme: eccoti la morte che viene a rapirlo nel dì 18 di marzo dell'anno presente [Richardus de S. Germano. Albert. Stadens. Matthaeus Paris. et alii.]. In luogo suo succedette Ugolino cardinale e vescovo d'Ostia dei conti di Segna ed Anagni, parente del glorioso pontefice Innocenzo III. Concorrevano in questo personaggio molte delle più eminenti virtù che si possano desiderare nel visibil capo della Chiesa di Dio; e di [1078] gran pruove ne aveva egli dato dianzi in varie sue legazioni. Prese egli il nome di Gregorio IX, con giubilo universale del popolo romano, e nel dì 21 del suddetto mese solennemente consecrato andò a prendere il possesso della basilica lateranense. S'applicò egli ben tosto a dar compimento alla pace intavolata dal suo predecessore fra l'imperador Federigo II e le città collegate di Lombardia, e cominciò a sollecitar lo stesso imperadore per l'impresa di Terra santa. Mostravasi disposto Federigo al passaggio, giacchè si avvicinava il termine de' due anni, dopo i quali avea da muoversi [ Richardus de S. Germano, in Chron.]. E per farlo ben credere, gravò di molte contribuzioni i suoi popoli, e non meno gli ecclesiastici. Nel mese di luglio arrivò di Germania Lodovico langravio di Turingia con un esercito di crociati, e passò sino a Brindisi, dove era preparata la flotta per l'imbarco. Venne Federigo ad Otranto, e, lasciata quivi l'imperadrice, si portò a Brindisi, dove erano concorsi tutti i crocesignati sì di Germania e d'Inghilterra, che d'Italia, e fece allestire i vascelli da trasporto. Si trovò che di quell'esercito molti erano periti, ed altri s'erano infermati per li caldi della stagione, a' quali non erano usati i Tedeschi, ed anche per l'aria cattiva di Brindisi. Della lor perdita fu incolpato Federigo. Moltissimi per questo se ne tornarono indietro. Imbarcati i restanti, e mandatili innanzi, lo stesso Federigo col langravio entrò in nave nel dì 8 di settembre, e con esso lui arrivò ad Otranto. Quivi il langravio, caduto infermo, finì di vivere, e l'imperadore, sorpreso anch'egli da malattia, non potè proseguire il viaggio. In Roma fu presa questa per una finzione, e si mormorò forte di Federigo; anzi, come in tali casi avviene, giunsero fino a credere ch'egli col veleno si fosse sbrigato del langravio. Però papa Gregorio pien di sdegno e d'affanno per questi successi, senza commonitorio o citazione alcuna, dichiarò nel dì 29 del suddetto [1079] mese Federigo incorso nella scomunica, decretata ne' precedenti trattati.

Di ciò informato Federigo, inviò a Roma gli arcivescovi di Reggio, di Calabria e di Bari, e Rinaldo chiamato duca di Spoleti, e il conte Arrigo di Malta a portar le sue scuse e ragioni, con sostener vera la malattia sopraggiuntagli, con chiamar Dio in testimonio di questo. Dio appunto, scrutatore de' cuori, sa quello che veramente fu. A buon conto, il pontefice, valutate per nulla quelle giustificazioni, rinnovò nel dì di san Martino la pubblicazione della scomunica contra di lui, e ne diede avviso con sue lettere a tutta la cristianità. Federigo anch'egli venuto a Capoa, di là spedi a tutti i principi cristiani un manifesto pungente, in cui si studiava di giustificar la sua condotta [Abbas Urspergens., in Chron.], e con varie invettive di far conoscere indebite quelle censure. Nè contento di ciò, mandollo anche a Roma, e lo fece pubblicamente leggere nel Campidoglio, con licenza del senato e popolo romano, a cui cominciò a far di molte carezze. Inviò eziandio delle circolari, con intimare un gran dieta in Ravenna nel marzo dell'anno seguente. Ed affinchè il mondo non credesse che per paura e con inganno egli si fosse ritirato dal passaggio in Levante, pubblicò dappertutto che l'intraprenderebbe nel prossimo venturo maggio. Ma siccome s'era egli di già guadagnato il concetto di principe doppio, non avea corso questa sua moneta se non presso la gente troppo buona. Intanto la scomunica e discordia suddetta apri la porta ad innumerabili disordini e scandali, che per lungo tempo sconvolsero tutta l'Italia. Succedette in quest'anno gran mutazione in Verona. Siccome di sopra accennammo, era diviso quel popolo in due fazioni, l'una aderente a Riccardo conte di San Bonifazio, e chiamavasi la parte del marchese, cioè del marchese di Este, ossia guelfa; e l'altra era la ghibellina de' Montecchi, aderente a Salinguerra di Ferrara [1080] e ad Eccelino da Romano [Roland., lib. 2, cap. 8.]. Se l'intesero i Montecchi con Eccelino, allora abitante in Bassano. Costui, mossa insieme quanta gente potè, con essa marciò per istrade disastrose e non praticate di Valcamonica, per ghiacci e nevi, coll'arrivare all'improvviso a Verona [Chronic. Veronense, tom. 8 Rer. Ital]. Ivi, dato all'armi, fecero prigione il podestà, cioè Guiffredo da Pirovano milanese; restò anche cacciato dalla città il conte Riccardo coi nobili del suo partito i quali si rifugiarono chi a Mantova, chi a Padova e chi a Venezia. Fu creato podestà di Verona il suddetto Eccelino, che non istette molto ad atterrar tutti i palagi e case del conte Riccardo e de' suoi partigiani; ed è quello stesso che poscia per le sue crudeltà divenne sì rinomato in tutta l'Italia. Questo fu il vero principio di quella grandezza, a cui a poco a poco andò egli salendo. Non so io dire se in quest'anno medesimo oppure nel seguente succedesse anche una rivoluzion di governo nella città di Vicenza [Gerard. Mauritius, Hist. Antonius Godius, Chronic.]. Alberico fratello di Eccelino aveva in quella città la sua fazione, e veggendola maltrattata dal podestà, che era Albrighetto da Faenza, nemico de' fratelli da Romano, ne meditò la vendetta. Comunicato il suo disegno ad Eccelino, questi colle forze dei Veronesi andò diritto a Vicenza, dove, levato rumore, ognun trasse all'armi, e si fece più d'un combattimento nella città. Ancorchè i Padovani venissero in soccorso della parte guelfa, pure, arrivato che fu Eccelino, con grande strage mise in rotta i Padovani, e convenne ch'essi co' Guelfi uscissero di Vicenza. Alberico vi fu fatto podestà; e in questa maniera tanto Verona che Vicenza presero il partito de' Ghibellini, con grave abbassamento della parte del marchese, ossia della guelfa. In quest'anno i Bolognesi, che pur voleano attaccar guerra coi Modenesi [Annales Vetns. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.], [1081] fabbricarono le castella di Crevalcore, di Budrio, di Serravalle, ed altre ai confini del Modenese. Cominciarono anche ad assalir le terre modenesi del Frignano, e vi fu qualche zuffa. Condussero poscia l'esercito sotto il castello di Bazzano spettante a Modena; ma poco vi profittarono. Fecero in quest'anno i Genovesi tutto il loro sforzo d'armi per terra e per mare [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.], affine di ricuperare le ribellate città di Albenga e Savona, animati all'impresa dal saggio lor podestà Lazzaro di Gherardino Giandone da Lucca. Arrivato il loro esercito sotto Savona, con tal empito e bravura superò le fortificazioni esteriori fatte da quel popolo, che fu astretto ad implorar misericordia. Di là fuggi co' suoi Savoiardi Amedeo conte di Savoia, figliuolo del conte Tommaso. Anche Albenga mandò a capitolare. Frappostisi poi gli ambasciatori di Milano per terminar la discordia che restava fra essi Genovesi e gli Astigiani dall'una parte, e gli Alessandrini e i Tortonesi dall'altra, fatto fu compromesso di quelle differenze nel comune di Milano, il qual poi diede il suo laudo, con poco piacere nondimeno de' Genovesi.


   
Anno di Cristo MCCXXVIII. Indizione I.
Gregorio IX papa 2.
Federigo II imperadore 9.

Era forte irritato l'imperador Federigo per la scomunica contra di lui fulminata da papa Gregorio, che anche nell'anno presente fu confermata nel giovedì santo, colla giunta di assolvere dal giuramento di fedeltà i di lui sudditi, massimamente quei di Puglia e di Sicilia [Vita Gregorii IX, P. I, tom. 3 Rer. Ital. Richardus de S. Germano, in Chron.]. Però studiossi di farne vendetta, e guadagnò sotto mano molti nobili romani, e specialmente i Frangipani, acciocchè fossero per lui contra del papa. [1082] Aveano essi per cagion di Viterbo delle liti col medesimo pontefice. Scoppiò la loro congiura nel terzo dì dopo Pasqua, e, sollevatosi il popolo, tali ingiurie ed insolenze commisero, che fu obbligato Gregorio a levarsi di Roma. Andò a Rieti, dove, intendendo che Federigo facea contribuir anche gli ecclesiastici pel passaggio in Terra santa, spedi lettere, con ordine di non pagare un soldo. Passò dipoi a Spoleti, e andò a fissare il suo soggiorno in Perugia. Partorì l'imperadrice Jolanta in quest'anno in Andria di Puglia al marito Augusto un principe maschio, a cui fu posto il nome di Corrado; ma ella stessa morì di quel parto, compianta da tutti. Nell'aprile Federigo, raunati tutti i prelati e i baroni del regno in Baroli, esposta la sua risoluzione di passar oltremare, fece una specie di testamento, in cui dichiarò suo successore ed erede il re Arrigo suo primogenito, e, in mancanza di lui, il secondogenito Corrado. Venuto poscia l'agosto, andò a Brindisi, dove era unita la sua flotta, e quivi si imbarcò, ma non con quell'apparato che conveniva ad un par suo ed era stato da lui promesso; e, sciolte le vele al vento, navigò fino ad Accon, ossia Acri, dove finalmente sbarcò. Aveva egli premesso nell'anno addietro Riccardo suo maresciallo con cinquecento cavalieri, ed inviate lettere al soldano, portale dall'arcivescovo di Palermo; e il soldano gli avea mandato in dono un elefante, alcuni cammelli ed altri preziosi regali. Non senza maraviglia dei lettori scrive il Rinaldi [Raynald., Annal. Eccl.] che papa Gregorio IX spedì messi a Federigo per farlo ravvedere; ma ch'egli, più ostinalo che mai, continuò in mal fare, saldo restando nella disubbidienza. Sicchè si considerò delitto in lui non essere andato otre mare, e delitto ancora l'andarvi. Il pretendere Federigo che vera e non finta fosse la sua infermità, e che perciò ingiusta fosse la scomunica, cagione fu ch'egli dispettosamente serrò gli orecchi alle esortazioni del pontefice, [1083] e senza voler chiedere assoluzione, cercò di compiere il suo voto. Ora certo è che egli in quest'anno passò verso Terra santa, e vi passò senza avere ottenuta la liberazion dalla scomunica, con lasciare in Puglia e Sicilia Rinaldo, chiamato duca di Spoleti, balio ossia governatore generale del suo regno, siccome persona di cui molto si fidava. Circa questi tempi il popolo romano [Richardus de S. Germano, in Chron.], uscito in campagna, diede il guasto al territorio di Viterbo, e s'impadronì del castello di Rispampano. Non lasciarono i Viterbiesi di fare anche essi quel maggior male che poterono ai Romani. Andò papa Gregorio nel mese di luglio da Perugia ad Assisi, dove celebrò la canonizzazione di san Francesco istitutor de' minori, e tornossene dipoi a Perugia, dove la presenza sua servì a quetar le civili discordie di quel popolo. Torna poi lo stesso Riccardo da San Germano a parlar all'anno seguente della medesima canonizzazione, come di funzione allora fatta. A quell'anno ancora ne parlano gli Annali antichi di Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.]. Abbiam dal medesimo storico che, lasciato dall'imperador Federigo per governator generale del regno, essendosi ribellati i signori di Popplito, fece esercito contra di loro, e li spogliò di tutte le lor terre. Quindi, o perchè scoprisse che la corte romana tenea mano a quelle ribellioni, oppure facea preparamenti per invadere la Puglia, ovvero per sua propria malignità, o per ordini segreti di Federigo, il quale per altro sostenne col tempo di non aver ciò comandato, se con verità, Dio lo sa; Rinaldo, dico, dall'un canto entrò coll'armi nella marca d'Ancona, e Bertoldo suo fratello fece un'irruzione su quel di Norcia. Udito ciò, papa Gregorio pubblicò la scomunica contra di Rinaldo; e veggendo ch'egli non desisteva per questo dal far progressi nella Marca, essendo giunte le sue armi fino a Macerata, determinò di ripulsar la forza colla [1084] forza, e di metter mano all'armi temporali. Inviò dunque contra di Rinaldo Giovanni re di Gerusalemme, unito al cardinal Giovanni dalla Colonna, con un buon esercito di cavalieri e fanti. E perciocchè non bastava a farlo ritirare dagli Stati della Chiesa, mise insieme un'altra armata, alla testa di cui pose Tommaso da Celano e Ruggieri dall'Aquila, già banditi da Federigo, con disegno di portar la guerra nel cuore del regno. Spedì anche a Milano [Gualvan. Flam., in Manip. Flor., cap. 261.] e all'altre città di Lombardia per aver soldati. I Milanesi gli mandarono cento cavalieri; trenta i Piacentini. Riuscì in quest'anno ad Eccelino da Romano [Roland., Chron., lib. 2, cap. 9.] di prendere con frode il castello di Fonte, cogliendo in esso anche Guglielmo figliuolo di Jacopo da Campo San Pietro. Fattene doglianze a Padova, quel popolo diede all'armi, e col carroccio e con poderoso esercito andò fin sotto Bassano, avendo per lor podestà e capitano Stefano Badoero Veneziano.

Questa mossa di gente fu cagione che la repubblica di Venezia spedisse ambasciatori per trattar di concordia, e che la lite fosse rimessa nel lor consiglio. Fecero istanza i Padovani per riavere il castello, come era di dovere col fanciullo Guglielmo. Eccelino non volle far altro, e convenne che gli ambasciatori se ne tornassero a Venezia malcontenti. Erasi fatto monaco, e facea una vita da ipocrita, Eccelino da Onara, padre del suddetto Eccelino da Romano e di Alberico, con iscoprirsi infine eretico paterino. Questi scrisse tosto ai figliuoli che si accomodassero, perchè non poteano per anche competere colla possanza de' Padovani. Per questo, e per le esortazioni di varii amici, finalmente s'indusse il superbo giovane Eccelino a rilasciare, ma con aria di dispetto, l'occupato castello. Poco appresso, fatto egli cittadino di Trivigi, seppe commuovere quel popolo contra dei vescovi di Feltre e Belluno, in guisa che occupò ad essi quelle piccole città. I Padovani, [1085] de' quali erano raccomandati quei vescovi, spedirono ambascerie per distorre i Trivisani da quella oppressione. Poichè ne riportarono solamente delle arroganti risposte, chiamati in aiuto loro il patriarca d'Aquileia ed Azzo marchese d'Este, e formata una bell'armata, marciarono fin sotto le mura di Trivigi, prendendo e saccheggiando varie terre. Finalmente, per interposizione di Gualla vescovo di Brescia, legato della santa Sede, e dei rettori della lega di Lombardia, tanto si picchiò, che i Trivisani restituirono Feltre e Belluno, e tornò la tranquillità in quelle parti. Non così avvenne ai Modenesi [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.]. Perchè essi tenevano la parte dell'imperador Federigo, i Bolognesi fecero un grosso esercito, con cui si unirono i rinforzi spediti dalle città di Faenza, Imola, Forlì, Rimini, Pesaro, Fano, Milano, Brescia, Piacenza, Forlimpopoli, Cesena, Ravenna, Ferrara, Firenze, e da altre città lombarde [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Assediarono essi Bolognesi il castello di Bazzano, che era de' Modenesi, nel dì 4 di ottobre. Presero il castello di Vignola nel dì 10 d'esso mese. Ma qui si fermò la loro fortuna. Uscirono in campagna anche i Modenesi con tutte le forze de' Parmigiani [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] e Cremonesi. Forzarono alla resa il castello di Piumazzo, e lo distrussero nel dì 14 del mese suddetto. Dopo avere in faccia de' nemici introdotto in Bazzano un buon rinforzo di gente e di viveri, nel dì 15 diedero il guasto al territorio bolognese sino al fiume Reno. Allora i Bolognesi presso Santa Maria della Strada attaccarono una battaglia, in cui fu molta mortalità dall'una parte e dall'altra. Nella Cronichetta di Cremona [Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Ital.] è scritto che i Bolognesi furono rotti, e molti prigioni menati a Cremona. Altrettanto ha la Cronica di Parma, da cui ancora impariamo che in tal [1086] congiuntura furono liberati molti prigioni modenesi, ed essere durato il combattimento dalla mattina sino alla notte. Finalmente i Bolognesi nel dì 14 di novembre [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.] abbandonarono l'assedio di Bazzano, con lasciar ivi tutte le lor macchine militari. Venne dipoi l'esercito bolognese sino a Castelvetro, e quivi succedette un altro fatto d'armi in cui di nuovo ebbe la peggio, e i Modenesi condussero molti prigioni alla loro città. In quest'anno [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.] parimente Bonifazio marchese di Monferrato cogli Astigiani fece guerra agli Alessandrini e al popolo di Alba, aiutato con gente e danaro dai Genovesi. Colla mediazione de' Milanesi si quetò quella discordia.


   
Anno di Cristo MCCXXIX. Indizione II.
Gregorio IX papa 3.
Federigo II imperadore 10.

Fece in quest'anno gran guerra Giovanni re di Gerusalemme alla Puglia colle forze che gli avea dato papa Gregorio IX. Ne descrive tutte le particolarità Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.]. A me basterà di darne un breve trasunto. L'esercito pontificio, che si chiamava chiavisegnato, poichè portava per divisa le chiavi della Chiesa, sotto il comando di un sì prode generale, entrato nel mese di marzo in Puglia, dopo la presa di varie terre e castella, arrivò a Gaeta, e, costretta quella città alla resa, vi spianò il castello che l'imperadore con grande spesa vi avea poc'anzi fabbricato. Prese le terre di Monte Casino, il monistero, San Germano ed altri luoghi in que' contorni. Fondi, Arce e Capoa tennero saldo, e i conti d'Aquino, ben provvedute le lor terre, stettero forti nella fedeltà verso di Federigo. Pure Aquino, Sora, a riserva del castello, e le città d'Alife e di Telesa ed Arpino si renderono all'armi [1087] pontificie, che passarono ad assediar Caiazzo e Sulmona. Furono in questi tempi, per ordine di Rinaldo duca di Spoleti, cacciati fuor del regno tutti i frati minori, perchè si dicea che portavano lettere papali ai vescovi delle città, esortatorie, acciocchè inducessero gli uomini a rendersi alla Chiesa romana. Sparsero ancora voce che Federigo II era morto. Furono esiliati per questo anche i monaci casinensi. E tale era la guerra che faceva papa Gregorio in Puglia all'imperador Federigo, per la quale implorò soccorsi da tutte le città della lega di Lombardia [Raynaldus, Annal. Eccles. ad hunc annum, num. 38 et seq. Matthaeus Paris, Hist.], mosse la Francia, la Spagna, l'Inghilterra, la Svezia ed altri paesi a mandar danari e gente per questa guerra, ed eccitò anche delle ribellioni in Germania contra d'esso Federigo. Tuttavia minore non fu quell'altra guerra che nello stesso tempo egli fece a Federigo in Levante. Giunto ad Accon, ossia ad Acri, nel settembre dell'anno precedente, esso Augusto fu bensì ricevuto con tutto onore dal patriarca, clero e popolo, ma insieme con protesta di non poter comunicare con lui, se prima non otteneva l'assoluzion della scomunica dal papa. Andò poscia in Cipri, e spedì i suoi ambasciatori al sultano di Egitto, per richiedere amichevolmente il regno di Gerusalemme, come Stato appartenente a suo figliuolo Corrado, perchè nato da Jolanta legittima erede d'esso regno. Prese tempo il sultano a rispondere per mezzo de' suoi ambasciatori. Intanto arrivarono due frati minori con lettere del papa, nelle quali proibiva al patriarca e ai tre gran mastri degli ordini militari, l'ubbidire a Federigo, e comandava di trattarlo da scomunicato. Però, allorchè volle muovere l'esercito per marciare contra de' Saraceni, trovò i cavalieri templarii ed ospitalieri che non voleano militar sotto di lui. Bisognò che Federigo inghiottisse molti strapazzi, e che si accomodasse in fine ai lor voleri, contentandosi [1088] che l'impresa si facesse non in nome suo, ma in quello di Dio e della repubblica cristiana. Andò a Joppe, e quivi attese a fortificar quel castello disfatto, rendendolo piazza di gran polso, e lo stesso fece con altre castella sulla via di Gerusalemme. Ma eccoti sul più bello arrivare un sottil naviglio che gli porta l'avviso d'essere tutto in confusione il regno di Puglia per l'invasione dell'armi pontificie. Allora Federigo a nulla più pensò che a sbrigarsi dalla Palestina per accorrere ai bisogni e pericoli del suo regno; e, stringendo, come potè, il trattato di concordia col sultano, accettò quella capitolazione che piacque al Saraceno di dargli. Consistè questa in pochi articoli. Gli cedeva il sultano le città di Gerusalemme, Betlemme, Nazarette, Sidone, con altre castella e casali, e con facoltà di poterle fortificare, e riserbandosi solamente la custodia del tempio di Gerusalemme, ossia il santo Sepolcro, con restar nondimeno libero tanto ai Saraceni che ai Cristiani il farvi le lor divozioni. Stabilissi anche una tregua di dieci anni, e la liberazion di tutti i prigioni. Andò poscia Federigo a prendere il possesso di Gerusalemme: e strana cosa dovette pur parere il ritrovarsi ivi già intimato dal patriarca l'interdetto, se Federigo capitava colà. Contuttociò l'imperador si portò alla visita del santo Sepolcro; e giacchè niuno si attentò a coronarlo, posò egli la corona sul sacro altare, e poi, presala colle sue mani, se la mise in capo. Non potrà di meno di non istringersi nelle spalle chi legge sì fatte vicende. Dopo di che, tornato Federigo al mare con due ben armate galee, frettolosamente e con felicità di viaggio arrivò a Brindisi in Puglia nel maggio dell'anno presente. Divolgatasi la capitolazione da lui fatta col sultano, fu strepitosamente riprovata in corte di Roma, chiamato egli un vile e traditore, perchè avesse lasciato in man dei cani il venerato Sepolcro di Cristo, senza voler far caso che Federigo per necessità [1089] avea ricevuta la legge da chi, se avesse voluto, potea negargli tutto; e massimamente perchè il sultano era ben informato di quanto operava il pontefice sì in Puglia che in Palestina contra di Federigo, e sapea la discordia che passava fra esso imperadore e il patriarca e l'esercito cristiano. Ed è per altro certissimo che Gerusalemme restò in mano de' cristiani, e che assaissime migliaia d'essi andarono a piantarvi casa, e pacificamente vi abitarono da lì innanzi sotto il comando degli uffiziali dell'imperadore. Io per me chino qui il capo, nè oso chiamar ad esame la condotta della corte di Roma in tal congiuntura, siccome superiore ai miei riflessi, bastandomi di dire che, secondo l'Abbate Urspergense [Abbas Urspergens., in Chron.], fece gran rumore per la cristianità la contradizione praticata dal pontefice all'impresa di Federigo in Levante. Anche Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.] lasciò scritto: Verisimile videtur, quod si tunc imperator cum gratia ac pace romanae Ecclesiae transisset, longe melius et efficacius prosperatum fuisset negotium Terrae sanctae. Per la partenza poi di Federigo andò anche in malora quel poco ch'egli avea guadagnato in Palestina, e specialmente perchè il patriarca, e gli ospitalieri e templarii, dacchè egli si fu partito, apertamente si rivoltarono contra di lui. Non si può leggere senza patimento la storia di questa maledetta discordia, piena d'invettive e calunnie dall'una parte e dall'altra, e, quel che è peggio, di tanti guai de' popoli e danno della cristianità. Io senza fermarmi passo innanzi.

Giunto che fu in Puglia Federigo, non lasciò di spedire ambasciatori al papa, chiedendo pace, ed esibendosi pronto a far quello ch'egli ordinasse. Nulla poterono essi ottenere. Raunò allora Federigo le sue forze, con valersi ancora dei Tedeschi crociati ritornati di Levante, e di un gran corpo di Saraceni cavati da [1090] Nocera. Nel settembre venne a Capoa, e portossi a Napoli per aver soccorso di gente e di danaro. Intanto Giovanni re di Gerusalemme, vedendo venire il mal tempo, lasciato andare l'assedio di Caiazzo, si ritirò a Teano. Federigo ricuperò Alife, Venafro ed altre terre; poscia San Germano, e le terre della giurisdizione di Monte Casino, Presenzano, Teamo, la rocca di Bantra, Arpino ed altri luoghi. Sora, avendo voluto aspettar la forza, fu presa e data alle fiamme nella festa dei santi Simone e Giuda di ottobre. Intanto fra il senato e popolo romano e l'imperadore passavano lettere e messaggeri di buona armonia. Questi prosperosi successi dell'armi di Federigo fecero in fine che il pontefice cominciò a prestar orecchio ad un trattato di concordia, per cui specialmente si adoperava il gran mastro dell'ordine teutonico. Pensarono i Bolognesi in quest'anno di rifarsi delle perdite fatte nell'anno precedente nella guerra coi Modenesi [Annales Veter. Mutinens. tom. 11 Rer. Ital. Chronicon Parmense, tom. 9 Rer. Italic. Chron. Cremonense, tom. 7 Rer. Italic. Chronic. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.], e, con gli aiuti di varie città loro collegate composto un potente esercito, col carroccio si portarono all'assedio di San Cesario, castello de' Modenesi. Secondo il Sigonio [Sigon., de Regn. Ital., lib. 17.], nol presero; ma le vecchie Croniche dicono di sì, e che lo distrussero. Non erano per anche mossi di là, che si videro a fronte l'esercito de' Modenesi, Parmigiani e Cremonesi, risoluto di menar le mani. Si azzuffarono in fatti le due armate, e durò il combattimento d'avanti il vespro fin quasi a mezza notte a lume di luna. Fecero ogni sforzo i Bolognesi contra il carroccio de' Parmigiani, e poco vi mancò che nol prendessero: il che veniva allora riputato per la più gloriosa di tutte le imprese. Ma i Cremonesi dall'un canto, e dall'altro i Modenesi così vigorosamente gl'incalzarono, che finalmente li misero in rotta, e diedero lor la caccia fin [1091] quasi alle porte di Bologna. Restò in potere de' vincitori tutto il loro campo colle tende, carra, buoi e bagaglio. Fu rotto e cacciato in un fosso il loro carroccio, perchè nacque contesa fra i Parmigiani e Modenesi, pretendendolo cadauna delle parti. Una gran copia di prigioni fu condotta a Modena e Parma, e i Parmigiani trassero alla lor città molte manganelle, ossia petriere, prese in tal occasione, e per gloria le posero nella lor cattedrale. Le Croniche di Bologna han creduto bene di accennar la battaglia, ma con tacerne l'esito sinistro per loro. Alberico monaco de' Tre Fonti [Alberic. Monachus, in Chron.], storico di questi tempi, ampiamente anch'egli descrive questa battaglia e vittoria. Non contenti di ciò i Modenesi, voltarono con un nuovo alveo il fiume Scultenna, ossia Panaro, addosso alle campagne de' Bolognesi, con lor gravissimo danno. Pertanto dispiacendo al pontefice Gregorio IX gli odii e le gare di queste città, spedì ordine a Niccolò vescovo di Reggio di Lombardia, che in suo nome s'interponesse per la concordia. Non fu egli pigro ad eseguir la commessione, e gli riuscì di stabilire fra i Modenesi e Bolognesi una tregua d'otto anni colla restituzion de' prigioni, ed altre condizioni, che si leggono presso il Sigonio, il quale dagli atti pubblici le estrasse. Godè in quest'anno la marca di Verona un'invidiabil pace. I Piacentini [Chron. Placent. tom. 16 Rer. Italic.] fecero oste contro la città di Bobbio, venticinque miglia lungi dalla loro città, e fu costretto quel popolo a prestar giuramento di fedeltà a Piacenza Il conte di Provenza nell'anno presente [Caffari, Annal. Genuens, lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.] col braccio d'alcuni traditori s'impadronì della città di Nizza e delle sue fortezze. Resistè un pezzo parte de' cittadini, ed ebbe anche qualche soccorso da' Genovesi; ma in fine dovette soccombere; e il conte restò in pieno potere di quella città. Venne in quest'anno a morte [1092] Pietro Ziani doge di Venezia, dopo ventiquattr'anni di governo [Dandul., in Chronic. tom. 12 Rer. Italic.], Prima che egli morisse, fu eletto doge Jacopo Tiepolo, ed avendo fatta una visita all'infermo predecessore, fu ricevuto con disprezzo, ma colla virtù dissimulò tutto. Abbiamo dal Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 17.] che nel dì 2 di dicembre in Milano fu riconfermata la lega delle città di Lombardia. V'erano presenti i deputati de' Padovani e Veronesi; ma non apparisce che giurassero come gli altri.


   
Anno di Cristo MCCXXX. Indizione III.
Gregorio IX papa 4.
Federigo II imperadore 11.

Nel primo giorno di febbraio del presente anno un'orribile inondazione del Tevere recò immensi danni alla città di Roma e ai contorni [Vita Gregor. IX, P. I, tom. 3 Rer. Italic. Richardus de S. Germano.]; affogò molte persone e bestie, menò via una prodigiosa quantità di grani, botti di vino e mobili; ed avendo lasciato un lezzo fetente con dei serpenti per le case, ne sorse poi una mortale epidemia nel popolo. Servì questo flagello a far ravvedere il senato e popolo romano degli aggravii ed ingiurie fatte al sommo pontefice Gregorio IX, che per cagion d'esse fin qui s'era fermato in Perugia; e però, spediti a lui il cancelliere e Pandolfo della Saburra con altri nobili, il pregarono di voler tornarsene a Roma. Sul fine dunque di febbraio comparve colà papa Gregorio, accolto con tutta riverenza ed onore da quel senato e popolo. Nella Vita d'esso papa vien riferito questo suo ritorno all'anno seguente. Riccardo lo mette nel novembre del presente. Intanto andava innanzi il trattato già intavolato di pace fra esso pontefice e Federigo, il quale ricuperò in questo mentre varie altre sue terre. Mediatori principali erano Leopoldo [1093] duca d'Austria [Godefrid. Monachus, in Chronico.], principe che in questo medesimo anno terminò la sua vita in San Germano nel dì 28 di luglio; e Bernardo duca di Moravia, gli arcivescovi di Salisburgo e Reggio di Calabria, ed Ermanno gran mastro dell'ordine dei Teutonici. Fu per questo tenuto un congresso in San Germano, dove intervennero Giovanni cardinale vescovo sabinense, e Tommaso cardinale di Santa Sabina, legati pontificii, dove si smaltirono molte difficoltà. La principale era la restituzion delle città di Gaeta e Santa Agata, pretese da Federigo, laddove il papa intendea di ritenerle in suo dominio. Finalmente, dopo essere andati innanzi e indietro più volte i pacieri, nel dì 9 di luglio in San Germano fu conchiuso l'accordo, con obbligarsi Federigo di rimettere ogni offesa a chiunque avea prese l'armi contra di lui tanto in Italia che fuori; e di restituire alla Chiesa qualunque Stato che i suoi avessero occupato, ed a varii particolari le lor terre, e da non mettere più taglie ed imposte all'uno e all'altro clero. Doveansi eleggere arbitri per decidere entro d'un anno il punto controverso di Gaeta e di Santa Agata. Fu poi dopo l'esecuzion del trattato assoluto esso imperadore dalle censure nella festa di santo Agostino di agosto, e si fecero dappertutto grandi allegrezze per questa pace. Ed oh si fossero due anni prima avute queste medesime disposizioni, e Federigo con più umiliazione, e il pontefice con più indulgenza si fossero portati l'un verso l'altro: che gli affari di Terra santa sarebbono camminati meglio, e si sarebbe risparmiata un'iliade di molti guai, uno de' quali fra gli altri fu notabilissimo; cioè l'avere in tal congiuntura non già avuta la nascita, ma bensì ricevuto un considerabile accrescimento e un'aperta professione le maledette fazioni de' Guelfi aderenti al papa, e de' Ghibellini parziali dell'imperadore. Abbiamo dalla Vita di papa [1094] Gregorio [Card. de Aragon., Vita Greg. IX, P. I, tomi. 3 Rer. Ital.], ch'egli spese in questa guerra cento venti mila scudi, e Federigo si obbligò di rimborsarlo. Altri hanno scritto che assunse di pagargli cento venti mila once d'oro. Più, o meno che fosse, Federigo se ne dimenticò dipoi, nè gli pagò un soldo. Passò il pontefice alla villeggiatura d'Anagni, e colà invitò l'imperadore [Richardus de S. Germano, in Chronic.]. Comparve egli con magnifico accompagnamento, e si attendò fuori della città nel dì primo di settembre. Nel dì seguente incontrato dai cardinali e dalla nobiltà, si portò alla visita del papa; e, deposto il manto, prostrato a' suoi piedi, riverentemente glieli baciò, e, dopo breve colloquio, andò a posare nel palazzo episcopale. Nel giorno appresso il papa, che abitava nel palazzo paterno, l'invitò seco a pranzo, ed amendue con tutta magnificenza assisi alla stessa tavola, deposto ogni rancore, almeno in apparenza, svegliarono nuova allegrezza negli assistenti. Dopo di che tennero fra lor due, colla presenza del solo gran mastro dell'ordine teutonico, un lungo ragionamento intorno a' proprii affari. Nel seguente lunedì, congedatosi Federigo dal pontefice, se ne tornò nel regno, dove non seppe contenersi dal trattar male i popoli di Foggia, Castelnuovo, San Severino, ed altri di Capitanata, che ne' passati torbidi si erano ribellati [Raynaldus, Annal. Ecclesiast.]. Ma Riccardo da San Germano pare che metta questo fatto prima della pace. All'incontro il papa sbrigato da questa guerra, e tornatosene a Roma, attese a fabbricar palagi e spedali. Era venuto in Italia Milone vescovo di Beauvais Franzese con quello di Chiaramonte, conducendo seco un buon corpo di truppe franzesi in aiuto del papa, le quali, o non giunsero a tempo alla danza o furono rimandate [Alberic. Monachus, in Chronic.]. Trovavasi per questo sforzo Milone aggravato da grossi debiti. Il sommo pontefice [1095] per sollevarlo gli diede il governo del ducato di Spoleti e della marea di Guarnieri, ossia d'Ancona: con che egli in tre anni inpinguò la sua borsa. Ma ritornandosene egli dopo quel tempo in Francia, i vicini Lombardi, informati del ben di Dio ch'egli portava seco, gli tesero delle imboscate, nelle quali perdè più di quel che avea guadagnato. Alberico Monaco è quegli che racconta il fatto.

Cominciò a sconcertarsi in questo anno la marca di Verona [Roland., Chron., lib. 3, cap. 1.]. Essendo stato chiamato per podestà di essa città Matteo de' Giustiniani nobile veneto, richiamò egli tutti i nobili che il suo antecessore avea mandato a' confini. Capo della fazion guelfa era Ricciardo conte di San Bonifazio, che, tornato a Verona, fu ben accolto dal podestà. Ingelosita di ciò la parte ghibellina, appellata de' Montecchi, con intelligenza di Eccelino da Romano e di Salinguerra dominante in Ferrara, un dì fatta sollevazione, mise le mani addosso al conte Ricciardo, e cacciollo in prigione con alquanti de' suoi. Il resto de' suoi amici usci di città; lo stesso Giustiniani podestà ne fu cacciato; e la podesteria fu appoggiata a Salinguerra, che corse colà da Ferrara. Anche Eccelino, udita questa nuova, precipitosamente volò a Verona per accrescer legna al fuoco [Monac. Palavinus, in Chron.]. Ridottasi la parte del conte al castello di San Bonifazio, elesse per suo podestà Gherardo Rangone da Modena, personaggio di gran senno e valore. Questi col deposto Giustiniani ricorse a Stefano Badoero podestà di Padova, il quale, raunato il consiglio, ascoltò le loro querele: querele tali, che mossero a compassione tutto il popolo di Padova; di maniera che si prese tosto la risoluzione di aiutar con braccio forte la parte del conte. Inviarono ambasciatori a Verona, che parte con amichevoli, e parte con minacciose parole fecero istanza per la liberazione del conte. Nulla poterono conseguire [Paris de Cereta, Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.]. [1096] Però usci in campagna nel mese di settembre l'armata padovana col carroccio, con Azzo VII marchese d'Este e coi Vicentini; ed ostilmente entrata nel Veronese, s'impadronì di Porto, di Legnago e del ponte dell'Adige, dai quali luoghi scapparono in fretta Eccelino, Salinguerra e i Veronesi che erano accorsi alla difesa. Diedero poscia i Padovani il guasto al circonvicino paese; distrussero la villa della Tomba, presero Bonadigo, e colla forza costrinsero il castello di Rivalta alla resa. Ciò fatto se ne tornarono a Padova. Neppure per questi danni s'indussero i Veronesi a mettere in libertà il conte Ricciardo. Era circa questi tempi capitato a Padova frate Antonio da Lisbona dell'ordine dei minori, religioso di santa vita, di molta letteratura, mirabil missionario e predicatore della parola di Dio. Gli amici del conte e del marchese d'Este, a' quali più che agli altri stava a cuore la prigionia d'esso conte, si avvisarono d'inviar a Verona questo insigne religioso, sperando che la di lui eloquenza potrebbe ottenere ciò che non era riuscito coll'armi. Andò il santo uomo, impiegò quante ragioni e preghiere potè coi rettori della lega lombarda, con Eccelino, con Salinguerra e coi lor consiglieri; ma sparse le parole al vento, e ritornossene a Padova coll'avviso solo della pertinacia de' Veronesi. La cronica Veronese aggiugne che anche i Mantovani col loro carroccio fecero un'irruzione sul Veronese, presero e distrussero il castello di Cola, diedero il sacco e il fuoco a Travenzolo, alla Motta dell'Abbate, all'isola de' Conti, che or si chiama la isola della Scala, e a molte altre ville del Veronese: il tutto per favorire il conte Ricciardo. Notano gli Annali antichi di Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.] che anche la milizia dei Modenesi andò in soccorso de' Mantovani [1097] contra de' Veronesi. Ebbero i Milanesi [Gualvan. Flamma, in Manip. Flor., cap. 163.] guerra in quest'anno col marchese di Monferrato in favore degli Alessandrini, e, se si ha da prestar fede ai loro storici [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.], coll'avere assediato ed anche preso il castello di Bombaruccio nel Monferrato (Mongravio è detto negli Annali di Genova), misero tal paura in cuore a quel marchese, che giurò di star da lì innanzi ai voleri del comune di Milano [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.]. Il che fatto, passarono sul territorio d'Asti, e vi diedero il guasto fino a due miglia lungi da quella città. Anche la Cronica d'Asti [Chron. Astense, tom. 11 Rer. Ital.] confessa questo gran danno inferito da' Milanesi al territorio astigiano, con aggiugnere che ciò seguì fra la festa di san Giovanni Batista e di san Pietro, e che i Milanesi v'andarono assistiti di gente da ventitrè amiche città. I Genovesi spedirono un buon soccorso ad Asti. Poscia fece il popolo di Milano guerra in Piemonte contra del conte di Savoia e di que' marchesi, e, in onta d'essi, fabbricò il Pizzo di Cunio, dove si ritirarono quei di Saviliano e di San Dalmazio, troppo aggravati dal conte di Savoia. In una scaramuccia restò preso da esso conte, o dai marchesi, Uberto da Ozimo, generale de' Milanesi, che fu poi crudelmente levato di vita. Diede fine ai suoi giorni nel dì 16 di settembre Arrigo da Settala arcivescovo di Milano, in cui luogo fu concordemente eletto Guglielmo da Rozolo nel dì 14 d'ottobre, che fu uomo di gran vaglia.

Negli Annali di Genova è scritto [Caffari, Annal. Genuens.] che in quest'anno gli Alessandrini, stanchi della guerra co' Genovesi, fecero un compromesso, e fu sentenziato che Capriata restasse al comune di Genova. Anche i popoli d'Asti e d'Alba, Arrigo marchese del Carretto, ed altri compromisero le lor differenze nel comune di Genova: il che diede fine alle lor guerre. [1098] Si andavano intanto dilatando per le città d'Italia gli eretici paterini, catari, poveri di Lione, passaggini, giuseppini ed altri, che in fine tutti erano schiatte di manichei. Non v'era quasi città dove di costoro non si trovasse qualche brigata. Specialmente in Brescia le storie dicono che la lor setta avea preso gran piede. Roma stessa non ne era esente, nè Napoli. Ora in quest'anno Raimondo Zoccola Bolognese podestà di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] fece bruciar molti di costoro. Altrettanto si andava facendo in altre città. E nel mese di febbraio in essa città di Piacenza fuit ludus imperatoris, et Papiensium, et Regiensium, et patriarchae in burgo et in platea sancti Antonini. Do ad indovinare ai lettori ciò che significhino queste parole. Quanto a me, vo sospettando che fosse uno spettacolo pubblico, in cui si rappresentava Federigo imperadore coi Pavesi e Reggiani, e col patriarca, suoi aderenti, forse non con molto onore. I Parmigiani in quest'anno [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] andarono in servigio de' Piacentini a dare il guasto al territorio di San Lorenzo e di Castello Arquato, luoghi detenuti dai nobili fuorusciti di Piacenza. Fecero parimente oste essi Parmigiani a Pontremoli contra dei marchesi Malaspina. Il Guichenon [Guichenon, Histoire de la Mais, de Savoye, tom. 1.] racconta a quest'anno che il popolo di Torino si sottrasse all'ubbidienza di Tommaso conte di Savoia, e si diede a Bonifazio marchese di Monferrato. Il conte, messa insieme un'armata, si avvicinò a Torino, disfece il soccorso che gli Astigiani conducevano agli assediati; nè parendogli propria la stagione per continuar l'assedio, lasciò bloccata quella città, e se n'andò in Savoia. Questo scrittore, giacchè gli mancavano gli antichi storici, si suol servire di moderni, l'autorità dei quali non di rado è poco sicura. Noi già vedemmo all'anno 1226 che Torino, siccome città libera, entrò nella lega di [1099] Lombardia, e fu anche posta coll'altre al bando dell'imperio da Federigo II imperadore, in tempo che Tommaso conte di Savoia era uno de' suoi più favoriti. Nè può stare che gli Astigiani, per quanto s'è veduto di sopra, menassero soccorsi a quella città, quando penavano a difendere sè stessi da' Milanesi. Nè so io credere che Torino venisse in potere del marchese di Monferrato. Nulla ne seppe Benvenuto da San Giorgio. E se fosse caduta nelle mani del marchese, principe sì potente, quella bella preda, avrebbe saputo ben custodirla. Fu anche guerra nell'anno presente in Toscana [Chron. Bononiens. Chron. Senense.]. I Fiorentini uniti cogli Aretini, Pistoiesi, Lucchesi, Pratesi ed Urbinati, oppure Orvietani, andarono con possente esercito e col carroccio contro ai Sanesi. Disfecero da venti loro castella, ed arrivarono fino alle porte di Siena, guastando tutto il paese. Nel dì 9 di luglio i Sanesi animosamente uscirono armati alla porta di Camollia, ed attaccarono la zuffa; ma soperchiati dalle troppo superiori forze de' nemici, rimasero sconfitti; e i Fiorentini menarono prigioni circa mille ducento e settanta d'essi. Ricordano Malaspina e Giovanni Villani suo copiatore mettono questo fatto sotto l'anno 1229. Gli altri autori concordemente ne parlano sotto il presente [Ptolom. Lucens., in Annal. Eccl.].


   
Anno di Cristo MCCXXXI. Indiz. IV.
Gregorio IX papa 5.
Federigo II imperadore 12.

Tanto il pontefice Gregorio, quanto l'imperador Federigo [Raynald., in Annal. Eccles.], mirando con incredibil dispiacere i progressi che andava facendo l'eresia de' paterini e di altre sette di manichei per l'Italia, pubblicarono rigorosissimi editti contra di questi pestilenti uomini che infestavano la Chiesa cattolica. Circa questi tempi [1100] nella città di Perugia [Cardin. de Aragon., in Vita Gregorii IX.], in cui la nobiltà e il popolo per cagion del governo aveano in addietro avute non poche risse e liti fra loro, la discordia tramontò gli argini, e toccò ai nobili l'uscir di città. Si diedero poi questi a far quanto di male potevano al territorio; e il popolo anche egli faceva altrettanto e peggio contra di essi. Con paterno zelo accorse papa Gregorio al bisogno dell'afflitta città, con ispedir colà il cardinal Giovanni dalla Colonna, il quale con tal efficacia si adoperò, che, calmato il furor delle parti, ridusse in città una buona somma di danaro per la riparazion dei danni. In questo anno parimente contro la mente del pontefice i Romani fecero oste a' danni de' Viterbesi nell'aprile e nel maggio, e obbligarono quei di Montefiascone di dar sicurtà di non prestar loro aiuto. Prese dipoi l'imperador Federigo la protezion di Viterbo, e vi spedì Rinaldo da Acquaviva suo capitano con un buon corpo di milizie per difesa di quella città. Dovette essere il papa che fece questo trattato, ed impegnò Federigo in favor de' Viterbesi; imperocchè i Romani, dacchè n'ebbero l'avviso, imposero, in odio del papa, una grave contribuzione di danaro alle chiese di Roma. Cadde in quest'anno dalla grazia di Federigo Rinaldo, appellato duca di Spoleti, quel medesimo che tanto avea fatto per lui in danno della Chiesa romana. Federigo fu de' più accorti e maliziosi principi che mai fossero. Probabilmente gli nacque sospetto che costui tenesse segrete intelligenze colla corte di Roma [Raynaldus, in Annal. Eccles.]; e infatti s'impegnò forte il papa per la sua liberazione. Ora Federigo, preso il pretesto di fargli rendere conto della passata amministrazione del regno, nè potendo Rinaldo trovar cauzione idonea, il fece imprigionare, con ispogliarlo di tutti i suoi beni; dal che prese motivo Bertoldo di lui fratello di ribellarsi e di fortificarsi in Intraduco. In quest'anno ancora pubblicò esso imperadore la determinazion [1101] sua di tenere una dieta del regno d'Italia in Ravenna, la qual città era allora governata dall'arcivescovo di Maddeburgo, conte della Romagna, e legato imperiale di tutta la Lombardia. Ora, desiderando egli che v'intervenisse anche il re Arrigo suo figliuolo coi principi della Germania, pregò il pontefice Gregorio d'interporre i suoi uffizii, affinchè le città collegate di Lombardia non impedissero la venuta del figliuolo e dei Tedeschi in Italia. Non lasciò il papa di scrivere per questo; ma sì egli che i Lombardi, assai conoscendo il naturale finto ed ambizioso di Federigo, e poco fidandosi di lui, seguitarono a star cogli occhi aperti, e in buona guardia per tutti gli accidenti che potessero occorrere.

A Roberto imperador latino di Costantinopoli era succeduto Baldovino suo figliuolo in età non per anche atta al governo. Veggendo i principi latini di quell'imperio la necessità di avere un qualche valoroso principe per loro capo da opporre alla potenza de' Greci [Dandul., in Chron., tom. 11 Rer. Ital.], che ogni dì più cresceva, presero la risoluzion di dare in moglie al fanciullo Augusto una figliuola di Giovanni di Brenna, già re di Gerusalemme, con dichiarar lui vicario e governator dell'imperio, sua vita natural durante. Gli diedero anche il titolo d'imperadore: il che si ricava dalle lettere di papa Gregorio. Tutto lieto Giovanni per così bell'ascendente, venne a Rieti ad abboccarsi col papa, e ad impetrar il suo aiuto [Richardus de S. Germano, in Chron.]. Spedì anche a Venezia per aver tanti vascelli da condur seco mille e dugento cavalli e cinquecento uomini d'armi. Preparato il tutto, ed imbarcatosi, e ricuperate nel viaggio alcune provincie, felicemente arrivò a Costantinopoli, dove, per attestato ancora del Dandolo, fu coronato imperadore. Si provò in quest'anno un terribil flagello di locuste in Puglia. Federigo, attentissimo a tutto, dopo avere in questo medesimo anno pubblicate molte sue costituzioni [1102] pel buon governo del suo regno, ordinò sotto varie pene che cadauno la mattina prima della levata del sole dovesse prendere quattro tumoli di sì perniciosi insetti, e consegnarli ai ministri del pubblico, che li bruciassero: ripiego utilissimo, e da osservarsi in simili casi, non ignoti a' giorni nostri. Passò nell'anno presente a miglior vita Antonio da Lisbona dell'ordine de' minori [Rolandin., Chron., lib. 3, cap. 5.], di cui abbiam parlato di sopra. Tornato egli da Verona, si elesse per sua abitazione un luogo deserto nella villa di Campo San Pietro, diocesi di Padova, con essersi fabbricata una capannuccia sopra una noce, dove si pasceva della lettura del vecchio e nuovo Testamento, con pensiero di scrivere molte cose utili al popolo cristiano. Dio il chiamò a sè nel dì 13 di giugno, con restare di lui un tal odore di santità, comprovata da molti miracoli, che nell'anno seguente papa Gregorio IX, trovandosi nella città di Spoleti, l'aggiunse al catalogo de' santi.

A proposito di Spoleti, non si dee ommettere che Milone vescovo di Beauvais, di cui s'è favellato di sopra, costituito governatore di quel ducato dal papa [Richardus de S. Germano, in Chron.], non fu ricevuto da quel popolo. Il perchè raunato un esercito, si portò a dare il guasto al distretto di Spoleti: il che nondimeno a nulla giovò per far chinare il capo agli Spoletini. Sommamente premeva ai Padovani [Roland, lib. 3, cap. 6. Paris de Cereta. Chron. Veron. Monachus Patavinus, et alii.] e ad Azzo VII marchese d'Este la liberazione del conte Ricciardo da San Bonifazio, e degli amici carcerati in Verona dalla parte ghibellina. Però fu spedito in Lombardia Guiffredo, ossia Giuffredo da Lucino Piacentino podestà di Pavia, a trattarne coi rettori della lega lombarda. Con tal occasione i Padovani confermarono di nuovo essa lega. Ciò fatto, dall'un canto il popolo di Padova col suo carroccio, e i Mantovani anch'essi col loro marciarono [1103] sul territorio di Verona. Tra per questo movimento ostile, e per gli efficaci uffizii dei rettori di Lombardia, finalmente s'indussero i Ghibellini veronesi a mettere in libertà il conte Ricciardo cogli altri prigioni: il che ottenuto, se ne tornarono gli eserciti alle loro città. Cotanto ancora si maneggiarono i suddetti rettori, che nel dì 16 di luglio seguì pace fra esso conte e i Montecchi suoi avversarii, nel castello di San Bonifazio: pace nulladimeno simile all'altre di questi tempi, cioè non diverse dalle tele de' ragni. Gli storici di Milano [Gualv. Flamma, in Manipul. Flor., cap. 264. Annales Mediolanenses, tom. 16, Rer. Ital.] scrivono, che volendo i Milanesi far vendetta della morte del loro capitano Uberto da Ozino, inviarono l'esercito loro sotto il comando di Ardighetto Marcellino a danni del marchese di Monferrato coi rinforzi loro somministrati dalle città di Piacenza, Alessandria e Novara. Formarono un ponte sul Po, presero il naviglio del marchese, e le castella di Buzzala, Castiglione, Ostia, Ciriale e Civasso. All'assedio di quest'ultima terra, colpito da una saetta il lor capitano, terminò le sue imprese colla morte; e questo bastò perchè si ritirasse a casa l'armata milanese. La venuta dell'imperador Federigo a Ravenna, e l'aver chiamato in Italia il re Arrigo suo figliuolo coll'armata tedesca, ingelosì sì fattamente i popoli collegati di Lombardia, che, raunato un parlamento in Bologna, giudicarono maggior sicurezza della lor libertà l'opporsegli, che il fidarsi delle di lui parole. Ad istanza di Federigo, il sommo pontefice inviò dipoi per suoi legati in Lombardia Jacopo vescovo cardinale di Palestrina, e Ottone cardinale di San Nicolò in Carcere Tulliano, con incombenza di trattar di pace. Non passò quest'anno senza disturbi civili in Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Italic.]. Ne fu cacciato Guiffredo da Pirovano Milanese lor podestà. Fu dipoi concordato che la metà degli onori del governo si conferisse [1104] ai nobili, e l'altra al popolo; il che fece rinvigorire gli antichi odii fra loro. Abbiamo dai Continuatori di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.] che Federigo con sue lettere fece intendere al comune di Genova la dieta generale del regno ch'egli avea determinato di tenere per la festa d'Ognissanti in Ravenna, con ordinare che vi mandassero i lor deputati. Si trovò l'imperadore prima di novembre in quella città; ma restò differita sino al Natale la dieta per cagione che i Lombardi non permettevano di passare in Italia ai principi dello imperio. Vennero poi alcuni d'essi principi travestiti par istrade non guardate, temendo dappertutto insidie da essi Lombardi. Per attestato di Riccardo da San Germano, tenuta fu la dieta suddetta in Ravenna con gran magnificenza; e la Cronichetta di Cremona ci fa sapere che Federigo vi comparve colla corona in capo. In tal congiuntura fece egli un giorno pubblicare un editto, comandando sotto rigorose pene che niuna delle città fedeli al suo partito potesse prendere podestà dalle città collegate contra di lui. Ebbero un bel dire i Genovesi di avere eletto Pagano da Pietrasanta Milanese per loro podestà, nè poter essi recedere dal giuramento prestato: nulla valsero le loro scuse e ragioni. Tornati poscia a casa i deputati suddetti, vi fu gran dibattimento per questo nel loro consiglio; ma infine vinse il partito di chi voleva quel podestà per l'anno prossimo, e fu anche eseguito. Nè vo' lasciar di riferire ciò che ha il Sigonio [Sigon., de Regn. Ital., lib. 17.], il quale l'avrà preso da qualche vecchia storia. Cioè che Federigo diede un singolare spasso ai popoli in Ravenna, coll'aver condotto seco un lionfante, dei leoni, de' leopardi, de' cammelli, e degli uccelli stranieri, che, siccome cose rare in Italia, furono lo stupore di tutti. Nulla di ciò ha il Rossi nella Storia di Ravenna.

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Anno di Cristo MCCXXXII. Indizione V.
Gregorio IX papa 6.
Federigo II imperadore 13.

Nel gennaio dell'anno presente attese l'imperador Federigo in Ravenna a segreti maneggi per domare, se era possibile, le città lombarde confederate contra di lui. Suoi intimi consiglieri furono Eccelino da Romano e Salinguerra da Ferrara, capi de' Ghibellini; nè mancarono essi di attizzarlo contra di Azzo VII marchese d'Este, capo de' Guelfi, il quale non si lasciò già vedere alla corte. Poi dopo la seconda domenica di quaresima s'imbarcò esso Augusto per andare ad Aquileia [Godefridus Monachus, in Chron. Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.], e quivi abboccarsi col re suo figliuolo, giacchè questi non s'era voluto arrischiare a passar per la Valle di Trento, dove erano prese le Chiuse. O fosse di sua spontanea volontà, oppure che qualche burrasca di mare l'obbligasse a cangiar cammino, egli passò per Venezia, dove fu magnificamente accolto, e concedè varie esenzioni nel regno di Puglia e di Sicilia a quel popolo. Visitò la basilica di san Marco, e vi lasciò dei superbi regali ornati d'oro e di pietre preziose. Un suo diploma dato in Venezia nel marzo di quest'anno si legge nel Bollario Casinense. Passò dipoi ad Aquileia, dove il re Arrigo suo figliuolo venne a trovarlo con alcuni principi di Germania. E quivi celebrò la santa Pasqua. È da stupire come Ricobaldo storico ferrarese [Richobald., in Pomar., tom. 9 Rer. Ital.], il quale asserisce d'essere stato presente nell'anno 1293 in Padova alla miracolosa guarigione di un muto nato, alla tomba di santo Antonio, e però fiorì nel secolo presente, scrivesse che nel precedente anno Federigo imprigionò esso suo figliuolo. Altrettanto s'ha dal Monaco Padovano [Monachus Patavinus, in Chron.] più antico di Ricobaldo. Noi vedremo che ciò succedette [1106] solamente nell'anno 1235. Notano gli storici milanesi [Annales Mediol. Gualvanus Flamma, in Manip. Flor. Richardus de S. Germano, in Chron.] che i legati già spediti dal papa per trattar della pace coi Lombardi andarono per trovar Federigo in Ravenna. Egli, saputa la lor venuta, se n'andò a Venezia. Colà si portarono anch'essi, ed egli, prima che arrivassero, passò ad Aquileia. Perciò, credendosi burlati o sprezzati da lui, se ne tornarono, senza far altro, al papa. Si trasferì dipoi Federigo circa la festa dell'Ascensione per mare in Puglia, e nel cammino prese alcuni corsari che infestavano l'Adriatico. Due cattive nuove gli giunsero in quest'anno. L'una fu, che Giovanni da Baruto occupò in Soria l'importante città d'Accon, ossia d'Acri, che era d'esso imperadore. Il maresciallo Riccardo, lasciato ivi per governarla, andò contra di lui, e restò sconfitto. L'altra fu, che nel mese d'agosto il popolo di Messina, trovandosi angariato da Riccardo da Montenegro giustiziere per l'imperadore, fece nel mese suddetto una sollevazion contra di lui; e l'esempio di questa città servì per far tumultuare anche Siracusa, Catania, Nicosia ed altre terre di Sicilia. Era duro sopra i popoli il governo di Federigo; la voleva d'ordinario contro le loro borse, e per poco si veniva al confisco. Di belle leggi andava egli pubblicando; ma le sue gabelle, dazii, contribuzioni ed angherie faceano gridar tutti. In quest'anno ancora i Romani, più che mai accaniti contro la città di Viterbo, uscirono in campagna, e, dopo aver dato il guasto al paese, se ne tornarono a casa. Ma venne fatto anche ai Viterbesi di prendere per tradimento un castello appellato Vetorchiano, che era de' Romani; ed avuto che l'ebbero, non tardarono a smantellarlo tutto. N'ebbero gran rabbia i Romani; e siccome attribuivano al pontefice Gregorio la colpa di tutto, come quegli che non voleva lasciar distruggere Viterbo; [1107] così, mentre egli soggiornava in Rieti, mossero l'armi loro per fargli dispetto, e giunsero sino a Montefortino, con disegno di assalire la Campania romana ubbidiente ad esso papa. Per fermar questo loro attentato, papa Gregorio spedì loro tre cardinali suoi deputati, che conchiusero un accordo con esso popolo romano; e convenne sborsare una buona somma di danaro, acciocchè se ne ritornasse a casa quell'armata sì poco rispettosa al suo legittimo signore. Trattò in quest'anno il papa di pace fra l'imperadore e le città collegate di Lombardia: al qual fine queste ultime inviarono i loro agenti ad esso papa, mentre dimorava in Anagni; ma nulla si dovette conchiudere, per le diffidenze che passavano fra le parti.

Abbiamo da Parisio da Cereta, autore della Cronica antica di Verona [Chron. Veronense, tom. 8 Rer. Ital.], che nel dì 14 d'aprile Eccelino da Romano, soggiornando in Verona, fece prigione Guido da Rho podestà di quella città, e i suoi giudici con tutta la famiglia. Dopo di che mandò a prendere da Ostiglia un uffiziale dell'imperador Federigo, che non mancò di portarsi a quella città. Da lì a pochi giorni comparvero ancora colà il conte del Tirolo e due altri conti con cento cinquanta uomini a cavallo e cento balestrieri, che presero il possesso di Verona a nome dell'imperadore. Ricuperarono poi il castello di Porto, e rifabbricarono quel di Rivalta. Allora i Mantovani, amicissimi della parte del conte Ricciardo da San Bonifazio, e di fazione guelfa, ripresero l'armi contra dei Veronesi, ed usciti in campagna col loro carroccio, presero il castello di Nogarola, bruciarono varie ville del distretto veronese, cioè Ponte Passero, Fragnano, Isolalta, Poverano, l'isola della Scala, ed altre non poche. I partigiani del conte abbandonarono Nogara, con darla alle fiamme. Eccelino da Romano coi Veronesi, avendoli colti nella terra di Opeano, li mise in rotta, e ne fece prigionieri non [1108] pochi. Poi circa il fine d'ottobre i Mantovani diedero il sacco alla villa di Cereta. Dall'altra parte i Padovani s'impadronirono di Bonadigo, e totalmente lo distrussero. Altrettanto fecero alla villa della Tomba. Venne anche in lor potere il castello di Rivalta. Temo io che questi fatti nella Cronica di Parisio sieno fuori di sito, perchè somigliano quei che ho narrato all'anno 1230; se non che dalle lettere dell'imperador Federigo si sa che egli si lamentava, perchè quasi sotto i suoi occhi, mentre era in Ravenna, le città lombarde aveano fatta oste contra de' suoi fedeli. Seguita a scrivere Parisio che in quest'anno Azzo VII marchese d'Este, e Ricciardo conte di San Bonifazio, portatisi in aiuto di Biachino e Guezello da Camino, nel dì 27 di luglio attaccarono battaglia col popolo di Trivigi, e il misero in rotta, con far molti prigioni, i quali furono condotti nelle carceri del marchese a Rovigo. Allora si mosse Eccelino con cento uomini d'armi e con cento balestrieri in soccorso de' Trivisani; ma null'altro succedette dipoi. Presero in quest'anno i Sanesi [Chronic. Senense. Ricordano Malaspina, cap. 114 Giovanni Villani.], condotti da Gherardo Rangone da Modena lor podestà, nel dì 28 di ottobre la terra di Montepulciano, e ne disfecero tutte le mura e fortezze. Era quel popolo collegato co' Fiorentini; per la qual cosa essi Fiorentini andarono a oste sopra i Sanesi, con dare il guasto a parte del loro territorio, e prendere a forza d'armi il castello di Querciagrossa, i cui abitanti furono condotti nelle carceri di Firenze. Avendo i Lucchesi [Ptolom. Lucensis, in Annal. brev.] assediata Barga insieme coi Fiorentini, ebbero una spelazzata dai Pisani, Bargheggiani e Cattanei della Garfagnana. Avvertito l'imperador Federigo che i Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6.], non ostante il divieto lor fatto, aveano preso per lor podestà Pagano da Pietrasanta Milanese, diede ordine che dovunque si [1109] trovassero persone e robe di Genovesi, fossero prese: il che fu eseguito. Gran tumulto nacque per ciò in Genova. Chi teneva per l'imperadore, e chi voleva che si entrasse nella lega di Lombardia contra di lui. Ma Federigo, meglio pensando che non gli tornava il conto a disgustare un popolo sì allora potente in mare, dopo qualche tempo ordinò che tutto fosse loro restituito. Grave danno in quest'anno recarono anche in Lombardia le locuste, che divoravano tutte l'erbe delle campagne: flagello continuato anche ne' due seguenti anni. Dalla Cronichetta di Cremona [Chronic. Cremonense, tom. 9 Rer. Italic.] abbiamo che nel popolo di quella città si rinvigorì la divisione, e fu guerra civile fra loro. Andarono essi Cremonesi in servigio de' Bolognesi: a qual fine, non so. Fecero anche oste contra de' Mantovani, bruciarono parecchi luoghi di quel contado, e presero e distrussero il ponte che i Mantovani tenevano sul Po. In Milano [Annales Mediolanens., tom. 16 Rer. Ital.] si crearono sette capitani, cadaun de' quali comandava a mille soldati a cavallo, e giurarono tutti di sostenere la lor libertà contra dell'imperadore, e piuttosto di morire in campo che di fuggire. Mandò in quest'anno il sultano d'Egitto a donare a Federigo Augusto un padiglione di mirabil lavoro [Godefridus Monachus, in Chron.], il cui valore si fece ascendere a più di venti mila marche d'argento. Vi si vedeva con ammirabil artificio il corso del sole e della luna, co' suoi determinati spazii, indicanti con sicurezza l'ore del giorno e della notte. Fu esso risposto in Venosa nel tesoro regale. E Federigo poscia nel dì 22 luglio ad un solenne convito invitò gli ambasciatori d'esso sultano e del Vecchio della Montagna, principe de' popoli detti Assassini. Teneva Federigo buona corrispondenza con costui; e voce comune correva che uno de' sudditi d'esso Vecchio, per ordine del medesimo imperadore, avesse nell'anno [1110] precedente tolto di vita Lodovico duca di Baviera, caduto in disgrazia d'esso Augusto.


   
Anno di Cristo MCCXXXIII. Indizione VI.
Gregorio IX papa 7.
Federigo II imperadore 14.

Era sconvolta per interne sedizioni la città di Roma in questi tempi, e molti occupavano le terre della Chiesa romana [Raynald., in Annal. Eccles.]. Implorò papa Gregorio IX soccorso da Federigo II; ma egli, adducendo la non falsa scusa di dover accorrere in Sicilia, dove gli si erano ribellate alcune città, nulla accudì al bisogni del pontefice. Passò a questo fine in Calabria [Richardus de S. German., in Chron.], dove ammassò un buon esercito, ed intanto ordinò che si fortificassero il più possibile le fortezze di Trani, Bari, Napoli e Brindisi. Volle Dio che nel mese di marzo i Romani, scorgendo essere riposta la lor quiete e il maggiore lor bene nell'avere in Roma il sommo pontefice, s'indussero a spedire il senatore con alcuni nobili ad Anagni, dove facea allora la corte pontificia la sua residenza, per pregare il santo padre di voler tornarsene a Roma. Non mancarono cardinali che il dissuasero e contrariarono a sì fatta risoluzione; ma egli intrepido volle venire, e fu accolto con dimostrazioni di molto giubilo dal popolo romano. Allora fu ch'egli si accinse a calmar gli odii dei Romani e Viterbesi: al qual fine spedì a Viterbo Tommaso cardinale per trattare di un'amichevol concordia. E questa infatti fu da lì a qualche tempo stabilita. Intanto Federigo Augusto, passalo in Sicilia con un vigoroso esercito, ridusse a' suoi voleri Messina, dove alcuni degli autori della sollevazione pagarono il fio del loro misfatto sulla forca, ed altri furono bruciati vivi. Catania, senza far opposizione, tornò alla di lui ubbidienza. Fu assediato il castello di Centoripi, [1111] e tuttochè, per la sua forte situazione in un dirupato monte e per la bravura dei difensori, facesse lunga difesa, pure infine fu obbligato alla resa. Da tal resistenza irritato Federigo, lo fece atterrare da' fondamenti, e gli abitanti, passali in un altro sito, fondarono a poco a poco una nuova città, a cui, per ordine dell'imperadore, fu posto il nome d'Augusta. In Puglia finalmente il castello di Introduco, dopo un penoso e lungo assedio, si arrese alle sue armi. Bertoldo e Rinaldo appellato duca di Spoleti, che vi si erano bravamente fin qui difesi, assicurali, uscirono fuori del regno. In questo anno ancora tornò alle mani d'esso imperadore la città di Gaeta, con restar privata delle vecchie sue esenzioni e del diritto di eleggere i suoi consoli, avendovi Federigo messi i suoi uffiziali, e costituita una dogana. Aveva egli promesso di ben trattare quel popolo, ma era principe che mai non perdonava daddovero, e guai a chi avea fallato. Per questo i Lombardi non s'indussero giammai a fidarsi di lui: gastigo ben dovuto a quei principi che non san perdonare, nè mantener la parola.

Per la presa e distruzione di Montepulciano, fatta nell'anno addietro dai Sanesi [Chron. Senense, tom. 15 Rer. Ital.], il comune di Firenze adirato forte fece in quest'anno un grande sforzo affine di vendicarsene. Ricordano [Ricordanus Malaspina, in Chron.] e Giovanni Villani [Giovanni Villani.] ciò riferiscono all'anno seguente; ma Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano.], la Cronica sanese e il Rinaldi [Raynaldus, Annal. Ecclesiast.] ne parlano all'anno presente. Ora i Fiorentini misero l'assedio a Siena, e in vergogna de' Sanesi con un mangano gittarono entro la città un asino con altra carogna. Tornali poscia a Firenze, nel dì 4 del mese di luglio rifecero oste contra de' medesimi Sanesi; presero e disfecero Asciano, e quarantatrè altre [1112] castella e ville di quel territorio, con gravissimo danno d'essi Sanesi. Cagione fu ciò che, compassionando con paterno affetto papa Gregorio lo stato infelice di Siena, s'interpose per la pace, e a questo fine spedì a Firenze fra Giovanni da Vicenza dell'ordine de' Predicatori, uomo eloquentissimo, ed insigne missionario di questi tempi. Dimorava egli allora in Bologna, dove seguitato da innumerabil copia di contadini e cittadini, colle fervorose sue prediche fece infinite paci fra loro, moderò il lusso delle donne, con altri mirabili effetti della parola di Dio. Andò questo buon servo di Dio a Firenze; ma, per quanto facesse e dicesse, non potè smuovere quel comune dall'ostinato suo proposito contra de' Sanesi. Per questo il papa sottopose Firenze all'interdetto, e fece scomunicar i rettori di quella città. Bolliva intanto, anzi ogni dì più andava crescendo la discordia fra le città della marca di Verona. Se non v'ha difetto nella Cronica veronese di Parisio da Cereta [Paris de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.], ancora in quest'anno i Mantovani col loro carroccio, e coll'aiuto dei Milanesi, Bolognesi, Faentini e Bresciani, cavalcarono contra de' Veronesi, e bruciarono e guastarono molte lor ville, fra le altre Villafranca, Cona, Gussolengo, Seccacampagna, Piovezano, Palazzuolo ed Isolalta; il che fatto, si ridussero a casa. Ora colà ancora per ordine del sommo pontefice, e per motivo eziandio di spontanea carità, si portò il suddetto buon servo di Dio fra Giovanni da Vicenza. Tale era il concetto della sua virtù e mirabil facondia, che il popolo di Padova [Roland., lib. 3, cap. 7. Gherardus Maurisius, Hist. Anton., Chron. Veronense.] gli andò incontro, nel venire che egli faceva da Monselice, e, messolo sul carroccio, con gran divozione e giubilo l'introdusse in città. Predicò egli quivi e per le ville con indicibil concorso di gente; poscia se ne andò a Trivigi, Feltre e Belluno, e quindi a Vicenza e [1113] Verona, dove Eccelino da Romano coi Montecchi giurò di stare a quello che avesse ordinato il papa. Trasferissi inoltre a Mantova, e Brescia, predicando da per tutto la pace, facendo rimettere in libertà i prigioni, e correggendo a modo suo gli statuti delle città. Il che fatto, intimò un giorno, in cui si dovessero adunar tutte quelle città in un luogo determinato per far la pace generale. Scelse egli una campagna presso all'Adige, quattro miglia di sotto da Verona, e il giorno della festa di santo Agostino, cioè il dì 28 di agosto. Fu uno spettacolo mirabile il vedere in quella giornata comparire al sito prefisso i popoli di Verona, Mantova, Brescia, Vicenza, Padova e Trivigi coi lor carrocci. Vi comparvero ancora il patriarca di Aquileia, il marchese di Este, Eccelino e Alberico da Romano, i signori da Camino, e una gran moltitudine d'altre città, cioè di Feltre, Belluno, Bologna, Ferrara, Modena, Reggio e Parma, coi loro vescovi, tutti senz'armi, e la maggior parte a piedi nudi in segno di penitenza. Da tanti secoli non s'era veduta in un sol luogo d'Italia unione di tanta gente. Secondo lo scandaglio di Parisio, vi furono più di quattro cento mila persone. Frate Giovanni da un palco alto quasi sessanta braccia predicò a questa smisurata udienza, udito da tutti, e con esortar tutti a darsi il bacio di pace, e comandandolo anche a nome di Dio e del romano pontefice. Il che fu prontamente eseguito; ed egli appresso pubblicò la scomunica contra chiunque guastasse sì bell'opra; anzi, per maggiormente assodarla, propose il matrimonio del principe Rinaldo, figliuolo di Azzo VII marchese d'Este, capo de' Guelfi, e Adelaide figliuola di Alberico fratello di Eccelino da Romano, capo de' Ghibellini: il che fu approvato e lodato da tutti. Lo strumento di questa pace l'ho io pubblicato nelle mie Antichità Italiane.

Ma quanto durò questa concordia? Non più che cinque o sei giorni. Quel che è più, andò anche per terra il concetto [1114] della di lui santità, ch'era ben grande. Gherardo Maurisio scrive di aver co' suoi proprii orecchi inteso predicare i frati minori nella cattedral di Vicenza, che fra Giovanni avea risuscitato dieci morti. Non mancava gente che portava odio a questo sacro banditor della parola di Dio e della pace, perchè era inesorabile contro gli eretici. Nel mese di luglio n'avea fatto bruciar vivi in tre giorni settanta nella piazza di Verona tra maschi e femmine de' migliori cittadini di quella città. Altri poi cominciavano a malignare sopra le di lui intenzioni, pretendendo che tutte le sue mire fossero per abbassar la parte ghibellina, e che questo fosse un segreto concerto della corte di Roma contra di Federigo II imperadore. Ma quello che diede il crollo all'autorità e stima di fra Giovanni, fu ch'egli, ito a Vicenza sua patria, si fece dare dal popolo un'assoluta padronanza della città, tutta ad arbitrio suo: con che vi mise quegli uffiziali che a lui piacquero, e corresse o mutò gli statuti della città, e ne formò de' nuovi. Ito a Verona, anche ivi si fece eleggere signore della città; volle ostaggi per sicurezza di sua persona; volle in sua mano il castello di San Bonifazio, Ilasio, Ostiglia e le fortezze della città. I Padovani, che facevano prima da padroni in Vicenza, corsero colà, e vi accrebbero la lor guarnigione. Tornato frate Giovanni colà, e trovata questa novità, volle far valere la sua autorità contra chi se gli opponeva; ma in furia ritornarono a Vicenza i Padovani, e, dato di piglio all'armi contra di lui e della sua fazione, infine presero lui con tutta la sua famiglia, e il cacciarono in prigione nel dì 3 di settembre. Rilasciato da lì a pochi giorni, se ne tornò a Verona, nè trovò più ubbidienza, di modo che mise in libertà fra poco tempo gli ostaggi, restituì al conte Ricciardo il castello di San Bonifazio, e infine se ne tornò a Bologna, convinto dell'instabilità delle cose umane, e pentito di avere oltrepassato i termini del sacro suo ministero. Così ripullulò [1115] la discordia come prima fra quei popoli; anzi parve che si scatenassero le furie per lacerar da lì innanzi tutta la Lombardia. Il credito de' frati predicatori e minori era incredibile in questi tempi per tutte le città. In alcune aveano anche parte ne' governi. Però nell'anno presente desiderando i frati minori di metter fine alle dissensioni vertenti fra i nobili e popolari di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Italic.], così efficacemente si maneggiarono, che le parti fecero compromesso di tutte le lor differenze in fra Leone dell'ordine loro. Questi diede da lì a poco il laudo, assegnando la metà degli onori della repubblica agli uni, e l'altra metà agli altri, e col bacio della pace ordinò che si confermasse la sentenza sua. Anche in Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.], per le prediche del buon servo di Dio fra Gherardo dell'ordine de' Minori, si fecero moltissime paci fra il popolo della città. Ma febbri sì maligne non si sradicavano punto con questi innocenti rimedii. Pochissimo durò la calma in Piacenza, ed alteratisi di nuovo gli animi, la nobiltà si ritirò alle sue castella; con che si riaccese la guerra. Predicando nell'ottobre di quest'anno frate Orlando da Cremona dell'ordine de' Predicatori nella piazza d'essa città di Piacenza, ecco una truppa di eretici dar di piglio a sassi e spade, con ferire mortalmente esso predicatore e un monaco di San Savino. Furono presi costoro ed inviati a Roma. Anche in Milano [Gualvanus Flamma, in Manip. Flor. Corio, Istoria di Milano.] quel podestà Oldrado da Lodi cominciò a far bruciare gli eretici. Ne resta tuttavia la memoria in marmo nella piazza del Broletto, ossia de' Mercatanti, leggendosi sotto l'effigie sua fra l'altre parole ancor queste:

CATHAROS, VT DEBVIT, VXIT.

[1116] Andò anche a Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] il suddetto fra Gherardo da Modena, uomo di santa vita, ed assaissima gente indusse alla pace, con emendare eziandio gli statuti della città, e far assolvere tutti gli sbanditi. Colà inoltre comparve fra Corneto dell'ordine de' Predicatori, che colla sua pia eloquenza si tirava dietro tutto il popolo; e tanto i nobili che i plebei, uomini e donne per divozione portavano terra affin di empiere una borra, ossia luogo basso, dove si fermavano l'acque, presso alla chiesa de' Predicatori. Tutto ciò serva a far conoscere i costumi di questi tempi. Il Guichenon [Guichenon, Hist. de la Maison de Savoye, tom. 1.] mette la morte di Tommaso conte di Savoia, principe di gran senno e valore, nel dì 20 di gennaio di quest'anno. Io truovo nella Cronica di Alberico Monaco [Albericus Monachus Trium Fontium, in Chron.] ch'egli mancò di vita nell'anno precedente, benchè egli ne torni a parlare all'anno 1234. Succedette a lui Amedeo IV suo primogenito. Ho io inoltre creduto che esso Guichenon prendesse abbaglio nel favellare della prima moglie di Azzo VII marchese di Este, la quale senza dubbio figliuola fu di esso conte Tommaso, e madre della beata Beatrice I d'Este [Antichità Estensi, P. I, cap. 40.]. Ebbe questo principe quindici figliuoli, nove maschi e sei femmine. L'una d'esse fu contessa di Provenza, e madre di Leonora regina d'Inghilterra. Tra i figliuoli Amedeo fu vescovo di Morienna; Guglielmo eletto vescovo di Valenza; Bonifazio eletto vescovo di Bellai, e poscia arcivescovo di Cantorberì; e Filippo eletto arcivescovo di Lione. Tommaso colle nozze di Giovanna contessa di Fiandra acquistò quel principato, ma ne restò dipoi spogliato. I principi carichi di molti figliuoli aveano allora gran cura d'incamminarli per la via ecclesiastica, acciocchè venissero provveduti di nobili e lucrose dignità in questa milizia.

[1117]


   
Anno di Cristo MCCXXXIV. Indizione VII.
Gregorio IX papa 8.
Federigo II imperadore 15.

Non poche vessazioni ebbe in questo anno papa Gregorio dal senato e popolo romano [Cardin. de Aragon., in Vita Gregorii IX, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Tutto dì andavano questi cercando d'ampliare la loro autorità in pregiudizio di quella del sommo pontefice, con occupare i di lui diritti temporali, e stendere la mano anche agli spirituali, imponendo aggravii agli ecclesiastici, e traendoli al loro foro. Fu astretto di nuovo il pontefice a ritirarsi da Roma a Rieti [Raynald., Annal. Eccl.]; perlocchè, maggiormente saliti in orgoglio i Romani, spedirono nella parte della Toscana suddita del papa e nella Sabina alcuni nobili per farsi giurare fedeltà da que' popoli, ed esigerne i tributi. Tutti questi sconcerti ebbero verisimilmente origine dall'implacabil loro odio contra di Viterbo, che passò contra dello stesso papa, perchè il vedevano contrario ai lor disegni di soggiogare quella città. Diedesi pertanto il pontefice a procacciar que' mezzi che convenivano per reprimere gl'irriverenti e ribelli Romani. Scrisse lettere per tutta la cristianità a principi e vescovi per ottener soccorso di gente e di danaro, e cominciò a raunar quante milizie egli poteva. Informato di questi movimenti Federigo imperadore [Richardus de S. Germano, in Chron.], venne in Puglia, e all'improvviso nel mese di maggio comparve a Rieti a visitar papa Gregorio, e ad offerirsi pronto al servigio e alla difesa sua; e gli presentò anche il suo secondogenito Corrado, che seco avea condotto. Gradì il pontefice l'esibizione, e concertò con lui le operazioni da farsi. L'autore della Vita d'esso papa tratta da finzioni tutti questi passi di Federigo. Io non entro a giudicar del cuore dei principi, tuttochè assai persuaso che doppio fosse quel di Federigo. [1118] Solamente so ch'egli col cardinal Rinieri passò a Viterbo per animar quel popolo; e che poscia, per consiglio del medesimo cardinale, intraprese l'assedio di Respampano, castello ben guernito di gente e di viveri dai Romani, che fece una gagliarda difesa. Vi stette sotto per lo spazio di due mesi; e, veggendo che non v'era apparenza di poterlo nè espugnare nè condur colle buone alla resa, nel settembre se ne tornò in Puglia. Tutto ciò fu attribuito a tradimento e ad intelligenza coi Romani, i quali, udita ch'ebbero la ritirata di Federigo, andarono a rinforzar di viveri quella terra. Intanto papa Gregorio, che era passato a Perugia, avea scritte lettere alle città della lega di Lombardia, affinchè non si formalizzassero, nè s'ingelosissero della sua amicizia con Federigo, perchè così portava il bisogno de' proprii affari senza pregiudizio dei loro. Anzi le esortò a non impedir la calata di truppe tedesche, le quali doveano venire in aiuto suo, consigliando ancora d'inviar deputati per trattar di concordia coll'imperadore. Avvenne dipoi che i Romani, portati dal loro mal talento, uscirono per andare, secondo il lor costume, a dare il guasto al territorio di Viterbo. Erano restati al servigio del papa molti Tedeschi dati dall'imperadore, amatori dell'ecclesiastica libertà, e ben disposti alla difesa di quella città. Godifredo Monaco [Godefridus Monachus, in Chron.] scrive che l'imperadore milites in civitate Viterbio collocavit; cosa che non fu osservata dal Rinaldi. Lo stesso vien confermato da Matteo Paris [Matth. Paris, Hist. Anglic.], il qual poi magnifica di troppo la seguente battaglia e vittoria. Costoro, gente brava, avendo incoraggito il popolo di Viterbo, arditamente uscirono contra de' baldanzosi Romani, e diedero loro una buona lezione con isconfiggerli, ucciderne e farne molti prigioni. Nè qui si fermò il corso della vittoria. Passarono anche nella Sabina, e ridussero di nuovo quelle terre all'ubbidienza [1119] del sommo pontefice. E pure niun merito di ciò ebbe Federigo, e si continuò a gridare contra di lui. Mentre dimorava in Rieti esso papa Gregorio [Raynald., Annal. Eccles. Chron. Bononiens.], canonizzò san Domenico, istitutore dell'ordine de' Predicatori, nel dì 3 di luglio del presente anno. Stando poscia in Perugia, con lettere circolari infiammò i principi e le città della cristianità al soccorso di Terra santa, dove andava sempre più peggiorando lo stato dei cristiani per le discordie di loro stessi. Ne aveva dianzi trattato ancora coll'imperador Federigo, il quale mostrò prontezza a quell'impresa.

Ma insorsero poi nuovi nuvoli che annientarono tutte le buone disposizioni [Richardus de S. Germano, in Chron.]; imperocchè incominciò ad aversi in Italia sentore che il re Arrigo, figliuolo dell'Augusto Federigo II, dimorante in Germania, macchinava ribellione contra del padre. Godifredo Monaco chiaramente lasciò scritto sotto quest'anno che [Godefridus Monachus, in Chron.] rex Heinricus Lombardiae conventum quorumdam principium habuit, ubi a quibusdam nefariis consilium accepit, ut se opponeret imperatori patri suo: quod et fecit: Nam ex tunc coepit solicitare quoscumque potuit minis, prece, et pretio, ut sibi assisterent contra patrem, et multos invenit. Fra quelli che entrarono in questa congiura, non si può mettere in dubbio che non vi fossero i Milanesi colle città confederate contra di esso Federigo, siccome tentati da esso re Arrigo; se pure da essi Milanesi non venne la prima scintilla di questo fuoco. Certo dovettero contribuire ad avviluppare l'incauto giovane colle lor promesse di farlo re d'Italia; laonde egli tirò innanzi la tela, che andò poi a strascinarlo nell'ultimo precipizio. Dagli Annali di Milano [Annal. Mediol., tom. 16 Rer. Ital.], il cui autore mostrò di averne veduto il documento, abbiamo che in quest'anno Manfredi conte di Corte Nuova, podestà di Milano, con [1120] due giudici, a nome del comune, juraverunt fidelitatem Henrico regi Romanorum filio Friderici Roglerii imperatoris. Et tunc facta est liga fortis inter ipsum Henricum et Mediolanenses, ad petitionem papae contra imperatorem patrem suum. Et promiserunt ei dare Mediolanenses coronam ferream in Mediolano, quam patri suo dare numquam voluerunt. Anche Galvano Fiamma [Gualvan. Flam., in Manip. Flor., cap. 264.], facendo menzione di questo fatto all'anno 1231, cioè fuor di sito, scrive che Henricus rex Alamanniae cum Mediolanensibus composuit ad petitionem domini papae. L'autore anonimo della Vita di papa Gregorio IX con tante esagerazioni della perfidia di Federigo contra del pontefice porgerebbe anch'egli motivo di sospettare che esso Gregorio avesse tenuta mano a questo trattato. Ma l'indegnità del fatto e la saviezza dello stesso pontefice abbastanza ci possono persuadere la falsità di tal diceria. Oltre di che, se menomo indizio di ciò avesse trovato l'imperadore, che doglianze, che schiamazzi non avrebbe fatto? egli che sì spesso prorompeva in querele contra dei papi. In fine, siccome diremo, il medesimo papa aiutò Federigo a smorzar questo incendio. Il Monaco Padovano [Monachus Patavinus, in Chron.] anche egli, con errore di cronologia, raccontando all'anno 1231 che i Milanesi fecero lega col suddetto re Arrigo contra di suo padre, soggiugne (e questo è più da credere) che lo sconsigliato giovane tramò contra del padre, ideo quia videbatur, quod imperator plus eo puerum Conradum diligeret et foveret. Abbiamo dai suddetti storici milanesi [Annal. Mediol., tom. 16 Rer. Ital.], che avendo l'imperadore inviati in quest'anno a Cremona un lionfante, ed alcuni cammelli e dromedarii in segno del suo amore, saputosi ciò dai Milanesi, Piacentini e Bresciani, uscirono coll'esercito e coi lor carrocci in campagna fino a Zenevolta. Ivi attaccata battaglia coi Cremonesi, li fecero dare alle gambe. Secondo gli Annali di [1121] Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.], questo fatto d'armi fu grande, perchè in aiuto de' Cremonesi si trovarono i Parmigiani, Reggiani, Pavesi e Modenesi. La Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] ci assicura che si combattè con gran vigore, ma senza vittoria d'alcuna delle parti; e che nello stesso dì dopo il vespro si fece una tregua fra loro. Presero anche i Milanesi nel mese di luglio i condottieri mandati dall'imperadore con quelle bestie; ma le bestie scamparono, e felicemente giunsero a Cremona. Fecesi anche in Milano una scelta de' più bravi giovani, con appellar quella la Compagnia de' forti, ossia de' gaiardi, che s'impegnò alla difesa del carroccio. Capo ne fu Arrigo da Monza, soprannominato Mettefuogo, uomo di forza smisurata ed eccellente in armi, il quale dicono che fu podestà in varie città, e senatore di Roma.

Eransi collegati i popolari di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] coi popolari cremonesi contra de' loro nobili fuorusciti. Nel dì dell'Epifania il marchese Pelavicino con cento cavalieri di Cremona e molti balestrieri, unito col popolo piacentino, sconfisse i nobili suddetti, che, congiunti con quei di borgo di Val di Taro, di Castello Arquato e di Fiorenzuola, vennero a battaglia nel luogo di Gravago. Restarono prigionieri quarantacinque uomini d'armi e circa ottanta fanti. Poscia nel mese di giugno il popolo piacentino, assistito dal cremonese, si portò all'assedio del castello di Rivalgario, ma senza potervi mettere il piede. Nell'ottobre seguente si amicarono di nuovo i nobili piacentini coi popolari, e ritornarono in città a goder la metà degli onori del pubblico. La Cronica Veronese di Parisio [Paris, Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.] nota che nel dì 24 di maggio i Bresciani e Mantovani coi lor carrocci vennero contra de' Veronesi, e diedero alle fiamme Lebeto, [1122] Ronco, Opeano, Bovo, la villa della Palude, l'isola Porcaria, Bodolono e la maggior parte di Cereta. Nel dì primo di giugno se ne tornarono trionfalmente per sì belle imprese a casa. Eccelino in quel mese, uscito coll'esercito di Verona, s'impadronì del castello d'Albaredo, e volendo andare a Cologna, trovato per istrada Azzo VII marchese d'Este, che gli veniva incontro coi suoi bene in armi, giudicò meglio di tornarsene a Verona. Tornato poscia in campagna, riprese alcune castella; ma altre ne tolse ai Veronesi Ricciardo conte di San Bonifacio unito co' Mantovani. Secondo gli Annali di Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.], in quest'anno i capitani, ossia Cattanei del Frignano, lasciatisi guadagnare dal danaro, e ribellatisi al comune di Modena, si diedero a quel di Bologna [Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.]. Ed ancorchè tregua ci fosse fra queste due città, stabilita per ordine del papa, che dovea durare qualche anno ancora, i Bolognesi iniquamente la ruppero, e venuti coll'esercito e col carroccio a San Cesario del Modenese, diedero quella terra alle fiamme. Ceuta, posseduta da' Mori, fu nell'anno presente assediata dai crocesignati spagnuoli; e perciocchè i genovesi mercatanti [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom 6 Rer. Italic.] tenevano in quella città molto avere, si vide questa deformità, che, armate dieci delle maggiori e migliori lor navi, furono in soccorso degl'infedeli. Il verno di questo anno fu de' più orridi e rigidi che mai si provassero. Alcune croniche ne parlano all'anno precedente; l'altre, alle quali io m'attengo col Sigonio, al presente. Da Cremona sino a Venezia gelò sì forte il Po, che vi camminavano sopra con sicurezza gli uomini e le carra. Pel freddo morirono varie persone; si seccarono le viti, gli ulivi e le noci; venne appresso la mortalità de' buoi e d'altri utili animali, con varii altri malanni. In [1123] vece d'imparare da tanti flagelli, divennero più fieri nelle lor discordie i popoli, e più ostinati nelle loro iniquità. Ottone da Mandello Milanese, persona di gran credito in tutta Lombardia per la sua prudenza e sperienza nell'armi, fu podestà di Padova [Roland., lib. 3, cap. 8.]. E perciocchè i Trivisani con Alberico da Romano infestavano forte i signori di Camino, cittadini e collegati di Padova, dopo avere il suddetto podestà adoperate in vano preghiere e minaccie colla spedizione d'ambasciatori, uscì con tutte le forze dei Padovani contra d'essi. Diede il guasto alle campagne di Trivigi e delle terre dei fratelli da Romano, con arrivar sino a Bassano, a Mussolneto, a San Zenone, a Romano, e con impadronirsi della terra di Mestre, ma non già del castello. Si quietò così fiero temporale per l'interposizione degli ambasciatori di Venezia e di varie persone religiose, di maniera che tutti se ne tornarono alle lor case, lasciando piagnere chi avea patito danno.


   
Anno di Cristo MCCXXXV. Indiz. VIII.
Gregorio IX papa 9.
Federigo II imperadore 16.

Per provvedere alla ribellione del re Arrigo suo figliuolo, imprese l'imperador Federigo in quest'anno il viaggio di Germania insieme col suo secondogenito Corrado [Richardus de S. Germano, in Chron. Godefridus Monachus, in Chron.]. Dopo Pasqua si mosse di Puglia coll'accompagnamento di tre arcivescovi e d'altri nobili, ch'egli poi, giunto a Fano, licenziò e lasciò ritornare alle lor contrade. Seco portava lettere del sommo pontefice [Vita Gregorii IX, P. I, tom. 3 Rer. Ital.], esortatrici della fedeltà a lui dovuta, indirizzate ai vescovi e principi della Germania. A riserva delle sue guardie, niuna soldatesca condusse egli seco, ben sapendo che a chi ha danaro non manca gente, e che l'oro è il più potente strumento per [1124] superar tutte le difficoltà. A questo fine egli andò ben provveduto di tesoro nei suoi bauli. Nel mese di maggio, imbarcatosi a Rimini, passò ad Aquileia, e di là continuò il cammino sino in Germania, dove senza opposizione alcuna arrivò, e fu accolto con tutto onore dai principi e popoli. Allora il giovane re Arrigo, al vedere che niuno alzava un dito in suo favore, prese la risoluzione di andar a gittarsi ai piedi del padre, e chiedergli misericordia. Tritemio, autore assai lontano da quei tempi, scrive [Trithemius, Chron. Hirsaug.] che si presentò a lui nel dì 2 di luglio in Vormazia, e che Federigo, al mirarlo, ardente di sdegno, comandò tosto che fosse cacciato in prigione; nè bastarono le preghiere di quanti erano astanti ad ammollire l'implacabil suo cuore. Per lo contrario da Godifredo Monaco di San Pantaleone, storico contemporaneo, abbiamo [Godefridus Monachus, in Chron. Alberic. Monachus, in Chron] che Arrigo, benchè convinto della congiura suddetta, pure in gratiam patris recipitur. Sed non persolvens, quae promiserat, nec resignans castrum Drivels, quod habuit in sua potestate, jussu patris est custodiae mancipatus. Ch'egli ancora fosse rimesso in grazia del padre, lo attestano le lettere di papa Gregorio IX riferite dal Rinaldi [Raynaldus, in Annal. Eccl.]. Alcuni poscia per questo accusarono di crudeltà Federigo; ed altri credettero ch'egli non si potesse esentare dall'assicurarsi di un figliuolo, sì feroce anche dopo un così nero delitto, e che dava indizii di voler essere un secondo Assalonne. Era vedovo l'imperador Federigo. Conchiuse in questi tempi con dispensa pontificia il matrimonio con Isabella sorella di Arrigo re d'Inghilterra. In Vormazia con gran solennità furono celebrate le nozze. Nota il suddetto Godifredo Monaco [Godefridus Monachus, in Chron.] una particolarità degna di osservazione. Cioè che imperator suadet principibus, ne histrionibus [1125] dona solito more prodigaliter effundant, judicans maximam dementiam, si quis bona sua mimis vel histrionibus fatue largiatur. Ho io trattato altrove di questa ridicolosa usanza de' secoli barbari [Antiquit. Ital., Dissert. XXIX.]. Non si faceano nozze, o altre feste grandiose di principi tanto in Italia che in Germania, e probabilmente anche in altri paesi, che non vi concorressero le centinaia di buffoni, giocolieri, commedianti, cantambanchi ed altri simili inventori di giuochi e divertimenti della corte e del pubblico. I regali che lor si faceano non solamente dal principe autor della festa, ma dagli altri ancora che vi intervenivano, o di vesti o di danaro, o altre cose di valore, erano immensi. Gli esempli presso gli scrittori sono frequenti. E durò quest'uso od abuso anche nel secolo susseguente 1300. Federigo fece conoscere in tal congiuntura il saggio suo discernimento col non volere scialacquar donativi in gente sì fatta, siccome appunto avea praticato anche l'imperadore Arrigo II nell'anno 1043, allorchè solennizzò le sue nozze con Agnese figliuola di Guglielmo principe del Poitù. Tenne poscia Federigo [Otto Frisingensis, Chron., lib. 6, cap. 32.] una gran dieta in Magonza, dove espose i reati del figliuolo, per giustificar la propria condotta, e insieme per farlo conoscere indegno della corona. Crebbe intanto il suo odio e sdegno contra de' Milanesi e degli altri Lombardi, che sempre più andava egli scoprendo uniti e risoluti di difendere la lor libertà contra il lui mal animo. Ora il pontefice, che ben prevedeva in qual fiera guerra avesse a terminar questa discordia, nell'anno presente ancora si affaticò per estinguerla, se era possibile; e tanto più, perchè ne veniva frastornato il soccorso di Terra santa. Scrisse ai Lombardi, affinchè spedissero i lor deputati a Perugia. Scrisse a tutti i prelati che si trovavano alla corte in Germania, incaricandoli di interporre i loro uffizii per indurre Federigo [1126] a far compromesso di quelle differenze nel papa, padre comune. Ne fu contento Federigo, ma prescrisse un corto tempo al laudo, cioè fino al prossimo Natale del Signore.

Sotto il presente anno tanto Rolandino [Roland., lib. 3, cap. 9.] che il Monaco Padovano [Monachus Patavinus, in Chron.] parlano delle nozze di Andrea II re di Ungheria con Beatrice figliuola del defunto Aldrovandino marchese d'Este; e scrivono che essa con grandioso accompagnamento di nobili della marca trivisana, e di Guidotto vescovo di Mantova, fu inviata dal marchese Azzo VII suo zio paterno in Ungheria. Ma lo strumento dotale, dato da me alla luce [Antichità Estensi, P. I, cap. 41.], ce la fa conoscere già pervenuta nel maggio dell'anno precedente ad Alba Reale. Andrea già avanzato in età, secondo i conti di Alberico Monaco e d'altri, finì di vivere nell'anno presente, con lasciar gravida la moglie. Allora fu che Bela, figliuolo d'esso re di una precedente moglie, il quale di mal occhio avea veduto ammogliato di nuovo il padre, sfogò l'odio suo contro la regina matrigna, e la tenne come in prigione, pascendola del pane di dolore. Beatrice, donna di gran coraggio e d'animo virile, capitati per buona ventura alla corte di Ungheria gli ambasciatori dell'imperador Federigo, se l'intese con loro, e travestita da uomo ebbe la fortuna di salvarsi, e di tornare in Italia alla casa paterna [Richobaldus, in Pomario, tom. 9 Rer. Ital.]. Partorì ella, non so se in Germania oppure in Italia, un figliuolo appellato Stefano. Questi poi in età competente prese per moglie una nipote di Pietro Traversara, potente signore in Ravenna, che gli portò l'ampia eredità di quella nobil casa, e passato poi per la morte d'essa alle seconde nozze con Tommasina de' Morosini, nobile veneta, n'ebbe un figliuolo, appellato Andrea III, il quale fu poi re d'Ungheria. Era in questi tempi anche la Romagna [1127] tutta sossopra per la guerra che l'una all'altra si facevano quelle città. Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.] ne parla all'anno precedente. Nel presente abbiamo da esso storico e dagli Annali di Cesena [Annales Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] che i popoli di Ravenna, Forlì, Bertinoro e Forlimpopoli ostilmente vennero a dare il guasto al distretto di Cesena. Come se costoro se ne stessero a mietere il grano nelle proprie campagne, niuna guardia faceano. Ma eccoti il popolo di Cesena che armato e ben in ordine arriva loro addosso, ne fa molta strage, e prende il fiore della nemica milizia, che fu condotto nelle carceri di Cesena. Anche i Faentini coll'aiuto di due quartieri di Bologna [Matth. de Griffonibus, Memor. Histor., tom. 18 Rer. Ital.] fecero una scorreria nel territorio di Forlì, con arrivar sino alle porte di Forlimpopoli, lasciando quivi e poscia nel Ravegnano funesti segni della lor nemicizia. Del pari i Bolognesi [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] continuarono la guerra co' Modenesi. Aveano già corrotti con danaro i capitani del Frignano, i quali, ribellatisi a Modena, sottomisero al dominio loro ventitrè castella di quelle montagne. Con grandi forze ancora in quest'anno entrarono nelle pianure di Modena con giugnere fino al fiume Secchia, e recar que' danni che erano allora in uso, e poi se ne tornarono indietro. Siccome accennammo di sopra, pensando i Modenesi [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.] d'innondar le campagne de' Bolognesi, fecero a Savignano un taglio del fiume Scultenna, o sia Panaro, e ne rovesciarono l'acque addosso al loro distretto; ma il Cronista di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] scrive che questa invenzione tornò piuttosto in utile d'essi Bolognesi. Nè lieve dovette essere quell'impresa, perchè, per attestato della Cronica di Reggio [Memor. Potestat. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.], iverunt Parmenses et [1128] Cremonenses, Placentini et Pontremolenses in servitio Mutinae ad cavandum Scultennam super Bononiam. Assediarono anche i Modenesi il castello di Monzone, uno di quelli che loro s'era ribellato nel Frignano, e vi presero dentro sei capitani ribelli.

Per quanto scrive Galvano Fiamma [Gualvaneus Flamma, in Manip. Flor., cap. 268.], i Cremonesi appresso Rivaruolo presero ducento cavalieri bresciani nel mese di maggio; ma riuscì poi ai Bresciani di farne prigionieri trecento altri de' Cremonesi. Jacopo Malvezzi [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.], probabilmente descrivendo questi avvenimenti, solamente ci fa sapere, secondo il rito degli storici parziali alla sua patria, che i Bresciani, avendo raggiunti i Cremonesi al ponte d'Alfiano, diedero loro una memorabil rotta, con uccisione d'innumerabili, e con far prigionieri ottanta cavalieri e cinquecento fanti. Tornò in quest'anno il popolo di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] a cozzare coi nobili di tal maniera, che essi furono forzati ad abbandonar la città. Ad essi nobili ancora fu dai popolari tolta la terra di Fiorenzuola. Erano infievoliti forte i Sanesi [Ricordan. Malaspina, cap. 122.], nè poteano tener forte contra la potenza de' Fiorentini: il perchè dimandarono pace, e vi frappose anche i suoi autorevoli uffizii, per commissione del papa, il vescovo di Palestrina. Si conchiuse l'accordo, con restar obbligati i Sanesi [Annales Senenses, tom. 15 Rer. Ital.] a rifar le mura di Montepulciano, e furono restituiti i prigioni. Studiossi parimente il pontefice Gregorio di ridurre la concordia nella città di Verona [Paris, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.]. Per questo inviò colà Niccolò vescovo di Reggio e Tisone vescovo di Trivigi, di cui non truovo menzione presso l'Ughelli. Corrisposero amendue all'espettazione del santo Padre, coll'indurre nel dì 18 d'aprile le due fazioni [1129] contrarie, cioè la guelfa del conte Ricciardo da San Bonifazio, e la ghibellina dei Montecchi, a darsi il bacio di pace [Gerard. Maurisius, Hist., tom. 8 Rer. Ital.], e a giurare di star ai comandamenti del papa, a nome del quale misero ivi il podestà. Non piaceva un tale stato di cose ad Eccelino da Romano, e però con lettere e messi [Rolandinus, lib. 3, cap. 9.] andò sollecitando l'imperador Federigo a calare in Italia con potente esercito, promettendogli dal suo canto di gran cose. Fu eziandio creduto ch'egli in persona si portasse alla città d'Augusta ad aggiugnere sproni a chi già correva. Fu in quest'anno crudelmente ucciso nel monistero di Santo Andrea, in un dì delle Rogazioni, Guidotto da Correggio, vescovo di Mantova, dalla famiglia degli Avvocati [Monachus Patavinus, in Chron.]. Levossi per questo a rumore tutto il popolo di Mantova, distrusse le lor case e torri, e gli obbligò ad uscire di città. Si ridussero costoro a Verona da Eccelino, rifugio di tutti gli scellerati.


   
Anno di Cristo MCCXXXVI. Indiz. IX.
Gregorio IX papa 10.
Federigo II imperadore 17.

Nulla potè conchiudere papa Gregorio del progettato accomodamento delle controversie vertenti fra l'imperador Federigo e le città di Lombardia, a cagione della strettezza del tempo a lui prefisso da esso Augusto. Però si diede principio in quest'anno alle tragiche guerre e rivoluzioni che per tanto tempo dappoi afflissero questo sconvolto regno. Qual fosse allora il sistema d'Italia, conviene ora avvertirlo. Non negavano già le città confederate di riconoscere anche esse la superiorità ed autorità dell'imperadore; ma paventavano di molto un imperador tale, quale fu Federigo II. Gelosissime della lor libertà, e ricordevoli di quanto avesse operato Federigo I per abbatterla e sradicarla, non sapeano indursi [1130] a credere di poter conservarla sotto Federigo II, principe, la cui mente era grande, ma maggiore l'ambizione, e che avea ereditato i vizii dell'avolo, ma non già le virtù. Sapeano come egli scorticava i suoi sudditi di Sicilia e di Puglia; che il perdonar di cuore a chi l'avea offeso, era cosa straniera nell'animo suo; che egli prendeva le leggi del mantener la fede e parola, non mai dall'onesto, ma solamente dall'utile o dalla necessità. Però, se gli concedevano poco, temevano ch'egli vorrebbe poi tutto. Erano anche assai persuasi che sì interessato e pieno d'ambiziosi e smisurati pensieri, come era, altra mira non avesse che di ridurre l'Italia tutta sotto un obbrobrioso giogo, e di mutar la Lombardia in una nuova Puglia. Di qui venne che le città più forti, come Milano, Brescia, Mantova, Piacenza, Bologna, Padova ed altre minori determinarono piuttosto di avventurar tutto, che di sottomettersi a chi dall'essere di principe troppo facilmente passava a quel di tiranno. Non mancavano altre città che teneano per l'imperadore, come Cremona, Bergamo, Parma, Reggio, Modena ed altre. Il principal motivo di questo attaccamento era il bisogno e la speranza dell'aiuto di lui per mantenersi in libertà, dacchè le più forti città vicine tutto dì si studiavano di assorbire i lor territorii, e di assoggettarle ancora, se veniva lor fatto, al loro dominio. Che non faceano i Bolognesi contra di Modena, i Piacentini contra di Parma, i Milanesi e Bresciani contra di Cremona? Pavia umiliata dal popolo di Milano stava allora col capo chino, mostrandosi ubbidiente ed unita coi Milanesi, che le aveano date tante percosse; ma non sì tosto cessò la paura del flagello, che, cavatasi la maschera, tornò anch'essa ad abbracciare il partito di Cesare. Erano in egual pericolo, e forse in peggiore stato, gli affari del sommo pontefice. Se riusciva a Federigo di mettere il piede sul collo de' Lombardi, e di soggiogar tutta l'Italia, che scampo restava a quella sacra corte contra [1131] di un principe, il quale già avea fomentato le usurpazioni del senato e popolo romano in pregiudizio della legittima ed inveterata autorità e sovranità dei papi? Potevasi fondatamente temere, ch'egli ridurrebbe il papa a portare il piviale di bambagina, stante la disordinata sua voglia di signoreggiare; e vieppiù perch'egli era in concetto di fina politica, simulatore e dissimulator mirabile, e, quel che è peggio, di poca, se non anche di niuna, religione: del che, se è vero, sarà Iddio giudice un giorno. Allorchè papa Alessandro III tanta costanza mostrò contra di Federigo I, a lui non mancava un forte appoggio alle spalle, cioè il re di Sicilia e Puglia, della schiatta de' Normanni. Ora che Federigo II possedeva ancora quegli Stati, se cadeva a terra l'opposizion de' Lombardi, restava il romano pontefice Gregorio IX tra le forbici, ed esposto alla discrezione ossia indiscrezione d'un imperadore che avrebbe potuto tutto ciò che avesse voluto. Il perchè papa Gregorio riguardava come suo grande interesse la lega di Lombardia, ben conoscendo che essa sola potea tenere in briglia un Augusto, di cui non permettea la prudenza che alcun si fidasse. All'incontro Federigo II odiava a morte questa lega, benchè solennemente permessa ed approvata dall'avolo suo Federigo I, considerandola come ingiuriosa a' suoi sovrani diritti, e trattava da ribelli i Lombardi, declamando dappertutto, esigere il suo decoro ch'egli passasse a domarli. E perciocchè il papa, spinto dal suo zelo paterno, spediva in tutte le città, siccome abbiam veduto, i frati predicatori e minori a predicar la pace e la concordia, tutto interpretava fatto in danno suo, stante il praticarsi di far giurare i popoli di ubbidire a quanto avesse loro comandato il papa. E maggiormente si risentì egli per quello che avvenne in Piacenza nell'anno presente [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Non mancava in quella città il suo partito a Federigo, sostenuto specialmente dalla [1132] nobiltà, di cui capo era Guglielmo de Andito (oggidì quella nobil famiglia è chiamata de' Landi) con Oberto Pelavicino (oggidì Pallavicino) marchese. Ma era tutta sfasciata quella città per l'antica discordia di que' popolari con essi nobili, la maggior parte de' quali fuoruscita facea guerra dalle sue castella alla città. Trattossi in quest'anno di accordar queste fazioni, e da amendue fu fatto compromesso in Jacopo da Pecorara cardinale della Chiesa romana, con esserne dipoi seguita un'amichevol unione, ed aver egli dato per podestà a tutti Rinieri Zeno nobile veneziano. Exinde Placentini, dice la Cronica, imperatori fuerunt rebelles. Et ipse potestas fecit destrui domos dicti domini Guilielmi de Andito, el bannivit eum, et dominum Obertum Pelavicinum, et certos de populo, quia tenebant cum imperatore contra Ecclesiam. Lagnossi forte di quest'operato dal legato pontificio l'imperador Federigo con papa Gregorio, quasichè anch'egli si desse è divedere congiurato coi Lombardi contra di lui. Ciò che gli rispondesse in tal proposito il papa, si può leggere negli Annali ecclesiastici del Rinaldi [Raynald., in Annal. Eccles.]. La conchiusione si è, che ogni di più andavano crescendo le differenze del papa e di Federigo, ed ognun lavorava di politica. Arrivò il pontefice a comandargli [Cardin. de Aragon., in Vita Gregorii IX.] che non movesse l'armi contra de' Lombardi, perchè non era per anche spirata la tregua accordata per la spedizione di Terra santa: il che fece maggiormente credere a Federigo che fra il pontefice e i Lombardi vi fossero de' forti legami contra di lui; e perciò, senza badare ad altro, determinò la sua venuta in Italia con una competente armata di Tedeschi. Lasciò ordine [Godefrid. Monachus, in Chronico.] al re di Boemia e al duca di Baviera di far guerra a Federigo duca d'Austria, incolpato di varii delitti; ed essi il servirono bene. Aveva egli già spedito innanzi cinquecento cavalli e [1133] cento balestrieri, con ordine di aspettarlo a Verona, città che l'accorto Eccelino da Romano avea già ridotta all'ubbidienza sua con iscacciarne il conte Ricciardo da San Bonifazio e i suoi aderenti [Annales Veronens., tom. 8 Rer. Ital.]. Giunsero costoro nel dì 16 di maggio, e presero la guardia di Verona a nome dell'imperadore, il quale nel precedente gennaio aveva anche mandato in Italia il figliuolo Arrigo ne' ceppi [Richardus de S. Germano, in Chron.], con una buona scorta sotto il comando del marchese Lancia. Questo infelice principe condotto in Puglia, e confinato nella rocca di San Felice, e trasportato poscia a quella di Martorano, quivi nell'anno 1242, come s'ha da Riccardo da San Germano, e non già nel presente, come scrisse il Monaco Padovano [Monac. Patavinus, in Chron.], terminò fra gli affanni della carcere i suoi giorni: del che mostrò Federigo pubblicamente un sommo dolore, non so se vero o finto. Intanto il conte Ricciardo suddetto, scacciato da Verona, si impossessò della forte rocca di Garda, colla morte del presidio ivi posto da Eccelino. Per lo contrario, venne alle mani d'esso Eccelino l'importante castello di Peschiera, e inoltre gli venne fatto di espugnar quello di Bagolio. Finalmente nel dì 16 d'agosto arrivò l'imperador Federigo a Verona con tre mila cavalli, accolto a braccia aperte e con tutta riverenza dal suo fedel partigiano Eccelino e dai Ghibellini Montecchi rettori della città. Andò poscia coll'esercito a Vacaldo, e vi si fermò ben quindici giorni, concertando intanto le imprese che doveano farsi [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital. Annal. Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.]. Passato poscia il Mincio, trovò i Cremonesi, Parmigiani, Reggiani e Modenesi che colle lor milizie vennero ad incontrarlo. Rinforzata che ebbe con tali aiuti la sua armata, cominciò a scaricare i primi colpi del suo furore contra il distretto di Mantova, [1134] mettendolo a ferro e a fuoco. Prese Marcheria, e dopo il sacco la distrusse; ma poi, conoscendola sito importante pel passaggio del fiume Oglio, ordinò che tosto si rifabbricasse, e la diede in guardia ai Cremonesi. S'impadronì di Ponte Vico e d'altri luoghi, siccome ancora di Mosio sul Bresciano, al qual territorio fece similmente quanto danno potè. Anche il popolo di Gonzaga di qua dal Po si diede ai ministri d'esso imperadore. Passò egli dipoi a Cremona per consolar quella città tanto a sè fedele, e vi si fermò per alquanti giorni.

Secondo gli Annali di Milano [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.], ebbe disegno di passare anche a Pavia, città che segretamente teneva per lui; ma usciti in campagna i Milanesi gl'impedirono l'inoltrarsi. Certo è che vennero sino a Montechiaro con tutte le lor forze, e furono quasi sull'orlo di affrontarsi coll'esercito nemico di Federigo, ma infine giudicarono meglio di star sulla difesa, che di azzardarsi alle offese [Mattheus Paris, Histor. Angl.]. Che Federigo venisse anche a Parma, s'ha dagli Annali vecchi di Modena. Era per questo anno stato eletto podestà e rettore di Vicenza Azzo VII marchese d'Este, il più appassionato di tutti per la parte guelfa e per la lega di Lombardia [Gerard. Maurisius, Histor. Rolandinus, lib. 3, cap. 9. Monachus Patavinus, in Chron. Godius, in Chron.]. Mandò egli un bando che niuno osasse di nominar l'imperadore, ed avendo esso Augusto inviati a Vicenza i suoi messi con lettere, nè quelli nè queste volle ricevere. Avea il marchese, prima che calasse Federigo in Italia, tentato col conte di San Bonifazio di scacciar da Verona la parte di Eccelino; ma costui più accorto di lui, siccome già accennai, prevenne il colpo, e spinse fuori di Verona il conte coi suoi parziali. Ciò saputosi in Padova, Vicenza e Trivigi, que' popoli in armi diedero un terribil guasto alle terre e ville di Eccelino. Ora mentre l'imperadore dimorava [1135] in Cremona, minacciando i Milanesi e Piacentini, non vollero star colle mani alla cintola il marchese d'Este, i Padovani, Trivisani e Vicentini. Col maggior loro sforzo, nel dì 3 di ottobre, che Rolandino [Roland., lib. 3, cap. 9.] osservò essere stato giorno egiziaco, cioè di mal augurio, si portarono all'assedio di Rivalta, castello dei Veronesi, con fare nello stesso tempo delle scorrerie nel distretto di Verona, e guastare il paese [Annales Veronens., tom. 8 Rer. Ital.]. Eccelino uscì in campagna con quella gente che potè raunare, e per quindici dì si fermò nella villa della Tomba dall'altra parte dell'Adige, osservando i nemici che poco profitto faceano sotto Rivalta, valorosamente difesa da quel presidio. Tuttavia, veggendo il pericolo del castello, e crescer il guasto del Veronese, scrisse all'imperador caldamente dimandando soccorso. Allora Federigo, montato a cavallo, mosse la sua cavalleria con una marcia sì sforzata, che in un dì e in una notte arrivò da Cremona sin vicino al castello di San Bonifazio. Dato ivi un poco di rinfresco alla gente e ai cavalli, sollecitamente continuò il suo viaggio. L'avviso dell'improvvisa ed inaspettata venuta dell'imperadore mise tale spavento negli assediatori di Rivalta, che se ne ritirarono in fretta, con lasciar ivi parte delle tende e dell'equipaggio, e le macchine da guerra. Lo esercito imperiale venendo per la più corta, prima che arrivasse quel di Padova, giunse alle porte di Vicenza. Non avendo voluto rendersi i Vicentini alla chiamata dell'imperadore, con tal furore, e verisimilmente coll'aiuto di qualche traditore, la sua gente co' Veronesi venne all'assalto: entrati per le mura, ed aperta una porta, diedero immantinente un orrido sacco alla misera città, commettendo, senza perdonare a sesso o grado, tutte quelle crudeltà ed iniquità che in tali occasioni si possono facilmente immaginare. Entrarono in Vicenza gli imperiali nella notte avanti la festa [1136] dell'Ognisanti, e tutto il dì seguente si sfogò la lor rabbia, avarizia e libidine nell'infelice città, a cui in fine diedero fuoco.

Considerando poi Federigo che male era anche per li suoi interessi il perdere la popolazione di così nobil città, da lì a pochi giorni perdonò a tutti, rilasciò ad ognuno il possesso de' loro stabili, con ordinare ad Eccelino e al conte Gaboardo di Suevia, suo capitan generale, di trattar bene il popolo di Vicenza. Risoluta la sua partenza, racconta Antonio Godio [Antonius Godius, in Chron.] che Federigo, il qual sempre seco menava una mano di strologhi, e nulla facea senza il loro consiglio, diede ad indovinare ad uno d'essi, per qual porta egli uscirebbe la seguente mane. Il furbo strologo scrisse un biglietto, e sigillatolo pregò l'imperadore di non aprirlo, se non dappoichè fosse uscito di città. La notte Federigo fece rompere un pezzo del muro della città, e per quella breccia uscì dipoi. Aperto il biglietto, vi trovò queste parole: Il re uscirà per porta nuova. Non ci volle di più, perchè Federigo da lì innanzi si tenesse ben caro questo grande indovino. Passò poi coi suoi armati esso Augusto [Roland., lib. 3, cap. 10.] sul Padovano, facendo grave danno dovunque passava; distrusse la terra di Carturio; ed arrivato sul Trevisano, si fermò alquanti dì al luogo di Fontanella, sperando che Trivigi se gli rendesse. Ma dentro v'era per podestà Pietro Tiepolo, nobile veneziano, personaggio molto savio, che tenne in concordia il popolo, e massimamente perchè i Padovani aveano inviati dugento cavalieri in aiuto di quella città. Perciò defraudato delle sue speranze Federigo, dopo aver licenziato Eccelino, e lasciata a lui e al conte Gaboardo la maggior parte delle sue truppe, e la custodia di Verona e Vicenza, seguitò frettolosamente il suo viaggio alla volta della Germania, o perchè dubitava che vi si tramasse qualche congiura, di cui sempre incolpava il papa, oppure unicamente per [1137] atterrare il duca d'Austria, contra di cui fumava di sdegno. Nella vigilia del santo Natale di quest'anno [Gualvan. Flam., in Manip. Flor., cap. 269. Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.] Ricciardo conte di San Bonifazio, che s'era ritirato a Mantova, con quel popolo segretamente ito a Marcheria, ricuperò quella terra, con uccidervi molti Cremonesi che vi erano di guarnigione, e condurre il resto prigione a Mantova. I Padovani intanto, riflettendo all'incendio che s'andava appressando alla loro città, tuttodì erano in consiglio per cercarvi riparo, ma senza nulla conchiudere [Roland., lib. 3, cap. 11.]. Finalmente elessero sedici dei maggiori della città, con dar loro balìa per prendere quegli spedienti che si credessero più proprii. Fecero anche venire il marchese d'Este, al quale, perchè veniva considerato per la maggiore e più nobile persona della marca trivisana, nel pieno parlamento della città diedero il gonfalone, pregandolo di voler essere lo scudo della marca in quelle pericolose contingenze. Secondo gli Annali di Milano [Annales Mediol., tom. 16 Rer. Ital.], in quest'anno i Pavesi, animati dalla venuta e dalle forze di Federigo Augusto, mettendosi sotto i piedi il giuramento di fedeltà prestato ai Milanesi, si dichiararono aderenti all'imperadore, nè solamente ricusarono di distruggere il ponte di Ticino, ma uscirono ancora in armi contra dei Milanesi, i quali ben presto li misero in fuga. Galvano Fiamma e il Corio nulla dicono di questo. Abbiamo anche da Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.] che nell'anno presente Pietro Frangipane in Roma, sostenendo il partito dell'imperadore contra del papa e contra del senatore, commosse ad una gran sedizione il popolo di quella città. E intanto moltiplicavano le querele del pontefice e dell'imperadore, lamentandosi l'uno dell'altro, come s'ha dagli Annali Ecclesiastici [Raynaldus, in Annal. Eccl.]. Andarono ostilmente in quest'anno i Faentini ad [1138] infestare il territorio di Ravenna fin cinque miglia presso a quella città [Annal. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.]. Contra d'essi uscirono i Ravennati con rinforzo di gente ricevuto da Rimini, Forlì, e Bertinoro, credendosi d'ingoiare i nemici; ma ne riportarono una buona rotta, per cui restò prigioniera la maggior parte de' Forlivesi.


   
Anno di Cristo MCCXXXVII. Indizione X.
Gregorio IX papa 11.
Federigo II imperadore 18.

Gli affanni di papa Gregorio lievi non erano in questi tempi, non tanto per li danni già inferiti alla Lombardia dall'imperador Federigo, quanto per li maggiori che si conoscevano imminenti se continuava la guerra [Raynaldus, in Annal. Eccl.]. Più che mai dunque seguitò a trattar di concordia, facendone istanze a Federigo, e ordinando alle città collegate d'inviare a Mantova i loro plenipotenziarii, con isperanza che l'imperadore darebbe luogo a qualche convenevole aggiustamento [Richardus de S. Germano, in Chron.]. Spedì esso Augusto nel gennaio del presente anno alla corte pontificia il gran mastro dell'ordine teutonico, e Pietro delle Vigne, famoso suo cancelliere, e, in vece di mostrarsi inclinato ad accordo alcuno, raccomandava al papa di prestargli aiuto e favore per domare i Lombardi ribelli e ricettatori degli eretici [Godefridus Monachus, in Chron.]. Trovavasi allora Federigo in gran fasto ed auge di fortuna, perchè avea quasi ridotto agli estremi Federigo duca d'Austria (principe per altro degno di perdere tutto), con avergli portate le chiavi i cittadini della nobil città di Vienna. Gloriavasi pertanto di aver guadagnato all'imperio uno Stato che fruttava ogni anno sessanta mila marche d'argento, cioè l'Austria e la Stiria: vanti nondimeno che durarono ben poco, perchè tornato che fu l'imperadore in Italia, il duca rialzò il [1139] capo, e giunse nell'anno seguente a ricuperar tutto il perduto [Chron. Augustan. apud Freherum.]. Nella suddetta città di Vienna fece Federigo eleggere in quest'anno re de' Romani Corrado suo secondogenito. L'atto d'essa elezione ci è stato conservato da frate Francesco Pipino dell'ordine de' Predicatori [Pipinus, Chron., tom. 9 Rer. Ital.], da cui apparisce che non per anche ai soli sette elettori era riserbato il diritto dell'elezione. La città di Padova [Roland., lib. 3, cap. 11.] in questi tempi, priva di consiglio e di coraggio, non sapeva a qual partito appigliarsi. I sedici di Balìa, creati da quel consiglio, si scoprì che teneano segrete corrispondenze con Eccelino da Romano. Accortosene il podestà, ordinò bene che andassero a' confini a Venezia; ma eglino, senza passar colà, si ribellarono al comune di Padova. Nel febbraio venne a quella città per nuovo podestà Marino Badoero, che inviò tosto dugento cavalieri a Carturio, perchè corse voce che Eccelino e il conte Gaboardo aveano mira sopra Monselice [Gerardus Maurisius, Hist., tom. 8 Rer. Italic.]. Non fu falsa la nuova. Arrivò l'armata imperiale verso il fine di febbraio a Carturio, ed espugnato quel luogo, mise ne' ferri tutta quella guarnigione (e v'erano ben cento nobili padovani), e poscia, passata a Monselice, ebbe a man salva quella nobil terra. Allora fu che Eccelino e il conte Gaboardo fecero venire a Monselice Azzo VII marchese d'Este, per sapere s'egli voleva essere amico o nemico dell'imperadore. Veggendo il marchese che niun capitale potea più farsi di Padova, dove ogni di più s'aumentava il disordine, rispose che sarebbe ai servigi dell'imperadore, purchè niuna angaria s'imponesse alla sua gente nè a' suoi Stati. Ciò fatto, gl'imperiali conobbero d'avere oramai in pugno la città di Padova. Nè andò fallita la loro speranza. Trattarono coi loro corrispondenti padovani, e in [1140] fine tra per la paura dell'armi cesaree, e pel desiderio di riavere i loro prigioni, fu conchiuso in Padova di pacificamente ammettere gli uffiziali dell'imperadore. Infatti nel dì 25 di febbraio Eccelino col conte Gaboardo e con un corpo di truppe imperiali fece l'entrata in Padova, e fu osservato che quando egli arrivò alla porta, diede un bacio ad essa: il che dalla gente stolta fu interpretato in bene della città. Ne fu preso il possesso a nome dell'imperadore: il che inteso dal comune di Trivigi, si suggettò anche esso alle di lui arme vittoriose. Eccelino intanto facea lo schivo in Padova, ma niuna determinazione del consiglio valeva, se non veniva da lui approvata. Ricusò ancora l'uffizio di podestà, contentandosi di quel che più importava, cioè d'aver ottenuto da Federigo il vicariato della marca di Trivigi, ossia di Verona. E per isbrigarsi anche del conte Gaboardo, il consigliò di passare in Germania a ragguagliar l'imperadore di questi felici avvenimenti, fra' quali non è da tacere che anche Salinguerra sottomise in questo oppure nel precedente anno a' voleri dell'imperadore la città di Ferrara [Roland., lib. 4, cap. 3.]. Nè stette molto Eccelino a dar principio alla sua memorabil tirannia in Padova, con richiedere ostaggi e mandar prigioni in Puglia ed altrove coloro che gli erano sospetti, e ch'egli credeva amici del marchese d'Este, trovando continuamente pretesti per accusar esso marchese, come sprezzatore degli ordini dell'imperadore. Poi circa il principio di luglio coll'esercito de' Padovanie Veronesi andò a mettere l'assedio al castello di San Bonifazio, dove fece un gran guasto di case coi mangani e coi trabucchi; ma senza poter far di più, perchè dentro v'era Leonisio figliuolo del conte Ricciardo, a cui, benchè di tenera età, non mancò il coraggio per una gagliarda difesa. Intanto i Lombardi s'erano impadroniti del castello di Peschiera.

[1141] Passata la metà d'agosto, arrivò di nuovo in Italia l'imperador Federigo, e fece incontanente dismettere l'assedio di San Bonifazio [Annales Veronens., tom 8 Rer. Ital. Memorial. Potest. Regiens., tom. eodem.], por attendere a maggiori imprese, e specialmente perchè cominciò ad intavolarsi un trattato del suddetto conte Ricciardo e de' Mantovani con esso Augusto. Verso il fine d'agosto egli passò il fiume Mincio [Roland, lib. 4, cap. 4.], e si accampò coll'esercito a Goito, avendo seco i Padovani, Veronesi e Vicentini, due mila cavalli tedeschi e molti Trentini. Quivi si fermò alquanti giorni per unire gli altri soccorsi ch'egli aspettava. Fece venir di Puglia sette mila Saraceni arcieri. Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.] ne conta dieci mila. I Reggiani e Modenesi colle lor forze accorsero colà. Lo stesso fecero i Cremonesi e i Parmigiani coi lor carrocci [Annal. Veronens., tono. 8 Rer. Ital. Chron. Placent., tom. 9 Rer. Ital.]. Stando Federigo in quell'accampamento, a' suoi piedi si presentarono gli ambasciatori di Mantova, che si offerirono ai di lui servigi col conte Ricciardo da San Bonifazio. Gli accolse egli con volto allegro, perdonò loro le passate ingiurie ed offese, e confermò con suo diploma i privilegii e le consuetudini della loro città. Anche il marchese Azzo Estense comparve colà, e fu ben ricevuto da Federigo. Vi si portarono i cardinali legati del papa per avere udienza da lui [Richardus de S. Germano, in Chron. Card. de Aragon., in Vita Gregorii IX, P. I, tom. 3 Rer. Italic.]. Insuperbito Federigo per l'acquisto di Mantova, neppur volle ascoltarli, di modo che se ne tornarono assai scontenti di lui a Roma. Mossa dipoi la poderosa armata, entrò nel territorio di Brescia, con dare il sacco e il guasto dappertutto, e nel dì 7 di ottobre intraprese l'assedio della forte e ricca terra di Montechiaro. L'aveano i Bresciani eletta per lor antemurale; e però [1142] posto ivi un grosso e valoroso presidio, che si difese finchè potè, ma finalmente nel dì 22 del suddetto mese fece istanza di capitolare. Restò prigioniera tutta la guarnigione, e fu inviata a Cremona; ma con grave biasimo di Federigo, perciocchè, per attestato di Rolandino [Roland., lib. 4, cap. 4.] e di Jacopo Malvezzi [Malvec., Chron. Brixian., cap. 125, tom. 14 Rer. Ital.], avea loro promessa la libertà, se rendevano la terra, e non osservò loro la fede. Andò tutto l'infelice luogo a ruba, ed appresso fu consegnato alle fiamme. Nel dì 2 di novembre vennero in potere di Federigo [Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.] le castella di Gambara, Gotolengo, Prà Alboino e Pavone; di queste ancora fu fatto un falò. Passò dipoi Federigo coll'imperiale armata al castello di Pontevico con disegno di portarsi di là dal fiume Oglio, ma ritrovò l'esercito milanese [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.], rinforzato dagli Alessandrini, Vercellini e Novaresi, accampato nell'opposta riva, e risoluto di contrastargli il passaggio. In questo mentre i Bolognesi [Chron. Bononiens. tom. 18 Rer. Ital.], prevalendosi della lontananza de' Modenesi che erano iti all'oste dell'imperadore, occuparono Castel Leone, ossia Castiglione, fabbricato da essi Modenesi in faccia a Castelfranco, e talmente lo distrussero, che appena oggidì ne rimane vestigio. Nelle prigioni di Bologna furono condotti tutti i soldati che quivi si trovarono. Presero anche il ponte di Navicello, e fecero scorrerie per varie ville del Modenese. Per molti giorni stettero le due armate dell'imperadore e de' Milanesi separate dal fiume Oglio, l'una l'altra guardandosi [Annales Mediolanenses, tom. 16 Rer. Ital. Gualv. Flamma, in Manipul. Flor. Godefridus Monachus, in Chron.]. Ma o sia che per le pioggie e per gli disagi della stagione i Milanesi fossero forzati a decampare; oppure che [1143] prestassero fede ad una voce fatta spargere da Federigo, cioè che tornasse indietro l'esercito cesareo, e veramente alcuni degli ausiliarii erano stati licenziati dal campo; certo è ch'essi Milanesi si misero in viaggio per tornarsene a casa. A questo avviso Federigo ebbe maniera di passare il fiume colle sue milizie, e raggiunse nel dì 27 di novembre a Corte Nuova l'esercito nemico, che con poca disciplina facea viaggio, nè si aspettava d'avere da combattere [Matth. Paris., Hist. Anglic.]. I primi ad assalire l'oste milanese furono i Saraceni, ma ne restarono assaissimi di essi estinti sul campo. Entrato in battaglia il nerbo dell'esercito cesareo, ne seguì un asprissimo combattimento con grande strage dell'una e dell'altra parte. Finalmente piegò e prese la fuga il popolo di Milano; e allora fu che molte migliaia di essi rimasero prigioni.

Vi restò nondimeno da superare il corpo di battaglia che era alla guardia del carroccio milanese, tutta gioventù forte ed animosa, che, per quanto sforzo facessero gl'imperiali, tenne saldo il suo posto, e rispinse sempre i nemici, finchè arrivò la notte che fece fine alla battaglia. Gran gloria era, come ho già detto di sopra, il prendere il carroccio ai nemici [Memor. Potest. Regiens.]. Lo stesso Federigo conduceva anch'egli il suo, ma sul dorso d'un elefante col gonfalone in mezzo, con quattro bandiere negli angoli, ed alcuni Saraceni e cristiani ben armati in esso. Dacchè non era riuscito a Federigo di conquistar quel carro trionfale de' Milanesi, ansioso pur di questa gran lode, lasciò bensì riposar nel tempo della notte la gente sua, ma senza che si spogliassero dell'armatura, per essere pronti la seguente mane ad assalir di nuovo gli ostinati difensori del carroccio. Trovò poi, fatto giorno, che i Milanesi s'erano ritirati, lasciando il carroccio spogliato e sfasciato fra la massa dell'altre carrette, giacchè le strade fangose non aveano [1144] permesso loro di condurlo in salvo. Federigo, principe sommamente vanaglorioso sparse per tutta Italia ed Oltramonti questa sua insigne vittoria [Matth. Paris. Richardus de S. Germano, in Chron.], in cui, secondo i suoi conti, facili in tali casi ad essere alterati, e certamente diversi da quei degli storici di Milano e di Cesena, rimasero circa dieci mila Milanesi tra morti e prigioni. Fra questi ultimi si contarono moltissimi nobili di Milano, Alessandria, Novara e Vercelli; e specialmente Pietro Tiepolo, figliuolo del doge di Venezia, che era allora podestà di Milano. Questi poi con altri nobili condotto in Puglia, fu, per ordine di Federigo, fatto barbaramente e pubblicamente impiccare sulla riva del mare [Annal. Veronenses, tom. 8 Rer. Italic.]: la quale onta ed iniquità irritò sì fattamente il popolo di Venezia, che infine si dichiarò apertamente contra di lui. Inoltre perchè passava ottima intelligenza tra Federigo e il popolo romano, il quale anche nel suddetto mese di novembre gli avea spedito degli ambasciatori, mandò esso imperadore fino a Roma lo sguarnito carroccio preso ai Milanesi coll'iscrizione in versi riportata da Ricobaldo [Richobald., in Pomar., tom. 9 Rer. Ital.] e da altri, acciocchè questo gran trofeo fosse collocato nel più augusto luogo dell'Italia, cioè nel Campidoglio. E a' dì nostri s'è trovata anche memoria di questo in Roma, siccome ho io dimostrato altrove [Antiq. Ital., Dissert. XXVI.]. Passò dipoi il vittorioso Federigo a Cremona, e di là a Lodi, città che venne alla sua divozione, ed ivi celebrò il santo Natale. Godifredo Monaco [Godefridus Monachus, in Chron.] scrive che lo solennizzò in Pavia. Varie furono in quest'anno le vicende di papa Gregorio IX [Richardus de S. Germano, in Chron.]. Duravano le differenze d'esso pontefice col senato romano. Creato senatore Giovanni da Poli nel mese di maggio, insorse una sedizione contro di lui, che maggiormente si riaccese nel seguente [1145] luglio, talmente che fu deposto esso Giovanni, e sostituito in suo luogo Giovanni di Cencio: per la qual cagione si venne alle armi, e ne seguì molto sangue. Poscia nell'ottobre, essendo prevaluta la fazione pontificia contro l'imperiale in Roma, papa Gregorio fu, dopo lungo tempo di lontananza, richiamato. Con grande onore si trovò accolto dai Romani; ma siccome nulla v'era di stabile in tempi sì sconcertati, quando egli si credette in porto, si trovò, siccome prima, in tempesta, perchè non tardò quel senato a fargli provare di nuovi disgusti, massimamente col tenere aperta corrispondenza coll'imperadore [Raynald., in Annal. Eccl.]. Si aggiunse che il popolo di Viterbo, dianzi sostenuto e colmato di favori dal papa, dacchè il vide amicato co' Romani, cominciò a voltargli le spalle e ad occupare i diritti della Chiesa. Nè volendo cedere alle ammonizioni, in fine obbligò il pontefice a fulminar contro di loro le sacre censure. Erano antiche le ragioni della Chiesa romana sopra la Sardegna. In quest'anno ancora i giudici, o vogliam dire i regoli di Gallura, di Turri e d'Arborea, cioè di tre parti di quell'isola, prestarono il giuramento di fedeltà al legato di papa Gregorio IX: il che è da avvertire per quello che poscia succedette. Gli atti di questo affare si leggono nelle mie Antichità Italiane.


   
Anno di Cristo MCCXXXVIII. Indiz. XI.
Gregorio IX papa 12.
Federigo II imperadore 19.

O per la festa del Natale dell'anno precedente, o nel gennaio presente, Federigo imperadore fu in Pavia. Servì la vicinanza sua ad indurre il popolo di Vercelli a sottomettersi al di lui dominio [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.]. Trovossi egli in essa città di Vercelli nel dì 11 di febbraio. Venne anche alla divozione di lui tutto il paese da Pavia sino a Susa, e cominciò a pagargli [1146] tributo. Da tanta prosperità di Federigo mossi i Milanesi, che oramai restavano coi soli Bresciani, Piacentini e Bolognesi esposti all'ira di lui [Matth. Paris, Hist. Angl. Monach. Patavin., in Chron.], gli spedirono ambasciatori per essere rimessi in sua grazia, offerendo fedeltà e denaro, e facendo altre esibizioni, quali si giudicarono più grate a lui. Trovaronlo inesorabile; li voleva a discrezione, nè volle intendere di condizione alcuna, pieno solo d'astio e di vendetta, e dimentico affatto della clemenza, una delle virtù più luminose de' principi saggi. Vedremo bene che Dio seppe abbassare e confondere quest'orgoglioso principe, nè lasciò impunita cotanta sua superbia. Il popolo di Milano, udite sì crude risposte, ben conoscendo di che fosse capace l'animo barbarico di un tale Augusto, allora determinò di morir piuttosto colla spada alla mano, che di mettersi nelle forze, cioè nelle prigioni e sotto le mannaie di questo da lor chiamato tiranno. Inoltre, per attestato di Matteo Paris, cagione fu questo suo fiero contegno che molti popoli cominciarono a guardarlo di mal occhio, e a sospirar la sua rovina. Fece dipoi Federigo [Richardus de S. Germano, in Chron.] nella primavera una scappata in Germania, per trarre di là in Italia un buon rinforzo di soldatesche, ed ordinò al re Corrado suo figliuolo di condurle in persona di qua da' monti. Tornossene di poi a Verona nel mese d'aprile. Ebbe egli, siccome principe libidinoso e poco timoroso di Dio, in uso di tener sempre alla maniera turchesca più concubine, senza curar punto la fede maritale, e però non mancavano a lui bastardi e bastarde. Una di queste appellata Selvaggia [Annales Veronens., tom. 8 Rer. Ital.] comparve nel presente anno nel dì 22 di maggio a Verona con bella comitiva. Per maggiormente assodare nel suo servigio Eccelino da Romano, sì zelante e profittevol ministro suo, glie la diede in moglie nel dì della Pentecoste, [1147] ed egli ne celebrò con gran pompa le nozze. Ebbe ancora Federigo fra gli altri bastardi suoi figliuoli uno, a sè molto caro, che portava il nome d'Arrigo, ma che è già conosciuto nella storia con quello d'Enzio. Gli cercò egli in questo anno buona fortuna, con procurargli in moglie Adelasia, ossia Adelaide, erede in Sardegna dei due giudicati, o vogliam dire principati di Turri e Gallura [Raynaldus, in Annal. Eccles.]. Forse la Sardegna venne per tali nozze a poco a poco tutta in potere di lui. Fuor di dubbio è ch'egli ne fu creato re dal padre, il quale unì quel regno all'imperio, con gravissimi richiami nondimeno della corte romana, che lo pretendeva suo, sostenendo Federigo in contrario, ch'era di antico diritto del romano imperio, ed allegando l'obbligo suo di ricuperare il perduto. Non cessava egli intanto di ammassar gente per l'accesa voglia di soggiogar Milano e Brescia. Molti ne fece venir di Puglia. Il re Corrado suo figliuolo nel mese di luglio [Richardus de S. Germano, in Chron.] arrivò a Verona con molti principi e un fiorito esercito di Tedeschi. Fino il re d'Inghilterra suo cognato gl'inviò [Matth. Paris, Hist. Angl.] cento uomini a cavallo, tutti ben montati e guerniti, e, quel ch'è più, colla giunta di una gran somma di danaro in dono. I Reggiani [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.] vi spedirono ducento cavalieri e mille fanti. I Cremonesi con tutte le lor forze, i Bergamaschi, i Pavesi ed altri popoli concorsero ad ingrossar la cesarea armata. Era già egli passato a Goito nel dì 28 di giugno, per quivi far la massa di tutta la gente [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.]. Determinò poscia col consiglio d'Eccelino, giacchè gli restavano due ossi duri, cioè Milano e Brescia, di sbrigarsi da quello che era creduto più facile, cioè da Brescia, per la cui caduta veniva poi Milano a restar bloccato da tutte le parti. E perciò mosse [1148] l'esercito alla volta di Brescia, saccheggiando e ardendo dovunque arrivava, e nel dì 3 d'agosto strinse d'assedio quella città.

Fra i popoli d'Italia portarono sempre mai i Bresciani il vanto d'essere uomini di gran valore e costanza, e questa volta ancora ne diedero un illustre saggio. Trattavasi dell'ultimo eccidio della lor patria e di sè stessi; però, dopo aver dianzi ben provveduta la città del bisognevole, senza far caso d'oste sì sterminata, si accinsero animosamente alla difesa, risoluti, se così avesse portato il caso, di vendere almeno caro le loro vite. Fece Federigo mettere in esercizio contra della città tutte le macchine allora usate per espugnar fortezze, cioè torri di legno, mangani, manganelle, trabucchi ed altre specie di petriere. Ma di queste ancora non penuriavano i Bresciani. Per buona ventura aveano essi colto un ingegnere spagnuolo, uomo di gran perizia in fabbricar macchine da guerra, che veniva di Alemagna al servigio dell'imperadore. Scoperto il suo mestiere, ed intimatagli la morte, se non soccorreva esattamente ai bisogni della città, servì loro di tutto punto. Non ignorando Federigo l'esecrabil trovato dell'avolo suo Federigo I all'assedio di Crema, anche egli, fatti venir da Cremona i prigioni bresciani, di mano in mano lifacea legare davanti alle sue macchine, affinchè gli assediati, per pietà de' lor cittadini e parenti, non osassero di tirar contra di quelle per romperle. Non restarono per questo i Bresciani di far giocare le lor macchine, nulla badando se uccidevano i propri attinenti, purchè spezzassero le macchine nemiche, od ammazzassero chi le maneggiava. Nondimeno la Cronica di Reggio [Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.], cioè più antica della Bresciana del Malvezzi, ci assicura che niun male fecero a quei miseri lor concittadini; anzi, per rendere la pariglia all'imperadore, anch'essi attaccavano pe' piedi i prigioni cesarei fuori [1149] del palancato, esponendogli ai colpi delle macchine tedesche. Nè lasciavano i coraggiosi Bresciani di dare di quando in quando delle sortite con grave danno del campo imperiale. Massimamente nella notte del dì 9 d'ottobre, allorchè men se l'aspettavano i Tedeschi, s'inoltrarono tanto ferendo ed uccidendo, che lo stesso imperadore corse pericolo di restar preso. Durò questo assedio due mesi e sei giorni. Scorgendo finalmente Federigo ch'egli gittava il tempo e le fatiche, dopo aver dato il fuoco a tutte le sue macchine, si ritirò coll'armata a Cremona: avvenimento, che, quanto fu di gloria al popolo bresciano, altrettanto riuscì di vergogna all'imperadore, il cui credito cominciò a calare per questo. Secondo le Croniche di Milano [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital. Gualvaneus Flamma, in Manip. Flor.], si fecero nel presente anno i Milanesi rendere conto dai Pavesi della fede rotta con darsi all'imperadore. Uscirono con grandi forze addosso al territorio, guastando e bruciando; di maniera che il comune di Pavia implorò misericordia, e tornò a giurar fedeltà a quel di Milano. Non ci resta alcuna storia antica di Pavia che possa assicurarci di questo fatto. Nè ciò s'accorda con quello che fra poco dirò. Rivolsero poscia i Milanesi i loro sdegni e l'armi contra al distretto di Bergamo, dove diedero un terribil guasto. Non lasciarono di recar quel soccorso che poterono a Brescia. Anche i Piacentini [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] inviarono mille de' lor cavalieri in aiuto de' Milanesi, e nel distretto di Lodi presero il castello d'Orio, che appresso fu distrutto. Quivi succedette una battaglia svantaggiosa ad esso popolo di Piacenza. Forse è quella che viene accennata da Alberico Monaco [Alberic. Monachus, in Chron.], con dire che Guglielmo eletto vescovo di Valenza, e poi di Liegi, trovandosi di presidio in Cremona per parte dell'imperadore, co' suoi Borgognoni diede una sconfitta ai Piacentini, [1150] con ucciderne molti, e farne prigioni più di mille. In questo medesimo anno, se pure non fu nel seguente, i Pavesi colle lor milizie, e con quelle di Vercelli, Novara, Tortona ed Asti, e col marchese Lancia, vennero per terra ed acqua al Ponte Nuovo, fabbricato da' Piacentini, per distruggerlo; nel qual tempo anche i Cremonesi co' Bergamaschi si portarono a Lodi, affine, credo io, d'impedire il passo ai Milanesi. Per quanto sforzo facessero que' collegati contra d'esso ponte, avendo anche spinto barche incendiarie alla volta d'esso, a nulla servì, perciocchè i Piacentini con altre barche presero que' brulotti, e ne schivarono il danno: sicchè colle mani vote se ne tornarono i lor nemici a casa. Eransi già accorti i Padovani [Roland., lib. 4, cap. 5. Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.] che il lupo era venuto alla guardia delle pecore. Eccelino ogni dì facea delle novità, imprigionando or questo or quello, e principalmente gli amici di Azzo VII, marchese d'Este. Perciò tutti i buoni cominciarono a spronar lo stesso marchese che volesse torre di mano ad Eccelino quella città, promettendo di dargli l'entrata per la porta delle Torreselle. Al marchese non fu discaro l'avviso, trovandosi anch'egli maltrattato nei suoi Stati da Eccelino.

Fatto dunque segretamente il preparamento convenevole di gente tanto dei suoi sudditi, quanto dei fuorusciti Padovani, e degli altri suoi amici, nel dì 13 di luglio (Rolandino, forse persuaso di queste inezie, avverte che era giorno egiziaco) all'improvviso arrivò al Prato della valle ne' borghi di Padova, credendo che gli sarebbe, secondo il concerto, aperta la porta. Gran rumore tosto si alzò nella città alla di lui comparsa; tutte le porte furono chiuse, ed Eccelino comandò che tutto il popolo fosse in armi. Intanto le milizie estensi faceano ogni sforzo per atterrar la porta delle Torreselle; ma più possa mostravano que' di dentro a difenderla. Avvisato il marchese [1151] da alcuni, che occultamente uscirono di città, qualmente fallita la speranza di corrispondenti nella città, meglio era il retrocedere, e che in essa si dava campana a martello contra di lui, non volle muoversi, e seguitò ad animare la gente all'assalto. Intanto Eccelino co' suoi Tedeschi e col popolo armato venne fuori della città ad assalire i nemici. Non vi fu bisogno di menar le mani. La gente del marchese, senza poterla ritenere, diede tosto alle gambe. Beato chi le avea migliori. Altro partito allora non seppe prendere il marchese, che di raccomandarsi al suo cavallo, il quale bravamente il cavò fuori di pericolo. Molti vi restarono presi, e fra gli altri Jacopo da Carrara, uno de' principali fuorusciti di Padova. Se volle liberarsi, gli convenne cedere il suo castello di Carrara al comune di Padova, ossia ad Eccelino, e riacquistò la sua grazia. Imparò da questa mala condotta, oppure disgrazia, il marchese di Este ad andare più cauto in avvenire. Ma Eccelino, tornato trionfalmente in Padova, ebbe il contento di udire da lì innanzi la gente, chi per timore, chi per adulazione, trattar lui col nome di signore. Per vendicarsi poi del marchese, raunò l'esercito, volendo procedere contra la nobil terra d'Este. Avvertitone dagli amici, esso marchese si ritirò alla sua terra di Rovigo, lasciando tutto in pianti il popolo d'Este. Venne poi Eccelino nel dì 22 di luglio. Se gli arrendè pacificamente la terra senza che ne patissero gli abitanti. Da lì ad alquanti giorni anche la rocca ossia il castello capitolò, e quivi pose in guarnigione un corpo di Saraceni e di Padovani. Colla speranza d'avere a sì buon mercato anche Montagnana, terra del marchese, di non minor popolazione che quella di alcune città, passò colà coll'armata, e vi chiamò anche la milizia di Verona, in cui più confidava che in altri. Virilmente si difesero quegli abitanti, e gli bruciarono anche di bel mezzo giorno il Bilfredo, cioè una torre di legno fatta fabbricare da lui. Sotto v'era egli stesso [1152] in quel punto; ma, avvertito, scampò. Gli convenne dunque levar l'assedio; e natogli sospetto che Jacopo da Carrara e l'avvocato di Padova avessero tenuta intelligenza co' nemici, ordinò loro di presentarsi al podestà di Padova: il che allegramente risposero amendue di fare. Ma dacchè si videro in libertà, fuggirono ad Anguillara, che tuttavia teneva la parte del marchese, ed era di Jacopino Pappa-fava, figliuolo di Albertino da Carrara, cioè d'un fratello d'esso Jacopo. Nel mese poi d'agosto il marchese Azzo, tornato ad Este, ricuperò quella terra, ma non già il castello. Ed Eccelino scrisse contra di lui all'imperadore, esortandolo a menar le sue forze addosso a questo principe suo gran nemico, con aggiugnere [Roland., lib. 4, cap. 7.]: Feriendus est serpens in capite, ut corpus facilius devincatur. La risposta di Federigo, data nel dì 21 di dicembre dell'anno presente, vien riferita da Rolandino. In essa egli si maraviglia, come avendo il marchese Azzo (da noi chiamato il Sesto) a' suoi tempi tanto operato in aiuto suo, di maniera che si potè nominar suo balio ed aio, ora il di lui figliuolo Azzo degeneri sì sconciamente dalle azioni del padre, con promettere poi ad Eccelino la sua venula in quelle parti verso il fine del gennaio seguente. Ribellaronsi in questo anno ai Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.] i popoli di Savona, Albenga, Porto Maurizio e Ventimiglia; e però convenne far guerra contra di loro. Comparvero a Genova due ambasciatori dell'imperador Federigo, che fecero istanza del giuramento di fedeltà. La risposta de' Genovesi fu che invierebbono alla corte d'esso Augusto i loro ambasciatori, siccome fecero in effetto, dappoichè videro ritornata Ventimiglia in loro potere. Prestato che questi ebbero il giuramento di fedeltà a Federigo, se ne tornarono a casa. Quando ecco sopraggiunsero a Genova due altri ambasciatori del medesimo Augusto, che [1153] presentarono lettere contenenti, come l'imperadore chiedeva giuramento di fedeltà e di dominio. Furono esse lette in un pieno parlamento del popolo, in cui gran rumore fu fatto all'udir quella parola dominio. Il podestà che era Paolo da Soresina, nobile milanese, prese il tempo, e spiegò con bolla descrizione gli aspri trattamenti (e diceva ben la verità) che faceva Federigo dei suoi sudditi in Sicilia e Puglia, e degli altri luoghi dov'egli comandava. Di più non occorse. Gli ambasciatori furono mandati in pace, e i Genovesi intavolarono tosto un trattato con papa Gregorio IX e coi Veneziani contra dell'imperadore, che fu senza gran fatica conchiuso nella corte pontificia. Allora il pontefice prese sotto la sua protezione Venezia e Genova. Faenza fu occupata nel dì 5 di luglio in quest'anno da Acarisio [Chron. Caesen., tom. 14 Re. Ital.]. A lui dopo un mese fu ritolta da Paolo Traversara potente Ravennate. Ma venula l'armata de' Bolognesi cacciò lui fuori con istrage non lieve de' suoi, e difese anche la medesima città contro gli sforzi del conte Aghinolfo di Modigliana, con farlo prigione, e mettere in fuga quei del suo partito. Ciò accadde nell'anno seguente, secondo altre Croniche. Scrive il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 18.], avere Federigo imperadore, nello stesso tempo che assediò Brescia, con un'altra parte della sua grande armata fatto l'assedio d'Alessandria, e che questa venne in suo potere. Non ne truovo io parola ne' vecchi storici, anzi veggo in contrario una lettera di papa Gregorio [Raynald., in Annal. Eccles., num. 20 ad ann. 1240.] scritta nel 1240, nel dì 10 di maggio, agli Alessandrini, coi quali si rallegra della lor costanza nella divozion verso la Chiesa contro gli attentati di Federigo. Ma nello stesso 1240, siccome vedremo, si suggellarono poi ad esso imperadore.

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Anno di Cristo MCCXXXIX. Indizione XII.
Gregorio IX papa 13.
Federigo II imperadore 20.

Crescevano di dì in dì i motivi per li quali era papa Gregorio scontento dell'imperador Federigo. Gli spedì egli più lettere ed ambasciate, affinchè si correggesse [Raynaldus, in Annal. ad hunc annum.]; il citò ancora; ma vedendo che le parole, preghiere e minaccie erano gettate al vento, rotta la pazienza, venne finalmente ai fatti. O la continuazion della guerra ch'egli faceva ai Lombardi, per la conservazion de' quali era forte impegnato il papa, ovvero l'occupazion della Sardegna, pretesa dalla Chiesa romana come incontrastabil suo diritto, oppure i segreti maneggi di lui per incitare i Romani alla ribellione contra di esso papa legittimo lor sovrano, furono, a mio credere, gl'impulsi più efficaci perchè il pontefice Gregorio fulminasse pubblicamente nel dì delle Palme la scomunica contra di Federigo II, ed assolvesse i sudditi di lui dal giuramento di fedeltà. Altri non pochi reati d'esso imperadore vengono espressi nella bolla di essa scomunica, che si legge nella Storia di Matteo Paris [Matth. Paris, Hist. Anglic.], e presso il Rinaldi ed altri autori. Confermò dipoi papa Gregorio nel Laterano queste censure nel giovedì santo seguente, nè lasciò indietro cosa alcuna per iscreditare e rendere odioso Federigo con tacciarlo insino di pubblico ateista. Diede nelle smanie l'imperadore all'avviso di tal novità; e, fatto stendere da Pietro delle Vigne un manifesto in sua giustificazione, lo spedì a tutte le corti della cristianità, con dolersi acerbamente del papa, e caricarlo di varie ingiustizie, ch'egli pretendea fatte a sè stesso e ad altri. Passò a fiere minaccie contra del medesimo e de' cardinali, con altre scene e querele descritte dal Rinaldi negli Annali Ecclesiastici, e più diffusamente rapportate da Matteo [1155] Paris. Scacciò poscia dal regno di Sicilia e di Puglia i frati predicatori e minori non nativi del paese; occupò l'insigne monistero di Monte Casino [Richardus de S. Germano, in Chron.]; richiamò da Roma tutti i suoi sudditi; impose nuove taglie e contribuzioni agli ecclesiastici: tutto per far onta e dispetto al pontefice, e tutto in varii tempi dell'anno presente. Lodovico IX re di Francia, che fu poi santo, per attestato di Alberico Monaco [Albericus Monachus, in Chron.], inviò i suoi ambasciatori a Roma per mitigar l'animo del papa verso di Federigo; ma il pontefice, uomo di petto forte, nulla si mosse per questo. E neppur volle ascoltare due vescovi inviati a Roma da Federigo. Anzi fece predicar la crociata contra di lui. Vegniamo allo storico Rolandino [Roland., Chron., lib. 4, cap. 9.], da cui abbiamo gli andamenti d'esso Federigo Augusto. Portossi egli sul fine di gennaio con sontuoso accompagnamento di milizie e di nobiltà a Padova. L'incontro magnifico fattogli da tutto il popolo di quella città gli fu cagione di non poco piacere e insieme di maraviglia. Circa due mesi si fermò egli nell'insigne monistero di Santa Giustina, ben corteggiato da Eccelino, divertendosi alla caccia e in far buone passeggiate. Seco era l'imperadrice, che amava piuttosto d'esser chiamata regina. Portossi anche alla visita di Monselice, e vi ordinò alcune fortificazioni. Stando nell'alto di quel monte vagheggiò più volte il bell'aspetto delle terre e castella del marchese di Este, sparse per la ricca sottoposta pianura, e conobbe la di lui potenza. Fece anche venir lo stesso marchese con salvo condotto alla corte, e tenne con lui un segreto colloquio. Era ben contento il popolo di Padova del buon volto e delle carezze dell'imperadore, e dappertutto si mirava allegrezza, e massimamente nel dì di Pasqua, in cui Federigo comparve colla corona in capo. Ma fra pochi giorni così bel sereno si cambiò in un [1156] melanconico nuvolo, perchè giunsero le nuove ch'egli era stato scomunicato dal papa. Fece ben Federigo in un gran parlamento esporre da Pietro delle Vigne, uomo dottissimo in questi tempi, le ragioni per le quali teneva per ingiuste e nulle quelle censure: tuttavia nel popolo restò non poco di confusione, e in lui cominciarono a crescere e a lacerarlo le diffidenze e i sospetti. Perciò, fatto venire a Padova Azzo marchese d'Este con tutti coloro che aderivano al di lui partito, gli affidò; e intanto l'iniquo Eccelino mise delle spie per sapere chi dei Padovani trattava col marchese, e tutti i lor nomi ebbe in iscritto. Di frequenti segreti consigli si faceano in Santa Giustina. Non bastò a Federigo d'aver messe guardie in tutte le castella d'esso marchese; volle anche per ostaggio il principe Rinaldo di lui figliuolo, e con belle parole il mandò a stare in Puglia insieme con Adelasia figliuola di Alberico da Romano, con cui Rinaldo avea contratto gli sponsali. Per non poter di meno, il marchese accomodò la sua pazienza a queste avanie, che si stesero appresso ad assaissimi nobili de' principali di Padova suoi amici, i quali chi ad un luogo, chi ad un altro furono mandati a' confini: consigli tutti del maligno Eccelino, nemico dichiarato del marchese.

Ma poco stette Federigo, la cui fortuna già si scopriva retrograda, a provar gli effetti della sua politica troppo tirannica. Era egli dianzi stato a Trivigi, ben accolto ed onorato da quel popolo. Alberico da Romano, fratello d'Eccelino, irritato contra di lui pel cattivo trattamento da lui fatto a sua figliuola Adelasia, e a Rinaldo Estense suo genero, subito che intese come l'imperadore s'era messo in cammino verso la Lombardia, unitosi con Biachino e Guezzelo da Camino, occupò la città di Trivigi, con farvi prigioni tutti gli ufiziali e soldati postivi dall'imperadore, a riserva di Jacopo da Morra Pugliese podestà, che ebbe la [1157] buona sorte di fuggirsene. Probabilmente Alberico non fece un passo sì ardito senza consiglio ed intelligenza de' vicini Veneziani. A questo avviso, Federigo, battendo i denti se ne tornò a Padova, e tosto ordinò un grande esercito contra di Trivigi. Nel mese di maggio, dopo aver fatto prendere l'oroscopo a mastro Teodoro suo strologo sulla torre del comune di Padova, mosse l'armata, e andò ad accamparsi intorno a Castelfranco, dove citò i Trivisani a rendersi nel termine di otto giorni. Passato il tempo prefisso senza che venissero a' suoi piedi, fece una donazione al comune di Padova della città di Trivigi con un privilegio munito di un bel sigillone d'oro. In quello stesso giorno andando il marchese d'Este Azzo VII al campo con cento cavalieri, si incontrò in Eccelino, che con circa venti de' suoi veniva a Cittadella. Portavano amendue l'aquila nelle loro bandiere. Vi fu chi crede che quivi avesse a succedere qualche scena fra questi due rivali. Ma avendo il marchese mandato innanzi a pregar cortesemente Eccelino di ritirarsi alla diritta o alla sinistra, egli si ritirò, e non ne fu altro. Essendo poi accaduto nel dì 3 di giugno una grande ecclissi del sole, che durò per due ore, Federigo, benchè ne sapesse la cagione, pure se ne mostrò turbato, e determinò di ritirarsi da Castelfranco per andare in Lombardia; e dopo aver tenuto un colloquio col marchese d'Este, con Eccelino ed altri de' principali della marca trivisana, si mise in viaggio co' suoi Tedeschi e Pugliesi, de' quali maggiormente si fidava. Allorchè pervenne nelle vicinanze del castello di San Bonifazio, dicono che il marchese fu avvertito con cenni da un cortigiano dell'imperadore, amico suo, come si trattava di fargli tagliare il capo. Bastò questo al marchese perchè co' suoi aderenti si mettesse in salvo nel suddetto castello, e quantunque Federigo gli spedisse Pietro dalle Vigne per affidarlo con mille belle promesse, il marchese non si sentì più voglia di dimorar presso d'un [1158] principe che punto non si piccava di mantener la parola, e tanto più perchè prevaleva nel suo consiglio il furbo e nemico suo Eccelino. Passato che fu lo imperadore in Lombardia [Rolandinus, lib. 4, cap. 14.], il marchese d'Este, messa la sua speranza in Dio, e raunato un buon esercito, coraggiosamente nel mese d'agosto andò ad Este. Ricuperò la terra senza fatica; quella rocca e il castello di Baone a forza di armi; quello di Lucio colla fame; l'altro di Calaone col terror de' trabucchi. Assediò dipoi Cerro, dove era un presidio di Saraceni; venne Eccelino per soccorrerlo, ma non si attentò; e però tornò alle mani del marchese, il quale non permise che fosse fatto insulto alcuno a quegli infedeli. Queste sue prosperità tornarono in danno di molti Padovani suoi amici, o creduti tali, perchè Eccelino crudelmente li levò dal mondo.

Nel luglio dell'anno presente tolta fu Ravenna all'imperadore da Paolo Traversara [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.] coll'aiuto de' Bolognesi e Veneziani, che poi la rinforzarono [Richardus de S. Germano, in Chron.]. Per questa cagione l'imperador Federigo col re Enzio suo figliuolo naturale venne verso il Bolognese, ed imprese coi Modenesi, Reggiani, Parmigiani e Cremonesi l'assedio del castello di Piumazzo, intorno a cui consumò gran tempo. L'ebbe infine per forza, e lo distrusse col fuoco, facendovi prigioni cinquecento persone. Di là passò ad assediar Crevalcuore, e avutolo con grande stento, del pari lo atterrò. Il vedere un sì glorioso imperadore perdersi dietro a tali bicocche [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.], e l'impadronirsene anche con somma difficoltà, gli accrebbe il discredito; e massimamente perchè nello stesso tempo i Bolognesi [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] vennero fin vicino a Modena, e vi bruciarono il borgo di San Pietro. Presero anche i Modenesi [Annal. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.] il castello di Marano di Campiglio, e Monte [1159] Tortore nel Frignano. Dopo sì segnalate imprese Federigo, che tenea delle segrete corrispondenze con molti nobili milanesi [Annales Mediol., tom. 16 Rer. Ital.], rivolse l'armi sue a quella volta. Passò per Merignano, Landriano e Bascapè sino alla Pieve di Locate [Gualvan. Flamma, in Manipul. Flor.], saccheggiando e bruciando il paese. Fu disputa in Milano, se si avea da uscire in campagna, oppur da aspettare in città il nemico. Ma prevalse il parere di Gregorio da Montelungo legato pontificio, che fece armare anche cherici e frati; e però venne l'esercito milanese a postarsi a Camporgnano contra di quello di Federigo. Una parte de' nobili passò nel campo dell'imperadore; altrettanto fecero i Comaschi. Ciò non ostante, se s'ha da credere a Galvano dalla Fiamma, l'armata milanese stette a fronte del nemico, rovesciò varie acque addosso al campo imperiale, ed anche in un combattimento prese il carroccio de' Cremonesi, e mise quel popolo e i Pavesi in rotta. I Piacentini anch'essi dal canto loro respinsero gli sforzi dei cesarei. Chiaritosi Federigo che non facea buon vento in quelle parti, se ne venne in Toscana [Richardus de S. Germano, in Chron.]; fu ben ricevuto dai Lucchesi, e in Pisa celebrò la festa del santo Natale. Aveva egli spedito il figliuolo Arrigo, ossia Enzo re di Sardegna nella Marca d'Ancona, acciocchè incominciasse a far guerra al papa [Card. de Aragon., in Vit. Greg. IX, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Non tardò egli a farvi delle conquiste nel mese d'ottobre. Contra di lui ebbe ordine Giovanni dalla Colonna cardinale di portarsi colla gente che potè adunare. E il pontefice Gregorio IX, dacchè fu ritornato a Roma dalla villeggiatura d'Anagni, ben ricevuto dal popolo, dopo aver nell'ottava di san Martino confermata la scomunica contra di Federigo, alla medesima censura sottomise il suddetto re Enzo con tutti i suoi [1160] aderenti per l'invasione fatta nella marca anconitana, spettante alla Chiesa romana. Dappoichè l'imperador Federigo [Chron. Bononiense, tom. 16 Rer. Ital. Annales Veter. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.] si fu ritirato dal distretto di Bologna, quel popolo con tutte le sue forze si portò all'assedio di Vignola, forte castello del distretto di Modena; e già con briccole, mangani, gatti ed altre militari macchine aveano atterrata buona parte del muro; quando nel dì 4 d'ottobre sopraggiunsero i Modenesi, Ferraresi e Parmigiani con Simone conte di Chieti Pugliese, e diedero battaglia. Fu sanguinosa e dura, ma infine voltarono le spalle i Bolognesi, ed, oltre ad assaissimi o morti o annegati nel fiume Scultenna, ne restarono, secondo la Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], circa due mila e secento prigioni. Minor numero si legge ne' vecchi Annali di Modena. Strinsero in quest'anno i Veneziani [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] una forte lega con papa Gregorio ad oggetto di torre, se veniva lor fatto, la Sicilia a Federigo, con obbligarsi al mantenimento di una buona squadra di galee. Non solamente per l'indegna morte del figliuolo del doge Tiepolo erano disgustati i Veneziani dell'imperadore, ma eziandio perchè avea tolte loro quattordici galee, e quattro navi cariche di merci e di frumento, che venivano dalla Puglia nella marca d'Ancona. O per guadagnare, o per tener più unito al suo partito Bonifazio marchese di Monferrato, Federigo Augusto gli fece una cessione di molte sue ragioni e pretensioni, e gli confermò alcune castella con diploma dato nel campo presso Pizzighettone nel dì ultimo d'agosto dell'anno presente, che disteso si legge nella Storia del Monferrato [Benvenuto da San Giorgio, Storia del Monferrato.].

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Anno di Cristo MCCXL. Indizione XIII.
Gregorio IX papa 14.
Federigo II imperadore 21.

Trovossi in gravissime angustie nell'anno presente il pontefice Gregorio per la prepotenza di Federigo, principe ansante di vendetta contra di chi avea separato lui dalla comunion de' fedeli, e renduti pubblici per la cristianità i suoi reati. Mentre era esso Federigo in Toscana nel verno, per quanto potè, ravvivò ed esaltò dappertutto il partito de' ghibellini, in guisa che pochi erano que' luoghi, ne' quali dove più e dove meno non fosse la fazione sua. Non si vollero già a lui sottomettere i Fiorentini [Vita Greg. IX, P. I, tom. 3 Rer. Ital. Ptolom. Lucensis, Annal. brev.], ma per lui furono i Pisani e i Lucchesi, i quali nel presente anno insieme col marchese Oberto Pelavicino occuparono la Garfagnana. Gli giurarono fedeltà anche i Sanesi, sperando coll'aiuto suo di mantenersi contro la potenza di Firenze. Similmente gli Aretini se gli diedero, perchè travagliati dal possente comune di Perugia, che non potè mai indursi a chinare il capo all'imperadore, e tenne saldo per la Chiesa. Altrettanto avvenne nella marca d'Ancona. Quivi al re Enzo si diedero alcune città, e massimamente Osimo. Nel mese di febbraio entrato Federigo nel ducato di Spoleti, Foligno il ricevette a braccia aperte con altre terre. Ebbe anche Spello [Richardus de S. Germano, in Chron.], Orla, Città Castellana, Corneto, Sutri, Montefiascone e Toscanella. Ma ciò che più afflisse la corte pontificia, fu che l'ingrato popolo di Viterbo si gettò nelle braccia di Federigo in odio de' Romani suoi antichi nemici. Allora fu che il pontefice, sorpreso da sommi affanni, si sarebbe forse abbandonato, se Dio non l'avesse provveduto di un raro coraggio. Vedevasi già Roma attorniata dalle forze di Federigo al di fuori, al di dentro i nobili e il popolo niuna [1162] disposizione mostravano a sostener le fatiche della guerra e della difesa, perchè non mancava a Federigo in essa città il suo partito, guadagnato a forza di regali, di danaro e di promesse. Pertanto papa Gregorio, rivolte tutte le sue speranze a Dio, prese lo spediente d'intimare una general precessione, in cui portò le sacre teste de' santi apostoli Pietro e Paolo, e predicò la crociata contra di Federigo imperadore nemico della Chiesa. Tal compunzione mosse questo pio spettacolo nel popolo romano, che la maggior parte non solo de' laici, ma anche degli ecclesiastici prese la croce e l'armi in difesa del papa e di Roma. Ma guai a que' crocesignati tali che capitarono poi nelle mani di Federigo. Niun d'essi andò esente, dopo varii tormenti, dalla morte. Perduta la speranza di ottenere l'intento suo sotto Roma, Federigo nel mese di marzo passò in Puglia, ed attese a far gente e a smugnere le borse de' suoi sudditi, ma principalmente quelle degli ecclesiastici. Non mancava intanto il papa di muover anche egli e cielo e terra contra di lui: tanto erano esacerbati gli animi dall'una e dall'altre parte. Trattò in Germania, si maneggiò in Francia e in Ispagna, per far eleggere un nuovo imperadore; ma n'ebbe delle risposte di poco suo gusto. Fece raccogliere da' suoi legati in Francia ed Inghilterra grossissime somme di danaro dalle chiese, e in altre guise, che gli servirono non poco in questi bisogni, e sollecitò quanti popoli e principi potè per istaccarli dal partito di Federigo, ed attaccarli al suo. Fra gli altri mosse per mezzo, di Gregorio da Montelungo suo legato i Lombardi, i Bolognesi, i Veneziani e il marchese di Este a formar l'assedio di Ferrara. Vi intervenne in persona Jacopo Tiepolo doge di Venezia e il suddetto marchese, a cui piucchè agli altri premeva tal conquista [Roland., lib. 5. cap. 1. Monachus Palavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital. Annal. Veronens. et alii.]. Inoltre i Mantovani, che si [1163] erano già sottratti all'ubbidienza di Federigo, col conte Ricciardo da San Bonifazio vi concorsero, e vennevi anche Alberico da Romano coi signori di Camino. Durò l'assedio dal principio di febbraio sino al fine di maggio, oppur sino al dì 3 di giugno. Nè apparenza v'era di forzar quella città alla resa. Si ricorse al ripiego di guadagnar con danari Ugo de' Ramberti ed altri potenti di Ferrara, che dissero di voler pace. Si fecero di bei patti, e Salinguerra venne al campo de' collegati per confermarli; nientedimeno, secondo che narra Ricobaldo [Richobald., in Pomar., tom. 9 Rer. Ital.], egli fu attrappolato dal legato pontificio, che era solamente notaio, uomo di grande attività, ma di larga coscienza. Detestò, per attestato d'esso Ricobaldo, questa frode il marchese d'Este, allegando l'onore e il giuramento, cui legatus persuasit, ut calcato honesto et juramento, amplecteretur, quod utile sibi foret, ut scilicet urbe potiretur, illo escluso. Così Salinguerra, già ottuagenario, fu condotto prigione a Venezia, dove civilmente trattato finì i suoi giorni in santa pace; e la casa d'Este dopo tanti anni rientrò in Ferrara, e maggiormente vi si stabilì andando innanzi. Per ordine del papa, ad esso marchese Azzo fu in questo medesimo anno consegnata Argenta, terra che gareggiava colle città.

Fece l'imperador Federigo nel mese di maggio dare da' suoi un terribil guasto al territorio pontificio di Benevento [Richardus de S. German., in Chron.]. Poscia nel seguente agosto ne ordinò anche l'assedio; ma quel popolo con vigorosa resistenza gli fece conoscere l'illibata sua fedeltà verso la Chiesa romana. Mossesi poi nell'agosto suddetto con poderosa armata Federigo da Capoa, e il suo disegno era d'entrare nella Campania romana; ma, o sia che vi trovasse più opposizione di quel che credeva, oppure che fosse consigliato a ripigliar piuttosto de' paesi che si potessero pretendere spettanti all'imperio: [1164] certo è che sen venne a Ravenna [Rubeus, Hist. Raven., lib. 6. Paris de Cereta, Annal. Veron. Richardus de S. Germano.], dove essendo mancato di vita Paolo da Traversara capo de' Guelfi, facile riuscì a lui dopo un breve assedio di rimetterla nel dì 22 d'agosto sotto la sua ubbidienza. Di là passò all'assedio di Faenza, città che vigorosamente si tenne per alquanti mesi. Inviarono i Veneziani nei settembre di quest'anno uno stuolo di galee in Puglia, che diede il guasto a Termoli, al Vasto e ad altre terre di quelle spiagge, con riportarne un ricco bottino. E nel novembre, per ordine di Federigo, furono scacciati dai regno tutti i frati predicatori e minori, a riserva di due nativi del paese per ciascun convento. Il podestà imperiale di Padova [Annales Veronens., tom. 8 Rerum. Ital. Roland., lib. 5, cap. 3.] ebbe in quest'anno battaglia con Azzo VII marchese d'Este presso il Ponte Rosso, e riuscì vantaggiosa per lui, con aver fatti prigioni molti soldati d'esso marchese, fra' quali alcuni nobili. Per lo contrario, nel dì 16 di maggio il podestà di Verona con tutta la cavalleria e fanteria di quella città andò verso la Badia, terra del suddetto marchese Azzo, con intenzione di dar soccorso al castello di Gaibo assediato da esso marchese. Ma vergognosamente presero dipoi essi Veronesi la fuga, e quivi lasciarono tutte le lor barche e carra. Vennero allora alle mani del marchese le castella di Gaibo e della Fratta che per ordine suo furono distrutte. Anche i Mantovani fecero oste contra de' Veronesi, e, giunti a Trevenzolo, s'azzuffarono con essi, ma con riportarne la peggio. Vi restò morto fra gli altri il loro podestà, che era Gherardo Rangone da Modena, e il lor capitano Bocca d'asino con assaissimi altri Mantovani fu condotto ne' ceppi a Verona. Gli Alessandrini, stati fin qui uniti colla lega lombarda, si diedero nell'anno presente all'imperadore, con ricevere per loro governatore il marchese Manfredi [1165] Lancia [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.]. Questi poi da un lato e il marchese Oberto Pelavicino, vicario dell'imperadore in Lunigiana, da un altro ostilmente entrarono nel Genovesato. Inviarono i Milanesi e i Piacentini dei soccorsi a Genova, il cui popolo virilmente accorse ai bisogni, e fece retrocedere i nemici. Savona ed Albenga persistendo nella ribellione, ebbero un gran gran guasto da essi Genovesi.


   
Anno di Cristo MCCXLI. Indizione XIV.
Gregorio IX papa 15.
Celestino IV papa 1.
Federigo II imperadore 22.

Ostinatamente continuò l'imperador Federigo per tutto il verno l'assedio di Faenza [Ricordano Malaspina, cap. 130.]; e perciocchè gli era mancato il danaro da pagar le truppe, impegnò le sue gioie e vasellamenti d'oro e d'argento. Nè ciò bastando, ricorse al ripiego di far battere moneta di cuoio, facendola prendere come moneta buona, con promessa di pagarne il valore a chi la riportasse al suo tesoriere: siccome poi fece, con cambiarla in agostari d'oro, moneta da lui battuta, cadaun de' quali valeva un fiorino d'oro e un quarto. Finalmente nel dì 14, oppure nel dì 15 d'aprile dell'anno presente, per maneggio di Rinieri conte di Cunio, quella città capitolò la resa, salve le persone e robe. Tenuto fu gran cosa che questo inesorabile imperadore dopo tanta resistenza perdonasse a que' cittadini. Anche Cesena piegò il capo ai voleri d'esso Augusto [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital. Matth. Paris, Hist. Angl.]; e quel popolo gli consegnò il castello nuovo della città, ch'egli fece diroccar tutto, per farvi una fortezza di pianta secondo il gusto suo. Nello stesso mese d'aprile [Richardus de S. Germano, in Chron.] dopo avere la città di Benevento, città pontificia, anch'essa sofferto un lungo assedio, fu infine forzata a rendersi [1166] all'armi d'esso imperadore. Ne fece egli spianare da' fondamenti le mura, abbassar le torri, e spogliò di tutte le lor armi que' cittadini: colpo che sommamente afflisse la corte romana. Nè di minor molestia fu l'essersi nel gennaio di quest'anno il cardinal Giovanni dalla Colonna, per differenze insorte fra il papa e lui, gittato nel partito dell'imperadore, con aver poscia afforzata in Roma una sua fortezza appellata l'Agosta ossia Lagosta, e fuori di Roma alquante sue castella contra del pontefice. Ma soprattutto trafisse l'animo dello stesso papa e della corte sua, un'altra disavventura che fece grande strepito per la cristianità. Avea papa Gregorio mandate nel precedente anno le lettere circolari coll'intimazione di un concilio generale, da farsi nel presente anno in Roma [Raynaldus, Annal. Eccles. Caffari, Annal. Genuens., lib. 6. Richardus de S. Germano, in Chron. Matth. Paris, Hist. Angl.]. Di questo concilio era in gran pena Federigo II, ben prevedendo che in esso verrebbe confermate contra di lui la sentenza della scomunica, ed anche della deposizione. Però entrato in pensiero di impedirlo, quanti prelati di Italia incamminati a Roma capitarono nelle sue mani, tutti li fece fermare, e colla prigionia e in altre maniere li maltrattò. Una gran frotta di vescovi ed abbati franzesi s'era già messa in viaggio per passare in Italia insieme con Jacopo cardinale vescovo di Palestrina, e Ottone cardinale di San Niccolò in Carcere. Pel trasporto loro con grosso nolo fu preparata in Genova una bella flotta di galee e d'altri legni sottili. Molti de' prelati franzesi venuti fino a Nizza, colla scusa che non bastasse al bisogno e alla sicurezza loro l'armamento di Genova, se ne tornarono indietro. Gli altri più animosi arrivarono nel mese d'aprile a Genova e, colà ancora ne giunsero molti altri d'Italia cogli ambasciatori di Milano, Piacenza e Brescia, tutti per imbarcarsi. Intanto Federigo [1167] avea fatto allestire in Sicilia e Puglia quante galee potè, e le inviò col re Enzo suo figliuolo verso Pisa, per opporsi alla venuta di questi prelati. Ordinò parimente ai Pisani suoi aderenti di fare ogni possibile sforzo per mare, ad oggetto di unitamente procedere contro la armata navale de' Genovesi. Non lasciarono i Pisani nel mese di marzo di spedire a Genova i loro ambasciatori, con pregar quel comune di desistere da quella impresa, perchè aveano comandamento da Federigo di far loro opposizione. Stettero saldi nel proposito loro i Genovesi, animati dalle premurose lettere del pontefice, che scrivea non doversi aver paura di chi era in disgrazia di Dio. Furono nello stesso tempo intercette lettere di Federigo, per le quali si scoprì che egli avea guadagnati al suo partito varii nobili di Genova, e nominatamente alcuni della casa Spinola e Doria, la fazion de' quali fu chiamata da lì innanzi de' Mascherati: perlochè il podestà fece prendere l'armi al popolo, e procedette contro i ribelli. Quetato il tumulto, si mosse la flotta genovese coi cardinali e prelati per passare alla volta di Roma; e il temerario capitano, tuttochè consigliato di aspettare il rinforzo d'altre dieci galee, e di tirar verso Corsica, per non incontrarsi co' nemici, volle andar diritto; e infatti gl'incontrò in vicinanza dell'isoletta della Melora. Si venne ad un aspro combattimento; ma siccome d'ordinario i più vincono i meno, così restò sconfitta l'armata genovese, e di ventisette galee sole cinque si salvarono colla fuga. L'altre coi cardinali, portanti dei gran tesori, e col resto de' prelati vennero in potere della flotta cesarea e pisana. In una sua lettera al re d'Inghilterra [Matth. Paris, Hist. Angl.] Federigo scrive, che oltre alle ventidue galee prese, se ne affondarono tre con circa due mila uomini, e che circa quattro mila Genovesi restarono prigioni coi suddetti cardinali, prelati ed ambasciatori. [1168] Succedette questa infelice battaglia [Richardus de S. Germano, in Chron.] nel dì 3 di maggio, festa della; Croce. Per ordine di Federigo furono poi condotti i cardinali e gli altri prigionieri a Napoli, distribuiti per varie castella di quelle contrade, e inumanamente trattati da lui. Gran doglia che per questo colpo ebbe la corte di Roma! Spedì poi esso Augusto a' danni de' Genovesi una flotta di quaranta galee. Inoltre per terra fece assalirli dal marchese Oberto Pelavicino, e dai Pavesi, Alessandrini, Tortonesi, Vercellini, e da altri popoli della Lombardia, e da' marchesi di Monferrato e del Bosco. Ma il bellicoso popolo di Genova mise tosto in mare una flotta di cinquantadue tra galee e tartane, ossieno altri legni; e per terra fece due altri eserciti, e gloriosamente si difese da tanti nemici.

Nel mese di giugno ito l'imperadore a Fano, imprese l'assedio di quella città. Trovandovi una gagliarda resistenza, dopo aver dato il guasto al distretto passò, a Spoleti, e se ne impadronì con facilità. E perchè un abisso si tira dietro l'altro, fece intanto richiedere in prestito tutti tesori delle chiese di Puglia sì d'oro e d'argento, come di gemme e di sacri preziosi arredi; e convenne darglieli. Bisogna pure ridirlo: ecco dove andavano infine a terminare in que' miseri tempi doni fatti dalla pietà cristiana ai sacri templi. Gran rumore faceva intanto l'avvicinamento all'Ungheria di un formidabile, perchè innumerabile, esercito di Tartari Comani, gente inumana e bestiale; e temevasi che, ingoiato il regno ungarico, passerebbe la tempesta nella Germania. Aveano già devastata la Russia, la Polonia, la Boemia. Entrarono dipoi nell'Ungheria: vi fecero un mondo di mali. Federigo, giacchè capitò alla sua corte, di ritorno dalla Terra santa, Riccardo fratello del re d'Inghilterra e dell'imperadrice sua moglie, lo spedì a Roma con plenipotenza per trattar di pace in quel [1169] grave bisogno della cristianità. Secondochè abbiamo da Matteo Paris [Matth. Paris, Hist. Angl.], scrittore che per lo più sparla di papa Gregorio, e della venalità e rapacità de' ministri pontificii, Riccardo trovò il papa inesorabile. Niuna proposizion d'accordo a lui piacque. Sempre insiste in esigere che Federigo assolutamente si sottomettesse all'arbitrio e volontà di lui: al che non avendo voluto acconsentire Riccardo, tornò al cognato Augusto senza aver fatto nulla. Continuò dunque Federigo la guerra [Richardus de S. Germano, in Chron.], e nel giugno s'impossessò di Terni, ma non già di Narni, nè di Rieti, che resisterono, e costò loro un grave guasto. Chiamato poi verso Roma dal cardinal Colonna ribello del papa, prese Tivoli, Monte Albano, e varie castella del monistero di Farfa, e si accampò a Grottaferrata. Matteo Paris aggiugne che egli per forza prese e smantellò un castello che il papa avea fatto fabbricare appresso Monforte per li suoi nipoti: il che talmente afflisse il santo vecchio, che se ne morì. Ma non conviene cercar altronde le cagioni della morte di questo pontefice, perchè, se è vero ciò che scrive lo stesso Paris, egli era giunto coll'età fin quasi a cento anni, e pativa di calcoli. Diede dunque fine a' suoi giorni papa Gregorio IX nel dì 21 d'agosto. Più di dieci cardinali non si trovarono allora in Roma, a' quali apparteneva l'elezion del successore. Riccardo scrive che de imperatoris licentia cardinales omnes, qui extra urbem fuerant, pro electione papae facienda ad urbem redeunt. E ch'egli vi lasciasse ancora intervenire i due cardinali da lui detenuti in prigione, con patto poscia di ritornarvi (al qual fine diedero ostaggi), non credo che s'abbia a mettere in dubbio, dacchè lo dice espressamente Matteo Paris, scrittore di questi tempi; e Riccardo attesta che furono condotti a Tivoli, non per altro, come si può giudicare, che per quivi dar loro il giuramento del ritorno dopo l'elezione. Entrò poi la [1170] discordia fra que' pochi cardinali, e durò circa quaranta giorni [Roland., lib. 5, cap. 6. Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8 Rerum Ital.]: ma infine nell'ottobre essendo i voti dei più concorsi nel cardinal Giuffredo, o Goffredo, di patria Milanese, vescovo sabinense, egli veramente fu papa, e prese il nome di Celestino IV. Anche Federigo n'ebbe piacere. Ma essendo egli assai vecchio ed infermiccio, benchè nell'Ognisanti celebrasse solenne messa nella basilica lateranense, ed ordinasse alcuni cardinali e vescovi, non passarono diciassette, oppur dieciotto dì che fu chiamato da Dio a miglior vita, lasciando più che mai desolata la Chiesa e sconvolta l'Italia. Ch'egli non ricevesse il pallio, nè fosse consecrato, lo scrive Pietro da Curbio nella vita di Innocenzo IV [Vita Innocentii IV, Part. I, tom. 3 Rer. Ital.]. Secondo Matteo Paris [Matth. Paris, Histor. Angl.], corse voce di veleno, voce che facilmente in tempi tali era in voga, ma che presso di noi non dee sì di leggieri meritar credenza.

In questo mentre Matteo Ruffo ossia Rosso, già creato senator di Roma da papa Gregorio IX, avendo assediata Lagosta ossia l'Augusta, fortezza del cardinal Colonna, la costrinse alla resa. Pare eziandio che Federigo, dacchè seppe la morte del suddetto pontefice Gregorio, sospendesse le offese contro gli Stati della Chiesa romana; e si sa ch'egli se ne tornò in Puglia, dove ai confini del regno in faccia a Ceperano ordinò che si fabbricasse una città nuova. Quel ch'è strano, racconta Riccardo [Richardus de S. Germano, in Chron.] che dopo la morte di Celestino IV, prima ancora che gli fosse data sepoltura, de cardinalibus quidam de urbe fugerunt, et contulerunt se Anagniam. C'è luogo di sospettare che in Roma vi fossero non pochi torbidi, nè si trovasse la libertà convenevole per l'elezione del nuovo papa. Forse anche temevano essi della pelle. Infatti vacò poi per gran tempo la santa Sede. [1171] Nel dicembre di quest'anno l'imperadrice Isabella, sorella del re d'Inghilterra, dimorando in Foggia, morì di parto, e fu seppellita in Andria. Federigo intanto continuava ad aggravar di nuove imposte e taglie i sudditi suoi. Tentò in questo anno Eccelino da Romano di torre la bella terra d'Este al marchese Azzo per tradimento [Roland., lib. 5, cap. 5.]. Per buona ventura s'ebbe sentore del suo trattato, e, presi i traditori, che dianzi pareano de' più fedeli della casa d'Este, cessò il pericolo di quella terra. Abbiamo dagli Annali vecchi di Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.] che anche i Bolognesi tramarono con alcuni prigioni modenesi di levar proditoriamente al comune di Modena il castello di Bazzano; e già vi erano entrati alcuni d'essi con armi e vettovaglia. Si scoprì la mena; presi furono que' Bolognesi, e da' Modenesi venne ben rinforzato quel castello. La Cronica di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] aggiugne che poscia in questo medesimo anno seguì pace fra essi Bolognesi, Modenesi e Parmigiani: nella qual congiuntura furono rilasciati tutti i prigioni d'amendue le parti. Il marchese Oberto Pelavicino [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Italic.], vicario dell'imperadore in Lunigiana, distrusse la nobil terra di Pontremoli. Si riaccese in quest'anno la lagrimevol discordia civile tra i nobili e popolari della città di Milano [Annal. Mediol., tom. 16 Rer. Ital. Gualvaneus Flamma, in Manip. Flor., cap. 274.]. Capo de' primi era fra Leone da Perego dell'ordine dei Minori, arcivescovo allora di Milano; capo del popolo era Pagano dalla Torre, la cui famiglia, che dicono fosse padrona di Valsasina, cominciò in tali congiunture ad acquistar gran credito in Milano. Infestavano intanto i Pavesi il distretto milanese. Fu proposto nel consiglio di far oste contra di loro; ma, essendo così mal d'accordo fra loro, non si volle muovere il popolo. Uscirono bensì i nobili, e nel dì 11 di maggio ad [1172] un luogo appellato Ginestre vennero alle mani coi Pavesi; ma furono sconfitti colla morte e prigionia di molti. A questa funesta nuova Pagano dalla Torre col popolo in armi andò ad assalire i vittoriosi Pavesi, li respinse fino alle porte di Pavia, e tal terrore mise in quella città, che tosto si trattò di pace fra i due popoli rivali. Fu questa conchiusa colla liberazion de' prigionieri. Circa questi tempi i Bresciani [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.] presero le castella di Gavardo, d'Iseo e di Vanzago, togliendole ai Veronesi loro nemici. Pare che Riccardo da San Germano parli di questo all'anno seguente.


   
Anno di Cristo MCCXLII. Indizione XV.
Pontificato vacante.
Federigo II imperadore 25.

Trovavasi desolata la Sede apostolica, perchè priva di pontefice, e perchè neppure fra que' pochi cardinali che vi restavano sapeva entrar la concordia. Erano alcuni d'essi usciti di Roma, gli altri cozzavano l'un contra l'altro; tutto andava a finire in lasciar vedova la Chiesa. L'Annalista Pontificio [Raynald., Annal. Eccl.] rigetta la colpa d'ogni disordine sopra del solo Federigo. Ma convien dire che la storia di questi tempi è alterata di troppo dalle passioni, dalle calunnie, dalle dicerie, che non ci lasciano discernere la verità di tutte le magagne d'allora, nè di chi fosse il torto in varii casi di quella maledetta discordia. Erano pubblici, erano maiuscoli i vizii di Federigo, ed egli capace di tutto; ma che dalla parte di Roma sempre si camminasse diritto e senza difetto alcuno, sempre con istrada contraria all'iniquità di Federigo, poco costa il dirlo. A noi mancano storici di allora che abbiano senza parzialità ben esaminati i principii e i progressi di queste tragedie, per poterne ben giudicare. [1173] Sappiamo da Matteo Paris [Matth. Paris, Hist. Anglic.] e da Alberto Stadense [Albert. Stadens., in Chron.] che gran discordia si trovava allora fra i cardinali. Se Federigo n'era in colpa, come può stare che egli scrivesse lettere sì obbrobriose ai medesimi, riferite dallo stesso Rinaldi, colle quali fieramente gli accusa e strapazza, appunto perchè non s'accordavano ad eleggere un successore di Pietro, e lasciavano in tanta confusione la Chiesa di Dio? Ma non più. Nel mese di febbraio, per attestato di Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.], Federigo spedì il gran mastro dell'ordine teutonico, eletto arcivescovo di Bari, con un altro personaggio, ad curiam romanam pro pace. Nulla se ne fece. Per colpa di chi, nol dice la storia. Mandò ancora a Tivoli nel mese d'aprile i due cardinali prigioni: il che può far credere che li lasciasse anche andare per l'elezion del papa, siccome avea permesso nell'anno precedente. Veggendo poi che non era da sperar pace dalla corte di Roma, nel maggio seguente ripigliò le ostilità. Il duca di Spoleti per parte dell'imperadore diede il guasto al territorio di Narni. Altrettanto fecero i Romani a Tivoli, posseduto allora dall'imperadore. Dalle milizie d'esso Augusto assediata la città d'Ascoli, nel mese di giugno cadde sotto il di lui dominio. Nel qual mese venuto egli nella marca d'Ancona, si fermò all'Avenzana sino al luglio, e poscia passò a dare il guasto ai contorni di Roma. Nell'agosto si ridusse in Puglia. Non istava in ozio in questi tempi Eccelino da Romano, signoreggiante sotto l'ombra dell'imperadore in Padova, Vicenza e Verona [Roland., lib. 5, cap. 8.]. Giacchè non gli era venuto fatto di occupar colla forza la grossa terra di Montagnana, appellata dal Monaco Padovano populosa [Monach. Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Italic.], che era del marchese d'Este, ricorse ad un altro ripiego. Cioè spedì colà, o quivi guadagnò [1174] degl'incendiarii, i quali in una notte del mese di marzo attaccarono il fuoco in più parti a quella terra. Il marchese, stando nella rocca d'Este, di là mirò quest'incendio, e tosto colla sua gente cavalcò colà per soccorrerla. Ma avvertito che veniva, ed era vicino l'esercito di Verona, scorgendo che altri fuochi saltavano su per Montagnana, s'avvide del tradimento. Perciò, fatto mettere il fuoco nel resto, e presi seco quanti uomini e donne e fanciulli potè di quegli abitanti, con esso loro se ne tornò ad Este. S'impossessò di quella terra Eccelino, e ordinò tosto che vi si fabbricasse un castello, o vogliam dire una fortezza. Chiamato poscia in aiuto il conte di Gorizia, si portò Eccelino nel seguente giugno, per far dispetto ad Alberico suo fratello, a dare un fierissimo guasto al territorio di Trivigi. Lo stesso trattamento fece dipoi a quello d'Este; e, tornato a Padova, attese da lì innanzi a far fabbricare in quella città un castello con orride ed infernali prigioni, nelle quali col tempo morì ancora quell'architetto ch'egli avea scelto per farle ben tenebrose e scomode a chi per sua disavventura vi capitava. E ben poco ci voleva sotto quel tiranno a capitarvi. Alcune altre conquiste di castella fatte per Eccelino dalla parte di Vicenza si leggono nella Cronica Vicentina di Antonio Godio [Antonius Godius, in Chron., tom. 8 Rer. Italic.], autore che eziandio rapporta le crudeltà commesse da lui in quella città.

Per vendicarsi i Milanesi de' Comaschi, da' quali restarono traditi nell'ultima venuta di Federigo sul Milanese [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital. Gualvaneus Flamma, in Manip. Flor., cap. 276.], fecero oste contra di loro, mettendo a ferro e fuoco il loro distretto sino alle porte di Como. Presero e smantellarono le castella di Lucino e di Mendrisio. Si impadronirono di quello di Bellinzona, e gran danno recarono ad altri luoghi. Per attestato di Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.], [1175] avea Federigo in Puglia e Sicilia fatto un armamento di cento cinquanta galee e venti vascelli, da spedire contro ai Veneziani e Genovesi. Per questo i Veneziani [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] uscirono in mare con settanta galee; ma nulla ebbero da faticare, perchè la flotta imperiale, comandata da Ansaldo Mari Genovese, s'inviò contra de' Genovesi: nel qual tempo anche il marchese Oberto Pelavicino per terra con grande sforzo nel dì 20 di giugno venne sino a Porto Venere, ed imprese poi l'assedio di Levanto [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.]. Aveano gli animosi Genovesi già fatto un preparamento di ottantatrè galee, ed altri legni minori; e, all'avviso de' nemici, tosto imbarcati volarono in traccia d'essi. Fu precipitosamente levato l'assedio di Levanto; la flotta di Federigo sfuggì sempre ogni cimento, qua e là ritirandosi, ma inseguita sempre da' Genovesi; e così terminò l'anno senza vantaggio alcuno delle parti. Ma non lieve guadagno fu per la lega pontificia l'aver indotto nell'anno presente a forza di danaro Bonifazio marchese di Monferrato, Manfredi marchese del Carretto, e i marchesi di Ceva, a far pace e lega coi Genovesi, Milanesi e Piacentini, con obbligarsi que' marchesi nelle mani del legato apostolico di abbandonare la parte dell'imperadore, di difendere a tutto lor potere la santa Chiesa romana, e di far guerra viva ai nemici di essa e dei suddetti comuni. Secondo la Cronica di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital. Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.], il re Enzo, figliuolo di Federigo, fece un'irruzione in quest'anno nel Piacentino, assediò quivi il castello di Roncarello, diede alle fiamme Podenzano e molti altri luoghi di quel distretto. Andavasi intanto sempre più insinuando, o aumentando in Lombardia il veleno delle fazioni guelfa e ghibellina. La città di Parma, dianzi [1176] felice [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], cominciò nell'anno presente a provarne i mali effetti, con essere venuta meno la concordia fra i cittadini. Soggiacque al medesimo pernicioso influsso quella di Brescia [Malvecius, in Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.], dove si formò una fazione appellata da' Malisardi, per colpa de' quali perdè quella città molte castella e nominatamente in quest'anno Pontevico, che que' maligni fazionarii diedero al comune di Cremona.


   
Anno di Cristo MCCXLIII. Indizione I.
Innocenzo IV papa 1.
Federigo II imperadore 24.

Abbiamo da Matteo Paris, autore per altro parzialissimo di Federigo imperadore [Mattheus Paris, Hist. Angl.], che esso Augusto fece di gravi istanze, premure e minaccie ai cardinali, perchè più non differissero l'elezione di un nuovo pontefice, perchè la lor discordia tornava in infamia d'esso Augusto, credendo i popoli che per suoi intrighi durasse cotanto la sede vacante. Risposero i cardinali che, se gli premeva tanto la pace e il bene della Chiesa, mettesse in libertà i cardinali e gli altri prelati che teneva in prigione. Liberò Federigo almeno i cardinali e i ministri pontificii, con riportarne promessa ch'essi efficacemente accudirebbono alla creazione d'un novello pontefice, e alla pace fra la Chiesa e l'imperio. Non veggendone egli poi alcun buon effetto, montato in collera, con poderoso esercito si portò verso Roma, e cominciò a dare il guasto ai beni dei cardinali e de' nobili romani. Nella qual congiuntura i Saraceni infedeli presero Albano, e vi commisero le maggiori enormità del mondo, spogliando le chiese, e riducendo tutti quegli abitanti all'ultimo esterminio. Allora i cardinali mandarono a pregar Federigo di desistere, promettendo di provvedere in breve la Chiesa di Dio d'un sacro pastore. Anche i Franzesi [1177] mandarono ambasciatori apposta ai cardinali con forti istanze per la creazion d'un sommo pontefice. Tutto ciò da Matteo Paris, il cui racconto non oserei io sostenere per veridico a puntino. Riccardo da San Germano [Richardus de S. Germano, in Chron.], savio scrittore, la cui Cronica è da dolersi che finisca nel presente anno, altro non dice, se non che nel mese di maggio Federigo cavalcò ai danni de' Romani; e che poscia, alle preghiere de' cardinali, si ritirò dai contorni di Roma; ed aver egli nello stesso mese rimesso in libertà il cardinale vescovo di Palestrina, il quale andò ad unirsi cogli altri cardinali in Anagni. È considerabile che essi cardinali non in Roma, ma in Anagni, si raunarono per far l'elezione del papa: segno che in Roma non doveano godere la libertà necessaria. E certo l'imperadore non disturbò punto la lor unione in Anagni. Ora finalmente [Raynaldus, in Annal. Eccl.] nel dì 24 di giugno, festa di san Giovanni Batista, oppure nel dì 26, come ha il Continuatore di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.] con altri, concorsero i loro voti nella persona di Sinibaldo cardinale di San Lorenzo in Lucina, di nazion Genovese, della nobil famiglia de' conti di Lavagna, ossia de' Fieschi, il quale assunse il nome d'Innocenzo IV. Scrivono [Ricordano Malaspina, cap. 132. Gualvaneus Flamma, in Manip. Flor.] che si fece dai baroni della corte dell'imperadore gran festa per tal elezione, sapendo che fra il loro signore e il nuovo eletto passava molta amicizia; ma che Federigo se ne rattristò, con dire ch'egli avea perduto un amico cardinale, ed acquistato un papa nemico. Narra Matteo Paris [Matth. Paris, Hist. Angl.] che esso imperadore mise delle guardie per terra e per mare, acciocchè non passassero nel regno le lettere colla nuova dell'esaltazione d'Innocenzo. Più fede è dovuta a Riccardo da San Germano Italiano, da cui sappiamo, che stando [1178] Federigo in Melfi, all'avviso del creato pontefice [Richardus de S. Germano, in Chron.], ubique per regnum laudes jussit Domino decantari, cioè dappertutto ne fece cantare il Te Deum. Inoltre non tardò molto a spedire ad Anagni al papa l'arcivescovo di Palermo, Pietro dalle Vigne e mastro Taddeo da Sessa a congratularsi, e a trattare pro bono pacis. A quo benigne satis recepti sunt, et benignum ad principem retulerunt responsum. La lettera da lui scritta si legge negli Annali Ecclesiastici, e in essa nulla si parla dell'arcivescovo di Palermo. E da un'altra del papa si scorge che questi ambasciatori non furono già ammessi all'udienza del pontefice: del che fece dipoi querela esso Federigo. Nel mese d'agosto segretamente spedito un buon corpo di Romani a Viterbo, quella città ritornò all'ubbidienza del romano pontefice. Entro vi era la guarnigione imperiale sotto il comando del conte Simone di Chieti, il quale con tutti i suoi fu assediato nella fortezza. Benchè il papa avesse ricuperata una città che era sua, pure se l'ebbe a male Federigo, stante l'essere stata fatta cotal novità mentre durava la tregua e si trattava di pace. Il perchè, raunato un copioso esercito, nel mese di settembre personalmente si portò sotto Viterbo, e vi mise l'assedio, sforzandosi colle minaccie e colle macchine militari di vincere la costanza dei difensori. Chiaritosi che nulla v'era da sperare, e tanto più perchè gli furono bruciate le macchine, si contentò di riaver libero il conte Simone co' suoi, e ritirossi in Toscana a Grosseto. Matteo Paris scrive che il conte Simone colla sua brigata fu condotto prigione a Roma. Più è da credere in ciò a Riccardo da San Germano, che a lui. Sul fine d'ottobre papa Innocenzo da Anagni si trasferì a Roma, ricevuto con distinti onori dal senato e popolo romano. Era capitato alla corte dell'imperadore Raimondo conte di Tolosa. S'interpose anche egli per rimettere la buona armonia; e a questo fine andò a Roma nel mese di [1179] ottobre a trovare il papa, tractans inter ipsum et imperatorem bonum pacis: colle quali parole Riccardo da San Germano termina la Cronica sua.

Che il novello pontefice onoratamente desiderasse la concordia e la pace, si raccoglie dalla spedizione da lui fatta a Federigo (anche prima ch'egli inviasse a Roma i suoi ambasciatori, se è vero ciò che narra Pietro da Curbio [Petrus de Curbio, in Vita Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer. Italic.]) di tre nunzii apostolici, cioè di Pietro da Collemezzo arcivescovo di Roano, di Guglielmo già vescovo di Modena, celebre per le sue missioni in Livonia e in altri settentrionali paesi, e dell'abbate di San Facondo, spedito in Italia da Ferdinando re di Castiglia per lavorare all'unione della Chiesa e dell'imperio: i quai tre suggetti furono nell'anno appresso promossi al cardinalato da papa Innocenzo. Pietro da Curbio stranamente cambia i nomi di questi nunzii. Conteneva l'istruzione loro data, che il pontefice sospirava la pace; che Federigo rimettesse in libertà il restante de' prelati e laici fatti prigioni nelle galee; che pensasse alla maniera di soddisfare intorno ai punti per li quali era stato scomunicato; che anche la Chiesa, se mai qualche ingiuria avesse a lui fatta, era pronta a ripararla, esibendosi di rimettere l'esame di tutto in principi secolari ed ecclesiastici; e finalmente che voleva inclusi nella pace tutti gli aderenti alla Chiesa romana. Ciò che precisamente rispondesse Federigo, non è ben chiaro; se non che da una lettera del papa apparisce ch'egli mise in campo varie querele e doglianze contra del papa, le quali si leggono negli Annali Ecclesiastici, e a tutte saviamente rispose papa Innocenzo. In somma andarono in fascio tutte le speranze della pace, e si tornò a fare preparamenti di guerra. Di grandi vessazioni ebbe in Roma il pontefice Innocenzo dai mercatanti romani, che aveano prestate al defunto papa Gregorio IX sessanta mila [1180] marche d'argento, e voleano essere soddisfatti. Continuava intanto la guerra nella marca di Trivigi, ossia di Verona [Paris de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.]. Ricciardo conte di San Bonifazio coi Mantovani conquistò Gazo, Villapitta e San Michele, castella de' Veronesi. Ma Eccelino co' Padovani, Vicentini e Veronesi venne all'assedio del castello di San Bonifazio, spettante ad esso conte [Roland., lib. 5, cap. 11.]. Vi era dentro il di lui figliuolo Leonisio fanciullo, nipote dello stesso Eccelino. S'interposero persone religiose ed amici comuni per l'accordo, e fu conchiuso di rilasciar quel castello ad Eccelino, e che Leonisio con tutti i suoi se ne uscisse libero: il che fu eseguito. Fece Eccelino di molte carezze e regali al giovinetto, che era suo nipote, e lasciollo ire con sicurezza dove gli piacque. Sotto mendicati pretesti in quest'anno esso Eccelino nel dì 4 di giugno nella pubblica piazza di Padova fece decapitare Bonifazio conte di Panego, nobile veronese di gran riguardo: il che fu di gran dolore e terrore al popolo padovano, persuaso che il tiranno avesse levato di vita un innocente. Parimente in Verona per ordine suo [Monach. Patavinus, in Chron.] furono atterrate le case e torri di varii nobili, che egli chiamava traditori; ed alcuni ne fece anche morir ne' tormenti, prendendo con ciò maggior baldanza contra de' nobili e plebei. Perchè i Bolognesi non osservarono i patti giurati nel precedente anno col non rilasciare i prigioni di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], anche i Parmigiani ritennero i prigioni bolognesi, e li serrarono in uno steccato di legno fatto presso le mura della città, con farli stare a cielo sereno. Entrò in quest'anno ostilmente nel territorio di Milano [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital. Annales Mediol., tom. 16 Rer. Ital. Gualvaneus Flamma, in Manip. Flor.] Arrigo, ossia Enzo re di Sardegna, figliuolo naturale di Federigo imperadore, per impedire che il comune di [1181] Milano non fabbricasse la Motta di Marignano, che era un'alzata di terra fatta a mano per fabbricarvi sopra un castello. Accampossi in Sairano. Allora con tutte le forze loro vennero i Milanesi, e il costrinsero a ritirarsi con poco gusto e molta vergogna. In lor soccorso avea spedito il popolo di Piacenza secento cavalieri, che stettero a Lodi vecchio. Per questa ragione Enzo coi Pavesi, passato il Po sopra un ponte fabbricato ad Arena, calò addosso al Piacentino, e vi bruciò molti luoghi. Fiera carestia afflisse in quest'anno la Lombardia, di modo che i poveri si ridussero a mangiar erbe. Innocenzo IV circa questi tempi concedette a Piacenza il privilegio dello Studio generale. Crebbe ancora in questo anno il partito della Chiesa, perchè la città di Vercelli [Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.] per maneggio di Bonifazio marchese di Monferrato, staccatasi da Federigo, entrò nella lega di Lombardia. L'esempio suo servì ad indurre il comune di Novara a fare altrettanto. Con grosso esercito andarono intanto i Genovesi a mettere l'assedio alla tuttavia ribelle città di Savona, e cominciarono a tormentarla coi mangani e trabucchi. Si raccomandarono con calde lettere i Savonesi al re Enzo, e spedirono anche all'imperador Federigo, che si trovava allora nelle parti di Pisa, implorando soccorso. Mise Enzo insieme un'armata di Pavesi, Alessandrini, Tortonesi ed altri popoli, e marciò fino alla città di Acqui; ma inteso che i Genovesi non solamente non moveano piede, ma ogni dì più rinforzavano il loro esercito, non passò oltre, e licenziò l'armamento, contuttochè avesse ordine da Federigo di fare ogni sforzo per soccorrere Savona. Anche i Pisani, ad istanza d'esso imperadore, uscirono in mare con ottanta galee, vantandosi voler fare di molte prodezze. A questo avviso i Genovesi, lasciato l'assedio di Savona, se ne tornarono alla lor città, per quivi preparare un potente stuolo di galee da opporre agli [1182] sforzi nemici. Fecero i Pisani bella mostra da lungi delle lor forze; ma, al primo comparir della flotta genovese, voltarono le prore, contenti d'aver salvata Savona.


   
Anno di Cristo MCCXLIV. Indizione II.
Innocenzo IV papa 2.
Federigo II imperadore 25.

Ah maladetta discordia! Che fiere calamità soffrisse in questi tempi la cristianità per quella che bolliva tra l'imperadore e la Chiesa, non si può abbastanza dire. Orrendi e indicibili furono i danni recati dai Tartari Comani alla Polonia, Stiria, Ungheria, ed altre provincie cristiane, senza che niun potesse mettere freno all'empito e alla barbarie di quegl'infedeli. Gravissimi altri malanni patì la cristianità d'Oriente, perchè le fu di nuovo tolta la santa città di Gerusalemme con istrage d'infiniti cristiani. La città d'Accon, ossa d'Acri, che dianzi s'era ribellata all'imperador Federigo, cominciò a provar le scorrerie de' Maomettani fino alle sue porte. L'imperio de' Latini in Costantinopoli era già ridotto al verde; e in Lombardia s'andava dilatando l'eresia de' Paterini, e crescevano le guerre con tutti i lor funesti effetti. Per sostenere intanto i suoi impegni, il papa, con ispedir collettori, voleva danari, e non pochi, da tutte le chiese della cristianità, e bisognava darne. Più spietatamente Federigo anch'egli scannava i suoi popoli, e massimamente gli ecclesiastici, con imposte e gravezze continue. Perciò una gran mormorazione dappertutto fra i cristiani s'udiva, specialmente contra d'esso Federigo, il quale, invece d'impiegar le sue forze (al che era tenuto) contra de' nemici del nome cristiano, le rivolgeva contro la Chiesa sua madre. E qui la gente s'empieva la bocca de' suoi perversi costumi [Matth. Paris, Hist. Angl.]: che egli non ascoltava mai messa (eppure uno de' suoi delitti fu l'aver forzato dopo [1183] la scomunica i preti a dirla in sua presenza); che non avea venerazione alcuna per le persone ecclesiastiche; parlava poco sanamente della religion cristiana; teneva per sue concubine donne saracene, con altri reati, i quali, se non tutti, per la maggior parte almeno erano fondati sul vero. All'incontro Federigo rigettava la colpa del non potere accudire ai bisogni della cristianità sulla corte di Roma, che gli facea quanta guerra potea, e tuttodì andava sottraendo all'ubbidienza di lui le città d'Italia, ansiosa solamente della di lei rovina; nè poter egli accorrere altrove colle armi, da che per la sua andata in Oriente poco era mancato che il papa non gli avesse occupati i suoi Stati d'Italia. Pare nulladimeno che in quest'anno venisse un buon raggio di saviezza a calmare il di lui turbolento animo. Mentr'egli era ad Acquapendente [Petrus de Curbio, Vita Innocent. IV, cap. 9.], gli spedì papa Innocenzo IV Ottone cardinale vescovo di Porto, suo amico, per indurlo alla pace. Gliel aveva anche inviato l'anno innanzi, allorchè egli facea l'assedio di Viterbo. Federigo, mostrando pur voglia d'accordo, inviò anche egli a Roma il conte di Tolosa, Pietro dalle Vigne e Taddeo da Sessa con plenipotenza per lo sospirato da tutti aggiustamento colla Chiesa. Matteo Paris [Matth. Paris, Hist. Angl.] rapporta l'intero atto di tutto quello ch'egli accordava sì per la soddisfazion della Chiesa, come pel perdono e per le sicurezze da darsi a tutte le città aderenti al papa, e per la restituzion degli Stati della Chiesa. Si metteva già per fatta la pace; perchè nel giovedì santo nella piazza del Laterano i suoi ambasciatori giurarono alla presenza del papa, de' cardinali, di Baldovino imperador di Costantinopoli venuto a Roma, e di tutto il senato e popolo romano, i capitoli del suddetto accordo. Ma che? Partiti gli ambasciatori, insorse subito un puntiglio. Voleva il papa ch'egli restituisse [1184] tosto le città della Chiesa, e desse la libertà ai prigioni: il che fatto, riceverebbe l'assoluzion dalla scomunica. Pretendeva all'incontro Federigo II che dovesse precedere l'assoluzione; nè volendo Roma accordar questo punto, ecco lo spirito della superbia invadere di nuovo il cuor di Federigo, e farlo receder dal già conchiuso accordo. Studiossi egli di guadagnar sotto mano il pontefice con ricercare una di lui nipote per moglie del re Corrado suo figlio [Vita Innocentii IV, cap. 11 P. I, tom. 3 Rer. Italic.]; ma Innocenzo, che preferiva al suo proprio onore e vantaggio quel della Chiesa, mostrò di non disprezzare l'offerta, ma si tenne forte in sostenere gli interessi del pontificato, e in guardarsi dagl'impegni e dalle insidie di un imperadore, di cui la sperienza troppo avea mostrato quanto poco si dovea fidare.

Essendo ridotto a sì scarso numero il collegio de' cardinali, papa Innocenzo ne creò dodici nel sabbato fra l'ottava della Pentecoste. Poscia nel dì 7 di giugno, uscito di Roma, andò a Cività Castellana, e di là a Sutri. Non si vedeva egli sicuro nè in Roma nè fuor di Roma, perchè la maggior parte delle città della Chiesa erano occupate da Federigo, ed avea che fare con un nemico, le cui arti e il cui cattivo umore davano da sospettare o temere a tutti. Conosceva inoltre che senza essere in paese di libertà, non si potrebbe mai domare l'alterigia di Federigo. Per questo spedì segretamente a Genova [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.] un frate minore ad Obizzo del Fiesco suo fratello, e a Filippo Visdomino da Piacenza podestà di quella città, rappresentando loro i pericoli ne' quali si trovava, e pregandoli di venire a prenderlo con una squadra di galee. Ne armarono tosto i Genovesi ventidue, oltre ad altri legni, e sopra d'esse imbarcatosi lo stesso podestà Alberto, Jacopo ed Ugo nipoti del medesimo papa, nel dì 27 [1185] di giugno arrivò a Cività Vecchia. Fattolo tosto sapere al pontefice, egli nella notte seguente con pochi familiari, consapevoli della sua intenzione, salito a cavallo, per disastrose strade e per boschi si condusse sano e salvo a Cività Vecchia nel dì seguente; e poscia nella festa de' santi Pietro e Paolo entrato in nave col solo cardinal Guglielmo suo nipote, ed altri pochi di sua famiglia, fece sciogliere le vele al vento, e nel dì 7 di luglio felicemente pervenne a Genova, dove con incredibil festa e magnificenza d'apparato fu accolto da' suoi nazionali. Gli altri cardinali, a riserva di quattro, il seguitarono per terra, e andarono ad aspettarlo a Susa. Udita questa inaspettata partenza del papa, Federigo, che soggiornava allora in Pisa, rimase estatico; e scorgendo bene dove andava a parare la determinazion del pontefice, allora fu che spedì di nuovo il conte di Tolosa con lettere, nelle quali si maravigliava forte della risoluzione da lui presa, con esibirsi nondimeno prontissimo a far quanto egli voleva. Il conte, andato a Savona, di là significò il tutto a papa Innocenzo; ma senza frutto, perchè il pontefice, tante volte deluso dalle promesse e parole di Federigo, volle continuar il suo viaggio alla volta di Lione, dove avea già determinato di fermarsi. Infermatosi il pontefice in Genova, appena alquanto si riebbe, che neppure giudicandosi sicuro nella patria, dove stavano i Mascherati fazionari dell'imperadore, fattosi portare in letto, passò a Varragine [Petrus de Curbio, Vita Innocent. IV, cap. 15, P. I, tom. 3 Rerum Ital.], ed indi a Stella, dove Manfredi marchese del Carretto l'accolse con una copiosa mano d'armati per maggior sua sicurezza, perchè non mancavano insidie e nemici in quelle parti. Cadde quivi di nuovo malato, e si dubitò di sua vita; migliorato e scortato dal marchese di Monferrato, arrivò ad Asti nel dì 6 di novembre, e vi trovò le porte chiuse, perchè quel [1186] popolo teneva per l'imperadore; ma non passò molto che vennero a dimandargli perdono di quest'ingiuria. Giunto nel dì 12 del suddetto mese a Susa, ebbe la consolazione di trovar otto cardinali, che quivi l'aspettavano; e con essi non senza gravi incomodi valicate l'Alpi, felicemente nel dì 2 di dicembre giunse a Lione, ricevuto onorevolmente da quel popolo. In essa città piantò la sua corte, alla quale cominciò a concorrere una infinità di gente da tutte le parti. Pieno intanto di rabbia Federigo fece chiudere i passi, affinchè non passassero uomini e danari dall'Italia in Francia: il che servì a maggiormente screditarlo, qual manifesto persecutor della Chiesa. Scrive Matteo Paris [Matth. Paris, Hist. Angl.] una particolarità, della cui verità si può forte dubitare. Cioè che per li maneggi del papa, de' Milanesi, e d'altri Italiani e Tedeschi, fu proposto in Germania d'eleggere in re il langravio di Turingia. Penetratasi questa mena da Federigo, occultamente si trasferì egli in Germania, ed abboccatosi con esso langravio, e regalatolo ben bene, il fece tutto suo, e poi segretamente se ne ritornò in Italia. Lo creda chi vuole. Di ciò riparleremo anche nell'anno seguente. Certo bensì è che si staccarono in questo anno da esso Federigo le città d'Asti e di Alessandria, ed altri luoghi, con aderire alla lega di Lombardia, tutta impegnata a favorire il papa. Nel passaggio ancora che fece papa Innocenzo per gli Stati di Amedeo conte di Savoia, tirò nel suo partito quel principe, con dargli in moglie una sua nipote, e concedergli in dote le castella di Rivoli e di Vigliana colla valle di Susa, che erano del vescovato di Torino, e dichiararlo suo vicario sopra tutta la Lombardia. Così scrive l'autore anonimo degli Annali Milanesi [Annales Mediol., tom. 16 Rer. Ital.], con cui va concorde Galvano Fiamma [Gualvaneus Flamma, in Manipul. Flor., cap. 278.]. Tutto ciò nondimeno merita [1187] esame, dacchè il Guichenon [Guichenon, Histoire de la Mais. de Savoye, tom. 1.] non riconosce che questo principe prendesse in moglie alcuna nipote del papa. Forse gli fu solamente promessa, ed altro non ne seguì dipoi: oppure si parla di Tommaso conte di Savoia, che poi nel 1251 sposò veramente una nipote d'esso papa. Intanto noi sappiamo di certo che papa Innocenzo passò molto tranquillamente nell'anno presente per la Moriena, e per altri paesi del conte di Savoia: il che ci porge sufficiente indizio dell'esser egli entrato nel partito del papa. Ciò non conobbe il Guichenon, il quale, appoggiandosi in gran copia di racconti a degli storici moderni, non può sovente appagar in tutto l'animo dei lettori desiderosi di più sodi fondamenti. Riuscì in questo anno a Riccardo conte di San Bonifazio, ad Azzo VII marchese d'Este, ed al popolo di Mantova [Roland., lib. 5, cap. 12. Paris de Cereta, Annal. Veron., tom. 8 Rer. Ital.], dopo lungo assedio, di prendere e dirupare il castello d'Ostiglia, che era de' Veronesi, castello riguardevole, perchè munito di belle e forti mura, di alte torri e grandi fosse, e difeso da un lato dal Po. Fece varii tentativi Eccelino da Romano per disturbar quell'assedio, o per soccorrere quella terra; ma non potè impedirne la perdita e rovina.


   
Anno di Cristo MCCXLV. Indizione III.
Innocenzo IV papa 3.
Federigo II imperadore 26.

Dimorando in Lione Innocenzo sommo pontefice, avea nel Natale dell'anno precedente intimato il concilio generale da tenersi in essa città nella festa di san Giovanni Batista dell'anno presente [Petrus de Curbio, Vita Innocent. IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]: al qual fine spedì le lettere d'invito per tutta la cristianità, con aver citato l'imperador Federigo a comparirvi in persona o per mezzo de' suoi procuratori. [1188] Arrivò poscia a Lione il patriarca d'Antiochia inviato da esso Federigo con altri suoi uffiziali, mostrando premura di ripigliare il trattato di pace. I documenti prodotti dal Rinaldo [Raynald., in Annal. Eccl.] ci assicurano che Innocenzo IV con animo paterno condiscese, purchè Federigo prima del concilio restituisse la libertà ai prigionieri, e rendesse le terre della Chiesa, e si facesse compromesso nel papa stesso per le differenze dei Lombardi con esso imperadore. Tornossene il patriarca a Federigo per informarlo del negoziato. Ma bisogna ben dire che questo principe fosse invasato da una cieca alterigia; e con una strana politica conducesse i proprii affari. Niuna risposta fu data al papa, e si giunse finalmente senza conclusione alcuna al general concilio di Lione; se non che egli prima spedì colà l'arcivescovo di Palermo e Taddeo da Sessa suo avvocato, acciocchè sostenessero le ragioni sue. Che v'inviasse anche Pietro dalle Vigne, lo scrive Rolandino [Roland., lib. 5, cap. 13.], da cui parimente intendiamo che sul fine di maggio esso imperadore venne a Verona, ed ivi tenne un gran parlamento, al quale intervennero l'imperador di Costantinopoli, il duca d'Austria, e i duchi di Carintia e Moravia. Dopo molti ragionamenti e consulti continuati per più dì, niuna risoluzione fu presa; se non che Federigo, mostrando intenzione di trovarsi personalmente al concilio di Lione, con questa apparenza andò fino in Piemonte. Nelle prime sessioni del concilio, composto di più di centoquaranta tra patriarchi, arcivescovi e vescovi, furono proposti dal papa i reati di Federigo; nè mancò Taddeo da Sessa di addurre, per quanto seppe, le giustificazioni del suo padrone, rispondendo a capo per capo. Il vescovo di Carinola, oppure di Catania, come ha la Cronica di Cesena [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.], e un arcivescovo spagnuolo fecero un ampio racconto dei costumi e della vita di Federigo, conchiudendo [1189] ch'egli era un eretico, un epicureo, un ateista: al che Taddeo rispose con forza, pretendendole tutte calunnie [Matth. Paris, Hist. Anglic.]; e in oltre chiese una dilazione per l'avviso pervenutogli che l'imperadore intendeva di venire in persona al concilio per giustificarsi; oppure perchè il medesimo Taddeo si lusingava di farlo venire. Si stentò ad ottenere dal papa la dilazion di due settimane; ma Federigo non comparve mai, forse credendo l'andata sua o pericolosa alla sua dignità o superflua, ovvero perchè lo spirito dell'umiliazione non era mai entrato nè sapeva entrare in quel cuore. Non imitò già l'avolo suo Federigo, perchè non albergava in lui quella religione nè quel senno che l'altro mostrò. Per ciò nel dì 17 di luglio papa Innocenzo [Raynaldus, in Annal. Eccl. Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.] nel concilio, dopo aver premesso i delitti principali di Federigo, proferì la sentenza di scomunica contra di lui, e il dichiarò decaduto dallo imperio e da tutti i regni, con assolvere i sudditi dal giuramento di fedeltà. Taddeo da Sessa cogli altri procuratori suoi compagni, che già avea protestato contra di tal sentenza, ed appellato al futuro concilio, se n'andò tosto a portar la nuova a Federigo, il quale, secondo Matteo Paris, fremendo di sdegno e di rabbia, scoppiò in alcune ridicolose sparate, e dopo non molto scrisse dappertutto atroci e velenose lettere contra del papa, le quali maggiormente servirono a fargli perdere il concetto di vero cristiano. Rivolse poscia il suo sdegno contra de' Milanesi, perchè informato qualmente il pontefice movea tutte le suste in Germania per far eleggere un nuovo re, e già convenivano i voti di molti di que' principi, disgustati di Federigo, nella persona di Arrigo langravio di Turingia; seppe ancora che essi Milanesi con gli altri della lega di Lombardia aveano spedito i lor deputati ad animare quel principe a prendere la [1190] corona colla promessa di assisterlo con tutte le loro forze.

Venuto dunque da Torino l'imperadore a Pavia, uscì in campagna contra d'essi Milanesi, e da un'altra parte li fece assalire anche dal re Enzo suo figliuolo. Se vogliam prestar fede a Matteo Paris, succedette una fiera e sanguinosa battaglia fra l'armata d'Enzo e quella de' Milanesi, e dall'una e dall'altra parte perì innumerabil gente, colla peggio nondimeno de' secondi. Non la raccontano così gli storici di Milano [Annal. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital. Gualv. Flamm., in Manipul. Flor.], e si può credere che favoloso sia in parte ciò che narra il suddetto storico inglese. Secondo i Milanesi, mosse Federigo l'esercito da Pavia, ed entrato nel territorio di Milano, distrusse il monistero di Morimondo. Nel dì 21 d'ottobre si accampò ad Abbiate sulla riva del Ticino, volendo pur passare quel fiume; ma venutagli incontro sull'opposta riva l'armata de' Milanesi, quivi stettero per ventun giorno i campi nemici senza alcuna azione. Tentò eziandio Federigo di passare il Ticinello a Buffalora; ma gliel impedirono i Milanesi, co' quali era Gregorio da Montelungo legato pontificio. Lo stesso gli avvenne a Casteno. In questo mentre con altro esercito, cioè coi Bergamaschi e Cremonesi, il re Enzo passò all'improvviso il fiume Adda vicino a Cassano, ed arrivò a Gorgonzuola. Accorsero a quella parte due delle porte di Milano sotto il comando di Simone da Locarno, e vennero alle mani col re Enzo, nè solamente sbaragliarono il di lui esercito, ma fecero anche lui prigione, benchè il suddetto Simone, dopo averne ricavato il giuramento di non mai più entrare nel distretto milanese, il rimettesse in libertà. Perciò Federigo si ritirò a Pavia, e andossene poi a passare il verno in Toscana a Grosseto. Avrei creduta mischiata qualche favola in questo ultimo racconto, se l'antica Cronica di [1191] Reggio non me ne avesse accertato colle seguenti parole: Enzus imperatoris filius supra Taleatam Addae cum Reginis, Cremonensibus, et Parmensibus ivit. Et ceperunt Gorgunzolam, ad cujus assedium captus fuit rex, et recuperatus per populum reginum et parmensem [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.]. Ascoltiamo ora il Continuatore di Caffaro, autore allora vivente [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6.]. Narra egli che Federigo nella primavera venuto da Pisa a Parma, andò poscia a Verona, e spedì un gagliardo esercito contra de' Piacentini, nel territorio de' quali si fermò più d'un mese, dando il guasto dappertutto, senza che quel popolo si movesse punto dalla fedeltà verso la Chiesa. Fingendo poscia di voler passare al concilio di Lione, venne a Cremona e a Pavia, e di là ad Alessandria. Gli portarono gli Alessandrini le chiavi della città, e gli sottoposero tutte le loro castella. Di là passò a Tortona: del che ingelositi i Genovesi, inviarono tosto delle buone guarnigioni alle loro castella di Gavi, Palodi e Ottaggio di qua dall'Apennino. Anderarono ad incontrar Federigo i marchesi di Monferrato, di Ceva e del Caretto, con ritirarsi dalla lega di Lombardia e far lega con lui. Galvano Fiamma aggiugne [Gualvan. Flamma, cap. 279.], avere altrettanto fatto il conte di Savoia. Nel mese poscia di ottobre con potente esercito uscì ai danni de' Milanesi, i quali con grandi forze il fermarono virilmente al Ticinello, nè il lasciarono mai passare. In aiuto d'essi Milanesi il comune di Genova inviò cinquecento balestrieri. Perciò, veggendo Federigo inutili i suoi sforzi, nel dì 12 di novembre congedò l'armata, e se n'andò a Grosseto. Di niuna considerabile e sanguinosa battaglia in essi Annali Genovesi e in altri si truova menzione; e però dovette la sopraddetta essere cosa di poco momento. Abbiamo dalla Cronica Piacentina [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] che il comune di Piacenza [1192] spedì ducento cavalieri in soccorso dei Milanesi al Ticinello; e che, entrato il re Enzo coi Cremonesi ed altri popoli sul Piacentino, arrivò fin presso alla città, e bruciò lo spedale di Santo Spirito, e portò via la campana di San Lazzaro. In questo anno ancora dalla città di Parma Federigo fece scacciare Bernardo della nobile casa de' Rossi, perchè parente del papa, con distrugger anche le di lui case. In tal congiuntura [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] uscirono parimente di Parma le nobili famiglie de Lupi e dei Correggieschi, perchè erano di fazione guelfa, ed imparentati anch'essi colla casa de' conti Fieschi. Impadronissi in quest'anno [Roland., lib. 5, cap. 15.] Eccelino da Romano delle castella di Anoale e di Mestre, e vi fece fabbricar dei gironi, specie di fortezze usate in que' tempi. Le tolse ai Trivisani, a' quali ancora sul finire dell'anno fu occupato Castelfranco da Guglielmo da Compo San Piero. Anche dalla città di Reggio [Memorial. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.], per ordine del re Enzo, furono cacciati e banditi i Roberti, quei da Fogliano, i Lupisini, i Bonifazii, quei da Palude, ed altri di fazione guelfa, insieme coi Parmigiani, che s'erano ritirati in quella città. Vedremo che anche Tommaso da Fogliano Reggiano era nipote di papa Innocenzo IV. Aggiungono gli Annali vecchi di Modena [Annal. Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.] che in Reggio ne' primi giorni dell'anno vennero all'armi i Guelfi e i Ghibellini, e che nel dì 3 dì luglio si tornò a combattere; ma entrato Simone de' Manfredi e Marione de' Bonici con gran gente, ed uniti col popolo, cacciarono fuori i Roberti e gli altri Guelfi. Parimente da Verona furono forzati ad uscire quei che vi restavano di fazione guelfa, e questi si ricoverarono a Bologna. In essi Annali finalmente si legge che anche la città di Firenze si mosse a rumore, e toccò ai Guelfi di abbandonar la patria: tutto per [1193] opera e maneggio di Federigo. Secondo Ricordano Malaspina [Ricordano Malaspina, Storia Fiorent., cap. 137.], questa novità di Firenze pare succeduta solamente nell'anno 1248. Tolomeo da Lucca [Ptolom. Lucens., in Annal. brev.] di ciò parla all'anno 1247, e va con lui d'accordo la Cronica di Siena [Chronic. Senense, tom. 15 Rer. Ital.]. Ma è da preferire Ricordano, del cui parere sono ancora altre storie. L'Ammirato differisce fino ai 1249 l'uscita de' Guelfi da quella città.


   
Anno di Cristo MCCXLVI. Indizione IV.
Innocenzo IV papa 4.
Federigo II imperadore 27.

Di gran maneggi avea già fatto il pontefice Innocenzo coi principi della Germania, affinchè si venisse all'elezione d'un nuovo re, senza neppure avere riguardo a Corrado figliuolo di Federigo, che non era nè scomunicato nè deposto. Alieni da questa risoluzione essendosi trovati il re di Boemia, i duchi di Baviera, Sassonia, Brunsvich e Brabante, e i marchesi di Misnia e di Brandeburgo [Raynald., in Annal. Eccles.]: ne scrisse loro il papa lettere efficaci. Tanto innanzi andò l'affare, che finalmente fu eletto re Arrigo langravio di Turingia dagli arcivescovi di Magonza, di Colonia e di Treveri, e da alcuni altri principi [Albert. Stadens., in Chron.]: nuova che sommamente rallegrò il papa per la conceputa speranza che col braccio di questo principe egli schianterebbe Federigo e tutta la sua casa. Mandò Filippo vescovo di Ferrara per suo legato in Germania con un buon rinforzo di danari al re novello, e con ordine di forzar tutti gli ecclesiastici a riconoscerlo per tale. Scrisse parimente ai principi secolari, pregandoli ed esortandoli a far lo stesso, con dispensar loro per questo l'indulgenza plenaria di tutti i loro peccati. Volle inoltre che i soldati del nuovo re prendessero la croce, e [1194] godessero di tutte le indulgenze ed immunità, come se andassero a militare contro ai Turchi e agli altri infedeli: il che servì di cattivo esempio per li tempi susseguenti, con vedersi la religione servire alla politica. Intanto il re Corrado figliuolo di Federigo, alla cui rovina ancora tendeva tutta questa novità, raunato un forte esercito, marciò alla volta di Francoforte per disturbar la dieta che ivi dovea tenere il langravio [Monach. Patavin., in Chron., tom. 8 Rer. Ital.]. Venuto alle mani coll'armata del nemico re, ne restò totalmente disfatto, di maniera che si giudicava come ridotto a fuggirsene in Italia, se il duca di Baviera non avesse imbracciato lo scudo per lui. Furono creati nello stesso tempo dal pontefice due cardinali legati, acciocchè facessero un'armata, e commovessero la Puglia e Sicilia contra di Federigo [Raynald., in Annal. Eccl.]. E perciocchè occorrevano di grandi spese per sostenere sì strepitosi impegni, s'imposero alle chiese di Francia, Italia, Inghilterra e d'altri paesi non poche gravezze, per cagione delle quali uscirono poi molte doglianze degl'Inglesi, riferite da Matteo Paris [Matth. Paris, Hist. Angl.], essendo ben probabile che anche gli ecclesiastici degli altri paesi si lamentassero forte che il loro danaro avesse da servire in uso tale. Infatti si cominciarono varie congiure contra di Federigo nella Puglia. Ne erano autori Teobaldo Francesco, Pandolfo Riccardo, la casa de' conti di San Severino, ed altri non pochi baroni. Per attestato del Continuatore di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.], la volevano anche contra la vita d'esso imperadore. Fu in questi tempi, oppure molto più tardi, come altri vogliono, i quali sembrano più veritieri, che anche Pietro dalle Vigne, gran cancelliere di Federigo e suo favorito in addietro, cadde dalla sua grazia. Chi scrisse, perchè trovato che avesse parte nelle suddette congiure; chi perchè [1195] nel concilio di Lione non articolasse parola in favore del suo padrone; chi perchè lo avesse voluto avvelenare: del che fu convinto. Dei segreti dei principi ognun vuol dire la sua. Quel che è certo, Federigo il fece abbacinare, lo spogliò di tutti i suoi beni, e confinollo in una prigione, dove dicono che da lì a tre anni egli stesso disperato, con dar della testa nel muro, si abbreviò le miserie e insieme la vita. Abbiamo da Matteo Paris, che trovandosi Federigo assediato da tanti turbini da tutte le parti, ricorse al santo re di Francia Lodovico IX, acciocchè s'interponesse col papa per la concordia, con esibirsi di passare in Terra santa colle sue forze per ricuperare quel regno, e quivi terminare i suoi giorni, purchè fosso rimesso in grazia della Chiesa. Lodovico, perchè avea già presa la croce, voglioso d'impiegar le sue armi in Oriente in pro della cristianità, parendogli questa un'offerta di sommo rilievo, per poter unitamente con Federigo promuovere gli interessi di Terra santa, e perchè conosceva che, durante la discordia fra la Chiesa e l'imperio, nulla di bene potea sperare in Oriente; cercò di abboccarsi col sommo pontefice, e l'abboccamento seguì nel monistero di Clugnì. Per quanto si affaticasse il re a far gustare al papa questa proposizione, nulla potè mai ottenere, persistendo Innocenzo IV in dire che non si dovea più fidar di Federigo, principe tante volte provato mancator di parola. Poco aggustato se ne tornò il re Lodovico alla sua residenza. Del suo ardore per questa pace ne siamo anche assicurati dal Rinaldi annalista pontificio.

Oltre a ciò, per dar animo ai ribelli di Puglia, si fece correr voce che Federigo era morto in Toscana; ma Federigo, accorso colà, dissipò non solamente questa diceria, ma eziandio i sollevati colla prigionia d'alcuni; contra de' quali poscia, e contra de' parenti, e infine contra chiunque fu o provato o sospettato complice egli poscia con atrocissimi tormenti infierì. In una sua lettera scritta al re di [1196] Inghilterra nel dì 15 d'aprile del presente anno, parla egli de' congiurati depressi, con aggiugnere [Matth. Paris, Hist. Angl.] che nel dì ultimo di marzo essendo venuto il cardinal Rinieri col popolo di Perugia e d'Assisi per assalire Marino da Ebolo suo capitano nel ducato di Spoleti, questi gli avea data una rotta; e che, oltre agli uccisi, da cinque mila n'erano restati prigionieri. C'è licenza di credere molto meno. Negli Annali vecchi di Modena si leggono queste parole: Eodem anno 1246 Perusini conflicti fuerunt a Federico imperatore [Annales Veteres Mutinenses, tom, 11 Rer. Ital.]. Da una lettera poi di Guglielmo da Ocra abbiamo che Federigo fece in quest'anno pace coi Romani e i Veneziani. Niuna menzione di ciò s'ha dalla Cronica del Dandolo [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] da cui bensì sappiamo che circa questi tempi tornò sotto la signoria di Venezia la città di Zara. Non parlano le Croniche di fatto alcuno riguardevole accaduto in quest'anno in Lombardia. Ricavasi solamente da quelle di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.] che il re Enzo venne colle genti di Parma e Cremona sul Piacentino ad istanza di Alberto da Fontana, che gli avea promesso di dargli la città. Seguì ancora un conflitto fra lui e i Piacentini. Colle mani vote se ne tornò il re Enzo a Cremona. In Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] i ministri dell'imperadore occuparono il palazzo e la torre del vescovo, e tutte le rendite del vescovato, con imporre eziandio delle gravissime taglie e contribuzioni a tutti i beni della Chiesa: mestiere nello stesso tempo praticato da Federigo in Puglia, e negli altri paesi posti sotto il suo giogo. Obizzo e Corrado marchesi Malaspina si dichiararono in quest'anno per la lega di Lombardia [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6. tom. 6, Rer. Ital.]; ma, secondo l'uso de' marchesi di quelle parti, Corrado da lì a non poco tornò ad abbracciar il [1197] partito di Federigo. Prosperarono in quest'anno gli affari di Eccelino da Romano [Roland., lib. 3, cap. 16.], coll'essere venuti alle sue mani Castelfranco, Triville e Campreto, castella de' Trivisani. Ebbe anche per forza il castello di Mussolento. Costui in Verona fece morire i nobili da Lendenara, e molti altri in Padova per sospetti di congiura, che si dicea tramata contra di lui. Negli Annali Veronesi [Paris de Cereta, Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.], i quali in questi tempi si trovano mancanti e i confusi, vien riferita una battaglia accaduta di là dal Mincio fra Eccelino e i Veronesi dall'una parte, e il conte Ricciardo da San Bonifazio coi Mantovani e fuorusciti veronesi, ed Azzo VII marchese d'Este coi Ferraresi, dall'altra. Niuno restò vincitore, ma molti furono i morti e prigioni, e non pochi cavalli pel troppo caldo vi rimasero soffocati. A qual anno appartenga tal combattimento nol so dire: probabilmente all'anno seguente, come osservò il Sigonio.


   
Anno di Cristo MCCXLVII. Indizione V.
Innocenzo IV papa 5
Federigo II imperadore 28.

Non so io qual fede meriti Matteo Paris in un fatto, di cui non apparisce vestigio presso gli storici tedeschi, benchè, per vero dire, la Germania non ha in questi tempi storico alcuno che ci dia sicuro lume dei suoi avvenimenti. Scrive egli adunque [Matth. Paris, Hist. Angl.], che mentre l'eletto re Arrigo langravio di Turingia si disponeva per ricevere solennemente la corona germanica, il re Corrado figliuolo di Federigo con quindici mila combattenti si mise in agguato, e, venuto a battaglia con lui, sbaragliò la di lui gente con istrage di moltissimi, e prigionia di molti più, e colla presa di tutto il tesoro inviatogli dal papa. Per questo colpo caduto Arrigo in una grave malinconia, s'infermò e diede [1198] fine a' suoi giorni. Scrive il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 18.] ch'egli ictu sagittae saucius fugam arripere coactus, haud ita multo post dolore confectus interiit. Avrà egli presa tale notizia da Tritemio [Trithemius, Annal. Hirsang.], o dal Nauclero, che scrivono ciò succeduto nell'assedio d'Ulma. Gli altri storici dicono che esso re Arrigo morì nel suo letto cristianamente per disenteria. Quante ciarle mai si saranno fatte per tal morte in tempi sì sconvolti, tempi sì pieni di bugie, di falsi giudizii e di strabocchevoli passioni, interpretando ognuno a suo talento i naturali avvenimenti delle cose, come ancora si dovette fare a' tempi di papa Gregorio VII per simili avvenimenti. Non si perdè d'animo per questo il pontefice Innocenzo, ma, spedito in Germania il cardinal Pietro Capoccio nel dì 4 d'ottobre dell'anno presente [Raynaldus, in Annal. Ecclesiast. Albertus Stadens., in Chron. Petrus de Curbio, Vita Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.], fece eleggere re di Germania Guglielmo conte d'Olanda, giovane prode e generoso in età di circa venti anni, il qual poi essendosi colla forza impadronito di Aquisgrana nell'anno seguente, quivi nella festa d'Ognisanti fu solennemente coronato da Guglielmo cardinale vescovo sabinense. Gli mandò tosto il papa un rinforzo di trenta mila marche d'argento, che felicemente arrivò alle di lui mani. Ma non ebbe già questa felicità la spedizione di quattordici altre mila marche d'argento, che il papa, stando tuttavia in Lione avea consegnato ad Ottaviano cardinale di Santa Maria in Via lata, insieme con un corpo di soldatesche per soccorso dei Milanesi e degli altri collegati di Lombardia. Il Continuatore di Caffaro scrive [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.] che erano mille e cinquecento cavalli che il papa avea fatto assoldare in Lione. Amedeo conte di Savoia [Matth. Paris. Hist. Angl., Petrus de Curbio, in Vita Innocentii IV, cap. 23.], [1199] perchè amico di Federigo, benchè si mostrasse parziale del papa, trovò tante scuse, che il cardinale per quasi tre mesi fu costretto a fermarsi e a consumare il danaro nel soldo di quegli armati, i quali in fine licenziati se ne tornarono alle lor case; ed egli, se volle passar in Italia, dovette colla sola sua famiglia guadagnarsi il transito per vie inospite e dirupate. Quetati i rumori della Puglia, venne in quest'anno Federigo a Pisa, e di là in Lombardia, senza commettere ostilità veruna. Portossi dipoi a Torino, se crediamo a Matteo Paris, per andare alla volta di Lione cum innumerabili exercitu, con timore de' buoni ch'egli pensasse a far qualche brutto scherzo al papa e ai cardinali soggiornanti in quella città. Ma questo esercito, ed esercito innumerabile, è una frottola spacciata dal buon Paris. Particolarità di tanto rilievo non l'avrebbe omessa nella vita di papa Innocenzo IV Pietro da Curbio, che si trovava allora in Lione. Altro non dice questo autore, se non che Federigo venne a Torino, ubi cum comite Sabaudiae, et aliis quibusdam baronibus sibi adhaerentibus nequiter machinans contra summum pontificem, ipsum Lugduni circumvenire fraudulentissime procurabat. Profittò di questa congiuntura il conte di Savoia per farsi consegnare da Federigo il castello di Rivoli. Secondo il suddetto autore, si teneva in Lione che Federigo fosse venuto per ingannar con qualche frode, e non già per opprimere colla forza dell'armi il pontefice. Per lo contrario, Federigo in una lettera, rapportata dallo annalista Rinaldi scrisse che la risoluzione da lui presa di portarsi a Lione gli era venuta da Dio, affine di terminar le discordie, e giustificarsi appresso il papa e i Franzesi, per quanto io vo credendo, dell'imputazione datagli d'essere un eretico e miscredente. Se fosse vera o finta questa sua intenzione, non saprei dirlo io: ben so che non sarebbe mai convenuta a lui una protesta sì fatta, quando egli avesse condotto seco un [1200] esercito smisurato, capace di accusarlo presso d'ognuno, non già di pacifici, ma bensì di perniciosi disegni. Così dall'Annalista di Genova impariamo ch'egli venne in Lombardia mansueto come un agnello, e diceva di voler ubbidire agli ordini del papa, e dar pace al mondo; e ciò ad istanza del re di Francia. Comunque sia, eccoti disturbati i di lui o buoni o perversi disegni dall'avviso d'una novità, che il fece smaniar per la collera, e tornare ben tosto indietro.

I parenti di papa Innocenzo scacciati da Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], cioè i Rossi, i Correggeschi, i Lupi ed altri, tenendo buona intelligenza in quella città, nel dì 16 di giugno, giorno di domenica, con grosso corpo d'armati vennero alla volta di Parma. Arrigo Testa da Arezzo, che quivi era podestà per l'imperadore, ciò presentito, andò loro incontro fino al fiume Taro colla milizia di Parma, e venne con loro a battaglia. O così portasse la fortuna dell'armi, oppure perchè il popolo di Parma facesse due diverse figure, restò egli morto in quell'azione, i suoi sbandati se ne tornarono alla città, dove entrarono anche i nobili fuorusciti col seguito loro. Gherardo da Correggio a voce di popolo fu immantinente proclamato podestà, furono prese le torri e il palazzo del comune, con iscacciarne gli uffiziali e soldati dell'imperadore. Trovavasi allora il re Enzo all'assedio di Quinzano, castello de' Bresciani [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.]. Appena ebbe intesa questa nuova, che, senza perdere un momento di tempo, venne coll'armata sua a portarsi alle rive del Taro, per impedire i soccorsi a Parma. Non per questo rimasero i Milanesi di spedirvi mille uomini d'armi, ciascuno de' quali, secondo gli Annali di Milano [Annales Mediol., tom. 16 Rer. Ital.], avea quattro cavalli. Secento ancora (forse ducento, secondo la Cronica di Piacenza) ne mandarono [1201] i Piacentini [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Fu condotta questa brigata per la montagna da Gregorio di Montelungo legato apostolico, e da Bernardo figliuolo d'Orlando Rosso, e felicemente arrivò in Parma con somma consolazione di quel popolo. Essendo volata anche a Torino questa novità, Federigo, ben conoscente delle conseguenze che seco portava, perchè a lui tagliava la comunicazione con Reggio e Modena, città a lui fedeli, e colla Toscana, precipitosamente venne alla volta di Parma, e in vicinanza d'essa cominciò a trincierarsi. Attesero anche i Parmigiani a far fossi, e a fabbricar palancati e bitifredi per lor difesa. Ordinò Federigo al comune di Reggio di far prigioni quanti Parmigiani si trovavano in quella città; e fu ubbidito. Un pari comandamento andò a Modena, e quivi fu presa la cinquantina de' cavalieri di Parma, già venuta in soccorso di Modena, acciocchè i Bolognesi non impedissero il raccolto de' grani; e tutti inoltre gli scolari di Parma, che erano allo studio delle leggi in Modena, città anche allora provveduta di buoni lettori per la lor gara col popolo di Bologna. Furono tutti condotti a Federigo, ed incarcerati. Fu anche sconfitta dal re Enzo la cavalleria di Parma verso Montecchio, con restarvi molti di essi prigioni. Tra questi ed altri presi in diversi luoghi, ebbe Federigo da mille prigioni parmigiani, de' quali barbaramente cominciò a farne morir quattro in un giorno in faccia alla città, e due nel dì seguente; ed era per seguitar questa barbarie, se il popolo di Pavia mosso a compassione non avesse chiesta in dono la loro vita, facendogli conoscere che la loro morte nulla serviva a prendere la città, e solamente potea rendere lui odioso a tutto il mondo. Il solo Colorno si tenne saldo in quelle congiunture; tutto il resto del distretto ebbe il guasto, e venne in potere di Federigo, il quale a quell'assedio avea ben dieci mila cavalli, e una quantità innumerabile di fanteria di varie città, con [1202] alcune migliaia di Saraceni balestrieri. Distruggevano costoro tutte le case, e ne asportavano al campo imperiale tutti i mattoni e i coppi, co' quali, d'ordine di Federigo, si andò fabbricando una città verso l'occidente in faccia a Parma, con fosse, steccati, bitifredi, baltresche, ponti levatori e mulini. Le fu posto il nome di Vittoria, per far buon augurio all'imperadore, risoluto di non muoversi di là senza aver presa la nemica città. Della nuova sua fece egli il disegno [Rolandinus, lib. 5, cap. 21.], dopo aver fatto prendere da' suoi strologhi l'ascendente più favorevole; e fu da essi ben servito, siccome vedremo.

L'assedio di Parma commosse ben tosto al soccorso i circonvicini collegati della Chiesa. Ricciardo conte di San Bonifazio v'entrò con una squadra d'armati. I Mantovani si scagliarono addosso ai Cremonesi, saccheggiando e bruciando tutto sino a Casalmaggiore. Azzo VII marchese d'Este coi Ferraresi, i fuorusciti di Reggio, Bianchino da Camino, e infin Alberico da Romano, fratello di Eccelino, con una mano di Trivisani, accorsero all'aiuto dell'assediata città. Anche i Genovesi v'inviarono quattrocento cinquanta balestrieri, e trecento i conti di Lavagna nipoti del papa. Fece all'incontro Federigo venire alla sua armata Eccelino da Romano co' Padovani, Vicentini e Veronesi. Allorchè egli giunse alla villa di Gazoldo, passando pel Mantovano, il marchese d'Este coi Mantovani nel mese di giugno assalitolo, diedero una spelazzata alla sua gente, e massimamente ai Veronesi, che aveano la retroguardia. Fu anche spedito dal papa il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, il quale coi Milanesi, Bresciani, Mantovani, Veneziani e Ferraresi si accampò nella Tagliata di Parma. Cresceva intanto ogni dì più la fame in Parma per la mancanza de' viveri. Fecero i Mantovani e Ferraresi venire una gran copia di barche per Po; e perciocchè al loro passaggio si opponeva un ponte fabbricato dal re Enzo su quel fiume, i collegati [1203] della Chiesa lo sforzarono e vinsero [Annales Veronens., tom. 8 Rer. Ital.]: dopo di che introdussero animosamente in Parma una gran quantità di frumento, melica, spelta, orzo, sale ed altre vettovaglie, delle quali abbisognava l'afflitta città. Non istettero oziosi in questo tempo i Bolognesi, profittando della lontananza de' Modenesi, iti al campo imperiale [Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.]. Oltre all'aver anch'essi inviato all'armata della Chiesa in difesa di Parma mille e quattrocento soldati, a tradimento, cioè per via di danari, tolsero nel mese di luglio ai Modenesi [Annales Veter. Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.] il castello di Bazzano. Diversamente scrive il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 18.], che quel popolo si arrendè a patti di buona guerra. In aiuto de' Modenesi accorse allora Eccelino da Romano; e però andarono ad accamparsi vicino a Bazzano a fronte del campo bolognese, con aspettar anche un rinforzo d'uomini d'armi dal re Enzo. Vennero poscia alle mani coi Bolognesi nel dì 23 di luglio, e vi fu molta perdita di gente dall'una parte e dall'altra, colla peggio nondimeno del campo bolognese. Ancor qui il Sigonio discorda dai nostri Annali. Contuttociò essi Bolognesi s'impadronirono dipoi anche di Montalto, di Savignano, e d'altri luoghi del Modenese. Jacopino, e Guglielmo suo nipote, de' Rangoni da Modena, erano dianzi passati al servigio del re Enzo con venticinque uomini d'armi. Senza licenza dell'imperadore si partirono dall'assedio di Parma, e però furono banditi da Modena con tutta la fazione guelfa, appellata degli Aigoni. Loro diedero i Bolognesi il castello di Savignano da abitare. In quest'anno i popoli della Lunigiana e Garfagnana si ribellarono all'imperadore [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.], ed imprigionarono il di lui vicario nel castello di Groppo San Pietro. Allora Obizzo marchese Malaspina ricuperò le sue terre di [1204] Lunigiana. Vennero anche alla divozion de' Genovesi molte terre, che dianzi si erano rivoltate, ma non già Savona, città ostinata nella sua ribellione. Presero essi Genovesi una galea di Federigo vegnente in Puglia, che conduceva tre nobili milanesi della casa Pietrasanta, destinati da esso imperadore a far cambio con dei prigioni bergamaschi detenuti in Milano. Fecero in essa galea prigioni ducento uomini con Rubaconte, uno de' principali bergamaschi. Per attestato di Matteo Paris [Matth. Paris, Hist. Angl.], in quest'anno l'imperador Federigo diede una sua figlia per moglie a Tommaso della casa di Savoia, già conte di Fiandra, fratello di Amedeo IV, conte di Savoia, di Guglielmo arcivescovo di Cantorberì, e d'altri degni personaggi di quella nobilissima casa. Gli assegnò in dote Torino e Vercelli colle adiacenze, affinchè impedisse il passo al papa e agli aderenti di lui per quelle. Questo matrimonio è negato dal Guichenon [Guichenon, Hist. de la Maison de Savoye, tom. 1.], e non senza ragione, perchè lo stesso Paris afferma che il papa nel 1251 maritò con lui una sua nipote. Chi sa che non si trovasse qualche fondamento allora per disciogliere il matrimonio contratto con una figliuola d'un imperadore scomunicato e morto? Intanto questo patto di Matteo Paris viene a mettere in dubbio il dirsi dal suddetto Guichenone, che la città di Torino nel 1245 riconobbe per suo signore Amedeo conte di Savoia.


   
Anno di Cristo MCCXLVIII. Indizione VI.
Innocenzo IV papa 6.
Federigo II imperadore 29.

Memorabile fu quest'anno per la gloriosa liberazion di Parma. Avea la rigida stagion del verno fatto ritirare ai quartieri buona parte degli eserciti pontificio e cesareo, esistenti sotto Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], Federigo nondimeno stette costante [1205] all'assedio nella sua città di Vittoria. Nel gennaio dell'anno presente la cavalleria de' Parmigiani a Collecchio restò sconfitta dai fuorusciti di Parma. Perchè restò preso nella zuffa Bernardo de' Rossi, fu poscia da essi iniquamente ucciso, ma ne fecero lo stesso dì un'esecranda vendetta i Parmigiani col dar morte a quattro de' più nobili della fazione imperiale. Ebbero essi un'altra disavventura. Erano venuti i Mantovani con sette grosse navi incastellate su per Po, per vietare a' Cremonesi la fabbrica d'un ponte su quel fiume. Passarono al dispetto de' Cremonesi; ma venuto loro addosso il re Enzo, abbandonarono quelle navi, e si diedero alla fuga, restandovi molti d'essi prigioni. Federigo, gran vantatore delle cose prospere, e solito ad impicciolir le contrarie (costume nondimeno familiare di tutti i tempi), in una sua lettera [Raynald., in Annal., Eccl.] scrisse che erano state prese cento navi tra grandi e picciole in questa occasione. Tali perdite furono in breve ben compensate. Passata la metà di febbraio in un giorno di martedì, cioè nel dì 18 di quel mese, per quanto io vo conghietturando (la Cronica di Reggio [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.] dice XII exeunte februario che in quell'anno bissestile vien ad essere il dì 18), un soldato milanese, secondochè vien raccontato da Rolandino [Roland., in Chron., lib. 5, cap. 22.], per nome Basalupo, persuase al legato pontificio Gregorio da Montelungo, a Filippo Visdomini Piacentino podestà di Parma, e agli altri baroni difensori di Parma, che s'avea da assalire la città Vittoria dell'imperadore, avendo egli osservato che ne era molto sminuita la guarnigione, e che Federigo ogni dì di buon tempo ne usciva per sollazzarsi alla caccia del falcone, suo favorito esercizio [Monach. Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Italic. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital. Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital. Petrus de Curbio, Vita Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer. Italic.]. Fu risoluta l'impresa, ed uscito l'esercito collegato [1206] andò vigorosamente a dar l'assalto alla nemica città. Se ne stavano sbadigliando gl'imperiali, non mai imaginandosi una tal visita; e quantunque fossero superiori di numero e ben fortificati, pure talmente s'invilirono, che dopo qualche contrasto presero la fuga. Entrati i vittoriosi pontificii, fecero man bassa contra dei Pugliesi, e principalmente contra de' Saraceni; a moltissimi de' Lombardi diedero quartiere. Vi restò fra gli altri ucciso Taddeo da Sessa, quello stesso che nel concilio avea fatto da avvocato di Federigo. Lasciovvi anche la vita il marchese Lancia. Il tesoro trovato nella camera imperiale in danaro, gioielli, vasi d'oro, d'argento, corone, ed altre cose preziose, fu inestimabile. Circa duemila si contarono di uccisi, più di tremila furono i prigioni. Preso anche il carroccio de' Cremonesi tenuto per gioia di gran prezzo, trionfalmente fu condotto a Parma. Berta era il nome d'esso carroccio. Federigo, che si trovava alla caccia tre miglia lungi di là, ragguagliato del fatto, senza pensarvi molto, spronò coi suoi alla volta di Borgo San Donnino, e di là senza fermarsi passò a Cremona, portando seco non so se più di rabbia, oppure di malinconia. Furono i fuggitivi inseguiti sino al Taro, e molti ancora dei Parmigiani per due miglia di là andarono facendo de' prigioni. La città Vittoria data alle fiamme, col suo falò terminò il trionfo de' Parmigiani, che poi non vi lasciarono pietra sopra pietra. Grande strepito fece per tutta Italia e ne' paesi oltramontani questo glorioso successo della parte pontificia, e ne venne un gran crollo agli affari di Federigo in Italia.

Era tornato a Padova sul principio di quest'anno Eccelino da Romano [Roland., lib. 5, cap. 23.]; e giacchè era andata a male l'impresa di Parma, pensò egli a far delle nuove conquiste. Nelle città di Feltre e Belluno signoreggiava Bianchino da Camino aderente alla parte guelfa. Eccelino nel mese [1207] di maggio, presi seco i Padovani e i Vicentini, ostilmente s'inviò verso Feltre. Nel viaggio una gazza venne a posarsi sopra la bandiera di Eccelino, e fu sì piacevole, che si lasciò prendere. Parve questo ad Eccelino un buon augurio, e ordinò che fosse da lì innanzi la buona gazza delicatamente nudrita in Padova. Feltre non fece molta resistenza; ed Eccelino passò anche sotto Belluno; ma ritrovatovi del duro, riserbò ad altro tempo l'impresa. Nella Cronica eziandio di Verona si legge [Paris de Creta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.] che esso Eccelino, venuto l'ottobre dell'anno presente, coi popoli di Verona, Padova, Vicenza, Feltre e Belluno (secondo Rolandino, non per anche Belluno era sua), passò sul mantovano, e per lo spazio d'un mese diede il guasto a quelle campagne, e menò via molti prigioni. Fu in quest'anno [Raynaldus, in Annal. Eccl.], che papa Innocenzo fulminò la scomunica contra di quel tiranno, cioè contra del crudele Eccelino. Ricuperarono i Parmigiani [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.] nell'anno presente le castella di Bianello, Cuvriaco, Guardasone e Rivalta. Nè si dee tacere che al conte Ricciardo da San Bonifazio, il quale tanto si segnalò nella difesa della lor città, donarono il palazzo dell'imperadore che era posto nell'Arena. Erasi staccata la città di Vercelli da Federigo; la fece egli in quest'anno ritornare all'ubbidienza sua. Ma Novara, secondo la Cronica Piacentina [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.], si diede in quest'anno al legato del papa e ai Milanesi. I Bresciani [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.] anch'essi ritolsero ai Cremonesi il castello di Pontevico. Nuovi guai recò ancora la potenza de' Bolognesi al comune di Modena con torgli Nonantola, San Cesario e Panzano. Dagli Annali di Genova [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.] abbiamo che i Pisani e il [1208] marchese Oberto Pelavicino aveano fatto un grande armamento per muover guerra ai Genovesi, i quali si prepararono per ben riceverli. La rotta degl'imperiali sotto Parma fece lor calare l'orgoglio. Aggiungono che Federigo venne sino ad Asti, e spedì suoi messi a Lodovico re di Francia, il quale era già in procinto di passare il mare contra degl'infedeli, con esibir di nuovo sè stesso e tutte le sue forze per la medesima sacra spedizione, purchè gl'impetrasse l'assoluzione della scomunica e deposizione. Ma nulla di ciò fu fatto, e Federigo si fermò tutto il verno in Lombardia senza recare offesa alcuna ai Crocesignati, o ad altri popoli. Succederono bensì molte novità nella Romagna [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital. Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.]. Spedito colà il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, prese seco tutta la milizia di Bologna, e nel mese di maggio andò a mettere l'assedio a Forlì, che dopo pochi giorni capitolò la resa. Altrettanto amichevolmente fecero le città di Forlimpopoli, Cervia, Cesena, Imola e Ravenna. Con questi popoli poi passò nel mese di giugno ad assediar Faenza, che tuttavia era in potere di Tommaso dalla Marca, creato conte della Romagna da Federigo. Tenne forte quella città per quindici giorni, dopo i quali si diede al cardinale. Anche Malatestino (si comincia ora ad udir questa famiglia, che col tempo salì ben alto) fece ribellare Rimini all'imperadore. Crede Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.], che queste città venissero sotto la signoria della Chiesa, e che il pontefice dichiarasse allora Ugolino de' Rossi suo nipote conte della Romagna. Più probabile a me sembra, che fossero prese a nome di Guglielmo re di Germania e de' Romani, creatura del papa, per le ragioni che andando innanzi accennerò. Il Ghirardacci [Ghirardacci, Istor. di Bologna, tom. 1.] altro non conobbe, se non che que' popoli giurarono di stare ai comandamenti del papa e de' Bolognesi, [1209] conservando la libertà delle loro città. Tal guerra fu fatta in quest'anno in Germania da Guglielmo nuovo re coronato in Aquisgrana, al re Corrado figliuolo di Federigo, che fu costretto a ritirarsi in Italia presso il padre. Non farei io sigurtà della verità di questo racconto che è di Matteo Paris [Matth. Paris, Hist. Angl.], perchè della venuta di esso Corrado in Puglia non v'ha menomo vestigio in altre storie di questi tempi.


   
Anno di Cristo MCCXLIX. Indizione VII.
Innocenzo IV papa 7.
Federigo II imperadore 30.

Si accinse nell'anno precedente il santo re di Francia Lodovico IX a compiere il suo voto di Terra santa [Jonvill. Nangius. Vicentius Belluacens.], e raunato un possente esercito si mise in viaggio, accompagnato da Roberto conte di Artois e da Carlo conte d'Angiò e di Provenza, suoi fratelli, e da molti vescovi e baroni di Francia. Gli fornirono i Genovesi [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom 6 Rer. Italic.] un copioso stuolo di galee e di navi da trasporto a nolo. Seco era Ottone cardinale, vescovo tuscolano legato apostolico. Imbarcatosi coi suoi arrivò felicemente all'isola di Cipri, dove passò il verno. Venuta la primavera, il piissimo re sciolse le vele verso l'Egitto, e prosperosi furono i principii della sua spedizione, perchè giunto colà verso la festa dell'Ascension del Signore, s'impadronì dell'importante città di Damiata, dove si trovò gran copia d'armi, vettovaglie e ricchezze. Per la solita inondazione del Nilo gli convenne far pausa tutta la state. Poscia nel novembre uscì coll'armata in campagna, e più di una volta ruppe i Saraceni, che ardirono d'azzuffarsi con lui. Per questi progressi del re Cristianissimo, grandi speranze concepì tutta la cristianità; ma dove andassero queste a finire, lo vedremo all'anno seguente. [1210] Passò in questo anno in Puglia Federigo, nè si sa ch'egli facesse impresa militare in alcun paese. Abbiamo bensì da Matteo Paris [Matth. Paris, Hist. Anglic.], che mentre Marcellino vescovo di Arezzo nelle parti d'Ancona per ordine del pontefice facea guerra a Federigo e ai Ghibellini suoi aderenti, cadde nelle mani de' Saraceni, posti da esso imperadore alle guardie di quelle contrade. Dopo tre mesi e più di prigionia, d'ordine di Federigo fu pubblicamente impiccato; sacrilega crudeltà, che fece orrore a tutti i buoni, ed accrebbe il discredito ed odio comune contra di Federigo. Scrive ancora Pietro da Curbio [Petrus de Curbio, Vita Innocent. IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.], cappellano del papa, ch'egli, detestando l'opere buone del santo re di Francia, chiuse i passi e i porti del suo regno, perchè egli non passasse di là, nè fossero portate vettovaglie all'armata navale di lui e de' Crocesignati. Ma che dobbiamo noi credere alla storia tanto discorde ed appassionata di questi tempi? Tutto il contrario scrive Matteo Paris, con dire che san Lodovico, dimorando in Cipri, spedì a Venezia per aver soccorso di viveri. Gli spedirono i Veneziani sei navi cariche di grano, vino e di altri commestibili, e un corpo ancora di combattenti. Lo stesso fecero altre città ed isole: hoc Frederico non tantum permittente, sed propitius persuadente. Similiter et ipse Fredericus, ne aliis inferior videretur, maximum eidem victualium diversorum transmisit adminiculum. Aggiugne che il santo re per questo rinforzo scrisse al papa, ut reciperet ipsum Fredericum in gratiam suam, nec amplius tantum Ecclesiae amicum ac benefactorem impugnaret vel diffamaret, per quem ipse et totus exercitus christianus, ab imminenti famis discrimine respiravit. Anche la regina Bianca madre del re ne scrisse con premura al papa; ma questi non si potè mai piegare, e più che mai seguitò ad impugnar Federigo. Abbiamo [1211] infine una lettera di Federigo scritta a san Lodovico [Petrus de Vineis, lib. 3, epist. 23.], in occasione d'inviargli de' viveri e dei cavalli, dove esprime il desiderio di andare a trovarlo in persona alla crociata: dal che si truova impedito per la guerra che gli faceva il papa. Eppure Pietro da Curbio non ebbe scrupolo di scrivere tutto al rovescio. Che poi il cardinal Capoccio in questi tempi, spedito per legato dal pontefice verso la Puglia, facesse ribellar varie terre e baroni al medesimo Federigo, lo abbiamo dallo stesso Paris. Era restato in Lombardia vicario del padre il re Enzo. Fumava egli di collera contra dei Parmigiani per l'antecedente rotta, e contra de' Bolognesi a cagion de' danni inferiti a' Modenesi e alla Romagna, per opera loro ribellata a suo padre. Fecero in quest'anno i Parmigiani [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], uniti coi Mantovani, uno sforzo alla volta di Brescello, che era stato rovinato insieme con Guastalla da Eccelino, durante l'assedio di Parma. Rifabbricarono essi quel castello, e vi misero buona guarnigione. Assicurato così il passo del Po, condussero alla lor città grani, sale ed altre vettovaglie, delle quali penuriavano. Ma un giorno all'improvviso eccoti comparire il re Enzo coi Cremonesi fino alle porte di Parma. Matteo Paris scrive che entrarono anche in Parma le sue genti, e dopo aver fatta gran copia di prigioni se ne andarono. Non è cosa sì facile da credere. Venne poscia a Modena, menando seco una bell'armata di Cremonesi, Tedeschi, ed altri popoli, a' quali si aggiunsero i Modenesi. Erano venuti i Bolognesi [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] con poderoso esercito fino alla Fossalta, circa due miglia lungi da Modena. La Cronica di Brescia [Chron. Brixianum, tom. 12 Rer. Ital. Annales Veronens., tom. 8 Rer. Ital. Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.] ha che i Bresciani ed altri collegati lombardi furono in aiuto di essi Bolognesi, i quali aveano allora per podestà Filippo degli [1212] Ugoni bresciano. Le città ancora della Romagna loro spedirono rinforzi di gente. Nel mercoledì 26 di maggio si venne ad una terribil battaglia, in cui dopo gran mortalità di gente l'animoso re Enzo non solamente restò sconfitto, ma ancora con assaissimi dei suoi, e con Buoso da Dovara, capo de' Cremonesi, fu fatto prigione dai Bolognesi, i quali trionfalmente il condussero alla lor città, e confinaronlo nelle lor carceri. In esse sopravvisse egli per più di ventidue anni, trattato nondimeno con assai onore e civiltà da quel comune. Per quante lettere scrivesse dipoi Federigo suo padre, e per quante esibizioni di riscatto facesse ai Bolognesi per riavere in libertà il figliuolo, nulla potè mai ottenere, riputando gran gloria quel popolo l'avere un riguardevol prigione, re e figliuolo, se ben bastardo, d'un imperadore. Quando non sia scorretto il testo di Pietro da Curbio, è da stupire com'egli abbia scritto [Petrus de Curbio, Vita Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.] che questa vittoria dei Bolognesi accadde XII kalendas januarii, anno quo capta est Victoria.

Costernati intanto i Modenesi per così grave disgrazia, si ritirarono alla lor città, attendendo a ben provvederla e fortificarla, perchè già miravano da lungi qual tempesta loro sovrastasse. Infatti nel mese di settembre si presentò sotto Modena il cardinale Ottaviano con tutte le forze de' Bolognesi e degli Aigoni [Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.], cioè della fazione fuoruscita di Modena, e la strinse di assedio. Se vigorosa fu l'offesa, minore non fu la difesa. Gittarono un dì gli assedianti con una briccola, ossia macchina da lanciar pietre, un asino morto con ferri d'argento entro la città con altra carogna. Da questa ignominia irritato il generoso popolo modenese, fece una sortita con tal empito, che tolse ai Bolognesi la briccola, e la mise in pezzi. Essendosi dunque ostinatamente sostenuti i Modenesi [1213] per più di tre mesi, nè veggendo speranza di soccorso, diedero orecchio ad un trattato di pace offertogli dal cardinale [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.]. Si stabilì esso nel dì 15 di dicembre. Nè già sussiste ciò che narra il Monaco Padovano [Monach. Patavin., in Chron. tom. 8 Rer. Ital.], cioè che Modena si sottomettesse ai Bolognesi. Restarono essi nella lor libertà, obbligati nondimeno di star fedeli alla parte pontificia, e di ricevere ne' bisogni guardie nella loro città. Si leggono i capitoli d'essa pace presso il Sigonio [Sigon., de Regno Ital., lib. 18.]. Tornarono allora alla patria i Rangoni cogli altri fuorusciti di Modena, e fu levato alla città l'interdetto, a cui in questi tempi erano sottoposte tutte le città aderenti a Federigo. Ad esso imperadore fu attribuito a delitto il non averne permesso l'osservanza nelle città della Puglia. Ora nello stesso tempo che l'armi pontificie erano addosso ai Modenesi, anche i Parmigiani coi fuorusciti reggiani fecero oste contro la città di Reggio, e distrussero alcuno dei suoi borghi. Secondo la Cronica antica di Reggio [Memor. Potest. Regiens.], nel giugno, Simone de' Manfredi bandito da Reggio, occupò ad essi Reggiani le castella di Novi, Arola e Santo Stefano. Il Sigonio aggiugne, che i Reggiani col re Enzo ad Arola vi fecero prigione tutta la guarnigione, e inoltre ducento cavalieri parmigiani, che venivano per guardia a quel castello. Volle poi Enzo far uccidere questi prigionieri in faccia a Parma; e l'avrebbe fatto il crudele, se avvertito che i Parmigiani poteano con usura rendergli la pariglia, non fosse desistito da questo inumano disegno [Se nel 26 maggio fu fatto prigioniero dai Bolognesi, come nel giugno il re Enzo poteva essere ad Arola? L'Ed.]. In quest'anno i Manfredi Faentini, famiglia che comincia ora a farsi udire nella storia, occuparono la città di Faenza, mettendo in fuga la guardia [1214] che v'era de' Bolognesi [Matth. de Griffonibus, Hist. tom. 18 Rer. Ital.]. E, secondo gli Annali di Cesena [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.], i conti di Bagnacavallo coi loro partigiani s'impadronirono della città di Ravenna, con iscacciarne Guido da Polenta e la fazione guelfa, siccome osservò ancora Girolamo Rossi [Rubeus, Hist. Ravenn., lib. 6.]. Perciò dal cardinale Ottaviano furono i Ravegnani dichiarati nemici e ribelli della Chiesa romana, del re Guglielmo e de' Bolognesi. Così tornarono di nuovo ad imbrogliarsi gli affari della Romagna.

E, a proposito del re Guglielmo [Piena Esposizione cap. 9.], ho io altrove prodotto un suo documento nell'anno 1249, con cui a dì 2 d'ottobre dà in feudo a Tommaso da Fogliano nobile reggiano, nipote e maresciallo di papa Innocenzo IV, i diritti che, ratione imperii, a lui competevano in civitate, districtu et episcopatu cerviensi, et in Bertonoro, et territorio, et districtu suo, ec. Da gran tempo la Chiesa romana non avea più dominio in quella provincia, anzi neppur vi pretendeva. Spettava essa all'imperio; e per chiarirsene meglio, si osservi che il papa stesso quegli fu che impetrò questo dono al nipote dal re Guglielmo, e nella bolla di confermazione confessa il medesimo papa che quei sono Stati dell'imperio. Perciò si legge bensì nella sentenza proferita contra di Federigo nel concilio di Lione dell'anno 1245 per uno de' suoi reati l'aver egli occupata la marca d'Ancona, il ducato di Spoleti e Benevento; ma non si fa già doglianza, perch'egli facesse il padrone nella Romagna. Finalmente si noti presso l'Ughelli [Ughell., Ital. Sacr., tom. 2, in Episcop. Sarsin.] una concessione fatta dal suddetto Tommaso da Fogliano, come conte della Romagna, di alcune castella al vescovo di Sarsina nel dì 18 agosto del 1259, dove chiaramente dice, esser quelli di giurisdizione imperiale. Andiamo ora a Padova. Da che Eccelino seppe la [1215] prigionia del re Enzo, considerando che anche Federigo suo padre era in Puglia e mal sano [Roland., lib. 6, cap. 1 et seq.], cominciò a formar pensieri di stabilir meglio la sua fortuna, e con indipendenza ancora da esso imperadore. S'impadronì dunque nell'anno presente della città di Belluno, che era dei signori da Camino. Poscia occupò con frode la forte terra e rocca di Monselice, togliendola agli ufficiali e soldati di Federigo. Levò poi dal mondo sotto varii pretesti alcuni che gli faceano ombra in Padova. Era egli avanzato in età: contuttociò menò moglie nel settembre di quest'anno Beatrice, figliuola di Buontraverso da Castelnuovo. E senza pur condurla a casa, nello stesso mese mosse l'armata de' Padovani, Vicentini e Veronesi, e andò sino a Porto e a Legnago [Paris. de Cereta, Annal. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.]. Poi segretamente fatta una contromarcia, la notte della vigilia di san Matteo si presentò alla nobil terra di Este, dove un traditore per nome Vitaliano da Arolda gli diede una porta. Il popolo sorpreso da questa inaspettata novità, se ne fuggì chi qua e chi là [Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital.]. Fu data a sacco la terra, ed incontanente formato l'assedio della rocca con belfredi ossia bitifredi, cioè torri di legno, petriere e trabucchi, che continuamente dì e notte flagellavano le mura, le torri e il palazzo del marchese. Alcuna di quelle macchine dicono che rotava per aria pietre pesanti più di mille e ducento libbre; il che ai nostri dì potrebbe parer cosa incredibile. Fece anche venir colà dalla Carintia dei minatori, che gli promisero di far delle stupende mine. Dopo un mese d'assedio gli assediati diedero la fortezza ad Eccelino con onesta capitolazione. Impadronissi dipoi di Vighizuolo e di Vescovana, luoghi tutti del marchese, e fece distruggerli. Non tentò per allora Cerro e Calaone, perchè fortezze di buon polso, e [1216] solamente gli bastò di bloccarle, acciocchè non v'entrassero viveri. Dopo un anno ancor queste vennero in suo potere. Tale fu il danno che nell'anno presente ebbe Azzo VII, marchese d'Este, trovandosi egli in Ferrara per podestà, senza che apparisca alcun suo movimento in soccorso di quelle sue terre. Dopo avere Jacopo Tiepolo doge di Venezia rinunziata la sua dignità a cagion della vecchiaia, terminò i suoi giorni nel dì 9 di luglio dell'anno presente [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.]. In suo luogo fu sostituito Marino Morosino.


   
Anno di Cristo MCCL. Indizione VIII.
Innocenzo IV papa 8.
Federigo II imperadore 31.

Non passò l'anno presente senza memorabili avvenimenti. Lagrimevole fu quello della sacra spedizione del santo re di Francia Lodovico IX in Egitto. Già egli era padrone di Damiata; si magnificava dappertutto in quelle parti la sua probità, e il valore delle sue armi per varie rotte date ai Saraceni, talmente che (se pur è mai verisimile ciò che racconta il Joinville [Joinvill.]) dopo le disgrazie che fra poco accennerò, avendo que' barbari ucciso il loro Sultano, fu dibattuto non poco fra loro, se doveano proclamar Lodovico re di Francia per loro imperadore. Eransi inoltre coloro ridotti a chieder pace [Nangius, Matth. Paris, et alii.], e ad esibirgli la restituzion di Gerusalemme e degli altri luoghi di Terra santa tolti ai cristiani, purchè rendesse loro la città di Damiata. La superbia, la discordia, l'avarizia de' consiglieri e baroni del re non permisero che si accettasse così vantaggiosa offerta. Inviossi poi l'armata regale alla volta del Cairo, ma fu arrestata in cammino dalla fortezza di Massora. Quivi stando, nè potendo ricevere viveri da Damiata, perchè i Saraceni presero i passi per terra e per acqua, l'esercito per la fame e per le malattie [1217] epidemiche insortevi cominciò a venir meno; e calando ogni dì più il numero dei combattenti, il re, anch'egli infermo, determinò di tornarsene a Damiata. Ma nel viaggio assaliti i cristiani dall'immenso esercito di quegl'infedeli, nel dì 5 d'aprile furono sconfitti, ed il santo re co' principi suoi fratelli, e con gran numero di baroni e dodici mila di gente bassa, rimase prigione. Non so se abbia buon fondamento il dirsi da Giovanni Villani [Giovanni Villani, Istor., lib. 6, cap. 36.] che il re fu messo ne' ceppi: forse fu sui primi giorni. I più antichi scrittori scrivono ch'egli dipoi fu onorevolmente trattato da quei Barbari. Per liberarsi convenne rendere Damiata, e promettere di pagare settanta mila bisanti saraceni: il Villani suddetto dice ducento mila di parigini. Ma i più accertati riscontri sono, che il riscatto suo e di tutti i baroni, e del resto de' prigioni ascendesse ad ottocento mila bisanti d'oro. Fecesi una tregua, che fu mal eseguita da que' perfidi. Doveano rimettere in libertà molte migliaia di prigionieri; neppur mille uscirono dalle lor mani. Continuò poscia il piissimo re, venuto ad Accon ossia Acri, a soggiornare in quelle parti circa due anni, attendendo a fortificar que' pochi luoghi che restavano in poter de' cristiani. Penuriava di viveri la città di Parma. Perchè quella di Reggio tuttavia stava costante nel partito imperiale, si mosse, affine di condurvene con sicurezza, l'esercito de' Bolognesi, Modenesi, Ferraresi e fuorusciti reggiani, e nel dì 8 di giugno, o, per dir meglio, nel dì 15 fino al fiume Crostolo ne condusse una gran quantità [Annal. Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital. Memor. Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Ital.], che fu ricevuta dai Parmigiani, e felicemente introdotta nelle lor città. Venuto Ugo dei Sanvitali da Parma alla nobil terra di Carpi, che era allora sotto la giurisdizione di Modena, quell'arciprete gliela consegnò, ed egli cominciò a farvi il padrone. Alterato per questo affare il comune [1218] di Modena, mise al bando tutti i Carpigiani, e già si disponeva per procedere ostilmente contro quella terra e distruggerla. Ma i Carpigiani prevennero il colpo con iscacciarne il suddetto Ugo, e allora i Modenesi colà spedirono una buona guarnigione per assicurarsi in avvenire da somiglianti insulti. Anche i Milanesi [Annales Mediolanenses, tom. 16 Rer. Ital.], per sovvenire al bisogno di Parma, vi spedirono in quest'anno quattro mila moggia di biade; ma nel passare pel Piacentino, quel popolo prese e ritenne per sè tutto quel grano. Diversamente parla di ciò la Cronica di Parma. Ossia che già in Piacenza fossero de' mali umori, e a cagion d'essi venisse fatto questo aggravio ai Milanesi e Parmigiani, che pur erano lor collegati; ovvero che di qua prendesse origine la discordia: certo è che in quest'anno la fazion ghibellina prevalse nella città di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.], e quel popolo, per tanti anni in addietro sì attaccato alla Chiesa, voltò mantello: cotanto erano allora instabili gli animi de' popoli italiani. Ritirossi per questo il cardinale legato del papa da quella città, ed anche i nobili, cedendo alla forza de' popolari, si ridussero alle lor castella.

Aveano i Cremonesi eletto per loro podestà nell'anno presente il marchese Oberto ossia Uberto Pelavicino, signor potente, e Ghibellinissimo, per desiderio specialmente di vendicarsi dell'insopportabile affronto ricevuto dai Parmigiani, che nella vittoria del 1248 aveano preso il loro carroccio. Figurandosi dunque di poter prendere Parma, che scarseggiava allora di vettovaglie, il marchese Oberto, con grosso esercito di essi Cremonesi e dei fuorusciti di Parma, da Borgo San Donnino s'incamminò a quella volta. Arditamente, benchè con forze disuguali, uscì il popolo di Parma [Monachus Patavinus, in Chron. Memorial. Potest. Regiens.] contro i nemici, conducendo il suo carroccio appellato [1219] Biancardo, e nel giovedì 18 di agosto in un luogo chiamato Agrola attaccò un fierissimo combattimento. Nel furor della battaglia s'alzò una voce de' fuorusciti: alla città, alla città: il che udito da' Parmigiani, abbandonato il conflitto, furiosamente retrocederono per prevenire il tentativo de' nemici. Tale fu la calca di essi al ponte della città, che questo si ruppe, nè solamente precipitarono e si annegarono nell'acqua della fossa coloro che v'erano sopra, ma assaissimi altri di quei che venivano dietro, incalzati non meno dai suoi che dai Cremonesi. Perì per quell'accidente e per le spade dei nemici gran quantità di cittadini di Parma, e ne restarono prigionieri tre mila pedoni ed assaissimi cavalieri, giacchè era loro tolto l'ingresso nella città. Furono tutti condotti a Cremona in trionfo, trionfo soprattutto, secondo l'opinion d'allora, nobilitato dalla presa ancora del carroccio parmigiano, per cui si fece gran festa da' Cremonesi. Restò in Parma per lungo tempo la memoria di questo infelice giorno, nominato la mala zobia. Scrive il Sigonio [Antonio Campo, Istor. di Cremona.] ch'essi prigioni furono dipoi tormentati e ingiuriati, acciocchè si riscattassero; ma, se crediamo ad Antonio Campo [Sigon., de Regno Ital., lib. 18.], cavate loro le brache per ischerno e vergogna, furono rimessi in libertà. Con questa vittoria tal credito si acquistò il marchese Oberto Pelavicino, che a poco a poco in altissimo stato salì, siccome andremo vedendo. Da lì a tre dì essendo assediato Mozano castello di Parma da Alverio da Palù ossia da Palude, e giunta nuova che i Mantovani venivano in aiuto di Parma, animosamente essi Parmigiani corsero a liberar quel castello, e vi fecero prigioni cento degli assedianti. Anche i Reggiani diedero il guasto a Novi, e presero Campagnola con ducento sessanta uomini. Dal vedere che i Milanesi [Annal. Mediol., tom. 8 Rer. Ital. Gualvan. Flamma, in Manipul. Flor., cap. 284.] in questo [1220] anno presero ai Lodigiani le castella di Fissiraga, Brignate e Zimido, si può conghietturare che il comune di Lodi coll'esempio di Piacenza si staccasse dalla lega di Lombardia, ed abbracciasse il partito imperiale. Molti nondimeno de' Milanesi pel soverchio caldo morirono in essa spedizione; laonde quello fu poi chiamato l'esercito della Caldana. Nell'agosto dell'anno precedente [Rolandinus, lib. 6, cap. 3 et seq.] aveva Eccelino da Romano data la podesteria di Padova ad Ansedisio de' Guidotti, figliuolo d'una sua sorella, fatto dalla natura per essere ministro d'un crudele tiranno. Costui nell'anno presente per sua iniquità, ed ordine ancora dell'inumano suo zio, levò di vita molti cittadini di Padova a cagione d'alcuni versi fatti contra di Eccelino, o sotto altri pretesti. Fra questi spezialmente si contò Guglielmo da Campo San Piero, uno de' più cospicui non solo di Padova, ma anche della marca di Ancona.

Passò Federigo imperadore l'anno presente in Puglia, senza che resti memoria d'alcuna sua particolare azione od impresa. Probabilmente pativa egli qualche sconcerto nella sanità. Nondimeno Pietro da Curbio scrive [Petrus de Curbio, Vit. Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.] ch'egli in questi tempi cacciò fuori del regno i frati predicatori e minori, che troppo a lui erano sospetti; alcuni ancora ne fece tormentare e morire. Ma si è di sopra veduto ch'egli non aspettò a quest'anno a bandire i religiosi suddetti. Assalito fu egli da una mortale dissenteria nel castello di Fiorentino in Capitanata di Puglia, e nel dì 13 di dicembre, festa di santa Lucia, per consenso de' migliori autori [Caffari, Annal. Genuens. Monach. Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital. Albertus Stadensis. Ricordano Malaspina et alii.], cessò di vivere. Le circostanze della sua morte posso ben io riferirle, ma con protesta di non saper che mi credere a quegli storici e tempi che niuna misura ebbero negli odii e nelle passioni, nè si [1221] studiavano di depurar la verità dalle dicerie del volgo. Ricordano Malaspina [Ricordano Malaspina, Istor., cap. 147.] e il suo copiatore Giovanni Villani [Giovanni Villani, Istor., lib. 6.], ed anche Saba Malaspina [Saba Malaspina, Histor., lib. 1, cap. 2.], scrissero che gli era stata predetta la sua morte in Firenze, e però non volle mai entrare nè in Firenze, nè in Faenza, senza avvedersi che in Fiorenzuola (Fiorentino era appellato quel luogo) dovea trovarlo la morte. Questo racconto ha cera d'una fandonia, dedotta forse dal non essere egli entrato per qualche accidente in quelle città. Aggiugne Ricordano che Manfredi suo figliuolo bastardo, per voglia di avere il tesoro di Federigo suo padre e la signoria del regno di Sicilia, con un guanciale postogli sulla bocca l'affogò. Anche questa può essere una ciarla. Niuno degli autori più antichi ne parla; nè è punto ciò verisimile, perciocchè Federigo avea de' figliuoli legittimi, chiamati al regno, nè Manfredi vi potea allora aspirare; e se questi avesse occupato i tesori del padre, ne avrebbe renduto buon conto al re Corrado. Finalmente scrive che Federigo II morì scomunicato e senza penitenza. Lo stesso viene asserito da Pietro da Curbio, cappellano di papa Innocenzo IV, e scrittore della sua Vita [Petrus de Curbio, in Vit. Innocentii IV, cap. 29.], e dal Monaco Padovano [Monach. Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Italic.]. Eppure Guglielmo dal Poggio, storico di questi tempi [Guillelmus de Podio, apud Du-Chesne, cap. 49.], Alberto Stadense [Albertus Stadensis, in Chron.], scrittore parimente contemporaneo, e Matteo Paris (non già il suo Continuatore), che scriveva anche egli allora le sue storie [Matth. Paris, Hist. Angl.], affermano esser egli morto compunto e penitente, con aver ricevuta l'assoluzione de' suoi peccati dall'arcivescovo di Salerno. E lo stesso si vede confermato da una lettera scritta da Manfredi al re Corrado suo [1222] fratello, pubblicata dal Baluzio [Baluz., tom. 1 Miscellan.]. Il cattivo concetto, in cui era Federigo, facea che solamente si pensasse e credesse il male di lui. In quest'anno ancora aveva egli spedito al sultano per la liberazione del re di Francia prigioniere. Dai malevoli suoi fu interpretato che la spedizione fosse tutta a fine contrario. Per altro a Federigo non mancarono delle rare doti, accennate da Niccolò da Jamsilla [Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8 Rer. Ital.], affezionato partigiano di Manfredi suo figliuolo; cioè gran cuore, grande intendimento ed accortezza, amore delle lettere, ch'egli fu il primo a richiamare e dilatare nel suo regno; amore della giustizia, per cui fece molti bei regolamenti, conoscenza di varie lingue, ed altre prerogative. Ma questi suoi pregi furono di troppo offuscati dalla sfrenata sua ambizione, per cui si mise in pensiero di abbattere la libertà de' Lombardi, senza mai volere ammettere la pace di Costanza, e di abbassare sconciamente anche l'autorità e potenza del romano pontefice e degli altri ecclesiastici. La religione, che in lui era ben poca, veniva perciò bene spesso calpestata dalla sua politica. Quindi le discordie e guerre, e da esse la necessità di scorticare i sudditi, e il pretesto d'affliggere con ismoderate gravezze le persone ecclesiastiche e le chiese. Colla sua crudeltà, colla sua lussuria diede ancora frequenti occasioni di sparlare di lui; e principalmente la doppiezza sua, e il non attener parola, gli tirarono addosso la solita pena, che non gli era creduto neppur quando parlava di cuore e daddovero. Insomma lasciò egli dopo di sè fama e nome piuttosto abbominevole, di cui non si cancellerà sì di leggeri la memoria. Fece testamento, in cui dichiarò suo erede nel regno di Sicilia Corrado re dei Romani e di Germania. V'ha chi scrive, aver egli lasciata la Sicilia e Calabria ad Arrigo fanciullo, a lui partorito da Isabella [1223] d'Inghilterra sua terza moglie. Non così parla il suo testamento. Costituì ancora balio ossia governatore del regno in lontananza d'esso Corrado, Manfredi suo figliuolo bastardo, a cui lasciò in retaggio il principato di Taranto con quattro altri contadi. Ordinò che si restituissero alla Chiesa tutti i suoi Stati e diritti, purchè anch'essa restituisse quelli dell'impero. Le altre sue disposizioni si leggono nel suo testamento, pubblicato in questi ultimi tempi da varie persone.


   
Anno di Cristo MCCLI. Indizione IX.
Innocenzo IV papa 9.
Imperio vacante.

Se fosse con disgusto o piacere intesa in Lione da papa Innocenzo la morte di Federigo II, non ha bisogno il lettore che io lo decida. Dirò bensì che egli più che mai non solo si accinse a promuovere in Germania gli affari del re Guglielmo sua creatura, e a deprimere, por quanto gli era possibile, il re Corrado, non meno odiato da lui che il suo padre Federigo, con iscomunicarlo ancora, e dichiararlo decaduto da ogni diritto sopra i regni; ma eziandio più che, mai senza risparmio d'indulgenze plenarie e di crociate [Matth. Paris, Hist. Angl.], si diede a commuovere i vescovi, baroni e popoli della Germania, Sicilia e Puglia contra di lui. Tutto ciò s'ha dagli Annali Ecclesiastici del Rinaldi e da Matteo Paris. Nè andarono a voto i maneggi del pontefice. Ribellaronsi [Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8 Rer. Ital.] le città di Foggia, Andria e Barletta, e, quel che è più, Napoli e Capoa; e questo esempio fu seguitato dai conti di Caserta e Cerra della casa di Aquino, che possedevano allora quasi tutto il paese posto tra il Garigliano e il Volturno. Papa Innocenzo IV promise a tutti dei gran privilegii e gagliarda assistenza di soccorsi. Manfredi, giovane allora d'anni dieciotto, ma savio e grazioso, che avea preso le redini [1224] del governo a nome del re Corrado suo fratello, non perdè tempo ad accorrere con quante forze potè contra de' sollevati, e gli riuscì di ridurre alla primiera ubbidienza le tre prime città, e di assicurarsi di quelle di Avellino ed Aversa. Mise poi l'assedio a Napoli, e diede il guasto a quel territorio; ma per quanto egli si studiasse di tirar fuori della città i Napoletani per dar loro battaglia, essi, più accorti di lui, si tennero sempre alla sola difesa delle mura. Una Cronica di Sicilia [Chronic. Sicil., cap. 26, tom. 10 Rer. Ital.] aggiugne che anche Messina, Castello San Giovanni ed altri luoghi si ribellarono a Corrado in Sicilia. Intanto il pontefice Innocenzo, omai libero dalla paura di Federigo, per dar più calore alle sollevazioni della Puglia e agli altri affari dell'Italia, dopo Pasqua si mosse da Lione, e, venuto a Marsilia, per la Provenza e per la riviera del mare felicemente arrivò a Genova patria sua [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.]. Trovò quella città in gran festa e magnificenza, non solamente per la venuta sua, ma ancora perchè le città di Albenga e Savona con altri luoghi dianzi ribelli, scorgendo la difficoltà di potersi sostenere, dappoichè era mancata la vita e potenza di Federigo imperadore, erano tornate all'antica ubbidienza del comune di Genova. Quivi scomunicò il re Corrado [Matth. Paris, Hist. Angl.], i Pavesi, Cremonesi, ed alcuni popoli del partito imperiale. Sciolse dalla scomunica Tommaso di Savoia già conte di Fiandra, e gli diede per moglie una sua nipote con ricca dote. Concorsero alla città di Genova i podestà e gli ambasciatori di tutte le città e dei principi che erano del suo partito, e particolarmente quei di Milano, Brescia, Mantova e Bologna. Diede loro il papa benigna udienza; e perchè desideravano ch'egli passasse per le loro città, determinò di compiacerli. Sul fine dunque di giugno venuto a Gavi e Capriata, fu quivi accolto [1225] dalla milizia milanese [Annales Mediol., tom. 14 Rer. Ital.], e scortato, perchè Vercelli tuttavia seguitava la parte imperiale, e nel dì 7 del mese suddetto entrò in Milano, accoltovi con grandioso e mirabil incontro e somma divozione da quel popolo, e prese alloggio nel monistero di Sant'Ambrosio. E perciocchè era morto in Genova il loro podestà, ne diede loro un nuovo, cioè Gherardo dei Rangoni da Modena. Fermossi poi por varii affari il pontefice in quella città lo spazio di sessantaquattro giorni. È lecito il credere che uno de' più importanti fosse quello di staccare dal partito ghibellino la vicina città di Lodi. Nata in quella città discordia fra due famiglie potenti [Gualvan. Flamma, Manipul. Flor., cap. 285.], cioè fra i Vistarini e gli Averganghi, questi ultimi ricorsi a Cremona, v'introdussero un presidio ghibellino. Mise per questo il papa l'interdetto in quella città, perchè allora si contava per delitto da gastigar coll'armi spirituali il seguitar la fazione imperiale. Ciò udito i Milanesi, senza farsi molto pregar da Sozzo de' Vistarini, mossero il loro esercito, ed entrarono anch'essi in Lodi, e cominciarono a disputarne il possesso ai Cremonesi. V'era anche Eccelino da Romano con Buoso da Doara, se crediamo agli storici di Milano; ma, secondo la Cronica Veronese [Paris de Cereta, Annal. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.], v'intervennero solamente gli ambasciatori di quel tiranno, cioè Federigo dalla Scala e Rinieri dalla Isola. E secondo la Cronica di Matteo Griffone [Matth. de Griffonibus, Memor., tom. 18 Rer. Ital.], Buoso solamente nell'ottobre di quest'anno fu rilasciato dalle carceri di Bologna. Finalmente i Cremonesi, non potendo resistere alla forza dei Milanesi, voltarono le spalle, e Lodi restò in potere d'essi Milanesi, che ne diedero il dominio per dieci anni a Sozzo de' Vistarini, e vi diruparono il castello dell'imperadore. Scrivono i suddetti storici milanesi che nel mese d'aprile di quest'anno fu stabilita [1226] una pace perpetua fra le città di Milano e Pavia. Della verità di questo fatto è da dubitare; imperciocchè Parisio da Cereta asserisce che i Pavesi continuarono nella lega de' Cremonesi ghibellini, e con essi ancora si trovarono all'assedio di Lodi.

Ricuperarono i Milanesi in questo anno il castello di Caravaggio, e, in pena della ribellione, lo distrussero. Da Milano passò dipoi papa Innocenzo a Brescia nel mese di settembre, e di là a Bologna, dove nel dì 8 di ottobre consecrò la chiesa di San Domenico. Oltre a Pietro da Curbio [Petrus de Curbio, Vita Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.], gli Annali vecchi di Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.] mettono il suo cammino per Brescia, Mantova, Ferrara e Bologna, con poscia soggiugnere che passò anche per Modena: il che pare che non ben si accordi. Nella Cronica di Reggio [Memoriale Potest. Regiens., toro. 8 Rer. Italic.] si ha ch'egli da Mantova venne a San Benedetto di Polirone, poscia a Ferrara e a Bologna. Ricobaldo scrive [Richobald., in Pomar., tom. 9 Rer Ital.], che essendo egli fanciullo, il vide predicare al popolo in Ferrara nella festa di san Francesco di ottobre. Andò finalmente il pontefice, passando per la Romagna, a posarsi e a fissare la sua residenza in Perugia, perchè non si fidava di Roma, dove bollivano molle fazioni, nè vi mancavano partigiani dell'imperio. Presero in quest'anno i Cremonesi il castello di Brescello sul Po, che era de' Parmigiani [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], e ne condussero prigionieri a Cremona i soldati che vi stavano in guardia. Continuò la guerra fra il popolo e i nobili fuorusciti di Piacenza. S'impadronirono questi ultimi della rocca di Bardi, e disfecero un corpo di fanti e cavalli, che colà venivano per soccorso. Unitosi coi popolari di Piacenza il marchese Oberto Pelavicino, e colla milizia [1227] cremonese, andò ai danni de' Parmigiani, e prese le castella di Rivalgario e di Raglio, che poi diede alle fiamme: nel qual tempo il popolo di Piacenza distrusse il ponte sul Po per paura di Milano. Tolsero ancora essi popolari piacentini alcune altre castella ai nobili, con isfogare la lor rabbia contra le insensate mura. In questo medesimo anno Eccelino da Romano colla milizia di Verona, Padova, Vicenza e Trento, per venti giorni stette nel distretto di Mantova, spogliando e guastando il paese [Paris de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.]. Ma ecco nel mese di ottobre calare in Italia Corrado re di Germania. Bisogna ben credere che si fossero molto rinvigoriti ed assicurati i suoi affari in essa Germania, ed abbassati quei del re Guglielmo d'Olanda, dacchè esso Corrado si potè arrischiare a venirsene di qua dalle Alpi. E veramente Matteo Paris [Matth. Paris, Hist. Angl.] fa abbastanza intendere che Guglielmo cominciò ad essere in dispregio presso i principi tedeschi. Arrivato che fu Corrado a Verona, ricevè quante dimostrazioni di gioia e rispetto potea mai desiderare da Eccelino. Passò dipoi coll'esercito suo di Tedeschi, e con quello dei Veronesi, Padovani e Vicentini di là dal Mincio, ed accampatosi al castello di Goito, quivi tenne un parlamento coi Cremonesi, Pavesi, Piacentini, ed altri popoli del suo partito. Dopo quindici giorni ritornato a Verona, continuò il suo viaggio con disegno di passar a buona stagione per mare in Puglia. Tanto il Monaco Padovano che Parisio da Cereta ed altri storici [Monach. Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital. Paris de Cereta, Annal. Veron, Annal. Mediol. et alii.] scrivono che in quest'anno il principe Rinaldo figliuolo di Azzo VII marchese d'Este, che già per ostaggio fu mandato in Puglia da Federigo II imperadore, terminò i suoi giorni in quelle contrade. Papa Innocenzo IV in una lettera [Raynald., in Annal. Eccles.] scritta [1228] nel giugno di quest'anno a Pietro cardinale legato per indurre Manfredi a voler sottomettere e cedere il regno alla Chiesa romana, fra le altre cose gli raccomanda la liberazione del suddetto Rinaldo. Alcuni scrittori tengono che Manfredi o per iniqua sua politica, o per ordine del re Corrado, se ne sbrigasse col veleno. Chi ci può assicurar della verità in tempi di tante dicerie e calunnie? Quel che è certo, restò di lui un picciolo figliuolo, a cui fu posto il nome d'Obizzo. Giacchè le cattive congiunture de' tempi aveano privato il marchese del caro suo figliuolo, si fece egli portare a Ferrara il nipotino, e, riconoscendo in esso le fattezze e lo spirito del defunto figliuolo, il dichiarò poi suo erede; e noi a suo tempo il vedremo padrone di Ferrara e d'altre città. In questi tempi Eccelino da Romano più che mai seguitò ad infierire contra dei Padovani. Le di lui crudeltà minutamente vengono riferite da Rolandino [Roland., lib. 6, cap. 15.] testimonio di veduta. Sul principio di questo anno nel dì 7 di gennaio il popolo di Firenze [Ricordano Malaspina, Istor., cap. 144.], dacchè ebbe intesa la morte di Federigo II, si mosse a rumore; e rimise in città la fazione guelfa fuoruscita, e fece loro far pace coi Ghibellini. Ma poco andò ch'essi Ghibellini furono forzati a ritirarsi fuori di città. Fecero poi oste i Fiorentini nel mese di luglio a Pistoia, che si reggeva in questi tempi a parte ghibellina. I Pistojesi, venuti con loro a battaglia, ne rimasero sconfitti a Monte Robolino. Ebbero i medesimi Fiorentini guerra ancora coi Sanesi [Chron. Senense, tom. 15 Rer. Ital.], perchè questi ricettarono i lor banditi, ed erano in lega coi Pisani e Pistoiesi di fazion ghibellina. Abbiamo dalla Cronica di Reggio [Memoriale Potest. Regiens., tom. 8 Rer. Italic.] che gli Alessandrini e Milanesi una tal rotta diedero al popolo di Tortona, che la maggior parte d'esso restò prigioniere.

[1229]


   
Anno di Cristo MCCLII. Indizione X.
Innocenzo IV papa 10.
Imperio vacante.

Abbiamo di certo che il re Corrado nel dì 4 di dicembre dell'anno precedente si partì da Verona, e, fatto il viaggio per Vicenza e Padova, s'imbarcò in mare coll'aiuto di Eccelino, e passò a Porto Naone [Sigon., de Regn. Ital., lib. 19.]. I conti suoi erano di poter giugnere in Puglia per mare in pochi giorni, con risoluzione di tenere in Foggia per la festa del Natale un general parlamento. In qual tempo precisamente vi arrivasse egli, non è ben chiaro. Niccolò da Jamsilla [Nicolaus de Jamsilla, tom. 8 Rer. Ital.] scrive ch'egli sbarcò a Siponto nell'anno presente senza specificarne il giorno. Altrettanto abbiamo dalla Cronica Cavense [Chron. Cavense, tom. 7 Rer. Ital.]. Non può certamente stare ciò che si legge nel Diario di Matteo Spinelli [Matteo Spinelli, Diario, tom. 7 Rer. Ital.]: cioè che alli 27 d'agosto 1251 venne lo re Corrado coll'armata de' Veneziani, e sbarcò a Pescara, o alla montagna di Sant'Angelo. Nel tempo suddetto Corrado neppur era giunto in Lombardia. E il Continuatore di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.] scrive ch'egli non già si servì di legni veneziani, ma transiens per Marchiam venit in partibus Istriae et Sclavoniae, ibique sexdecim galeas regni, quae serie paratae erant, ipsum regem cum sua comitiva levaverunt, et ipsum in Apuliam traduxerunt. Giunto questo principe in Puglia, ricevè gli ossequii e il giuramento di fedeltà dai baroni, e specialmente fece buona accoglienza a Manfredi principe di Taranto suo fratello, con lodare la sua condotta, e prendere da lui tutte le necessarie informazioni dello stato presente degli affari. Avendo poscia, o mostrando premura della grazia di papa Innocenzo [Petrus de Curbio, Vita Innocent. IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.], che avea già [1230] fulminata la scomunica contra di lui e di tutti i suoi aderenti, gli spedì Bartolommeo marchese di Hoemburgo Tedesco, l'arcivescovo di Trani, e Guglielmo da Ocra suo cancelliere, suoi ambasciatori, per ottener l'investitura del regno di Sicilia e Puglia, e la succession nell'imperio, con esibirsi pronto a far quello che avesse il papa ordinato. Furono questi cortesemente accolti; ma nulla fruttarono i lor maneggi, stando saldo il pontefice a pretendere che quel regno, per li reati di Federigo suo padre, fosse decaduto alla Chiesa romana. Da ciò irritato Corrado, non guardò più misura alcuna, ed attese a debellar chiunque s'era ribellato ed avea alzato le bandiere del romano pontefice. Le armi sue adunque, rinforzate dai Saraceni di Nocera e Sicilia, piombarono addosso ai conti d'Aquino, con ispogliarli di tutte le loro terre [Nicolaus de Jamsilla, Histor.], e con prendere e saccheggiare Arpino, Sezza, Aquino, Sora, San Germano, ed altri luoghi che prima s'erano dati al papa. Verso la festa di san Martino ostilmente s'inviò l'esercito suo contra di Capoa; ma quella terra senza fare resistenza, e con rendersi, schivò l'eccidio delle persone. Altro non vi restava che la città di Napoli, la quale negasse ubbidienza. Questa, confidata nella sua situazione, nelle forti mura, e nella speranza de' soccorsi del papa, si accinse ad una gagliarda difesa. Passò dunque lo sdegnato re all'assedio di quella città nel dì primo di dicembre, secondochè è scritto nel Diario di Matteo Spinelli [Matteo Spinelli, Diario.], dove nondimeno si truovano slogati gli anni. Egli dice del 1251, ma ha da essere il presente 1252. Nella Cronica Cavense [Chron. Cavense.] è scritto che fu dato principio all'assedio di Napoli nel dì 18 di giugno dell'anno seguente. Non può stare. Invece di giugno sarà ivi scritto gennaio. Durò di molti mesi quell'assedio. Ma in questi tempi si raffreddò non poco il re Corrado verso [1231] del fratello Manfredi, anzi concepì astio contra di lui, non ben si sa, se per sospetti conceputi in vederlo sì savio ed amato dai popoli, oppure per mali uffizii fatti contra di lui dai malevoli, fra' quali specialmente si distinse Matteo Ruffo, nato nella città di Tropea in Calabria, che di povera fortuna, per la sua abilità, era arrivato sotto l'imperador Federigo II ai primi gradi della corte, e da lui fu lasciato aio del figliuolo Arrigo e vicebalio della Sicilia. Era questi nemico dichiarato di Manfredi. Ma non mancò prudenza a Manfredi per navigare in mezzo a tanti scogli. Destramente rinunziò a Corrado i contadi di Gravina, Tricarico e Montescaglioso. Ed ancorchè il re gli sminuisse anche la giurisdizione nel principato di Taranto, che solo gli restò, e tuttochè Corrado ordinasse che Galvano e Federigo Lancia, e Bonifazio d'Anglone, parenti dal lato materno di Manfredi, uscissero del regno, pure Manfredi non ne mostrò risentimento alcuno, e seguitò con allegria e fedeltà ad aiutare il re suo fratello in tutte le di lui imprese.

Intanto in Lombardia, cessato il timore di Federigo II, che teneva uniti in più città gli animi de' cittadini, e succeduta la troppa libertà, questa cominciò a generar la discordia. Soprattutto in Milano insorsero gare e dissensioni fra il popolo e i nobili. Nel dì 6 di aprile, sabato in albis dell'anno presente [Bolland., in Act. Sanct. ad diem 29 april.], nel venire da Como a Milano fra Pietro da Verona dell'ordine de' Predicatori, inquisitore ed uomo di santa vita, fu da Carino, sicario degli eretici, in vicinanza di Barlassina sacrilegamente ucciso, e poi nel seguente anno canonizzato e posto nel catalogo de' martiri da papa Innocenzo IV. Preso il sicario, e messo nelle mani di Pietro Avvocato da Como, allora podestà di Milano [Gualvan. Flamma, in Manip. Flor., cap. 286.], dopo dieci giorni di prigionia, fu lasciato fuggire. Gran sollevazione per questo sorse in Milano; fu imprigionato il podestà, dato [1232] il sacco al suo palazzo, ed appena potè egli ottenere in grazia la vita. Allora i nobili proposero di dare il dominio della città a Leone de Perego arcivescovo. Non solamente si opposero i popolari, ma suscitarono anzi una lor pretensione: cioè, che non ai soli nobili, ma anche a quei dell'ordine popolare si conferissero le dignità e i canonicati della metropolitana. Si venne alla forza; fu cacciato di città l'arcivescovo, svaligiato il suo palazzo, e maggiormente per questo crebbe la rissa fra il popolo e la nobiltà. Capo del popolo fu Martino dalla Torre, e de' nobili Paolo da Soresina. Allora il popolo chiamò per suo capitano il marchese Manfredi Lancia, che venne con mille cavalli al suo servigio. Così gli Annali di Milano [Annales Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.]. Ma Galvano Fiamma, differisce fino all'anno 1256 questa perniciosa novità, e ne tornano a parlare allora gli stessi Annali. Gregorio da Montelungo, legato apostolico [Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Italic.], in ricompensa de' tanti servigi da lui prestati alla Chiesa romana negli anni addietro, promosso al patriarcato d'Aquileia, nel mese di gennaio andò a prenderne il possesso. Morì all'incontro in Brescia Ricciardo conte di San Bonifazio, lasciando dopo di sè un glorioso nome, e un figliuolo appellato Lodovico, che in prodezza non si lasciò vincere dal padre. Negli Annali di Verona [Paris de Cereta, Annal. Veronens, tom. 8 Rer. Ital.] la sua morte si fa accaduta nel febbraio dell'anno susseguente. Senza inorridire non si possono leggere nelle Storie di Rolandino [Roland., lib. 6, cap. 17 et seq.], del Monaco Padovano e di Parisio da Cereta le crudeltà praticate in questi tempi dal tiranno Eccelino da Romano contra de' cittadini di Verona e di Padova. Fecero nell'anno presente i Parmigiani oste contro il castello di Medesano [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.]; e quantunque Oberto marchese Pelavicino co' fuorusciti [1233] di Parma e coi Cremonesi accorresse in aiuto degli assediati, tuttavia s'impadronirono di esso castello, e similmente di quei di Berceto e Miaro. Abbiamo da Matteo Paris [Matth. Paris, Hist. Angl.] che i Romani elessero per loro senatore per l'anno vegnente Brancaleone di Andalò Bolognese, uomo giusto, di gran petto, ma di non minor rigidezza, il quale ricusò di accettare, se non gli veniva accordata cotal dignità per tre anni, non ostante lo statuto di Roma. Nella Vita di papa Innocenzo [Petrus de Curbio, Vit. Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.] vien dipinto Brancaleone per un gran Ghibellino e nemico del papa. Con questa condizione fu accettato, e ito poscia a Roma, tenne in esercizio le forche e le mannaie per castigar la gente troppo sediziosa, ed avvezza a non rispettar le leggi. In quest'anno poi, secondo il suddetto Paris, oppure nel 1254, secondo Pietro da Curbio (che sembra meritar in ciò maggior credenza), i Romani, disgustati della superbia ed insolenza del popolo di Tivoli, coll'esercito si portarono contro quella città. La presero e diroccarono con fiero esterminio; e se quei cittadini vollero salvar la vita, convenne che andassero scalzi e colle corde al collo a chiedere misericordia in Roma. Per quello nondimeno che vedremo all'anno 1254, non sussiste questa rovina di Tivoli. Guerra grande fu del pari in Toscana [Ricord. Malasp., cap. 152. Chron. Senens., tom. 15 Rer. Ital.] tra i Fiorentini, Lucchesi ed Orvietani Guelfi, e i Sanesi e Pisani Ghibellini. Ebbero gli ultimi una rotta a Montalcino.


   
Anno di Cristo MCCLIII. Indizione XI.
Innocenzo IV papa 11.
Imperio vacante.

Continuò il re Corrado con gran vigore l'assedio di Napoli, avendo condotto colà un copioso apparato di quelle macchine [Chron. Cavense, tom. 7 Rer. Ital.], [1234] colle quali si faceva allora guerra alle città e fortezze. E perciocchè v'entravano di quando in quando dei rinfreschi per mare, sul principio di maggio serrò ancora quel passo con un possente stuolo di galee, fatto venir di Sicilia [Matteo Spinelli, Diario, tom. 7 Rer. Ital.]. Volle ben egli che si desse un generale assalto a quella città nel dì 25 d'aprile, con promessa di tre paghe a quella nazione che prima v'entrasse. Ma vi restarono morti da secento Saraceni, e poco men di Tedeschi; laonde non più si pensò a soggiogar Napoli colla forza, ma bensì colla fame. Si ridussero infatti que' cittadini [Sabas Malaspina, lib. 1, cap. 3.] a nutrirsi ancora co' più vili e laidi cibi; nè più potendo, si renderono infine a discrezione nel fine di settembre, come ha il Diario dello Spinelli, oppure nel dì 10 di ottobre, come si legge nella Cronica Cavense. Alcuni scrivono che a forza di mine fu espugnata quella città, e che, entrato l'esercito tedesco, vi sparse gran sangue degli abitanti. Lo Spinelli anch'egli scrive che Corrado vi fece gran giustizia e grande uccisione. È da stupire come Pietro da Curbio e Saba Malaspina, scrittori pontificii, non parlino di questo macello di gente, che certo non dovea scappare alla lor penna. Ma ne parla bene Bortolomeo da Neocastro [Bartholomaeus de Neocastro, cap. 3, tom. 13 Rer. Ital.], autore di questo secolo; e per questo i Napoletani concepirono un odio implacabile contro la casa di Suevia. La Cronica del monistero cavense ha solamente, che egli mandò in esilio molti de' Napoletani ed è fuor di dubbio che fece abbattere e spianare le belle mura di Napoli e di Capoa, affinchè non venisse più voglia a que' popoli di ribellarsi. Passò dipoi Corrado a Melfi, e quivi, celebrata la festa del santo Natale, tenne un parlamento dei baroni del regno. Queste prosperità di Corrado furono cagione che il pontefice colla sua corte cominciasse in questo [1235] anno una tela nuova in rovina della casa di Suevia: cioè spedì in Inghilterra [Matth. Paris, Hist. Angl.] Alberto da Parma, uno de' suoi familiari, ad offerir la corona di Sicilia a Riccardo conte di Cornovaglia, fratello di quel re Arrigo, e ricco principe. Insorsero delle difficoltà in questo maneggio. Ossia che questo trattato venisse, come vuol Pietro da Curbio [Petrus de Curbio, Vita Innocen. IV, cap. 31, P. I, tom. 3 Rer. Ital.], a scoprirsi, e Carlo conte d'Angiò e di Provenza, fratello del re di Francia, si esibisse al papa; oppure che il papa, non trovando buona disposizione in Inghilterra, chiamasse a mercato esso conte d'Angiò: certamente pare che fin d'allora Carlo vi accudisse. Accadde dipoi, che il re Arrigo trattò di ottenere per suo figliuolo Edmondo il regno di Sicilia, promettendo di gran cose. Pietro da Curbio asserisce, che fu conchiuso questo contratto col re inglese, il quale cominciò a far preparamenti per effettuarlo. All'incontro dal Rinaldi [Raynald, in Annal. Eccles.] sotto quest'anno sono rapportate le condizioni, colle quali il papa esibiva a Carlo conte d'Angiò il regno di Sicilia, ducato di Puglia e principato di Capoa. Quivi è nominato il suddetto Alberto da Parma, come legato del papa. Così il Rinaldi. Contuttociò tengo io per fermo che quel documento appartenga ai tempi di Urbano IV, e non ai presenti.

Gran premura fecero in quest'anno i Romani a papa Innocenzo IV per farlo ritornare a Roma, e, se vogliam credere a Matteo Paris [Matth. Paris, Hist. Angl.], minacciarono anche Perugia, se ne impediva, o non ne sollecitava la venuta. Mal volentieri si risolveva il pontefice a compiacerli, ben conoscendo la difficoltà di trovar quiete fra que' torbidi ed instabili cervelli d'allora, avvezzi a comandare e non ad ubbidire. Andò egli ad Assisi [Petrus de Curbio, in Vita Innocen. IV, cap. 32 et seq.] nella domenica in albis, vi dedicò la chiesa di San Francesco, [1236] visitò santa Chiara inferma, che nel dì 30 di giugno fu chiamata da Dio alla patria de' giusti, e passò egli la state in quella città. Poscia nel dì 6 di ottobre si mise in viaggio verso Roma, dove dal senatore, dal clero e popolo romano fu incontrato fuori della città, e introdotto con sommo giubilo ed onore. Pietro da Curbio scrive ch'esso senatore, cioè Brancaleone, avea fatto il possibile perchè il papa non venisse, e andò poi macchinando sempre contra di lui. Matteo Paris, per lo contrario, attesta ch'egli fu in suo favore; ed avendo il popolo romano cominciato a muovere pretensioni di grossissimi crediti per le spese da lor fatte a fin di sostenere il pontefice nei tempi di Federigo II, Brancaleone quetò con dolci parole il lor furore, e conservò la pace. Tornò poscia il re Corrado ad inviare a Roma il conte di Monforte suo zio, ed altri ambasciadori per placare il papa, ed impetrar l'investitura del regno. In Lombardia la città di Parma [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] nell'anno presente fece qualche mutazione, pacificandosi co' Cremonesi e col marchese Oberto Pelavicino capo dei Ghibellini in queste parti. Giberto da Correggio, soprannominato della Gente, prese allora un gran predominio in Parma. Vi entrarono anche i Ghibellini fuorusciti. Altrettanto fu fatto in Reggio, dove furono richiamati i Guelfi. Per l'accordo suddetto il comune di Cremona restituì a Parma il castello di Brescello, e tutti i prigionieri parmigiani che dianzi barbaramente erano trattati nelle carceri cremonesi. Si riaccese in questi tempi la guerra fra i Milanesi e Pavesi. Nel dì 10 di maggio l'esercito di Milano col carroccio [Gualv. Flamma, Manip. Flor., cap. 287.], avendo passato il ponte di Vigevano, s'impadronì della terra di Gambalò, e cinse poscia d'assedio Mortara. Ancor questa terra fu presa; ma, facendo gran difesa il castello, venne l'esercito pavese per soccorrerlo. Interpostisi intanto alcuni mediatori fra i due popoli, [1237] si rinnovò la pace. Più che mai continuarono in questi tempi le orride crudeltà d'Eccelino in Padova [Roland., lib. 7, cap. 3 et seq. Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8 Rerum Ital.] e negli altri luoghi a lui sottoposti. Papa Innocenzo rinnovò per questo le scomuniche contra di lui, e dichiarollo eretico; ma altro ci voleva che tali esorcismi a vincere uno spirito sì maligno. Monte ed Araldo da Monselice fra gli altri, imputati di tradimento, furono condotti a Padova. Gridando essi ad alta voce di non essere traditori, Eccelino, ch'era a tavola, calò al rumore, nè volle ascoltar ragione. Allora Monte, scagliatosi in furia addosso al tiranno, il rovesciò a terra, e, dopo avere indarno cercatogli addosso se avea qualche coltello, il prese per la gola por soffocarlo, e coi denti e colle unghie gli fece quanto male potè. S'egli trovava armi, in quel dì la terra si sarebbe sgravata del peggiore di tutti gli uomini. Ma accorsi i familiari del tiranno, tanto fecero che, messo in pezzi Monte col fratello, liberarono Eccelino dal pericolo, ma non già dalle ferite, a curar le quali vi vollero molti giorni. Empiè in questi tempi l'iniquissimo tiranno le infernali sue carceri di cittadini padovani e veronesi, sì ecclesiastici che laici. Tutto era terrore, tutto disperazione sotto di questo barbaro, a cui ogni menoma parola od ombra di sospetto serviva di motivo per incarcerare o tormentare o levare di vita le persone.


   
Anno di Cristo MCCLIV. Indizione XII.
Alessandro IV papa 1.
Imperio vacante.

Mentre il re Corrado soggiornava in Melfi, Arrigo suo fratello legittimo, nato da Isabella d'Inghilterra, giovinetto di belle doti ornato, fu a visitarlo, e nello stesso tempo infermatosi, cessò di vivere. Voce tosto si sparse che Corrado col veleno avesse tolto dal mondo l'innocente fanciullo; e non lasciò papa Innocenzo [1238] di avvalorar questo sospetto, per iscreditar Corrado presso il re d'Inghilterra zio d'Arrigo [Matth. Paris, Hist. Angl. Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8 Rer. Ital.]. Cercò, all'incontro, Corrado di far credere falsa così nera accusa. Se con fondamento, o no. Dio solo ne può essere il giudice. Fuor di dubbio è bensì che Corrado in questi tempi caricò di contribuzioni e gravezze la Puglia [Matteo Spinelli, Diario, tom. 7 Rer. Ital.]; e a quelle terre e città che erano pigre al pagamento, andavano addosso o Saraceni o Tedeschi che faceano pagar con usura. Furono in tal congiuntura messe a sacco le città d'Ascoli, Bitonto ed altre: e se Manfredi principe di Taranto con buona maniera non provvedeva, era imminente la distruzion di quelle contrade. Sotto il presente anno parla Matteo Paris di una battaglia seguita fra l'esercito pontificio, comandato da Guglielmo cardinale nipote del papa, e quello di Corrado, colla morte di quattro mila soldati papalini. Forse egli intende di una zuffa di cui parlerò più abbasso, ma che non merita titolo di sanguinosa, molto meno di grande. Fu citato di nuovo Corrado dal pontefice a comparire in Roma, per giustificare, se potea, la sua innocenza [Raynaldus, in Annal. Eccl.]. Spedì egli colà di nuovo il conte di Monforte e Tommaso conte di Savoia a dir le sue ragioni, e ad ottenere una proroga. Ma nel giovedì santo di nuovo si udì confermata e aggravata contra di lui la papale scomunica. Preparavasi egli intanto a ripassare in Germania per far guerra al suo competitore Guglielmo d'Olanda, quando cadde infermo vicino a Lavello, e scomunicato, nel più bel fiore degli anni cedette alla violenza del male nel dì 21 di maggio, nella notte dell'Ascension del Signore [Nicolaus de Jamsilla, tom. 8 Rer. Ital. Sabas Malaspina. Hist., lib. 1, cap. 4. Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Ital.]. Autore della sua morte comunemente fu creduto Manfredi, che col mezzo di Giovanni Moro, capitano de' Saraceni [1239] e favorito di Corrado, il facesse avvelenare, sì in vendetta degli Stati a lui tolti, come per farsi strada al regno di Sicilia. Ma avendo Corrado un picciolo figliuolo per nome Corradino, a lui partorito in Germania dalla regina Isabella sua moglie nel dì 25 di marzo del 1252, a cui toccava il regno; e l'aver egli lasciato nel suo testamento per governatore della Sicilia Bertoldo marchese di Hoemburch, e non già Manfredi, il quale si mostrò anche alieno da tale impiego, pare che non s'accordi col sopraddetto disegno. Maraviglia fu che anche i nemici della corte di Roma non attribuissero ad esso Manfredi questo colpo, come Matteo Paris asserisce fatto dianzi per altro veleno dato al medesimo Corrado. Conoscendosi l'impossibilità di chiarire in casi tali la verità, a me basta di avere accennato ciò che allora e, molto più, poi si disse, specialmente dagli storici guelfi, nemici di Manfredi [Ricordano Malaspina, cap. 146.]. S'impossessò il nuovo balio e governatore del regno Bertoldo di tutto il tesoro di Corrado; e perciocchè questi nel suo testamento avea raccomandato il figliuolo Corradino alla Sede apostolica, e ordinato al marchese di Hoemburch di fare ogni possibile per metterlo in grazia del papa, affinchè potesse succedere nel regno di Sicilia, furono immediatamente spediti ambasciatori ad esso Innocenzo. Ma niuna apertura si trovò a trattato di pace. Il pontefice saldo in dire ch'egli voleva prima il possesso del regno, e che poi si esaminerebbe se alcun diritto vi avea il fanciullo Corradino, rigettò ogni proposizione d'accordo. Cassò pertanto tutti gli atti e le disposizioni testamentarie di Corrado, citò il marchese Bertoldo balio del regno, come occupatore di uno Stato devoluto alla Chiesa; e per dar più calore a' suoi disegni, celebrata in Assisi la festa della Pentecoste, si mosse colla corte [Petrus de Curbio, Vita Innocentii IV, P. I, tom. 3 Rer. Ital.]: e nel viaggio pacificati i popoli di [1240] Spoleti e Terni, che erano in rotta fra loro, per Orta e Civita Castellana arrivò alla basilica vaticana. Dopo aver quivi celebrata solenne messa, e predicato con raccomandare ai Romani i presenti affari, andò a posarsi in Anagni, con aver intanto spediti ordini in Lombardia, Genova, Toscana, marca d'Ancona, patrimonio e ducato di Spoleti, per fare copiosa leva di soldati. Comparve ad Anagni Manfredi principe di Taranto con altri baroni a trattar d'accordo, e per quindici dì un gran dibattimento si fece; ma quando era già per sottoscriversi la capitolazione, si ritirò il principe con gli altri. Scopertosi intanto che Pietro Ruffo vicebalio in Sicilia [Nicolaus de Jamsilla, in Hist.], Riccardo da Montenegro, ed altri baroni guadagnati dal pontefice lavoravano sott'acqua. Bertoldo marchese d'Hoemburch depose il baliato, e tanto fece egli con altri dei partito della casa de' Suevi, che il principe Manfredi accettò, benchè con ripugnanza almeno apparente, quell'uffizio. Attese pertanto Manfredi a raunar un esercito; ma mancandogli il principale ingrediente, cioè il danaro, nè potendone ricavare da Bertoldo, che tutto avea occupato, trovato inoltre che i baroni camminavano con doppiezza, e i popoli, stanchi del barbarico governo de' Tedeschi, inclinavano a mutar padrone: egli fu il primo a sottoporsi all'ubbidienza del pontefice, e a cedere alle contingenze del tempo, salvi nondimeno i diritti del re suo nipote e i suoi proprii. All'esempio suo tennero dietro gli altri baroni; alcuni nondimeno l'aveano preceduto.

Mentre il pontefice tuttavia dimorava in Anagni [Petrus de Curbio, cap. 40.], i Romani che da gran tempo assediavano Tivoli, venuta lor meno la speranza di forzar quella città alla resa, spedirono ad esso papa, acciocchè trattasse di pace, e non mancò egli di farlo, tuttochè disgustato del senatore, che non lasciava andar viveri ad Anagni, nè prestar danari al papa, nè far [1241] leva di gente per lui. Nel dì 8 di ottobre papa Innocenzo arrivò a Ceperano sui confini del regno, e nel dì seguente entrò pel ponte in esso regno, incontrato da Manfredi principe di Taranto, che, accompagnato da molti altri baroni, fu a baciargli i piedi, e l'addestrò per un tratto di strada. Io non so che mi dire del Diario di Matteo Spinelli, che troppo discordia dai migliori scrittori nell'assegnare i tempi. Egli fa giunto il papa a Napoli per la festa di san Pietro, con altre cose che non battono a segno. Passò dipoi il pontefice ad Aquino, a San Germano, a Monte Casino, accolto dappertutto con segni di singolare onore ed affetto. Davanti a lui marciava coll'esercito Guglielmo cardinale di Sant'Eustachio, parente del medesimo papa, il quale da tutti facea prestare giuramento di fedeltà alla Chiesa romana; anzi pretese che Manfredi lo prestasse anch'egli: al che non volle egli mai acconsentire, pretendendo che ciò fosse contro i patti stabiliti col papa. Con questo felice passo camminavano gli affari del sommo pontefice, e già egli si contava per padrone della Puglia, quando un accidente occorse, da cui restò non poco turbata la corte pontificia. Era il papa passato a Teano, dove fu sorpreso da incomodi di sanità, che più non l'abbandonarono [Nicolaus, de Jamsilla, tom. 8 Rer. Ital.]. Quivi trovandosi il principe Manfredi, ebbe delle liti con Borello da Anglone, barone molto favorito nella corte pontificia, per aver egli impetrato dal papa il contado di Lesina, ancorchè appartenente a Monte Sant'Angelo, che era d'esso Manfredi, ed averne anche inviato a prendere il possesso. Ricorse Manfredi al papa; niuna risoluzione fu presa. Si aspettava in que' dì alla corte il marchese Bertoldo. Volle Manfredi andare ad incontrarlo, e, preso commiato dal papa, si mise in cammino. Non molto lungi da Teano ad un passo stretto si trovò il suddetto Borello con una truppa d'uomini armati: fu creduto per insultare il [1242] principe nel suo passaggio. Allora i familiari di Manfredi s'inoltrarono per riconoscere che intenzione avessero; e Borello co' suoi prese la fuga verso la città. Inseguito da alcuni del principe (dicono contra volontà di lui), fu ferito e morto da un colpo di lancia nella schiena. Grande strepito si fece per questo nella corte del papa, il quale intanto passò a Capoa. Era giunto Manfredi ad Acerra, con pensiero di portarsi a Capoa per giustificarsi; ma fu consigliato di raccomandar piuttosto la sua causa al marchese Bertoldo. Vi mandò apposta Galvano Lancia suo zio. Bertoldo ne parlò al papa e a' ministri; e la risposta fu, che Manfredi venisse in persona, e si ascolterebbono le sue discolpe. Se veniva, già risoluta era la di lui prigionia. Il perchè Galvano Lancia gli significò che facea brutto tempo per lui, e che si ritirasse ben tosto e con gran cautela verso Lucera, ossia Nocera de' Pagani. Colà infatti, dopo aver passati molti pericoli ed incomodi, senza che alcuno osasse di dargli ricetto, sul principio di novembre arrivò una notte Manfredi. Per buona ventura non vi si trovò Giovanni Moro, governatore di quella città, il più ricco e potente de' Saraceni quivi abitanti. Fatto sapere alle sentinelle che era ivi il principe figliuolo di Federigo imperadore, questi, amantissimi di suo padre, non fidandosi di poter avere le chiavi dal vicegovernatore, determinarono di rompere la porta e d'introdurlo. Detto fatto, tanto si ruppe della porta, che il principe entrò. Fu incredibile la festa che fecero perciò i Saraceni. Il condussero al palazzo, dove si trovarono molti tesori dell'imperador Federigo, del re Corrado, di Oddone marchese fratello del marchese Bertoldo, e quei specialmente di Giovanni Moro, il quale da lì a poco tempo fu ucciso dai suoi Saraceni in Acerenza. Si esibì tutto il popolo di Nocera a' servigi di Manfredi, e giurarono fedeltà al re Corradino e a lui. Allora Manfredi, messa mano ne' suddetti [1243] tesori, cominciò ad assoldar gente, e a lui da tutte le parti concorsero i Tedeschi sparsi perla Puglia; di modo che in breve ebbe un gagliardo esercito in piedi, ed usci in campagna alla volta di Foggia, dove era accampato il marchese Oddone con un corpo assai poderoso di gente pontificia. Si diede alla fuga Oddone dopo breve combattimento, e Foggia, presa per forza, fu saccheggiata. Niccolò da Jamsilla fa ben conoscere che questa fu una vittoria, ma non già vittoria di gran rilievo, come vien descritta da Matteo Paris, se pur d'essa parla, come vogliono alcuni scrittori napoletani. La verità nondimeno si è, che questa qualunque si fosse diede tal terrore al grosso esercito pontificio [Sabas Malaspina, lib. i, cap. 5.], accampato allora a Troia, che, come se avessero alle reni l'armata di Manfredi, disordinatamente di notte prese la fuga, con lasciar indietro molto del loro equipaggio; nè si credettero in salvo il cardinale legato ed altri, finchè non giunsero a Napoli, dove era allora la corte pontificia.

Ma ritrovarono che già papa Innocenzo IV, sopraffatto dalla malattia, era passato a miglior vita. Il Rinaldi [Raynald., in Annal. Eccl.] fa accaduta la sua morte nel dì 7 di dicembre. Il che vien confermato da Pietro da Curbio [Petrus de Curbio, Vii. Innocent. IV, cap. 42.], che il dice defunto in Napoli nella festa di sant'Ambrosio. Niccolò da Jamsilla e Bernardo di Guidone mettono la sua morte nel dì 13 del mese suddetto; altri nel dì 40; ma si dee stare all'asserzione de' primi. L'infelice successo di Foggia portò al cuore ancora de' cardinali esistenti in Napoli un grave scompiglio, di maniera che, se non era il marchese Bertoldo, che facesse lor animo, già pensavano a ritirarsi verso Roma. Nel dì 21 del suddetto mese di dicembre, secondo il Rinaldi, o piuttosto, siccome scrive chiaramente Pietro da Curbio, nel sabbato giorno 12 del suddetto mese, fu eletto pontefice Rinaldo vescovo d'Ostia [1244] da Anagni della nobil famiglia de' conti di Segna, e parente dei predefunti papi Innocenzo III e Gregorio IX. Prese il nome di Alessandro IV, e portò sulla sedia di san Pietro delle prerogative ben degne del sommo pontificato. Buono e mansueto, nè portato a maneggiar le chiavi e la spada con tanto imperio, e con tante gravezze agli ecclesiastici, come avea praticato il suo predecessore, revocat et cassat, quae in gravamen multorum suus constituerat antecessor, son parole di Arrigo Sterone [Stero, in Chron. Augustano,]. Fu guerra in questo anno [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom. 6 Rer. Italic.] fra i Pisani dall'una parte, e i Fiorentini e Lucchesi dall'altra. Sulle prime riportarono i Pisani dei vantaggi, poscia ebbero molte busse e danni, in guisa che vennero in parere di chieder pace. Se ne trattò per parecchi giorni; e convien ben credere che il comune di Pisa si sentisse debole, dacchè per ottenerla fece compromesso delle sue differenze in Guiscardo da Pietrasanta Milanese, podestà di Firenze. Questi poi diede un laudo, condannando i Pisani a restituire a' Lucchesi le castella di Motrone e Monte Topolo; ai Genovesi Ilice e Trebiano, con altre condizioni, per le quali tenendosi aggravato il comune di Pisa, non volle accettar quella sentenza: il che fu cagione di nuova guerra. In questo medesimo anno nel mese di agosto fecero oste i suddetti Fiorentini contra di Volterra [Ricordano Malaspin., cap. 155. Ptolom. Lucensis, in Annales brev., tom. II Rer. Ital.], che si reggeva a parte ghibellina. Usciti disordinatamente i Volterrani, furono incalzati, e con esso loro entrarono anche i Fiorentini nella città. Gran cosa fu che si salvarono dal sacco. Ne furono cacciati i Ghibellini, lasciato presidio in quelle fortezze. Anche Poggibonzi, già ribellato, tornò per forza sotto la signoria de' Fiorentini. Fecero guerra in quest'anno i Bolognesi [Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] alla città di Cervia. Se ne impadronirono, e vi misero [1245] un podestà che a loro nome la governasse. Di ciò neppure una parola si legge presso Girolamo Rossi nella Storia di Ravenna. Dalle Croniche di Milano [Annal. Mediolan., tom. 19 Rer. Ital. Gualv. Flamm., Manip. Flor.] altro non si ricava sotto il presente anno, se non che qualche combattimento seguì fra i nobili e popolari di quella città; e che fu chiamato colà un certo Beno dei Gonzani Bolognese, a cui fu data balia di cavar danari dal popolo. Costui, sapendo ben esercitare il, per altro facile, mestiere di pelare chi non può resistere, inventò nuovi dazii e gabelle, ed introdusse ogni mala usanza in quella città. Come il popolo dominante allora si lasciasse calpestare e spolpare da costui per quattro anni, non si sa intendere. Secondo la Cronica Piacentina [Chron. Placent., tom. 1 Rer. Ital.], il marchese Oberto Pelavicino, che già signoreggiava in Cremona, seppe così ben maneggiarsi, che dal popolo di Piacenza fu eletto per loro signore perpetuo. Tentò di fare lo stesso anche in Parma coll'aiuto della fazion ghibellina esistente in quella città [Sigon., de Regno Ital., lib. 19.], e a questo fine passò ad assalir Borgo San Donnino e Colorno. Gli veniva fatto, se, alzatosi un vil sartore parmigiano, e divenuto capo popolo, non avesse costretto i Ghibellini colle minaccie a desistere dal loro proponimento. Perciò il marchese Oberto se ne tornò a Cremona senza far altro. Il Sigonio, che narra questo fatto, l'avrà preso dalla Cronica del Salimbeni, che si è perduta. Era il marchese Pelavicino suddetto gran sostenitore della parte ghibellina, e perciò amico di Eccelino. Alcuni scrittori guelfi cel rappresentano non inferiore al medesimo Eccelino nella crudeltà e fierezza, forse con qualche ingiuria del vero. Abbiamo bensì in quest'anno da Rolandino [Roland., lib. 7, cap. 10.] e da Parisio da Cereta [Paris de Cereta, Annal. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.] una [1246] serie d'altri inumani fatti d'esso Eccelino, che ogni dì più peggiorava nella sua tirribil tirannia.


   
Anno di Cristo MCCLV. Indizione XIII.
Alessandro IV papa 2.
Imperio vacante.

Seppe ben prevalersi del prosperoso aspetto di sua fortuna Manfredi principe di Taranto, ed anche nel verno attese a far delle conquiste. La città di Barletta, a riserva del castello, venne alla sua divozione [Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8 Rer. Ital.]. Venosa mandò ad offerirgli le chiavi. Trovavasi tuttavia nella corte pontificia Galvano Lancia, zio materno di esso Manfredi, uomo di gran destrezza e prudenza, che facea vista d'essere forte in collera contra del nipote per la sua ribellione. Ma tutto ad un tempo egli si ritirò da Napoli, e passò ad Acerenza con riceverne il possesso a nome di Manfredi: il che fatto, andò a trovare il nipote a Venosa. L'arrivo suo riempiè d'inesplicabil contento Manfredi, che troppo abbisognava del consiglio e braccio di un sì fidato consigliere. Quantunque la città di Rapolla fosse feudo dianzi conceduto ad esso Galvano, pure dimorava ostinata in favor della Chiesa. Andò colà Galvano coll'armata del principe, adoperò in vano le chiamate; colla forza in fine la sottomise, e l'imprudente resistenza di quei cittadini costò la vita a molti, e la desolazione della loro città. Melfi, Trani, Bari ed altri luoghi non vollero rimaner esposti a somigliante pericolo, e si diedero a Manfredi: con che, a riserva delle città della provincia d'Otranto, quasi tutta la Puglia cominciò ad ubbidire ai suoi cenni. Non sapeva digerire il nuovo papa Alessandro IV colla corte pontificia che Manfredi niuno ambasciatiore peranche avesse inviato a prestargli ameno l'ubbidienza dovuta a lui come vicario di Cristo. Se gli fece insinuare da più persone che inviasse con isperanza di riportarne dei vantaggi; ed egli infine vi spedì due suoi [1247] segretarii ben istruiti con sufficiente mandato di trattar di concordia. Iti essi a Napoli, ne cominciarono di fatto il trattato. In questo mentre Manfredi collo esercito andò a mettersi in possesso della Guardia de' Lombardi, come luogo spettante al suo contado d'Andria. S'ebbe non poco a male la corte pontificia che, trattandosi di pace, egli seguitasse le ostilità, temendo ch'egli non venisse alla volta di Napoli; laonde egli per compiacerla se ne ritirò, e prese il viaggio verso d'Otranto, per l'avviso giuntogli che Manfredi Lancia suo parente era stato sconfitto dal popolo di Brindisi, il quale avea anche presa e distrutta la città di Nardò. Intanto il papa dichiarò suo legato in Puglia Ottaviano degli Ubaldini cardinale di Santa Maria in Via Lata, con ordine di ammassare un possente esercito contra di Manfredi. Ora dunque, e non prima, come con errore scrisse Saba Malaspina [Sabas Malaspina, lib. 1, cap. 5.], questo cardinale cominciò a presiedere all'armi del pontefice. Da ciò presero motivo i ministri di Manfredi di rompere il trattato di pace, e se ne tornarono al loro padrone. Passato Manfredi alla volta di Brindisi, saccheggiò quel paese; assediò, ma indarno, quella città; venne a' suoi comandamenti Lecce. Pose anche l'assedio alla città d'Oria, che seppe vigorosamente difendersi. Stando egli quivi, ricevete la buona nuova che Pietro Ruffo Calabrese, conte di Catanzaro, che fin qui aveva esercitato in Sicilia l'uffizio di vicebalio e governatore di quell'isola, uomo palese nemico suo, e che teneva gran filo colla corte del papa, cacciato via dai Messinesi, s'era ritirato in Calabria ai suoi Stati. Gli ordini spediti colà a questo avviso da Manfredi, con un corpo di combattenti, e l'odiosità conceputa anche da Calabresi contra di esso Pietro Ruffo, cagion furono che que' popoli si sollevarono contra di lui, di modo che divenuto ramingo fu infine forzato a cercare rifugio nella corte pontificia.

[1248] In quest'anno la città di Trento si levò dall'ubbidienza di Eccelino da Romano [Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital. Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital.], dove quel popolo doveva aver fatta anch'esso pruova di quella crudeltà che egli seguitava ad esercitare in Padova, e nelle altre città a lui sottoposte. Spedì egli a quella volta un gagliardo esercito, a cui solamente riuscì di dare un terribil guasto a molte castella e ville di quel distretto. Oberto marchese Pelavicino, già divenuto signor di Cremona e Piacenza [Chronic. Placent., tom. 16 Rer. Ital.], di volontà de' Piacentini distrusse anch'egli nell'anno presente una mano di castella di quel territorio, che probabilmente appartenevano ai nobili fuorusciti della medesima città. Abbiamo dagli Annali d'Asti [Chron. Astens., tom. 11 Rer. Ital.], che in questi tempi Tommaso conte di Savoia cominciò la guerra contra degli Astigiani, con levar loro il borgo di Chieri. Ed essendo Guiscardo da Pietrasanta Milanese podestà di Lucca, fece fabbricar due borghi nella Versilia sottoposta a Lucca [Ptolom. Lucens., Annal. brev., tom. 11 Rer. Ital.]. All'uno pose il nome di Campo Maggiore, all'altro di Pietra Santa dal suo cognome. Del che fo io menzione, acciocchè si conosca la falsità del famoso decreto attribuito a Desiderio re de' Longobardi, scolpito in marmo nella città di Viterbo, lodato dal Sigonio, stampato dal Grutero fra l'altre iscrizioni, dove è parlato di Pietrasanta, di cui esso re vien fatto autore. Di tale impostura ho io ragionato altrove [Antiq. Ital., Dissert. XXVII, pag. 665.]. In Giberto da Correggio, detto della Gente, podestà di Parma, era stato fatto compromesso [Annal. Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.] dai Modenesi e Bolognesi per le differenze loro intorno alla picciola provincia del Frignano, in buona parte occupata dalla potenza d'essi Bolognesi al popolo di Modena. Chiara cosa era, secondo la [1249] giustizia, che se ne dovea fare la restituzione. Abborrivano i Bolognesi la pronunzia del laudo, figurandosi bene qual esser dovesse, e la tirarono sempre a lungo; ma infine Giberto lo proferì con obbligare il popolo di Bologna a dimettere a' Modenesi l'usurpato possesso di quella contrada. Ma perchè non sanno mai i potenti, che in qualche maniera sieno entrati in possesso degli Stati dei meno potenti, persuadersi di avere il torto, e che per loro sia fatta la legge di Dio che obbliga a restituire; i Bolognesi lasciarono cantare il giudice, e seguitarono a ritener quel paese finchè poterono. Mentre questi piccioli affari si faceano in Lombardia, non perdeva oncia di tempo Manfredi per migliorare quei del re Corradino suo nipote [Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8 Rer. Ital.], o piuttosto i suoi proprii, in Puglia e Calabria. Eransi i Messinesi, dappoichè si furono sbrigati da Pietro Ruffo, invogliati di reggersi a repubblica, e già col pensiero si fabbricavano un largo dominio tanto in Sicilia che in Calabria alle spese dei vicini. A questo effetto con potente armamento di gente e di navi passarono in Calabria; ma poco durarono i lor castelli in aria, perchè ebbero delle percosse dalle soldatesche di Manfredi, per le quali la città di Reggio con altri luoghi venne alla di lui ubbidienza. Continuava intanto Manfredi l'assedio d'Oria, con averla anche ridotta all'estremità, di modo che se aveva un po' più di pazienza, si arrendeva quel popolo. Ma giuntogli l'avviso che il cardinale legato Ottaviano degli Ubaldini alla testa d'una possente armata, accompagnato dal marchese Bertoldo da Hoemburch, e da Oddone e Lodovico suoi fratelli, i quali, benchè Tedeschi, si erano tutti dati al servigio del papa, entrava in Puglia: Manfredi, rotto ogn'indugio, s'inviò a Nocera. Quivi messo insieme un forte esercito di Saraceni, Tedeschi e Pugliesi, marciò poscia nel dì primo di giugno, per impedire gli avanzamenti del pontificio, pervenuto sino a [1250] Frequento, e andò a postarsi fra esso e la Guardia de' Lombardi, dove era di guarnigione un corpo di gente papalina. Stettero per più dì a fronte le due armate; e, per quanto si studiasse Manfredi di tirare ad una campal battaglia i nemici, che pur erano senza alcun paragone superiori di forze, non vollero essi giammai dargli questo piacere.

Così stando le cose, arrivò di Germania un maresciallo, spedito al papa e al principe dal duca di Baviera a nome della regina Isabella, madre di Corradino, con proposizioni di pace. Diede moto il suo arrivo ad un trattato di tregua, che fu stabilita, finchè il maresciallo e i messi del principe fossero andati e ritornati dalla corte papale. Ritirossi perciò Manfredi alla marina di Bari; quand'ecco in Trani riceve nuova che il cardinal legato s'era innoltrato verso Foggia col suo esercito, e gli avea tolta la comunicazione con Nocera, sua importante città. Non poteva egli credere un tal tradimento. Ma verissimo fu; e inoltre la città di Sant'Angelo s'era data in tal occasione al legato. Animosamente allora si mosse Manfredi, e, senza mostrar apprensione alcuna de' nemici, passò alla volta di Nocera; ed avendo rinforzato il suo esercito, venne da lì a pochi giorni ad accamparsi in faccia all'armata nemica sei miglia lungi da Foggia, e ricuperò colla forza la suddetta città di Sant'Angelo. Veggendo poi che i nemici niun movimento faceano, attendendo solo a ben trincierarsi con fosse e steccati sotto Foggia, s'avvicinò anche egli a quella città, e quivi formò de' buoni trincieramenti, che l'armata pontificia, la quale dianzi meditava di far l'assedio di Nocera, si trovò come assediata da quella di Manfredi. Bertoldo marchese, ottenuti dal legato ottocento cavalli, passò in questo mentre alla marina di Bari, e tolse al principe le città di Trani, Barletta, e l'altre di quella contrada, eccetto che Andria. Ma questo furbo navigava a due contrarii venti, perciocchè nello stesso tempo trattava segretamente [1251] di comporsi col principe Manfredi. Spedì costui al campo del legato, che scarseggiava di viveri, un copiosissimo convoglio. Manfredi, informatone dalle spie, oppur dallo stesso Bertoldo, lo sorprese. Mille e quattrocento uomini della scorta vi restarono uccisi; da quattrocento cinquanta furono i feriti e i prigioni. Tutto quel gran treno venne al campo di Manfredi. Entrata dunque la fame e le malattie nell'esercito pontificio, il cardinale legato propose un accordo, che fu accettato da Manfredi. Con esso si rilasciava al re Corradino e al principe il regno, con obbligo di prenderne l'investitura dal papa, a riserva di Terra di Lavoro, che restava in poter della Chiesa romana. Sottoscritta la capitolazione, il cardinale pregò Manfredi di perdono per chiunque avea prese l'armi contra di lui. A tutti egli rendè la sua grazia, e nominatamente al marchese Bertoldo e a' suoi fratelli. Ma il papa, che intanto avea mosso il re d'Inghilterra alla conquista del regno di Sicilia per Edmondo suo figliuolo, e già ne avea spedita l'investitura, credendo alle larghe promesse di quel re, ricusò di accettar l'accordo fatto dal legato. Gl'Inglesi dipoi non si mossero, e il papa deluso venne a perdere il buon boccone della Terra di Lavoro. Saba Malaspina [Sabas Malaspina, lib. 1, cap. 5.] non tace la divolgata opinione, che fra il cardinale Ottaviano e il principe Manfredi passassero segrete intelligenze. A buon conto, un temporale gran vantaggio egli avea procurato alla corte pontificia, che sel lasciò fuggir di mano. Mentre che tali cose succedeano in Puglia, Pietro Ruffo con un corpo di soldatesche papaline tornò in Calabria per riacquistar quei paesi. Fu quivi anche predicata la crociata contra di Manfredi, come se si fosse trattato di andar contra ai Turchi ed infedeli. Ma gli uffiziali di Manfredi dissiparono que' turbini, e il Ruffo se ne tornò dolente a Napoli. Non sopravvisse poi molto alle sue disgrazie, perciocchè [1252] stando in Terracina fu ucciso da un suo familiare. Saba Malaspina scrive ciò fatto per ordine di Manfredi, e detesta un tale operato; ma quando ciò sia vero, dovette credere Manfredi di aver giusto titolo di trattar così chi s'era mostrato sì ingrato ed infedele all'imperador Federigo e a' suoi successori, da' quali era stato cotanto beneficato, e ch'egli poi sì palesemente tradì. Si ridusse il papa in questo anno colla sua corte a Roma, non trovandosi più sicuro in Napoli, dacchè si era rifiutata la concordia. Nè è da tacere che il pontefice approvò che Corradino s'intitolasse re di Gerusalemme, ma non già di Sicilia, perchè questo regno si pretendeva devoluto alla santa Sede.


   
Anno di Cristo MCCLVI. Indizione XIV.
Alessandro IV papa 3.
Imperio vacante.

S'era fin qui assai poco mischiato nelle cose d'Italia Guglielmo d'Olanda, già creato re de' Romani e di Germania [Matth. Paris Hist. Anglic. Stero Hist. Augustan.]. Di molte guerre aveva egli avuto colla contessa di Fiandra e coi popoli della Frisia. Ma dopo esser giunto nel presente anno a domar questi ultimi, caduto in un agguato a lui teso dai medesimi, miseramente lasciò ivi la vita. Trattossi dunque dai principi tedeschi di eleggere un successore. Papa Alessandro con lettere [Raynald., in Annal. Eccl.] assai forti incaricò gli elettori ecclesiastici di non promuovere Corradino figliuolo del re Corrado, con intimar la scomunica contro a chiunque diversamente facesse. Imbrogliaronsi per questo e per altri accidenti que' principi, e andò sì avanti la discordia insorta fra loro, che passò tutto quest'anno senza che potessero convenire in alcuno dei candidati. Tenne Manfredi nella festa della Purificazion della Vergine in Barletta un gran parlamento [Nicolaus de Jamsilla, tom. 8 Rer. Ital.]. Quivi diede [1253] il principato di Salerno a Federigo Lancia, altro suo zio materno. Degradò da tutti i suoi onori Pietro Ruffo; e fatto processo contra Bertoldo marchese e contra dei suoi fratelli, li condannò ad una perpetua prigione, dove finirono i loro giorni. Era già stato spedito in Calabria da Manfredi il suddetto Federigo Lancia suo vicario, acciocchè riducesse la Sicilia alla di lui ubbidienza. Tali ordini con somma destrezza egli eseguì. Per suoi maneggi il popolo di Palermo si ritirò dalla suggezion de' ministri pontificii, e fece prigione frate Ruffino dell'ordine de' Minori, che col titolo di legato apostolico si faceva ubbidire in quelle parti. Crebbe con ciò ogni di più in Sicilia il credito e il partito di Manfredi, e formossi ancora in favore di lui un esercito di Siciliani. Allora Federigo Lancia passò col suo dalla Calabria contro Messina, città che non tardò molto a riconoscere per signore Manfredi. Con che la di lui signoria si stese per quasi tutta la Sicilia e Calabria. Essendo intanto ritornati dalla corte pontificia i suoi ambasciatori coll'avviso dell'accordo rigettato dal papa, veggendosi Manfredi libero, mosse le bandiere verso Terra di Lavoro. Gli vennero incontro i deputati spediti da Napoli con offerirgli la città, e pregarlo di voler dimenticare le ricevute offese. Manfredi era principe benigno ed amorevole; ben sapea che la clemenza si tira dietro lo amore dei popoli, e però, passato a dirittura a Napoli, non solamente perdonò a quel popolo, ma fece di gran bene a quella nobil città. Quivi ancora ricevette i delegati di Capoa, che si sottomisero alla di lui signoria. Altrettanto sospirava di fare il popolo d'Aversa, ma, essendovi dentro un buon presidio papalino, non ardiva di alzare un dito. Passò dunque Manfredi all'assedio di quella città, a cui furono dati varii assalti, ma indarno tutti. La vicinanza nondimeno della sua armata recò tal coraggio a que' cittadini, che, alzato rumore un dì, uccisi non pochi [1254] degli stipendiati del papa, e ricevuto soccorso da quei di fuori, venne ancora quella città alle mani di Manfredi. Riccardo da Avella, uomo potente, dopo aver difeso sino agli estremi il castello, volendo poi fuggire, colto, fu messo a pezzi. Furono sì fortunati successi cagione che l'altre città di Terra di Lavoro alzarono le bandiere di Manfredi, fuorchè Sora ed Arce, dove stavano di presidio alcuni Tedeschi postivi dal marchese Bertoldo. Inviossi dipoi l'infaticabil Manfredi a Taranto per desiderio di soggiogare l'ostinata città di Brindisi. Ebbe il contento di veder venire quel popolo ai suoi piedi, e di riceverlo in grazia sua. La sola città d'Ariano, forte per la sua situazione, restava in quelle parti ripugnante al suo dominio. Molti di Nocera, fingendosi banditi da' suoi, s'introdussero colà, e, levato rumore una notte, tal confusione produssero, che gli stessi cittadini scannarono l'un l'altro. Così fu presa la città e distrutta, e il resto degli abitanti distribuito per altri luoghi del regno. L'Aquila, città nuova, perchè negli anni addietro fondata dal re Corrado, era già pervenuta ad una gran popolazione, e fin qui avea tenuta la parte del papa. All'intendere i continuati progressi di Manfredi, giudicò che più non era da indugiare a sottoporsi, e però, a lui spediti suoi ambasciatori, il riconobbe per suo signore. Ma, secondo Saba Malaspina [Sabas Malaspina, Histor., lib. 2, cap. 1.], fino all'anno 1258 questa città si tenne per la Chiesa; e ne abbiamo anche delle pruove dal Rinaldi [Raynaldus, in Annal. Eccl.].

Così procedevano gli affari della Sicilia e della Puglia. Passiamo ora ad un avvenimento della marca di Trivigi, ossia di Verona, che fece grande strepito in quest'anno per tutta Italia. I gemiti dei miseri Padovani per le enormi crudeltà di Eccelino da Romano [Roland, lib. 8, cap. 1. Monach. Patavinus, in Chron. Chron. Veronense et alii.], le istanze continue di Azzo VII marchese d'Este, [1255] e i tanti richiami de' circonvicini e degli esiliati mossero a compassione il buon papa Alessandro IV, e a desiderio di rimediarvi. Dichiarò dunque suo legato nella marca di Trivigi Filippo, eletto arcivescovo di Ravenna, il quale, venuto a Venezia, ed ammassato un esercito di crocesignati, con dichiarar podestà de' fuorusciti padovani Marco Querino, e maresciallo dell'armata Marco Badoero, si disposero ad entrare nel Padovano. Ansedisio podestà di Padova, perchè Eccelino colle forze de' popoli di Padova, Vicenza e Verona era nel mese di maggio passato sul Mantovano, lusingandosi di poter mettere il piede in quella città, prese molte precauzioni per impedir lo ingresso dell'armata nemica; ma per giudizio di Dio esse facilitarono piuttosto la di lui rovina. Sul principio di giugno coraggiosamente entrò il legato apostolico nel territorio di Padova; prese Concadalbero, Causelve e Pieve di Sacco; ed avanzandosi ogni dì più, e crescendo l'armata sua per l'arrivo delle genti spedite per cura del marchese d'Este da Ferrara, Rovigo ed altri luoghi, a dirittura passò fin sotto Padova, e nel dì 19 di giugno s'impadronì, con poco spargimento di sangue, de' borghi di quella città. Nel giorno seguente dato di piglio alle armi, con gran giubilo tutta l'oste crocesignata diede un generale assalto alla città. Fu condotta una vigna, ossia gatto, macchina, sotto la quale speravano gli aggressori di rompere le porte di Ponte Altinate. Tanta quantità di pece, zolfo e di altra materia accesa fu gittata addosso a quella macchina, che il fuoco, attaccatosi ad essa, servì ad accendere e ridurre in cenere la porta stessa. Portatone l'avviso ad Ansedisio, allora gli cadde il cuore per terra; e perchè un buon Padovano il consigliò di capitolare col legato, affinchè la città non andasse a sacco, l'iniquo con una stoccata nel petto, per cui restò morto, gl'insegnò a non dar più dei pareri ai tiranni. Insomma costui pien di spavento, salito a cavallo, per la porta di [1256] San Giovanni prese la fuga, nè i suoi furono lenti a tenergli dietro. Entrò dunque l'armata de' crociati vittoriosamente in Padova nel dì 20 di giugno; male nondimeno per gl'innocenti cittadini, che dianzi miseri, maggiormente divennero tali per la sfrenata avidità de' vincitori. Costoro, avendo presa la croce più per isperanza d'arricchire che per voglia di conseguir le indulgenze plenarie, appena furono dentro, che diedero il sacco a quante case e botteghe erano nella città; nè altro fecero per sette giorni che ruberie, lasciando spogliata di tutto l'infelice cittadinanza, non senza biasimo de' comandanti, i quali in tanto tempo niun provvedimento trovarono all'inestimabil danno degli abitanti. Furono allora aperte le orrende carceri di Eccelino che erano in Padova. Essendosi anche renduta la terra di Cittadella, dove Eccelino avea dell'altre diaboliche prigioni, uscì alla luce una gran copia d'infelici, quivi piuttosto seppelliti che rinchiusi. A riserva di pochissimi luoghi, tutte le castella e terre del Padovano si diedero al legato, e tornarono sotto l'ubbidienza della città. Anche il marchese Azzo VII ricuperò la sua terra d'Este colle altre della Scodesia; ma non potè per allora riavere Cerro e Calaone, fortezze quasi inespugnabili per la lor situazione. Fecero poscia i Padovani nell'anno seguente un decreto, da me altrove rapportato [Antiquit. Italic., Dissert. XXIX, pag. 851.], che si dovesse solennizzar da lì innanzi con processione universale la felice liberazione della lor città; la quale funzione si fa anche oggidì.

Dopo avere Eccelino dato il guasto alla maggior parte del Mantovano senza poter nuocere alla città, alla quale impresa [Paris de Cereta, Annal. Veronens, tom. 8 Rer. Ital. Roland., lib. 9, cap. 7.] concorse ancora coi Cremonesi il marchese Oberto Pelavicino, decampò per venire a Verona, ed accorrere al soccorso di Padova. Al passaggio del Mincio gli arriva davanti uno tutto sudato ed ansante. Che nuova? disse Eccelino. [1257] Ed egli: Cattive. Padova è perduta. Eccelino il fece tosto impiccare. Da lì a poco ne arriva un altro. Che nuove? Rispose che con sua permissione volea parlargli in segreto. Costui ebbe più giudizio, e gli passò bene. Continuò il tiranno la marcia sino a Verona, senza permettere un momento di posata all'esercito stanco; e quivi insospettito de' Padovani che erano seco, tutti li fece imprigionare e spogliare di quanto aveano. Per attestato di Rolandino, erano undici mila persone tra nobili e plebei, ed Eccelino con una crudeltà, di cui mai più non si perderà la memoria, quasi tutti li fece parte uccidere, e il resto morire di stento: non ne tornarono forse ducento a Padova. Potrebbesi nondimeno dubitare di qualche esagerazion di Rolandino in sì gran numero d'infelici Padovani. Intanto il legato apostolico Filippo attese a rinforzare il suo esercito. Era volato a Padova Azzo marchese d'Este. Fece egli venire un buon rinforzo di gente da' suoi Stati e da Ferrara. Vi accorsero tutti i banditi da Verona e Vicenza, e vennero più brigate di Bolognesi, comandate in certa guisa dal famoso fra Giovanni dell'ordine de' Predicatori: il che è da notare per conoscere i costumi di questi tempi. S'ebbero ancora da Venezia e Chioggia assaissimi balestrieri. Premeva al legato di ridurre Vicenza al suo partito, e verso colà mosse l'armata nel dì 30 di luglio, e nel dì primo d'agosto andò ad accamparsi a Longare; e nello stesso tempo vi arrivò anche Alberico da Romano, fratello di Eccelino, con un corpo di Trivisani, facendosi credere fedele alla Chiesa: del che tutti si stupirono, e ne venne grande bisbiglio. Allora fu creato capitan generale dell'esercito il marchese d'Este, con plauso di ognuno. Ma da lì a poco levatosi un susurro, che Eccelino con un formidabil esercito si avvicinava, entrò tal timor panico nell'armata de' crocesignati, che, per quanto facessero il legato ed il marchese, i Bolognesi furono i primi a tornarsene a casa, ed altri di [1258] mano in mano a ritirarsi: laonde il legato giudicò meglio di ridurre l'esercito a Padova. Sospetto corse che Alberico da Romano avesse segretamente fatto spargere questo terror nella gente. Per attestato della Cronica di Verona [Paris. de Cereta, Chron. Veron., tom. 8 Rer. Ital.], la terra di Legnago sull'Adige, acclamando in quest'anno il marchese Azzo d'Este, si sottrasse all'ubbidienza di Eccelino e di Verona. Lo stesso fece quella ancora di Cologna. Tirarono poscia i Padovani una gran fossa quasi di tre miglia fuori della città con isteccati, torri di legno e petriere disposte in varii siti, e quivi s'accampò l'esercito pontificio, aspettando il tiranno. Colà fece venire il marchese Azzo tutta la cavalleria di Ferrara, e dovea in breve arrivare anche la fanteria. Gran copia di Mantovani e il patriarca di Aquileia con isforzo numeroso di gente accorsero alla difesa di Padova. Arrivò sul fine d'agosto Eccelino, diede varii assalti alle fortificazioni nemiche, ributtato sempre, tuttochè superiore al doppio di forze ai Padovani: il perchè scornato se ne tornò a Vicenza, dalla qual città con belle parole fece uscire la milizia urbana, facendola stare ne' borghi, e dentro dispose una buona guarnigione di Veronesi e Tedeschi.

Secondo la Cronica di Milano [Chron. Mediolan., tom. 16 Rer. Ital.], fu in quest'anno divisione fra i nobili e popolari di Milano. Ognun voleva comandar le feste. Guerra eziandio si fece fra i cittadini e fuorusciti di Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Ma in Toscana fu ben più fiera. Uscirono in campagna i Fiorentini, Lucchesi e Genovesi collegati contro ai Pisani [Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital., Ptolomeus Lucens., tom. 11 Rer. Ital. Ricord. Malaspina, et alii.]. A tutta prima i Lucchesi rimasero spelazzati; ma, accorsi i Fiorentini, sconfissero l'oste pisana vicino al Serchio; e fu in pericolo la stessa città di Pisa. Tolsero i Genovesi ai Pisani il castello d'Ilice. [1259] La debolezza in cui restò allora il popolo pisano il ridusse a chiedere pace. E l'ottennero con restituire ai Lucchesi Motrone, dimettere il castello di Corvara, che fu distrutto, e quello di Massa, che fu restituito al marchese Bonifazio Malaspina. Circa questi tempi cominciò il marchese Oberto Pelavicino [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], siccome capo de' Ghibellini in Lombardia, ad aver qualche dominio anche in Pavia. Leggiamo poscia nelle Croniche d'Asti [Chron. Astens., tom. 11 Rer. Ital.] che nell'anno presente, ad istanza e per ordine del papa, tutti gli Astigiani che erano in Francia furono presi dai soldati del santo re Lodovico, e consegnati a Tommaso conte di Savoia, oppur detenuti per lungo tempo nelle carceri di Parigi. Perderono gli Astigiani quanto aveano in Francia, e nella lunga guerra che ebbero col suddetto conte di Savoia, spesero più di ottocento mila lire. L'origine della disgrazia di questo popolo si ha da Matteo Paris [Matth. Paris, Hist. Angl.], dal Guichenone [Guichenon, Hist. de la Maison de Savoye.], e da Antonio poeta astigiano [Anton. Astens., tom. 14 Rer. Ital.], secondo i quali nel precedente anno cominciò la guerra fra esso Tommaso conte di Savoia e il popolo d'Asti. Occupò il conte Chieri agli Astigiani. Usciti con grande sforzo gli Astigiani, ruppero il popolo di Chieri, e poi presero Moncalieri, dove fecero prigione l'abbate di Susa loro gran nemico. A questa nuova il conte Tommaso, ch'era in Torino, ammassato l'esercito suo, venne a dar battaglia agli Astigiani a Montebruno, ma se ne andò egli sconfitto, e gran copia di Torinesi vi restò prigione. Tornato a Torino, fecesi una matta sollevazione contra di lui, e da quel popolo fu detenuto prigione, con intimazione di non rilasciarlo, se prima non facea restituire i lor cittadini. Matteo Paris ne attribuisce la cagione al suo duro governo. Diedero poscia i Torinesi barbaramente esso [1260] conte in mano agli Astigiani, e con ciò liberarono la lor gente. La disavventura di questo illustre principe, già conte ancora di Fiandra, e parente dei re d'Inghilterra e di Francia, fece gran rumori dappertutto. Papa Alessandro IV ne scrisse lettera di condoglianza alla regina d'Inghilterra, rapportata da Matteo Paris, e l'esortò a far prendere tutte le persone e i beni de' Torinesi ed Astigiani, che fossero nel suo dominio. Altrettanto fece il santo re di Francia nel suo, per ordine dello stesso papa. Presero poscia gli Astigiani Fossano ed altre terre del conte, ed arrivarono fino alla valle di Susa, con egual felicità in altri fatti d'armi. Abbiamo da Matteo Paris che venne in Italia l'arcivescovo di Cantorberì per liberare il conte suo fratello. Mosse i Savoiardi a fare l'assedio di Torino, ma senza profitto; e dopo avere inutilmente consumate immense somme di danaro, se ne tornò in Inghilterra, con lasciare tuttavia prigione il fratello. Aggiugne il medesimo storico che nell'anno presente i Romani, stanchi della severità ed inesorabil giustizia di Brancaleone d'Andalò Bolognese lor senatore, il cacciarono in prigione. A lui volea gran male la nobiltà, e più la corte pontificia. Segretamente se ne fuggì sua moglie, e, venuta a Bologna, operò che gli ostaggi de' Romani quivi dimoranti fossero ben custoditi. Ricorsi i Romani al papa, fecero ch'egli scrivesse al comune di Bologna, intimando l'interdetto alla città, se non rendeva gli ostaggi. Sofferirono i Bolognesi piuttosto l'interdetto, ben conoscendo che, qualora gli avessero dati, vi andava la testa del loro concittadino. Questo avvenimento ci fa comprendere con quali costumi si regolassero allora le città italiane, o almen qual precauzione avesse presa Brancaleone, perchè assai conoscente delle instabili leste dei Romani d'allora, i quali presero dipoi per loro senatore Manuello Maggi Bresciano. Potrebbe nondimeno essere che questi ostaggi e l'interdetto suddetto appartenessero [1261] all'anno 1260, siccome vedremo.


   
Anno di Cristo MCCLVII. Indizione XV.
Alessandro IV papa 4.
Imperio vacante.

Finalmente le dissensioni de' principi di Germania, per l'elezione di un nuovo re de' Romani, andarono a terminare in uno scisma [Stero., Annal. Augustan. Matth. Paris., Hist. Angl. Roland., lib. 11, cap. 2.]. Verso la metà di gennaio gli arcivescovi di Magonza e Colonia, Lodovico conte Palatino del Reno ed Arrigo suo fratello duca di Baviera elessero Riccardo conte di Cornovaglia, fratello del re d'Inghilterra. Da molti altri principi fu riprovata questa elezione. Però circa la metà di quaresima dell'anno seguente l'arcivescovo di Treveri, il re di Boemia, il duca di Sassonia, il marchese di Brandemburgo e molti altri principi acclamarono re anch'essi Alfonso re di Castiglia e di Leone. Venuto in Germania Riccardo, nel dì dell'Ascension del Signore fu coronato in Aquisgrana [Monachus Patavinus, in Chron., tom. 8 Rer. Ital.]. Il pontefice Alessandro IV stette neutrale in mezzo a questa contesa dei due re, senza aderire ad alcuno. Si agitò la causa nella curia romana, ma non fu mai decisa; e però l'Italia niun pensiero si prese di questi due re, quantunque i medesimi non cessassero di procacciarsi qui dei partigiani. Eccelino da Romano, fra gli altri, si dichiarò in favore del re di Castiglia; e questo re scrisse anche lettere al comune di Padova, per attestato di Rolandino. Lo stesso avrà fatto all'altre città d'Italia; nè Riccardo dovette dimenticare un somigliante uffizio; ma niun d'essi visitò mai queste contrade. Restavano tuttavia in Sicilia [Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8 Rer. Ital.] disubbidienti a Manfredi Piazza, Aidona e Castrogiovanni. Federigo Lancia, messo all'ordine un gagliardo corpo d'armata, [1262] andò a cignere d'assedio Piazza, città allora assai ricca e popolata. Vi trovò dentro gran copia di difensori, e difensori che non conosceano cosa fosse paura, di maniera che quasi ne parea disperato l'acquisto. Pure, dopo molti sanguinosi assalti, per forza v'entrò, e vi gastigò i principali che s'erano mostrati sì ardenti contro la casa di Suevia. Questo successo indusse la città d'Aidona a sottomettersi volontariamente al conte Federigo, il quale non si attentò di assediar Castrogiovanni, perchè città o castello troppo forte, ma fece ben mettere a sacco e fuoco tutto il suo contado, e la ristrinse con un vigoroso blocco. Questo nulladimeno bastò a far prendere a quel popolo la risoluzione di arrendersi a buoni patti: con che Manfredi, già divenuto padrone di tutto il regno di qua dal Faro, nulla ebbe in Sicilia che più contrastasse al suo volere e dominio. Non seppe trovar posa Azzo VII marchese d'Este, finchè vide le rocche di Monselice e le due sue fortezze di Cerro e Calaone in potere di Eccelino [Roland., lib. 10, cap. 13.]. Ad esse aveva egli già posto il blocco. Gli riuscì nella primavera di quest'anno di guadagnar, con danari e promesse di molti vantaggi, Gherardo e Profeta capitani del tiranno, che tuttavia difendeano i gironi superiori di Monselice; e in questa maniera liberò quell'importante sito. Nè passò molto, che se gli renderono ancora le castella di Cerro e Calaone: con che nulla restò in quelle parti al tiranno. Dimorava intanto esso Eccelino in Verona [Paris de Cereta, Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.], nè più potendo dar pascolo all'inumano suo genio contra dei Padovani, si diede a sfogarlo contra dei nobili e popolari d'essa Verona. Fece egli prendere in quest'anno Federigo e Bonifazio fratelli della Scala, famiglia che comincia ad apparire distinta in quella città, e tutti i loro aderenti, e, incolpatili di voler dare la città di Verona ai [1263] Mantovani e al marchese Azzo, li fece nel mese di ottobre strascinar a coda di cavallo, e bruciar poscia vivi. A forza ancora di tormenti fece morire Ansedisio suo nipote, per non aver saputo difendere Padova, permettendo Iddio che questo iniquo ministro delle crudeltà del zio ricevesse da lui stesso il meritato gastigo. In questo medesimo anno nel dì 8 di maggio Alberico da Romano, il quale dominava in Trivigi, essendo, oppure fingendo di essere, nemico di Eccelino suo fratello, e di seguitar le parti della Chiesa, si cavò infine la maschera, e fece non solamente pace, ma anche lega con esso Eccelino, con dargli in ostaggio tre suoi figliuoli. Seguitò dipoi Alberico ad esercitare anch'egli la crudeltà contra de' cittadini di Trivigi, assaissimi de' quali, sbanditi dalla patria, si rifugiarono sotto l'ali de' Padovani e Veneziani.

Era insorta nel precedente anno una fiera discordia rivile fra i Guelfi e Ghibellini di Brescia. Prevalsero gli ultimi, confidati nelle forze di Eccelino e del marchese Oberto Pelavicino, che allora mettevano a sacco il contado di Mantova. Incarcerarono, o fecero fuggire molti degli aderenti alla Chiesa. Ebbero nondimeno tanto giudizio di non ammettere nella lor città il perfido Eccelino, che già era giunto a Montechiaro con isperanza d'entrarvi; ed elessero per loro governatore Griffolino, uomo saggio ed amante della patria. Nell'anno presente Filippo da Fontana Ferrarese, legato apostolico ed eletto di Ravenna, soggiornando in Mantova, spedì colà [Malvecius, Chron. Brix., tom. 14 Rer. Ital.] frate Everardo dell'ordine de' Predicatori, uomo di molta dottrina e destrezza, il quale con tal facondia si adoperò, che la libertà e i beni furono restituiti ai Guelfi incarcerati e fuorusciti. Questo buon principio diede animo al legato di passare con poco seguito alla stessa città di Brescia, dove riconciliò gli animi alterati di que' cittadini, promettendo tutti di star saldi nell'antica divozione verso la Chiesa romana. Fecesi [1264] anche una riguardevole mutazione in Piacenza [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]. Si reggeva quella città a parte Ghibellina; ne era signore e capo il marchese Oberto Pelavicino. Formata una potente congiura, nel dì 24 di luglio levarono i Guelfi rumore, cacciarono dalla città il suddetto marchese ed Ubertino Landò suo fedel seguace, e spogliarono d'armi e cavalli tutta la gente loro, con eleggere dipoi per loro podestà Alberto da Fontana. Questi fece dipoi guerra agli aderenti de' Landi, col condannarli e bandirli dalla città. Non minore commozione civile fu in questi tempi in Milano [Annales Mediol., tom. 16 Rer. Ital. Gualvan. Flamma, Manip. Flor., cap. 291.]. Continuando Leone da Perego arcivescovo, coll'assistenza de' nobili, a pretendere il governo della città, a questo suo ambizioso disegno ripugnavano forte i popolari, disgustati anche di molto per la prepotenza d'essi nobili, e per un vecchio iniquo statuto, in cui altra pena non s'imponeva ad un nobile che ucciso avesse uno del popolo, se non di pagare sette lire e danari dodici di terzuoli. Essendo appunto in questi tempi stato ammazzato da Guglielmo da Landriano nobile un popolare, per avergli fatta istanza d'esser pagato, il popolo di Milano prese l'armi, si sollevò, e avendo alla lor testa Martino dalla Torre, obbligò l'arcivescovo e la nobiltà ad uscir di città. Si ritirarono questi nel Seprio, e ricevuto dai Comaschi un gagliardo rinforzo di gente, tentarono poi di rientrare in Milano, e più volte vennero alle mani coi popolari, ma sempre colla peggio. Interpostosi poi papa Alessandro coi cardinali, ne seguì pace, e mandati ai confini molti dei nobili, l'arcivescovo col resto se ne tornò in città. Allora fu che Martino dalla Torre prese per moglie una sorella di Paolo da Sorecina podestà de' nobili; e il popolo, chiamato al sindacato Beno de' Gonzani Bolognese allora podestà, che tante angherie avea fatto in addietro in Milano, [1265] il condannarono a pagar dodici mila lire. E perciocchè egli non potè o non volle pagare sì grossa somma, l'uccisero, e il suo corpo come di un cane gittarono nelle fosse. Andava in questi tempi a dismisura crescendo la potenza de' Bolognesi. Erano già padroni d'Imola, Cervia e d'altri luoghi. Nell'anno precedente, siccome diffusamente narra il Sigonio [Sigonius, de Regno Ital., lib. 19.], e s'ha ancora dalla Cronica di Bologna [Chron. Veronense, tom. 18 Rer. Ital.], stesero la loro giurisdizione sopra Faenza, Forlì, Forlimpopoli e Bagnacavallo, di maniera che parte della Romagna riceveva da essi podestà, e ubbidiva ai loro comandamenti. Cagione fu questo alto loro stato, ch'essi, ridendosi del laudo proferito da Giberto podestà di Parma, non vollero restituire al comune di Modena le castella del Frignano. Mancava ai Modenesi quel buon recipe che per sì fatti mali occorre; perciò fecero ricorso alle città di Lombardia, acciocchè interponessero i lor buoni uffizii, con far loro costare la forza delle proprie ragioni. Unitamente dunque col podestà di Modena [Annales Veteres Mutinens., tom. 11 Rer. Italic.] si portarono a Bologna gli ambasciatori di Milano, Brescia, Mantova, Ferrara, Parma e Reggio; ma, per quante esortazioni e preghiere adoperassero, non si potè espugnare l'avido e superbo cuore de' Bolognesi. Portarono allora i Modenesi le lor doglianze al papa, il quale, per timore che questa città non si gittasse in braccio al partito de' Ghibellini, scrisse nel dì 7 di agosto da Viterbo una lettera, rapportata dal Sigonio, al vescovo di Mantova, dandogli commissione di ordinare ai Bolognesi l'esecuzione del laudo, ma di non sottoporre all'interdetto Bologna senza suo nuovo ordine. Non apparisce che il vescovo facesse più profitto degli altri intercessori. In quest'anno finalmente, secondo il Guichenon [Guichenon, Histoire de la Mais. de Savoye, tom. 1.], uscì delle prigioni d'Asti [1266] Tommaso conte di Savoia; e ciò si può dedurre ancora da Matteo Paris [Matth. Paris. Hist. Angl.], che nell'anno seguente il dice arrivato in Inghilterra. Il trattato della sua liberazione fu conchiuso in Torino nel dì 18 di febbraio, e in esso il conte, forzato dalla necessità, rinunziò a tutti i suoi diritti sopra la città di Torino e sopra altri suoi luoghi. Dal Continuatore di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., tom. 6 Rer. Ital.] all'anno 1259 si ricava ch'egli diede agli Astigiani in ostaggio i suoi figliuoli.


   
Anno di Cristo MCCLVIII. Indizione I.
Alessandro IV papa 5.
Imperio vacante.

Era già il fin qui principe di Taranto Manfredi in pacifico possesso di tutto il regno di Sicilia di qua e di là dal Faro. Non mancavano a lui voglie di maggiore ingrandimento, nè consiglieri che la fomentassero e ne promovessero il compimento. Benchè intorno alle cose di lui non ci restino da qui innanzi, se non istorici guelfi, talvolta sospetti di troppo maliziare, e di alterar la verità secondo le loro passioni; pure non ci mancherà lume per discernere quello che sia più probabilmente da credere negli avvenimenti spettanti a lui. Pensò dunque Manfredi, e vi avea pensato anche molto prima, di assumere il titolo e la dignità di re di Sicilia. A questo fine fece egli sparger voce che Corradino suo nipote in Germania fosse mancato di vita. Niccolò da Jamsilla [Nicolaus de Jamsilla, Hist., tom. 8 Rer. Ital.] pare che ci voglia dare ad intendere che tal fama naturalmente e senza frode sorgesse e prendesse piede; ma non si fallerà giudicando che artificiosamente fosse disseminata, acciocchè, tenuto per estinto il legittimo erede della corona di Sicilia, si facesse apertura alla succession di Manfredi. E ciò poi sarebbe più chiaro del sole, qualora fosse fuor di dubbio quanto vien raccontato [1267] da Ricordano [Ricordano Malaspina, Istor., cap. 147.], da Giovanni Villani [Giovanni Villani, et alii.] e da altri Guelfi: cioè che Manfredi mandò suoi ambasciatori in Suevia per avvelenar Corradino, e, credendo essi d'aver fatto il colpo, se ne tornarono in Sicilia vestiti di gramaglia, asserendo la di lui morte. Le credo io favole. Saba Malaspina [Sabas Malaspina, lib. 1.] altro non dice, se non che si fecero correre certe lettere finte, come scritte da baroni tedeschi, coll'avviso della morte di Corradino, fondate forse anche sopra qualche grave malattia di lui, che diedero da dubitar di sua vita. Bastò questo per indurre, come vuole il Jamsilla, i prelati e baroni del regno a fare istanza a Manfredi di prendere lo scettro del regno. Più verisimile è che dalle segrete insinuazioni dello stesso Manfredi fossero mossi a far questo passo. Comunque sia, nel dì 11 d'agosto nella cattedral di Palermo fu egli solennemente coronato re da tre arcivescovi col concorso e plauso d'innumerabili prelati, baroni e popolo. Ed abbondavano bene in lui, anche per confessione de' suoi avversarii, moltissime di quelle prerogative che rendono l'uomo degno di regnare. Giovane di bell'aspetto, faceva sua gloria la cortesia, l'affabilità e la clemenza, senza avere ereditata la crudeltà de' suoi maggiori. Singolar fu la sua prudenza e l'intendimento superiore di lunga mano all'età; grande il suo amore verso le lettere e i letterati, ed egli stesso ben istruito delle scienze e dell'arti più nobili; ma soprattutto risplendeva in lui la generosità e la gratitudine in premiare chiunque gli prestava servigio. E specialmente nel tempo della coronazione si diffusero le rugiade della sua liberalità e magnificenza con profusione di donativi al popolo, e di contadi, baronie ed altri uffizii, de' quali principalmente furono a parte i suoi zii materni marchesi Lancia, ed altri suoi parenti e molti Lombardi, dei quali, più che d'altri, si fidava. Ch'egli fosse principe di poca fede, di minor [1268] pietà, e dedito a' piaceri e alla lussuria, lo dicono gli scrittori pontificii. Certo è che la politica mondana e l'ambizione ebbero il primato nel suo cuore, e fu dai più riprovato l'aver egli occupato il regno dovuto al nipote. Credeva anch'egli non poco alla strologia. Scrive Matteo Paris [Matth. Paris, Hist. Angl. ad ann. 1256.], essersi nell'anno 1256 venuto a sapere che Manfredi, creduto fin allora bastardo, in una malattia della madre, figliuola del marchese Lancia di Lombardia, era stato legittimato dall'imperador Federigo II suo padre, coll'averla sposata. Queste erano ciance del volgo. Racconta ancora Saba Malaspina [Sabas Malaspina, Histor., lib. 1, cap. 5.], scrittore nimico di Manfredi, che non essendo per anche egli coronato, per parte del re Corradino vennero in Italia due ambasciatori con ordine di trattar col papa di accordo per succedere nel regno di Sicilia. Verso il castello della Molara furono presi, spogliati, e l'un di essi ucciso, l'altro ferito da Raule de' Sordi nobile romano. Autore di questa sceleraggine vien detto Manfredi da esso Malaspina, quasichè allora non si trovassero nel distretto romano e in altri luoghi di que' nobili assassini che andavano a caccia di chi avea cariche le valigie di oro; e non confessasse egli che questo nobile era un solennissimo scialacquatore e malvivente, capace perciò senza gli sproni altrui di così neri attentati. Per lo contrario, abbiamo da Matteo Spinelli [Matteo Spinelli, tom. 7 Rer. Ital.] che nel dì 20 di febbraio del 1256 (nel suo testo sono sconcertati tutti gli anni: forse è l'anno 1259) vennero a Barletta gli ambasciatori della regina Isabella, madre del re Corradino, con quei del duca di Baviera suo fratello, a trovare il re Manfredi. Fecero conoscere che Corradino era vivente, e pretesero che si gastigasse chi avea detta la menzogna di sua morte. Manfredi con saggio e bel sermone rispose loro che il regno era già perduto, ed averlo egli, siccome [1269] ognun sapeva, conquistato coll'armi e con immense fatiche; nè essere di dovere nè di utilità che lo rinunziasse ad un fanciullo incapace di sostenerlo contra de' papi, implacabili nemici della casa di Suevia. Che per altro avrebbe tenuto il regno sua vita naturale durante, e poi vi sarebbe succeduto Corradino. Con queste belle parole, e con regali magnifici, anche pel duca di Baviera, rispedì gli ambasciatori. Da Palermo ripassato il re Manfredi in Puglia [Sabas Malaspina, lib. 2, cap. 1.], tenne corte bandita e un gran parlamento in Foggia, dove rallegrò i popoli concorsi da tutte le parti colla solennità di varii spettacoli e giuochi. Indi coll'esercito passò addosso alla città dell'Aquila, che fin qui avea pertinacemente tenute inalberate le bandiere della Chiesa. Danno non venne alle persone e robe degli abitanti, che furono poi costretti ad uscirne, e la città per pena fu data alle fiamme.

In questi tempi avendo il popolo romano trovato colle pruove Mannello dei Maggi [Matth. Paris, ad hunc annum.], senatore troppo parziale dei nobili, levatosi a rumore, andò colla forza a liberar dalle carceri Brancaleone già senatore, e il rimise nell'uffizio primiero. Allora egli cominciò ad esercitare spietatamente il rigore della giustizia contra de' potenti Romani che calpestavano il popolo, e fece infin presentare alle forche due della nobil casa degli Annibaldeschi. Fu coi suoi fautori scomunicato dal papa: del che non fecero eglino conto, pretendendo di avere un privilegio di non potere essere scomunicato. Tali minaccie poi si lasciarono uscir di bocca contra del pontefice e de' cardinali, che papa Alessandro colla corte, non veggendosi sicuro, si ritirò a Viterbo. Ciò dovette succedere nell'anno precedente, perchè si veggono lettere quivi allora date dal papa. Nel presente anno Brancaleone col popolo romano fu in procinto di portarsi coll'armi a distruggere Anagni, patria dello stesso pontefice. Per placarlo, bisognò [1270] che il papa con umili parole mandasse a pregarlo di desistere da così crudele disegno. Durò fatica Brancaleone a frenar il furor del popolo, e da lì innanzi tenne buona corrispondenza col re Manfredi, che gli promise ogni assistenza ed aiuto. Poscia, per abbassare la potenza della nobiltà romana, che colle case ridotte in forma di fortezze commetteva mille insolenze, fece diroccare da cento quaranta loro torri; e in questa maniera tornò la quiete e tranquillità in Roma. Ma non passò l'anno presente, che fu anche lo stesso Brancaleone atterrato dalla morte, e il suo capo, per memoria del suo valore, o, per dir meglio, della sua eccessiva giustizia e crudeltà, posto sopra una colonna entro di un vaso prezioso. Per consiglio di lui, fu eletto senatore Castellano di Andalò Bolognese suo zio dal popolo romano, senza voler dipendere dall'assenso del papa, che fece tutto il possibile per impedirlo. Prosperarono in quest'anno in Lombardia gli affari dell'empio Eccelino da Romano con somma afflizione di tutti i buoni. Guardavansi con occhio bieco in Brescia le due fazioni de' Guelfi e Ghibellini, benchè riconciliate poc'anzi. Eccelino [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.] con segrete lettere soffiava nel fuoco. Tentarono i Ghibellini di cacciar la parte contraria nel dì 29 d'aprile, essendo con loro Griffo ossia Griffolino podestà della città. Si venne all'armi; si combattè tutta la notte; nel dì seguente restarono sconfitti gli amici di Eccelino, Griffo preso con altri, il resto colla fuga si salvò a Verona e Cremona. Già dicemmo uniti in lega Eccelino ed Oberto Pelavicino marchese. Perchè i Bresciani erano venuti all'assedio di Torricella occupata dai lor fuorusciti, mosse il marchese l'esercito de' Cremonesi per dar soccorso agli assediati, e nello stesso tempo sollecitò Eccelino a muoversi dall'altro canto. Allora Eccelino con quante forze potè di Tedeschi, e delle milizie di Verona, [1271] Feltre, Vicenza e d'altri luoghi [Rolandinus, lib. 11, cap. 9.], marciò alla volta del Mincio, e, passatolo in fretta, andò ad unirsi coi Cremonesi. Intanto il legato pontificio Filippo arcivescovo di Ravenna, al primo movimento de' Cremonesi avendo chiamati in aiuto i Mantovani, che v'accorsero colla loro milizia, uscì in campagna coll'esercito bresciano e con tutti i suoi crocesignati, e andò a Corticella presso al fiume Oglio. Ma arrivata nel suo campo la nuova che Eccelino s'era accoppiato coi Cremonesi, ben conoscendo d'essere inferiore di forze, propose di ritirarsi a Gambara, e che s'aspettasse Azzo marchese d'Este, il quale a momenti dovea giugnere collo sforzo dei Ferraresi e dei suoi Stati. Parve a Biachino da Camino e ai principali Bresciani una viltà il retrocedere [Paris de Cereta, Chron. Veronens., tom. 8 Rer. Ital.]. Da lì a poco eccoti si veggono da lungi sventolar le bandiere di Eccelino; All'armi, all'armi. Si diede la battaglia nel dì 28 d'agosto, secondo Rolandino, ma, secondo il Monaco Padovano [Monachus Patavinus, in Chron., tom. eod.] e Jacopo Malvezzi [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Italic.], nel dì 30. Atterriti sul principio, in breve sbaragliati rimasero i Bresciani, e preso il legato del papa con Damiano Cossadoca vescovo eletto di Verona, Simone da Fogliano di Reggio podestà di Mantova, e molti altri nobili, e gran quantità di popolo. Nel dì seguente Cavalcante da Sala vescovo, e gli altri cittadini rimasti in Brescia, tutti sbigottiti, credendo di far cosa grata ad Eccelino, liberarono Griffo e gli altri prigioni, ma scioccamente e in propria rovina, perciocchè costoro aprirono le porte della città ad Eccelino, il qual vittorioso col marchese Oberto e Buoso da Doara ne prese il possesso. Il vescovo, i preti e gran copia d'altri cittadini guelfi si sottrassero colla fuga a quel flagello del genere umano. [1272] Aveva Eccelino, per attestato di Parisio da Cereta, nel primo dì di febbraio dell'anno presente fatto morir ne' tormenti moltissimi Veronesi, tanto nobili che plebei. Non dimenticò già egli il suo barbarico costume, giunto che fu in Brescia. Ivi ancora le carceri e le mannaie si tennero in esercizio, e le chiese spogliate, e le torri dei principali nobili per ordine suo furono spianate. Doveva essere il dominio di Brescia la metà de' Cremonesi; e infatti sul principio fu divisa la città, e l'una parte d'essa assegnata al marchese Pelavicino e a Buoso da Doara. Ma Eccelino la volea tutta, e ne trovò a suo tempo la maniera. Intanto, a riserva della terra degli Orci, tutto il territorio di Brescia venne in poter del tiranno. Per questa disavventura di Brescia, città di tanto nerbo, fu un gran dire per tutta Italia, e n'ebbe un sommo cordoglio e terrore la parte della Chiesa. Ma i giudizii di Dio sono ben diversi da quelli degli uomini, e ce ne avvedremo all'anno susseguente.

Nel dì 4 d'aprile, dell'anno presente, coll'interposizione del suddetto Filippo legato del papa, s'erano accordati insieme i nobili e popolari di Milano con istabilire una concordia, che fu appellata la pace di Sant'Ambrosio [Annales Mediolanenses, tom. 16 Rer. Ital., Gualvan. Flamma, in Manip. Flor., cap. 292.]. Il Corio [Corio, Istor. di Milano.], che ne vide lo strumento, rapporta distesamente tutte le condizioni d'essa. Ma, secondo il pessimo uso di tempi tali, durò questa ben poco. Nella festa di san Pietro di giugno, Martino dalla Torre capo del popolo cacciò di città Leone da Perego arcivescovo colla fazione de' nobili, i quali si ridussero a Cantù, e poscia andarono in soccorso de' Rusconi, potenti cittadini di Como, i quali voleano abbattere la parte contraria de' Vitani. Ma, accorso in aiuto degli ultimi il suddetto Martino con un possente corpo di Milanesi, toccò ai Rusconi di sloggiare da Como, e i Vitani ne restarono padroni. [1273] Ebbe nondimeno un'altra cagion di sospirare nell'anno presente la città di Milano. Suddita de' Milanesi era da gran tempo la nobil terra di Crema [Chronicon Placentinum, tom. 16 Rer. Ital.]. Entrata anch'ivi la discordia fra i cittadini, i Benzoni, famiglia potente, chiamarono il marchese Oberto Pelavicino, il quale ben volentieri con cinquecento cavalli ne andò a prendere il possesso e dominio, con iscacciarne la contraria fazione. L'emulazione ancora che d'ordinario regnava fra quelle nazioni italiane, che si trovavano allora possenti in mare, e intente alla mercatura, era già passata in aperta guerra tra i Veneziani [Dandul., in Chron., tom. 12 Rer. Ital.] e Genovesi per accidente occorso in Accon. Il Continuatore di Caffaro [Caffari, Annal. Genuens., lib. 6, tom 6 Rer. Italic.] descrive il principio e progresso della lite, per cui restarono aggravati i Veneziani. E quantunque s'interponesse coi suoi paterni uffizii papa Alessandro IV, e andassero innanzi e indietro lettere ed ambasciatori, pure non ne venne concordia, e continuò il mal animo dell'altra nazione. Fecero lega i Veneziani coi Pisani, Provenzali e Marsiliesi, e con gran flotta navigarono tutti in Oriente. Colà comparvero ancora con possente sforzo di galee e di navi i Genovesi. Nel dì 24 di giugno si affrontarono queste armate navali, e dopo un ostinato combattimento [1274] la vittoria si dichiarò in favore de' Veneziani e Pisani [Annales Pisani, tom. 6 Rer. Ital.], con prendere venticinque galee dei vinti. Restarono perciò i Genovesi in molto abbassamento in quelle parti, e fu distrutta in Accon la lor bellissima torre, e spogliati i lor magazzini. A queste nuove il buon papa Alessandro, considerando il grave pregiudizio che da ciò risultava agl'interessi della cristianità in Soria, rinforzò le sue premure per la pace. Intimò tosto una tregua; ottenne da' Veneziani la libertà de' prigioni, e finalmente stabilì fra questi popoli la concordia, con alcune condizioni nondimeno, che forse furono moleste ai Genovesi. Crescendo anche in Bologna [Matth. de Griffonibus, Histor. Bononiens., tom. 18 Rer. Italic.] ogni dì più le discordie civili, che ordinariamente nascevano dalle pazze parzialità e fazioni guelfa e ghibellina, ovvero dall'incontentabil ambizione di soprastare nel comando agli altri, in quest'anno vennero alle mani in essa città i Geremii e i Lambertazzi, famiglie delle più potenti, cadauna delle quali tirava seco il seguito d'altre nobili casate, e ne succedette la morte di molti. Quel solo che potè ottenere con tutti i suoi sforzi il podestà, fu di mettere tregua fra le parti: il che per allora sopì, ma non estinse l'incendio, che continuò poi per anni parecchi.

FINE DEL VOLUME IV.

INDICE

DCCCCXCIV DCCCCXCV DCCCCXCVI DCCCCXCVII DCCCCXCVIII DCCCCXCIX M MI MII MIII MIV MV MVI MVII MVIII MIX MX MXI MXII MXIII MXIV MXV MXVI MXVII MXVIII MXIX MXX MXXI MXXII MXXIII MXXIV MXXV MXXVI MXXVII MXXVIII MXXIX MXXX MXXXI MXXXII MXXXIII MXXXIV MXXXV MXXXVI MXXXVII MXXXVIII MXXXIX MXL MXLI MXLII MXLIII MXLIV MXLV MXLVI MXLVII MXLVIII MXLIX ML MLI MLII MLIII MLIV MLV MLVI MLVII MLVIII MLIX MLX MLXI MLXII MLXIII MLXIV MLXV MLXVI MLXVII MLXVIII MLXIX MLXX MLXXI MLXXII MLXXIII MLXXIV MLXXV MLXXVI MLXXVII MLXXVIII MLXXIX MLXXX MLXXXI MLXXXII MLXXXIII MLXXXIV MLXXXV MLXXXVI MLXXXVII MLXXXVIII MLXXXIX MXC MXCI MXCII MXCIII MXCIV MXCV MXCVI MXCVII MXCVIII MXCIX MC MCI MCII MCIII MCIV MCV MCVI MCVII MCVIII MCIX MCX MCXI MCXII MCXIII MCXIV MCXV MCXVI MCXVII MCXVIII MCXIX MCXX MCXXI MCXXII MCXXIII MCXXIV MCXXV MCXXVI MCXXVII MCXXVIII MCXXIX MCXXX MCXXXI MCXXXII MCXXXIII MCXXXIV MCXXXV MCXXXVI MCXXXVII MCXXXVIII MCXXXIX MCXL MCXLI MCXLII MCXLIII MCXLIV MCXLV MCXLVI MCXLVII MCXLVIII MCXLIX MCL MCLI MCLII MCLIII MCLIV MCLV MCLVI MCLVII MCLVIII MCLIX MCLX MCLXI MCLXII MCLXIII MCLXIV MCLXV MCLXVI MCLXVII MCLXVIII MCLXIX MCLXX MCLXXI MCLXXII MCLXXIII MCLXXIV MCLXXV MCLXXVI MCLXXVII MCLXXVIII MCLXXIX MCLXXX MCLXXXI MCLXXXII MCLXXXIII MCLXXXIV MCLXXXV MCLXXXVI MCLXXXVII MCLXXXVIII MCLXXXIX MCXC MCXCI MCXCII MCXCIII MCXCIV MCXCV MCXCVI MCXCVII MCXCVIII MCXCIX MCC MCCI MCCII MCCIII MCCIV MCCV MCCVI MCCVII MCCVIII MCCIX MCCX MCCXI MCCXII MCCXIII MCCXIV MCCXV MCCXVI MCCXVII MCCXVIII MCCXIX MCCXX MCCXXI MCCXXII MCCXXIII MCCXXIV MCCXXV MCCXXVI MCCXXVII MCCXXVIII MCCXXIX MCCXXX MCCXXXI MCCXXXII MCCXXXIII MCCXXXIV MCCXXXV MCCXXXVI MCCXXXVII MCCXXXVIII MCCXXXIX MCCXL MCCXLI MCCXLII MCCXLIII MCCXLIV MCCXLV MCCXLVI MCCXLVII MCCXLVIII MCCXLIX MCCL MCCLI MCCLII MCCLIII MCCLIV MCCLV MCCLVI MCCLVII MCCLVIII

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (Montevio/Montevìo e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.