Title: La Marfisa bizzarra
Author: Carlo Gozzi
Editor: Cornelia Ortiz
Release date: October 10, 2006 [eBook #19524]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (Images generously made available by Editore Laterza and the Biblioteca Italiana at http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)
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GIUS. LATERZA & FIGLI
1911
Con audacia particolare dedico a Vostra Eccellenza la Marfisa bizzarra, ch'è un fascio di dodici canti da me immaginati e scritti, intitolati «poema»; e non contento ancora d'avergli intitolati «poema», ho aggiunto a questo titolo l'epiteto di «faceto». A mio credere, un tale epiteto gareggia di temeritá colla dedica, giudicando la facezia, spezialmente in questo secolo, molto piú difficile della serietá, quantunque meno considerata da infinite persone che non sono né serie né facete.
Un certo bisbiglio di prevenzione fa la Marfisa qualche cosa di conseguenza, e però l'Eccellenza Vostra accetti a buon conto, come a lei dedicato, cotesto bisbiglio anteriore, perché, letta che sia la Marfisa da lei e dal pubblico, non sará trovata cosa degna del menomo riflesso, e sará tronco tosto anche quel favorevole mormorio che le dona qualche fama prima che sia pubblicata. Le prevenzioni onorevoli in aspettativa sogliono riuscir perniziose all'opere ch'escono dalle stampe, perché le fantasie umane, naturalmente voragini insaziabili, in attendendo curiose, si riscaldano, si formano delle idee gigantesche in astratto; ed è facile che sembri loro alfin di vedere la meschina prole della montagna partoriente. La Marfisa, forse con ragione, sará considerata quel parto, ed io averò avuta la sfacciataggine di dedicarla a Vostra Eccellenza.
Non posso tuttavia ridurre interamente il mio cuore a disprezzar questo poema quanto, uniformandomi ad altri, sarei capace esternamente di avvilirlo con le parole. Qualche picciola parte della mia fragile umanitá, non atta alla filosofia, sente un vermicciuolo di predilezione, il qual è poi anche una delle vere cagioni della mia dedica. Si farneticherá forse per indovinar la ragione per la quale io abbia donati piú alle sue che ad altre mani de' fogli spiranti satira per ogni verso. Appago questa curiositá. Certi modi franchi e svelati ne' discorsi dell'Eccellenza Vostra m'hanno fatto giudicare che convenga piú a lei che ad altri una tal dedica, e forse forse procuro con questo dono di sedurre l'animo suo a leggere la Marfisa con una favorevole disposizione. Gli onesti satirici non possono tener celato nemmeno un artifizio che usano in loro favore, com'Ella vede.
Per la cognizione che ho delle sue vaghe produzioni poetiche, del suo intelletto e della sua vivacitá di esprimere un sano giudizio, la sua lingua è da temersi quanto sarebbe da temer la Marfisa bizzarra, se ella avesse il merito che ha la sua lingua. S'io fossi un poeta mellifluo, caderebbero le mie lodi sopra il suo leggiadro portamento, sopra i gigli e le rose del suo colorito, sopra l'oro dei suoi capelli e sopra temi consimili, possedendo Vostra Eccellenza abbondanza di qualitá anche di questa spezie. Sieno i suoi fioriti giardini fatti immortali da que' tanti cigni che la circondano. Un poeta satirico è per lo piú colpito da un animo franco e da una lingua sincera: per questa sola ragione le mie parole pendono piú a queste due che all'altre sue molte rare qualitá. Se tutti gli animi franchi e tutte le lingue sincere s'abbattessero a rendersi osservabili agli amanti del vero, tutti quelli che possedono queste due qualitá goderebbero di quelle fortune che accrescono splendore a' meriti grandi di Vostra Eccellenza; ma di rado i franchi e sinceri s'incontrano in tali amanti, e per ciò, quando dovrebbero abbattersi a fortune, si abbattono a sciagure.
Si dánno sulla terra due generi di persone dette «satiriche» senza considerazione. Il primo è d'invidiosi, inquieti, maligni, traditori, ingrati, d'un interno avvelenato, odiatori, disperati, superbi, collerici per istinto contro al genere umano, buono e cattivo universalmente. Questi riescono detrattori pessimi da essere fuggiti, e sono indegni di dedicare a una bell'anima le loro assassine opere, per eleganti che sieno. Il secondo genere è di osservatori del bene e del male, i quali colla miglior urbanitá ed efficacia che possono, attenendosi a' generali, se non sono punti e sfidati da' particolari, espongono, dipingono, caratterizzano, bilanciano, fanno confronti, riflessioni, lodano il bene, inveiscono contro il male, deridono i pregiudizi, ridono e fanno ridere de' difetti dell'umanitá. Una certa libertá di pensare, un disprezzo de' riguardi, un amore ardito per la veritá gli fa scrittori.
Chi dedica, aspira a qualche benefizio. Io bramo dall'Eccellenza Vostra quel solo benefizio d'essere considerato nel numero del secondo genere de' satirici.
Il mondo difficilmente fa una tale separazione. Nimicizia, ignoranza, dispetto, sospetto mette i detrattori e gli urbani satirici in un solo conto. Vostra Eccellenza non è nimica, non è ignorante, non è dispettosa, non è sospettosa, e sa essere benefattrice volontaria anche di coloro che non le chiedono favori. Affido alle sue mani la Marfisa bizzarra, non meno che la bilancia del mio carattere; e la supplico a voler consentire ch'io possa vantarmi suo servitore e suo satirico.
Rispettando chi molto ragiona e poco osserva, io poco ragionando e molto osservando ho ingravidata la mente, la quale, senza incomodare la lingua, ha dato poi tutta la briga, quando a una mia penna di pollo d'India, quando a una mia penna d'oca, di discorrere sopra i fogli che succederanno a questo preambolo. Cotesti fogli formano un libro sulla fronte di cui si vederá scritto: La Marfisa bizzarra, poema faceto. È superflua una confessione che i fatti esposti in dodici canti della Marfisa non siano di gran rimarco. Ciò non è mia colpa. Se nella vecchiaia del mio Turpino i paladini non avessero cambiati gli antichi costumi, che teneano del mirabile, gli accidenti della Marfisa sarebbero piú maravigliosi. Destò in me la spezie di gravissimo caso il cambiamento nel pensare e nell'operare di quegli eroi tanto celebrati dal Boiardo e dall'Ariosto; e se verrá considerata la differenza nel vero punto di vista, i successi di questo burlesco poema non appariranno frivoli affatto. I caratteri, le pitture, i ragionamenti, i maneggi, gli amori, in tal metamorfosi mirabile quanto tutte quelle d'Ovidio, non mi parvero immeritevoli della fama; e certo il maggior scapito loro deriverá dal mio infelicissimo ingegno, non atto a fargli immortali. Dieci canti di questo libro furono da me scritti sette anni or saranno, vale a dire l'anno 1761. Siccom'egli è veramente satirico e ripieno di ritratti naturali al possibile, alcuni, che vollero a forza udirne dei pezzi, incominciarono a voler fare gli astrologhi, immaginando di scoprire in essi il tale e la tale dipinti particolarmente al vivo. Si sa quanta forza abbia la presunzione dell'infallibilitá negli uomini, e quanto diligenti sieno i nimici ad assecondare un'opinione che può riuscire in odiositá a una libera penna. I disseminati discorsi de' falsi indovini mi parsero perniziosi e indiscreti. La mia vena innocente, che cercava solo di spassarsi nel partorir le immagini delle quali si era impregnata sulla lettura del suo Turpino e in una taciturna e universalissima osservazione sugli uomini, ebbe alquanta stizza. Troncai 'l corso all'opera e la chiusi a sette chiavi, sdegnando che dall'amore che ho per il prossimo me ne venisse dell'odio, e che fosse cambiato in veleno un elisire ch'io, forse accecato da troppo orgoglio, giudicava non disutile alla societá.
Nel tempo in cui scrissi gli accennati primi dieci canti, bolliva una controversia un po' troppo arditamente giocosa intorno alla maniera di ben iscrivere e al buon gusto poetico del comporre. Paleserò, s'è necessario, che Marco e Matteo dal piano di San Michele—due paladini che si vedono dipinti nel poema—rappresentano due scrittori, che in quella stagione s'erano dichiarati, coll'alleanza d'alcuni altri scrittorelli, con soverchia animositá contro a' buoni scrittori antichi e contra chi difendeva l'invulnerabile fama di quelli. Coteste due creature, dipinte precisamente, hanno data la spinta a far giudicare con sciocchezza e falsitá di tutte l'altre persone che campeggiano nel poema. Vorrei ben oggi poter troncare, senza rompere alcune necessarie connessioni all'opera e senza che potessero uscire quelle brutte parole «il libro è castrato», tutto ciò che attiene a' que' due paladini, ch'io tengo per amici ad onta delle loro collere; prima perché non è mio costume il prendere di mira persone in particolare, e poscia perché riescono scipite e tediose tutte le scritture di critica e di derisione fuori della circostanza in cui un pubblico è in quella interessato. Il tempo solo decide del merito di ciò che si scrive, e non avendo io nessun merito per sperare dal tempo immortalitá, sieno certi i due paladini Marco e Matteo, e gli alleati, della loro vendetta. Quanto agli altri oggetti fatti sospettosi dagl'indovini e dalla malizia, se useranno l'indulgenza di non credermi capace di prender dirittamente per bersaglio nessuno che non mi punga, per satireggiarlo, mi faranno giustizia. Potranno questi riflettere che, siccome ne' Caratteri di Teofrasto, nelle Satire di Orazio, di Giuvenale, nelle antiche commedie e in altri libri dell'anime passate negli Elisi, si trovano delle pitture d'uomini viventi oggidí; nella Marfisa bizzarra, da qui a due secoli, se 'l libro fosse fortunato a segno d'aver tanto di vita, si troveranno de' veri disegni d'uomini viventi in allora. Non so s'io mi debba dire «spero» o «temo» che la premessa mia giustificazione sia inutile. Nessuno si vedrá figurato negli oggetti difettosi posti nella Marfisa, e piuttosto si rileverá ne' virtuosi. La lettura e le osservazioni mi faranno titubare e quasi credere che gli uomini morti sieno stati simili ai viventi, e che con tutte le satire, le derisioni al vizio e i ricordi buoni, gli uomini che nasceranno abbiano da non esser differenti dagli uomini morti e dagli uomini che oggidí vivono con noi. Il difetto, riguardo ai principi dell'educazione, è benissimo conosciuto da' popoli, ma la considerazione che abbiamo di noi medesimi lo fa sempre scorgere facilmente dall'uomo nell'altro uomo e difficilmente in se stesso. Solo perché in ogni secolo si è procurato di scemare i difetti nelle genti, certi scrittori ebbero dell'applauso: vi sará in ogni secolo chi tenterá di acquistarsi qualche nome per questa via. Se poi si giunga per questa via a cagionare alcuna riforma nei viziosi costumi, io mi contenterò di rimanere in dubbio per non tralasciare di farlo. Il governo di Londra ha sperato in ciò del benefizio sopra a' suoi popoli, e perciò lasciò correre Lo spettatore. Due poemetti usciti alla stampa da poco tempo in verso sciolto, l'uno intitolato Il mattino, l'altro Il mezzogiorno, che mi lasciano con ingordigia desiderare La sera, risvegliarono in me la brama di dar fine all'imprigionata Marfisa bizzarra. Una felice, elegante, maestosa, diligente e notomizzata esposizione, molti riflessi, molta satira e molta filosofia formano que' due libretti, veramente degni di andar separati dalle immense lordure ch'escono alla stampa in questo secolo detto «illuminato». Il sublime del loro stile, sopra una base faceta, sostiene ingegnosamente una continua ironia, che gli fa seri e scherzevoli a un tratto e col piú fino sapore. Non anderanno soggetti mai alla sventura dell'oblivione, quantunque appunto pel loro sostenuto sublime riescano oscuretti appresso quella vergognosa ignoranza, dall'autore con somma ragione sferzata in parecchi grandi. Tuttoché que' due poemetti sieno scritti in uno stile totalmente diverso da quello della Marfisa, sono però appoggiati alle viste medesime e a' medesimi principi di questa. L'ho terminata con due canti, seguendo il filo degli altri dieci e quell'ossatura da sett'anni apparecchiata, fatto coraggioso dal felice accoglimento dato dal pubblico alla benemerita sferza del Mattino e del Mezzogiorno. Sappiasi ch'io mi vanto solo d'essere confratello nelle massime dello scrittore di que' due poemetti venerabili, ma sappiasi ancora ch'io mi confesso architetto infelice d'una fabbrica umile e di simmetria diversa affatto da quella del suo nobilissimo edifizio. Non incresce all'umanitá di passar talora da un adornato palagio ad una semplice casipola villereccia, in traccia di quella varietá che suol cagionare il divertimento. La Marfisa è un poema giocoso e d'uno stile scopertamente famigliare. Molti fattarelli cavati dal mio Turpino, che la riempiono, servono di pretesti a porre in circostanza le dame, i cavalieri, l'arme e gli amori; e dalla circostanza pullula quella satira sul costume, alla quale chiedo la benedizione dal cielo. Alle due consuete sciagure degli altri libri anderá sottoposta la Marfisa. Se una è quella di non essere né letta né badata, l'altra è quella della critica. Mi rincrescerebbe alquanto piú la prima della seconda, ma né l'una né l'altra potrá vantarsi d'aver turbata la mia pace. Per entro al poema credo d'aver assai espressa la mia ostinazione di voler usare i colori dello stile de' nostri antichi piacevoli, a me amicissimi e carissimi. Quante bellezze, d'indole però diversa, non adornano Il mattino e Il mezzogiorno, per aver il loro scrittore bevuto alla fonte degli antichi poeti! Se i miei critici vorranno tentare di darmi alcun dispiacere, gli avverto fraternamente di censurar la Marfisa in tutte le sue parti, ma non mai in quella degli anacronismi de' quali è sparsa, perché mi faranno piú ridere che arrabbiare e non averanno il loro intento. Ho voluto che i miei paladini bevano il caffè, il cioccolato e mandino de' libretti alla stampa al tempo di Carlo Magno. Ho voluto che possano raccomandarsi a' santi e nominare de' santi che dovevano ancora nascere, che possano spendere delle monete di conio posteriore all'etá loro, che possano leggere Rutilio Benincasa, l'Ottimismo, il Lunario da Bassano, eccetera eccetera. Dicendo «ho cosí voluto», spero di levare la noia agli eruditi critici di raccogliere una filza di simili anacronismi de' quali desiderai di valermi, non curandomi d'avere il torto a prender de' granchi volontariamente. Nella Marfisa non si tratta né del commercio né dell'arti né dell'agricoltura. Dovrá dunque cadere per questa sola ragione tra i libri disutilacci e da non esser punto considerati? Io rispetto i benemeriti scrittori, che co' loro ponderati, seri e zelanti insegnamenti hanno giá in questo secolo ridotte ricchissime tutte le cittá, fertilissime tutte le campagne, agiatissime tutte le famiglie, come si vede. Pieno di gratitudine e d'umiliazione verso il loro merito, pel benefizio dell'universale opulenza introdotta, per i cibi e i vestiti che si hanno oggidí con poca spesa, chiedo in grazia che si permetta senza disprezzo di poter proccurare nell'uomo un commercio di buona fede, quanto quello della cociniglia e dell'endico; che si permetta senza disprezzo, che si possano animar nell'uomo le bell'arti della virtú, de' costumi, dell'eloquenza quanto le manifatture de' panni e delle stoffe; che si permetta senza disprezzo che si possa coltivar l'animo e il cuore dell'uomo almeno quanto un gelso ed una patata. Consoliamoci con le nostre reciproche lusinghe d'esser utili alla societá, con le nostre reciproche speranze di renderci immortali, e tronchiamo le nostre prefazioni seccatrici reciprocamente.
La pace, l'ozio e i nuovi libriccini cambian re Carlo Magno di natura. Dietro al re quasi tutti i paladini di poltrir solo e di sguazzare han cura. Si fa nel primo canto agli Angelini, agli Orlandi, a' Rinaldi la pittura, agli Olivieri e all'altre alme famose, perché il lettor s'informi delle cose.
1
Se non credessi offender gli scrittori che han rotto con lo scrivere ogni sbarra, e son fatti del mondo inondatori, io canterei di Marfisa bizzarra. Ma appena m'udiranno, usciran fuori con gli occhi tesi e con la scimitarra, gridando che lo stil non è moderno, e daran di gran colpi al mio quaderno.
2
Io non vo' rattenermi tuttavia, e farò come il Cardellina e Svario, c'hanno l'interruttore dietrovia al loro arringo che grida il contrario, e seguono il parlar con energia, con le ragion fondate del sommario, buffoneggiando le voci accanite, e finalmente vincono la lite.
3
Sien le ragioni del sommario mio, se degli antichi autor seguo la traccia, che invan per tanti secoli l'obblio con essi ha fatto alle pugna, alle braccia. Spesso in soccorso il vostro lavorio egli ha chiamato a dar loro la caccia, o susurroni, o scrittorei di paglia, ed ha sempre perduta la battaglia.
4
Ché dopo un breve tuono e un parapiglia v'andaste in fummo o dileguaste in guazzi; e fu la vostra quella maraviglia delle cittá di neve de' ragazzi. Cosí va chi aver fama si consiglia dal rumorio di stolti popolazzi, ch'oggi al poeta fan plauso e decoro con la ragion che poi lo fanno al toro.
5
Segua che vuole a questo mio libretto, di Marfisa bizzarra io cantar voglio. Cantolla un altro e non ebbe concetto, perché non dice il ver d'essa il suo foglio, e 'l buon Turpino non aveva letto, disprezzando gli antichi con orgoglio; onde rimase con Paris e Vienna ad aspettar qualche moderna penna.
6
Voi, che non isdegnate i versi miei e de' nostri buon padri avete stima, né vi curate de' furor plebei, perché non giungon del Parnaso in cima; voi, brigatella, in soccorso vorrei sola all'oppressa mia povera rima; voi ricogliete il parto, e fate nulla l'arte che i figli nostri affoga in culla.
7
Io vi dirò siccome i paladini cambiassero l'antico lor costume, come mutaron gli elmi in zazzerini, la guerra in sonno e in sprimacciate piume, e come l'ozio e i nuovi libriccini tolsero loro la ragione e il lume, come la vecchia bizzarria Marfisa cambiasse in nuova e i suoi casi da risa.
8
Di Filinor, cavalier di Guascogna, conterò fatti che non sian discari, se care son le gesta che vergogna fanno a' ben nati cavalier suoi pari, Pur, se il mal non è ben, non vi bisogna udir per farvi a Filinor scolari, ma sol per dar riforma alla natura, o voi che somigliate a sua figura.
9
Vinto avea Carlo Agramante e Gradasso e Rodomonte e gli altri suoi nimici, e si viveva in pace fatto grasso: tutti i re gli eran tributari e amici. Vecchio e della memoria quasi casso, solo avea briga a dispensar gli uffici e qualche volta a por nuove gabelle, del resto a tener morbida la pelle.
10
Mancato il capo, male sta la coda. I paladin, veggendolo poltrone, si dierono a' piattelli ed alla broda, la state al fresco e il verno ad un focone, ed a lagnarsi ch'era troppo soda d'asse la sedia, e danno al codione; donde inventaron sedie badiali, sofá di lana e piume e co' guanciali.
11
A poco a poco l'agio e la quiete gl'intabaccava sempre maggiormente; le loro illustri imprese che sapete eran lor quasi uscite dalla mente; anzi ridevan spesso (or che direte?) quando sentian raccontarle alla gente. Alcun si vergognava aver ciò fatto, e giudicava d'esser stato matto.
12
Se qualchedun si sentía male a' denti o tosse o doglia o qualche altra magagna, tosto diceva:—Ecco il frutto de' venti e delle piogge della tal campagna.— Pur nondimen mangiava ognun per venti, beveva vin da Scopolo e di Spagna, dormiva sodo e tenea concubine, a' passati disordin medicine.
13
Della religione il zelo santo, per cui la vita a rischio posta aviéno, era scemato e raffreddato tanto che parea non ne avessino piú in seno. Ne' dí di festa alla messa soltanto ivan con rabbia o sonnolenti almeno, e sol per uso o per veder la dama ed attillati per acquistar fama.
14
I romanzieri dall'eroiche imprese, dalle battaglie e da' sublimi amori piú non si nominavan nel paese, perché i moderni eran usciti fuori co' fatti de' baron, delle marchese, che mille volte si tenean migliori per certe grazie, e cosí piú alla mano, e assai piú confacenti al corpo umano.
15
Leggeano in quei siccome entro alle mura delle vergini sacre ivan gli amanti, come fuggían da quelle alla ventura le donzelle ivi poste, andando erranti. E vestite come uomo, alla sicura dormian co' maschi del fatto ignoranti, e il loro imbroglio al terminar de' mesi. ed altri casi all'uso de' francesi.
16
Nelle commedie il costume novello correva ancora, e cavalieri e dame si vedean entro con poco cervello, per l'onor, per l'amore o per la fame. E turchi in scena con un gran drappello di mogli pronte sempre alle lor brame; e dileggian gli eunuchi le schiavacce con mille detti lordi e parolacce.
17
Donde gli amor, gli equivoci ed i gesti, uniti alla natura e al mal talento, faceano i paladini al vizio presti, o lo teneano in freno a tedio e a stento. Altri scrittor piú dotti e disonesti per i lor fini, a tal cominciamento, stampavan libri sottili e infernali, dipingendo i mal beni ed i ben mali.
18
I paladin leggeano i frontispizi e qua e lá di volo sei parole; poi commettevan mille malefizi, intuonando:—Il tal libro cosí vuole.— Se v'era alcuno ch'abborrisse i vizi, e dicesse:—Non déssi e non si puole,— gridavan:—Chi se' tu c'hai tanto ardire i paladin di Francia di smentire?—
19
E minacciavan di bando e galera; ond'era forza rispettarli alfine. Dunque la pace, l'ozio e la carriera de' libri nuovi, fuor d'ogni confine non sol de' paladini avean la schiera corrotta, ma le genti parigine: dal re Carlo sin quasi al mulattiere, lascivo era e goloso e poltroniere.
20
Lecita in chi poteva usar la forza era la truffa, era la ruberia. Ogni peccato avea buona la scorza, e con nuove ragion si ricopria. Fanciulli ed ebbri, andando a poggia e ad orza, udiensi disputare per la via ch'era il ner bianco e che il quadro era tondo e che goder si debba a questo mondo.
21
Gli abati in cotta e i santi monachetti, che contra al mal dal pulpito gridavano, sudando, trangosciando, e che a' scorretti mille maledizion dal ciel mandavano, erano uditi come gli organetti; e quando le persone fuori andavano, un dicea:—Disse male,—un:—Disse bene, ma predica all'antica e non conviene.—
22
E chi diceva:—E' canta l'astinenza, ma so che i buon boccon non gli disprezza— Poscia ridean con poca riverenza, e ognun restava nella sua mattezza. Alle orazioni ed alla penitenza diceano pregiudizi e leggerezza, o ipocrisie per guadagnare i schiocchi, o cose da mal sani e da pitocchi.
23
Rinaldo (perché aveva poca entrata, piacendogli le donne e la bassetta e il vin, che ne beeva una fregata, sicch'ogni dí sembrava una civetta) a Montalban fatto avea ritirata, facendo vender senza la bolletta acquavite, tabacco ed olio e sale e vin contro la legge imperiale.
24
S'erano i gabellier molto provati a condur pe' trasporti la sbirraglia; Rinaldo avea sbanditi e disperati che facevan co' sassi la battaglia: onde se n'eran sempre ritornati senza poter oprar cosa che vaglia. Carlo chiudeva un occhio e gli era amico pe' buon servigi suoi del tempo antico.
25
Cosí Rinaldo un util grande avea e s'aiutava i vizi a mantenere; ma il troppo vino, ch'ogni dí bevea, l'inebbriava, ed era un dispiacere; perché Clarice sua talor volea fargli l'ammonizion ch'era dovere, ed egli bestemmiava come un cane e le dicea parole assai villane.
26
E minacciava un divorzio di fare, poi la mandava alla rocca ed all'ago. La poveretta lo lasciava stare, e in un canton facea di pianto un lago. Ed egli si metteva a berteggiare. —Cosí, ben mio—dicea,—quel pianto pago;— e colle fanti in sul viso di lei faceva cose ch'io non le direi.
27
Il duca Namo nella sua vecchiaia avaro ed usuraio s'era fatto. Ogni dí fitta teneva l'occhiaia in su' processi per fare un bel tratto; perché investia di scudi le migliaia, e alfin temeva qualche scaccomatto o dalle doti o da' fideicommissi; onde avea gli occhi in sulle carte fissi.
28
Poi tanti dubbi e cavilli trovava co' poveretti che bisogno aviéno, che sin per venti il cento comperava. E usava un altro piacevol veleno, che per il censo mai non molestava, tanto che il foglio d'annate era pieno, e poi tra il capitale e l'usufrutto, «salvum me facche», e' si toglieva tutto.
29
Prestava a' giuocator spesso danari a un per dieci il giorno di vantaggio; e i figli di famiglia aveva cari, che avesser vizi assai ma non coraggio, perché voleva il pegno e scritti chiari; poi gl'inseguiva col viso selvaggio, e alfin sí vago il conto avea tenuto, ch'avean pagato e il pegno anche perduto.
30
Astolfo, dopo il costume novello, era a Parigi inventor delle mode. Or le calze riforma, ora il cappello, ora le brache, e guadagna gran lode; e tagli or lunghi or corti al giubberello, i capelli or in borsa or con le code, le fibbie or di metallo ed or di brilli, ovate, tonde e quadre, e mille grilli.
31
E perché gli piacevano le dame, ei fu inventor de' cavalier serventi. A vincer cori aveva mille trame, perch'era un damerin de' diligenti. Né si curava di freddo o di fame, per le servite, o di piogge o di venti, ed ogni stravaganza sofferiva, anzi lodava, anzi pur benediva.
32
Spesso con esse alla lor tavoletta si ritrovava e mai non stava fermo. Or tien lo specchio, or fiorellin rassetta, e le guatava che pareva infermo. E poi diceva piano:—Oh benedetta! oh occhi! oh bocca! omè, non ho piú schermo, so dir ch'io ardo sin nella midolla.— Poi sospirava e fiutava un'ampolla.
33
Ed aveva anche pronte, non so come, le lagrimette quando credea bene. Certo in far all'amor valea due Rome e por sapeva a tutte le catene. Addosso si può dir ch'avea le some di zaccarelle, o almen le tasche piene di spille e nèi e pomate e confetti, essenze e diavolon ne' bossoletti.
34
E sapea dibucciare e mele e pere e melarancie dolci, e in spicchi farle, poi rivestirle che pareano intere, e gentile alle dame presentarle. In mille forme lor dava piacere, ché l'arte ha sin ne' cori a tasteggiarle, e conforme a' cervei sa porre il zolfo, tal che tutte voleano il duca Astolfo.
35
Avino, Avolio, Ottone e Berlinghieri seguiano le sue fogge e i suoi vestigi, e politi serventi cavalieri passavan fra le dame di Parigi. Ma Namo, il padre, mettea lor pensieri di ragion mille, oscuri e neri e bigi, perch'era avaro e dava poco il mese, e le mode valevan di gran spese.
36
Anzi patian da quello gran rabbuffi: spesso d'emanciparli gli minaccia. —Che cosa son que' cappellin? que' ciuffi? que' pennacchin?—gridava rosso in faccia. —A che vi servon le frangie, i camuffi? Di farmi impoverir qui si procaccia; cervelli bugi, frasche, fumo e vento, vi diserederò nel testamento.—
37
Essi, che questa cosa pur temeano, ma il bel costume non volean lasciarlo, merci a credenza e danari toglieano, dicendo:—Pagheremo al sotterrarlo.— E da' mercanti un avvantaggio aveano ne' libri, e si credea di poter farlo: che ciò che valea trenta mettean cento; e nondimeno ognuno era contento.
38
Re Salomon, quantunque d'anni grave, voleva anch'esso corteggiar le donne. Nel luogo delle gote avea due cave ed era di struttura un ipsilonne. Pur s'ingegnava a ragionar soave ed alle dame diceva:—Colonne, e un giorno feci e dissi, e son terribile;— e si facea da qualcosa al possibile.
39
E perch'egli era sordacchione affatto, le dame, stanche di sue scempierie, gli diceano:—Siam secche, vecchio matto, vecchio bavoso—ed altre leggiadrie; e poi ridean tutte quante del tratto. Ei credea delle sue galanterie ridesser, donde anch'egli ismascellava, sicché ognuno le risa raddoppiava.
40
Il marchese Olivier faceva il saggio, ed i serventi correggeva spesso. —Io non intendo—dicea—qual vantaggio, qual piacer sia stare alle donne appresso. M'infastidisce oltremodo il linguaggio, la stravaganza e il pensar di quel sesso; io l'ho ben mille volte maledette, perocch'elle son macchine imperfette.
41
Anzi non so com'uom, ch'abbia la testa, con quelle gazze un'ora possa stare. Vi giuro, piú la donna m'è molesta quando la dotta e la saggia vuol fare. S'ella avrá ben danzato ad una festa, e l'andrienne si sentí lodare, questo le basta a uscir fuor di se stessa e a giudicarsi qualche monarchessa.
42
Come mai non v'ammazzan le pretese c'han sopra voi per quanto lungo è l'anno? a quelle ciarle, a quelle lor contese come non affogate dall'affanno?— Cosí gridava Olivieri marchese; ma vendea nondimen rascia per panno, e si sapea che in certe catapecchie era lo spasimato di parecchie.
43
A' costumi cambiati, alla lettura riformata ed all'ozio ed alla pace, cambiata non avea la sua natura Gan da Pontier, traditor pertinace. Vero è che i tradimenti suoi misura e rimoderna anch'esso, e si compiace di non trattar co' regi danno al regno, ma in fraudi piú all'usanza pon l'ingegno.
44
E verbigrazia, essendo assai persona di Carlo vecchio, il conducea pel naso: molte ingiustizie a sua santa corona faceva fare in uno o in altro caso. L'incarco tôrre a qualche anima buona e darlo a un birro l'avea persuaso, ché de' gran merti non ne dava un fico: chi piú lo regalava era suo amico.
45
Per venti scudi avrebbe querelato di lesa maestade un suo fratello, e s'infingeva ancor farsi avvocato per le ragioni or di questo or di quello. Chi s'affidava era poi consolato, e si può dir gli menasse al macello, perch'egli proteggeva tutti quanti, ma la ragione avea quel da' contanti.
46
E nondimeno ogni giorno alla messa, anzi alle messe andava: si può dire che n'ascoltava con faccia dimessa tre o quattro, che pareva il Dies irae. Ed ogni settimana si confessa, e a dir «mea culpa» si facea sentire; massime quando avea l'assoluzione, mette sospir ch'assordan le persone.
47
Quando giurare a qualchedun volea, acciò credesse le bugie la gente: —Per quella santa confession—dicea— che feci stamattina indegnamente.— E s'un giurava per Dio, si torcea facendosi la croce prestamente; e poi, volgendo l'occhio, dicea piano: —Non nominate il Signor nostro invano.—
48
Ma scandol sempre giva mulinando: mai non tenea la sua mente in quiete. Talor soletto andava passeggiando lá dove son le dinunzie secrete, e in quelle bullettin venía gettando contro al tal uom, al tal frate, al tal prete, e cagionava ben mille sciagure; poscia ingrassava udendo le catture.
49
Un altro spasso avea il fraudolente: che tenea spia di tutti gli amoretti; poi di soppiatto avvertiva il servente e inventava raggiri, atti e viglietti, tal che faceva piú d'un uom dolente, e nascer mille ciarle e tristi effetti, e dissension nelle case e vergogna, e andar gli sposi in mitera ed in gogna.
50
Gan cosí rimoderna i tradimenti con l'aiuto de' conti di Maganza, Griffon, Viviano, Anselmo e piú di venti di que' paesi o razza o mescolanza, i quali in viso parean buone genti, divoti in chiesa e pieni di creanza, ma poi la notte taluni rubavano e alla bassetta e al faraon baravano.
51
Si spacciavano ognor quelle genie con grave ostentazion da genti oneste, ricomponendo le fisonomie, portando fibbie antiche e antica veste. Oltre a ciò, le fetenti ipocrisie, le iniquitá, che furon sempre péste, derise ed abborrite dall'uom saggio, avevano in quel secolo un vantaggio.
52
De' maganzesi ipocriti cristiani, e de' giusti cristian buone persone avevan fatto i scrittor furbi e cani un certo guazzabuglio, un fascellone da non separar piú da ingegni umani; in modo tal che il titol di «briccone» era cassato dal vocabolario: l'usava alcun talor, ma pel contrario.
53
Ugger danese, che della pagana legge alla nostra era venuto un giorno, fatto vecchio servente a Galerana, con essa tutto il dí facea soggiorno, perch'ell'era decrepita e mal sana. Ugger fedele l'era sempre intorno, allo sputo porgendole la tazza, né piú si ricordava la corazza.
54
Poiché tra lor ragionato s'avea di quel che giova al viver nostro e nuoce, Galerana il rosario fuor mettea ed ambidue si facevan la croce: l'uno intuonava e l'altro rispondea, insin che lor poteva uscir la voce. Poi Galerana a letto si mettia; Uggeri salmeggiando andava via.
55
Marco e Matteo dal pian di San Michele, che della guerra un tempo eran vissuti, avevan fatto parecchie querele di quella pace, ch'eran divenuti poveri e al verde come le candele. Ma finalmente anch'essi stavan muti, e s'eran dati alla poetic'arte per guadagnarsi il vitto in qualche parte.
56
Poiché a Parigi allora era l'andazzo di commedie, di critiche e romanzi, e il popol n'era ghiotto anzi pur pazzo, perché fosser riforme a quelli dianzi. Marco in su' fogli venia pavonazzo, Matteo del scrittoio fuor non creder stanzi; sicché ogni mese uscían da' torchi al varco due tomi: un di Matteo, l'altro di Marco.
57
Ma potean ben su' fogli intisichire, a' librai furbi alfin l'utile andava. Pe' manoscritti avevan poche lire, ed il libraio il resto s'ingoiava. Avean provato a lor spesa far ire talor la stampa, e il capital muffava, perocché il libro senza de' librai, non so per qual malia, non vendean mai.
58
Donde lor convenia pregar que' tristi e dir:—Quel libro fatemi dar via.— Color, ch'eran peggior degli ateisti, diceano:—In ciò vi farem cortesia.— E avuti i libri:—Non c'è chi gli acquisti —dicean:—quella è cattiva mercanzia;— tal che Marco e Matteo con grande affanno vedean pochi ducati in capo all'anno.
59
Tanto che alfin lasciavano a' librai a tre soldi la libra i tomi a peso. Allora il libro divenia d'assai, e molto ricercato s'era reso. Cosí viveano smunti in mille guai, e un altro foco contr'essi era acceso, il qual scemava loro i partigiani, che gli tenean per scrittor sovrumani.
60
Erano inver poetastri cattivi; pur dicean che scrivevan all'usanza. L'usanza era esser scorretti e lascivi, d'uno stil goffo e gonfio d'arroganza, gergoni e ragguazzar morti co' vivi, e il far di tomi nel mondo abbondanza, e il predicar che gli antichi scrittori non si dovean piú aver per buoni autori.
61
Ma Dodon dalla mazza, paladino, che a difender gli antichi era un Anteo, sendo lor padri a lui sin da piccino, non pativa l'apporsi a quelli un neo; sicché stampava qualche libriccino che facea disperar Marco e Matteo, perch'ei rideva in esso a suo diletto, dileggiando il compor grosso e scorretto.
62
Infin chi nel Boiardo e l'Ariosto letto ha de' paladini e del re Carlo e il costume d'allora, dirá tosto che di lor per ischerzo oggi vi parlo. Tuttavia starò saldo al mio proposto, e so ch'io dico il ver, so autenticarlo: l'ozio, la pace e le scritture nuove gli avean cambiati, ed ho ben mille prove.
63
E vi dirò che Guottibuossi e seco Gualtier da Mulion, famosi erranti, perché sapeano un po' latino e greco, andaron preti e a servir di pedanti. E quell'altra notizia anche vi reco, che preti, e co' caratter sacrosanti, servian d'altri servigi lordi e goffi prete Gualtieri e prete Guottibuossi.
64
Orlando inver manteneva il suo grado ed i nuovi costumi biasimava, e per la corte e a tutto il parentado di belle predichette sciorinava; ma l'apprezzavan quanto un fraccurato. Ognun dicea:—Ben dite,—e lo ascoltava; e poi ridea quand'egli era partito, gridando:—Grazie al ciel se n'è pur gito!—
65
Ei tuttavia si ficca per le case, co' padri la volea delle famiglie. —Questi romanzi nuovi son la base —dicea—del far l'amor di vostre figlie. Gli antichi forse le avean persuase d'un eroismo e a troppe maraviglie, ma i nuovi l'han ridotte tanto vili che un dí le troverete ne' porcili.
66
Cembali, danze, musiche, canzoni, riverenze, scamoffie, bei passini sono inver giudiziose educazioni per far le figlie candidi ermellini, ed acquistare e cagionar passioni da mandare i cervei fuor de' confini, destando dicerie ne' popolazzi. Voi siete padri saggi? Siete pazzi.
67
Che cosa son questi discorsi eterni, divenuti importanti ed essenziali, di cuffie, stoffe e di color moderni, d'armonie, di buon gusti tra i mortali? Le infinite botteghe, con quei perni carchi di veli e nastri e merci tali rese di conseguenza, che mai sono? Rispondete!—dicea—con chi ragiono?
68
Lunge le figlie da commedie nuove, perché le dame vi si vedon dentro o rinvilite o, se virtú le muove, la foia le fa andare in sfinimento. Ed alla fine il vizio a tutte prove campeggia, ed è premiato ed ha il suo intento; onde le figlie a casa rimenate piene di tristi esempi e riscaldate.
69
Io non iscopro in questi nuovi fogli e in queste farse dette oggi «esemplari» che debolezze e mal condotti imbrogli, caratteracci arditi, e truffe e baci, e tradimenti ai mariti e alle mogli; poi sermon lunghi per porre i ripari. Ma il vizio alletta e la predica stanca, onde il mal cresce e il buon costume manca.
70
Questa pace, quest'ozio, questa vita del costume novel, Dio non lo voglia, oltre che l'alma andar fará smarrita, vi trarrá de' gran mali entro la soglia.— E novera i perigli sulle dita Orlando, e povertá, vergogna e doglia e mille tristi effetti e conseguenze; ma tenta invan purgare le coscienze.
71
Né poté vincer altro il sir d'Anglante che da Aldabella essere ubbidito: non volle mai che servente od amante se le accostasse a farle l'erudito. Ella ch'era una dama delle sante, di quelle ch'appelliam «tutte marito», a' suoi voleri abbassava la fronte, e cita in tutti i suoi discorsi il conte.
72
Ma l'amor coniugale e l'obbedire della contessa verso il suo consorte erano cose che facean languire l'immensa schiera delle dotte e accorte. Bisbigliar basso si sentien, e dire: —Ecco la scempia,—se veniva a corte. Era la dama grave e timorata una «bella senz'anima» chiamata.
73
Questo detto comun, che andava in giro: —Bella è tale, ma l'anima le manca,— avea posto un furore, un capogiro nel sesso femminil, che a dritta e a manca s'udiva:—Ferma, o pel mantel ti tiro; vedi s'io son senz'anima e son franca.— La cieca ambizione aveva fatte donne infinite ed animate e matte.
74
Tutto era smania e senso animalesco in tutte le stagion senza riparo; erano sempre in moto al caldo e al fresco i corpi e il vuoto di Lucrezio Caro. Non v'era distinzion dal fico al pesco; l'esser ognor giuvenca, ognor somaro; e l'imitare i piú bestiali ed empi era detto «aver l'anima» in que' tempi.
75
Si vedean per le vie donne appassite, livide sotto agli occhi e diroccate, con certi maschi a' fianchi, olmo alla vite, che avean le guancie vizze ma lisciate. E vecchi in gala e vecchie inviperite, con nastri e piume e fiori e imbellettate, l'essenze, i diavolon, l'odor di fogna confondevano, e d'arca e di carogna.
76
E perché ad Aldabella virtuosa non si poteva apporre alcun peccato, ed era rispettata e gloriosa, per la via d'un contegno misurato, la schiera delle matte invidiosa aveva il gran delitto in lei trovato, cioè che dicea mal delle sfrenate: —Ergo non è—dicea—tra le beate.—
77
Il modo del pensar ridotto a tale era, e guasta e corrotta sí la gente che non si potea dir piú mal del male, senz'esser giudicato maldicente e seccator misantropo bestiale da punir colla sferza onnipossente, o per lo men da chiudere in prigione a far co' topi e i cimici il Catone.
78
De' guidaleschi fracidi d'allora io non vi do di cento una misura; pur d'ogni bocca stretta uscivan fuora queste parole:—Buon gusto e coltura, delicatezza e buon senso c'infiora, e veri lumi ed eleganza pura.— S'un dicea «sterco» per inavvertenza, gridavano:—Che porco! che indecenza!—
79
Io v'ho data un'idea cosí all'ingrosso di Carlo, di Parigi e della corte. Dopo queste premesse a la fin posso condurvi di Marfisa in sulle porte. Se alcun pedante mi venisse addosso a dirmi:—Tu potevi ir per le corte,— dico di no, perché le cose in pria convien apparecchiar. Pedante, via!
80
Anzi a te dico, pedante insolente: della nostra Marfisa il naturale io vo' tacer sino al canto seguente, benché paia la cosa vada male, ché non ho detto de' fatti niente nel primo canto, ch'è sol liberale d'umori e di caratteri cambiati, e mi saranno i difetti addossati.
81
Ma ragion fate, il primo canto sia una commedia di caratter nuova, che andate poi lodando per la via, bench'altro in essa alfin non ci si trova che di caratteracci una genia, e vi tien per tre ore e nulla prova; poscia a richiesta universal si chiama. Diman gran cose dirò della dama.
La riformata bizzarria dirassi, il costume e lo stato di Marfisa. La circostanza e dissensione udrassi della famiglia di Rugger di Risa; di Filinor guascone i strani passi, gli scrocchi e il vizio, il qual l'acconcia in guisa che parte di Guascogna derelitto verso Parigi a procurarsi il vitto.
1
Io mi son dilettato alquanto in vero il critico arruffato immaginando, ch'avendo udito l'altro canto intero, vada con questo e quello investigando co' disprezzi al tal verso, al tal pensiero, fanciulli e donne e librai guadagnando; e sopra tutto parmi di sentire le parole seguenti udirlo dire:
2
—Chi è questo poeta sconosciuto ch'esce alla stampa, e il vezzeggiar sublime di noi famosi, a gran prezzo venduto, morde sí franco e deride ed opprime? che stile è il suo da popolo minuto? Hassi a far conto alcun delle sue rime, poste in confronto a' nostri gravi temi, alle canzon pindariche, a' poemi?
3
Che gran faccenda a noi grandi saria lo scriver, com'ei fa, da scorreggiate, se la nostra spettabil fantasia volessimo abbassare a sue favate?— Dal detto al fatto è troppo mala via, pedante; non convien far le bravate. Prendi la penna e scrivi al paragone, e lascia poi decider le persone.
4
So quanto costa a me lo scriver puro, non so, pedante, delle tue fatiche; ma convien certo, e non ti paia duro, due parolette in astratto io ti diche. —Marmo, calcina e tempo vale un muro, sapone ed acqua voglion le vesciche. Sin ch'io canto Marfisa, t'assottiglia: scrivi qualch'opra che mi sia di briglia.—
5
Marfisa era un cervello suscettibile; però, i romanzi antichi avendo letti, come sapete, era prima terribile, e dormia co' stivali e i braccialetti; e quanto piú la cosa era impossibile nelle battaglie e piú forti gli obietti, come il Boiardo e l'Ariosto narra, era piú furiosa e piú bizzarra.
6
Ma poiché furon cambiate le cose e i nuovi romanzi usciti fuori, attentamente a leggerli si pose ed impresse il cervel d'altri colori; e cercò solo avventure amorose, sendo bizzarra ancor, ma negli amori, e d'altre sorti bizzarrie facea, come scrive Turpin che lo sapea.
7
Come ognun sa, Ruggero suo fratello sposata avea la bella Bradamante, la qual rimodernato avea il cervello e non è piú guerriera né giostrante; ma pensa alla famiglia e fa duello col fattor, col castaldo e colla fante, e riflettendo all'avvenire e a' figli, tutta all'economia par che s'appigli.
8
Chi l'avesse veduta alla cucina a gridar che s'abbrucian troppe legna, e l'avesse veduta alla cantina come alla botte scemata si sdegna, e a levarsi per tempo la mattina, l'avria creduta un'economa degna, ché venti chiavi in saccoccia portava e la minestra e l'olio misurava.
9
Non dimandar se i drappi alla rugiada di san Giovanni fa porre la notte, perché qualche tignuola non gli rada, e se fa dar lor spesso delle bòtte, e se fa chiuder l'uscio della strada per i ladroni, e se le calze rotte sa rattoppare e racconciar le maglie, e voler da' villan polli e rigaglie.
10
Scrive Turpin di quella tuttavia ch'ell'era attenta massaia e perfetta, ma che in secreto questa economia era di maliziosa formichetta, e che a se stessa facea cortesia, nascosta avendo piú d'una cassetta di be' zecchini, e di quelli il marito né avea ragione né sapeva il sito.
11
Rugger la vedea sempre in gran pensiero per il risparmio, onde non bada a questo; sol perch'egli era alfin pur cavaliero, parecchie volte si mostra rubesto, dicendo:—Moglie, a ragionar sincero, alcun de' vostri fatti m'è molesto, e farete le mani aspre e callose, ché v'avvilite troppo in certe cose.—
12
Quest'era per Rugger poca sciagura a petto quella che gli dá Marfisa, la qual va rovesciando ogni misura pe' suoi capricci, e spende in una guisa da far venire a Creso la paura; e compra e vende, e il fratel non avvisa, e cambia fogge e vestiti ogni giorno; sembra il mercato ov'ella fa soggiorno.
13
Oggi faceva legar diamanti, diman non gli voleva piú a quel modo; lega, rilega, spendea piú contanti in legature che nel valor sodo; ch'or gli voleva balle, ora brillanti, ora in nastro, ora in fiore ed ora in nodo. Gli artier mascagni laudano ogn'idea, giurando che piú d'essi ne sapea.
14
Sarti, mercai, calzolai per le scale andavan suso e giuso a tutte l'ore, e conveniva loro metter l'ale per non provar di Marfisa il furore. Chi merletti, chi drappo o cosa tale, chi vesti seco porta e dentro e fuore, e chi polizze vecchie non pagate; poi va via con le gote rigonfiate.
15
I parrucchier ch'acconciavan la testa non è da dir se facea disperare: oggi i capelli corti volea questa, doman gli volea lunghi accomodare. All'impossibil menava tempesta, minaccia il parrucchier di bastonare; se qualche scusa il misero allegava, con la granata via lo discacciava.
16
Bestemmiando com'una luterana: —Non vo' nessuno mi perda il rispetto,— grida per casa, e sfoga la mattana dando alle serve uno schiaffo, un puzzetto. Mai non si vide una dama sí strana. Se avea la febbre, non istava a letto; se stava ben, diceva esser inferma e volea star sotto le coltre ferma.
17
Ai medici, che andavano a trovarla e le dicevan:—Non avete nulla,— gridava:—Andate via, dottor da ciarla; voi capireste al polso una maciulla, e forse anche sapreste medicarla.— Infin dall'aspra bizzarra fanciulla, se il mal che non avea non confessavano, un orinal nel ceffo guadagnavano.
18
Ma sopra tutto ell'era stravagante giuocando alla bassetta al tavoliere, dove, per vie di dir, metteva su un fante quanti danar si ritrovava avere; poscia mandava il parolo e piú inante; perduti quelli, si facea tenere in sulla fede, e perdea quanto mai; s'io tel dico, lettor, nol crederai.
19
Poi disperatamente andava a casa, e non avendo danar nello scrigno, va rovistando masserizie e vasa, argenti e gioie, con il viso arcigno. Di cuffie e merli fa la cassa rasa per far dei pegni, ovver con qualche ordigno va guastando le toppe del fratello, e soldi invola e gemme e drappi a quello.
20
Infine non istá mai cheta un'ora, fuor che quando i romanzi suoi novelli legge con attenzione ed assapora, ch'era associata alla stampa di quelli; tal che sempre il cervello piú svapora. Que' fatti che leggea le parean belli, ed era partigiana imbestialita della nuova dottrina fuor uscita.
21
Or vorrebb'esser stata ballerina, or cantatrice divenir vorria, or commediante ed ora contadina, or zingara e pel mondo fuggir via, per donar argomento alla dottrina che fiorire in quel tempo si vedia, e lasciar la memoria assai famosa di sé per qualche libro alla franciosa.
22
E con gli amanti, che n'aveva cento, sopra a' romanzi va sottilizzando e discorrendo e lodando il talento di Marco e di Matteo di quando in quando. Gli amanti d'essa avevano spavento e cercan contentarla ragionando, e sol fra loro facevan schermaglia, perch'eran molti bracchi ad una quaglia.
23
E il numer sempre si facea maggiore, perché Marfisa tra gli altri pensieri a tutte l'altre dame volentieri; e quanto all'arte di far all'amore, non sia chi meglio saper farlo speri, perocché, quanto a questo, ella è decisa: non verrá al mondo una pari a Marfisa.
24
E benché dal Boiardo fu descritta moretta alquanto e bella oltremisura, io l'ho veduta su un quadro pitta e la trovai differente in figura. Occhio avea grande, d'imbusto diritta era, e non alta molto di statura, e pochissima carne avea sull'ossa, la chioma bionda, anzi potrei dir rossa.
25
Molte altre cose ancor le ho ricavate in certi versi del poeta Marco, il qual facea composizion sfoggiate per que' che Amore avea presi con l'arco, e guadagnava almen per le insalate da qualche amante nello spender parco. Basta, tra il quadro e quella descrizione, posso dar di Marfisa opinione.
26
Niente è vero ch'ella fosse bruna, anzi era bianca e un po' lentiginosa; nel seno non avea molta fortuna, ma fu in accomodarlo artifiziosa; la bocca a fare un ghignetto opportuna, la guardatura or dolce or dispettosa; le braccia, indi le mani alquanto asciutte, ma co' brillanti non parevan brutte.
27
Infin, per quanto potei rilevare, non si può dir Marfisa fosse bella. Giudico ben ch'ella sapesse fare, o fosse nata sotto alcuna stella da far i maschi tutti sospirare. Forse la bizzarria della donzella, le stravaganze e fierezze eran strali, ch'io n'ho veduti mille esempi tali.
28
Chi dirá di Rugger la penitenza, avendo una sorella come questa, che si potea chiamar la violenza, prodiga in una forma disonesta; ed una moglie, ch'era l'astinenza, che in tutto pel rovescio avea la testa, sendo la casa sua sempre in litigi e il tema delle lingue di Parigi?
29
Non c'era giorno che fra le cognate passasse senza rimproveri e grida: Rugger le ha mille volte separate, perché l'una con l'altra non s'uccida. Talor non mangia a mezzo, e le ha lasciate a mensa in man del ciel che le divida, e poi la notte dalla moglie avea tormenti che portar non gli potea.
30
La suora avea tentato maritarla pria con Leon, figliuol di Costantino imperator, ed egli di sposarla avea promesso, e il nodo era vicino, e come sposo andava a visitarla; ma scoprendo ogni giorno il cervellino e i bizzarri costumi della moda, pensò lasciarla alfin maggese e soda.
31
E perché il patto era ito innanzi molto e discior nol potea senza disnore, risolto avendo di non esser còlto marito d'una ch'avea troppo core, si finse un tratto divenuto stolto e di cader di furore in furore. Cinqu'anni ebbe la flemma a fare il matto, tanto che alfin fu lacero il contratto.
32
Di ciò Marfisa non ne dá un pistacchio; bastale aver di serventi un codazzo, e alla bassetta scaricare il bacchio, e non le manchi di romanzi un mazzo, e il cambiar fogge e il cappello e il pennacchio, e il poter a suo modo far rombazzo. Rugger s'affanna a troncar la sciagura, e trova un altro sposo e fa scrittura.
33
Ed era questa scritta col figliuolo di Desiderio, re de' longobardi. Gan da Pontier manda un suo messo a volo secretamente a dirgli che si guardi, ch'avea Marfisa d'amanti uno stuolo, e che si pentirebbe o tosto o tardi. Quel principe non bada a questa cosa, né vuol rompere il patto della sposa.
34
Gan che veder voleva un'altra scena, perché nimico è di Rugger mortale, fa dire alla fanciulla ad una cena, alla qual era un dí di carnevale, che suo fratello alla mazza la mena per servir Bradamante, e che quel tale non era a sua persona convenevole, sendo in man d'un norcino e cagionevole.
35
Non è da dir se Marfisa s'accese a questa nuova, fosse falsa o vera. Va predicando per tutto il paese due gran tristi, Rugger e la mogliera; e scrive al cavalier com'ella intese alcun'accuse, e faccia una bandiera della scritta nuziale, o ad una rocca un cartoccino, o si netti la bocca.
36
Rugger fu quasi per scoppiar di rabbia. Don Guottibuossi, prete suo di casa, fe' tutto acciò Marfisa si riabbia, ma quella serpe non fu persuasa. Or qui non so come a narrare io v'abbia della scrittura che a pezzi è rimasa. Turpin ha scritto: «Ella fu lacerata dal longobardo e addietro rimandata».
37
Altri han cercato oscurar la faccenda, e forse per onor del buon Ruggero scrivono in altro modo una leggenda, che a lacerarla egli fosse il primiero. Comunque fosse, e' basta che s'intenda ch'ebbe l'intento Ganellone intero, e che per questo caso Rugger ebbe un disonor che dir non si potrebbe.
38
Anche Marfisa non avea vantaggio ed era screditata nella fama. L'opre bizzarre e varie ed il coraggio e il vivere alla moda della dama venía chiamato in francese linguaggio ciò che «pazzia» nell'Italia si chiama, e dell'etá non era tanto fresca da seguir con fortuna la sua tresca.
39
In queste circostanze dolorose è la magion del gran Rugger di Risa. Ma mi convien ordinar l'altre cose e lasciar cheta un pocolin Marfisa. Or udirete le imprese famose di Filinoro, e fatti d'altra guisa, e come venne a Carlo di Guascogna, perocché ordir la tela pur bisogna.
40
Filinor di Guascogna un giovanetto era nobil di stirpe e bello assai. Passava presso a molti uom d'intelletto, nelle conversazion non tacea mai; parea ch'ogni materia avesse letto. Io so, lettor, che te ne stupirai s'era stimato dotto, e non so come, si può dir che scrivea male il suo nome.
41
Aveva una sí gran ritenitiva che, quando un sapiente ragionava, nella memoria tutto ciò che udiva, come uccellino al vischio, gli restava; donde se il caso in acconcio veniva, tutto quel che avea in capo vomitava, co' termini e le frasi che sapea, sicché un novello Salomon parea.
42
Entrava franco a ragionar di storia, e giudicava della poesia; filosofo era, e voleva vittoria in medicina ed in astronomia; geografo, topografo, e a memoria avea la Bibbia e la teologia; nel militare e nella matematica ragiona per teorica e per pratica.
43
Ma perché non avea fondo in dottrina, né aver poteva buon discernimento, s'era alla dritta, andava alla mancina, e ragguazzava e usciva d'argomento. Perché non gli mancasse la farina, faceva cialde e ignocchi a suo talento: vero è che dove fosse qualche dotto, affettava modestia e stava chiotto.
44
Ma in mezzo una brigata d'ignoranti, che ne trovava a sua soddisfazione, metteva nelle ceste tutti quanti, ma n'usciva con gran riputazione. Era solo in famiglia, e poco inanti il padre suo, chiamato Guglielmone, se n'era morto ed ito non so dove, e lasciatolo ricco a tutte prove.
45
Fra l'altre cose, per parer uom grande faceva pompa d'esser miscredente, scherzando sul digiun, sulle vivande ed altre cose impertinentemente. Ma poi tremava da tutte le bande a un po' di febbre, e allor divotamente chiamava sant'Antonio e san Bastiano e gli pregava umíle a farlo sano.
46
Era costui vizioso in generale, e sendo il lusso alla moda e lo spendere, poiché allo scrigno fece metter l'ale, incominciò le possessioni a vendere; e si ridusse in breve a caso tale che nessun era che il sapesse intendere: e alfin si diede a prendere a credenza, che in ciò buona compagna ha l'eloquenza.
47
A chi per caso gli dava un saluto, tosto chiedeva sei zecchini d'oro: per la restituzion, fosse vissuto quanto Nestorre, era vano il lavoro. Non c'era uom che l'avesse conosciuto, che non dovesse aver da Filinoro; e sempre par che furberie ritrovi per accoccarla e far debiti nuovi.
48
Quando avea fatti debiti in cittade, pe' quali ad ogni passo avea la stretta, diceva a tutti:—Io vo a vender le biade;— e se n'andava in una sua villetta a infinocchiare i villan per le strade con affittanze a buon mercato in fretta, e beccava le rate anticipate di ben venduti prima sei giornate.
49
Poscia con un borsotto di ducati alla cittá ritornava di nuovo, ed i piú sciocchi creditor pagati, dicea:—Cosí l'operar mio vi provo.— Ma non eran tre giorni ancor passati, che due pulcin schizzavan da quest'uovo; e quivi doppio il debito piantava, poi nella faccia piú non gli guardava.
50
Se avviluppar sapeva le ragioni, quando nel fòro alcun lo fa citare, ed interdire, e far le sospensioni al messo che gli andava a pignorare, e predicare i creditor bricconi, ladri, usurai, non è da dimandare. E dir che conosceva il suo dovere e l'onore, e giurar da cavaliere!
51
E benché mille truffe fatte avesse e disertati mille poveretti, nol concedeva, e parmi ch'ei dicesse che gli erano obbligati de' farsetti. E dicon gli scrittor che pretendesse un nobil nato non abbia difetti, e che a un uom d'arti inique e vizi pieno fosse la nobiltá contravveleno.
52
Donde intuonava quasi ogni momento la somma antichitá del suo casato. Credo e' dicesse discendea dal vento e d'aver sangue netto di bucato. Ma si ridusse alfin in sí gran stento, che piú in Guascogna non era guardato, e stava per morirsi dalla fame, e mal dormia, pisciando in un tegame.
53
Mi piacque un caso che di lui si legge. A un creditor, che gli era sempre a fianco, disse un dí:—Tu mi par di buona legge. Io mi vo' far di quel debito franco, s'io ne dovessi andare a pezzi e in schegge, perocché tu debb'esser molto stanco. Io deggio darti que' ducati mille, che sento al cor per altrettante spille.
54
Ho un capital che agli antenati miei costò tremila scudi e piú qualcosa. Io tel vo' dare, e immaginar ti déi che m'esce dalle viscere tal cosa. Sino a un grosso il dí piú chieder potrei d'investitura tanto preziosa. Danne mille in aggiunta al mio dovere, e l'istrumento cedo in tuo potere.—
55
Il creditor col dito il cielo tocca, e disse:—Io vo' veder l'investitura.— Filinor nelle mani gli raccocca in una pergamena una scrittura. Colui, leggendo pian, mena la bocca; vide ch'egli era d'una sepoltura un acquisto, che fecion gli antenati di Filinoro, in chiesa a certi frati.
56
Quel poveruom perdé la pazienza: come un castrato s'è messo a gridare. Filinor diede mano all'eloquenza, e seppe in modo tal ciaramellare, e lo rimise tanto in coscienza, e il fece cosí bene intabaccare, che gli trasse di scudi piú di cento, facendo la cession del monumento.
57
I danari in bagasce ed in bassetta, come s'usava allor, fecion le piume; e Filinor in men ch'io non l'ho detta rimase come prima in mendicume, e va facendo a' sozi di berretta ed a' parenti. Ma correa costume in quell'etá, che parenti ed amici non soccorrean di nulla gl'infelici.
58
Dappoich'egli ebbe con la sua bellezza a molte vecchie ricche e scostumate succiata con infamia la ricchezza, e piantate anche quelle disperate, non sapea dove appiccar piú cavezza. Molti dicevan ch'egli andasse frate: tutta Guascogna stava in attenzione che si fuggisse o n'andasse prigione.
59
Egli avea de' parenti di gran stima e in gran riputazion per la Guascogna. Questi:—Pagargli i debiti per prima —avevan tra lor detto—non bisogna; ma non convien la sbirraglia l'opprima, ché ne verrebbe a noi troppa vergogna.— E con uffizi e secreti e trattati teneano in soggezione i magistrati.
60
Tal che pioveva a Filinoro addosso de' creditor la rabbia e le parole. Il peso era venuto troppo grosso, Filinor sofferirlo piú non puole; donde una sera, dalla stizza mosso ed invasato:—Medicar si vuole —disse—co' miei specifici ed unguenti le direzion di questi buon parenti.—
61
E se n'andò secretamente al duca, narrò del parentado la malizia. —Fatemi por da' birri nella buca —disse,—perch'abbia effetto la giustizia: voi vederete, pria che il sol riluca, comparir genti e danari e dovizia, e fien pagati tutti i creditori, ed io da mille angosce uscirò fuori.—
62
Il duca fu per scoppiar dalle risa, udendo l'acutezza di colui; pur si trattenne, e vòlto in una guisa che parve uscito da que' luoghi bui: —Com'hai sí l'alma dal ben far divisa, prostituito nobile; e da cui avesti educazion sí infame e vile, cavalier da taverna e da porcile?—
63
Filinor non si scuote e non si move. —Il mio costume—rispose—l'appresi da' cavalier delle commedie nuove e da' conti di quelle e da' marchesi. Se furon disoneste le lor prove, pur applaudire a gran furore intesi le commedie, i caratteri e i poeti, c'han premiati i miei pari e fatti lieti.—
64
E tenta con gli scherzi il tristerello la serietá del duca di recidere, e va pur dietro a far del buffoncello perché palesi l'interno col ridere; e dice i fatti di questo e di quello, e che tal visse ben ch'era da uccidere; ma sopra tutto va rammemorando le commedie d'allor di quando in quando.
65
—Orsú—rispose il duca,—non è questa una commedia, e poeta io non sono. Andrai tra ferri non per la richiesta, ma perché castigarti oggi fie buono.— E poi, rivolto con molta tempesta ed una voce che parve d'un tuono, disse a' ministri:—Costui fate porre con le catene in fondo ad una torre.—
66
Filinor volentieri andò in quel fondo per liberarsi da' creditor suoi. Tosto la fama fece il ballo tondo: i creditor l'hanno staggito poi; ed i parenti pel rossor del mondo a male in corpo divenîro eroi, quetando i creditor con piegerie e con danari, e i piú con le bugie.
67
Ma sopra tutto il duca era l'acerbo, ché volea castigar quel malvivente, e rispondeva:—In carcere lo serbo: vo' dar esempio risolutamente.— Que' cavalier, che ognuno era superbo, scoppiavan per vergogna della gente, priegano e mandan preghi e dame e conti, e non c'è caso a far che il duca smonti.
68
Un dí fu detto loro in un'orecchia: —Volete voi che il duca si rimova? E' c'è una ballerina, volpe vecchia, che dispone del duca ad ogni prova. Ma per schizzare il mel da questa pecchia, oro bisogna in una borsa nuova.— Alfin s'ebbe la grazia con la borsa, quantunque alcun autor tal cosa inforsa.
69
Fatto sta che la borsa fu donata, ma non si dice il duca avesse parte. Il duca aveva i milion d'entrata, la ballerina sol languori ed arte. Sempre fu qualche lingua infradiciata che ne' racconti dal ver si diparte; ma permetteva il costume d'allora Filinor per la borsa uscisse fuora.
70
Vero è che il duca lo lasciò con patto, tempo sei giorni, di Guascogna uscisse. Filinor non è punto stupefatto, e sue bazzicature in punto misse, avendo da' parenti in su quel fatto poche monete con parecchie risse; e dispose d'andarsene a Parigi ad uccellar qualche incarco e luigi.
71
Era lungo il viaggio e i danar scarsi, e disegnava andarvi con gran treno. Un abito comincia apparecchiarsi, di frangie e gallon falsi tutto pieno. Aveva un cocchio di que' dal tempo arsi, ma per viaggio servia nondimeno. Il nodo stava in non aver cavalli; pur non si stanca e pensa comperalli.
72
In sul mercato da certi villani compri ha quattro cavai magri e vecchioni, e non gli furon mantenuti sani, perché avean tutte le maladizioni. Eran bolsi, rappresi e storpi e strani, andavan punzecchiati a saltelloni, guardavano le stelle con bel vezzo, con sospir si movean tutti d'un pezzo.
73
Parean venuti dal mar della rena, come vengon le mummie agli speziali; avevano in su' fianchi e in sulla schiena piaghe d'un palmo, e sulle gambe mali che non gli avrebbe guariti a gran pena Galieno od Ippocrate o que' tali, non che alcun maniscalco co' suoi bagni, setoni, empiastri o rimedi compagni.
74
Fatta la spesa de' quattro corsieri, la qual gli venne a star venti ducati, comincia a rassettar due gran forzieri, e sassi e legni dentro v'ha adattati, perché non comparissero leggeri. Sopra vi pose vestiti intarlati, sei camicie da poca meraviglia e in fine l'alber della sua famiglia.
75
Aveva preso uno staffier dappoco, credo che fosse idropico un facchino, ed un lacchè, che al correr valea poco, ma a bestemmiar nessun gli andò vicino. L'arme è il Vesuvio che getta gran foco, la qual gli pose sopra il berrettino. Ed inoltre avea preso un cavalcante ed un cocchiere gobbo assai galante.
76
Vestí que' servi a livree corredate di quell'argento ch'egli aveva indosso. Basta, le cose tutte apparecchiate non parean brutte, guardate allo ingrosso. Le visite che fece e le abbracciate, i complimenti e inchin dirvi non posso. Ad un, che andava nell'Indie dicea, ad un nel Cairo, ad un nella Guinea.
77
Perocché Filinoro era sí avvezzo a dir, quando parlava, la bugia, che della veritade avea ribrezzo, e dicendone alcuna si pentia. Solo ad un certo suo par da gran pezzo il suo disegno palesato avia, ed ottenute lettre di sua mano di raccomandazione al conte Gano.
78
Chi vide un burchio dalla riva sciolto gire a seconda per un'acqua cheta con due marinai soli, c'hanno tolto d'andare adagio con voga discreta; pensi che tale o dissimil non molto della carrozza da poca moneta fosse, e l'andar del nostro Filinoro, con quei rozzoni, i servi e il suo tesoro.
79
Urla mette il cocchiere e la scuriada sempre ha sul dosso alle bestie deformi. E il cavalcante non istava a bada; batte all'orecchie, gridando:—Oh! tu dormi?— E triema il caval sotto a terra cada, ed una gamba in rocchi gli trasformi. Appariva il lacchè de' piú gagliardi, correndo innanzi ad animai sí tardi.
80
Una testuggin, che il passo bilancia, avanza anch'essa e non perde il coraggio. Cosí va il cavalier verso la Francia, e gran pezzo avea fatto del viaggio; e pur chiedeva delle miglia, e ciancia dove passava in cittade o villaggio, e si fa grande, ed i servi rampogna. Ma dir tutto in due canti non bisogna.
Segue il viaggio Filinoro e prova accidenti moderni per la via. Soffre sventure, ciarla e ciò che giova adopra, ché non vuol malinconia. A Terigi con arte affatto nuova promessa sposa è la bizzarra mia; Gualtieri e Guottibuossi, cappellani, a questo matrimonio son mezzani.
1
Si dice:—Il mondo fu sempre il medesimo.— Io non mi voglio opporre a quel ch'è vero; credo però questo nostro millesimo assai peggior del tempo di san Piero, se ragioniamo quanto al cristianesimo e non prendiamo il mondo per l'intero. A grado a grado è andato peggiorando. Io dissi:—Credo:—a voi mi raccomando.
2
Certo è ch'io sento ad ogni passo dire: —Piú non si può durare in questo mondo,— e de' vecchioni saggi riferire: —Non era a' tempi nostri tanto immondo.— Se all'etá di Marfisa poté gire la fede e il buon costume tanto al fondo, che visse ottocent'anni dopo Cristo, pensiam quant'oggi egli debb'esser tristo.
3
E se cagion fûr l'ozio e gli scrittori del peggiorar de' costumi d'allora, pensando a' libri ch'oggi escono fuori e alla scioperatezza che s'adora, sento che freddi m'escono i sudori per il dolor che il sangue mi divora, e dico:—O terque e quaterque beati— a que' che prima d'or son trapassati.
4
Quantunque io sia peccatorello indegno, peggior d'ogni altro e pieno di magagna, non mi stancherò mai d'usar l'ingegno per discoprir l'interno alla castagna; e vi porrò sotto agli occhi in disegno i cristian da cittade e da campagna che fûro al tempo del re Carlo Mano: voi gl'imitate, se vi sembra sano.
5
Fatta avea nota Filinor per quante ville e cittá passava in quel viaggio, e scritte sopra al foglio tutte quante le genti conosciute come saggio, sendo la cosa al mangiare importante ed al dormire, per aver vantaggio, ché, spesando ogni giorno la famiglia, avea danari da far poche miglia.
6
Non è da dir se le sapeva tutte e se all'entrar l'aiuta l'eloquenza. Alcune volte ha le bolgie condutte dove anche non aveva conoscenza, ma parentele in sul fatto ha costrutte ed amicizia inventa e confidenza; tanto che vi mangiava e vi dormiva, poi con gran baciamani si partiva.
7
Quando passava le barche sui fiumi, dove per i cavalli e per le ruote si paga e le persone, avea suoi lumi, e dicea d'esser del padron nipote. Poi sí grand'aria mostra ne' costumi, e franco è sí che lascia le man vuote al barcaiuolo, ed al partir:—Se mai t'occor mia protezion—dicea,—l'avrai.
8
Tuttoché Filinor studi ogni punto per il risparmio, alcuna volta a forza o per la pioggia o per il fango è giunto dove la sete co' danar s'ammorza; sicché della pecunia è quasi munto, e va gridando al cocchier:—Batti, isforza,— ché col viaggio il terzo gli mancava. Il cocchiere or rideva, or bestemmiava.
9
Perch'era come a batter delle botti che fosser vuote, a picchiar que' cavalli; sí rimbombavan né sentiano i bòtti, perocché in ogni parte aveano calli. Né pensar mai che nessun d'essi trotti; s'ivan di passo, era da ringrazialli. Sappi che alcuna volta si fermavano e come pietre il flagel sopportavano.
10
Un giorno, albergo a mano non trovando, dicea ch'era vigilia con digiuno ed altre maliziette va innestando. —Tiriamo innanzi—diceva a ciascuno. Il lacchè disse:—Io mi vi raccomando: voi non mi siete padrone opportuno;— e gambettando con gran leggiadria, con l'arme del Vesuvio fuggí via.
11
Poté ben Filinor gridare a gola: —Ritorna indietro, briccon, dove vai?— colui pe' fatti suoi via se ne vola, e non rispose e non si volse mai. Questa disgrazia poscia non fu sola; furon molte, lettor, come udirai. Non comincia fortuna mai per poco, quando si prende alcuno a scherzo, a giuoco.
12
Filinoro era omai senza un quattrino. Quindici miglia è lungi da Parigi: si vedeva e pareva quasi vicino un miglio il campanil di San Dionigi; ma e' cavai non potean piú far cammino, e non c'è tempo di scusa o litigi, ché bisognava o crepare o mangiare, donde fu forza a un'osteria l'andare.
13
E per far quell'avanzo della strada gagliardemente e giunger con fracasso, a' suoi rozzoni ogni momento biada e fieno e biada fa gettare a basso. Gridano i servi e non istanno a bada, fanno sudar quell'oste ch'era grasso, e la cucina è di faccende piena: Filinor sta in sul grave e pranza e cena.
14
Due giorni stette quindi a gran diletto: pensa con ciarle di pagar l'ostiere. I servi a quello avevan prima detto ch'egli era imbasciatore all'imperiere; donde tremava l'ostier poveretto, temendo di non dargli dispiacere, e va pur rovistando la credenza per boccon scelti, e dá dell'«Eccellenza».
15
La notte innanzi al partir sopravvenne una gran febbre allo staffier mal sano. Filinoro per questo non isvenne: dice all'ostier:—Tu mi sembri cristiano. Ho quel staffier che par giunto all'amenne: Dio sa se l'amo e se mi sembra strano ch'io per Parigi devo partir tosto, e devo lasciar quel cosí indisposto.
16
Anche un de' miei poledri è molto stracco, e non vorrei per la via qualche tresca. Penso lasciarlo, ed al mio legno attacco tre cavalli e men vado alla tedesca. Lo staffier t'accomando, e non a macco: fa' che il caval di stalla mai non esca. Per sicurtá dell'uomo e del cavallo, oste, io non pago il conto senza fallo.
17
Manderò poi fra quattro o cinque giorni a levare il cavallo ed il mio servo, ch'io prego Dio che in sanitá ritorni. Il mio dovere a quel punto riservo.— L'oste guardava quegli abiti adorni; per soggezion gli tremava ogni nervo: disse che avrebbe perduta la vita, prima che uscir dagli ordini due dita.
18
A cenni d'occhi e mani nobilmente e fiutando tabacco, Filinoro fe' i tre cavalli attaccar prestamente, e lascia il quarto che vale un tesoro. L'oste gli è intorno e gli bacia umilmente con la berretta in mano il gheron d'oro. Filinor parte e l'oste inchina il cocchio insin che può discoprirlo con l'occhio.
19
Or qui potria domandarmi il lettore che cosa avvenne poi del cavalcante. Di tre cavalli è il cocchier conduttore: dunque che fu di quell'altro brigante? Dico che il pose di dietro il signore al cocchio per staffier o vuoi per fante. Filinor nostro è d'intelletto raro, e in ogni caso ritrova il riparo.
20
Fu bella cosa quell'ostier sentire a comandare alla moglie e a' famigli, che si dovesse l'infermo ubbidire. Poscia alla stalla va a dare i consigli come si debba il caval custodire; ma nel guardarlo par si maravigli. —Questo—dicea—d'una rozza è il cadavero, e debbe aver mangiato del papavero.—
21
Perocché stava molto sonnolento, e gli occhi cispi aveva e rinfossati. —Disse il signor ch'è un poledro: io pavento ch'egli abbia almen quarant'anni passati,— diceva l'oste; e pigliandolo al mento, gli vide in bocca denti smisurati. Sente che in quel spettezzava e tossiva: l'oste gridava a' que' sternuti:—Viva!—
22
E tra sé disse:—Omè lasso, ho mal fatto;— e dubitava forte del suo danno. Lasciamo l'oste irato e stupefatto, che attenda sua ventura con affanno. Filinor era da lungi un buon tratto; e mentre galluzzava dell'inganno, una sciagura gli avvenne terribile: io so, lettor, che ti parrá impossibile.
23
Ma vo' che tu mi tenga in ciò che narro uomo informato e storico fedele, perch'io non vendo per frumento farro, lasche per trotte o le zucche per mele; ché temo sempre l'occhio del ramarro, o giungan dov'è buio le candele, e se c'è fanfalucca, si discopra per biasmo dello storico e dell'opra.
24
Dico che un vento improvviso levato, il caval primo sciolto ritrovando, che pareva un carcame figurato e andava d'un trottino vacillando, lo spinse con un soffio in un fossato. Filinor esce col cocchier gridando e dice:—Tristo! il tuo mestier non sai; s'è morto il mio puledro, il pagherai.—
25
La bestia s'era scavezzata il collo, e si poté ben tirare e gridare, ché fu vana ogni voce ed ogni crollo; Filinoro il cocchier vuol batacchiare. Grida il cocchier scrignuto:—Io son satollo; so ben dove la cosa ha a terminare. Lei vuol le cento lire del salario dipennar per la rozza dal lunario.
26
Io n'ho stupore, e non sare' dovere voler per venti camuffarne cento; oltre che non fu colpa del mestiere, ma del rozzon semivivo e del vento.— Filinor grida:—Come! a un cavaliere un servo parla con tanto ardimento?— Poi croscia in sulla gobba col bastone, e due e tre e quattro delle buone.
27
Tanto che fuggí via con gli stivali colui, lasciando il padron e il guadagno. A Filinor di quattro servigiali rimase il cavalcante buon compagno, e due de' quattro valenti animali. Diceva il cavaliere:—Io son nel gagno, perdio, de' tristi;—e poi si raccomanda al cavalcante; e quel sale alla banda,
28
e me' che può verso Parigi arranca. Lungi tre miglia esser poteva ancora: non era la fortuna però stanca. Ma tacerò di Filinor per ora, perocché v'ho tenuti sulla panca a ragionarvi d'esso ben un'ora, e certi accidentucci v'ho narrati che forse v'averanno addormentati.
29
Dico però: dovete accontentarvi se gli accidenti non vi paion grandi, perocché voi dovreste ricordarvi, non s'usavan piú i fatti memorandi, e che a principio proposi narrarvi cambiati in tutto i Rinaldi e gli Orlandi e i paladini e la plebe e i signori, per la virtú dell'ozio e de' scrittori.
30
E voglio che sappiate, uditor vaghi, acciò questo viaggio non v'annoi, vi risparmiai gli accidenti degli aghi, al crepar delle redini e de' cuoi, e come cento volte con gli spaghi furon rattacconati i tiratoi; e mille accidentin non posi in rima, che non s'usavan ne' viaggi prima.
31
Io trovo ne' romanzi di que' tempi certe avventure magre da pidocchi, e fatti da sbavigli, cosí scempi, di quei poeti, e lunghi un tirar d'occhi, che riformavan quegli antichi esempi di battaglie, di giostre e spade e stocchi; onde le genti che leggevan quelli erano imitator de' scrittorelli.
32
Or vi conduco a Marfisa e a Ruggero. Io lasciai quella molto screditata, ed il fratel disperato e in pensiero pel caso che non s'era maritata. E per casa diceva:—Per Dio vero, non so che far di quella spiritata.— La moglie Bradamante lo molesta, tanto ch'egli è per spezzarsi la testa.
33
Don Guottibuossi era suo confidente, maestro a' figliuoletti e fa il fattore; teneva i conti diligentemente e sprezza anche le legna per buon core. È spenditor, mansionario e servente di Bradamante, spia e imbasciatore; ed andava anche in maschera con quella, e non aveva trista la gonnella.
34
Perocché prima di cantar la messa avea dato il manipolo a baciare; e Bradamante fu capitanessa le genti al sacro bacio ad obbligare, e delle mancie dispose con essa. Per prima cosa s'ebbe a comperare un vestito da maschera attillato, e l'ebbe caro mezzo il ricavato.
35
Onde si dava poi gran sicumera a servir Bradamante il carnovale alle commedie, ed al caffè la sera. Ma spesse volte la passava male, ché quella dama, dove il popol era, lo strapazzava come un animale. Egli faceva un risolin sardonico, e poscia diveniva malinconico.
36
Pur s'affannava per acquistar merito sempre, e va mulinando qualche tratto che lo faccia alla dama benemerito. Qualunque cosa per questo avria fatto, per non star sempre come nel preterito; e si pensò che, se con qualche matto o savio maritar potea Marfisa, avrebbe avuta grazia in questa guisa.
37
V'era in quel tempo un uom ricco a Parigi, che un giorno fu lo scudiere d'Orlando, come si legge, chiamato Terigi, ch'era pel mondo andato assai girando, quando s'usava, seguendo i vestigi del conte, che gran re venía ammazzando, e duchi e cavalieri carchi di perle ed oro e gemme a gran costo d'averle.
38
Costui previde che il costume antico aver dovea riforma in tempo corto, sicché per non restare un dí mendíco, quando il padrone avea qualche re morto, e' non istava a grattarsi il bellíco: tosto che l'alma andava s'era accorto, spogliava l'ammazzato d'ogni cosa, insin della camicia sanguinosa.
39
Sicché d'oro, di gioie e ricche spoglie pel corso di molt'anni un magazzino aveva empiuto, e a chi venía le voglie sapeva vender caro il malandrino, ch'avria tratti danar sin dalle foglie; e poiché in questa forma fe' bottino di piú d'un milione di ducati, prese gabelle a fitto dagli Stati.
40
E mantenendo sgherri e berovieri, degli utili sfondati ne traeva; poi comperava palagi e poderi, tanto che immense entrate fatte aveva; e infine feudi prese e misti imperi, e privilegi e titoli prendeva di conte, di marchese e di barone; facea conviti e gran conversazione.
41
Ma perch'egli era di basso lignaggio, volea nobilitare i discendenti, e cerca far qualche bel maritaggio per acquistare aderenze e parenti. Don Guottibuossi vide, come saggio, da far un colpo, con begli argomenti, che a Bradamante ed a Rugger piacesse, se Marfisa a Terigi unir potesse.
42
E dato cenno a don Gualtieri un giorno, che cappellan con Terigi si stava, di questo suo pensier e' parla adorno. Gualtier da Mulion non rinculava, anzi promise fare a lui ritorno, ma che se la faccenda bene andava, e' non saria contento a un par di guanti: poi disse mal del mestier de' pedanti.
43
Che guadagnava una pidocchieria a insegnar per le case con affanno, bastando appena la mansioneria per i suoi vizi due mesi dell'anno. —Se non guadagno qualche cortesia— dicea Gualtier—con arte e con inganno nelle inframesse o per alcun raggiro, credimi, Guottibuossi, egli è un martíro.—
44
Don Guottibuossi gli rispose:—Basta, proccuriam ch'abbia effetto la faccenda.— Alfin fu rimenata ben la pasta, per non far troppo lunga la leggenda. Terigi fu contento e non contrasta, Rugger anch'esso par che condiscenda: nel parentado ci fu qualche sciarra, ma il nodo stava in Marfisa bizzarra.
45
Diceva Bradamante al suo Ruggero: —Deve ubbidirvi, le siete fratello.— Dicea Rugger:—Perdio, che mi dispero: dovereste conoscer quel cervello. S'ella dice:—Nol voglio—dite il vero, degg'io far, ch'ella il prenda, col coltello?— Don Guottibuossi era un abile prete, e disse:—Io vo' parlarle, se il volete.—
46
Furon contenti e a lui s'accomandâro. Il prete pensa una sua malizietta. Trova Marfisa sola, ed ebbe caro, ché rado fu trovata o mai soletta. Ell'era appunto in un pensiero amaro, che le parea veder piú poca fretta ne' concorrenti e ne' visitatori, e raffreddati i sospiri e gli amori.
47
Perocch'eravam giunti agli anni trenta, e, unita agli anni la sua stravaganza, a poco a poco aveva quasi spenta ne' cori degli amanti la costanza. Stava rimproverando malcontenta in dieci lettre la poca creanza a questo e quell'amador disertato, quando don Guottibuossi è capitato.
48
Marfisa l'accettava volentieri, ch'anche de' preti comincia a degnarsi. —Ben venga il soprastante a' cimiteri— gli disse e che dovesse accomodarsi. Rispose il prete:—I'ho de' gran pensieri veder Marfisa ancor maggese starsi, e sentire i discorsi della piazza, che non fanno vantaggio a una ragazza.—
49
Disse Marfisa:—Prete mio da gabbia, deh, dimmi un poco che di me si dice;— e cominciava accendersi di rabbia, facendo sulle guancie la vernice. Dice il prete:—E' non è mestier ch'io v'abbia a narrar tutto; basta che disdice, una fanciulla d'un merto infinito invecchi in casa e non trovi marito.
50
E quel che piú mi trafigge nel core è che, pensando al caso vostro d'ora, m'affaticai come buon servidore ed avea tratto un bel partito fuora. Ma fui cacciato come un traditore, dicendolo a Rugger, che grida ancora. Fa piú d'esso la sposa Bradamante: mi die' giú per lo capo del «forfante»,
51
gridando che il partito non è buono, e ch'è passato il tempo de' mariti, e ch'io pensassi a cantare in bel tuono il vespro e non a cercarvi partiti. Io per giustificarmi sol qui sono, perché i discorsi vengon travestiti; e non vorrei, se il falso vi si mostra, uscir, Marfisa, dalla grazia vostra.—
52
Disse Marfisa:—Altro non vo' sapere; e basta mio fratello e mia cognata abbian di questo nodo dispiacere, fa ragion che la scritta sia firmata. Fosse lo sposo un magnano, un barbiere, dico per via di dire, io son parata; se fosse il diavol, non avrò paura: vo' che facciamo tosto la scrittura.
53
—E' non è il diavol—rispondeva il prete,— ch'è il marchese Terigi quel ch'io dico; ma non posso giá far ciò che volete: Bradamante e Rugger non vo' nimico.— Non è da dir se a Marfisa la sete cresce di porre iscompiglio ed intrico: basta a' parenti il nodo dispiacesse, quest'era una ragion ch'ella il volesse.
54
Don Guottibuossi fa del pauroso, e dice:—O voi vedete, o voi pensate, non posso fare—e finge il schizzinoso. Marfisa alfin minaccia le ceffate. Donde pur vinse il prete malizioso con queste bagattelle artifiziate, e infine disse:—E' convien giocar netto: del resto ad ubbidirvi mi rassetto.
55
Fate la cosa appaia un voler vostro; io mi difenderò dal canto mio e porrò in opra la voce e l'inchiostro: avrem l'intento, s'è in piacer di Dio.— E detto questo, come a Rugger nostro e a Bradamante:—Che direte s'io vinta ho Marfisa—disse—in due parole? E non è condiscesa, anzi lo vuole.—
56
Diceano i due congiunti:—Com'hai fatto?— Don Guottibuossi avvisa della tresca e dice:—E' vi bisogna ad ogni patto mostrar che il matrimonio vi rincresca, e farvi trascinare in sul contratto, e lasciar che Marfisa la prima esca a ragionarne; e condurrem la trama: per altra via non si piglia la dama.—
57
Giá era di tre ore mezzogiorno suonato, e ancor da Rugger non si pranza (ché in casa a' grandi era quasi uno scorno pranzare innanzi: tal era l'usanza); onde udivansi i servi andare attorno chiamando a desco con bella creanza. Siedono a mensa. Marfisa siedeva, e sta ingrognata e mangiar non voleva.
58
Don Guottibuossi non mangia, divora, e mostra la faccenda a lui non tocchi. Rugger, ch'era pur saggio, s'addolora, e mangia adagio e talor chiude gli occhi, e tra sé duolsi d'avere una suora da pigliar con la trappola che scocchi. E Bradamante in sull'avviso stava, e spicca morsellini e sogghignava.
59
Marfisa guarda l'un l'altro nel viso, e scherza or col cucchiaio or col coltello, ed or sul grasso in qualche tondo intriso scrive con la forchetta, or fa fardello del tovagliuolo, or suona all'improvviso con le dita in sul desco il tamburello, or crolla il capo, or s'affisa nel tetto, e mostra fuor ciò che serra nel petto.
60
In tutti gli atti si vedeva aperto ch'ella voleva alcun le ragionasse, per appiccare una sciarra, un concerto di voci, che tre ore lungo andasse. Ma poich'ella ebbe il silenzio sofferto un pezzo senza che alcun le parlasse, sendo il pranzo finito, in Rugger fisse tenne le luci bieche e poi gli disse:
61
—Tempo è ch'io, stanca, fracida, annoiata, me n'esca un tratto da questa famiglia, e rimanga padrona la cognata che un po' troppo il buon sposo suo consiglia. Però, signori, io mi son maritata; abbiate se il volete maraviglia: il marchese Terigi è giá mio sposo, né fia, quando a me piace, difettoso.
62
Non crediate v'avvisi perch'io creda esser tenuta a dirvi i fatti miei. De' pregiudizi amichi non son reda e d'ubbidenze sciocche da plebei: le mie letture hanno fatto ch'io veda che farlo senza dirvelo potrei. Ma perché so che di Terigi ostico vi sembra il nodo, appunto ve lo dico.
63
Le risa appena trattien Bradamante: se stava ferma, guastava la cosa; donde rizzossi con atto arrogante e mostrò di partirsi disdegnosa. Rugger mostrossi irato nel sembiante, e disse:—O Dio, quando averò mai posa? Non mi potete dar maggior sciagura di questa ch'ora provo né piú dura.—
64
E terribil volgendosi a Marfisa, disse:—Aprite gli orecchi a quel ch'io parlo. Non sará mai la famiglia di Risa tal parentado possa sopportarlo; se tentate avvilirla in cotal guisa, e un gabellier cognato a Rugger farlo, dico che prima voi sarete appesa, sorella cieca e sorda e pazza resa.—
65
Qui le risposte, il fracasso e le grida furono orrende fuor d'ogni pensiero, e piú Marfisa al suo Terigi è fida, quanto l'aborre e disprezza Ruggero. Dicea Ruggero:—Prete, mala guida— a Guottibuossi,—io non son sí leggero, che non intendo questo guazzabuglio esser pretino fetente garbuglio.
66
Ma i preti si dovrieno all'etá nostra porgli in catena a biscottel muffato, ché in tutto voglion far di loro mostra, dimenticando il sacro chericato.— Don Guottibuossi pur la zucca prostra due o tre volte e sta mortificato, e poiché fino al finocchio ha consunto, gli parve allor di ragionare il punto.
67
E disse:—In coscienza questa dama può dir s'io feci a lei parola alcuna; ma veggio alfin che odiato è chi piú ama, e converrá ch'io cerchi altra fortuna. Vero è ch'io dissi a voi:—Terigi brama averla in moglie;—ch'io credo opportuna l'occasion, perché non cerca dote; ma feci solo a voi le cose note.
68
E poiché siamo in su questo proposito, parlerò netto e senz'alcun timore. Questo mio sacro capo vi deposito, Rugger, che a non voler siete in errore. L'usanza è dal passato ora all'opposito. È una cosa fantastica l'onore: di parentado e di genealogia si ride il mondo c'ha filosofia.
69
Voi siete pien d'antichi pregiudizi, né alle commedie nuove andate mai, né i romanzi novei, pien d'artifizi dotti, leggete, che insegnano assai. Certe antiche virtudi ora son vizi, e non importa un fil di paglia omai l'esser figliuol di dama o di puttana, come un nuovo romanzo oggi ci spiana.
70
Quando un uom ricco di basso lignaggio chiede una dama illustre per isposa, e senza dote a tôrla egli ha coraggio, non è alla moda il bilanciar la cosa; perocché due famiglie n'han vantaggio, e la faccenda sembra prodigiosa: se una risparmia e da quel ch'è non esce, l'altra in opinione e in boria cresce.
71
Il nobil anzi in sull'altro casato mantien certa arroganza e preminenza, ché può voler da quel ciò c'ha sognato per una stabilita conseguenza. Terigi è di Marfisa innamorato, ed è sí ricco e ha titol d'«Eccellenza»; la fanciulla il torrebbe, e non so poi per qual ragion lo ricusate voi.—
72
Rugger raddoppia minacce e disprezzi, Marfisa gonfia e grida:—Il voglio, il voglio;— in sullo spazzo i bicchier getta in pezzi, ordina al prete di rogare il foglio. Don Guottibuossi a tutti dui fa vezzi, e mena con tant'arte quell'imbroglio che fece dire a Rugger con dispetto: —Col diavol sia! l'assenso vi prometto.—
73
Ed accordata e fatta la scrittura fu da Ruggero sempre rinculando; e Bradamante brusca in guardatura si fa sentir per casa borbottando. Don Guottibuossi a Marfisa paura e gran fatica e sudor va mostrando. Dicea Marfisa:—E' l'avranno alla barba: e' de' bastar; questa cosa a me garba.—
74
Un giorno che le visite accettava, le congratulazioni, i complimenti, per tutta la cittá si ragionava che in un caffè morto era in due momenti un paladin, ma il nome si cambiava, come suol fare il furor fra le genti. Era ognun curioso di saperlo, siccome voi; ma per or vo' tacerlo.
Del sigillo real morto è il custode; nascon baruffe per la sepoltura. Pel maritaggio di Marfisa s'ode grand'apparecchio, e don Gualtieri ha cura. La bizzarra la visita si gode del sposo, ch'è una gran caricatura. Le spose alla Ruet van mascherate; una comparsa l'ha disordinate.
1
Tanto il pensar de' paladin corrotto era, per quanto leggo e al parer mio, che a gravi colpi di sopra e di sotto, fulmin, tremuoto o simil lavorio, e alle morti improvvise, sette ed otto, che per avviso lor mandava Dio, non istupiano o troncavan niente i lor vizi e lo stare allegramente.
2
I fulmini, i tremuoti e la tempesta dicevano esser cosa naturale: venti bestemmie ed un crollar di testa era sollievo a chi veniva il male. Scherzando in una forma disonesta, rideano e si diceano alla bestiale: —Io salmeggiai, arsi ulivo e candele, e la tempesta venne piú crudele.—
3
Cadeva uno, apoplettico d'un colpo: diceano:—Questo succeder dovea: egli avea membra strane come il polpo; tal macchina sussister non potea.— Alcun diceva:—Io veramente incolpo la vita solitaria che tenea. Per viver molto e godere e star bene, perdio! passarla come noi conviene.—
4
A' sacerdoti che dicean da vero: —Segni son dell'eterna providenza,— dicean col viso ironico e severo: —Dice pur ben la Vostra Riverenza!— Le femminette con umil pensiero, e i dozzinali mostravan credenza; ma tuttavia la carne ed il rubare né men per questo si vedea lasciare.
5
Ma ciò che piú di tutto fa stupire è che i ragionamenti piú divoti e piú morali e santi in sul garrire, gli accigliamenti a tempeste e tremuoti, il chiamar quelli «giuste celesti ire», il far digiuni, il far proteste e voti, e l'annodar dell'una all'altra mano, fossero azion del traditor di Gano.
6
Non so se i nostri tempi sien diversi; se non lo sono, Dio voglia che siéno. Prima da' paladin solea volersi per un buon segno sin l'arcobaleno, e per castigo soleva tenersi la troppa pioggia ed il troppo sereno, e sin l'aere che il fummo sparpagliava. Nessun de' paladin cosí pensava.
7
Del secol nostro io non dovrei dir male, perché so ben che si crede e si tiene per maldicenza sino alla morale, e non è piú moderna e non conviene. Il paladin, che aveva messe l'ale all'improvviso, ascoltator dabbene, nella bottega, come si dicea, direm ch'egli era Angelin di Bordea,
8
custode in corte del regio sigillo. Una carica grande e di gran frutto: ventimila ducati, posso dillo, ella rendeva con gl'incerti e tutto. Alla sua morte ci fu il coccodrillo, che non tenne sull'ossa il ciglio asciutto, perché l'incarco assai gli era invidiato da chi tenea su quel l'occhio tirato.
9
Era Angelin d'una statura grande, e grosso e molto greve nella pancia, magno conoscitor delle vivande, che le gustava sudando la guancia, e in tavola voleva altro che ghiande; anzi dicea tutta quanta la Francia, parlando di chi fa mensa piú buona: —Angelin di Bordea porta corona.—
10
I liquori, la pippa e i buon bocconi erano i principali suoi riflessi, né si curava di vestiti buoni, ché gli avea fuor di moda ed unti e fessi. Le sue camicie parevan carboni, ché le cambiava, come i votacessi, tre volte l'anno, e il dí che si cambiava molto quella fatica biasimava.
11
Era Angelin di Bordea generoso e non aveva al risparmio pensiere, del mal compassionevole, amoroso verso a' pitocchi ed elemosiniere. In capo all'anno era pur timoroso rimanesse un ducato nel forziere: tutta l'entrata dell'anno volea che fosse spesa, e mangiava e godea.
12
Don Martin, don Ubaldo e don Simone, preti assai dilettanti de' buon piatti, eran sue fedelissime persone, giornalier commensali allegri ed atti, autor di salse per digestione, nemici nel pulir l'ossa de' gatti. Con accidenti e nuove del paese pagano ad Angelin le grosse spese.
13
Bevendo alla bottega il cioccolato nella contrada di San Pietro, un giorno apoplettico cadde, e scilinguato rimase tosto e mai fece ritorno. I chirurghi e i dottor coll'ammalato lor salassi ed emetici provorno: Angelin di Bordea si stese morto, e cosí diede a que' dottori il torto.
14
Molti discorsi fece la plebaglia, se fosse salvo o dannato Angelino. Ognuno si riscalda e si travaglia a trovar pro e contro il bruscolino, com'anche a' nostri dí fa la canaglia quand'uno è morto in caso repentino. Don Simon, don Martino e don Ubaldo volean che fosse in cielo allegro e baldo.
15
Angelin di contrada è di San Pavolo, ed era morto in quella di San Pietro: venne a levarlo il piovan di San Pavolo; voleva il morto il piovan di San Pietro. Diceva il primo:—Egli abita a San Pavolo;— l'altro diceva:—Egli è morto a San Pietro;— donde si fece gran disputazione tra i due piovani in mezzo alle persone.
16
Poich'ebbon con flemmatiche parole cercato l'uno l'altro persuadere, dicendo:—Non si deve e non si puole i successor pregiudicar, messere;— si riscaldaron, come far si suole, gridando:—Io non vo' perder le mie cere;— né piú si contendeva pel defunto, ma son le torce del contrasto il punto.
17
E finalmente ingiurie s'hanno dette; l'uno dell'altro gran cose rivela, e de' peccati quattro, cinque e sette, che prima ricopria non so qual tela; poi tutti accesi vennono alle strette, e si detton sul ceffo la candela. Le processioni delle due contrade diêr mano a' torchi, non avendo spade.
18
E vidonsi in un punto aste e doppieri arrestati e frugoni e aperta guerra, zazzere abbrustolite e visi neri, berrette a croce e moccoli per terra; né si sentieno cantar misereri, ma bestemmie e un gridar:—Sospingi, afferra— da gole strette, con voci interrotte; e furon lacerate molte cotte.
19
Que' gaglioffacci che raccolgon cera eran nel mezzo ad accrescer baruffa. Ognun dá d'urto ed aizza la schiera, ed i pezzuoli di candela ciuffa. Color che avean la cappa indosso nera e il copertoio sul grugno, ognuno sbuffa, e tira gli occhi pe' buchi del sacco, crosciando l'aste e facendo gran fiacco.
20
Era corso a veder tutto il paese; nessun mettea del suo fuor che la voce. Dio benedetto ha mandato il danese, e beccò sopra il capo d'una croce; ma, conosciuto alquanto, si sospese al suo gridar la battaglia feroce, e tanto fece che tutti chetava: poscia co' due piovani ragionava.
21
E disse cose lor da buon cristiano, quantunque fosse un turco battezzato; ed or all'uno ora all'altro piovano con rimproveri acerbi s'è voltato. —Questo è—dicea—da voi quel che ascoltiamo, che ognun debb'esser disinteressato, se poi vi bastonate fra la gente per quattro moccol di candele spente?
22
Or oltre; io vo' che questa cosa sia dimenticata e piú non se ne parli, preti avaron, che i scandol per la via al popol date invece di troncarli, cosí facendo rider l'eresia.— E tanto seppe il danese attutarli che ognun la sua pretesa in lui rimise, ed ei la lite de' moccol decise.
23
Disse che fosse Angelin seppellito nella contrada dov'egli era morto, e il piovan di San Pavolo, apparito per la magion, non abbia in tutto il torto. Volle che fosse l'util ripartito del funeral. Cosí ridusse in porto quella battaglia, e a' casi in avvenire questo fu legge circa al seppellire.
24
Vero è che alcun piovano litigante parecchie volte volle disputare le circostanze, sequestrando inante, perch'abbia il morto in diposito a stare; e potrei dir piú d'un fatto galante, ma non vorrei fuor de' miei solchi andare; e forse uscito son dal mio viaggio, narrando questo fatto di passaggio.
25
Dall'altra parte par non istia male s'egli fu a' tempi del re Carlo Magno, perché veggiate sin nel funerale s'usava piú che la pietá il guadagno. Il dir ch'è morto Angelino, assai vale; d'aver questo narrato non mi lagno, perché vacante rimase il suo posto, per il qual molte cose verran tosto.
26
Or si de' dir che la scrittura fatta tra la pudica Marfisa e Terigi fu gran cagion d'una ciarlata matta nelle case e botteghe di Parigi. Molti stati con la faccia stupefatta, tutti cercan le cause ed i vestigi; sembra che a ognun quella faccenda tocchi, tante dispute fan, tirando gli occhi.
27
Molti dicevan gonfiando le gote: —Che avvilimento è questo di Ruggero!— Rispondean altri:—E' la dá senza dote; par ch'egli abbia giudizio, a dire il vero. So dir Terigi accomandar si puote a san Francesco, a san Gianni, a san Piero, che a pettinare e' si toglie una lana da far che sudi e scoppi di magrana.—
28
Altri in capo tre giorni, piú o meno, predicono divorzi o scioglimento. Nessuno c'è che voglia stare a freno: fanno argomenti per mostrar talento. Solo Dodon, tenendo il mento in seno, guarda sottecchi or l'uno or l'altro attento, e sogghignava spesso e si stupiva dell'eterno ciarlar che lo stordiva.
29
E alla bottega del caffè dov'era, ad uno che faceva gran contrasto e volea pur sapere in qual maniera l'intendesse, Dodon, ch'era omai guasto, rispose alfin:—Non presi mai mogliera, prima perché non mi piacque un tal pasto, ma sopra tutto per non dar cagione di tanto affanno alle vostre persone.
30
Marfisa prende Terigi in consorte, Terigi n'è contento e la vuol prendere. Io vi rispondo, andando per le corte, che son contento anch'io, né vo' contendere. Né intendo disputar della lor sorte, perché l'astrologia non soglio vendere. Se buona fia, godrò di lor quiete; se trista, a pianger non mi vederete.
31
Sol mi rincresce questo maritaggio, perch'è cagion che voi stracco m'avete.— Cosí detto, Dodon fece viaggio con riverenze tonde assai facete. Quegli oziosi cambiaron linguaggio sopra Dodon con parole indiscrete. Chi disse:—E' pensa ben,—chi:—Pensa male,— e si rimason tuttavia cicale.
32
La voce sparsa di quell'imeneo mise a Parigi in gran briga gli artieri. Corron tutti in secreto al prete reo, cappellan di Terigi, don Gualtieri: ser Rocco dipintore, ser Maffeo legnaiuol, venti o trenta tappezzieri, fabbri, merciai, stuccatori, una folta. Don Gualtieri, o don Volpe, ognuno ascolta.
33
Perocché, avendo avuto da Ruggero cento zecchini di nascosto in dono per il maneggio, faceva pensiero anche munger ciascun senza perdono. E perché tutti nel loro mestiero van profferendo al prete un util buono se gli faceva aver l'opra in lor capo, Gualtier sta ritto come il dio Priápo.
34
E udite da ciascun l'esibizioni, fece aver l'opre al miglior offerente, e poi faceva le disposizioni, perché Terigi il fe' soprintendente. Polizze fa ripiene d'invenzioni: mai non si vide prete piú saccente. Terigi, forse per troppa allegrezza, a questa volta ha dato in leggerezza.
35
E perch'era in quel secolo un'usanza, al maritar delle persone altere, il far di versi una grand'abbondanza, parte alla dama e parte al cavaliere; anzi era questo di tanta importanza quel dí quant'era il mangiare ed il bere, che questo libro gli sposi ordinavano e i stampatori a gran costo pagavano;
36
ed avveniva che il raccoglitore, il qual faceva la dedicatoria, n'avea dalla signora o dal signore, pel generoso core o per la boria, qualche regalo che faceva onore, ma talor questo uscia dalla memoria; pur nondimeno parecchi ogni volta per commession cercavan la raccolta;
37
Marco e Matteo dal Pian di San Michele, ch'eran torrenti della poesia, a don Gualtieri accendevan candele perché Terigi a un d'essi l'ordin dia. A Matteo don Gualtier non fu fedele, e con il patto che divisa sia la mancia tra Gualtieri e il vate Marco, a questo fece rimaner l'incarco.
38
Allora Marco per tutto il paese iscreditava Matteo poveretto, dicendo:—E' non è buon per queste imprese; altro non sa che por scene in guazzetto.— Matteo, quando il ciarlar di Marco intese, giva dicendo:—Io fui bene costretto a far quella raccolta e rinunziai, ché non procuro queste brighe mai.—
39
Gran dispute hanno fatto i partigiani di Marco e di Matteo per questo caso. Sostenevan parecchi, come cani: —Matteo non fu d'accettar persuaso.— Altri giuravan, picchiando le mani, che rifiutato al certo era rimaso. Que' di Matteo di nuovo fanno fronte, e gridan saper tutto da buon fonte.
40
E se non fosse che Turpino scrisse di questo fatto il vero dell'arcano, ancora ci sarebbon delle risse a' nostri tempi fra qualche cristiano. Frattanto il Gratta, un stampator che visse quando viveva il nostro Carlo Mano, un uomo coraggioso e intraprendente, è corso a don Gualtieri prestamente.
41
E gli promise venti e piú zecchini, se la raccolta stampargli facea. Ornati, foglie, uccelletti e bambini, e rami assai puliti promettea, da far maravigliar i paladini. —Io ho nuovi caratteri—dicea— e carta fine, ed incisioni albergo, e so inventar geroglifici in gergo.
42
Io non voglio giá far nessun guadagno —diceva il Gratta—e sol fo per l'onore.— Non era il prete men di lui mascagno, e rispondea:—Conosco il vostro core; però mi troverete buon compagno.— Ma io non voglio dir tutto al lettore, né intorno ciò la trama fra lor fatta; basta che la raccolta impresse il Gratta.
43
Rugger per il costume del paese qualche libretto anch'ei doveva fare. Dodone il santo, figliuol del danese, gli aveva detto:—Non farneticare, ché un libriccin vo' farti alle mie spese da far Marco e Matteo divincolare.— Ruggero ride e dice:—Essi hanno fame: lasciagli star, vuoi tu che mangin strame?—
44
Dicea Dodon:—Non posso in coscienza, ché van guastando tutte le persone con le lor stampe di mala influenza e d'un costume contro la ragione. Non vedi tu la lor trista semenza omai salita in tal riputazione, che sino ne' collegi i frati pazzi lascian che sia lo studio de' ragazzi?
45
E imparano da quella uno stil grosso, o veramente uno stil da bombarda, metaforacce e qualche paradosso, o versi goffi e frasi alla lombarda. E dalle Madri tradite dir posso ch'apprendano i fanciul, se ben si guarda, a maledire i morti e i testamenti, a beffeggiar le madri ed i parenti.
46
E contro il padre a por mano alla spada, corrergli addosso per farlo morire; a ingannar, a tradir qual sia la strada, imparano i fanciul, se il ver vuoi dire. Forse la scuola lasciva t'aggrada e la lussuria, i lazzi ed il languire dell'Impressario turco dalla Smirne, e d'altri cento che non vo' piú dirne?
47
Vannoti a sangue quelle principesse che sono incinte pria che sieno spose, e si maritan poi per interesse co' duchi che non san di queste cose? poi vanno a partorir Filosofesse a Roma, e fan le faccende nascose, acciò il marito non veda la prole, e si battezzi un tristo, s'ei si duole?
48
Ti piaceran le donzelle d'onore di quelle principesse della corte, non mica vaghe del far all'amore, ma ingravidate senz'aver consorte? Mille garbugli infami di scrittore, che tutto guarda colle luci torte, e ad ogni mal facilita la via, dicendo:—Insegno la filosofia.—
49
Le filosofe sue bello è vedere colme di passioni e debolezze, tradir le dame i duchi, e per dovere far le ruffiane ed altre gentilezze, e far le spie di dietro le portiere co' birri a lato, acciò si raccapezze un che fu ladro un tempo, e in tal maniera dire:—Egli è quello,—e mandarlo in galera.
50
Le prefazion di questi autor moderni (non so, Rugger, s'hai fatto ben l'esame) appellano «istruttivi» i lor quaderni, «filosofici» e «vaghi per le dame». Io so che ci faran de' begli scherni le suore nostre che di questi han fame. Dico che provan lor dottrine strane filosofe e duchesse le puttane.—
51
Dicea Ruggero a Dodon:—Tu di' bene, ma pochi la ragione ti daranno. Al popol piacion lor romanzi e scene; se fossi in te, non vorrei quest'affanno, perché t'acquisti un odio sulle schiene, e un giorno o l'altro ti lapideranno. Non si vuol sempre la ragion difendere: oh, gli è la bella cosa il mondo intendere!
52
—È bella cosa, è ver—dicea Dodone,— ma quando intendi il mondo vada male, so che il tacere è cosa da poltrone, e de' corregger l'uom per quanto vale. So ch'oggi una bagascia è la ragione, ché l'avete mandata all'ospedale per soggezione, e con rispetti umani e finte indifferenze e baciamani.
53
Ma piú di tutti dá cattivo esempio, a lasciar correr certe commedie e certi romanzacci e il compor empio, Carloman, presso al novissimo die, che con la bocca aperta, vecchio e scempio, ascolta, come fosser litanie; anzi le cose piú nefande apprezza, e poi travolge gli occhi di dolcezza.
54
In quanto a me, qual mansueto agnello, me ne vo come Isacche al sacrifizio, ed all'aperta predico e favello contro gli scritti, il mal costume e il vizio; e dove prende granchi il mio cervello, usin di correttor gli altri l'uffizio. Con prove sane facciano schiamazzo, non giá con la ragion del popolazzo.
55
Né stien dicendo che l'invidia è quella che m'arde contro la lor preminenza. Io non so d'invidiar Pulicinella, perch'ogni giorno ha sí magna udienza.— Cosí Dodon per ischerzi favella, e finalmente ha data la sentenza di voler far il libretto a sue spese. Rugger lo ringraziò, ch'era cortese.
56
Terigi intanto s'era apparecchiato a fare una sua visita alla sposa, e un vestito s'è messo ricamato d'oro, che mai si die' piú bella cosa. Avea le fibbie che valeano un Stato, e manichin d'un'opera famosa, un cappel fine col pennacchio bianco, ed una spada gioiellata al fianco.
57
Ma potea ben studiar l'attillatura e porsi indosso ogni cosa pulita: egli era un uomo grosso oltre misura, ed alto sette palmi piú due dita; sicch'era sempre una caricatura. La faccia aveva larga e sbalordita, gli occhi incantati e tondi, e un riso in bocca continuato ad ogni cosa sciocca.
58
Goffo al pensare e al ragionare, e spesso non intendeva ciò che gli era detto, e richiedeva quel che aveva appresso, dicendo:—Avete inteso voi quel detto?— Quell'altro si togliea spasso con esso, e gli diceva all'opposto in effetto, donde Terigi dava una risposta da far scoppiar dalle risa ogni costa.
59
Tratto fuor da' raggiri del negozio delle gabelle, dov'era molto atto, che non guardava al nimico o al sozio, quando faceva qualche suo contratto; del resto e' si potea lasciare in ozio o con le genti dozzinali affatto. Or con bel scorcio e con sue sciocche risa se n'era andato a visitar Marfisa.
60
E le disse:—Illustrissima signora, lei s'è degnata di mia povertade. Sappia ch'io l'amo e che non veggo l'ora d'esser marito della sua beltade.— Un sterminato rubin trasse fuora, dicendo:—Questo è della sua bontade, e vorrei che valesse mille mondi.— Poscia le pianta in viso gli occhi tondi.
61
E con un certo risolin scipito stava attendendo un bel ringraziamento, dando qualche occhiatella al suo vestito e diguazzando i manichini al vento. Marfisa conosceva quel marito da molto tempo, i modi e il pensamento; e perch'ella era bizzarra e cortese, in questa forma rispose al marchese:
62
—Io vi ringrazio, e sposo mi sarete.
Che si de' far? maritarsi conviene.
Frattanto, o caro, vi contenterete
ch'io rida un po', ché da rider mi viene.
I' so che a male non lo prenderete.—
E cominciava a rider molto bene;
e pur lo guarda, e ride, ride, e il guarda.
Terigi ride anch'esso a quella giarda.
63
Perocché gli sembrava gran fortuna la sposa sua sí allegra lo accettasse. Era Marfisa allor di buona luna: disse al marchese che s'accomodasse, e tra le sedie gliene additav'una ch'è la piú bassa tra le sedie basse. Terigi, dopo un nuovo e strano inchino, s'assise in quella, e pareva un bambino.
64
Non dimandar se ride la fanciulla. —Volete voi parlar di cose dotte —gli va dicendo—o di pappa o di culla, del tempo buono o di piogge dirotte? Avete voi necessitá di nulla? avete ben dormito questa notte? Marchese, è tutto vostro questo core: volete voi che ragioniam d'amore?—
65
Terigi ad ogni cosa rispondea:
—Grazie alla Vostra Signoria illustrissima;—
ed abbassava il capo e ripetea:
—Tutto quel ch'è in piacer vostro, illustrissima.—
A qualunque parola che dicea
Marfisa, ei non lasciava l'«illustrissima».
Le serve erano uscite dalla stanza,
ché non istan piú salde a quella danza.
66
E sghignazzavan dietro le portiere, quando sentieno «illustrissima» a dire. Marfisa ne traeva un gran piacere, né lascia molti patti a stabilire, dicendo:—Voi giá siete cavaliere, che delle usanze non voria stupire o de' serventi o del star fuor di notte, perocch'io non son nata nelle grotte.
67
Io vorrò correr le poste talora con chi mi piace, e voi non ci sarete. Qualche viaggio lungo farò ancora, e quando tornerò mi vederete. Ragioniam netto adesso per allora, ch'io non soffro ingrognati e vo' quiete. Un cavaliere, quando la sposa ama, non si scorda giammai ch'è nata dama.
68
Parean aspri a Terigi questi detti, ma dall'amore egli era sbalordito, e tanagliato da mille rispetti. Abbassa il capo col riso scipito, col collo torto e co' denti ristretti: sol rispondea:—Vi sarò buon marito: ogni cosa andrá bene, e fia bellissima, quand'ella fia piacer vostro, illustrissima.
69
Sappi, lettor, che Terigi al lasciarla sentí strapparsi il cor dalla corata. Impossibil gli par di meritarla. Con inchin parte, e sospira e la guata. A casa giunto, manda a regalarla di drappi da Lion per la vernata e per la state e per ogni stagione, velluti, merli e pelli, un milione.
70
Molt'altre dame eran spose a Parigi, e molte n'eran sposate di fresco al tempo di Marfisa e di Terigi, scrivon le storie, dalle quai non esco. I paladini dietro a' lor vestigi, e tutto quanto il popolo francesco andava a contemplarle mascherate, ch'ivano in piazza a far le passeggiate.
71
Nota, lettor, se Dio ti faccia sano, come le usanze fanno i cambiamenti. Oggi a Parigi terrien mal cristiano, uno che andasse in maschera, le genti: eppure al tempo del re Carlo Mano per irvi eran rabbiosi, impazienti tutti, e talvolta fino in qualche chiesa maschere si vedien senza contesa.
72
Un dí di carnoval era, e la pressa de' cavalieri e paladini è grande, per gir nella Ruet dopo la messa, ch'è una via in piazza, chiusa dalle bande da' sedili di paglia, ov'è il sol messa. Qui facean le sentenze memorande, al passar delle spose, dell'imbusto; de' drappi, delle anella e del buon gusto.
73
Non si può dir quanta fosse la cura nella Ruette a veder le comparse. La piazza è spaziosa oltremisura, ma ognun fra que' sedili vuol ficcarse. S'uno era spinto fuor della fissura, sforza la calca, perch'ivi vuol starse. Se inavvedutamente uno uscía fuore, gridava:—Oh ve', son fuor?—con gran stupore.
74
Spesso s'udia gridare:—Omè, il mio callo un m'ha piggiato, o Dio, veggo le stelle.— Un altro dire:—Olá, sei tu un cavallo? M'hai dato d'urto e rotte le mascelle.— Un altro:—E' mi fu tolto senza fallo; non ho piú l'orivuol nelle scarselle.— E mill'altre sventure e casi avversi, ma tutti alla Ruet dovean tenersi.
75
All'apparir di qualche sposa nuova, come al zimbel si calan gli uccellini, un torrente di popolo, una piova correva, ed eran capi i paladini. Ad un l'abito piace, un non l'approva, o il guernimento o il merlo o gli ermellini. Sul color non moderno molti l'hanno; grand'argomenti e gran dispute fanno.
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Avino, Avolio, Ottone e Berlinghieri eran giudicator di prima istanza; gli appelli de' perdenti cavalieri Astolfo decideva per usanza; e conveniva ceder volentieri, ché l'opporsi ad Astolfo era increanza. Di color, di buon gusti e guernizioni, fu il duca delle buone opinioni.
77
A tutte l'altre spose nel vestire quel di Marfisa diede scaccorocco; e il portar della maschera e il gestire, tutto diceva ai cor:—Guarda, ch'io scocco.— Si rise sol, veggendo comparire Terigi che pareva un anitrocco; e benché avesse addosso un gran tesoro, non sapeva portarlo con decoro.
78
Mentre per la Ruet scorre il torrente, è capitato un cocchio sulla piazza, ch'avea dentro un garzon molto avvenente: del resto non si dá cosa piú pazza. Un caval magro, adagio, sonnolente tira da un lato e si ferma e scacazza; dall'altra parte il tiratoio tirava uno staffiere, e sudava ed ansava.
79
Sozzopra è la Ruet. Tutte le genti corrono a contemplar sí nuova cosa. I paladin, le dame ed i serventi alla carrozza van maravigliosa, la qual nel mezzo a tanti occhi veggenti alla magion di Gano fece posa, ed iscese da quella il cavaliere, di cui per ora il nome vo' tacere.
Un amor forte la bizzarra prende di Filinor. Terigi si dispera; pur fa grand'apparecchio, e spande e spende per ricrear la sua sposa una sera, Alla ricreazion schiere tremende giungon, e fassi descrizion sincera di dame e cavalier. Non vien l'infida; Terigi piange, e il cappellan lo sgrida.
1
Io non son di natura curioso; pur, quando sento ruote e la scuriada, m'affaccio alla finestra furioso e vo' veder chi passa per la strada. Però non istupisco, e son pietoso che il popol di Parigi in folla vada a veder la carrozza che ho narrata: io sarei stato capo di brigata.
2
Non sempre e in ogni loco curiosa soffro la gente molto volentieri, e, verbigrazia, a un'opera fecciosa che corra e spenda e gridi e si disperi. Questa curiositade è perniziosa, io dico, e di cervei troppo leggeri. Quella carrozza era una cosa bella e rara, e in piazza, e si dovea vedella.
3
Il cavalier, che da quella è schizzato, era quel Filinoro di Guascogna. Perché da un sol rozzon fosse tirato e dal staffiere, dirvi or mi bisogna. In una pozza se gli era affogato il caval terzo e rimasto carogna, ed era presso a Parigi un trar d'arco, donde non volle rimanersi al varco.
4
Perocch'egli è un fanciul soggiogatore d'ogni riguardo e alle vergogne avvezzo: —Dalla cittá non de' rimaner fuore —disse—quest'equipaggio mio, da sezzo;— e pose al tiratoio il servitore dall'altra parte senz'alcun ribrezzo. Lasciando nella pozza il caval morto, ridusse alfin la navicella in porto.
5
Alcun di nuove fogge dilettante dicea:—Questa debb'esser moda nuova: da una parte il caval, dall'altra il fante! Certo il buon gusto qui sotto ci cova.— Alcun ardito chiede al cavalcante: —Che fate dello sprone e che vi giova? Spronate voi per fianco quella rozza, o spronate voi stesso o la carrozza?—
6
Il servo ansante di sudor grondava: avea ben altro in mente che rispondere. La gente sempre accorreva e inondava: parea ch'ella volesse il ciel sconfondere. Filinor lo staffiere confortava, dicendogli:—Su via, non ti confondere, sciogli i forzieri;—e diceva alle genti: —Or bene: io son colui dagli accidenti.
7
Le sventure, signor, sempre son pronte. Che maraviglie! Ringraziate Dio ch'elle non vi son tocche. In piano e in monte e in mar siam mal sicuri, al parer mio.— S'innalzava Marfisa con la fronte per veder la cagion del mormorio, e sulle punte dei piedi si rizza, ma invan s'affanna e alfin le venne stizza.
8
E vòlta a' cavalier che la servieno, ed a Terigi che sembra un barlotto, comincia a dir che tutti le parieno cavalier da bagasce e da biscotto. —Vedete—ella dicea—che m'avveleno per star di sopra, e mi lasciate sotto, né veder posso. Ogni pitocco e tristo avrá veduto, ed io non avrò visto.
9
Fatevi innanzi, allargate la strada! S'apra la folla, cavalier poltroni! Chi non sa servir dama se ne vada: io vi smaschererei co' mostaccioni.— Disse Terigi:—Io non ho qui la spada;— ma gli altri cavalier, come leoni, cominciano co' gombiti e co' fianchi a sospinger la folla arditi e franchi.
10
Piú di tutti alle spinte acquista fama don Guottibuossi, che è qui mascherato, e grida:—Largo, amici, a questa dama!— e apre l'onda e gran fesso ha formato. Marfisa aiuta anch'essa quella trama, e spinge quanto un uomo disperato, tanto che giunse in mezzo al cerchio stretto, e rassettossi poi qualche merletto.
11
E si fece vicino a Filinoro, ch'era un de' piú bei putti che sien visti. Lasciamo i capei lunghi a fila d'oro, la grana e il latte sulle guance misti. Avea negli occhi e ne' gesti un decoro da vincer tutti i fanciulli alchimisti. Vide Marfisa e fece il stupefatto, facendo un paio d'inchin moderni affatto.
12
Fu quasi vinta a quel colpo Marfisa, e si trasse la maschera dal volto, asciugando il sudor di ch'ella è intrisa, con una leggiadria che piacque molto. Poi disse:—Cavalier, come, in qual guisa siete a Parigi in questo modo còlto?— Rispose il cavalier:—Dama cortese, l'uom che viaggia impara alle sue spese.
13
Io vengo di Guascogna, e in compagnia quattro staffieri aveva ed il cocchiere, il cavalcante e due lacchè per via, sei corsier sauri con le chiome nere, ed equipaggio quanto convenia. Giá queste mura ero giunto a vedere; quando d'un bosco venti mascalzoni usciro armati d'accette e spuntoni.
14
Per prima cosa uccisero i destrieri, perché non si potesse via fuggire. I lacchè si difesero e i staffieri; chi non fuggí dovette alfin morire. Guizzai dal cocchio a guardia de' forzieri, e cominciai con la spada a ferire; dieci n'uccisi, e il resto impauriti per timore o fortuna son fuggiti.
15
Lo staffier sol rimase che vedete, e d'un altro staffiere il caval stracco. Dissi:—Dall'una parte tirerete; questo rozzon dall'altra, ch'io v'attacco.— E giunsi qui come veder potete, che ancor mi fo la croce per quel fiacco.— Lo staffier stava fuor della memoria e trasognato a udir sí bella storia.
16
Filinor di soppiatto l'occhiolino fece al staffier ed ei l'intese tosto. L'altro segue il racconto del cammino, che un'altra baia nuova avea disposto. Disse:—Sol mi rincresce un valigino, che tenni pel viaggio sempre accosto, con trentamila zecchin d'òr forbiti; non m'avvedendo al fatto, addio, son iti.
17
Ed un portamantello io vedo ancora, dove aveva alcun abito decente (siccome un onest'uom di casa fuora suol portar seco, andando a nuova gente); e se n'è andato anch'esso alla malora, con un brillante a cui non posi mente, che m'è schizzato fuori dalle mani nel combatter ch'io feci con que' cani.—
18
Molti del cerchio, udendo queste cose, dicean basso:—È ben ver ch'egli è guascone.— Altri, a' quai sembrar vero tutto suole, tiravan gli occhi e avevan compassione. Ma perché allora s'usavan parole e fatti pochi per consolazione, fuor che un commiserar di que' commossi, a Filinor non s'offerser due grossi.
19
Marfisa altro non volle ad esser vinta che bellezza nel putto e le avventure. Veder gli parve una storia dipinta di Marco romanzier nelle scritture. Compianse i casi e die' piú d'una spinta, perch'ospite suo fosse, e isforza pure; ma Filinor, baciandole la mano, disse ch'ospite andava al conte Gano.
20
—Invidio a Gano un commensal gentile
—disse Marfisa—come siete voi.—
Rispose l'altro con atto civile:
—Questa invidia è invidiabile fra noi.—
Soggiunse l'altra:—A Parigi c'è stile
delle conversazion: vedremci poi.—
—S'ubbidiscon—dicea l'altro—le dame.—
Terigi udiva e sol diceva:—Ho fame.
21
Mezzogiorno è suonato di due ore, la maschera m'affanna e infastidisce.— E poscia l'orivol metteva fuore, dicendo:—Questa vita non gradisce.— Marfisa rispondeva:—Mio signore, dove tengono il tosco, io so, le bisce; però non cominciate a fare il matto, ch'io so come si lacera un contratto.
22
Non mi diceste un giorno:—A me fia grato tutto quel ch'è piacer vostro, illustrissima?— Terigi, tra balordo e disperato, fece una riverenza profondissima. Rise Marfisa e sul viso gli ha dato con il ventaglio, ch'era leggiadrissima; e finalmente ognuno a pranzo andava. In casa a Gano Filinoro entrava.
23
Vide a piè della scala Gan teneva, come un gigante, un crocifisso Cristo. Nel girar della scala che faceva, eccoti innanzi un altro Gesú Cristo. Nella sala maggior entra, e vedeva la Via crucis. Per tutto c'è Cristo. Filinor, ch'è golpon, tosto s'avvede di qual umor sia Gano e di qual fede.
24
Si trae il cappello e con la testa bassa mette un ginocchio a terra e fa la croce; ad ogni passo si segna e s'abbassa, borbogliando orazion con umil voce. Ecco Gan da Pontier che di lá passa: Filinor non si move piú veloce, ma torce il collo e si picchia e sospira; poi, quando gli par tempo, a Gan s'aggira.
25
E gli fa riverenza, e poi gli ha data la lettera che a lui lo raccomanda. Gan lo saluta e, la lettra sbollata, vide per Filinor ciò che dimanda. E disse:—Cavalier, vi sia donata quant'assistenza io posso in questa banda, e ben la meritate al parer mio, ché mi sembraste col timor di Dio.
26
Chi in quel s'affida non può dubitare. La coscienza netta è un gran conforto. Io passai casi atroci, cose rare, e mille volte dovevo esser morto. Alle calunnie ed al perseguitare io rispondeva sol:—Netto è quest'orto.— La coscienza netta ed il timore ch'ebbi sempre di Dio m'han tratto fuore.
27
Ma andiamo a pranzo omai, né vi crediate queste parole abbia dette in mia lode. Troppo son peccatore e ho meritate l'arme di Dio, che tutto vede ed ode.— Qui andaron al tinel, dove parate son le vivande, ed altro ch'uova sode! Pasticci si vedean, marmite piene, zuppe, salvaticine ed ogni bene.
28
Qui stava Berta dal gran piè, consorte del conte Gano ne' secondi voti; Baldovin figlio, e della nera sorte due frati grassi, in cèra assai devoti, che facevan crocioni in sulle torte. Giunto Gano, lettor, convien che noti ch'ei volle a' frati levare il mantello, dicendo che indulgenza era a far quello.
29
Poi, detto il Benedicite in tuon basso, cominciasi a mangiare alla papale. Diceva Gano a Berta a questo passo: —Avete voi spedite allo spedale quelle camicie rotte, e broda in chiasso a' pover di contrada, che stan male?— Ed anche quella carne che putia —diceva Berta—ho data in cortesia.
30
Diceano i frati inarcando le ciglia: —Oh pietá benedetta!—e rastrellavano. —Sempre sará di Dio questa famiglia e prosperata sempre;—e trangugiavano. —Dammi ber—dicea Gano,—e il bicchier piglia di scopulo che i servi gli recavano: —Pel dí—dicendo—dell'eterne chiostre: alla salute dell'anime nostre.
31
—Viva l'anima nostra—ognun dicea. —Datemi ber, l'anima nostra viva.— Si mangiava e scuffiava e si bevea con una divozion contemplativa. Filinor dissoluto i cor leggea, e s'adattava al caso ed istupiva; ma gli occhi ha chini e sta sí rattenuto, che piú santo degli altri fu creduto.
32
Baldovino era un fanciullaccio rotto, ma seguiva il costume di soppiatto, ché in casa a Gan bisognava esser dotto e far le iniquitá chete per patto. Poco mangiava a desco e stava chiotto, e va sonniferando tratto tratto. La notte tutta alle puttane er'ito, tornato a giorno e poco avea dormito.
33
Berta, che lo tenea per suo mignone ed era tenerissima del putto: —C'hai tu?—dicea—mi fai compassione: oggi tu mi se' tristo e spunto e brutto.— Rispondea l'altro:—Ho un po' d'indigestione; stanotte io discorrei pel letto tutto, smaniai, sudai; se feci un sonnellino, sempre sognai col defunto Angelino.
34
E' mi parea vederlo ogni momento che seco m'invitasse in paradiso. —Taci lá, pazzerel; ch'è quel ch'io sento?— diceva Berta e lo guardava fiso. Gan soggiungea:—Quand'io sogno un uom spento, segno è dal mio dover mi son diviso; se De profundis non gli ho detti, ho il torto quand'io mi lagno di sognare un morto.
35
—Certo—diceano e' frati,—a sogni tali i De profundis sono un gran rimedio; ma rimedi sicuri e principali sono le messe a levarci d'assedio. —Lasciam questi discorsi, o commensali —diceva Gano;—abbiate un po' di tedio: per questo forestiere di Guascogna, a me commesso, consigliar bisogna.
36
Egli è d'illustre casa e stirpe antica, giovane e timorato del Signore. Ebbe la sorte a' giorni suoi nimica: chi ben vive sempre ha persecutore. Venuto è qui per ritrovarla amica, avere incarco e viver con onore, raccomandato alla mia debolezza, che, qual è, sempre a ristorar fu avvezza.
37
Angelin di Bordea, ch'era custode
del sigillo reale, è al ciel salito.
Chi può aver quell'incarco, molto gode.
Il parlamento de' porlo a partito.
Io non so con qual arte, inganno o frode,
Angelin di Bellanda è fuor uscito,
s'è dato in nota, non ha concorrenza.
De' far Filinor nostro esperienza.
38
Chiedon certe persone i boccon grassi con una sicumera ed una esordia, che sembra in barbagrazia a' capi bassi debban ire i votanti di concordia. L'incarco avuto, l'util va ne' spassi: mai fanno un'opra di misericordia. Per coscienza intendo Filinoro dia concorrenza a questo barbassoro.
39
Tenterem, vederemo; a Carlo Mano
vo' ragionare; ho degli amici anch'io.
Possibil che disutile sia Gano!
Voi, Filinor, pregate intanto Iddio.—
Qui Filinor gli baciava la mano.
S'offerser tutti a questo lavorio.
Il pranzo era finito e, detto pria
l'Agimus tibi gratia, ognun partia.
40
Correan ventitré ore o poco meno. Particolar invito era a Parigi d'una conversazion famosa appieno, che dava in casa il marchese Terigi alla sua sposa dal viso sereno; e aveva detto a don Gualtier:—Dirigi tu la faccenda, e fa' che nulla manchi perché non mi dileggin questi franchi.—
41
Io so, lettor, negli antichi poemi talor goduto avrai qualche rassegna, e letto: «Il tal passava, e par che tremi il terren sotto alla schiera, all'insegna; e il tal monarca da' paesi estremi veniva dopo con sua gente degna, armata di panziere o cuoio cotto e con mazze ferrate e il giaco sotto».
42
Ma s'erano cambiati i paladini, eran le lor rassegne anche mutate, se i novelli costumi e i libriccini d'altra sorta battaglie avean formate. L'armature eran vaghi manichini, brache alle cosce, tirate, attillate, e d'un taglio mirabil vestimenti, di velluto a giardino o guarnimenti.
43
Campi delle battaglie eran ridotti casin, teatri e botteghe e saloni. Armi da offesa, danar ne' borsotti, carte da giuoco e finti paroloni, teneri bigliettin, sospir dirotti; e le cittá da far l'espugnazioni, i ben de' troppo schiocchi o troppo arditi, e le moglier de' poveri mariti.
44
Erano le rassegne come questa ch'or dirò, dalle antiche differente. Giá la ricreazione aveva presta don Gualtier, mansionario diligente; posta in ordin di torcie una tempesta, e ciocche di cristallo risplendente, non dico del Briati, che non c'era, ma di Buemmia, cariche di cera.
45
Tavolin, ghiridoni, tavolieri e carte e sbaraglin per tutto sono, sedie co' lor piumacci ed origlieri d'oro, ch'ognuna valea quanto un trono. Piú candelotti con piú candelieri v'erano che in Assisi pel perdono; staffieri e cappenere una gran banda: don Gualtieri è per tutto che comanda.
46
Terigi era cambiato di vestito, se il primo fu d'argento, questo è d'oro; tanta ricchezza ha intorno, è sí pulito, che pareva quel giorno il bucentoro; e sta sull'ale mezzo sbalordito cosí grassotto e rosso, e di pel foro, per ire ad accettare e a far gli onori sino alla scala a' suoi visitatori
47
Con le man dietro passeggia, e pur chiede agli staffier, che sono alla vedetta, se comparir nessuno ancor si vede; poi ripasseggia come un'anitretta. S'affaccia a un specchio, spinge innanzi un piede, e fa un inchin, poi lo raddoppia in fretta, poi lo riprova infin ch'è persuaso: sceglie il miglior per comparire al caso.
48
Talor la man sinistra al fesso mette del giubberello, e spinge il quarto in fuori, perch'era tempestato di stellette e fiorellin che mandava splendori. In mille scorci par ch'e' si rassette, tal che rideano insino a' servitori, e talor per ischerno alcun lo chiama, dicendo:—E' par che capiti una dama.
49
Illustrissimo, certo ella vien via.— Presto Terigi alla scala correa. Colui diceva:—Ha preso un'altra via. Perdio! che qui venisse mi parea;— poi gli facea le fiche dietrovia. Non dimandar se la ciurma ridea, perocché fino i servi erano iniqui allora e riformati dagli antiqui.
50
I primi alla rassegna erano giunti certi cagnotti parigin diserti, ch'aveano in cento vizi i ben consunti; e van per case, e gli occhi han ben aperti, per condannar gli addobbi e tutti i punti dell'apparecchio, e per farsi ben certi che ci fosse abbondanza di confetti, di caffè, cioccolato e di sorbetti.
51
Il marchese Terigi a que' fa vezzi, perché l'ignobiltá cerca aderenze; far gli faceva di rinfreschi mezzi, per turar ne' lor sen le maldicenze. Ma converrá che alfin si scandalezzi, o ch'egli abbia duemila pazienze; ché tutte le finezze fien mal spese, e rideranno a lungo del marchese.
52
Ecco una dama con belletto e nèi, di settant'anni. Aveva ancora in bocca sei denti, e d'uno forse errar potrei: moglier di Sinibaldo dalla Rocca. Terigi è pronto, e quattro e cinque e sei e sette riverenze le raccocca; la dama gli diceva questo solo: —Marchese, son qui putti col vaiuolo?—
53
Terigi le rispose:—Non, signora; ma perché mai mi domandate questo?— Disse la dama:—Io non l'ho avuto ancora, ed il pigliarlomi saria molesto, perocché il meglio alle fattezze isfiora, oltre che mi potrebbe esser funesto.— Disse il marchese:—Non, in fede mia.— La dama co' serventi passa via.
54
Un gran rumor venía su per la scala, un ridacchiar femminile e maschile. Terigi sta come terzuol sull'ala, e si diguazza a comparir gentile. Ecco un drappello giunto nella sala, di dame e cavalieri, signorile. La prima, che il saluta alla sfranciosa, era una dama guercia spiritosa.
55
La seconda era piccola e ben fatta; la terza grande e grossa e gigantesca; la quarta è bella e sembra alquanto astratta, ma gli occhi l'appalesano furbesca; la quinta alcun diria che fosse matta, ed era la cagion di quella tresca, del sghignazzar che prima si facea, perché ciò che dicesse non sapea,
56
e sempre ragionava alla distesa, non guardando piú al nero che al turchino. Talor dir cosa santa aveva intesa, ch'era un'oscenitá da malandrino. L'altre ridean quand'ell'era discesa, buffoneggiando Avolio paladino, ch'era servente a lei, siccome intendo, e lo commiseravano ridendo.
57
Gli altri serventi delle quattro prime, per fare alle servite cosa grata, faceano anch'essi un sghignazzar sublime. Avolio è furbo e accresce la chiassata, dicendo sol:—De' gusti non s'estime buon giudice nessun della brigata;— e baciava la mano alla sua dama, che nulla s'accorgeva della trama.
58
Fan con Terigi alcuni convenevoli, passando poscia al campo di battaglia, sempre ridenti, ironici e scherzevoli con Avolio, il qual nulla si travaglia. Giunsero poi due dame cagionevoli, che avean le guance color della paglia; l'una ha gran naso, e l'altra l'ha schiacciato, e nondimeno hanno serventi a lato.
59
E dicendo al marchese:—Altri che voi, non ci avrien fatte uscire oggi di casa,— nel marziale agone andaron poi l'una col naso e l'altra con la nasa. Terigi alla risposta era infraddoi, e alfin chiusa la bocca gli è rimasa, ché non gli era venuto un complimento da fare a quelle un bel ringraziamento.
60
Un risolino e un abbassar di testa per quella volta esser dové bastante. Dopo re Salomon si manifesta, che pareva uno stinco di gigante, con una dama giovinetta e mesta, la qual dovea tenerlo per giostrante, perché lo sposo non vuol per niente, fuor che il re Salomone, altro servente.
61
Ughetto di Dordona era il consorte, del costume novel non ben suaso; ma perch'egli era pure un uom di corte, il vecchio e il nuovo temperava al caso. —S'usa il servente; e bene, abbi la Morte,— disse alla moglie un dí, torcendo il naso: e certo ad ogni passo Salomone sputa catarro ed anima e polmone.
62
Un «oh!» s'udí nella sala all'arrivo di Salomon, che il palagio rimbomba, perocché a far le scale semivivo era rimasto, e sfiata con la tromba. La dama vergognosa il viso schivo teneva e basso.—Povera colomba!— dicean le genti burlone. Ella passa, e non bada al marchese che s'abbassa.
63
Berlinghier la seguiva da lontano. È senza dama il gentil Berlinghieri; ma si vedea che non l'aveva sano il core, e si leggeano i suoi pensieri; ché va fiutando un gherofan c'ha in mano, mostrando custodirlo volentieri, tanto che s'apponea piú d'un francese del giardin di quel fiore e del paese.
64
Veniva Otton la reina de' sardi servendo poscia, ed ella è in gran furore, e lo sgridava ch'era giunto tardi, ché s'avvedeva ch'ei cambiava core. —Se per altra—diceva—nel sen ardi, dillo per tempo, cane, traditore.— Otton si scusa, ma non istá salda quella reina di natura calda.
65
La contessa d'Olanda è dietro a lei. L'aveva udita e le disse:—Regina, trattate com'io fo i serventi miei. Non fate lor mai prego né moina: se vengon, bene, io gli saluterei; se no, non darei foco alla fucina, perocché a mostrar lor zolfo e premura, e' se la prendon poi senza misura.
66
Quel buona lana Ansuigi attendeva: era alle ventitré l'appuntamento; scoccaron l'ore e mai non si vedeva. Questo petroccol m'ha recato il vento, ed io, senz'altro dir, feci alto leva, ché d'ogni po' di gruccia io mi contento.— Aveva la contessa un prete a lato, che pareva un orsaccio mascherato.
67
Fanno i lor convenevol col marchese le dame, i cavalieri e quell'abate, del qual si rise, ed era d'un paese dove soffronsi in pace le risate. Passarono alle offese e alle difese; poscia dentro alle camere parate. Terigi a non veder Marfisa langue. In questo giungon due dame del sangue.
68
A veder queste due giugnere unite, fu nel palagio universal stupore. Per cagion mille tra nascoste e trite star doveano disgiunte ed in livore. Una di quelle delle piú scaltrite era la schiuma, il puro estratto, il fiore; l'altra ha un cervello da Dio benedetto, che per poco scacciava ogni sospetto.
69
L'astuta è morta, cotta, innamorata di quella dal buon core nel servente; ma dovea star la tresca mascherata per cose ch'io non dico per niente: donde fingeva far la spasimata. E l'amica, dell'altra diligente, lungi da lei dicea che s'abbruciava: ad ogni passo un bacio le accoccava.
70
—Dove anderete voi—dicea—dimani? al passeggio, al teatro od alla corte? Se voi andaste fra lupi e fra cani, quand'io non son con voi, son colle morte.— Poscia volgeva gli occhiolin marrani al cavaliere e lo saetta forte. Parea che gli dicesse a questo passo: —Vedi, per te, cagnaccio, a che m'abbasso!—
71
La buona rispondea:—Concluderemo; io vi ringrazio dell'amor cordiale; come e dove a voi piace, andar potremo.— Dicendo questo, avean fatte le scale. Terigi va inarcandosi all'estremo. Un de' serventi, altero e liberale, sí gli strinse una guancia con due dita, che fu il marchese per gridare:—Aita!—
72
Venne Giulia di Scozia, poetessa, incolta con un po' d'affettazione. Un codazzo di abati avea con essa, pieni di adulazione e soggezione. Portava una sua cuffia da dimessa, guardava ognuno come in astrazione; ma spicca al marchesino un complimento, che lo fa ammutolir di stordimento.
73
Claudia, filosofessa di Bretagna, scrignuta, nera e maghera venía, che della moltitudine si lagna e quel concorso intitola «follia». —Beata—vien dicendo—la campagna!— con un gobbo signor che la servia. Loda la solitudine, arrabbiata, perché la moltitudin non la guata.
74
Ermenegilda Galega è venuta, orrida, nera, sperticata e lunga, zoppa dal manco piè, sicché saluta tutti alla parte manca, ov'ella giunga. Né si de' creder ch'ella venga muta, per storpio od orridezza che la punga, perch'è un'indiavolata di Galizia, piena di foco, d'arte e di malizia.
75
Aveva seco quindici serventi, tutti gelosi di sí bella rosa. Ermenegilda ride ed alle genti dice:—Mirate cosa portentosa! Costor son tutti innamorati spenti di questa sfinge zoppa e mostruosa.— Un tal disprezzo franco di se stessa le faceva d'amanti quella pressa.
76
Era giunta Ermellina senza gale, grassotta, allegra, semplice e sincera; e col marito Aldabella morale, con l'occhio in guardia, ruvida e severa. L'antica imperatrice, ancor gioviale, è quivi giunta ad onorar la sera, ma in figura privata col danese. Non dimandar se inchini fa il marchese.
77
Da Montalban non veniva Clarice, ché Rinaldo le gioie le ha impegnate, e le andrienne ad una cantatrice ha date in don, le cuffie e le cascate. Per la ricreazion questo si dice dalle signore afflitte e addolorate; ma lo diceano tanto allegramente che dell'angoscia lor parean contente.
78
Apparve Conegonda borgognona, per il cambiar de' serventi famosa, alta, diritta, di bella persona, ch'è del buon gusto suo molto orgogliosa. Quattr'ore prima che suonasse nona, incominciata ha l'opra portentosa dell'acconciar del capo e del vestire, per far le convitate sbigottire.
79
Vien col capo crollante ed ondeggiante, con una guardatura dolce e grave, e una veste ricchissima e galante, che nel portarla è delle donne brave. Astolfo è suo, mastro d'ogni amante, dottissimo ammiraglio a quella nave, ed era stato consiglier tre ore a porle in sul toppé di gemme un fiore.
80
Parea la patriarchessa delle donne. Il drappel de' feriti in fila abbonda, ch'è un alfabeto quasi fino al conne, dopo d'Astolfo dietro a Conegonda. Non è da dir se quell'altre madonne fan rigoletti, union, bisbiglio ed onda: volean partire unite come un fiume, in sul pretesto del suo mal costume.
81
Il marchese Terigi è disperato, spalanca gli occhi tondi e parla e prega. Astolfo è un matto assai considerato; fa il sordo, ghigna e per nulla si piega. Dodon, che de' costumi è giá informato, piglia i mariti e gran ragione allega, dicendo:—Le consorti abbian giudizio: non è piú tempo di fuggire il vizio.
82
Invidia solo è quella che le irrita: è troppo bella Conegonda e adorna. Fará dell'altre un comento alla vita: se fuggon, conto a voi punto non torna. Conegonda ha eloquenza ed è gradita: saprá scoprire a voi tante di corna.— I mariti son pallidi, e tremando a' serventi si van raccomandando.
83
Furon alfin le furie racchetate. Turpino questo per miracol nota. Seguon frattanto a giugner le brigate, come lamprede ch'escon dalla mota. Terigi ha l'anche e le tempie sudate. A me gira il cervel come una ruota, ché la rassegna è a torme ed a torrenti di dame, cavalieri e di serventi.
84
Molte vecchie decrepite lisciate, che aveano un arzanal di gale e fiori, le sale di Terigi han profumate d'un misto di cattivi e buoni odori; e perché son ricchissime d'entrate, han per serventi ragazzi signori, che avean scarse mesate da' lor padri, pur hanno gemme ed abiti leggiadri.
85
La maldicenza sopra a quelle vecchie e sopra que' ragazzi corredati faceva un mormorio come di pecchie, infamando que' finti spasimati; ma la satira giusta nelle orecchie, in quel secol di franchi illuminati, faceva quell'effetto che faria lo sputar passeggiando per la via.
86
V'eran uomini seri alla sembianza, degl'inglesi affettati imitatori, che passeggiando duri in ogni stanza, da filosofi muti osservatori, studian dir pochi motti e di sostanza, per comparir profondi pensatori; ma il miglior de' lor detti dir potevi che consista nell'esser pochi e brevi.
87
V'erano viaggiatori italiani, illustri cavalier ne' lor paesi, con ricche vesti e anella sulle mani, derisi assai da' paladin francesi, perch'erano, diceano, grossolani, superstiziosi e non ben atei resi, che le chiese ed i riti rispettavano e il venerdí capponi non mangiavano.
88
Erano giovinastri appena usciti dalle riforme e da' licei novelli, che a' sensati sembravano storditi nelle lor controversie e parallelli. Strillavano argomenti non piú uditi, con un vero martirio a' lor cervelli, impuntigliati a riedificare il modo di pensare e giudicare.
89
Perché erano stati stimolati da' precettor del novello oriente a dare un calcio agli scrittori andati, a scrivere e pensar diversamente, a scagliarsi nell'aria spiritati, nuove idee divorando nella mente, ché ingoiando di quelle, ognor sull'ali, divenian dotti e stelle originali.
90
Donde quegl'invasati, andando in traccia d'idee per l'aria e immagini novelle, sperando nuove idee pigliare a caccia, prendean farfalle in iscambio di quelle; e poscia, disputando rossi in faccia per comparire originali stelle, credendo argomentare e dir ragioni, sputavan farfallette e farfalloni.
91
Tuttavia sostenean che il pensar loro era un astratto di geometria; che degli antichi dettami il lavoro erano pregiudizi e scioccheria. Se si opponeva alcun del concistoro, si dicevan l'un l'altro:—Andiamo via, ché le nostre scoperte e il nostro ingegno non han che far colle teste di legno.—
92
Poi schiamazzando andavan per le sale, criticando ricamo e acconciature, e vomitando il lor genio carnale per le dame piú belle creature. —Se aver potessi—dicevan—la tale… —Cara colei… vorrei…—mille sozzure; ch'era infin lor legittima scienza leggerezza e brutal concupiscenza.
93
Cert'inni infami d'uno stile impuro, che tenean per sublimi e lor diletti, a Venere, a Priápo, ad Epicuro; certe lorde canzon, certi sonetti da far entrare in succhio un tronco, un muro, recitavan que' dotti giovinetti; e le spregiudicate in ratto e in gloria studiavan appararli alla memoria.
94
Tebaldo, cavaliere di Provenza, c'ha per entrata il titol di marchese, ridotto industre dalla sua indigenza, serviva dieci dame del paese, ed era condottiere in diligenza di tutte per un scudo l'una al mese. Accordava con esse i punti e l'ore, per esser puntual con le signore.
95
Aveano i punti e l'ore stabiliti l'un dall'altro uno spazio conveniente, perché Tebaldo er'uomo de' puliti, né trasgredisce al patto di servente. Giá i suoi dieci viaggi avea finiti, condotte le servite diligente; ma, pel correr qua e lá, giú per il mento gli grondava il sudor sul pavimento.
96
Buon per lui che giravano staffieri con cioccolata della piú squisita, e biscottelli rossi, verdi e neri, da ristorargli l'anima sfinita. Con lodi sterminate a' credenzieri, il buon Tebaldo esercita le dita, né lascia le saccocce inoperose, per fare il liberal colle virtuose.
97
Ardemia, nel buon gusto raffinata, massime nel dar bella educazione, una sua figlia avea seco menata per far stupire la ricreazione. Quella agli ott'anni appena era arrivata, ma a sé fa volger tutte le persone, perc'ha un vestito di mirabil taglio: fa risolini e scherzi col ventaglio.
98
La madre precettori le ha tenuti: una quondam leggiadra danzatrice; un mastro di cappella, che la aiuti a imparar ciò che lice e che non lice, e a far svenire i maschi sugli acuti e in sui bemolli a un passaggio felice; ed un maestro di lingue straniere, perch'ella fosse un'arca di sapere.
99
Fa passi misurati e pettoruta cinguetta a chi dianzi se le para: con occhio seduttore ognun saluta, quella moral seguendo ch'ella impara. Di ott'anni è civettina divenuta: si udia suonar per tutto:—Oh cara! oh cara!— onde Ardemia si gonfia e va superba della sua figliuoletta Frine in erba.
100
Giunsero dei visetti femminini tardi, senza serventi né mariti, benedetti dicendo i libriccini che i pregiudizi hanno da noi sbanditi. Eran donne con passi mascolini, che gli antichi riguardi avean smarriti: venian sole, ma fiacche e riscaldate; il diavolo sapea dov'eran state.
101
Eran le stanze tutte quante piene: piú non sapea Terigi dove attendere: per gl'inchin riscaldate avea le rene, e non ha piú ceremonie da spendere. In gran faccende è don Gualtier dabbene, che avea le cere tutte fatte accendere; ed è per tutto, e grida che si smoccoli e si raccolga il gocciolar de' moccoli.
102
Era una bella cosa il cappellano, in cappel largo ed in veste talare, che venía, de' staffieri capitano, le tazze de' gelati accompagnare; e va diritto gridando:—Fa' piano, ché tu potresti il vassoio versare. S'io non ci fossi, credo che fareste i gran marroni: oh che teste! oh che teste!—
103
Giá le moderne zuffe incominciavano, i duelli, i terzetti ed i quartetti, ed in quinto ancora battaglie appiccavano. Tristi a que' che al schermir sono scorretti; ché all'«ombre», alle «concine», che fumavano, a' «trisette», a' «quintigli» ed «a' picchetti», si cambieran le lor borse in rigagni, ed averan rabbuffi da' compagni.
104
In ogni parte il conflitto bolliva de' giuochi delle carte e de' parlari. Il drappel che non giuoca intorno giva a sentir:—Coppe, bastoni e danari.— Parecchi stan di dietro a qualche diva, fingendo al giuoco i maestri o i scolari; ma veramente in primo scopo avieno, di scoprir qual avesse piú bel seno.
105
V'era Riccardo, il sir di Normandia, un nobil divenuto poveretto, che per venire alla funzione avia preso a prestanza il giubbetto e il farsetto. I paladin con poca cortesia lo trafiggean dell'esser meschinetto, tanto ch'egli era il bersaglio e il buffone di tutta quanta la conversazione.
106
Giovine Avino, acconcio ne' capelli, quanto mai riformato paladino, gía contemplando in uno specchio quelli, a se stesso facendo l'occhiolino. Con una mano il mento par s'abbelli: poi si volgeva a qualche suo vicino, dicendo in forma grave e spiritosa, —Ma! questa è quell'etá pericolosa.—
107
Angelin di Baiona era un cristiano dal vaiol roso, piccioletto e brutto, ch'iva girando con l'occhiale in mano, esaminando femmine per tutto; e con un modo sprezzante e villano dicea:—Quella ha il sen vizzo, quella asciutto; e sono vecchie tutte, al mio giudizio: potean starsene in casa a dir l'uffizio.—
108
Parea quell'Angelin turco di razza. —Quando una donna passa i ventidue —diceva a' paladin,—perdio ch'è pazza a porre a mostra le fattezze sue; e dovria ritirarsi dalla piazza, ch'ella recer mi fa, pel mio Gesue!— E non si ricordava, quel Baiona, ch'era vecchiotto ed orrida persona.
109
Ricciardetto avea seco. Apprezzato era questo tra le persone spiritose. Nelle virtú sue molte una n'ha vera; nessuno in quella a vincerlo si pose: che bestemmie inventava di maniera, diceasi, molto acute e graziose; poiché se Maria Vergin bestemmiava, col quondam Gioacchin la confermava.
110
Vedi se il mondo esser poteva giunto a peggior corruzion di quel che fosse. Quand'io leggo Turpin, divengo munto: scorremi un gel nel midollo per l'osse, a dir che un paladin dal battesmo unto sí le leggi di Cristo avesse scosse, e bilanciasser gli altri s'era giusto anche nelle bestemmie il lor buon gusto
111
Aveva bestemmiando Ricciardetto a quel Baiona detto un suo parere, cioè che, fatto il primo figliuoletto, erano vizze e mézze le mogliere. E una dama vantandosi avea detto in quel:—Mai feci figli—a un tavoliere. Non dimandar se il rider fuori scocca, perch'era quella da' sei denti in bocca.
112
Marco dal Pian di San Michel, poeta, era venuto, e all'apparir di quello, parve che fosse giunta la cometa, al gridar di parecchi:—Véllo, véllo.— Gli sono intorno a fare una dieta i paladin piú inclinati al bordello, perocché Marco da quelli è stimato un uom di mondo ed ispregiudicato.
113
Certe proposizion piantâr con esso (anche queste eran nuove e virtuose), mettendo in dubbio ed in ridicol spesso i gioghi santi delle sacre cose. Marco con qualche verso avea concesso ogni sfogo a quell'anime viziose; donde smuccian le risa, e l'hanno carco di plausi e intuonan:—Gran Marco! gran Marco!—
114
Anche Matteo, poeta suo nimico, era comparso ad adular le dame, per tener quanto puote il mondo amico al suo teatro comico di strame. Con grand'inchin va piegando il bellíco, baciando lembi e mani alle madame, e goffamente si studia e procura pingersi un uom di gran letteratura.
115
Far non avea potuto la raccolta, come dicemmo, e tanto avea seccato il marchese, che alfin pur fece còlta, ed una serenata avea formato, che, per farla cantare, aveva tolta Terigi quella sera a buon mercato: donde a Marco Matteo par esser sopra. Marco era quivi a criticar quell'opra.
116
La contessa d'Olanda avea veduto giunger quell'Ansuigi negligente; e benché prima ella avea mantenuto che non si de' badar nulla al servente, l'ha salutato con sí gran saluto e con occhio e con viso sí rovente, ch'ognun s'avvide non avea semenza della sua millantata indifferenza.
117
Dodone dalla mazza, detto «il santo», era venuto, e guardava ogni cosa stando a un tavolier solo da un canto, facendo vista di fiutar la rosa. Talor da sé si divertiva alquanto con un mazzo di carte che qui posa. Scartava, e allor che un undeci è apparito, l'univa, fin che il mazzo era finito.
118
Alcuni abati ed alcuni giuristi facean presso a lui disputazione sopra a' beni di Chiesa e agli acquisti che lascia a' frati chi in morte dispone; perocché a tutti i chierici e a' casisti ed a chi vive di contemplazione aveva il parlamento ordine dato di vendere ogni bene ereditato.
119
Parean gli abati tanti satanassi a sostener che ciò non si potea, e trovan testi, annotazioni e passi della legge cristiana e dell'ebrea, che tai decreti annullano e fan cassi. —Il ben di Chiesa—ogni abate dicea— è di iure divin, né può il mortale abolire una legge celestiale.—
120
Avean fatto a Dodon tanto di testa; sicché alla fine, a que' giuristi vòlto, disse:—Voi siete gente poco onesta. Cotesti abati, per quanto ho raccolto, hanno ragion patente, manifesta, ed han nel mezzo al vero punto còlto: son di iure divino i beni c'hanno; ve lo dice il buon uso che ne fanno.
121
I refettori, le taverne, i chiassi fanno testimonianze chiare e piane. Le mense de' cattolici papassi, e certe mantenute pie cristiane dicon qual uso saggio ed util fassi da' collar, da' cappucci, dalle lane, de' ben che sono di iure divino, per quanto scrisse il padre Magnolino.—
122
Fu dalle risa tronca la questione. Quegli abati Dodon miraron guercio, e si partiron con dimostrazione di non voler con atei commercio. Bolle in un canto la conversazione intorno al far rifiorire il commercio ed al rinvigorir agricolture, cogli esempi del Congo e le misure.
123
Le cose tutte andavano a pennello per l'attenzion del prete don Gualtieri, che in veste lunga e col suo gran cappello provvede agli orinali e a' candelieri. Finito avea di perdere il cervello quasi Terigi e par che si disperi; ch'ogni vecchia, ogni storpia in sala arriva, né sa se la Marfisa è morta o viva.
124
Ognun assalta, a ognun chiede, ognun secca, e vuol per forza che l'abbia veduta. Talor borbotta e batte l'anche, e pecca nel pensare al perché non sia venuta. Lacchè spedisce, e rintuzza, e rimbecca ch'ogni risposta è tarda e oscura suta, perché Rugger come un matto ha risposto: —Ella verrá, se Dio l'avrá disposto.—
125
Non è da dir se Terigi s'affanna. Con don Gualtier si chiudeva a consiglio. —Che di' tu, prete?—dicea sulla scranna. Risponde il prete:—Assai mi maraviglio. O ella vuol tenervi per la canna; vi sarete scoperto un gran coniglio: o qualche sgarbo usato le averete, perché talor molto civil non siete.—
126
Disse Terigi:—Gualtier, no, perdio, sempre dell'«illustrissima» le ho dato, e sono stato attento. Gesú mio, voi sapete in qual modo ho pur trattato!— E cominciava di lagrime un rio, e a fare un ceffo molto difformato. Don Gualtier lo consola e lo conforta, dicendo:—Ella fia forse in sulla porta.
127
Usciam di qua, tenete sodo il viso, perocché noi farem la scena grande; statevi ritto, talor fate un riso, fingete il dilleggino alle dimande.— Piacque al marchese del prete l'avviso: rasciuga il pianto da tutte le bande; ma gli occhi tondi aveva tanto rossi e gonfi che parevano percossi,
128
tanto che ognun s'avvedeva del fatto. Il discorso è per tutto universale: che Marfisa non giunga è stupefatto ciascuno, e si sentiva:—Oh male! oh male!— Non era l'accidente però stratto quanto diceasi e fuor del naturale. Ma sufficiente, anzi opportuno assai, per terminar un canto io lo trovai.
Col suo guascon alla conversazione giunge Marfisa, e per la concorrenza di custode al sigillo uffizi espone per Filinor con vezzi ed insistenza. Angelin di Bellanda anche persone ha, che chiedon per lui palle e assistenza. Ardono i due partiti ed al cimento si chiudono i votanti al parlamento.
1
Lettor mio, se tu sei qualche soldato, amator degli antichi romanzieri, il tardar di Marfisa avrai pensato forse per arme o casi orrendi e fieri. Se tu se' ipocondriaco, immaginato averai febbri, coliche e cristeri. Se prete o frate all'antica e de' buoni, ritardi per rosari ed orazioni.
2
Se donna, acconciar nuovo di capelli, disposizion di fiori con dottrina. Dovresti dar nel segno piú di quelli; ma pur non posso dir tu sia indovina. Se ti ricordi i costumi novelli, la bizzarria di quella cervellina, dirai che la trattien, piú ch'altra cosa, qualche avventura fresca ed amorosa.
3
Quel Filinor di Guascogna nel core l'era rimasto fitto e ribadito, e la conversazion scacciata ha fuore di quel buon uom Terigi, suo marito. —V'andrò—diss'ella—ma senza furore;— e fermo aveva e preso per partito di non andarvi risolutamente senza quel nuovo cavalier servente.
4
—Io m'annoio—dicea—fuor di misura senza un uomo di spirito al mio fianco, perocché Dio m'ha data una natura, che il nero sa discernere dal bianco. Io ho d'intorno una certa mistura di cavalier, co' quali io svengo, io manco, con certi magri detti e certi sali, che desterien gli effetti matricali.
5
Non c'è rimedio, caso o forma o via, ch'io possa sofferir cotesti allocchi, o sia ch'io non gl'intenda, o vero sia che non intendan essi ciò ch'io tocchi. Altro non c'è che la prudenza mia, talor, che mi trattenga, e non trabocchi e non gli mandi con le mostacciate a intrattener le monache alle grate.—
6
Avea Marfisa una sua cameriera molto fedele alle cose importanti, che portava le lettere la sera, dicendo il Miserere, a' suoi galanti. Ipalca ha nome, e talor si dispera, perché i viaggi eran lunghi e pesanti. A questa un vigliettin diede, e mandava a Filinoro a dir che l'aspettava;
7
che non partia per la conversazione, se non venía, ché molto ad esso inclina. Ipalca in testa a rovescio si pone una sua cottardita, e via cammina. Giunse assai tardi a casa Ganellone, che va dicendo la Salve Regina, e a tutti gli altarini che ha trovati, due Credi ginocchioni ha recitati.
8
Giunta a Gano, dimanda il forestiere, e il vigliettino gli metteva in mano. —Per l'amor di Maria—dicea,—messere, venite via, se siete buon cristiano.— Filinor lesse ed ebbe un gran piacere, e disse:—Io vengo;—e prima volle a Gano la carta e l'avventura far palese, per non disalvear dal Maganzese.
9
Ganellon traditor (che in suo segreto era peggior del vaso di Pandora, ed a' scandali sempre andava dreto, come la gatta al lardo ch'assapora) Ruggero odiava, e avea posto divieto a matrimoni di Marfisa ancora. Vide che in Filinoro gli ritorna occasion da tirar fuor le corna.
10
E disse:—Figlio, questa illustre dama sorella di Rugger, detta Marfisa, vien maritata a un uom di poca fama, a un gabelliere, a un marchese da risa. L'avarizia «prudenza» oggi si chiama, e maritaggi forma di tal guisa; però se tu potessi farla tua, opreresti de' beni a un tratto dua.
11
Non dir ch'io t'abbia consigliato a questo; ma corri giostra e tenta la fortuna. Il fin di matrimonio è oggetto onesto; rimorso io non mi sento in parte alcuna. Nella tua concorrenza sia ben desto ch'ella può tutto ed è molto opportuna: però se memoriali a lei darai, trenta pallotte certe conterai.—
12
Filinor, che c'è dato, non dimanda: verso Marfisa con Ipalca trotta. Ma tra l'andar dall'una all'altra banda, e il pigolar per via della marmotta, e il consigliar e il chieder:—Chi ti manda?— e mille brighe che accadon talotta; tre ore eran di notte, e ancor non era giunto il putto, e Marfisa si dispera.
13
Ruggero avea mandato sette volte, e Bradamante, a dir ch'ella si mova. Marfisa delle scuse addotte ha molte, e finalmente scusa piú non trova. Don Guottibuossi a far s'aveva tolte quelle ambasciate, e ritorna e non cova. Marfisa, irata, alfin disse:—Ser prete, io v'ho, con chi vi manda, ove sapete.
14
Attendo un cavaliero di Guascogna; la mia parola esser de' mantenuta. S'egli non vien, seccar non vi bisogna, perocch'io sono in questo risoluta.— Ecco Rugger, che chiede se ella sogna, ché la quinta staffetta era venuta, e disse:—Io non so piú cosa rispondere: voi fareste un esercito confondere.—
15
Disse Marfisa in ironico modo, con un dileggio e un strano risolino: —Signor fratello, perdio che vi godo, se voi pensate farmi il paladino. Ite in malora; per me fitto ho il chiodo. Vel dirò in greco, in volgare e in latino, che porrò il piede fuor di questa soglia, quando parrammi e quando n'avrò voglia.—
16
Dicea Ruggero:—O Dio, cara sorella, voi volete far scene sempremai. Sapete giá che una sposa novella senza parenti al sposo non va mai. Voi volete spezzar la campanella anche a questo contratto, che accordai con un'antipatia particolare, siccome vi dovete ricordare.—
17
Marfisa disse:—Basta, non parliamo; ciò che vidi a che vedo non s'accorda: di grazia, a razzolare non andiamo; non son, come credete, e cieca e sorda. D'accordo solamente rimaniamo ch'ir voglio e stare, e che non soffro corda, e sola e accompagnata, ovunque io vada, e, s'ho voglia, anche ignuda per la strada.—
18
Questi, sentendo il garbuglio toccato del matrimonio e della trama il vero, fece un atto d'un uomo disperato. Volse le spalle e andossene leggero; e a questo passo al lacchè, che ha mandato l'ultima volta Terigi a Ruggero, fuor di se stesso e in furia avea risposto: —Ella verrá, se Dio l'avrá disposto.—
19
Con Bradamante radunate sono parecchie dame ad aspettar la sposa. Questo ritardo lor non parea buono: ognuna prediceva qualche cosa; e fanno un mormorare in semituono ch'avrebbe screditata santa Rosa, sempre commiserando tuttavia Bradamante e Rugger che le sentia.
20
Era tanto stizzita Bradamante, che mostra in viso e sulle labbra il fele. Per quella via scorgeva esser infrante del maritaggio l'ancore e le vele, e pel ritardo si vedea davante strugger miseramente le candele; donde ha l'alma nel sen sí combattuta, che tira gli occhi solo e si sta muta.
21
Come a Dio piacque, Filinoro è giunto con vestimenti molto corredati; poiché Gan, che vedea le cose appunto, fece che Baldovin glieli ha prestati. Mai non si vide giovin meglio in punto infra i moderni ricchi innamorati: pareva il dio d'amor de' piú puliti: aggiungi la bellezza a' suoi vestiti.
22
Il complimento, che a Marfisa fece, d'una facondia è tal, d'un'eloquenza, da vincer non un cor ma sette e diece. Marfisa non è un'oca a tale scienza, e con una bravura soddisfece e con un tratto e con una presenza, e fece una risposta d'una guisa… ma che? basti a saper ch'era Marfisa.
23
Filinor le diceva quell'idea di concorrer custode del sigillo. —Io sono un cavaliere—le dicea— in questi fatti timido e pupillo; esule, posso dir, siccome Enea, ma d'una nobiltá, permesso è il dillo, che la casa Chiarmonte è una capanna, alla mia a petto, e un casolar di canna.
24
Io son del gran casato di Vesuvio. La mia modestia, so, troppo s'avanza; ma vi potrei mostrar che pel diluvio, siccome gli altri, non ebbe mancanza. Ennio lodollo e l'esaltò Pacuvio. Non uso tradizion, ché me n'avanza; ma la ruota del mondo che s'aggira, ier facea rider tal, ch'oggi sospira.
25
Voi giá vedete ognor, dama gentile e spiritosa e senza pregiudizio, che s'allontana alcuno dal badile, e sale al trono ad un reale uffizio; e talun ch'era al trono è fatto vile. Né della sorte si può dar giudizio; sapete come i pittor la dipingono: che gira a tutti i soffi che la spingono.—
26
E detto questo, a Ipalca si volgea, che un rotolo di carta in man portava lungo sei braccia, ch'ei dato le avea a tenere, e sul spazzo il sciorinava. —Io non son menzogner, dama—dicea Filinor a Marfisa, che guardava l'albero suo, ch'ei distendendo gía, e pareva un lenzuolo di Golia.
27
Veggendo in un cantone una bacchetta, lesto la prende e comincia additare. —Mirate, dama, il mio stipite in vetta— diceva, e Adamo faceva osservare; e va pur dietro alla sua linea retta gran monarchi e regine a nominare. Non era giunto a un quarto della carta; Marfisa disse:—E' convien pur ch'io parta.
28
Io sono persuasa, state certo, della nobiltá vostra risplendente. Non mancherò d'uffizi; il vostro merto è tal che avanza ogni altro concorrente. —Troppo n'avete, signora, sofferto— disse, e raccolse l'alber prestamente: poscia le diede memorial parecchi, i quai cosí suonavano agli orecchi:
29
«A custodire il sigillo reale concorre Filinoro, di Guascogna suddito, e d'una nobiltá cotale, che per la brevitá dir non bisogna. Si prostra al parlamento liberale nelle sventure sue senza vergogna, e pe' suoi merti e la famiglia vetera attende tutti i voti. Grazia, eccetera».
30
Qui furono attaccate le carrozze per andar di Terigi alla magione; e del veleno, chi n'ha, se lo ingozze: Marfisa volle seco quel garzone. Cercarono i cocchier le vie piú mozze per giunger presto alla conversazione. Tosto il marchese uno stafiere avvisa, gridando:—È qui Marfisa, è qui Marfisa.—
31
Terigi è quasi fuor de' sentimenti: giú delle scale va precipitando. Don Gualtieri comanda agli strumenti che accettino Marfisa alto suonando; ed un rumor, che fe' tremare i venti, feciono i suonatori a quel comando, con una marcia di timpani e corni ed obuè piú dotti de' contorni.
32
I musici castrati e que' da razza incominciaron poi la serenata. Turba non s'udí mai cotanto pazza, di voce fastidiosa e sgangherata. Matteo poeta è per tutto, e schiamazza perché la poesia fosse lodata. Pareva scritta dal fine al principio, siccome l'orazion di sant'Alipio.
33
E cominciava: «O vergin, vergin bella, estro e natura canora e sonora». Marco poeta a rider si smascella, e critica ogni detto che vien fuora. I paladini eran divisi a quella: chi dice bene e chi la disonora. Dodone ne traeva un suo piacere, e va chiedendo a tutti il lor parere.
34
Ed a chi dicea bene, ei dicea male; ed a chi dicea male, ei dicea bene. Qualche argomento va facendo tale, che i paladin gli voltavan le rene; né del ben né del mal Dodon gioviale potea trovar ragion come conviene, ché i paladin faceano i ciarlatani solo per parer dotti e partigiani.
35
Contro Dodone irati, imbestialiti, vorrien sbranarlo vivo con le zampe. Dodone alcuni versi avea finiti pel maritaggio, e pronti per le stampe, che correggean que' vati fuorusciti. I parigin non voglion che gli stampe, e vanno minacciando i revisori, ché, caschi il ciel, non gli lascino ir fuori.
36
Dodone aveva anch'esso dalla sua alcuni paladin, ch'era giustizia. Marco e Matteo va tenendo nel dua, e ride sempre della lor malizia, dicendo:—Io vo' del bene a tuttidua, e non intendo partir l'amicizia, ma dir, fin che avrò fiato e sarò morto, che nelle lor scritture hanno un gran torto.—
37
Terigi aveva fatto alla sua sposa un complimento a memoria apparato. Marfisa se gli mostra imperiosa, e tira dritto e appena l'ha guardato. Rimase come stolto a questa cosa, e le va dietro assai mortificato, ché non sapeva accordar nella mente la ragion del contegno per niente.
38
Non sa che la bizzarra avea previsto che il nuovo oggetto spiacer gli dovea, e però, come femmina, provisto quella sostenutezza ch'io dicea perché negl'intestin l'aveva visto cotto e spolpato d'essa; onde scorgea che il rimedio piú bel perch'ei stia muto, era un contegno serio e pettoruto.
39
Senza riguardo alcun quella sleale comincia a far uffizi pel guascone, dicendo ch'era un uomo principale e che se gli doveva far ragione; e dona a ciascheduno un memoriale, a que' che sono alla conversazione: ché c'eran de' votanti al parlamento, tra cavalieri e paladin, ben cento.
40
Non v'è donna bizzarra che non abbia forza ne' cuor degli uomini votanti. Marfisa ne tenea nella sua gabbia con certe grazie e lazzi non so quanti. Non dimandar se Terigi s'arrabbia, veggendo ch'essa cercava gli amanti con scherzetti, lusinghe e sguardi ed atti da far mille Caton diventar matti.
41
Ma sopra tutto gli dilania il core il veder che gli uffizi son diretti in pro d'un frasca, suo nuovo amadore, che sembra giunto a fargli de' dispetti. Di padron divenuto è servitore, perocché Filinor par si diletti a voltargli le schiene e a dargli retta come se fosse un birro od un trombetta.
42
Quand'egli ebbe sofferto un'ora buona vezzi, lusinghe e gran stringer di mani verso i votanti, e verso la persona di Filinor sospiri oltramontani, ad una gran tristezza s'abbandona. Lascia la sposa in mezzo a' lupi e a' cani: si pose in un soffá fuor della gente, gonfio, ingrognato e stava sonnolente.
43
Bradamante, Rugger, don Guottibuossi non è da dir se del caso hanno tedio; ma stanno cheti, trasognati e goffi, perocch'era impossibil il rimedio. E molto amari ed aspri son gl'ingoffi di quegli uffizi nuovi e dell'assedio ad Angelino di Bellanda, solo concorrente al sigillo e buon figliuolo.
44
Angelin di Bellanda è un cavaliere privo d'un occhio in battaglia perduto; monco ha il sinistro braccio, ed il brachiere porta, delle fatiche per tributo. Di Carlo avea servito alle bandiere ne' tempi andati, e gran sangue ha perduto. Avea moglie e famiglia tanto grande, che Turpin scrive: «E' si vivea di ghiande».
45
Perocch'era Angelin povero in canna e di poder n'aveva pochi al sole; oltre di che, sopra quelli una manna cadeva ogni anno di secche e gragnuole. Angelin sofferente non s'affanna, e dicea:—Dio può tutto e cosí vuole. Dominus dedit, date ha le ricolte: Dominus abstulit, Dio ce l'ha tolte.—
46
Aveva cinquant'anni di penuria provata in guerra; e venuta la pace, monco, rotto e monocol, nella curia l'avea partita a un piato pertinace. Pel cangiar de' costumi la sua furia Fortuna contro a quel, come a Dio piace, cambia modo d'offesa ed arte e ingegno, ma giammai d'un riposo egli fu degno.
47
Ora credea del sigillo l'incarco, al quale è solo e non avea confronto, potesse dargli, vivendo assai parco, modo a' suoi creditor di dare a sconto; e un dí, restando di debiti scarco, di fare acquisti, o la dote a buon conto per quattro figlie, che non vanno a messa perché aveano la veste orrida e fessa.
48
Era in casa a Terigi quel meschino; e sentendo del nuovo concorrente, alzò una mano al cielo e il moncherino, e disse:—O Cristo, o Cristo onnipossente! Poffare il ciel sacrosanto e divino, che m'abbia a intervenir quest'accidente!— Orlando vide, che di lá passava, e gridò:—Che di' tu, conte di Brava?—
49
Orlando avea sentito quel maneggio, e per la rabbia stralunava gli occhi, perocch'era un uom giusto, e disse:—Io veggio, caro Angelin, che il mal passa i ginocchi, ed ogni giorno va di peggio in peggio il mondo, e il buon costume a spicchi e a rocchi. Non ho piú lingua omai, non ho piú fiato: priego invan, grido invan; son disperato.—
50
Dicea quel di Bellanda:—Amico Orlando, quest'occhio cieco, questo monco braccio, quest'incurabil ernia raccomando, e il mendicume, mio perpetuo laccio. Se tu sapessi com'io vo passando i giorni, e tu vedessi il mio primaccio, le sedie, il desco e la cucina mia, perdio! morresti di malinconia.
51
Legna non ho per cuocer le minestre: son arsi le architravi e le cornici. Quelle, ch'eran cortine alle finestre, son or camicie a' miei figli infelici. Coltrici, drappi e fino alle canestre son ite al ghetto, pegno a quegli amici; altro non ho che miserie ed affanni e lo sperar che Dio mi tronchi gli anni.—
52
Mentre Angelin piangendo il capo gratta, Orlando irato a sé chiama Ruggero, e disse:—Tua sorella mi par matta: che caso è questo e che nuovo pensiero? chi è colui che di concorrer tratta in competenza a questo cavaliero? Tu doveresti saper ben la storia, ma tu mi sembri fuor della memoria.—
53
Disse Rugger:—Per quel sacro battesimo c'hai sulla testa, non mi chieder questo. Io non so piú che sia di me medesimo: darei pugna, frugoni e calci al vento. Se sia del paganesmo o cristianesimo colui, nol so; vederlo vorrei spento: io ardo, io scoppio; è matta mia sorella; non ho piú capo, non ho piú cervella.—
54
Detto cosí, sbuffando come un toro, volse le spalle e si trasse da un canto. Marfisa seguitava il suo lavoro, e porse un memoriale a Dodon santo. Dodone il lesse, e disse:—Egli è un tesoro, e sará ricopiato in un mio canto; il voto mio però non conterete, se foste assai piú bella che non siete.—
55
Quella bizzarra intorno a Dodon ciancia,
dicendo:—So che il piacer mi farai.—
Dandogli pizzicotti sulla guancia:
—Con te—dicea—stanotte mi sognai.
Tu sei cortese e paladin di Francia:
io so che il voto certo mi darai.—
Dodon ridendo disse a lei voltato:
—V'accorgerete s'io ve l'avrò dato.
56
—Basta cosí—rispondeva Marfisa,— giá c'intendiamo,—e facea l'occhiolino; e va a tentare un altro in nuova guisa, ché certo ell'era il diavol tentennino. Dodon sarebbe morto dalle risa; ma gran compassione ha d'Angelino, ed avea detto a quel:—Non piú mestizia, che non è spenta affatto la giustizia.—
57
Giá la ricreazion giva languendo: la goffa serenata era finita, Terigi è ottuso e par che stia dormendo, Bradamante a nascondersi era gita, Rugger le labbra si stava mordendo, mezza la gente del palagio è uscita, e la moderna guerra con le carte gran danno aveva fatto in ogni parte.
58
Un certo maganzese, Smeriglione, piú d'ogni altro guerrier si fece onore. Tagliando ad un gran desco al «faraone», disarmato ha ciascun col suo furore. Sino a Marfisa, andata al paragone, die' colpi orrendi il crudo feritore; in due minuti quella disperata ha Smeriglion svenata e disertata.
59
Finito è il gioco, i danar son perduti; e tutto il mal del prossimo s'è detto; gli amor ciarlieri fatti e gli amor muti s'eran: sicch'ogni cosa era in assetto per dar la buona notte ed i saluti, e per farsi la croce ed irsi a letto: donde chi allegro e chi ingrognato andava alla sua casa ed i lenzuol trovava.
60
Gan di Maganza quella stessa sera er'ito a Carlo Magno rimbambito, e a pro di Filinor d'una maniera gli avea parlato che l'avea stordito; perocché Gano è la sua primavera, le sette trombe ed il prato fiorito. Se gli avesse parlato san Matteo, in confronto di Gano era un uom reo.
61
Pensa che il Maganzese non soggiorna: a Namo avaro er'ito anche a parlare. —Prometti il voto—dice,—e non s'aggiorna che il tal util negozio ti fo fare.— Picchia ad Avino, ad Avolio ritorna, a Berlinghieri, a Otton torna a picchiare. —O voi mi date il voto a parlamento —diceva,—o ciaschedun farò scontento.
62
Que' debitacci vostri, che a' mercanti prometteste pagar, defunto Namo, li saprá vostro padre tutti quanti; vi fo diseredar per quanto io v'amo. Datemi il voto, e giuro a tutti i santi, putti, non ci sará verun richiamo, anzi a qualche bisogno in cortesia forse farovvi alcuna piegeria.—
63
Ad alcuni prelati, che avean voto nel parlamento, con arcani è addosso, e fa nella politica il piloto per far loro ottenere il cappel rosso. —Grazie a Dio, nessun colpo a me fu vuoto— aggiugne,—e quando voglio, tutto posso;— ed in parole, come d'una rapa, disponeva dell'animo del papa.
64
Ad Astolfo ha donate alcune mode ch'eran venute fresche d'Inghilterra. A Ulivier nelle femmine, che gode secretamente, disse di far guerra. Gano cosí con inganni e con frode va bucherando a' signor per la terra, e tutti per lo debile prendea, tanto che ognuno il voto promettea.
65
Dodone, Orlando e Rinaldo, ch'è giunto da Montalban per questa concorrenza, vanno con Angelin debile e spento, facendolo star sempre in riverenza, e fanno uffizi, e stanno forti al punto del sigillo Angelin non resti senza, dicendo:—Se qualcun gli niega il voto, s'aspetti guerra e peste e terremoto.—
66
Da tutte parti gli uffizi infiammavano per quello di Bellanda e pel guascone. Ad Angelino i nemici accoccavano che per le sue sventure era scempione, e che i sigilli regi non si davano a disadatte e stolide persone, le quai pel cervel debile e confuso potean far del sigillo qualche abuso.
67
Il sir di Montalbano la mattina era eloquente e buon uffiziatore, ma dopo il pranzo egli era una cantina di vino, inutilaccio ed in furore. Troglio la lingua volea far tonnina di Filinor, di Carlo imperatore, e sbranar Gano, e foco minacciava al parlamento; e poi s'addormentava.
68
A Filinor si formava un processo per lettere venute di Guascogna Dicean ch'era vizioso e il vizio stesso, un canchero, una peste ed una rogna; che non si getta il sigillo in un cesso; che darlo a un dissoluto non bisogna, il quale, o per danari o per natura, firmerebbe qualch'orrida scrittura.
69
Passano i giorni ed il maneggio cresce, dall'una parte e dall'altra riscalda; il merto col demerito si mesce. Marfisa si mostrava molto calda. Ipalca co' viglietti or entra, or esce: pensa che non istava un'ora salda, tanto che, quando era giunta la notte, maledicea i votanti e le pallotte.
70
Orlando molto si rammaricava a trovar infinite negative. Dodon rideva, e poi lo confortava dicendo:—De' sperar l'uom finché vive: ci avvederemo al dispensar la fava; d'un altro modo suoneran le pive. Le lingue temon Gano traditore, ma poi le fave spiegheranno il core.—
71
A Filinoro un caso assai faceto fece in que' giorni molto pregiudizio. Tu sai, lettor, che ti narrai qui dreto siccome a un oste avea dato l'uffizio di notare in sul libro all'alfabeto quanto egli avea consunto, e ad artifizio il rozzon pegno e lo staffier malato gli aveva in sulle spese anche lasciato.
72
Dopo alcun tempo il servo era giá morto. L'oste l'avea sostenuto nel male; e pagato il dottor, non fece torto all'opra del chirurgo e del speziale, ed ebbe il poveruomo anche il conforto di pagar sino a' preti il funerale. La rozza era scoppiata di stracchezza, ond'egli avea la pelle e la cavezza.
73
Battuto il prezzo di queste due cose, l'ostiere è creditor trecento lire. Veggendo le promesse fabulose, avea risolto a Parigi venire. Filinor tanto bene non s'ascose, che nol potesse l'ostier rinvenire. Del pagamento il prega e lo riprega: Filinor minaccioso glielo niega.
74
Quel meschinel, veggendo il conto perso, richiamar in giudizio un giorno fallo; ma Filinor gli piantava un converso che gli dovesse pagar il cavallo. La fama va per lungo e per traverso di questo piato; ogni omiciatto sallo; tanto che negli uffizi questo fatto die' quasi a Filinoro scaccomatto.
75
Seppelo Gano, e tosto quell'ostiere fece con un esilio cacciar via. Io so, ciascun la ragion vuol sapere che Gano a Filinor sí amico sia. Scrive Turpin che il santo menzognere col guascone una scritta fatta avia, che se l'incarco del sigillo avea, la metá poi dell'util gli dovea.
76
Non si denno le cose in questo mondo sol nella superfizie giudicalle. Io vidi un cacciator ir nel profondo cacciando sforzanelle in una valle: la superfizie il terren di buon fondo gli dimostrò con erbe verdi e gialle; misevi i piedi e sprofondossi poi, sí che il trassono a stento un paio di buoi.
77
Poco mancava al giorno stabilito dal parlamento a tutta l'adunanza, per dover porre il sigillo a partito. Spazzata e in apparecchio è la gran stanza. Il giorno innanzi Ganellone è gito ad un convento detto l'Abbondanza, dov'eran certi frati, che nel core erano col vestito d'un colore.
78
Nel magnifico tempio eletti marmi aveano e arredi di ricchezza immensa. Dicea Gano:—Io vi prego a voler farmi l'esposizione in sulla sacra mensa.— Suoninsi le campane, ed inni e carmi volino al ciel che a noi tutto dispensa. Vo' fare una sant'opra, e dal Sovrano chiedo sia benedetta dalla mano.
79
Abbonderan le cere, e mie saranno: finita la fonzion, vostre poi sono. E piú: mille ducati pronti stanno: questi alla vostra povertá li dono. Pregate tutti Dio, dal qual pur s'hanno ad aspettar le grazie; ed il perdono —dicea Gan—chiedo prima de' peccati;— e va baciando i scapolar de' frati.
80
Que' padri, dopo una lode sincera alla pietá di Gano, pe' contanti e per la sacra oblazion della cera, lo van benedicendo tutti quanti. E dicon:—Tutto farem volentiera: Dio ci esaudisca, Dio ci faccia santi.— Poi chiaman paratori e fornitori, perché il dí susseguente Iddio s'onori.
81
Duemila cento e sessantotto lumi per quella esposizion furon disposti, e velluti e dammaschi e tele a fiumi, ed angeli dorati furon posti. Vasi e bacini fuori de' costumi, d'argento e d'òr ci sono, di gran costi. Gridano le campane ogni momento: —O turbe, o turbe, al tempio, drento, drento.—
82
Ma sopra tutto cura ed attenzione mettono i frati a far che per la chiesa sien pronte sempre a quella divozione borse a stangon, crollate alla distesa, perché possa sfogar la pia intenzione ogni buon'alma nel ben fare accesa, e possa ognuno aver dinanzi un fondo da seppellir le vanitá del mondo.
83
La fama è grande che il guascon facea quella solennitá per le pallotte, sicché tutto Parigi concorrea: portar si fa chi sentiva di gotte. La folla è un mare, e la mente ponea alle disposizion de' lumi dotte, al canto, al suono ed alla fornitura, e dell'Eucaristia poco si cura.
84
Angelin di Bellanda, la mattina del cimento fatal, per tempo assai con la sua famigliuola sí meschina er'ito a certi frati pien di guai, in una chiesa fuor di via, piccina, dove le genti non andavan mai, perch'era ignuda e sull'altar maggiore due candeluzze sol facean splendore.
85
Organi non ci sono; oro o ricchezza non si vedea; ma le pareti bianche; tenuto il pavimento con nettezza, e gli altari e le lampade e le panche; ed un silenzio, una certa grandezza splende, che si può dir che nulla manche a compunger il core e a capir tosto che il puro agnel divino è qui riposto.
86
Scosse Angelin della sua famigliuola le tasche tutte, e in una carta ha messa di quaranta soldon la somma sola, ch'altro non puote; e con faccia dimessa a' fraticei diceva una parola: che lor piacesse far dire una messa; e ginocchion sul spazzo si mettea nel tempo che la messa si dicea.
87
La mano intera aggiunge al moncherino, e tenendo all'altar le luci fisse, ch'Illarion parea, non Angelino, sospirando e piangendo cosí disse: —Dio, nel mio sen col vostro occhio divino tutto scorgete, e se per boria o risse concorro a quest'incarco, o s'è infinita necessitá di questa vostra vita.
88
Ogni male ho sofferto esterno e interno, ferite e storpi e sonno e fame e sete, per servire al mio re, se ben discerno. Giunto sono all'etá che mi vedete, e storpi e fame ed ogni mal governo son pronto a sofferir, se voi volete, ché dobbiam sostenere di concordia la vostra sferza di misericordia.
89
Vedete tuttavia con qual periglio le mie figlie innocenti in vita stanno, e come i rei dimoni con l'artiglio de' moderni costumi intorno elle hanno. Datemi, signor mio, forza e consiglio da preservarle a voi da questo danno. Queste, Signor, queste, Signore e Dio, vi raccomando, e non l'incarco mio.
90
Certi mal costumati, e da letture nuove corrotti, e dileggianti il cielo, circondan queste mie colombe pure, ch'io serbo a voi conformi all'Evangelo. Dote non ho che di pianti e sciagure. Signor, Signor, per questo caldo zelo, e se adoprai per la fe' vostra il brando, la famigliuola mia vi raccomando.
91
Io non volli giammai, com'è costume oggi di chi ha figliuole e poca entrata, aprir la porta e dar luogo ad un fiume di giovanacci e gente scapestrata, per far che per l'amore o il poco lume talora alcuna si sia maritata: volli questo novello uso lontano, perché temei la vostra santa mano.
92
Se v'è in piacer che a Filinoro sia dato il sigillo, io son di ciò contento: chiedo sol modo a questa prole mia di viver con fortezza nello stento. O Vergin pura, o Vergine Maria, conducete le man nel parlamento.— Cosí diceva il signor di Bellanda, dal pianto molle che dagli occhi manda.
93
Né sospir differenti a que' del vecchio manda la famigliuola afflitta e mesta, commossa dal sentirsi nell'orecchio il suon di quella umil santa richiesta. Finito il sacrifizio, in apparecchio sono Orlando e Dodone e menan questa brigatella, infelice nella sorte, del parlamento alle superbe porte.
94
Qui posti in lunga fila da una parte, marito e moglie e figliuoli e figliuole fanno inchini al votante che si parte per ire in sala, e non usan parole. Dall'altra banda Filinor con arte bacia faldoni e mai tacer non vuole, e va pur ricordando quanto sia d'antica stirpe e la genealogia.
95
Gano con sue parole assai stemmatiche, facendo il vecchio stanco e cagionevole, dice:—Qui son, ma pesanmi le natiche: venni per questo putto meritevole. Quando si tratta di cose tematiche, ogni fatica dev'essere agevole. Raccomando alla vostra pia natura quest'uomo insigne, ch'è mia creatura.—
96
Con Ipalca Marfisa in un cantone, coperta d'un zendale, è alla vedetta, ed a' votanti mette soggezione col ventaglio e facendo la civetta. Talor con leggiadrissima invenzione apre il zendal, poi lo richiude in fretta. Ad alcun paladin si mostra altera, ad alcun sorridente e lusinghiera.
97
Entrati nella sala Carlo Mano, prelati, paladini e cavalieri, chiuse furon le porte a mano a mano. Gli aspettator rimason co' pensieri. Lettor, l'avvenimento speri invano: ch'io tel dica, per or non è mestieri; deggionsi risparmiar de' fatti alquanti per la materia de' seguenti canti.
Custode del sigillo alfin rimane Angelin di Bellanda. Ganellone Filinor mette per vie nuove e strane per cavalier di camera a Carlone. Tra Marfisa e il guascon, Cupido cane fa delle scene. Terigi dispone d'annullare il nuzial. Nasce un bordello, e lo sposo è sfidato ad un duello.
1
Chi potesse veder dentro al cervello di chi sceglie agli uffizi col suo voto, e ricercar perché piú questo o quello rimanga eletto e col suo bossol vuoto, credo che rideremmo nel vedello, e ci riuscirebbe il caso ignoto, e che daremmo a tutti alfin ragione della diversa lor disposizione.
2
Ha gran poter malizia ed impostura; non è spenta ragione né giustizia. Delle prime i seguaci ho gran paura sien piú per ignoranza che malizia. Ognun col suo cervello ha sua misura; e tal crede ire al santo di Galizia, ch'entra in bordello, e d'aver fatto male s'avvede a stento, giunto allo spedale.
3
L'odio e i rispetti umani han molta parte a far piú l'un che l'altro abbia pallotte; pur, quantunque ignoranza è ignuda d'arte, lusinga le persone d'esser dotte, e un numero infinito poi comparte il voto suo per vie bistorte e rotte; ma ognun Caton si crede e lo disperde contro anche a san Francesco, e va nel verde.
4
Io ballottai talor qualche piovano, e credei pel migliore dar la fava. Discorrendo tra me dicea pian piano: —I piú faran lo stesso,—e m'ingannava. Dall'altre opinioni ero lontano, e quando le pallotte annoverava, ero tra venti, e cento aveano detto ch'io avevo mal pensato e mal eletto.
5
E non avendo uman rispetto alcuno o fine d'interesse o di livore, credei d'esser almen tra novantuno, pensando col mio capo in sul migliore. Vidi ch'errai nel scegliere quell'uno, e rimasi col numero minore, poiché cento pallotte a me davante m'han detto ch'io pensavo da ignorante.
6
Vidi certo de' Gani per la chiesa, delle Marfise in sul veron di fuori; ma so che nel mio cor feci difesa, né vezzi ebbero parte né impostori. Basta, giustizia è stata sempre illesa, ch'anche Angelin da' gran persecutori trasse alla fine, e mi convien pur dillo, d'un voto, ma custode del sigillo.
7
Credo però anterior fosse una patta: Turpin dubbioso lascia questo fatto. Marfisa pel furor fu quasi matta: si chiuse nel zendale, e di soppiatto tra gente e gente va fuggendo ratta. Ipalca l'ha perduta qualche tratto. Questo laudando il nome di Maria, e l'altra bestemmiando andaron via.
8
Ganellon traditor per mano prese Filinor, col baston dall'altra mano. Va via pronosticando che il paese presto verria in poter dell'Alcorano. —Le veritá a' miei giorni erano intese— diceva:—il buon pensar ito è lontano. Confida in Cristo, caro figlio mio: non sbigottir, ché ognun provede Dio.—
9
Il conte Orlando e Dodone e Rinaldo, che la sinceritá non han perduta, uscir dal parlamento ognuno caldo: corrono ad Angelin, che gli saluta. Dicean:—Quell'impostore, quel ribaldo di Gano, a questa volta l'ha perduta;— e il povero Angelin vanno abbracciando. Piangea per l'allegrezza il conte Orlando.
10
Con bella grazia alcuni paladini diceano ad Angelino:—Io t'ho voluto;— ed alle figlie sue faceano inchini, narrando il lor buon core per minuto. Angelin gli ringrazia oltre a' confini, dicendo:—Se m'avete conosciuto buon custode al sigillo, anche si vuole ch'io via conduca queste mie figliuole.
11
Dodone, udendo, disse ad Angelino: —Perdio! meglio a' tuoi giorni non dicesti: menale in casa e chiudi l'usciolino; ogni buon core in ciarle di fuor resti. Costoro attaccherebbono l'uncino con mille falsitá, mille pretesti, e l'ospitalitá saria tradita con l'amicizia in bocca piú forbita.—
12
S'accrebbero le risa, e i spiritosi piantaron prestamente la questione con testi e passi di scrittor viziosi, che avean spregiudicate le persone; e provar s'ingegnavano furiosi che parlava da stolido Dodone, ché l'ospitalitá non s'offendea con quelle cose ch'egli s'intendea.
13
—Andate a disputar queste dottrine —dicea Dodon—con le vostre sorelle. Conduci via, Angelin, queste meschine, ché le question divengon troppo belle.— Rinaldo a que' discorsi pose fine; e accompagnate a casa le donzelle, in una malvagía, per la salute d'Angelin, sei guastade ha poi compiute.
14
Fu bella cosa il vedere i votanti, ch'eran dugento al parlamento stati: novantanove certo poco avanti contrari ad Angelino erano andati; pur van tutti dugento allegri, ansanti, a casa del meschin che gli ha accettati; e ognuno si rallegra e ride e balla e giura:—Io t'ho voluto con la palla.—
15
Tanto che se Angelin saper volea chi gli avesse il suo voto o tolto o dato, per miglior segno solamente avea a conoscer colui che l'ha burlato, che quel s'affaticava e s'accendea per farsi creder molto affaccendato. La troppa affettazione ed il giurare faceva del contrario dubitare.
16
Oh quanti alle miserie del meschino negato avean due scudi poco pria, d'impuntuale il povero Angelino accusando e di poca economia! Venuti or sono a dirgli:—Io mi t'inchino: sento un piacer che, per l'anima mia, sono per impazzare: giá tu sai, quanto ben t'ho voluto sempremai.—
17
Frattanto Gano col cervel mulina come potesse risarcire il danno delle cere consunte la mattina e dell'util perduto in capo all'anno; e tanto e tanto un suo pensier raffina sopra un certo tranello, un certo inganno, che finalmente gli piaceva molto, e a visitar Marfisa si fu vòlto.
18
Trovolla col zendale ancora in testa, ch'era sopra una scranna in sfinimento. Ipalca l'assa fetida le appresta e le fa crocioni sotto il mento. Col fumo della carta la molesta, e con una raccolta le fa vento. Mise un gran mugghio alfin la disperata, traendo calci come spiritata.
19
Gli occhi tien chiusi e spinge il petto in fuori, torce la bocca ed ha chiavati i denti, strappa ciò ch'ella piglia, e merli e fiori; non sa se donne o uomin sien presenti, né qual atto l'onori o disonori, ché trae le lacche e l'alza, occhi veggenti; or si rannicchia ed or si stende in fretta. si torce, s'aggomitola e gambetta.
20
Sei damigelle le tenean le braccia: Marfisa tutte quante le rintuzza. Chi l'imbusto di dietro le dilaccia, chi di molt'acqua nella fronte spruzza. Ipalca era graffiata, meschinaccia, le mani, e piange e le ciglia strabuzza; e perch'è giunto Gano, si dispera a ricoprirle il sen che scoperto era.
21
Quel tristo ipocriton del conte Gano disse:—Un effetto isterico gli è questo. Le porrò sopra il seno una mia mano: poiché son maschio, ella guarisce presto.— E giá stendea la man quel luterano con gli occhi chiusi ed un visino onesto; ma volle il caso che Marfisa a un tratto rinvenne, e Gan rimane a mezzo l'atto.
22
Tornata in sé la dama a poco a poco, languidetta s'andava rassettando; veduto Gano, il viso fe' di foco, e che partan le dame dá comando. Poi disse al conte:—Che di' tu, dappoco? in capo ci ha cacato il conte Orlando. Ch'è del guascon? non ebbi in vita mia tal dolor, per la Vergine Maria.—
23
Gano a quel detto ha la testa inchinata, e si fece la croce e aggiunse tosto: —Laudata sempre e non mai bestemmiata. Voi potete ben credere—ha risposto— che per me indifferente non sia stata questa faccenda. Io sperava all'opposto; ma le cose avvenute, o bene o male, arcani son del giudice immortale.
24
E' mi dispiace sol che il giovinetto di tanto merto impiego alcun non abbia; ma pregherò Gesú mio benedetto che in pazienza ei soffra e non in rabbia. —S'altro unguento non hai nel bossoletto —disse Marfisa,—tu mi par da gabbia; e' si vuol ben pensar ch'egli abbia stato un uom che non ha pari e nobil nato.—
25
Rispose Gano:—Un posto oggi è vacante di cavalier di camera al re Carlo, ch'è di trecento e piú zecchin fruttante il mese; e so ben io come vi parlo. Ma v'è di mezzo non so qual brigante, senza di cui non si può guadagnarlo; certa persona incognita v'è sotto, per seimila zecchini in un borsotto.
26
Io non n'ho che tremila e gli sacrifico, ma per gli altri tremila non ho modo.— Disse Marfisa:—Assai di te m'edifico, ma per gli altri tremila è duro il chiodo. Fammi parlare al mezzo, e mi certifico ch'io ridurrollo vizzo, s'egli è sodo: saprò toccar le corde e tôrre il vento per far che de' tremila sia contento.
27
—Per meno di seimila non sperate, né la persona palesar vi posso —diceva Gan;—ma se i tremila date, noi vedrem tosto Filinor riscosso. —Io non so—dicea l'altra—se sappiate che in questa casa non dispongo un grosso, e c'ho un fratello e una cognata intorno, che ascoltan prieghi come il ciel del forno—
28
Risponde Gan:—Se voi saprete fare, il marchese Terigi è buon cristiano; io so che gli farete fuor schizzare, ché a lui son come un soldo al gran soldano.— Gridò Marfisa:—Oh poffare! oh poffare! si vede ben che sei l'antico Gano. Di Filinor Terigi è in gelosia. Questo mi basta. Io t'ho inteso. Va' via.—
29
Gano levossi, e:—Il ciel vi benedica, vi lascio con la grazia del Signore— disse partendo. Or converrá ch'io dica del marchese Terigi senza core, che tra il martello e l'amor per l'amica se gli era liquefatto in un favore. Dopo la notte della ricreazione era smagrato trenta libbre buone.
30
S'egli era a mensa, a mezzo non mangiava; s'egli era a letto, non dormiva un'ora: ansava, si lagnava, sospirava; gran pianto gli occhi tondi caccian fuora. Una bocca facea, che somigliava le denonzie secrete e peggio ancora; talor da sé facea qualche lamento, come gli permetteva il suo talento.
31
—Gran crudeltá, gran cor, gran tirannia —dicea—dell'illustrissima Marfisa! Chi l'avria detto mai? Gesú! Maria! a un uom com'io son fatto, in questa guisa? per un bardasso, ch'io non so chi sia, che fe' Parigi scoppiar dalle risa, giugnendo di Guascogna con la rozza e con quel suo staffiere e la carrozza!
32
Io nella stalla ho sessanta corsieri, svimèr, landò, carrozze, venti legni d'intaglio e d'oro con belli origlieri, fodere di velluti ricchi e degni. Otto lacchè, trentacinque staffieri, possessioni, castella e quasi regni; e posso, per la grazia del Signore, pisciare in letto e dir che fu sudore.
33
Non son sí brutto poi della persona, quando un ricco vestito in dosso metto, e quando ho una parrucca in testa buona e un manichin di merlo che sia netto. lo so che, quando alcuno mi ragiona, sta sempre in riverenze e gran rispetto. Ma che mi giovan tante belle scene, se la Marfisa non mi vuol piú bene?—
34
Cosí dicendo, si metteva a urlare come un fanciul che al culo abbia un cavallo. Prete Gualtier lo corre a confortare, gridando:—Voi parete un pappagallo. Qui non vi convien piangere e gridare: cotesto amore alfin convien lasciallo. Di troppo offeso siete: io vi consiglio a lacerar la scritta dal periglio.
35
Non vi tirate in casa quel demonio: di non volerlo gran ragione avete. Se passate con quello in matrimonio, perdio, marchese, rovinato siete. E un diavol che non teme sant'Antonio; ed io nol scaccerò, benché son prete. Liberatevi tosto dall'impegno, o fuggo via, da sacerdote indegno.
36
—Per caritá, Gualtier, non mi fuggire, —disse Terigi;—tu di' bene assai. Io voglio andare a quel dimonio, e dire e far quel che non credi e che udirai. La mia ragion saprò farla sentire: lacererò la scritta, lo vedrai; e poiché avrò esaltato il mio gran merito, voglio voltarle tanto di preterito.—
37
Cosí detto, Terigi indosso mette il piú ricco vestito ch'egli avesse. Dimenando le sue corte gambette, va via che par che il vento lo spignesse. —La regina vo' far delle vendette, né baderò a menzogne né a promesse,— giva dicendo, e gli occhi tondi tira: giunse a Marfisa che sembrava l'ira.
38
Eran scorsi otto giorni dalla sera della conversazion che v'ho narrata, che pe' disgusti ritirato s'era Terigi e non l'avea piú visitata. Marfisa lo guardò d'una maniera la piú bizzarra che fosse inventata, e non gli ha dato campo a parlar prima, ma lo rimproverò di poca stima.
39
—Meritereste—disse—che l'amore c'ho per voi se n'andasse alle calcagna. Mi lasciaste otto giorni contar l'ore, come s'io fossi qualche vostra cagna. O un asin siete, o non avete core, o un core avete fatto di lasagna. In parola d'onor, meritereste le corna, ancor che mille capi aveste.
40
A questo modo si trattan le spose! senza creanza, rozzo villanzone! Da dama, paion cose fabulose, da farvi sú capitolo o canzone. Fatemi un'altra ancor di queste cose, perdio! non vi varrá star ginocchione.— Il marchese rimase stupefatto e pareva briaco, anzi pur matto.
41
E cominciò:—Illustrissima…—ma quella non gli lasciava dire una parola. Ei ripiglia:—Illustrissima…—e pur ella gli va serrando le sillabe in gola. —Tacete lá—gridava, e pur martella che non dovea lasciarla un giorno sola, e che una sposa, sviscerata amante, si tratta meglio, e chiamalo forfante.
42
E perch'ei pur l'«illustrissima» intuona, ella ebbe finta alcuna lagrimetta. Terigi allora a un pianto s'abbandona con una bocca quasi di berretta, dicendole:—Illustrissima padrona, per l'amor di Gesú, datemi retta. Io vi chiedo perdon, ma…—Dopo questo gl'impedieno i singhiozzi il dire il resto.
43
La dama lo scusò per quella volta; il resto non lo volle piú sapere. —La vostra villania resti sepolta: siate per l'avvenir piú cavaliere.— Cosí diceva, e Terigi l'ascolta, e non sapeva parlar né tacere. Marfisa pur lo guarda e ha replicato: —Sí, vi perdono; sí, v'ho perdonato.
44
Anzi, perché un bel pegno tosto abbiate dell'amor mio, della mia confidenza, vo' che tremila zecchin d'òr mi diate, ché supplir deggio a certa mia occorrenza. A un tal segno d'amor vi rallegrate: speditemeli tosto in diligenza; ma in avvenir non fate malegrazie, perch'io non vi farò sí belle grazie.—
45
A sí gran colpo il marchese novello, che nell'interno è gabelliere ancora, sentissi gran rivolta nel cervello, pulsare il cor che gli balzava fuora. La soggezion, l'amore in un fardello coll'interesse, e il dubbio lo scolora, ché lo sborsar tremila zecchin d'oro non gli sembrava picciolo lavoro.
46
Volea dir sí, volea dir no, volea promettere e mancar: va ruminando. Gran pagamenti fatti ch'egli avea, riscossion dure andava balbettando. Sorridendo Marfisa soggiugnea: —O vile, o pidocchioso, o miserando! voi mi movete il vomito, da dama; non dite piú, questo parlar v'infama.
47
C'è Filinor guascon, che, benché paia un poveruomo, ha in cor de' gran luigi; e basterá ch'io mandi una ghiandaia, ché gli fo grazia a chiedergli servigi. Credei farvi finezza, allocco, baia, cavalier delle fogne di Parigi! Or vo' farvi veder come un signore tratta le dame che gli fanno onore.—
48
Cosí detto, s'appressa al calamaio fingendo dissegnare un suo viglietto. Non dimandar se Terigi fu gaio o se fu per morirsi di dispetto. Avrebbe dato il cuore, non che il saio, piuttosto ch'ella scriva al giovinetto: non pensa s'ella dica bene o male, ma l'ammazza il viglietto al suo rivale.
49
A' giorni suoi non fu tanto eloquente quanto in quel punto il gabellier marchese. Le chiedeva perdono umilemente, giurava non aver le cose intese; che i tremila zecchin subitamente le avria mandati, i piú bei del paese, e ventimila e trentamila in oro, purch'ella non scrivesse a Filinoro.
50
Quella bizzarra, dentro a sé ridendo, fece per molte scosse l'ostinata; ma perché alfin Terigi va soffrendo e cominciava faccia rassegnata, lasciò la penna e disse:—Io mi vi arrendo, ché sono alfin di zucchero impastata. Maledico il mio cor, che buon non sia d'usar con chi l'offende tirannia.—
51
Terigi d'allegrezza è di sé fuori, le bacia in fretta tutte due le mani. —Perdio—dicea,—illustrissima, i sudori fareste uscir dalle midolle a' cani.— Cosí detto, correva a' suoi tesori, e tremila zecchini veneziani tosto spedí. Marfisa a Ganellone gli manda per l'incarco del guascone.
52
Or qui potrebbe dirmi alcun lettore che una dama alle truffe non discende. Ed io rispondo che Matteo scrittore faceva in quell'etá commedie orrende, e che mettea le dame, traditore piú che le putte, ove il buon vin si vende; onde Marfisa il costume apparava, e a tempo e luogo poi l'adoperava.
53
Una commedia avea Matteo formata, detta La buona moglie, e posta in scena, dove una dama finta spasimata d'un mercante vedeasi, molto amena. Sei zecchin d'oro avea chiesti l'ingrata in prestanza a colui, ch'io il credo appena; con que' zecchini poi col suo marito avea barato il mercante e tradito.
54
Questo è il costume che s'usava allora nelle commedie e ne' libri novelli. Ora torniamo a Gan, che s'innamora de' tremila zecchini, che son belli: gli tocca e con la vista gli divora; poi gli ripon ne' sacri suoi cancelli; poi ride e dice:—Questi gli sparagno, perch'io sono il mignon di Carlo Magno.—
55
Volle che Filinoro gli facesse una scrittura, in viso assai cortese, con la qual dell'incarco promettesse a Gan cento zecchin pagar il mese. —Di questi celebrar fo tante messe e marito fanciulle del paese— diceva il conte; e Filinor fu tosto per questa via nell'incarco riposto.
56
Non si potria mai dir la petulanza del guascon, quando egli ebbe il posto altero. Tutti disprezza, e con poca creanza trattava ogni piú antico cavaliero. —Il parlamento ebbe una gran baldanza a non darmi il sigillo dell'impero —diceva;—per sua parte n'ho vergogna e gliene incaco e peggio, se bisogna.
57
Marfisa a' paladini aveva detto «assassini» e «briccon» con insolenza, che non aveano Filinoro eletto: gli discacciava dalla sua presenza. Veniva il buon Terigi, poveretto; ma lo trattava con indifferenza. De' tremila zecchin piú non parlava: la trama col guascone seguitava.
58
Chi avesse detto a Terigi:—Marchese, la somma de' zecchini avete data perché il guascon sia grande a vostre spese e possa corteggiar la vostra amata,— credo che in un pilastro del paese, fuori di sé, la testa avrebbe data; ché certo dopo quell'opra famosa Marfisa e Filinor sono una cosa.
59
Era, come abbiam detto, quel guascone un garzonaccio del nuovo costume, e la trattava con adulazione, con un ruscel di lodi, con un fiume. Partito dalla sua conversazione, dicea:—Son secco, piú non vedo lume: son pur noiose queste innamorate;— e s'inventava cose da stoccate.
60
Talor diceva:—Io fui da quella matta; non poteva sbrigarmi dall'assedio: quand'io ci son, non val che la combatta perché mi lasci andar; non c'è rimedio. La mi guarda languente, contraffatta; la trae sospiri, ch'io muoio di tedio. Le puzza il fiato sí, quando l'ho presso, ch'io soffrirei piú volentieri un cesso.—
61
La dama gli avea dato qualche volta del matrimonio con Terigi un cenno. Il guascon detto avea:—Siete sepolta; pur le promesse mantener si denno: ma se goffo è il marito, ha fatto còlta la donna, ed ha fortuna s'ella ha senno. Voi m'intendete giá: questi imenei son per comoditá dati dai dèi.—
62
Rideva la fanciulla estremamente, dicendogli:—Tu sei pur spiritoso.— Quel garzonaccio aggiungea prestamente detti peggior, sicch'io dirli non oso. Quando partia, Marfisa diligente Ipalca gli spedia senza riposo, e sali, e dolci accuse si mandavano, e viglietti infocati che fumavano.
63
Terigi in casa non trova la sposa, e s'anch'ell'era in casa, ella non v'era. Ognuno al meschinel narra qualcosa, e s'inventava, ed egli si dispera. Chi l'aveva veduta furiosa, chi travestita a' ridotti la sera; ond'egli era geloso e riscaldato, e mandava spion per ogni lato.
64
Se alcuna volta in casa la trovava, or sbavigli, or rabuffi riscuoteva. Eccoti Filinoro che arrivava, e appresso la bizzarra si metteva. Il marchese sudava e sospirava per qualche gesto che lo trafiggeva, e peggio, ché il guascon mai non partia, ma volea ch'egli primo andasse via.
65
Correa d'aprile il bel mese ridente, e s'aspettava il giugno agli sponsali. Il Tauro in ciel minacciava sovente alla teda d'imen futuri mali. Nascean de' gran sospetti veramente di scioglimento ancora in fra i mortali. Tutto Parigi stava in attenzione su' scherzi di Marfisa e del guascone.
66
Terigi fece dir da don Gualtieri a Rugger che troncasse quella trama. A Filinoro avea detto Ruggeri che cercasse altra casa ed altra dama. Il guascon gli rispose:—Volentieri;— ma fe' peggior effetto il porre in brama, ché la difficoltate ed il timore fe' cercar nascondigli e punti ed ore.
67
Liberamente lo voleva in casa Marfisa, e non voleva opposizioni; ma Filinor l'aveva persuasa che, rubati, miglior sono i bocconi. Ed ella per amor cheta è rimasa, cercando or buche, or tane ed or cantoni. Se n'andava l'onor di male in peggio per le altrui vigilanze ed il motteggio.
68
La mascheretta a' furtivi sospiri era alla dama opportuna sovente. Finito il carnoval, per i raggiri veniva la quaresima assistente, i sermon sacri ed i santi ritiri, e il zendal era un mezzo onnipossente: ch'è la finezza dell'usanza nuova far quel che alletta, e quel che alletta giova.
69
Nuovamente a Rugger Terigi accocca il cappellan Gualtieri, a dirgli aperto che troppo l'onor suo Marfisa tocca e che il nuzial rimanderá per certo. Rugger afflitto non apriva bocca; e poich'egli ebbe sofferto e sofferto, a Carlo Magno un giorno fece istanza che a Filinoro facesse aver creanza.
70
Non s'usavan duelli, e le vendette s'erano riformate dall'antico: per vie nascoste dirette e indirette, chi mente avea domava l'inimico. Narrò Rugger a Carlo e cinque e sette bricconerie del guascon ch'io non dico, le corna di Terigi e di Marfisa e il disonor della magion di Risa.
71
Carlone, vecchio rimbambito, ascolta; e perch'egli era d'impression gagliarda, appena ebbe Rugger data la volta, chiama il guascon, che un momento non tarda, e disse:—Sappi che, se una sol volta andrai dov'è Marfisa, ben ti guarda, io te lo giuro da quel re che sono, che ti farò morir senza perdono.—
72
A Gano Filinor racconta il caso. Il Maganzese corre a Carlo Magno, e come bufol menalo pel naso, narrando la faccenda da mascagno; tanto che il rimbambito è persuaso, e in rabbia con Rugger batte il calcagno; e rivocando i primi ordini suoi, disse al guascon:—Va' a far ciò che tu vuoi.—
73
Io so che mi dirá qualche lettore: —È impossibil per queste frascherie s'incomodasse un tanto imperatore.— Rispondo ch'io non dico mai bugie, e ch'egli avea ricorsi a tutte l'ore per odii, per timor, per gelosie. Dame e serventi, come le formicole, volean dall'imperier cose ridicole.
74
Ecco di nuovo incomincia la tresca de' nascondigli e degli amor secreti. Terigi le minacce pur rinfresca, quando il garbuglio stran Rugger non vieti. Don Guottibuossi don Gualtier ripesca e trova scuse, e gridano tra preti: rattaccónanla un tratto, e quattro e diece; ma alfin non c'è piú stoppa né piú pece.
75
Era un dí di quaresima, e nel duomo per il predicator v'era gran piena, ché si teneva inarrivabil uomo per eloquenza e mente e voce e lena. Predicava ogni dí che il volean domo i suoi persecutor; ma:—La balena —dicea—non teme il morsecchiar de' granchi,— e Dio non vuol che l'uditorio manchi.
76
Un fraticel piú franco non fu visto. Usa argomenti e prove non piú intese. Saltava dalla passion di Cristo ad una descrizion del mal francese. Poiché dell'«attrazione» avea provisto e «parti eterogenee» il paese, e d'un trattato bel di notomia, faceva il crocione e andava via.
77
La «predestinazione» usava farla di sabato, perché gli altri oratori, non predicando il sabato, ascoltarla potessero con gli altri ascoltatori. Ma la ragion probabile, a pensarla, ch'ei spargesse di sabato i sudori, era ch'essendo solo quella volta, facea nel borsellin maggior raccolta.
78
Scrive Turpin che in questa sua fatica avea detta una cosa bella assai, cioè che Cristo nella storia antica a Pietro disse:—Tu mi negherai;— e che Pietro risposto avea:—Né mica; ciò che dite, maestro, non fia mai;— ma che Pietro alla fin l'avea negato, siccome Cristo avea pronosticato.
79
—E sapete perché—gridava il frate— Pietro avea detto il falso, e il vero Cristo? Questo fu: state cheti e m'ascoltate. Perché di Pietro piú ne sapea Cristo.— Turpino scrive che le sputacchiate, a questa distinzion tra Pietro e Cristo, furon tremila cento e settantotto, e che rise Dodon che gli era sotto.
80
Ma ripiglio la storia. Il fraticello de' costumi del secol predicava. Sedea Terigi proprio in faccia a quello, che con gli occhi suoi tondi l'ascoltava. Un sedil vuoto ha innanzi, e il frasconcello del guascon con disprezzo lo pigliava; gli siede avanti, e talor si volgea e lo guardava in viso, e poi ridea.
81
Parecchie asinitá, simili a questa, dice Turpin che gli andava facendo; ma l'ultima gli fu tanto molesta, che fu quasi per trarre un guaio orrendo. Una lettra il guascon poco modesta, che ancor fresco ha l'inchiostro, va leggendo, e la tien tanto aperta e sí palese, che leggerla potesse anche il marchese.
82
In fronte avea la lettera: «Cor mio!» il contenuto non lo voglio dire; basti saper che il fine era un addio da far di tenerezza un uom svenire. —Miserere di me, che mai vegg'io!— disse Terigi e si poté sentire; perch'ell'era una lettera, una manna, di pugno proprio della sua tiranna.
83
Non si ricorda piú d'esser in chiesa, né del predicador, né dell'udienza. Si leva e corre con la faccia accesa, come se lo cacciasse la scorrenza. Dá d'urto negli astanti e fa contesa; s'è scordato il «con grazia» e il «con licenza»: fece rivolta come un Truffaldino, arrabbiato, grassotto e piccolino.
84
Esce dal tempio alfine, a casa è giunto, e don Gualtier, suo mansionario, chiama. —Prete—gli disse,—è questo il duro punto, ch'abbandono Marfisa, che non m'ama. Non m'ama, mi tradisce! Son consunto: si freghi dietro il suo titol di dama. Véstiti in lungo tosto, e m'ubbidisci: questa scritta nuzial restituisci.—
85
Poi della lettra e del guascon sfacciato gli narra. Don Gualtier facea stupori: poscia in veste talare s'è avviato alla magion di Risa a far rumori; e poiché il caso e il comando ha narrato del padron suo, la scritta trasse fuori. Sopra d'un tavolin la pose, e poi volge le spalle e va pe' fatti suoi.
86
Bradamante è caduta in sfinimento; don Guottibuossi corre per l'aceto; Ruggero è saggio e prova un gran tormento: volea gridar, voleva starsi cheto. Marfisa seppe il fatto e, come il vento, spedisce Ipalca al guascone in secreto a dirgli che, se il mondo rovinasse, ella gli vorria bene, e ch'ei l'amasse.
87
Queste difficoltá, questi fracassi, questi accidenti grandi da narrarsi, eran per la bizzarra giuochi e spassi, perocché andava dietro a immaginarsi che nelle brutte e ne' talenti bassi la vita cheta sol potesse darsi. —Le marmotte—diceva—di pel tondo non sono buone a tener desto il mondo.
88
Chi ha merito—diceva—il mondo tiene sempre in discorso e in sé col guardo vòlto. Che dica bene o male, o male o bene, di questa cosa non mi curo molto. De' bacelloni han delle sciocche pene, ma i scempi non gli curo e non gli ascolto. L'invidia e l'ignoranza può contendere, ma il mondo è per metá sempre da vendere.—
89
Dalle commedie e da romanzi nuovi traea gran parte de' suoi bei riflessi. Nelle pubbliche piazze e ne' ritrovi, nelle botteghe, e tra birri e tra messi, si fanno ciarle intanto, e par che provi ognun che il caso nato ben non stessi, che buona cosa avea Terigi fatta e che Marfisa era una bella matta.
90
Di Filinor la voce universale dicea ch'egli era un cavalier briccone. Ei va pensando riparare al male: sfida Terigi con un cartellone; che scelga il campo e l'arma; che a mortale duello il vuol per la riputazione. Terigi, grasso, pigro e piccoletto, fu per morir quando il cartello ha letto.
91
L'onor non vuol che tardi alla risposta, né che ricusi la disfida certo; ma se guarda alla trippa mal disposta e ascolta il cor, si ritrova diserto. Chiama il prete Gualtieri:—Deh! t'accosta,— dicendo, ed il cartel gli dava aperto. Don Gualtier legge. Il caso del duello non vo' dirvi per or, ch'è troppo bello.
Il duello non segue per la mente
di don Gualtier. Marfisa è screditata.
La corregge Ermellina. Agiatamente
Gano sen muore in forma inaspettata.
Bandito è Filinor: resta furente
Marfisa e fuor di modo disperata.
A Turpino arcivescovo Ruggero
chiede di porla a forza in monastero.
1
De' costumi del secol predicava il fraticel, se vi ricorda, ho detto. Pulitamente ogni punto toccava dell'andazzo vizioso maledetto. Nel suo quaresimal non si trovava sermon che fosse, come quel, diretto, della gola, dell'ozio e degli amori. Le costure scuoteva agli uditori.
2
Delle miglior cucine di Parigi, de' miglior letti e delle miglior tresche, de' luoghi ove scorrevano i luigi per gozzoviglie e per guanciotte fresche, dove dell'allegria sempre i vestigi, era, e del giuoco e delle piú dolci esche: avea 'l frate studiato in fra l'untume del secolo il sermon sopra il costume.
3
Donde sapea del secol la malizia, perché vivea nel secol veramente; ma al minacciar la divina giustizia, il secol si rideva apertamente; ché gli equivoci, i vini e la dovizia, ch'egli ogni dí cercava in fra la gente, facea che il detto: «Fa' quel ch'io ti dico, non quel ch'io fo» non s'apprezzasse un fico.
4
Turpin sotto al suo ricco baldacchino era nel duomo, e avea presso Dodone. Si volse a quel, dicendo:—Paladino, perdio! questo è un bel pezzo di sermone. Dovria pentirsi il secolo assassino a tai sudor di noi sacre persone. Parmi che passi delle vostre colpe questo sant'uom piú addentro che alle polpe.—
5
Dodon rispose:—Arcivescovo mio, del secol questo frate ha detto il vero; ma fatemi un piacer, se amate Dio: i vostri frati radunate e il clero, ché un giorno voglio lor predicar io, e facilmente di provarvi spero che il maggior mal, che nel mio secol sia, deriva dalla vostra sacristia.—
6
Turpin prudente e grave partí zitto con la sua cappa magna e il pastorale, dicendo:—Un bel tacer non fu mai scritto.— Benediceva il mondo universale, ed alla mensa vescovil, che vitto pareva d'Epicuro, la morale rammemora del frate, disprezzando gli stravizzi del secolo nefando.
7
Ma dove scorro? Io chiedo umil perdono a Turpin, che dal ciel forse m'ascolta. Altro non penso ed altro non ragiono che fatti da lui scritti quella volta. Ora a Terigi ritornar fia buono, che la disfida del guascone ha tolta a esaminar col cappellan, dicendo: —Tu vedi, prete: me tibi commendo.—
8
Prete Gualtier non era senza testa: conosce ben che il guascone era accorto; che il gradasso facea nella richiesta, perché Terigi era grassotto e corto. E disse:—Nulla non temete; a questa disfida io vi trarrò con lode in porto. Qui deluder convien l'arte con l'arte, come c'insegnan le moderne carte.—
9
Gli pose innanzi penna e calamaio, dicendo:—Quel ch'io detto voi scrivete.— Disse Terigi:—Io scrivo tutto gaio; ma pensa a quel che detti, caro prete.— Dicea Gualtier:—Ho il guascon nel mortaio. Scrivete pur, ché non vi pentirete.— E finalmente il buon Terigi scrisse ciò che volle Gualtier, che cosí disse:
10
«Io Terigi, marchese e duca e conte e signore di eccetera, al guascone Filinor dice ch'egli ha le man pronte al duello minacciato e lo spadone; che sceglie il campo, e fia di lá dal ponte, di Senna in sulle rive, al torrione; ma avverto Filinor che prima impari che i duelli non seguon che fra pari.
11
Voi del re Carlo Magno e imperatore di cavalier di camera nel posto siete, e persona pubblica; io signore privato son: sicché tutto all'opposto. S'io v'ammazzo, vedete in qual errore di lesa maestade incorro tosto. Nessun mi può salvar dalla rovina del fisco e della morte repentina.
12
Se voi mi trafiggete, io son privato: v'è assai piú facil rattoppar la cosa. Questa disuguaglianza è gran peccato e una sopraffazione vergognosa. Quando avrete l'incarco rinunziato, non sará la disfida difettosa; e allora al torrione oltre alla Senna v'attenderò diritto come antenna».
13
Scritta la lettra, diceva Terigi: —Non vo' mandarla, grida a tuo talento. Può rinunziare, e allor, per san Dionigi! venga a me l'olio santo pel cimento.— Dicea Gualtieri:—Io sfido Malagigi a ritrovar piú sano pensamento co' suoi dimon. Non abbiate paura, ché vi fa grande onor la mia scrittura.—
14
Questo viglietto il prete, buona lana, fe' che Terigi a Filinor spedisce. Al guascon la risposta parve strana: pensa e ripensa e nulla stabilisce. Lasciar l'incarco non è cosa sana; questa risoluzion forte abborrisce, perocch'è necessaria la prebenda: e par che la risposta non intenda.
15
Replica la disfida e chiama vile il marchese Terigi e poltroniere. Gualtieri è corbacchion di campanile: risponde che l'accetta con piacere; ma che rinunzi prima, s'è civile, il suo pubblico incarco all'imperiere, e poscia che sará di lá dal ponte, in sulla Senna, come un Rodomonte.
16
Comincia Filinor pubblicamente a narrar per la piazza le faccende. Terigi è in sull'avviso, e colla gente narra la sua risposta e si difende. Ognun gli dá ragione apertamente, e la bassezza del guascon riprende. Tutto Parigi entrato era in questione, e si dava al marchese la ragione.
17
Ne' pubblici discorsi la canzona finiva in sulle spalle di Marfisa. Se le metteva in capo una corona di pazza, d'immodesta e d'altra guisa. Si sa che, quando un popolo ragiona, ha piú valor chi muove maggior risa, né si guarda alla dama o alla plebea ne' titoli, ne' detti o nell'idea.
18
Se avea Marfisa amica donna alcuna, si potea dir che questa era Ermellina. La moglie del danese era quell'una che sola le poteva star vicina. Era una dama fatta in buona luna, che si piccava d'esser indovina, sincera, perspicace e di coraggio, atta a dar un consiglio molto saggio.
19
Sentendo il mormorio de' susurroni e lo sparlar contro Marfisa amica, aveva detto a parecchi:—Bricconi e della caritá gente nimica!— Poi per andare a far le ammonizioni, si fece portar via 'n una lettica, e le stimate fece con le mani, giunta a Marfisa, e disse:—Ho degli arcani.
20
Cara figliuola mia, tutto il paese discorre che Terigi t'ha piantata. Ma poco stimo il fatto del marchese: piú mi trafigge l'altra intemerata; ché mille lingue serpentine accese t'hanno assai malmenata e screditata. Si fanno sopra te discorsi orrendi, come se fosti qualche… tu m'intendi.
21
Queste imprudenze, questi nascondigli, il voler a tuo modo senza freno, le lettere amorose, i tuoi puntigli per certi Filinor sono un veleno; e désti a sospettar sino a' conigli, e a dir ch'è il tuon, dove appare il baleno. Io ti difendo, ma una lingua sola non può frenar d'un popolo la gola.—
22
Rispose allor Marfisa:—A modo mio la vorrò sempre; non son piú ragazza. Perché ho mente e intelletto e spirto e brio, dal volgo ignaro son creduta pazza; ma se innocente sono appresso Dio, non bado a' pregiudizi della piazza. Terigi, i maldicenti e le lor voci io tengo dove soffiansi le noci.—
23
L'Ermellina soggiunse:—Adagio un poco, cara sorella, non vi riscaldate. Con questo furor vostro e troppo foco, credendo farvi onor, vi rovinate. Gesú, Giuseppe e la Madonna invoco, e vi farò veder che v'ingannate, e che il vostro cervello ha un po' di vizio, credendo il mondo sempre in pregiudizio.
24
Sonvi tre leggi, e la divina è prima, la seconda è del re che ci corregge, forma il popol la terza in ogni clima; benché non paia, ella è purtroppo legge. L'ubbidir la divina e farne stima fa, dopo morte, Dio pel ciel ci elegge; chi la seconda offende, non fa bene, perché ha morte, prigione ed altre pene.
25
Gli offensor della prima, al pentimento, trovan misericordia ed han perdono. Il re pietoso, ed anche oro ed argento, fa cambiar la seconda nel suo trono. Se il popol giudicato ha il portamento di donna, d'uomo, o l'ingegno, non buono, perdio! s'è santo ed ha cervel divino, è un ladro, un traditor, un Truffaldino.
26
Le colpe innanzi a Dio non sono oscure, il re co' suoi processi le fa chiare; il mondo guarda, e fa sue conietture: dritte o torte che sien, vuol giudicare. E, verbigrazia, tu non vuoi misure nel viver, nel parlar, nel praticare; nel cor potresti anch'esser santa Rosa, t'ha giudicata il mondo un'altra cosa.
27
E se viver pur déi del mondo in mezzo con buona fama e con riputazione, s'ei col giudizio t'ha posta nel lezzo e sei del mondo in trista opinione, dell'innocenza attenderai da sezzo premio nel ciel, ma non fra le persone; né t'appagar di qualche riverenza d'adulazione o di concupiscenza.
28
Molto ben sa la legge nel suo core la maritata, che le pose il mondo; la sa la vedovella pel suo onore, e la fanciulla la conosce a fondo: ma la foia, il capriccio ed il furore, la vanitá mena la mazza a tondo; e maritate, vedove e donzelle spezzan le leggi e fabbrican novelle.
29
Un «costume novel» detto è l'abuso. Gli scrittoracci pieni di lussuria co' lor riflessi aiutano il mal uso, ' perché godon veder le donne in furia; e i giovinastri lor dicon sul muso ch'è sciocco pregiudizio il far penuria. Ma il mondo in pieno a chi non ha cervello, credi, Marfisa, dietro fa un libello.
30
Scommetterei, sorella, che se sposa t'esibisci al guascon, ch'è tuo piacere, la tua gioia, il tuo core, la tua rosa, e che speri che t'ami di sapere; ei rivolge il discorso ad altra cosa, facendo il sordo o albanese messere, ché quanto piú vizioso è l'uomo e franco, men vuol Marfise per ispose al fianco.
31
Credi alfin che la donna in suo contegno, che dello stato suo la legge osserva, laudata vien dal degno e dall'indegno, e general riputazion conserva. Questo sciôr matrimoni a un picciol segno e del proprio capriccio farsi serva, il cambiar Filinori a fantasia e il cagionar duelli, è una pazzia.—
32
Dall'Ermellina in fuori, la bizzarra un tal discorso non avria sofferto. In sulla lingua avea la scimitarra; pur disse cheta:—Io non credea per certo che mi veniste innanzi con le carra di riflession, ch'io dono al vostro merto. Leggi o non leggi, universale o mondo, io nulla intendo e nulla mi confondo.
33
Piú libera di me ne' portamenti è la duchessa Fulvia de' Migliori, e la reina Isotta fa portenti, e la marchesa Ilaria co' signori. —Allega delle matte piú di venti in tua difesa, alfin poco t'onori —disse Ermellina,—ch'anche i disperati dicon:—Non sarem soli in fra i dannati.—
34
Orsú, tu déi lasciar cotesta vita e devi Filinoro abbandonare. Pónti in contegno, ed a Terigi unita voglio vederti e il filo rappiccare. La giovinezza fugge, e quando è gita, sai che non suole addietro ritornare. Ti ridurrai vecchiaccia ricusata, abborrita, ridicola e muffata.—
35
Scrive Turpin che a questa volta sola pianse Marfisa assai dirottamente. Abbracciando Ermellina, la parola non potea sciôr pel singhiozzar frequente. Poi disse alfine:—Amica, la tua scola non voglio disprezzar, sarò prudente; ma dell'abbandonare il mio guascone io non ho cor per tal risoluzione.
36
Caro colui! Quegli occhi, i capei biondi, lo spirito elevato, l'eloquenza, que' sospir caldi, i sguardi moribondi, la franchezza, l'affabile presenza, le erudizion che vaglion mille mondi, quella non so qual nobile insolenza, quel sprezzar snello e quella maggioranza fanno che del cor mio non me n'avanza.
37
E' tiene un alfabeto regolato, co' nomi e colle nascite a puntino, d'ogni tenor, di qualunque castrato, e d'ogni ballerina e ballerino, e d'ogni cantatrice sa il casato, l'abilitá, la vita e il vagheggino; insomma un cavalier d'usanza nuova piú pulito di lui non si ritrova.
38
Dio ti dica per me se delle mode ei s'intende all'eccesso, e del buon gusto e delle acconciature e delle code, d'un abito, d'un drappo e d'un imbusto; se in un teatro sa chi merta lode, se d'un poeta sa decider giusto. Di Marco e di Matteo nelle riforme scopre il bel, vede il buono, è a me conforme.
39
Ponlo con un cattolico, è cristiano; ponlo con un eretico, ei s'adatta; con un pagano, e' par nato pagano; con un giudeo, giudeo sembra di schiatta. Accorda tutto, è universale e piano, e veramente sa come si tratta; coltiva tutti, con ognuno è amabile, e infine è un uom moderno, inarrivabile.
40
Io non posso, Ermellina; ti prometto che sono indiavolata per colui: non lascerò giammai quel caro oggetto; mai piú, Ermellina, d'uom sí cotta fui. Se tu provassi il foco c'ho nel petto per le bellezze, per i merti sui, tu piangeresti e mi compatiresti, e per compassion m'aiuteresti.—
41
E qui Marfisa al collo d'Ermellina piangeva e singhiozzava amaramente. L'altra avea la corata tenerina, e sapea ben che Amore era possente; donde, commossa, scorda la dottrina, comincia a lagrimar dirottamente, e quando il singhiozzar le permettea: —Convien lasciar… convien lasciar…—dicea.
42
Marfisa sempre va crescendo il pianto, dicendo:—Io non lo posso, ché son morta.— Intenerisce l'altra, che altrettanto apre a un ruscel di lagrime la porta. Ma finalmente disse:—Vedo quanto sei spolpata d'amore; ti conforta. Io scopro che a guarirti le parole son vane e che un miracolo ci vuole.
43
E però del caffé, del cioccolate io vo' mandare a certe donne sante, acciò con le preghiere infervorate ti facciano scordar cotesto amante; ed io per tre domeniche ordinate farò la comunion santificante. Tu alla sacra famiglia fa' orazione, e t'uscirá dal cor questo guascone.—
44
Marfisa alle sue massime rispose pazzi detti del secolo d'allora, che gli Ottimismi e l'altre opre famose le avean mandato il cerebro in malora. L'altra le mani agli orecchi si pose fuggendo, e credo ch'ella fugga ancora, maledicendo l'ozio, gli scrittori, il costume novello e i Filinori.
45
Quel di Guascogna intanto al torrione di lá da Senna ogni dí passeggiava: con lungo spaventevole spadone, per far duello, il marchese aspettava. Il marchese alla corte di Carlone, a veder se l'incarco rinunziava, manda ogni giorno; e pur lo trova saldo, e lascia che passeggi nel suo caldo.
46
Poi di soperchiator gli dá la taccia e lo predica vile e prepotente. I paladini con scoperta faccia condannan Filinoro apertamente. A poco a poco fuggon la sua traccia; dove son, non lo vogliono per niente; come un codardo, un messo, un contadino, non l'accettano piú nel lor casino.
47
Per sua maggior sventura il conte Gano, suo direttore, a novant'anni giunto, per il catarro è a letto, dalla mano del medico sfidato, al duro punto, né se gli può parlar, perché il piovano, che con l'estrema unzion giá l'aveva unto e gli accomanda l'anima, dicea che andarlo a disturbar non si potea.
48
Berta piangente e mezza in sfinimento dicea che certo ella gli andava dietro, che si sentia nel cor presentimento, che non potea soffrire il caso tetro; e poi chiede al piovan se testamento faceva il conte Gano, e di qual metro, soggiungendo:—Piovano, io sono certa che gli ricorderete la sua Berta.—
49
Il piovan rispondea:—State pur cheta, ch'egli ha disposto con somma prudenza. Un'anima di Dio, né piú discreta, non ho trovata in altra mia assistenza. Gran confession da dottor, da profeta! gran sottile, illibata coscienza! Ma giá sapete in quanta divozione faceva ogni otto dí la comunione.—
50
Gano il suo testamento avea rogato, e istituita una mansioneria perpetua nel piovan che aveva a lato, e in quello che in pro tempore faria. Per ogni messa ordinava un ducato; e inoltre un funeral commesso avia di quarantotto torcie di gran peso, incerto pel piovan di zelo acceso.
51
Trecento preti aveva anche ordinati, e a ciaschedun di tre libbre un torchietto, duemila sacrifizi celebrati lo stesso dí ch'entrava in cataletto. Infiniti legati a preti, a frati. Della disposizione il resto ometto, ché basta il dir del testamento quanto vi fa veder che Gano è morto santo.
52
Il Maganzese mille tradimenti aveva fatti e usate sodomie, mandate in chiasso e in preda a' malviventi le stuprate donzelle e per le vie, ed infamati avea mille innocenti, e fatti usurpi e truffe e ruberie, né verbo si leggea nel testamento di rifar danni o di risarcimento.
53
Lo volle morto Dio di novant'anni sul letto ed affogato dal catarro; ed i sacri leviti in grand'affanni la santitá di lui misero in carro. Deh, lettor mio, non creder ch'io t'inganni; Turpin lo scrisse, io quel ch'ei scrive narro: che al seppellir di Gano un cieco nato guarí, perché il suo corpo avea toccato.
54
Sappiam che Dio per sua misericordia talora a' tristi lunga etá concede, perché con lui si mettano in concordia un giorno o l'altro, e questo abbiam per fede. Ma lo star con Gesú sempre in discordia, testando alfin come di Gan si vede, prete Turpin può ben scriver miracoli, non porrei Gano mai su' tabernacoli.
55
Morto Gano, il guascon divenne come un uom storpiato a cui la gruccia è tolta. Ognuno a modo suo gli cambia nome, e in ridicol lo mette e non l'ascolta. Un fulmine gli venne in sulle chiome, ch'ogni fortuna sua gli ebbe sepolta, perché una legge nuova è fuori uscita, che i duelli bandia, pena la vita.
56
Contro la legge egli era sfidatore: fu rilasciato l'ordin di pigliarlo. S'avvide il furbo, e di Parigi fuore fuggí né si poté piú ritrovarlo; e fu bandito come traditore, con taglia a chi potesse ghermigliarlo. Marfisa, come il bando udí gridare, voleva alla cittá foco appiccare.
57
Se mai le lingue a screditar la dama s'erano per lo innanzi affaticate, in cento doppi al bando ognun l'infama, narra le storie vere e le sognate. L'infelice Rugger per la sua fama don Guottibuossi chiama a sé, l'abate. Il prete ha stabilito poco innante una risoluzion con Bradamante.
58
E disse:—Per tôr via peggior vergogna, che potria far Marfisa al nome vostro (ch'io so ch'ella è disposta e ch'ella agogna fuggir di notte dietro al suo bel mostro), far istanza a Turpino vi bisogna che a ficcarla v'aiuti in qualche chiostro. Dalla man vescovile ivi serrata, crepi di rabbia, giovane o invecchiata.—
59
Piacque il consiglio al buon Ruggero, e tosto andossi all'arcivescovo Turpino. E le preghiere e il desiderio esposto, Turpin rispose:—Caro paladino, io veggo a gran cimento tu m'hai posto: conosco di Marfisa il cervellino, e temo esporre a troppo grave rischio le monachette con quel bavilischio.—
60
Era Turpino un vecchierel scarnato, con naso grande, adunco e pavonazzo, ciglia avea grosse e collo sperticato, come un Scipio African d'un tristo arazzo. Piccoli ha gli occhi, il mento in su voltato: nel ragionar faceva un gran rombazzo, ché voce grossa aveva, ed i polmoni robusti ancora a spinger paroloni.
61
Non avea grande acume, tuttavia era un gran parlatore, era zelante. Avea di scriver sempre fantasia, ed ha gran fogli e calamai davante. Con poca lingua e poca ortografia scrivea la storia di Carlo regnante, la qual fu poscia per tant'anni tema a' gran poeti, or è del mio poema.
62
Seguendo con Ruggero il suo discorso, con voce grossa e da gran zelo acceso, disse:—Rugger, tu mi chiedi un soccorso, che infinite persone hanno preteso; né so come il costume sia trascorso ad una corruzion di tanto peso. Omai fratel né padre di famiglia alla suora comanda od alla figlia.
63
Infin che in fresca etá ne' monasteri si mettan le figliuole o le sorelle, a questo condiscendo volentieri, so che l'han care anche le monacelle. Ma che voi, conti, duchi e cavalieri, disperati per mille taccherelle, vogliate ch'io le chiuda di trent'anni, perdio! convien per forza ch'io m'affanni.
64
O tristo esempio certo o poca testa inauditi disordini cagiona. Un figliuol giuoca, quell'altro s'impesta, l'altro prostituisce sua persona: de' padri un si percuote, un si tempesta, né in casa posson far correzion buona; ma sturban contro a' figli dissoluti la maestá del re, perché gli aiuti.
65
Per le fanciulle matte ogni momento si chiede asilo a' vescovi nel chiostro. Dove avete il cervello e il pensamento, che non possiate comandar sul vostro? Ma la vera ragion, per quel ch'io sento, della rivoluzion del secol nostro, è il costume novel, l'ozio, gli amori, e la vita epicuria e gli scrittori.
66
I capi di famiglia e i padri omai non possono por freno a' figli loro, perché difetti han sulle chiappe assai, e divenuto è vil castrone il toro. Chi ha la coscienza lorda, guai! poco poi vale a fare il Boccadoro sopra le mogli e sopra le figliuole. Ognun si ride, e poi fa ciò che vuole.
67
E passa il vizio per ereditade di madre in figlia e di padre in figliuolo. Invero io veggio cose per le strade, ch'io tiro salti come un cavriolo, perché a' miei giorni erano cose rade, ne' piú rimoti nascondigli solo; e vorrei divenire e cieco e sordo, quando i nostri bei tempi mi ricordo.
68
Ben sai, Rugger, che storico son io de' fatti del re Carlo e de' campioni. Quand'io confronto i fatti vecchi e il mio scriver novel, mi triemano gli arnioni. L'imbroglio nel qual sono, lo sa Dio, nel porre a libro le novelle azioni. Il lusso, l'ozio ed il costume tristo forman casi ridicoli, per Cristo!
69
Son ridotto a notar: «Nel tal millesimo le donne si tagliâr corti i capelli. Del tal la moda non volle il medesimo; lunghetti e pengiglianti volle quelli. Nel tal fatti in cignone sul battesimo. Nel tale co' bonè, poi co' cappelli; e i merli si cambiâro in «milionetti», e fûro a mostra i tettaiuol de' petti.
70
Re Carlo fece una festa da ballo; il duca Astolfo ebbe il piú bel vestito; il miglior danzatore senza fallo fu il marchese Olivieri a quell'invito. Del tal anno correva il color giallo, e del tale il cilestro fu gradito. Il guernire a gallon divenne gramo: fu moda lo scarlatto col ricamo.
71
Sessantadue paladini il tal anno abbandonâr delle servite il fianco; parte per gelosia, chi per inganno, e chi perché il borsel gli venne manco. Mille famiglie l'altro ebbero il danno, pel lusso e pel puntare e pel far banco, pel far de' scrocci e prendere ad usura, di fallire e ridursi alla verdura».
72
Piú oltre non vo' dir della materia, ch'oggi forma la storia del re nostro; dico sol ch'è ridotta una miseria, ch'io mi vergogno a consumar l'inchiostro. Ma sopra tutto la faccenda seria, cambiati paladini, è il fatto vostro, e che in casa pel figlio e per la figlia e per la suora non abbiate briglia.—
73
Era Turpino rigonfiato e avria quattr'ore ancora seguitato a dire. Era stanco Rugger e disse:—Via, o tu mi vuoi o non vuoi favorire. Non so come ti venga bizzarria di rimprocciare il nostro poco ardire, l'obbligo che conviene e che ci tocca. Ricúciti una spanna della bocca.
74
Ché non raffreni tu molti pretacci, che son sotto la tua giurisdizione, sfrenati, puttanier, peccatoracci, che insidian le moglier delle persone, zerbini, ignoranton? ché non gli spacci con la censura e con la sospensione? Ché Gesú Cristo è omai giunto alle mani di peggior genti degli ebrei marrani.—
75
Se Turpino avea naso pavonazzo, a questa volta se gli fece nero. Comincia i piedi a batter sullo spazzo, e a gridar forte:—Oh, corpo di san Piero! Oh! io fo bene assai, se non impazzo per le parole che tu di', Ruggero. Che non fec'io per porre i preti a freno con duemila decreti o poco meno?
76
Minacce, sospension, che vaglion mai in questo nostro secolo meschino? Don Berto dice:—Grida, se tu sai, ch'io sto in casa d'Astolfo paladino.— Don Martin dice:—Io bado bene assai; son mignon di Baiona d'Angelino.— L'altro di Berlinghieri è creatura, e delle correzion non ha paura.
77
Gli sospendo a divinis o la messa: dicon che loro era cosa molesta; o spinto dal furor d'una contessa, vien qualche duca a rompermi la testa; e venti e trenta e cento ed una pressa, mi strapazzano alfin con gran tempesta: convien che il prete la sua messa dica, s'io non vo' morir martire all'antica.
78
E tu sai ben, Rugger, che in casa tieni don Guottibuossi, prete alla moderna; e vita contro me vuoi pur che meni, che serva dama e vada alla taverna; né ti vergogni e improverar mi vieni! Or ti castiga la bontá suprema.— Volea piú dir Turpin, ma quel di Risa replica che l'aiuti per Marfisa.
79
E finalmente Turpin di buon core l'ordine diede che Marfisa fosse accettata in convento a certe suore, e per farlo eseguir Rugger si mosse. Sapea ben ch'eseguito con amore non saria, donde un gelo avea per l'osse. Come in questo la dama fosse còlta, ho stabilito dirlo un'altra volta.
Di prete Guottibuossi un stratagema caccia Marfisa in monastero; e in questo tra le monache e quella, che non trema, nasce un combattimento poco onesto. A Terigi il decoro e l'util scema; gli vien promosso un piato assai molesto. Diconsi alcune cose de' scrittori, poi del guascon ch'è di Parigi fuori.
1
Io non saprei ben dir da che nascesse la ragion de' rimproveri in que' tempi, e perché l'ecclesiastico dicesse con fondamento a que' del secol «empi», e perché il secolare anch'egli avesse ragion di taccia a' direttor de' tempi. Non avea torto il vescovo Turpino, e non l'aveva Rugger paladino.
2
Mancava la pietá ne' secolari, in conseguenza l'util della Chiesa. I preti, bisognosi di danari, si davano alle truffe alla distesa e a mille azioni indegne de' collari, perch'ogni dí necessaria è la spesa. Ne' secolar lo scandol s'aumentava, e il pio tributo ognor si scarseggiava.
3
Donde cresceva sempre maggiormente ne' religiosi l'arte e la magagna, Il secol diveniva miscredente, e sempre piú volgeva le calcagna. Cosí il disordin reciprocamente era omai divenuto una montagna. Avea ragion Turpino alla questione, e Rugger paladino avea ragione.
4
Mi converria saper fino ab initio chi fosse primo, il secolare o il prete, a dar cagione al mal, cadendo in vizio, per dar sentenza; e so che m'intendete. Ma io non voglio far cotesto uffizio di veder chi fu il primo nella rete, perocch'ella saria parte odiosa. Orsú, non farò mai cotesta cosa.
5
Rugger, don Guottibuossi e Bradamante sopra tre scranne in una cameretta consiglian come quella stravagante si potesse cacciar nella celletta, perché il farla pigliar da un arrogante, da tre, da quattro, e farla annodar stretta e portarla in convento, non va bene, ché farebbe una scena delle scene.
6
Dicea Rugger:—Io mi sento che scoppio.
Che direm, Guottibuossi, e che faremo?—
Bradamante dicea:—Diamle a ber oppio,
e addormentata via la porteremo.—
Dicea don Guottibuossi:—Ho un pensier doppio;
lasciate ch'io il maturi, e parleremo.
Tutto ha rimedio fuor che il collo in pezzi.—
Bradamante l'aiuta co' suoi vezzi.
7
Nota, lettor, che l'ordine Turpino a Fiordiligi in scritto aveva dato d'accettar la Marfisa al suo destino, purché Rugger la porta abbia pagato. Fiordiligi moglier d'un paladino fu un tempo, ma Gradasso l'ha ammazzato in Lipadusa a tradimento ed arte, detto, come si legge, Brandimarte.
8
Morto il consorte, questa vedovella avea fondato un certo monastero, e aveva pianto per tre giorni in cella, la tonaca vestendo e scotto nero, col voto di lasciar la vita in quella. Dopo tre giorni ebbe un altro pensiero, ma non fu poi rimedio a cambiar vita; donde viveva monaca pentita.
9
E perch'ell'era fresca e parlatora, mille visite aveva ogni momento. Grandi aderenze ha per Parigi e fuora, per utile ed onor del suo convento. Scrivea de' vigliettin quaranta all'ora; protegge il concorrente e il malcontento; raro era quel raggiro entro a Parigi ignoto all'abadessa Fiordiligi;
10
ché quasi in tutto ella metteva mano. Certi avoltoi pretini espiatori tenea de' casi, e qualche altro cristiano pratico de' secreti de' signori; e comandava come un capitano, quando voleva cariche o favori; e quando un uom voleva rovinato, ei fuggía per non essere impiccato.
11
Don Guottibuossi avea pensato molto, e disse alfin:—Fiordiligi abadessa potrebbe il tordo aver nel laccio còlto senza tanti romori e tanta pressa, se a scrivere un viglietto avesse tolto, con certa menzognetta dentro messa; cioè ch'ell'ha novelle del guascone da darle occulte ed in confessione,
12
e che Marfisa nel convento aspetta secretamente e in somma gelosia. Data in nascosto questa polizzetta a Marfisa, son certo, ella va via; quand'ella è dentro poi, si chiude in fretta l'uscio del chiostro con gran leggiadria. Cosí, senza romori e forza al caso, il topo è nella trappola rimaso.
13
Difficile è il ridur, come vedete, Fiordiligi alle cose che ho pensate; ma sono amico assai d'un certo prete, il quale è confidente d'un abate; questo comanda a un venditor di sete, e questo a una puttana, e questa a un frate; il frate poi della badessa è tutto: donde farem maturo questo frutto.—
14
Difatto il cappellan dal prete è gito; il prete coll'abate fece motto; l'abate col mercante ha stabilito che si mettesse la puttana sotto; e quella indusse il frate al suo partito. È ver che ci fu in mezzo anche un borsotto; ma non si sa se questo andasse in mano alla puttana, al frate o al cappellano.
15
Basta che Fiordiligi fe' tenere alla bizzarra il vigliettin che ho detto. Marfisa n'ebbe un lago di piacere; da' piè le corse il sangue all'intelletto; e non aspetta altro messo o corriere, ché del guascon ragionava il viglietto e le dicea: «Venite tosto e sola, ch'io v'ho a dir molto grata una parola».
16
Era il meriggio, era di maggio il mese, il foglio a pranzo invitava la dama. Sappi, lettor, se tu non se' francese, che a Parigi non s'usa quella trama di proibir, come in altro paese, d'andar nel chiostro a visitar chi s'ama. In qualche giorno questo vien permesso: correa quel giorno libero l'ingresso.
17
Mette il zendal Marfisa in sulla testa, facendo «bao bao» col suo ventaglio; giugne al convento, e la campana presta tira, e gran picchi fe' dare al battaglio. La portinaia, suor Maria Modesta, correva al bucherello in gran travaglio, ch'una seconda scossa sí villana potea gittare in pezzi la campana.
18
Vide Marfisa, e presto apre la porta, ché avea precetto della superiora; poi chiude l'uscio e le fa innanzi scorta, e la conduce come traditora. Marfisa va che il diavol ne la porta; di saper del guascon non vede l'ora: ben cinque porte dietro le son chiuse, né cerca lo'mperché, né chiede scuse.
19
Cosí la quaglia maschio, dal quaglieri e dalla quaglia femmina disposta, seguendo il canto, cieca volentieri entra sotto del bucine a sua posta. Nessuno al suo viaggio andò leggeri quanto Marfisa, che al laccio s'accosta; la mente fitta aveva nel guascone, entrando sotto al bucine in prigione.
20
In una stanza la badessa stava con parecchie sorelle intornovia. Marfisa la baciava e salutava, e basso le diceva:—Andiamo via.— Fiordiligi in sul grave si rizzava, e disse forte:—Sappi, figlia mia, io deggio dirti questa cosa sola: che fuor di qua non esce chi non vola.—
21
Le sono intorno l'altre monacelle, dicendole che avesse pazienza, e s'inchinasse al cielo ed alle stelle che l'avean sentenziata in penitenza. Marfisa guarda queste e guarda quelle. —Che penitenza?—disse—che sentenza?— E non potea rassettar nella mente, che le avvenisse il caso impertinente.
22
Poi, vòlta alla badessa, riscaldata: —Io venni per saper di quell'amica —disse,—per quella lettera mandata, che voi sapete senza ch'io vel dica.— Rispose la badessa sussiegata: —Quello io vi scrissi per scansar fatica, ma brievemente la storia sincera, Marfisa, è che voi siete prigioniera.—
23
Nessun può col cervello immaginare biscia, serpente, tigre o lionessa, che alla bizzarra possa somigliare, all'ultimo parlar della badessa. —Perdio, pelate—cominciò a gridare,— ch'io sarò a pezzi, a spicchi, a quarti messa; se foste mille, non avrò paura: non mi terrete dentro a queste mura.—
24
E cominciava a correre alla porta. La badessa gridava:—Suore, all'erta!— Le suore l'una l'altra si conforta; corron perché la porta non sia aperta. Spingon Marfisa a terra; ella è risorta, e co' punzon le monache diserta, lacera bende e scinge e strappa tonache. Non so spiegar le strida delle monache.
25
Son corse le converse di cucina e quelle che nell'orto stan zappando. Col pastorale, come una gallina, sta la badessa altera crocidando. La vecchiarella vicaria, meschina, con una sua reliquia sta segnando. La sacristana un cingol ha di prete; grida lontan:—Vi lego, o v'arrendete.—
26
A Marfisa il zendale è gito a terra: tre suore in quello sono incespicate. Cadute, alla bizzarra fanno guerra con graffi e morsi, alle gambe attaccate. Marfisa un Cristo appeso al muro afferra e loro dá di gran crocifissate. Ma s'accrescevan sempre le milizie: son giunte la maestra e le novizie.
27
E tredici fanciulle piccioline, di quelle che s'appellano educande, vedendo le lor zie nelle rovine, facean piangendo uno strillar ben grande. Marfisa, schiaffeggiando le vicine, promette alle lontane le vivande, ed era giunta alla seconda porta: la badessa di stizza è mezza morta.
28
E grida:—Su! pigliatela, da parte del padre del nostr'ordine, Agostino. Maledetti i comandi che comparte quel rantacoso vescovo Turpino!— Si difende Marfisa piú che Marte, e giá il terz'uscio avea quasi vicino; ma la rabbia e il calor della contesa fe' che un effetto isterico l'ha presa.
29
Caduta per gli effetti matricali, comincia a fare il solito lavoro di stringer denti e scorci corporali, e d'altre cose contro al suo decoro. Le suore erano avvezze a questi mali; spesso cadeva in quelli una di loro. Ringraziando di ciò Dio benedetto, portarono la dama in sur un letto.
30
Tre ore a trattenerla ebbon faccenda, perché le poppe non si lacerasse. So dir che tutte avean molle la benda di sudor, spezialmente quelle grasse. Alfin riscossa convien che s'arrenda Marfisa, c'ha le membra troppo lasse. Le monacelle stanche, stizzosette, intuonaron di molte predichette.
31
Vanno rimproverandole la vita, gli amori e il mal costume, che seguia; dicendo che dal secolo tradita era, perocché il secolo tradia. Marfisa non può muovere le dita, ma la lingua robusta in bocca avia; e poich'ebbe sofferta alcuna cosa, si volse e disse irata e furiosa:
32
—Non mi seccate piú, stolide, sciocche, con tali vostre scempie dicerie. Altro ci vuol che queste filastrocche, a convincer di torto le par mie. Se poteste parlar con quelle bocche che avete in core, disperate arpie, del secol parlereste d'altra norma, e della sua materia e della forma.
33
So che date nel cor maledizioni divote a chi vi chiuse, a tutte l'ore; e quando recitate le orazioni, la peste a Dio chiedete al genitore; e con gli amori e con le tentazioni disperar spesso fate il confessore; e quando una vi parla del marito, non vorreste il discorso mai finito.
34
Come la volpe le ciregie sprezza che sono in cima troppo e non le arriva, voi, che siete legate alla cavezza, sprezzate il secol che di sé vi priva. Per invidia, con voi nella sciocchezza tirar vorreste ogni donna che viva, e per ridurvi in copia senza fine dove disperazion vi manda alfine.—
35
Era quivi in disparte certa suora, che al romore, alle cose, al parapiglia, non s'era mai degnata d'uscir fuora, come chi saviamente si consiglia. D'una bellezza è tal, che, se in un'ora la descrivessi, farei maraviglia: bianca, ben fatta, giovine, d'un viso, d'un occhio, d'un guardar di paradiso.
36
Se le scolpiva in faccia dell'interno la contentezza, la quiete vera; al piú cocente state, al peggior verno, godea quella forte alma primavera. Conoscea veramente che l'eterno Bene desiderabile, e solo, era. Raccolta mai per monaca richiesta non avea detto il ver siccome a questa.
37
Al ragionar furente di Marfisa, bizzarro ed empio e scandaloso e forte, disse all'altre sorelle in questa guisa e alla badessa, c'ha le luci torte: —Suore, scorgete mai ch'ella è divisa dal pensar dritto? usciamo delle porte, e lasciatela in pace, ché i rimbrotti fan mal peggiore ne' cervei corrotti.
38
Queste parole, ch'ella ha dette, sono de' libri suoi moderni, che l'han guasta; insegnamenti che le han dati in dono gli spirti forti di novella pasta. Ugualmente a' conventi è il secol buono, ma la rete oggi in quello è troppo vasta. La rabbia, ch'ella or prova, e la vergogna son frutti del suo secolo carogna.
39
Tutte dinanzi al Crocifisso nostro andiamo ad intuonare il Miserere, perché la sventurata questo chiostro soffra con pace, e a noi la lasci avere.— Marfisa ha nero il cor piú che l'inchiostro: la rabbia l'avea priva del vedere. Le monachette dietro a quella santa andâro a salmeggiar dove si canta.
40
Questa giovine bella, e raro esempio nel secolo d'allora pestilente, piú satirette addosso di qualch'empio aveva e biasmi, se Turpin non mente. Diceasi ch'ella avea un cervel scempio, la macchina insensata interamente; che, non sentendo stimol di natura, nulla valea la sua santa bravura.
41
Una postilla in certo testo a penna trovo: che di Parigi ella non era, ma da Vinegia giunta in sulla Senna, e volontaria fatta prigioniera. La storia d'essa un'altra cosa accenna, cioè che con pretesti una gran schiera d'abatin, per vederla, ogni momento crollava la campana del convento.
42
E questo degli abati sará vero; ma ch'ella fosse veneziana nata non posso rassettarlo nel pensiero, poich'ella avea la macchina insensata. In quel clima non nasce di leggero scempi cervelli o carne raffreddata; donde penso: o Turpino il falso scriva; o ella non fu veneta, o fu viva.
43
Per ripigliare il filo della storia, non è da dimandar se i parigini san di Marfisa il caso alla memoria, o se lo narran per i botteghini; ma perché, quando s'è suonato a gloria, cambiasi il suon ne' vespri e mattutini, comincia a far compassion Marfisa, e fannosi discorsi d'altra guisa.
44
Sul marchese Terigi poco a poco tutte le lingue volsero il furore. —Che gran soggetto da far tanto foco —diceasi—pel decoro e per l'onore! Si sa che l'avol suo faceva il cuoco; suo padre di Martan fu servitore, e ch'egli fu d'Orlando lo scudiere, e non è uscito ancor di gabelliere.
45
Finalmente Marfisa era una dama, che cominciava a far la sua famiglia. Amori o non amor, fama o non fama; che gran soggetto! che gran maraviglia! Gran novitá, la moglie che cento ama fuor che il marito, da inarcar le ciglia! Terigi la fenice esser dovea, ch'una consorte tutta sua volea.—
46
Come l'olio, facevano i parlari, che sopra d'un mantello sia caduto; s'egli è una stilla, non istá poi guari che si dilata e una spanna è cresciuto. Con tutti i suoi poderi e i suoi danari, odioso è Terigi divenuto: dall'odio nasce la persecuzione; se dice il Credo, non ha piú ragione.
47
La famiglia di Risa e gli aderenti, quella di Chiaramonte e di Mongrana, che aveano innumerabili parenti, suonan sopra al marchese una campana, che lo faceva digrignar i denti, arrabbiar, dormir poco e aver mattana; e sopra tutti gridava Rinaldo: —Io vo' ridotto al verde quel ribaldo!—
48
E co' suoi contrabbandi a Montalbano manda in rovine le gabelle sue; introduce ogni merce da lontano, tal che son rinvilite il sei per due. Terigi se ne appella a Carlo Mano, e finalmente rimaneva un bue, ché nulla si faceva, e in conseguenza l'util n'andava in somma decadenza.
49
Aggiungi che quattordici villani con autentiche carte hanno provato che discendean da' suoi cugin germani, i quai comune aveano avuto stato col padre suo, senza far con le mani o con la penna parte od accordato, e ch'ei non s'era emancipato mai; dond'essi avean pretensioni assai.
50
Quattordici porzion nel patrimonio voleano di Terigi i villanzoni, ed hanno un avvocato, ch'è dimonio e molto ben contesta le ragioni. Terigi s'accomanda a sant'Antonio per assistenza e carte e testimoni; ed ogni volta ch'uno all'uscio picchia, teme una citazione e si rannicchia.
51
Don Gualtier cappellan lo confortava, e dice:—Io me ne intendo di litigi. Infin ch'io vivo—e il petto si toccava, non temete avvocati di Parigi. Io penetro nel centro della fava, so del merto e dell'ordine i vestigi. Lasciate che gambettino i forensi; le vostre facoltá son ben castrensi.
52
In virga ferrea ci difenderemo; ma convien spesso tener buon consiglio, perch'ogni picciol passo, che faremo, causar può, s'egli è falso, del scompiglio.— Il marchese dicea:—Va ben; ma temo questo andar allo scrigno, caro figlio, e questo far consulti ogni momento faccia che alfin la lite sia di vento.—
53
Prete Gualtieri andava nelle furie quando sentiva questa economia, gridando:—Eh! ci vuol altro, nelle curie, che idee meschine e che spilorceria.— E poi Terigi carica d'ingiurie: minaccial di lasciarlo e d'andar via, dicendo:—Trovate altri direttori, che sperimenterete traditori.—
54
Il marchese, che al fòro era ignorante, avea nel prete ogni speme, ogni fede. Gli avria baciato peggio che le piante, quando ch'ei voglia abbandonarlo crede; e gli dicea:—Non esser sí arrogante. Gesú Maria! don Gualtier, giá si vede ch'io non so quel che fo né quel che dico. Pregato, il prete gli tornava amico.
55
Cosí traendo il sangue al meschinello, ragion non gli rendeva mai del speso, dicendo:—Anzi n'aggiunse il mio borsello, siccome un giorno il conto v'avrò reso.— Terigi era per perdere il cervello; spesso da sé ragiona e sta sospeso. I drappi gli eran larghi tutti quanti, vuote aveva le guance e pengiglianti.
56
Pel matrimonio, ch'era andato a monte, il Gratta, stampator delle raccolte, chiedeva il prezzo, e sudava la fronte a lagnarsi col prete molte volte. Diceva il prete:—E' convien che tu smonte, perché le nozze sono andate sciolte. Vendi i tuoi libri a peso o in su' banchetti: vuoi tu che noi turiam d'essi fiaschetti?—
57
Marco poeta s'era consumato a far canzoni e la dedicatoria, e il regalo promesso gli è negato, donde pareva fuor della memoria. —Corpo di Bacco!—giura in ogni lato— del primo mio romanzo nella storia vo' metter la persona del marchese in vista da far ridere il paese.
58
E don Gualtier nel mio romanzo voglio che sia preso da birri in una piazza, posto in berlina, al petto con un foglio che dica: «Stuprator d'una ragazza»; ché ad ogni modo ha riscosso e fa imbroglio, ed ha condotto un mio pari alla mazza. Nel mio romanzo la berlina è poco: vo' rallegrarmi a condannarlo al foco.—
59
In questo tempo Marco aveva fatte, per sbalordire gl'inesperti putti, alcune pistolone in versi, matte, e le appellò: Filosofia per tutti, ripiene di sentenze molto stratte, che punto non recavano costrutti, peroch'elle diceano e disdicevano senza sistema e poco s'intendevano.
60
Hai tu veduto maschera a Venezia, vestita da corrier con la scuriada di nerboforte, a far quella facezia d'un quarto d'ora lunga in sulla strada, che mena il braccio e scoppia; e quell'inezia, per quanto dura, il popol tiene a bada, e poi molto erudito il manda via, siccome Marco di filosofia?
61
Per non lasciar Matteo dimenticato, egli avea dato fuori un manifesto, che chiedea mezzo scudo anticipato per tomo all'opre sue che stampa presto. E fien cinquantun tomo, ognun fregiato di rami e bella carta, e dá del resto: «Tutte le miscellanee poesie saran—dicea—con le commedie mie.
62
È vero—soggiugnea—che replicate de' miei divini scritti l'edizioni poco men che il Bertoldo sono state, siccome sanno i miei cari padroni; ma son poi tanto rare e ricercate, che in bella carta e buone correzioni e con figure in rame, indispensabili son per le biblioteche memorabili».
63
Un'altra parte il manifesto avia che sembrava un'idea del Masgumieri; cioè che a chi volesse piegieria far per dieci assoziati a' tomi interi, sarieno dati i tomi in cortesia per la benemerenza e volentieri. Il Masgumier cosí dispensa a macco sopra il balsamo greco il taccomacco.
64
Un altro scrittorel di simil forma, il qual delle Stagion facea poemi, di cui Dodon avea riso pro forma de' suoi cattivi versi e de' proemi, aveva detto che non prende norma dai scritti di Dodon né da' sistemi; ché non tersa scrittura ne' bei detti, ma che vuol esser succo ne' libretti.
65
Dodon rideva sgangheratamente, ché non ha frega d'essere imitato, e gli diceva:—Dimmi solamente se a rider de' tuoi scritti sia peccato. Io trovo il tuo libretto un accidente di tristi versi e rubacchiar pisciato, e non ci vedo il succo che tu narri. Lascia che rida e le mascelle sbarri.
66
L'ironico ricordo che mi dái, ch'io logri inchiostro in util delle genti, l'ho posto in uso prima, come sai, buffoneggiando i libri puzzolenti. Il criticarti non l'ho fatto mai; in ciò pianti carota agl'innocenti: ma dico che le tue Stagioni in canti forman l'anno peggior di tutti quanti.
67
Tu di' che vuoi di fatti e non parole sieno i tuoi libri; in questo sarai solo. Dunque un tuo libro battezzar si vuole di fabbro una bottega o legnaiuolo. Deh! canta autunni e tempi e luna e sole, e crediti a tua posta un usignuolo; dedica, imprimi, a tuo modo ti regola; ma tu mi par stizzita una pettegola.—
68
Gl'impostori scrittor d'allora in caldo appiccorno question co' buon scrittori. Sino a quel giorno avea detto ribaldo Marco a Matteo che s'eran traditori: ma come vidon non istar piú saldo chi sa distinguer ben dal sterco i fiori, furono amici allor Marco e Matteo, e i partigian cantarono il Tedeo.
69
Scrivea Marco in que' tempi la gazzetta: il pubblico avvertí dell'alleanza con uno stil da corno e da trombetta, come se il caso fosse d'importanza. Dicea: «Io sono Augusto—a chi l'ha letta;— Matteo di Marc'Antonio ha simiglianza: chi non ci loda è un vil Lepido indegno, e proverá ben presto il nostro sdegno».
70
Se rideva Dodon, Dio ve lo dica, di queste matte forme e braverie, e va dicendo alla sua schiera amica: —Quell'alleanza, care anime mie, ci toglie occasione di fatica a provar che i lor scritti son follie.— Il popolo diviso in due fazioni dava riputazioni a' bighelloni.
71
Perocché riscaldato e in gran puntiglio, chi Marco e chi Matteo per sostenere, vivo tenea il discorso e lo scompiglio, ed aperto il borsello per vedere e per poter gridar:—Mi maraviglio.— Marco a Matteo può baciare il brachiere, o ver Matteo lo può baciare a Marco, facendo chi il Caton, chi l'Aristarco.
72
Or che tra loro è fatta convenzione, e di vivere amici han stabilito, il popol non fará piú contenzione, e sará a poco a poco intiepidito; poi ridurrassi a dugento persone, a cento, indi a cinquanta il lor partito. Lasciamo che s'adoperi natura, ché finalmente il ver non ha paura.
73
Dodone incominciava a lusingarsi che i scrittoracci avesser decadenza; ma il mal, che aveano fatto, a ripurgarsi non bastava una quarta discendenza. Or del guascon bisogna ricordarsi, ch'era fuggito e in bando per sentenza, e va maledicendo il suo duello; ond'io ripiglio traccia dietro a quello.
74
Quel dí che fu ordinata la cattura e ch'ei la seppe (e n'andava la testa), tanta fretta gli mise la paura, che smemorato in man prese una cesta, come colui che non ha piú misura, e fuggí di Parigi in man con questa. Fece due leghe di cammino a piede, e ancora della cesta non s'avvede.
75
Rassicurato alquanto, finalmente s'avvide e disse presto:—Ho fatto male. Io potea ben provedermi altramente; perdio! che reco un degno capitale!— Cento zecchini avea per accidente, avanzo d'una paga mensuale, e bel vestito e ricco farsettino: getta la cesta e segue il suo cammino.
76
Le fole che inventava per la via per alloggiare a macco da' villani, perocché de' signor paura avia se non si vede in paesi lontani, io non le potrei dire in vita mia. Racconta circostanze e casi strani, tanto che da' piú agiati, oltre a' mangiari, per accrescer la borsa ebbe danari.
77
Un dí ch'era vicino a uscir del regno, ma in brama di tre giorni di riposo, da certi frati l'ebbe con ingegno: tenne dell'empio il fatto e del vezzoso. Ma perch'io sono giunto a certo segno che può l'ascoltator far curioso, la storia all'altro canto vi fia nota del piantare a que' frati la carota.
Con una burla, a macco il guascon empio vive da certi frati. Dal convento fuggon Marfisa e Ipalca, coll'esempio d'una filosofessa a lor talento. Ruggero a Malagigi, per far scempio, chiede ove sia la suora, ma giá spento è di mago il mestiere. I paladini dietro a Marfisa van fuor de' confini.
1
Uom non v'è piú vil d'un malfattore, ch'abbia la coscienza maculata, e benché mostri gran core e furore, egli ha sempre paura in sen celata. Sin ch'ei può sopraffare, egli è il terrore; ma quando alcun la faccia gli ha voltata, la coda, ch'era tesa, va tra gambe, e non è piú delle persone strambe.
2
A chi de' far co' tristi, in coscienza non saprei ricordar filosofia; perché, mostrando flemma e indifferenza, la battezzan color poltroneria; e tanto cresce arroganza e insolenza, che van dannati per la cortesia, donde un randello a tempo veramente avanza ogni filosofo eccellente.
3
Di questi peccatori il gran flagello ed il ribrezzo e la disperazione esser sogliono i birri col bargello. Quando girar gli vedono un cantone, par loro avere in sul capo il mantello, hanno la mente in gran confusione e, come Filinor, con una cesta fuggirien, ché non hanno piú la testa.
4
Giunto il guascone un giorno a una callaia, vide poco da lunge un romitoro, non di graticci o canne o d'altra baia, come scrivean gli antichi di pel soro; ma come, verbigrazia, quel di Praia, con giardin sotto e terre di lavoro, dove i romiti in pingue santimonia vivean, come Turpin ci testimonia.
5
Messer l'abate in quel colto diserto aveva fama d'esser un uom santo. Santo o non santo ei fosse, questo è certo che non avea mai posa tanto o quanto; perocché ricorreano al suo gran merto spesso infermi ed inferme in doglia e in pianto, spiritate, gelose e disperate a farsi benedir da quell'abate.
6
L'empio guascon pensò come potesse viver parecchi giorni a bertolotto. Come alla paperina e ben si stesse entro a quel romitorio, era giá dotto. Parecchie erbette, ch'eran quivi spesse, con fior giallastri va cogliendo il ghiotto, e fregandole al viso ed alle mani, divenne come un uom di que' mal sani.
7
Pareva impolminato e stanco e fiacco. A suo bell'agio al romitorio arranca, laddove giunto, ansando come un bracco, si metteva a seder sopra un panca, dicendo ad un romito:—Oh Dio! son stracco; io sento il respirar proprio mi manca: da Parigi qui vengo a piè per voto l'abate santo a ritrovar divoto.
8
Io sono un cavalier de' principali, e vi prego a chiamar l'abate vostro. Il romitello mise tosto l'ali, narrando questa cosa per lo chiostro. Lasciâr molti romiti i breviali pel forestier splendente d'oro e d'ostro. Se vi ricorda, al suo fuggire, ho detto che avea ricco vestito e bel farsetto.
9
Venne l'abate in mezzo a venti frati, vide il guascone con le guance gialle, che tenea gli occhi travolti e incantati, e una gota sur una delle spalle. I romiti dicean:—Fra gli ammalati, che giunti sono in quest'erema valle, noi non vedemmo un uom di peggior cera; egli è peccato un sí bel giovin pèra.—
10
L'abate chiese a Filinor chi fosse e da sua povertá che desiasse. Filinoro un pochetto si riscosse, e parve a ragionar che si sforzasse. —Padre—diss'egli,—divozion mi mosse, perché l'altre speranze omai son casse. Io sono unico figlio d'un signore, che in me piange sua stirpe che si more.
11
Son di Parigi, e quattr'anni saranno che m'ha assalito una febbretta lenta. I medici hanno fatto ciò che sanno; a questa malattia n'ebbi ben trenta. Emetici e purganti provati hanno: parea talor la febbre fosse spenta; ma in capo un mese l'ugna pavonazza, ecco il ribrezzo e la febbretta in piazza.
12
Chi dicea mesenterica ella sia, chi del fegato figlia o tabe interna. Il mio ventre era fatto spezieria e d'acque amare e dolci una cisterna. Si dice che la febbre è andata via, ma m'è rimasta inappetenza eterna; io sudo, io tremo, io svengo, intirizzisco del cibo all'apparir, sí l'abborrisco.
13
Con sforzi e nausea ed avversione orrenda, qualche brodo succiai con tuorli d'uova. Lo stomaco non vuol pranzo o merenda o brodi o panatelle: nulla giova. Tosto una convulsion par che mi prenda; ristoro nello stomaco non cova; vomito tutto, insino a sangue vivo, pe' crudi sforzi, e resto semivivo.
14
Sei mesi son che portentosamente per qualche stilla d'acqua sono in vita. I dottor non mi fanno piú niente, e dicon sol, per me ch'ella è fornita. Sentendo a dir per fama dalla gente, la vostra santitá, padre, infinita, a piedi e senza servi, in divozione, ricorsi a voi per la benedizione.
15
Non so come per via non sono morto in questo lungo mio pellegrinaggio. Ben cento volte caddi a collo torto; poi sursi ancor, facendomi coraggio. Ma finalmente sono giunto in porto, e mi par di sentir qualche messaggio che dica:—Al segno dell'abate pio l'inappetenza tua n'andrá con Dio.—
16
S'io risano, prometto in questo chiostro far aggiunte di fabbriche e un altare.— Disse l'abate:—Voglia il Signor nostro che il segno in nome suo possa giovare. Direte, figlio, basso un paternostro, fede ci vuol le grucce per lasciare.— Recata al frate fu la stola tosto: l'empio guascone in ginocchion s'è posto.
17
Comincia i crocioni e le parole l'abate pio, che gli occhi stralunava. L'indegno di veder luce di sole con le sue nocca il petto si picchiava. Finí l'uffizio, quando finir suole. L'abate all'amalato dimandava com'egli stesse e come si sentisse. L'empio teneva in lui le luci fisse,
18
dicendo:—Padre abate, a dirvi il vero, nello stomaco sento un pizzicore, che, manicando un bocconcello, spero sí facilmente nol trarrei piú fuore. —Presto—disse l'abate a frate Piero, ch'era ivi cuoco e si faceva onore,— reca qualche sostanza al cavaliere.— Frate Piero va via come un levriere
19
e reca una minestra in un piattello. Filinor la trangugia in un baleno. —Sentite moto a tramandare?—a quello dice l'abate, di pietá ripieno. Rispose Filinor:—Mi sento snello, e fame ancora;—e si toccava il seno. Dice l'abate al cuoco:—Hai qualche piatto? —E' c'è un cappon—rispose—tanto fatto.
20
—Reca il cappon.—Filinor lo mangiava come un morsel, che non si torce un pelo. L'abate, i frati, il cuoco, ognun gridava: —Miracolo, miracolo del cielo!— A bocca piena il guascon replicava: —Aiuta Dio chi crede nel vangelo; questo è un miracol di natura fuora: abate santo, ho della fame ancora.—
21
Frate Piero, correndo, una pernice reca in un tondo: Filinor la succia. —Miracolo, miracolo!—ognun dice. L'empio guascon col carcame si cruccia, e chiede bere, e il cielo benedice. Il cantiniere alla sua cella smuccia, e spilla un vin da far andare un morto, né certo Filinor gli fece torto.
22
Non si può dir de' frati l'allegrezza per il miracol nato ad evidenza. Quel sacconaccio di scelleratezza tutto asseconda con somma avvertenza; e quando mostra d'essere in tristezza, e di sentirsi ancora inappetenza, donde rinnova il frate i crocioni, pel guasto universal de' suoi capponi.
23
Quindici giorni è stato il traditore da que' romiti, e sempre ha miglior cera, perché, lavando il viso, quel giallore ad arte fatto alfin sparito s'era. —Certo—dicea,—giugnendo al genitore, vo' spedirvi un miracolo di cera, e vo' aggiungere un'ala al romitoro, ed un altar da spendere un tesoro.—
24
Ogni dí con l'abate disegnando va una fabbrica nuova nel sabbione, e va crescendo idee di quando in quando: —Io vo' l'altar—dicea—di paragone.— L'abate rispondeva:—Io non comando: seguite pur la vostra ispirazione.— E la cucina ogni giorno crescea, sicché del fabbricar cresce l'idea.
25
Da molti testimon giurati il caso fecion deporre i frati, onde n'andasse girando a stampa dall'orto all'occaso, acciò al convento la pietá abbondasse. Un testimon non era persuaso, ma pur convenne alfine ch'ei giurasse, perché il prior zelante al Sant'uffizio gli minacciava accuse e precipizio.
26
Qui ristorato dal pellegrinaggio e ben disposto e in gamba, il traffurello cominciava a dispor di far viaggio, perché temeva sempre del bargello. L'abate vuol che pel cammin selvaggio dieci villani armati abbia con ello. Disse il guascone:—Un laico mi darete e qualche cavallaccio, se l'avete.
27
Io non vo' certamente altri compagni: Dio m'ha condotto, Dio mi riconduca.— L'abate aveva un suo destrier de' magni, che saria stato un bel presente a un duca. Non era tempo a pensare a' sparagni: bardato fe' che il bel corsier s'adduca. Mille baci il guascone appicca ai frati: sale a caval con gli occhi imbambolati.
28
L'abate i crocioni rinnovella, dicendo:—Andate in nome del Signore!— Rispose Filinoro:—Ho il corpo in sella, ma nelle vostre man rimane il core.— Un laico un suo ronzin con la bardella rassetta, in fin che gli altri fan l'amore. Filinor sprona, e a lanci via n'andava; il laico d'un trotton lo seguitava.
29
Lasciamgli andar, ché poi li troveremo. Io so che nel pensier Marfisa avrete, e come giunta ell'era al caso estremo nel monastero vi ricorderete. Parve per qualche dí d'un cervel scemo. Guardava il cibo e dicea:—Non ho sete;— guardava il vino e dicea:—Non ho fame;— donde ridean le monacelle dame.
30
Ma la calamitá raffinamento d'indomiti cervelli anch'esser suole. La bizzarra tra sé pensava drento che il gridar e il far forza erano fole. —Io fingerò—diceva—cambiamento e nausea per il mondo, con parole; ben verrá il giorno della mia vendetta: il savio tempo e luogo e punto aspetta.—
31
Comincia santimonia a poco a poco, e lasciarsi trovare alla sprovvista con un breviario in man, piena di foco, rivolta verso il cielo con la vista. Le semplicette monache, a quel giuoco. l'un'all'altra dicea:—La s'è ravvista. Grazie all'immagin di Gesú bambino e al padre fondator nostro Agostino!—
32
Marfisa scherza con le monacelle, e mangia e beve, e non è piú ritrosa, e alla badessa un giorno in mezzo a quelle diceva, in faccia tutta vergognosa: —Vi prego, madre, le mie maccatelle dimenticate e siatemi pietosa. Vorrei che il mondo tutto si scordasse e che di me nessun piú ragionasse.
33
So ben che il caso de' parervi strano, che Marfisa sí tosto sia cambiata; ma che non può di Dio Signor la mano? Io mi sento del mondo stomacata. Per grazia, certo e poter sovrumano non odio piú il fratel né la cognata, e non vo' piú saper del secol nulla. Mi sembra esser uscita oggi di culla.—
34
Non le dá la badessa molta fede: pur la conforta e loda, e fa buon viso. Dell'altre monachette ognuna crede, e lievan occhi e mani al paradiso. Marfisa a dir l'uffizio ognor si vede, e un giorno fu trovata all'improvviso con un flagello, mezzo ignuda, ardente, che si battea le spalle leggermente.
35
Non v'è piú alcun che per santa non l'abbia. Al parlatorio andava qualche volta, ed affogando nei polmon la rabbia, ragiona a Bradamante e umil l'ascolta. Pur ruminando, come uscir di gabbia potesse, andava, e in sé sta ben raccolta; ma le porte eran chiuse in diligenza, perocché la badessa avea temenza.
36
Ipalca damigella andava spesso a visitarla, e Marfisa con quella diceva:—Ipalca, a te tutto confesso: sappi ch'io sono un satanasso in cella. Se tu non mi soccorri, un gran successo udirai presto, una strana novella: son giá determinata nel pensiero, perdio! che appicco il foco al monastero.—
37
Ipalca rispondea:—Gesú e Maria! non fate questo per l'amor di Dio;— e poiché aveva pianto, suggeria qualche ripiego stolido e stantio. Correa pel monastero una pazzia: che si tenean per moral lavorío. l'opre e i romanzi del poeta Marco, ed ogni tavolin n'era giá carco.
38
Marfisa va leggendo que' volumi, ch'erano stati sempre suoi diletti, e cerca ritrovar nei lor costumi una fuga che in capo se le assetti. La bella pellegrina le die' lumi circa al fuggir da' chiostri benedetti, la qual avea trovato una ragazza, che l'era uguale e fe' bella la piazza.
39
Molt'altre fughe aveva ritrovate in que' romanzi di Marco scrittore. Donne che s'eran da' balcon gettate, d'altezze che a narrarle fan terrore; altre ne' fiumi e ne' mari saltate, tutte salve per grazia del Signore. Marfisa è assai bizzarra, ma destina fuggir come la bella pellegrina.
40
Una ragazza simile di faccia, di voce, di capelli, di statura, la bella pellegrina in cambio caccia di sé in convento, e fugge con bravura. Marfisa a Ipalca disse:—Corri in traccia di qualche donna della mia figura; con quel dal mondo nuovo entri nel chiostro: baratto vesti, e questo è il caso nostro.—
41
Ipalca va com'una disperata cercando per la terra una Marfisa; per quanto guardi non l'ha mai trovata: ell'erano, perdio! cose da risa. —La pellegrina assai fu venturata a trovar su due piè, cosí improvvisa, un'altra lei, per cambiar la persona— diceva Ipalca e torna alla padrona.
42
E disse:—Un miglior tomo leggerete: quel della Pellegrina nulla vale. Non trovo un'altra voi, come volete: l'ho ricercata infin nell'ospedale.— La dama irata disse:—Voi morrete con quella vostra testa dozzinale. Sempre difficoltá, sempre sventure: con voi son tutte scarse le misure.
43
Nella Filosofessa italiana un altro modo ho letto di fuggire. Di nottetempo questa settimana potrete al muro del giardin venire. Una scala portatile alla piana appoggerete, e dovrete salire: quando siete in sul mur, tirate suso la scala e a me la calerete giuso.
44
Salirò anch'io sul muro, e allor potremo ripor la scala al di fuor nuovamente, e l'una dopo l'altra scenderemo: questa è cosa da farsi agevolmente. Uscite, poscia ci travestiremo per non esser scoperte dalla gente; e poi nell'alba, all'aprir delle porte, schizzerem fuor della cittá alla sorte.
45
Io voglio come maschio esser vestita: voi, come donna, siate mia mogliera.— Diceva Ipalca:—Trista alla mia vita! Per me farò da moglie volentiera.— Ed ebbono ogni cosa stabilita, e di fuggire un sabbato da sera. Dovea rubare Ipalca a Bradamante per le bisogne non so qual contante.
46
Sapea dove la moglie di Ruggero teneva piatta una sua borsa d'oro. Ipalca aveva un occhio di sparviero, e brievemente le ciuffò il tesoro. E un sabbato di notte all'aer nero fu data esecuzione a quel lavoro, e la «filosofessa» fu imitata sino a un peluzzo, alla fuga ordinata.
47
Marfisa si vestí da cavaliere, come nelle commedie fa Clarice. Ipalca non lasciava di temere; ma fa la parte, e il cielo benedice. Un calesso era pronto a lor mestiere. Apparve di Titon la meretrice: s'apron le porte; e Marfisa ed Ipalca son nel calesso, e il postiglion cavalca.
48
La dama era un bel giovine a vedello. Ipalca certo è differente assai, quantunque avesse un leggiadro cappello col pennacchino e abbigliamenti gai. Un membro non avea che fosse bello. Usava del belletto sempremai, ma caricato e senza alcun ingegno, donde movea, piú che lussuria, sdegno.
49
Verso la Spagna presero il cammino queste due, finta sposa e finto sposo. Lasciamle andar; diremo il lor destino. A Parigi fu il caso strepitoso. Le monache, suonato il mattutino, levato il sol, lasciarono il riposo, e sospettaron di Marfisa ingrata, veggendo la sua cella spalancata.
50
Cominciano a cercarla in ogni loco ed a chiamar con religiosa voce. Una dicea:—Sant'Agostino invoco;— l'altra un Si quaeris dice, e fa la croce. Il cicaleccio cresce poco a poco, ognuna per accrescerlo si cuoce, e finalmente tutte difilate le nuove alla badessa hanno recate.
51
La badessa in furor scrive a Turpino; la vicaria a due frati narra il caso; la sacristana il narra a un abatino; vuotano l'altre alla castalda il vaso; una scrive all'amica, una al vicino: in un momento a ognun la cosa è al naso. Turpino alla badessa manda a dire che si deve il silenzio custodire,
52
perché non vuol che scandal si dilati. La badessa alle suore dá il precetto: le suore a capo basso, occhi serrati, tutte dicean:—Silenzio vi prometto.— Turpino intanto un prete, de' fidati, manda a Rugger col caso in un viglietto, e lo consiglia a fare a Carlo istanza di spedir genti, e dá buona speranza.
53
Al capitar del prete, la famiglia del buon Ruggero è giá tutta in rivolta. Bradamante gridava:—Para, piglia,— ché la sua borsa d'oro è stata tolta. Ruggero è fuor di sé per meraviglia, né sa di borsa, e ognun guarda ed ascolta; non si dovea saper che la sua sposa tenesse borsa di soppiatto ascosa.
54
Bradamante era fuor de' sentimenti, e strilla, e i servi vuol morti e le fanti, e disse della borsa fuor de' denti, tanto di borsa, grida a tutti quanti. Ipalca manca dagli alloggiamenti, adunque Ipalca ha involati i contanti. —Si cerchi Ipalca—Bradamante grida: —se le strappi la borsa, e poi s'uccida.—
55
Il prete, col viglietto del prelato, Rugger fece morir quasi d'affanno: sopra un soffá disteso s'è gettato, dicendo.—Io vivo per maggior mio danno.— Bradamante, che il vede addolorato, chiede se della borsa a parlar stanno. —Che borsa? che non borsa? dalla cella —disse Rugger—fuggita è mia sorella.
56
—Fuggita s'è Marfisa! Ipalca manca! la borsa è andata!—Bradamante strilla, si batte il viso e poi l'una e l'altr'anca, grida a Rugger che si debba seguilla. Disse Rugger:—Quando sarete stanca, terminerete di suonar la squilla: la mia sciagura abbastanza mi pare, senza far la contrada sollevare.—
57
Ruggero se n'andava a Carlo Mano; rimase la consorte disperata, che, piangendo in baritono e in soprano, ha intorno la famiglia radunata. La tien don Guottibuossi per la mano, e promette gran cose all'impazzata: talor minaccia i cagnolin parecchi, che, al pianto urlando, intruonano gli orecchi.
58
Ruggero a Carlo Magno la sventura narra, e soccorso al suo caso dimanda. In traccia, di Parigi entro le mura, l'imperatore di Marfisa manda; ma gli è sí rimbambito di natura, che fuor che il letto e un'ottima vivanda nulla conosce, e a Rugger dimandava chi fosse, dieci volte, e replicava.
59
Massimamente, morto il Maganzese Ganellon traditore, il suo mignone, Carlo è col capo fuori del paese, e risponde al contrario alle persone. Venne la nuova che nessun francese sa di Marfisa, donde il re Carlone disse a Rugger con viso sonnolento: —Ben guarda, ella sará nel suo convento.—
60
Rugger perdé la pazienza un tratto; volta la schiena e borbottando parte. —Perdio!—dicea—l'imperatore è matto.— Chiama Dodone e Orlando da una parte, anche il danese consigliava il fatto; e si concluse che gettasse l'arte Malgigi, per saper dalla magia dove Marfisa con Ipalca sia.
61
E tutti quattro a Malagigi uniti sen vanno tosto per sapere il vero. Gli aveva il mago attentamente uditi con ciglia brusche e con viso severo. Stava Malgigi assai mal di vestiti, la barba ha lunga, e non pel suo mestiero, ma perché non aveva veramente da pagare il barbier sí facilmente.
62
Per dirvi come fosse Malagigi, guercia avea guardatura e faccia nera. Benché avesse i capelli mezzi grigi, gli teneva in coltura con la cera: la polver confondea da' neri a' bigi. La sua camicia candida non era, ma tuttavia teneva i manichini grossi, antichi, giallastri e picciolini.
63
Le calze ha cenerognole di stame, che aveano sparse alcune cicatrici, guarite, or colla seta verderame, or colla rossa, da' buchi nimici. Piangean le scarpe dolorose e grame, che aveano avuti assai pietosi uffici. Malgigi delle volte piú d'un paio lor dedicato aveva il calamaio.
64
Le brache ha di sovatto violetto, perché cercava brache consistenti; sopra il ginocchio è corto il coscialetto, e per l'untume sono rilucenti. Guardava il mago or lo spazzo or il tetto, al ragionar de' paladin parenti, i quai chiedean che l'arte sua traesse e dove sia Marfisa lor dicesse.
65
Poich'ebbon detto, il mago si fe' chino: prima di dir volea soffiarsi il naso. Avea sí rotto e lordo il moccichino, che di tenerlo in vista non v'è caso. Mise la testa sotto al tavolino (vecchio scrittoio in tre gambe rimaso), e poich'ebbe la tromba ben suonata, questa risposta a' paladini ha data:
66
—Stupisco che voi siate sí ignoranti, e che giunto all'orecchie non vi sia che usciti son de' libri nuovi alquanti, i quali han disertata la magia. Non vi sono piú streghe o negromanti, un'impostura è oggi l'arte mia. I moderni scrittor spregiudicati i negromanti al sole hanno mandati.
67
L'anel dell'arte non è un diamante, non v'è nessun che piú gli presti fede; pentacoli, sigil, son tutte quante cose alle quali il diavol piú non cede. Teschi, capelli, cere, bisce e piante non trarrien di sott'acqua due lamprede. Gli antichi libri miei ben posso aprire, il diavol non si move per venire.
68
I moderni scrittor colla scienza il popol e i dimoni hanno istruiti.— Il popol non mi fa piú riverenza, né vengono i dimon, bench'io gl'inviti. Non so se netta sia la coscienza di questi scrittor nuovi fuor usciti, che inutil l'arte magica hanno resa, né so se ben la cosa abbiano intesa.
69
Si credeva una volta facilmente de' diavoli e de' maghi il gran potere; che Farfarel venisse fra la gente, per far ora piacere, or dispiacere. Oggidí non si crede piú niente, pe' scrittor c'han soppresso il mio mestiere. Per ischerzo de' diavol si decide che non vengono al mondo, e poi si ride.
70
Pretendon trarre agli uomin l'ignoranza gli scrittori novelli col lor fondo. Ma questo por negli uomini costanza, circa a' spirti dannati nel profondo, fa a poco a poco credere in sostanza, non sol che mai non vengano nel mondo, ma timor toglie e sparge quel veleno di dubitar se diavoli vi sièno.
71
In quanto a me, che la professione di mago sia distrutta e posta sotto, poco m'importa. Grazie a Salomone ed a Rutilio, in altro sono dotto; ed ho sempre concorso di persone, sapendo trar la cabala pel lotto. Servo mille persone del paese con la mia Fiorentina e Bolognese.
72
Ho fatti guadagnar danari assai con le cabale mie, che fan miracoli. Ognun mi fa regali sempremai: un giorno mi porran ne' tabernacoli. I concorrenti non mancano mai, c'hanno bisogno a interpretare oracoli: coi calcoli numerici gli appago, ed ho giá fatti di tesori un lago.
73
Alle mogli incagnate co' mariti, che rimarranno vedove, indovino. A' figli indebitati inferociti predico il padre a morte esser vicino. Di giovinette c'hanno i cor feriti e di serventi ho pien sempre il stanzino e di mariti; e chi va, e chi torna, ed io indovino amori ed odii e corna.
74
Per saper di Marfisa altro non posso che la cabala trar, se pur v'aggrada; io v'avverto però che non m'addosso, netto risponda ove Marfisa vada. Lo dirá la mia cabala allo ingrosso, ma voi dovete interpretar la strada. Se pel diritto l'interpreterete, le mani in su Marfisa metterete.—
75
Non può Dodon piú rattener le risa, e disse:—Posa, posa, Malagigi: risparmia un'impostura di tal guisa. Che fai de' tuoi tesori e de' luigi? Cambia quella camicia lorda, intrisa, se puoi col lotto guadagnar Parigi. Che fai di quelle calze e quelle brache, che par ch'abbian su avute le lumache?—
76
Rispose Malagigi:—Che stupori per queste brache e la camicia mia! Io non bado a coltura né a tesori, ché m'innamora sol filosofia. Tristo a me se badassi a frange, ad ori ed all'attillatura e leggiadria: questo sarebbe in me tristo preludio; addio filosofia, scienza e studio!—
77
Ruggero, Orlando, il danese e Dodone, quantunque non avesser molta voglia, risero tutti all'ultima espressione. Malgigi anch'esso del serio si spoglia, e ride per far lor conversazione; poi disse:—-Voi scorgete ciò ch'io voglia; se non credete a cabale, mi date un ducato in prestanza e ve n'andate.
78
Ognun de' cavalier mezzo ducato gettò del mago sopra al tavolino; poi lo lasciâro, e Orlando smemorato giva dicendo:—Oh secolo meschino! Quest'uomo a' nostri dí sí riputato, che sbigottiva il popol saracino, pe' nuovi libriccini s'è ridotto a viver con la cabala del lotto!—
79
E brevemente, per andare in traccia della bizzarra, han posto ordin tra loro. Ognuno dalla stalla il caval caccia. Orlando non avea piú Brigliadoro: non è da dimandar se ciò gli spiaccia. Frontin non è piú vivo. Alfin costoro de' lor vecchi destrier tutti son privi; forse pe' cambiamenti non son vivi.
80
Sin che per lo Vangelo avea servito, vissuto era ogni antico corridore per sessant'anni, fiero ad ogni invito; Baiardo e Vegliantin pien di furore, Frontin, Rondello e Rabicano ardito era, siccome narra ogni scrittore: ma poi, cambiato il buon costume in vizio, que' destrier eran morti a precipizio.
81
Non so se ognun questo evidente segno tenesse a tristo augurio pel futuro: certo ne pianse Orlando, e con ingegno fe' predizioni, favellando al muro. I quattro paladin si dánno pegno la fede d'ire al chiaro ed all'oscuro, e di trovar Marfisa e di fermarla, di ricondurla, e fin di sculacciarla.
82
Rugger prese il cammin verso la Spagna, Dodon verso Inghilterra il caval sprona, Orlando caccia il suo verso Alemagna, il danese era assai vecchia persona, e disse:—Io cercherò questa campagna: la lepre sta dove non si ragiona.— Adunque spinse il suo caval di passo per que' villaggi, come andasse a spasso.
83
Bradamante a Rugger dalla finestra si raccomanda per l'amor di Dio; e intorno la sua borsa l'ammaestra, gridando:—Carni mie, consorte mio.— Rugger sprona il cavallo, che sbalestra sei peta della dama al romorio. Riser gli astanti, Bradamante alquanto s'è vergognata, ed io finisco il canto.
Nel viaggio Marfisa in corruzione (dopo una febbre effimera) ritrova le ville, le castella, e con ragione nelle cittá di provincia non cova. Va nella Spagna, e scopre il suo guascone in una circostanza affatto nuova; vien da Rugger sorpresa alla commedia; l'accidente è passabil, se non tedia.
1
Quella disperazion di Bradamante, per cui piú non sapea quel che facesse, era una passion predominante, che fa solo la borsa in capo avesse. Con disonor la cognata è ambulante; par che il dolor lo sposo le uccidesse; per tal fuga ognun mormora, è dolente: Bradamante la borsa ha solo in mente.
2
Né si trovava una persona ardita che le facesse un po' di correzione, e perch'era gran dama e riverita, si rispettava la sua passione. Benedetto il caval che l'ha colpita con quelle peta all'uscir del portone, che fe' alle genti far quella risata e ritirar la dama svergognata.
3
Marfisa, Ipalca e il postiglion che trotta, aveano fatta giá la prima posta. La dama al postiglion la testa ha rotta, che a chiederle la corsa le s'accosta. Cambia la posta, e grida, che par cotta, che non vuol passo lento, non vuol sosta, a ponte rotto, a buca, a sasso, a crollo vuol che si corra e se ne vada il collo.
4
Scrive Turpin che non ci fu mai caso che una corsa pagasse quella dama. Di questa veritá son persuaso, perch'ella non dipende dalla fama. Turpino fu scrittor che avea buon naso, e per prova del vero cita e chiama de' mastri postiglion le note certe, dove son le partite ancor aperte.
5
A qualche postiglion data ha la mancia, se fu robusto e buon bestemmiatore; del resto il chieder prezzo era una ciancia, che tirava percosse d'un gran core. Ipalca, finta moglie, avea la guancia talor di carta e di color peggiore, e alle sciarre, a' cimenti, alle contese, vanta un suo voto che le avea difese.
6
Tra la rabbia, il furore e i patimenti e l'amor pel guascone, che conserva, sentí Marfisa un dí scuotersi i denti, e volse il viso pallido alla serva, dicendo:—Io sento ribrezzi e accidenti e una debolezza che mi snerva: mi duole il capo ed ho la bocca amara.— Rispose Ipalca:—Questa è febbre chiara.—
7
Disse Marfisa:—Io ti darò un susorno; altro non mi sai far che triste augurie;— e grida al postiglion che suoni il corno, sferzi i cavalli, ed entra nelle furie; e benché porti una gran febbre intorno, non lascia le minacce né l'ingiurie, ma alfin la febbre d'una buona razza basta a frenare anche una donna pazza.
8
E convenne far alto in un villaggio. perché Marfisa piú non si reggea. Or quasi Ipalca ha smarrito il coraggio per il finto marito che gemea, e dice:—Eccovi alfin quel dal formaggio. Caro Gesú! fuggir non si dovea.— Marfisa è oppressa, ma l'ha minacciata con una guardatura spiritata.
9
Prendesi alloggio, ed all'uomo-fanciulla venne un dottor d'una trista figura. Di villa egli è, ma il capo non gli frulla, ne sa quanto un Macope ad una cura, perché l'arte sapea di non far nulla e di lasciar l'imbroglio alla natura. Tocca il polso, l'orina vuol vedere, e poi dice:—Ha la febbre il cavaliere.
10
Diman verrò, vederem, penseremo; non mangi, e beva generosamente.— Marfisa al suo partir diceva:—Fremo; costui è un asin risolutamente.— Torna il dottor, che par di cervel scemo, con un passo ed un viso sonnolente, ritocca il polso, vuol l'orina, e guata, poi dice:—Questa febbre è declinata.
11
Faccia bibite spesse ed abbondanti, non mangi nulla, sorba qualche brodo. Stiamo a veder diman se il mal va avanti; se cresce, penserem la forma e il modo. I rimedi dell'arte sono tanti: gli userem tutti, se il mal terrá sodo. A buon vederci: soffra e stia in riguardo.— Poi se ne va sonniferoso e tardo.
12
La dama va in furor, dietro gli grida, lo chiama dottorello ed ignorante; e perché son di femmina le strida, Stupefatto il dottor volse il sembiante. Guarda Ipalca nel viso, e par che rida, e disse:—Questo è un musico e arrogante;— e poi senz'altro dir scende le scale: Marfisa vuol scagliargli l'orinale.
13
Ipalca la pregava ad acchetarsi per tutti i santi e le sante del cielo. —Costui—dicea Marfisa—vuol spassarsi, e del mio male non si cura un pelo; ma s'egli spera le paghe beccarsi, non ne beccherá una, pel Vangelo!, Tu sai la circostanza e la premura; ei vuol tenermi un anno alla sua cura.—
14
Ma finalmente il terzo giorno arriva: si sente la bizzarra sollevata. Giunto il dottor al polso, disse:—Viva; questa è stata un'effimera sforzata.— Dicea Marfisa:—Io son di febbre priva, ma voi non me l'avete discacciata.— Rispondeva il dottor:—Questo è di fatto; ma poteva ammazzarvi e non l'ho fatto.—
15
Sonvi alcune ragion chiare e precise, d'una tal veritá, d'un'evidenza, che sono intese insin dalle Marfise e le disarma della prepotenza. La dama col dottore alquanto rise, e le fu liberale in diligenza, dicendo sempre:—È ver ciò che diceste; potevate ammazzarmi e nol faceste.
16
La vostra umanitá, la virtú vostra è rara molta nella medic'arte.— Grato a Marfisa il medico si mostra, e sonnolento la ringrazia e parte. Esce dal letto la bizzarra nostra, chiede i vestiti, e le par d'esser Marte. Ma nel rizzarsi in piè non si può dire quanto inabil trovossi al dipartire.
17
Le trieman le ginocchia, il capo gira: convien fermarsi nel villaggio alquanto, sin che la dama un pocolin respira e riacquista del vigore infranto. Or qui veggo il lettor meco s'adira per queste fievolezze ch'io gli canto; doglie di capo, effimere, tremori, cosí non s'intrattengono i lettori.
18
Cari lettori, abbiate pazienza: io deggio esser fedele al mio Turpino. Cotesta poca vostra sofferenza, questo vostro decider repentino, vi fa molto simili in coscienza a' sudditi del figlio di Pipino, ch'eran dottori senza intender nulla, col capo al gioco, al sarto, a una fanciulla.
19
Questa fiacchezza, di cui fa memoria Turpino, della dama dopo il male, che scemò alquanto la furia e la boria d'andare in posta tosto alla bestiale, non è inutile affatto per la storia, oltre all'esser la cosa naturale: fatto sta che Turpino in quella villa ferma la dama, e assai cose postilla.
20
Prima sopra a quel medico antedetto va compilando alcune coserelle. Dice che alla cittá fu poveretto per la persecuzion non delle stelle, ma degli altri dottor che avean concetto; ed il concetto è delle cose belle, perché, sia ben fondato o ingiustamente, a rovinar parecchi è sufficiente.
21
Misero quel che il vitto aspettar deve dalla riputazion fra gli abitanti, se d'essere impostor gli sembra greve e non uccella sciocchi ed ignoranti; e' si riduce in villa e al verde in breve, perché i competitor stan vigilanti co' lor dileggi arcani e paroloni. Son di Turpin coteste riflessioni.
22
Il qual segue a narrar che in quel villaggio, sendo Marfisa maschio contraffatto, bizzarra e di cervello poco saggio, volle prender sollazzo qualche tratto; e cominciò con lubrico linguaggio, come fa qualche fanciullaccio matto, a tentar le ragazze forosette, e le trovò maliziose e scorrette.
23
Quell'antica innocenza villereccia, un tempo celebrata da' poeti, non avea piú né seme né corteccia, il rossor, il pudor si stavan cheti; perocché certi paladini feccia, o vogliam dir filosofi discreti, che villeggiavan l'autunno e la state. avean le villanelle addottrinate.
24
Il vizio ne' maggiori è una magagna, che ne' maggiori sol non sta rinchiusa, ma ne' minor si dilata e accompagna, e ognun adduce esempi ed ha sua scusa. Passa dalla cittade alla campagna, e sin nelle caverne alla fin s'usa; però i vizi de' stolti paladini s'eran diffusi ancor nei contadini.
25
Il lusso di Parigi smisurato aveva fatti i paladin fallire: volevan sostenersi in grado alzato con debiti e con truffe da non dire. Facean lo stesso i servi nel lor stato, per imitare i grandi e comparire; e le villeggiature de' signori avean fatti i villani imitatori.
26
Non correan piú que' rozzi panni e bigi, que' zoccoli all'antica e i cappellacci, le forosette andavano a Parigi spesso a tôr nastri e scarpette ed impacci, coralli che costavano luigi, fior di seta, orecchin, ritagli e stracci e cappellin con fettucce e frastaglie, per pararsi d'amore alle battaglie.
27
E come i paladin davan l'esempio con gabbi e scrocchi, estorsion, prepotenze, e faceano all'amor sino nel tempio, nel villeggiare, e mille scandescenze; i villanzoni acquistavan dell'empio, rinvigorendo assai le coscienze. Le villanelle, stuzzicate, a furia rubavan biade per gale e lussuria;
28
e sapeano scherzar coll'occhiolino e alle richieste altrui non ritrosire; aderiano ai sospir d'un paladino, massime aggiunte ai sospir poche lire, perché serviano a un nuovo gamurrino per farsi vagheggiare e benedire: donde Marfisa da maschio vestita la sua convalescenza ha divertita.
29
E sendo un giorno alla messa in parrocchia, quando all'altar si volgeva il piovano a spiegare il vangel, Marfisa adocchia che dalla chiesa usciva ogni villano: —Perdio! che gracidar vuol la ranocchia— dicendo,—ella mi secca il diretano;— e usciti que' villan sul cimitero, siedeano al sol scherzando sopra al clero.
30
—Odi tu—dicea l'un—cotesto prete a predicar che non si de' rubare? Se il quartese de' furti gli darete, v'insegnerá a rubar, nel predicare.— L'altro dicea:—Se ben l'ascolterete, tutti i castighi, ch'ei sa minacciare, saran sospesi in ciel, se noi gli diamo nelle borse i quattrin che addosso abbiamo.—
31
Diceva un altro:—Notate voi bene come fa grande il foco al purgatorio? come per levar l'alme dalle pene chiede danar per lui dall'uditorio? So che cappon, c'hanno tante di schiene, purgan nel suo paiuol brobo in martorio, e che un gran foco nella sua cucina tormenta ariste di vitella fina.
32
—Comprendereste voi che voglia dire quel non rubar?—diceva un villan scaltro. —V'aggiugni un «ciò che tu non puoi ghermire», e tosto intenderai—diceva un altro. —Naffe! tu parli meglio del Dies irae— gridavan tutti,—senz'altro, senz'altro.— Qui i villanzon rideano alla distesa del lor piovan che predicava in chiesa.
33
Marfisa, con Ipalca uscita anch'ella, stava ascoltando i villan risvegliati, e poi diceva alla sua damigella: —Benedetti i scrittori illuminati! Diffusa è sí la scienza novella, che son sino i villan spregiudicati: questi pretacci e fratacci ghiottoni finito han di strippar co' lor sermoni.—
34
Faceva Ipalca il grugno di bertuccia e rannicchiava il collo nelle spalle, co' detti di Marfisa si coruccia, di Giosafat rammemora la valle. Un riso alla bizzarra fuori smuccia, dicendo:—Vatti appiatta nelle stalle. Come concordi, beata Verdiana, la santitá col farmi la ruffiana?
35
—Oh, Maria del rosario!—rispondeva Ipalca—io tutto fo per un buon fine.— Allor Marfisa piú forte rideva, ischiamazzando come le galline. Ognun di que' villani rifletteva che si godesse delle lor dottrine, dicendo:—Quello è un paladin, ch'approva che noi sappiam dove la lepre cova.
36
S'egli ha campagne, a fitto le torremo; quanto al rubar, veggiam ch'egli è in accordo; alle guagnel lo rigoverneremo; ognun dal canto suo spennacchi il tordo.— La predica frattanto era all'estremo di quel piovan, che predicava al sordo; la turba in chiesa ad ascoltar tornava quel rocchio della messa che restava.
37
A questo passo Turpin moralista fa parecchi riflessi, ch'io vi taccio. Forse la sua moral parrebbe trista a un secol ripurgato per lo staccio. De' paladin l'esempio lo rattrista, e vuol la correzion del popolaccio dipendente da quel; ma veramente Turpino fu scrittor di poca mente.
38
Perché voleva che la religione utile fosse anche dal tetto in giuso. Quanto alle ruberie delle persone, sí corto fu che le chiamava abuso, e prese un granchio a chiamar «corruzione» alla coltura perspicace e all'uso; dond'io d'epilogarvi non mi degno i riflessi d'un uom di poco ingegno.
39
Marfisa è in nerbo, e la posta ritoglie; corre come un dimon verso la Spagna con la sua imbellettata finta moglie, che col rosario in mano l'accompagna. Turpin la briga a narrarci si toglie alcune coserelle, e pur si lagna, vedute da Marfisa, e scrive e ciancia delle cittá e castella della Francia.
40
Giugnendo la bizzarra in qualche terra, o vuoi castello o cittá provinciale, metteva del calesse il piede a terra, e per gire a' caffè metteva l'ale. In alcun luogo, se Turpin non erra, il caffè si bevea dallo speciale. Basta, di quelle adunanze Marfisa lasciò un itinerario ben da risa.
41
In quel caffè venien certe figure da' paladin antichi discendenti, abitanti in castei pien di fessure, puntellati i canton, rotti e pendenti, con le finestre metá di scritture, metá di vetri avanzati dai venti, e con porte che, chiuse, non che a' sorci, non impedien l'ingresso a' cani, a' porci.
42
Parte aveano gabban di Salonicchio, certi spadon, certe scarpe infangate, da ciabattin rimesso qualche spicchio, certe calze da sprazzi indanaiate, cappellini tignosi e come un nicchio, cappellon con le alacce mal puntate; e tuttavolta ognuno avea sua scusa, dicendo:—Oggi a Parigi questo s'usa.—
43
Entravane un con faccia larga e grassa, rossa pel vin, pel sole abbrustolita, con la parrucca come una matassa di lin, non ripurgata o ribollita, che per le guance penzolava bassa, con la coduzza dietro di tre dita: entrando, a tutti facea riverenza, e poi siedeva con magnificenza.
44
Un altro con la faccia lunga e nera ha le banduzze corte e inanellate, un parrucchin con gli aghi e con la cera, con sevo e gran farina impastricciato; e nondimen con una sicumera nella bottega a seder era entrato, che mettea suggezione a tutti quanti, perocch'era un di quei che aveano i guanti.
45
Era quel parrucchino una letizia, sul viso lungo e ner, sí corto e bianco; e la bizzarra gli facea giustizia, ridendo sí che le scoppiava il fianco. Quel gentiluom non entrava in malizia, ché di sé troppo è persuaso e franco; ma giudicando con sua fantasia, sorride anch'ei per social pulizia.
46
Vedeansi giovanastri coi vestiti di qua e di lá con gli ucchiei replicati, ma sopra il destro quarto ricuciti, segno evidente ch'eran rivoltati. Gli untumi pel calor gli avean traditi, ch'anche al rovescio s'erano affacciati, massime sulla schiena a' capei sotto, ed è superfluo il ragionar del rotto.
47
Pur nondimeno alcuno era contento con que' vestiti del diebus illi, perocché quattro sacca di frumento avea cambiato in due fibbie di brilli; e passeggiando la bottega, è attento di serpeggiar col piè dove il sol stilli; crescegli il cor, che gli occhi degli astanti ferisca il fiammeggiar de' suoi brillanti.
48
Era un diletto udirli al lor arrivo chiamar:—Bottega!—in voce gigantesca, e all'apparir del caffettier giulivo, non voler piú che un gotto d'acqua fresca, il suo caffè disprezzando cattivo: pur convien spesso ch'egli fuor se n'esca, perocché si minaccia e non si prega, reiterando:—Bottega, bottega!—
49
Diceano al caffettier que' ragazzoni de' goffi sali e impertinenze vili, per fare i perspicaci e i ciceroni; poi si gettan ridendo nei sedili. Il caffettier, che ha molte erudizioni, le dice con de' termini incivili, e scopre il debituzzo e la lordura: ma che non vince al fin disinvoltura?
50
In questo postiglioni capitavano, che avean le mance scosse per le corse, e in un stanzin della bottega entravano, sfoderando le carte con le borse. Tosto que' paladin s'affratellavano, e la lor nobiltá lasciando in forse, puntano al faraone a tavolino, superando in bestemmie il vetturino.
51
Né perché un birro sopraggiunga e punti, que' nobili rampolli hanno ribrezzo. Frattanto i padri, alla bottega giunti, leggono le gazzette per un pezzo, e notan negligenze, errori e punti. Alcuno grida:—O Dio, mi scandalezzo, il tal monarca s'è portato male, e non fu cauto appien quel maresciale.—
52
E qui della politica e dell'armi, di regi matrimoni e d'alleanze diceano cose da scolpir ne' marmi, e di ragion di Stato e di speranze, ed han greche sentenze e latin carmi, per raffermare, e molte sconcordanze, topografie, geografie, misure, che non si troveran sulle figure.
53
Sostengon riscaldati e pettoruti le loro opinioni, il pensamento; pur insensibilmente son caduti senz'avvedersi al scarso del frumento, e ad esclamar che, se Dio non gli aiuti, il viver sará un tedio ed uno stento, perocché l'uve anche poche saranno, e discordan sui prezzi di quell'anno.
54
Un grida che s'è sconcia una sua vacca e per la menda ha citato un villano. Un altro all'oche d'un vicin l'attacca, ch'è danneggiato d'un quarto di grano. Uno è in furor; vuol spezzare una lacca, se sa chi ne' suoi fichi ha posta mano. Cosí restan monarchi, arme e regine, per oche, vacche, ficaie e galline.
55
Turpin Marfisa fa per le piú colte cittá della provincia ancor che passi, e va notando osservazion raccolte, e costumi e cervei, difetti e passi; dice che in queste, alle apparenze molte, alle giostre, a' teatri, a' giuochi, a' spassi, alle carrozze, a' servitori, all'oro, si potea giudicar molto tesoro.
56
Ma nel fermarsi alcuni giorni poi, l'antico detto si verificava: «tutt'òr non è quel che splende tra noi», sicché Marfisa assai farneticava. Vede alcun gentiluom, che, agli occhi suoi, a' panni molto agiato non sembrava; non tenea cocchio o pompa, e pur in cera del cor dipinta avea la primavera.
57
Dall'altra parte molti risplendenti scorrer vedea ne' cocchi lor famosi, con certe risa sforzate fra i denti, con certi sguardi cupi e sospettosi, che dipingeano gli animi scontenti e de' pensier molesti e tenebrosi; donde Marfisa facea strani gesti, veggendo i pover lieti e i ricchi mesti.
58
L'alterigia, il puntiglio, il fumo, il fasto ben tosto discopriva quest'arcano. Gli appariscenti appiccavan contrasto co' men splendenti per la dritta mano, e per i posti a una festa, ad un pasto, e' metteano sozzopra il monte e il piano: volean risarcimenti e vergognose cercan vendette per le vie nascose.
59
Perocché l'ozio e i sistemi novelli aveano lor sí rinvilito il core, che tenean gran ribrezzo de' duelli, ma ricorreano dal governatore. Con invenzion, tradimenti e tranelli lo facean divenir persecutore; poi boriosi in piazza, a visi alzati, narravan come s'eran vendicati.
60
Qui del governatore uscieno arresti e rabbuffi e minacce mal fondate. Gli oppressi tosto facean manifesti, che le bugie scoprivano storpiate: e perché l'ira fa gli uomini desti, le lingue piú non eran moderate, e allor sapeano tutti i forestieri delle famiglie il stato ed i misteri.
61
E oscure azion, prepotenze e clamori, debiti, usurpi e liti poco sante, e mille altre vergogne sbucan fuori, perché parta erudito il viandante. Sapeasi che i men ricchi ne' colori avean la casa in sostanza abbondante, e che, per non far debiti all'usanza, vivean modesti e con poca baldanza.
62
Non v'era altra ragion per le oppressioni che la disuguaglianza de' vestiti, e de' risarcimenti le ragioni erano sangui antiqui e gran partiti. Se v'eran degli agiati illustri e buoni, questi non difendevano i traditi, perocché in terzo, in quarto o in quinto grado tenean con gli oppressori parentado.
63
Era in que' tempi il lusso una malia, che cagionava piú d'una ingiustizia. L'uomo alterata avea la fantasia, perdea d'ogni misura la notizia; ed alla necessaria economia aveva dato il nome d'avarizia. Ciò cagionava gran confusione ne' provinciali, povere persone.
64
Turpin delle cittá de' provinciali mille altri pregiudizi ed i sistemi ha scritto diligente negli annali di conti e cavalier di cervel scemi, ed etiche peggior de' serviziali, ridicole rubriche, insulsi temi, a tal ch'anche Marfisa io vo' trar fuori, ch'ella mi fa pietá tra que' signori.
65
Correndo a stracca per la via piú mozza, giunse sul fiume Iber, lá nella Spagna, e furiosa un giorno in Saragozza entrò colla sua moglie o sua compagna. Qui con un locandiere si raccozza, sprezza le stanze, di tutto si lagna; poi scherza seco, poi ride, poi grida, ma finalmente piglia albergo e annida.
66
Nelle conversazion col suo guascone, l'avea sentito mille volte a dire ch'ei teneva efficace inclinazione d'irsene in Spagna prima di morire; però spera trovare il suo mignone in Saragozza, o novella sentire che glielo additi; e da maschio vestita, pe' caffè in traccia conducea la vita.
67
Nelle botteghe eran giunti i foglietti ed i successi di tutti i paesi. Que' pagani facevan rigoletti per un caso avvenuto tra' francesi; e perch'eran nimici maladetti per le guerre passate e ancor accesi contro l'andata bravura francesca, facean risa impulite alla turchesca.
68
La dama vuol saper di quelle risa; drizzando un turco i baffi, le rispose: —Una sorella di Rugger di Risa, ch'era una delle donne strepitose, fuggita è da Parigi alla recisa da quelle che si chiaman sacre spose; ed ogni conghiettura è chiara e piana, ch'ella pel mondo faccia la puttana.—
69
Marfisa era filosofa a bastanza perché quel titol non le desse pena, ma il parlar del pagan senza creanza di pregiudizio alquanto l'avvelena; e disse:—Non è molto bella usanza in faccia ad un francese giunto appena il dir ch'è una bagascia a dirittura una sua dama, e sol per congettura.—
70
Rispose il saracino:—In un francese io non credea delicatezza in questo, perocché noi sappiam che al suo paese si ride d'un marito troppo onesto, e che le donne sono anche riprese s'hanno del schizzinoso e del modesto, e che de' libriccin molto applauditi giudican tutti i casti scimuniti.
71
Se a ciò che s'applaudisce che sia fatto si vuol che il fatto poi solo si taccia, non siete ancor spregiudicati affatto, se non vi si può dire in sulla faccia; ma se tra voi si de' tacer quell'atto che commendate, qui vogliam bonaccia, e nelle nostre region vogliamo rider de' parigin quanto bramiamo.—
72
Fu la bizzarra per appiccar zuffa, ma il numer grande di que' saracini, e il timor di scoprirsi alla baruffa la tenne col cervel dentro a' confini, e fece come fa chi ride e sbuffa ne' difficili casi repentini, per mostrar del disprezzo e del coraggio verso qualche nimico poco saggio.
73
Era in sul fatto Ferraú qui giunto, nipote di Marsilio, re di Spagna, che di cavalleria conosce il punto e co' suoi patrioti assai si lagna: poi con Marfisa in amistá congiunto, la serve e pel paese l'accompagna; e pur la guarda in viso, e giureria che non gli è ignota sua fisonomia.
74
Marfisa Ferraú conosce certo, ché seco fatto avea piú d'un duello; ma fa del franco ed usa il tratto aperto, che lievi ogni sospetto dal cervello. Verso la piazza sentesi un concerto di corni e violini molto bello. Il popol corre, dá d'urto e schiamazza, e tutta Saragozza è nella piazza.
75
Marfisa a Ferraú ragion dimanda di quel concerto e di quel gran furore. Le rispose il pagan che in quella banda da due giorni era giunto un ciurmadore, che avea di privilegi una ghirlanda, e cantatrici e piú d'un suonatore; ch'era per lui la cittá sbalordita, e si facea chiamar «cosmopolita»;
76
che da molti francese è giudicato, ma che alterava spesso la favella; che avea la sposa canterina a lato, con bella voce, assai scaltrita e bella; che vendea cataplasmi a buon mercato, ma che la moglie veramente è quella che con certi secreti suoi lavori acquistava al marito de' tesori.
77
Giunsero nella piazza passeggiando, ma convien colle spinte farsi strada. Marfisa verso il palco va guardando per veder quella cosa come vada. La folla la rispinge rinculando, sicch'ella è quasi per cavar la spada, e pur il collo allunga da lontano per veder questo nuovo ciarlatano.
78
Parle veder, non le par ben scoprire,
spera ingannarsi per la lontananza;
vorria appressarsi piú, vorria fuggire;
mostra negli atti molta stravaganza.
Colui che i bussoletti e l'elisire
alza ciurmando e ciarla all'adunanza,
alla taglia, al sembiante, a' capei d'oro,
le sembra ad evidenza Filinoro.
79
No, che non v'è ne' romanzi del Chiari sorpresa a quella di Marfisa eguale. Fece il viso d'un uom senza danari, aprendo gli occhi e una bocca spannale. Ferraú guarda e vuol che le dichiari quella sorpresa fuor del naturale, e sol trasse da lei quell'africante: —Oh, cospetto di Dio, questa è galante!
80
Può fare il ciel—soggiungea la bizzarra fuori di sé, né sa d'esser udita —che senza aver riguardo alla caparra, egli abbia sí vil giarda stabilita? Questo sarebbe saltare ogni sbarra! Non è possibil, scommetto la vita; traveggo, non è ver, non sará desso, e vo' serbarmi a vederlo dappresso.—
81
Ferraú, maggiormente curioso, replica le richieste tuttavia. Disse la dama:—Io son un po' dubbioso di conoscer colui; ma andiamo via.— Ferraú, ch'era un pagan generoso, soggiunse:—Questa sera, in cortesia, nel mio palchetto a teatro verrete alla commedia e l'ore passerete.—
82
Disse Marfisa:—Volontieri accetto e vi ringrazio della esibizione; anche mia moglie condurrò al palchetto, perch'abbia un poco di ricreazione; ma vo' per grazia e per aver diletto e per far bella la conversazione, che voi facciate al palco anche venire quel ciarlatan che vende l'elisire.—
83
Rispose Ferraú:—Questo fia fatto;— diconsi addio, le man si sono strette: —A rivederci al cominciar dell'atto, nell'ordin primo, al numer diciassette.— Ferraú resta alquanto stupefatto. Marfisa imita al partir le saette: non vede l'ora trovar la compagna, per esalarsi e bestemmiar da cagna.
84
Giunta alla stanza sua con ciglio oscuro, getta il cappel per terra e lo calpesta, ed i vestiti scaglia contro al muro; la camicia sudata la molesta: la trae stizzita, e col suo viso duro su e giú passeggia, astratta con la testa, ignuda mezza e con la spada a lato, e corre come un levrier sguinzagliato.
85
Era a vedersi una scena faceta Marfisa mezza ignuda con la spada, che passeggia fanatica inquieta, e Ipalca spaventata, che la bada e che la guarda come una cometa, non intendendo il fatto come vada; ma finalmente ardita le chiedeva la ragion del furor che l'accendeva.
86
Disse la dama:—Senti: s'egli è vero, alla croce di Dio! con un pugnale gli spacco il cor, lo mando al cimitero: conoscerá Marfisa quanto vale.— E detto questo, va come il pensiero. Ipalca replicava:—Chi e quale?— La dama irata si rivolge e dice: —Ella è una cantatrice, cantatrice.
87
È saltimbanco, vende teriaca, guadagna sulla moglie, fa il ruffiano, e m'ha ficcata questa pastinaca, il turco, l'assassino, il luterano!— E pur s'infuria, bestemmia, s'indraca. Ipalca rispondeva:—Dite piano.— Ma pure strologando indovinava per qual ragion Marfisa furiava.
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Di quel sospetto nulla piú fa sdegno a Ipalca, che il sentire il traditore si fosse sottomesso all'atto indegno di dar la mano a una cantante e il core. —Che sia ruffian—diceva—io mi rassegno, ho pazienza che sia ciurmadore; ma che una cantatrice sposata abbia, santissimo Gesú, questo fa rabbia.
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Io mi sento agghiacciar piú che nel verno. Una cantante! oh, san Francesco mio! una donna dannata in sempiterno, per cui non ha misericordia Dio; che ha mandate tant'anime all'inferno, cantando in sul teatro e che so io! una cantante, una scomunicata! o Vergine Maria sempre laudata!
90
S'egli avesse sentito un cappuccino a predicare un dí, com'ho sentito, e gridare e sudar quell'angelino contro queste donnacce da prurito, e a provar che son diavol con l'uncino sotto il belletto e sotto un bel vestito, diguazzando una barba veneranda, le avria il guascon lasciate da una banda.—
91
La stizza del sentir discorsi sciocchi pose a Marfisa l'altra ira in bilancia, e disse:—Non può far che l'ora scocchi; t'immaschera al costume della Francia, perocché le tue ciarle da pidocchi gorgogliar presto mi farien la pancia.— E brievemente andarono a vestirsi per gir alla commedia a divertirsi.
92
E mascherate al teatro sen vanno, l'una com'uomo e l'altra come dama. Al numer diciassette picchiato hanno: Ferraú tosto, per acquistar fama, apre, mettendo Ipalca a saccomanno con ceremonie, e quel momento chiama felice, glorioso, e dá del resto; ma Ipalca affatto era inesperta a questo.
93
Sei volte un'«umilissima» infilzando, con rossor di Marfisa, entra e s'asside: il sipario, che allor si andava alzando, il complimento, grazie a Dio, recide. La commedia si fa. Di quando in quando si picchiano le mani e il popol ride, e perch'ella era alquanto curiosa, Turpin ci lasciò scritta qualche cosa.
94
V'erano in essa di molti cristiani posti in aspetto obbrobrioso e tristo, preti papisti e frati veneziani, ch'altro eran ben, che imitator di Cristo. Ma tra gli altri cattolici romani, entro a quella commedia un ne fu visto d'un secolare spigolistro avaro, che all'uditorio turco assai fu caro.
95
Il poeta pagan fingea che morta fosse la moglie del divoto arpia, e che i preti gli fossero alla porta per le candele e per portarla via. L'avaro, ch'era una persona accorta, per l'avarizia spender non volia, ma per unirla alla religione, col piovan facea scena in un cantone.
96
—Per scarico—dicea—di coscienza, piovano, confessar vi deggio il vero: mia moglie, e ve lo dico in confidenza, nulla credea ne' successor di Piero. Le ho fatto correzioni in scandescenza, ma le fatiche mie furono un zero; morí secreta eretica in peccato, né deve esser sepolta nel sagrato.—
97
Il piovano, ammirato e grave in viso, faceva del zelante e del prudente, dicendo:—A un caso occulto ed indeciso, non si deve dar scandalo alla gente; e poi so ch'ella è ita in paradiso, e il posso dir d'una mia penitente. Dovete anzi, di cere liberale, farle un solenne onor nel funerale.—
98
Ciò che adduceva l'avaron marito per non dar cere a quella sepoltura, ciò che il piovan rispondeva perito a voler torce di buona misura, cagionava un dialogo fiorito, di veritá ripieno e di natura, a tal che i turchi pel rider scoppiavano, e le lor brache larghe scompisciavano.
99
Ancor che fosse Marfisa affannosa pel saltambanco che non giunge mai, non tacque alla commedia scandalosa, che il cristianesmo rinvilisce assai. A Ferraú si volse dispettosa, e disse:—Questi vostri commediai sono troppo maledici e indiscreti contro ai cristiani, a' nostri frati e a' preti.—
100
Ipalca certo sarebbe fuggita, ma giá dormiva alla seconda scena. Ferraú con maniera assai pulita disse a Marfisa:—Non vi date pena, la politica nostra è stabilita, nel far commedie in sulla turca scena, di porre in tristo aspetto l'inimico, per conservar nel popol l'odio antico.
101
In ludibrio si mettono i cristiani e in una vista schifa e abbominevole, acciò non si battezzino pagani. La massima non sembra irragionevole. Certo i vostri poeti son piú umani, e le commedie loro han del piacevole; e sembra, per voler retto decidere, che vogliano i cristian far circoncidere.
102
Certi Macmud dipingono prudenti, molto teneri in cor, molto pietosi, certi bey, filosofi saccenti, moralisti, divoti e generosi; e per converso cristian malviventi, marchesi ladri e conti pidocchiosi; donde da noi si spera certo e crede che vorrete abbracciar la nostra fede.
103
E inver sono infiniti i cristian vostri che voi chiamate «turchi rinegati». Fioccano a torme sempre a' templi nostri, non senza alcuni preti e alcuni frati. Forse annoiati son de' paternostri, o poveri o viziosi o disperati; ma forse anche i scrittor mal cauti fanno cotesti disertor con vostro danno.—
104
Marfisa nelle spalle si rannicchia, perocché quel discorso ha del preciso. Ecco un che gentilmente al palco picchia: è il ciurmador che avuto avea l'avviso. Marfisa nel tabarro s'incrocicchia, mettendo pria la maschera sul viso. Si desta Ipalca, e anch'ella prestamente s'è mascherata alquanto goffamente.
105
In bocca la bizzarra un sassolino si getta per confonder la favella, caso che il ciurmador per rio destino fosse il guascon, che mai non vorrebb'ella; ma ci vuol flemma, ché insino a un puntino, al viso, al favellare, alla gonnella, alla disinvoltura, ed in sostanza è Filinoro: è tronca ogni speranza.
106
Bolle il sangue a Marfisa, e le dá d'urto nella pia-madre, e quasi esce dal cerchio, siccome il brodo nel paiuol ch'è surto pel troppo foco e spinge insú il coperchio. Un uomo, a cui vien fatto il maggior furto, che ha gran famiglia e nulla di soperchio, non ha metá dolor di quel che prova Marfisa, che il pidocchio alfin ritrova.
107
Avea questo filosofo guascone, poiché lasciò quel padre abate santo, piantato il laico a piè, suo compagnone, dormente un giorno e cotto piú che alquanto; e venduto il destriere ed il rozzone e i ricchi guarnimenti, trasse tanto che poté tôr le poste e far viaggio, piantar carote e cambiar personaggio.
108
Qui apparve abate, lá uffizial da guerra, qua inviato secreto con arcani, lá pellegrin che per gravi colpe erra, e tenta d'elemosine i piovani; in qualche castelletto, in qualche terra, fu giuocator col diavol nelle mani, perocché certo e' le sapeva tutte e aggiunge alle dottrine di Margutte.
109
Protettor fatto d'una cantatrice, vestito nobilmente e riccamente, ei fu in sul punto, per quanto si dice, ch'era il borsello suo convalescente. In questa bella trovò la fenice, amante men dell'altre fintamente, ma non tanto fenice che donasse, se prima il cavalier non la sposasse.
110
Avea raccolta questa verginetta, tra onesti doni e le merci onorate, d'orivuol, gemme e astucci una cassetta e borse d'òr da esser venerate, perché con sdegni casti e senza fretta e con rifiuti le aveva acquistate, con modesti atti e discorsi morali e con le sette virtú cardinali.
111
Ma poiché molto il pericol, dicea, d'ir sui teatri la mortificava, ché la sua castitá, che salva avea sino a quel punto, si perseguitava, a sposar Filinoro discendea e i santi acquisti in dote gli recava; ma veramente l'accieca la brama di sposar Filinor per esser dama.
112
Filinoro, filosofo in bisogno, non ebbe alcun ribrezzo e se la prese, dicendo in cor:—Tu sarai dama in sogno; co' tuoi borsel mi lascia ire alle prese; quando ho danar, di nulla mi vergogno.— E cominciò di smisurate spese, e veste e giuoca e spende senza fine, e tratta principesse e ballerine.
113
In poco tempo al verde s'è ridotto. Alla dama consorte il ver celava; pur, perch'ella il vedea giuocare al lotto, ad un sí triste segno sospettava; ma finalmente scopre ch'egli è rotto, che le vesti e le cuffie le impegnava, e cominciava ad appiccar baruffa: ma invan con Filinor si grida e sbuffa.
114
Che con moine, carezze e scherzetti, quel ch'ei disegna, ben le fe' comprendere: comincia in casa a condur degli oggetti, paladini e milord che potean spendere; gli pianta e parte al canto de' duetti e di quell'arie che soleano accendere. La dama sposa per necessitate l'util modestie ha infin rinnovellate.
115
E perché giova in cosí fatta tresca cambiar paesi e riuscir novelli, questa coppia gentil piantò bertesca e in diverse cittá vischio agli uccelli. La dama, ch'era una lana sardesca, al cavalier tenea stretti i borselli, dond'ei che i vizi suoi vuol mantenere, si fece ciurmador, di cavaliere.
116
Ma lo faceva con magnificenza e suoni e canti e livree ben guarnite. La moglie in casa non facea credenza, ed egli in piazza spaccia elisirvite; e tenendo nel dua la rubescenza, di qua, di lá le genti ha sbalordite. Da pochi giorni in Saragozza egli era, e in brieve nel palchetto è quella sera.
117
Quando riebbe la bizzarra il fiato, fece forza a se stessa: discorrendo col sassolino fitto nel palato, molte richieste al guascon va facendo. Quel diavol, ch'era un golpon scozzonato, alle dimande va soddisfacendo: nelle risposte si fe' grande onore, salvo che apparve un po' millantatore.
118
Non so qual fosse degli angeli bigi, che inducesse la dama a far richiesta a quel cosmopolita se Parigi vedesse, andando in quella parte o in questa, ché le pareva in chiesa a San Dionigi veduto averlo a messa un dí di festa; e ch'anzi, poiché ogni uom alfin pur ama, l'avea veduto a far scherzi a una dama.
119
Disse il guascon:—È vero, è vero, è vero. Era costei di famiglia elevata, Marfisa detta, sorella a Ruggero, morta per me, basita, spasimata. Per dirvi tutto, io l'aveva nel zero, né so dir come l'abbia sopportata, ché le puzzava il fiato ed era pazza, ed anche anche non molto ragazza.—
120
Or qui Marfisa lascia ogni contegno, allarga il suo tabarro, e strigne il pugno, gridando:—O figlio di puttana, indegno!— gli sciorina una nespola nel grugno. La maschera le cade a questo segno, la faccia ha calda piú che al sol di giugno, e gli schiaffi e i cazzotti replicando: —Becco, ruffian!—gridava trangosciando.
121
Ipalca è anch'essa smascherata e grida: —Ponete, Dio, la vostra santa mano.— Ferraú sembra incantato da Armida e non intende questo caso strano. —Olá, zitti, si calmi e si divida,— gridava dal palchetto ogni pagano; il teatro è commosso in tutti i lati, e i comici si stan co' visi alzati.
122
Il guascon l'influenza vuol fuggire e del palchetto aperto ha giá la porta: di stizza la bizzarra ecco svenire; nelle braccia d'Ipalca è mezza morta. Ferraú non rifina di stupire, e faceva la bocca d'una sporta; ma divenne peggior la circostanza, che il caso non è ancor brutto a bastanza.
123
Rugger dietro la traccia de la suora a Saragozza assai stanco è arrivato. Egli era tutto fango e tarda è l'ora: a casa Ferraú l'uscio ha picchiato; non che sapesse di Marfisa ancora, né ch'abbia in Saragozza il piè fermato, ma per non alloggiar nelle taverne, che in Spagna son peggior delle caverne.
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Ferraú gli era stato amico assai, né spezza l'amistá religione. Rugger gli aveva scritto sempremai, mantenendo social correlazione. Un servo al buio gli rispose:—Andrai al teatro, se cerchi il mio padrone, al numer diciassette, all'ordin primo.— Rugger dal sommo il fe' scendere all'imo.
125
Poiché gli ha consegnato il suo destriere, vuol ire alla commedia, e giá s'avvia stanco, con gli stivai, né vuol sedere, ché Ruggero è un gioiel da compagnia. Tanto gli è ver ch'egli era cavaliere, che, benché la commedia a mezzo sia, la paga die' alla porta interamente con un sussiego d'uomo indifferente.
126
Al numer diciassette è per picchiare. —Questa è—dicea—delle belle sorprese; in trasporto vedrò Ferraú andare, venirmi incontro con le braccia tese.— Ma spesso avvien il contrario al pensare. Ardeano allor le premesse contese; Filinor per fuggir da quella guerra, sbuca e spinge Rugger col culo in terra.
127
Lasciando il paladino a gambe alzate, trova la scala senza chieder scusa; Rugger, che cerimonie ha immaginate, si rizza con la mente assai confusa. Entra nel palco, e vo' che giudichiate se rimanesse con la testa busa; Marfisa e Ipalca son senza bauta, e tutta è sbottonata la svenuta.
128
Ferraú carta alla lumiera accende ed alla dama suffumigia il naso; l'entrata di Rugger nessun comprende, perché son tutti stolidi del caso. Rugger conosce ognun, ma nulla intende, e duro duro nel palco è rimaso; rinvien Marfisa, e tutti tre in un punto iscopron Rugger, ch'era qui giunto.
129
Ferraú con un «oh!» d'ammirazione volle abbracciar l'amico e a mezzo resta; Marfisa con un «ah!» di soggezione rimase con la faccia bassa e mesta; Ipalca con un «uh!» di confusione si cacciò la bauta sulla testa; Ruggero con un «eh» si morse un guanto, ed io coll'ipsilon termino il canto.
Ritrova Orlando in luogo stran Morgante. More il guascon per la filosofia. Si dá un dettaglio general galante di Carlo e Francia e della baronia. Move la guerra Marsilio arrogante. La bizzarra ha una fiera pulmonia: guarisce mal, ché tisicuzza resta; da pinzochera alfin caccia una vesta.
1
Della mia penna d'oca, alme annoiate, questo è l'ultimo corso e del mio inchiostro. È Marfisa al suo fin, non dubitate; non mi chiudete il caro udito vostro. So che in picciol drappello siete state, che lo stil mio non è pel secol nostro, ma un rancidume italian che offese, non essendo condito col francese.
2
Soccorri, o Febo, i sezzi versi miei. O Febo, o Febo, non sei giá piú il sole. Ciechi siam tutti, e ben esser vorrei scrittor, piú che di cose, di parole. Né tu se' un dio, né gli altri dèi son dèi; sono squagliate omai le antiche fole; ma perch'io tengo ancor di muffa un poco, scandalezzando ognun, te, Febo, invoco.
3
Difendi almen la povera mia pelle dall'ugne di seimila e piú Marfise, che son rimaste vecchiette e donzelle, perché non han le bizzarrie recise. Tutte vorran di brigata esser quelle in quella che Turpino un tempo mise; e non varran proteste o apologie con queste imbestialite anime mie.
4
Da' Nami avari, dagli Astolfi vani, da' Terigi grossier, dagli Olivieri, da' Rinaldi ebbri, da' divoti Gani, Avini, Avoli, Ottoni, Berlinghieri, e Guottibuossi e Gualtier cappellani, e tante dame e tanti cavalieri che a quelli di Turpino han somiglianza, mi salva: io non ho colpa né arroganza.
5
Solo i Marchi e i Mattei da San Michele hanno alcune cagion d'irritamento, ché fûro un dí molesti alle mie vele, ma dicono:—Mea culpa e me ne pento.— Spegner non posso piú le lor candele, che stan come memoria e monumento; ma giuro a Dio che, se al mio sen verranno, cordiali baci ed amicizia avranno.
6
Al secolo torniam di Carlo Mano, alle dolenti note di Turpino, a Filinoro fatto ciarlatano, alla bizzarra ed al fratel meschino, a Dodon sciolto, al danese cristiano, ad Orlando, ad ogni altro paladino, perocché incominciando s'ha intenzione di dare all'opra alfin conclusione.
7
Il vecchio Uggero in traccia di Marfisa non andò molto lunge dalle mura. Cavalcò poche miglia alla ricisa, con gran molestia d'una sua rottura, dicendo:—Io sono il soccorso di Pisa; il zelo v'è, ma stanca è la natura.— Chiese notizie a parecchi villani, la fece dire in chiesa a tre piovani.
8
Ma finalmente, stanco e appassionato d'aver abbandonata Galerana, che aveva innanzi agli occhi in ogni lato per lui dolente e vecchia e poco sana, la rottura e l'amor l'han consigliato: è la speranza per Marfisa vana; sicché tornò a Parigi di portante, lasso come venisse da Levante.
9
Giunto a Parigi, Galerana attenta volle gli fosser poste le coppette, sei sopra i lombi, e grida:—Ch'ei le senta,— ed una in sulla nuca, che fûr sette; né mai fu lieta né mai fu contenta se anche un servizial non se gli mette, dicendo:—So ben io che un serviziale a un riscaldato è la man celestiale.—
10
Dodone aveva scorsa l'Inghilterra, invano di Marfisa ricercando. Qui d'un suo portafogli, che disserra, ben mille commession venne cavando, ché al partir di Parigi un serra serra aveva avuto di «vi raccomando», sentendo ch'ei di Londra va a' confini, da cavalieri e dame e paladini.
11
Spiegando i bullettin, che avea riposti per la gran fretta senza fare esame, legge che astucci e oriuoli avean posti, catene, tabacchiere e vasellame, mille lavor fantastici e supposti, e tutto d'oro e niente di rame; indi guaine o vuoi stivali o guanti per certe dita de' moderni amanti.
12
Certe manteche stimolanti ed atte a risvegliar la snervata lussuria; certi spiriti ed acque ad arte fatte, che metton nelle reni della furia; e cento libri osceni e cose stratte contro contro al ciel, contro la romana curia, e insegnamenti a creder solamente nel vin, ne' cibi e al coito allegramente.
13
Il bello era a veder ne' bullettini, massime in que' che i libri ricercavano, le scritte commession da' paladini, di spropositi piene, che fummavano. Parean note dell'arte de' facchini a tal che appena si raccapezzavano; pur volean libri usciti sul Tamigi, per fare i letterati per Parigi.
14
Fu per scoppiar di rabbia Dodon santo; ma finalmente si metteva a ridere, gridando:—O paladini, o secol, quanto cercate il mal dal ben scêrre e dividere! Beata etá, se tanto mi dá tanto, chi retto può dell'avvenir decidere? Felici tutti i secol che verranno dietro la traccia di costor che sanno.—
15
Arsi ha i viglietti delle ordinazioni
Dodone e verso Francia via galoppa,
dicendo:—O vili, o porci, o mascalzoni!
Rotta ogni chiave omai, rotta ogni toppa.
Astucci d'oro, e d'òr repetizioni!
Color mi pagherieno alfin di stoppa.
Guaine, unguenti, libri da puttane!
M'hanno posto nel ruol delle ruffiane.—
16
Cosí ridendo ed ora bestemmiando, sprona il destriere e spaccia la campagna. Ora troviamo un poco il conte Orlando, che cerca invan Marfisa in Alemagna. In una piazza a Vienna capitando, gente vide che s'urta e si scalcagna, che usciva fuor d'un grand'uscio ed entrava al quale un carantano si pagava.
17
Sopra quell'uscio grande una gran tela era appiccata, e un uom dipinto in questa: parea formato il quadro d'una vela, tanto è l'uom di statura disonesta. Fuori è un che trangoscia e si querela con voce roca, e sopra al quadro pesta con una verga, e grida, e ognun consiglia ad appagarsi della maraviglia.
18
Orlando guarda la trista pittura del gigante ivi esposto, e crede certo che ignota non gli sia quella figura; pure il ritratto non conosce aperto. La curiositá della natura lo spinge all'uscio; il carantano ha offerto; entra ed iscopre con stupor davante spettacol del casotto il gran Morgante.
19
Il Pulci in modo arcano lasciò scritto che pel morso d'un granchio egli era morto; ma per allegoria s'intenda il vitto d'un casotto, e il suo fine un tristo porto. Orlando fuor di sé, dal duol trafitto, gridò:—Fortuna, è troppo grave il torto! Com'hai ridotto in sí misero stato un che con le mie mani ho battezzato?
20
Caro figlioccio mio, gigante degno, chi ti condusse a tanta estremitade? tu che meco domasti piú d'un regno, spargendo il sangue per cristianitade?— Morgante a questa voce, ad ogni segno, conobbe Orlando suo, pien di bontade, e si coperse con le mani il viso, a un pianto abbandonandosi improvviso.
21
Il conte l'abbracciò teneramente, e in una stanza trasse il suo gigante, dov'è un gran pagliariccio puzzolente, su cui dormiva il povero Morgante. Quivi cresce di lagrime il torrente: fu per morir d'angoscia il sir d'Anglante, e chiede al catecumeno suo monte: —Chi t'ha uguagliato ad un rinoceronte?—
22
Rispose quel:—Poiché mi battezzasti, e ch'ebbi per Gesú tante ferite, e tanti turchi col battaglio ho guasti, vinte cittá, rotte schiere infinite; giudicai d'aver fatto quanto basti a meritarmi il pan per mille vite; ma Carlo in pace, grasso e rimbambito, ebbe nel dua chi l'aveva servito.
23
Tu sai del memorial ch'ho presentato: ch'ei mi facesse almeno alfier si chiese; ed egli alfier mi fece riformato con que' meschin cinque ducati il mese. Giá conosci il mio ventre dilatato e s'eran sufficienti per le spese: ebbi tant'ira, caro paladino, ch'io fui per farmi ancora saracino.
24
Molte donne cristiane parigine, innamorate della mia grandezza, m'avrien soccorso con un certo fine; ma non vo' dirti la lor sfrenatezza. Oh quai costumi! oh che buone farine! perché la chiesa vostra ancor battezza? Irato, stomacato, sbalordito, ospite insalutato son fuggito.
25
Non volli abbandonar la nuova fede, perché l'ho ancora in buona opinione. Tu dicesti:—Esser cieco de' chi crede, de' sperar, abbia o non abbia ragione.— Sperando, sono andato sempre a piede; servii, sperando, di guardaportone; ma, perch'io mangio assai, mi diêro il bando: partii cieco credendo e ognor sperando.
26
Pelle ed ossa, una mummia era ridotto, sembrava la figura d'un sudario. Videmi un cavaliere, industre e dotto de' teatri e dell'opere impressario; mi disse che, s'entrassi in un casotto per lui, meco saria Cesare e Dario. Risposi sí, ché vedeva la fame e da tre dí vivea di fieno e strame.
27
Mi fece por sopra un gran carro chiuso questo caritatevol ortodosso, perché nessuno mi vedesse il muso, per non aver pregiudizio d'un grosso. Di cittade in cittá di me fece uso; tu vedi il modo, ch'io tacer ti posso, e servo per le spese come il miccio, la notte dormo in su quel pagliericcio.—
28
Morgante qui le lagrime rinnova, che ognuna avrebbe empiuta una scodella; i suoi merti rammenta e il duol che prova per la prostituzione e si martella; qualch'eresia gigantesca ritrova, ché la disperazion lo discervella e dice della fede e la speranza cose contro gli arcani e la costanza.
29
Orlando molto lo rimproverava, col viso brusco, sussiegato e fiero, dicendo:—Anche nell'onde s'affogava, perché mancò di fede, un dí san Piero. Colle tribolazion Dio ti provava, per veder s'eri buon cristian da vero.— Disse il gigante lagrimoso e chiotto: —È ver, ma risparmiar potea il casotto.
30
—No—grida il conte,—vessazion piú fiera dell'esporti al casotto potea darti; la berlina, la frusta e la galera potean giugnere ancora a tribolarti. Vedi che inaspettato questa sera a Vienna m'ha spedito a sollevarti.— Grato Morgante allora è al ciel rivolto, ché frusta né galea non l'abbia còlto.
31
Coll'impressario il roman senatore ebbe molte parole e molta pena per liberar Morgante, ché il signore ha una scritta peggior d'una catena. Il conte è pien dell'antico furore; colui non par che lo badasse appena, e disse:—Piú non s'usano i bestiali; cantan le carte e sonvi i tribunali.—
32
Dal suo procurator corre volando. Ecco un messo togato viene ansante, che intima una gran pena al conte Orlando e nel casotto sequestra il gigante; poi cita il senator, per non so quando, a non so quale tribunal davante. Quest'ordin, questo messo, queste carte fecero smemorare il nostro Marte.
33
E cominciava gli occhi a stralunare, dicendo:—O Dio del ciel, che cosa è questa! può la giustizia un furbo spalleggiare? qual è la triste azion, qual è l'onesta?— E volea lo staggito via menare. Morgante ride e crollava la testa, dicendo:—Ecco per me, caro campione, della galera la tribolazione.—
34
Molti tedeschi Orlando han consigliato a non commetter criminal per certo, perocché avrebbe in tutto rovinato nel vero punto la question del merto. —Voi avete avversario un avvocato —dicean—ch'è ben inteso e molto esperto, e saprá côr vantaggio in sui trapassi: bisogna misurar l'ordine e i passi.—
35
—Qual ordine? quai passi?—il conte grida quanto spender dovrò? quanto piatire?— Diceano quei:—Se avrete buona guida, basteran tre o quattr'anni a diffinire. Chi volete del spender che decida? non si misuran ne' litigi lire.— Morgante ride e dice:—Conte mio, tribolazioni che ti manda Dio!—
36
Non poté Orlando trattener le risa, pensando al vecchio ed al nuovo costume. —Questa spada tal causa avria decisa a' giorni miei—dicea—senz'arte o acume. Mille pupille e vedove in tal guisa da tirannia levai, da mendicume. A non poter trar fuori, or son ridotto un da me battezzato, d'un casotto.
37
Giudici miei, non siate addormentati; delle leggi si fanno iniqui abusi da una caterva d'uomin scellerati: deh! non sedete sonnolenti e ottusi. Certi procurator, certi avvocati fan mille oppression, mille soprusi, temerari affidando alcuna volta in chi dorme sedendo o male ascolta.
38
O siate vigilanti ad impedire i lacci occulti, i forensi veleni, o lasciate l'un l'altro ogni uom ferire per le proprie ragioni e i propri beni. Questo è un voler far tisici morire mezzi i soggetti vostri d'amor pieni, ed un voler che chi non ha danari sia pasto de' piú furbi e de' piú avari.
39
Dov'è quel mascalzon dell'impressario? Non vo' consigli o fòro o citazione, né star tre anni in mano col lunario a legger ferie e dí di riduzione. Non so di merto o d'ordine o divario, non voglio prima istanza o appellazione: piú non conosco la ragion qual sia; voglio pagar la sua bricconeria.—
40
Or qui in maneggio quella lite andava tra il conte Orlando e l'avverso avvocato, il qual di cerimonie il caricava, vantandosi sincero ed onorato. Il conte d'un sudor freddo sudava e chiude gli occhi e chiede esser spacciato. Dunque per il real lucro cessante cento zecchin fûr chiesti pel gigante.
41
Orlando gli pagò subitamente, piú del solito guercio ma scherzevole, dicendo:—Ella è un signor conveniente: la richiesta è discreta e ragionevole. La prego a riverirmi il suo cliente, al qual parto obbligato ed amorevole. Il cielo a lei mandi sempre lavoro e quanto le desidero nel fòro.—
42
Il sir d'Anglante gli volse le schiene, chiama il gigante e mettonsi in viaggio verso Parigi.—Meco al male e al bene starai—diceva Orlando,—ma sie saggio.— Morgante rispondeva:—Io non so bene se i saggi o i matti trovin piú vantaggio; vedo nel mondo certe stramberie, che saran chiare al novissimo die.—
43
Rispose Orlando:—Questo avvien, mi credi, perché gli uomin si scostan dal Vangelo. Contan le man, la bocca, il ventre, i piedi, e dicono:—Un sipario azzurro è il cielo, e togli quel che puoi e quel che vedi; e se vuoi pace, altrui tien l'arma al pelo, e stupra e strippa e procura dovizia, ché dorme e si delude la giustizia.—
44
Tosto che fu trattato l'eroismo da certi libriccini geniali col titol di pazzia, di fanatismo ne' martiri, ne' forti e ne' leali, fu una conseguenza l'ateismo e il far la societade d'animali, ma d'animai tanto peggior de' bruti, quanto di questi gli uomin son piú acuti.
45
Non sarien tanti astuti tra le genti, se tra le genti non vi fosser sciocchi, fra quai si denno porre anche i prudenti, che offesi son dai furbi e chiudon gli occhi; poiché son oggi gli astuti insistenti, e la prudenza abborrisce gli stocchi, donde i prudenti sopraffatti e oppressi nel numer degl'ignocchi vengon messi.
46
Se la massima «Fa' quel che tu possa» prevale alla «Non far quel che non devi», il povero di spirto è nella fossa e non trova nessun che lo sollevi; ché se alcun'alma a sollevarti è mossa, benefizio non è quel che ricevi. Nel tuo impressario fa' che tu discerna un'alma generosa alla moderna.
47
Tu vedi in che consiste oggi la gloria, che un dí coll'eroismo s'acquistava. Fosse pur fanatismo: alla memoria ho che in util del popolo tornava. Or un tuppé, un vestito è una vittoria a' nostri stolti paladin di fava; e l'oriuol co' dondoli e la dama e un bel convito lor dá pregio e fama.
48
Certa ignoranza, certa nebbia folta, cert'ozio, certa voluttá brutale occupa tutti, fa ogni mente stolta; e una certa ingordigia universale, che han tutti a voler tutto in una volta, per satollarsi, vada bene o male. Debito, amor, inganno e mal francese fa pien di disperati ogni paese.
49
Rilieva il segno de' gran disperati dalle campagne, d'assassin covili, da que' tanti da lor stessi impiccati, da que' che balzan giú da' campanili. Forse i Scevole e i Curzi son tornati? Cerca i moventi e saran lordi e vili, ché il troncar la credenza sopra il tetto ha sempre cagionato un tristo effetto.
50
Tant'è, Morgante; stiam costanti e fissi, trapassiam della vita l'ultim'ore; e morendo co' nostri crocifissi, speriam trovar di lá vita migliore. Io dirò sempre:—Ciò che scrissi, scrissi.—E qui piangeva il roman senatore. Anche il gigante gli occhi imbambolava, seguendolo alla staffa, e singhiozzava.
51
Lasciamgli andar verso Parigi. Il testo ritorna a Filinoro saltimbanco, che, fuggendo il palchetto sí molesto, trova la moglie, travagliato e stanco, e fece fare i suoi fardelli presto, ché pargli aver qualche sicario al fianco; poi, caricata una sua gran carrozza, quella notte partí di Saragozza.
52
Di cittade in cittá, di fiera in fiera espose gli stagnoni e i bossoletti, ma il suo commercio scarseggia in maniera da non poter comperar sei panetti. Anche all'uccellagion della mogliera venien pochi tordi e magheretti, perocché i capitali erano mezzi e v'è stagione in cui son schifi i vezzi.
53
L'arte del ciurmadore Filinoro lascia in una cittá che nol conosce, e torna cavalier posto in decoro per cercar via di riparar le angosce. Si mette al petto un bell'ordine d'oro e cammina diritto in su le cosce; nelle ricreazion si producea; le dame d'esso gelose facea.
54
D'una tra l'altre, vedova opulente, a Filinor molto garbava il core, e giá le avea rubata sí la mente, ch'ella sposato l'avria per amore. Ma v'era il nodo fatto anteriormente, ostacolo importuno a côrre il fiore. Filinor, dotto nei nuovi sistemi, né ammaina vele né ritira i remi.
55
Studiato avea quella bella lezione, che il mal occulto mal non era certo, e che sol era mal d'opinione quando venía nel pubblico scoperto; donde una sua scientifica intenzione va mulinando, d'uom di vero merto: Turpin la scrisse e d'aver pianto accenna; ed a me nelle man triema la penna.
56
Trovo memorie di certo veleno, di certi ordin secreti scellerati, che ammorzan quasi il plettro nel mio seno; pur i miei fogli esser denno imbrattati di relazion da fare il gozzo pieno a' mascalzoni affamati e assetati, che con lor voci chiocce van gridando, seguita la sentenza o dato il bando.
57
E deggio dir che vedovo è rimasto il guascon della sposa cantatrice; ma che il dotto pensiere gli fu guasto che non sia male il mal dalla radice; perché l'idea d'occultazione è un pasto nell'empio malfattor molto infelice. Le azioni proibite han troppe cose che restar non le lasciano nascose.
58
Nota che senza violenti brame l'uom non si mette della vita a rischio. Avarizia, vendetta, amore o fame lo sbalordisce e fa calare al fischio; e chi è fuor di sé, tutte le trame non sa evitar né vede tutto il vischio; cieco trasporto è guida e cieche desta d'occultazion lusinghe in cieca testa.
59
Il non aver al fatto testimoni, il colorir col pianto un gran dolore, il far di mali scorsi narrazioni, di predizion d'alcun bravo dottore, ed un torrente d'acute invenzioni non giovano al guascon buon dicitore, che sostien solo superfizialmente quel «Non v'è mal, se occulto è fra la gente».
60
Un frate vi direbbe che il peccato accieca l'empio per voler di Dio. A questa opinione, umiliato e pieno di credenza, assento anch'io; ma posso dir senz'esser condannato, fuor dai mirabil anche, il parer mio: l'empio, sciente d'esser in periglio, ha dipinto l'interno sopra al ciglio.
61
Nelle dimostrazion giusta misura prender non può, sicch'egli affetta alfine, perch'altera il cervello la paura, e passa il vero natural confine. L'iniquo Filinor tutto proccura, ma troppe son le smanie e le moine, troppi i discorsi, le proteste, i pianti per chi lo conosceva per lo avanti.
62
Aggiungi che la povera ammalata aveva detto al medico all'orecchio: —Temo d'esser, dottore, avvelenata; il mio marito è un vil traditor vecchio.— L'Ippocrate l'avea molto osservata ne' sintomi e nel vano suo apparecchio, e finalmente in se stesso è d'avviso che un velen l'abbia spinta in paradiso.
63
Consegna a' tribunali i suoi sospetti e della morta i secreti timori. Sparasi occultamente; ecco gli effetti d'un funesto velen negl'interiori. Non dimandar se adopran gl'intelletti i cancellier, magnifici signori. La fame è un dio cerusico oculista per aguzzare a' cancellier la vista.
64
Secreti esami, tracce, costituti vanno guastando la filosofia; a parecchi stranier, che son venuti, del guascon nota è la fisonomia; sui popolar bisbigli non son muti; va razzolando la cancelleria, trova che fu bandito, ciarlatano, abate, baro e marito e ruffiano.
65
Vedi quante gran cose inaspettate e non previste, o forse non temute, al filosofo nostro son pur nate, le sue cautele a far zoppe e scrignute! Le fogne invan si tengono turate: dove stanno si sa che intorno pute. Chi le malizie de' scrittor comprende, da' lusinghier sofismi si difende.
66
Gli amori colla ricca vedovetta, le brame del guascone ed i pensieri, tutto si scrive e va per istaffetta. Piangean per l'allegrezza i cancellieri. L'industre criminale formichetta pel fil della sinopia ha i lumi interi, ed al sistema che il mal non sia male, fu spennacchiato il culo e rotte l'ale.
67
Non bisogna sprezzar l'esperienza de' secoli trascorsi ed il sapere, e credi che l'antica sapienza mestier non ha di moderno brachiere. Togli per infallibile sentenza la favola di Mida e del barbiere, che al bucolin degli orecchioni grida, donde nacquer le canne dalle strida.
68
Filinor ode il sordo mormorio: per le botteghe faceva il leprone, gli occhi ha incantati e pavidi, e pur brio tenta mostrar, ché ha in cor la sua lezione. Timor di morte alfin piú che di Dio, scorgendo bieco il guardan le persone, lo fece diffidar del suo sistema: volle fuggir per sua miseria estrema.
69
Fermato vien dalla sbirraglia: allora la fuga alla condanna fu sigillo. Lo scellerato, d'ogni speme fuora, in modo s'avvilí ch'io non so dillo. Giá data è la sentenza ch'egli mora, con quel timo condita e quel serpillo, ch'essendo uscito di nobil casato, fosse per somma grazia dicollato.
70
Cosí la filosofica alta idea, che resiste a' martelli e alle tenaglie, men valse della opinion plebea ridicola, che parlin le muraglie; e Filinor, che il ciel sprezzar solea, or fra due cappuccini e le gramaglie, pallido, sbigottito e tutto fede, avemarie dimanda a chi lo vede.
71
«Oh maledetti ingegni traditori —è di Turpin l'invettiva zelante,— filosofi del mal coltivatori, maestri a far la societá forfante, de' patiboli infami protettori, certo voi siete a parte del contante del carnefice, a voi sozio e compagno; e ben vi si conviene un tal guadagno».
72
Segua il guascon gli oscuri suoi destini: fuggiam, lettor, dalla malinconia. Vada dove lo inviano i cappuccini o dove il suo carnefice l'invia: torniamo a' nostri snelli parigini, perocch'è giunta la bizzarra mia. Rugger di notte in Parigi entrar volle, come prudente, per fuggir le folle.
73
Bradamante, ch'è a letto, fuori balza; si mette una vestaglia e va a incontrallo, corre giú per la scala cosí scalza; le poppe vizze ha fuor, che fanno un ballo. Strilla da lunge con la voce, ch'alza: —La borsa, la mia borsa senza fallo.— Rugger per rabbia, stracchezza e vergogna fece un trapasso e le disse:—Carogna!
74
andatevi a ripor tra le lenzuola; di vostre borse non è il tempo questo.— Bradamante, politica e spagnuola, fe' la mortificata e pianse presto, mostrando un gran dolor della parola; sforza se stessa e con visino mesto cambia i discorsi e bacia suo marito, tanto che vinse e lo vide pentito.
75
Ma bisognava pensare a Marfisa, che per la stizza e pe' casi accaduti era oppressa e ammalata d'una guisa che non sa dove sia né di saluti. Mette paura a chi la guarda fisa, ha tutti i segni di morte compiuti. Fu tratta dal calesse e posta a letto: si fe' palese un mal grave di petto.
76
I medici alla cura sono molti e la dánno sfidata della vita; alcuni però d'essi stan raccolti con speranza in arcano ermafrodita, perché in error non voglion esser còlti, sia o non sia per la dama finita. S'ella morrá, l'avran pronosticato; e se vivrá, l'avranno indovinato.
77
Le dame di Parigi e i cavalieri dicean:—Beato Rugger s'ella muore!— Pur si spediscon lacchè giornalieri di Ruggero a palagio a gran furore, a chieder dello stato; e i dispiaceri sono infiniti e infinito è il dolore, perché serbar doveasi in apparenza l'urban costume della convenienza.
78
L'oppression del male all'infelice lieva la consueta bizzarria, e rantacosa chiama protettrice particolar la Vergine Maria. Fa tutto ciò che il parroco le dice, riceve umil la santa Eucaristia; indi va peggiorando tanto e tanto, che alfin se le minaccia l'olio santo.
79
Ermellina, la moglie del danese, ch'era sua amica e buona dama assai, è veramente afflitta pel paese: fa divozioni e non dispera mai. Un giorno un certo prete esservi intese, che facea malattie sparire e guai, benedicendo per tutto Parigi con le scarpe che fûr di san Dionigi.
80
Volle introdotto il buon prete all'amica, e grida fede, e piange e mai rifina; fa con le scarpe che la benedica, e poi la lascia cheta e via cammina. Ciò che scrive Turpin, convien ch'io dica: l'inferma quella notte molto orina. Grida Ipalca per casa, che par matta: —Oh scarpe del mio Dio! la crisi è fatta.—
81
Bradamante mostrava esser allegra di fuor, ma dentro non so come stesse. Va migliorando molto la nostr'egra. Non è da dir s'Ermellina godesse: a tutti vuol narrar la storia intégra. Dio guardi qualchedun contraddicesse delle scarpe il miracolo: la dama chiude le orecchie ed ateo lo chiama.
82
I medici dicean:—Nostre ricette non lascian ir Marfisa in sepoltura.— Fra paladini alcun non si rimette e vuol la crisi effetto di natura. Ermellina, la chiesa e le donnette sostengono le scarpe a quella cura; basta, natura, scarpa o medic'arte, Marfisa piú verso il cielo non parte.
83
Vero è ch'ella rimase estenuata con una lunga febbre lenta lenta, e certa tossa asciutta ed ostinata, sicché del stato suo non è contenta. Lieva dal letto, l'aere ha cambiata: di risvegliar la bizzarria ritenta; gli uomini ancor non le increscevan molto; s'aiuta col belletto e i nèi sul volto.
84
Immagina, lettor, questa signora, giá per etá presso ai quaranta giunta, con un fil di febbretta che lavora, con la tossa, residuo d'una punta, con la passata vita che la onora, pallida, pelle ed ossa, arsa e consunta che con nèi, con belletto e bizzarria cerca d'aver amanti tuttavia.
85
Esplicabil non son le sue fatiche e la dottrina ch'usa nello specchio, il gran lavoro intorno a due vesciche, per far che sien pur enti in apparecchio; del spruzzarsi di odor, delle rubriche, de' fiori al seno e a' fianchi del capecchio, delle scamoffie e del sbilerciar gli occhi: ma a' suoi boccon non s'attaccan ranocchi.
86
Saltato avrebbe ogni fossa, ogni sbarra per appiccare il filo con Terigi, quantunque ei fosse, come Turpin narra, fallito, al verde e l'odio di Parigi, Prima nel fòro ha perduta la sciarra co' suoi parenti da' gabbani grigi, poscia è diserto dal suo cappellano e da' contrabbandier di Montalbano.
87
Lasciam per poco la bizzarra in pena d'esser come un cadavere abborrita. Giunto è Dodone, Orlando, ognuno è in scena; segno che la commedia è omai finita. Rinvigorisca alquanto la mia vena a riassumer netta ogni partita, onde alcun non apponga al buon Turpino né a me di negligenza un bruscolino.
88
Padre del ciel, la mia barchetta triema, piú che nell'alto mare, al vicin porto. Carlo è giá vecchio e presso all'ora estrema, e deggio dir, pria che sia in tutto morto, a che ridotto fosse e in qual sistema lo Stato nell'inerzia e l'ozio assorto, e del popolo il vero e del monarca: Dio mio, ti raccomando la mia barca.
89
L'anno ottocentoventi a mano a mano correva dell'arcana incarnazione del divin Verbo, nostro pellicano, al qual son tanto ingrate le persone. Si leggea nel lunario da Bassano sull'anno in generale un gran sermone, minacciarne vendetta e storpio e guerra: nessun gli dava retta per la terra.
90
Credeva Carlo rimbambito e grasso d'esser imperator d'un vasto impero, per aver una veste da Caifasso, la corona gemmata oltre al pensiero, e per veder, allor che andava a spasso, chinar le genti per ogni sentiero, e per sentir, se dal palagio uscia, timpani, corni, trombe e sinfonia.
91
Mille e piú gabellier con mille trame, mostrandogli che il nero era turchino, e computi furbeschi e falso esame, esibendo un tributo piccolino, gli avevano usurpato il suo reame. Alle borse galluzza il bambolino: crede imperar nel regno, e l'ha venduto a mille re per un meschin tributo.
92
Non dimandar se i mille re birboni, per pagar il tributo lievemente, e dare a certi mezzi certi doni, perché ridotto han Carlo alla lor mente, sanno accrescer gabelle ed estorsioni, e dilatar lo stato iniquamente del lor palliato regno e farsi ricchi, e far ch'ogni contrario lor s'impicchi.
93
Il quondam Gano empiuto avea i suoi scrigni nel stabilir cotesti re genia, ed agl'incolleriti, a' visi arcigni era stato flagello, epidemia. Ricordi a Carlo avea dati maligni col Credo in bocca e coll'Avemaria, massime che si den tenere oppressi i sudditi inquieti per se stessi,
94
e che si denno piluccare e mugnere, ché l'uom senza danari è mansueto. Tal massima è ben saggia nel suo giugnere, usata in modo oculato e discreto; ma la sua ruota non si vuol sempre ugnere con gli occhi chiusi a questo bel secreto, perocch'ella fa poi troppo viaggio, e torna pazzo chi prima era saggio.
95
Si de' tener sempre il saggiuolo in mano in sulle circostanze e conseguenze. Sospendi le pozion quando è l'uom sano, o sotterra anderá per le scorrenze. Infin dall'avol del re Carlo Mano fûr poste in uso le prime avvertenze, Pipino il padre l'avea seguitate, ma Carlo a briglia sciolta l'ha cacciate.
96
Ed aspettando le borse in poltrona dai mille re del suo impero tiranni, fa elogi al cuoco se la zuppa è buona, non prevedendo i suoi futuri affanni. Frattanto a doppio in sul regno si suona, traggonsi i cuoi poiché son tratti i panni, e Carlo Magno è imperatore esoso d'un popolo avvilito e pidocchioso.
97
La gola, il lusso, la poltroneria gli aggravi ogni anno accresciuti in contanti, il non pagar per truffa o carestia, facea fallire ogni giorno mercanti; sicché il commercio era una sodomia, un capital in ciarle di birbanti, ed accigliato ognun rammemorava l'antico ben, la fede, e sospirava.
98
Molti gridavan con gli agricoltori: —Piantate, lavorate, seminate.— Rispondeano i villan:—Cari signori, abbiam le carni in sui terren lasciate. Dio vede i nostri affanni ed i sudori; son le vostre campagne migliorate: ma abbiam aggravi molti e pochi aiuti, e i buoi per i gran debiti venduti.
99
Era un dí il nostro pane di frumento, ed or che ne facciam piú d'una volta, l'abbiamo nero di saggina a stento, ché il diavol se ne porta la ricolta. Non abbiam piú né forza né talento, ogni nostra speranza è omai sepolta; guardate pelli secche e abbrustolite, e giudicate poi di nostre vite.
100
È ver che andiam talora alla taverna, perocché il vin sopisce col vapore quella disperazion che abbiamo interna del stato nostro, stato di dolore; ché la miseria spegne ogni lucerna e degenera in vizio traditore.— Cosí diceano i villan disperati, ché anch'essi eran filosofi svegliati.
101
Il requiescat conte di Maganza vide i sudditi oppressi per le vie, e aveva detto:—Un util d'importanza puossi anche trar dalle malinconie, ché molta forza ha nell'uom la speranza,— e a Carlo fece aprir le lottarie; ché certo egli era un uom da gabinetto ed un filosofaccio maledetto.
102
Or, s'era Carlo re de' pidocchiosi, con questa maganzese malizietta lo fu di scalzi, rognosi, tignosi, di mummie, d'una gente affatto inetta; perocché i bisognosi ed i viziosi venduti aveano insino alla berretta, a quel cento per un, che dalle chiese passato è alla lusinga maganzese.
103
Dico cosí, perché le chiese allora eran quasi del tutto abbandonate. Di prediche facevano una gora, ché non eran temute né ascoltate. Erano giunte alla sezza malora le faccende del prete o vuoi del frate; gente ridotta quasi a un sorpassare, per non perdere il ius del confessare.
104
Sappiasi che con lunghe insidie ed arti, gl'indefessi ecclesiastici mascagni, colle idee delle immense eterne parti, sui prischi ricchi, troppo buon compagni, avevan fatto cosí bene i sarti, e tanti e tanti sacri e pii guadagni, che piú di mezzi i beni temporali erano permutati in celestiali.
105
Alcuni maganzesi consiglieri, che credean nella salsa e nel cappone, avevan consigliato l'imperieri a dare il sacco alla religione. Non eran falsi in tutto i lor pareri, ma perigliosi nella esecuzione, ché un popolo commosso in tal materia è da temersi, ed una bestia seria.
106
Tenner quei di Maganza un gran consiglio, e stabilîr che fogli pubblicati de' popoli mettesser sotto al ciglio le magagne de' cherici e de' frati, e dipignesser l'antico naviglio in confronto alle navi de' prelati, e usurpi e vizi e gran taccagnerie de' direttori delle sacristie.
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Quest'argomento, fontana perenne, anzi pur fiume, anzi pur vasto mare, e questa libertá data alle penne aveva fatto un bel dilucidare. L'Introibo, il _Deo gratias___ e l'amenne e le indulgenze e gl'inni sull'altare erano fole, spaventacchi e abusi per empier sacre pance ed ugner musi.
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Molti preton, molti fratoni accorti sosteneano i partiti secolari, come color che tengon da' piú forti per l'amor delle zuppe e de' danari. Non lasciavan però di vista i morti, per beccar anche l'obol degli altari: cosí sendo or filosofi ed or santi, erano onesti e facili e forfanti.
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Ebbero il loro intento i maganzesi: fûr presto gli ecclesiastici abborriti, ma in conseguenza anche i plebei francesi furon zibibbi e datteri canditi. Erano di ladron boschi i paesi, si avean per sogni gli eterni conviti; e per menar di qua la vita amena, scannavasi un fratel per una cena.
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I filosofi tristi il lor partito traean dall'adottar la passione, e dal provar ch'ogni umano prurito doveva aver la sua soddisfazione. Ridean del stabilito e proibito dai re, dai papi e da religione, e insin commiseravan gli assassini come oppressi e infelici pellegrini.
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Dicean che al mondo tutti aprivan gli occhi per caritá, per zelo e per bontade. Creder possiam che i sudditi pitocchi di Carlo non facean difficoltade: furon tutti filosofi agli scrocchi, agli adultèri, all'assaltar le strade, e franchi a' piú funesti oscuri casi, delle nuove dottrine persuasi.
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Sicché tra il fren spiritual giá rotto, ed il poter dei re dipinto brutto, non v'era pei cervelli piú cerotto: l'umanitá credea poter far tutto. Altro non si vedea che un cacciar sotto ed una sbrigliatezza di mal frutto: era un sciocco l'uom giusto, il savio matto; non era ben parlar, ma lo star quatto.
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Pur nondimeno il secolo era quello detto universalmente «illuminato»; ma il male antico era anche mal novello, ed accresciuto ad esser smisurato. Era il bene evangelico ancor bello, ma soppresso, deriso e conculcato; ché i dotti, i quai dánno ragione al vizio, hanno assai concorrenti al loro uffizio.
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Non eran di Parigi i bei talenti dall'util filosofica scrittura, perché a Parigi in quel tempo studenti non si premiava né letteratura. In Francia esser potean quindici o venti, che viveano a giornata d'impostura, stampando fogli settimanalmente, rubati da altri libri malamente.
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Aveano in questi i poltron paladini storia, commerzio e gran filosofia, tutto per dieci o quindici carlini, semi, piante, scoperte, geografia, manifatture, macchine, mulini, novelle, agricoltura, chirurgia, mediche controversie e pro e contrario, e carta da fregarsi il taffanario.
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Marco e Matteo non eran piú scrittori, ché di seccar le coglie erano rei. Scrive Turpin che i loro successori eran peggior de' Marchi e de' Mattei, audaci, sciupator, sussurratori, anticristi, messia, cure, cristei, senza eloquenza, senza raziocinio, guasto d'ogni intelletto ed esterminio.
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Se v'era qualche buon cervello a caso che pubblicasse una colta scrittura, i dotti bagascioni, senza naso, ne' dizionari, pinzi di pastura, la dicean pisciarel da nessun caso, picciola idea, fanciullesca fattura; e crocidando e senza produr nulla, i buoni indegni sommergeano in culla.
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Un'altra setta d'uomini arroganti, per comparir comete di dottrina e geni di quel secolo giganti di testa originale arcidivina, si posono a vagliar che per lo avanti i dotti erano cosa assai meschina, che i lor sistemi, i libri, i precettori erano nebbie, pregiudizi, errori.
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Incominciando dalle auguste carte, dalle legislazioni stabilite, da' padri santi, e va' di parte in parte, tutte fûr opre false e scimunite. Senza sublimitá, fredde, senz'arte furon le poesie prima gradite; e gli orator defunti ed i politici e i filosofi ciechi, inetti e stitici.
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Gridâr che i giovinetti assassinati erano nelle loro educazioni da pedantacci sciocchi addormentati sulle pagine antiche e sui marroni. Alla moral de' preti o vuoi de' frati, e alla moral de' dotti, retti e buoni, dissero spaventacchi, inezie e un nulla, indegno d'una balia ad una culla.
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Che riedificare si dovea de' nuovi piani di letteratura; che a ciò che si dicea, che si scrivea mancava il comun senso e la natura; ch'era un balordo quel che si perdea in sullo studio della lingua pura; che all'uom d'ingegno e pensator bastava scriver con quel gergon che si parlava.
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Fu agevol cosa suader le genti, che studian sempre poco volentieri, a ributtare antichi sapienti, vocabolari e metodi severi. E perché ognor di novitá e portenti fu vago l'uman genere e leggeri, dagl'impostor miracoli attendendo, ei fu ignorante, dir possiam, dormendo.
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Avvenne allor che i sussurroni arditi furon considerati originali, con certe lor scritture fuori usciti piene d'idee fantastiche e bestiali, credute da' cervelli stupiditi scoperte nuove e lumi celestiali, quanto piú strane e meno intelligibili, piú rispettate e dette inopponibili.
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Con un gergon formato non so dove di venti lingue e formole scorrette, quasi faceti fulmini di Giove, ridicean cose dagli antichi dette, che all'ignoranza comparivan nuove, e le faceano por nelle gazzette, perocché i giornalisti e i gazzettieri eran degl'impostori i candellieri.
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I riflessi prudenti e regolari chiamò «fredda ragion» questa genia, e «novelle scoperte salutari» chiamò i vapori della fantasia; onde i commiserevoli scolari appreser che «ragion» vuol dir «pazzia», e appreser che «pazzia» vuol dir «ragione», ed Arlecchin divenne Salomone.
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Donde il pensar fu presto un vaneggiare ed un sognare da febbricitante; lo scrivere, i concetti e il fraseggiare furon maccheronee col guardinfante. Lo stil fu una vescica singolare in tutte le materie somigliante: vorticoso, rigonfio, snaturato; filosofico, energico chiamato.
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E gridando di dir delle gran cose, e promettendo de' volumi assai, ed insultando l'opre giudiziose de' colti, da lor detti «parolai», colle dissertazion stolte ampollose, senza dare un buon libro al mondo mai, sbalordendo fanciul, donne e merlotti. fûr per supposizione i matti dotti.
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A questa epidemia degl'intelletti, ch'era ridotta un guasto universale, sei o sette scrittor sani e corretti, e non entrati ancora all'ospedale, andavano a Dodone, poveretti, dicendo:—Poniam freno a tanto male.— Dodon rideva sgangheratamente del zelo inopportuno e inconcludente,
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e rispondeva lor:—Cari fratelli, il mondo letterario s'è ammalato, vaneggia; i capi sono Mongibelli. Io son di que' dottor che l'han sfidato. Questa è una crisi degli uman cervelli; l'impedire una crisi è un gran peccato; lasciatela sfogar—Dodon dicea,— che forse avrá buon fine.—E poi ridea
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e soggiungeva:—Il secolo a me pare pregno di quelle strane gravidanze, che fanno a donne gravide bramare cibi sognati e mille stravaganze. Conviene il suo gran ventre rispettare ne' cambiamenti delle circostanze: rimettiamo alle nostre discendenze il ripurgar le fetide influenze.
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Son ben altro che Marchi e che Mattei questi archimiati audaci innovatori; son maganzesi astuti gabbadei, c'han per lo naso principi e signori. Se vi opponete lor, fratelli miei, sarete giudicati traditori, e fien sospesi i vostri scritti e oppressi come perturbator de' dèi progressi.
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Feci per lo passato il mio possibile per sostener la veritá e la regola: la barca è rotta, la procella è orribile; dal canto mio non ho piú stoppa e pegola. Cosí dicea Dodon sempre risibile, chiamando Carlo Man bestia pettegola, ed adducendo il detto vero ancora: che dalla testa il pesce puzza ognora.
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Deggio tacervi molte circostanze che in cifera Turpino lasciò scritte, e non s'intendon piú le antiche usanze di quelle cifre dal tempo sconfitte. Dal piú al meno avete le sembianze di Carlo Man cosí in abbozzo pitte; lo stato del suo regno e della chiesa e la letteratura avete intesa;
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la gola, il sonno e l'oziose piume, i cambiati caratteri, il pensare; chiaro de' paladini v'è il costume, delle dame e del popolo volgare: tutto è confusion, buio, bitume, cecitá, boria, lussuria, usurpare, debito, inganno e fervido maneggio per far le cose andar di male in peggio.
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Marsilio, re di Spagna saracino, teneva chiuse in cor le sue vendette, ché l'esercito antico parigino gli aveva date gran sconfitte e strette. Cheto era stato il diavol tentennino; a' cambiamenti gran riflessi mette, e un giorno disse:—È questo il tempo nostro di porre a Carlo un servizial d'inchiostro.—
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E le sue truppe vigilanti e destre chiama a rassegna e inalbera stendardi. È l'armata a cavallo e la pedestre di dugento migliaia, uomin gagliardi, per dare a Carlo di amare minestre e i paladini a pettinar co' cardi. La fama è in Francia, e suona colla tromba, che il re Marsilio coll'armata piomba.
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Or chi vedesse i paladin puliti, co' cappellin sotto al sinistro braccio, far lor passini ed atti sbalorditi perché al Consiglio suona il campanaccio! Dodon rideva ai ceffi impalliditi; Orlando sembra l'ira nel mostaccio, e grida:—Ah porci! or peserá la lancia; è giunto il fin della gloria di Francia.—
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Si mandan messi al papa, alla Romagna, nella Borgogna, in Scozia, in Inghilterra, per la Francia, l'Irlanda, l'Alemagna, per ogni buco a dir di questa guerra. I signor parean uomin di lasagna. I soldati vivean per ogni terra facendo i sgherri, i bari ed i ruffiani: mangiavan le lor paghe i capitani.
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I maganzesi mostravan costanza, e zelo grande per l'imperatore, dicean di far eserciti in Maganza, ed era un tradimento il lor fervore. Giuravano a Marsilio un'alleanza per via d'un lor secreto ambasciatore, traendo in premio, i menzogner felloni, le sacca di crociati e di dobloni.
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Da Montalbano era venuta nuova che pel gran ber Rinaldo in agonia e col parroco al letto si ritrova per un colpo di forte apoplesia. Rugger, Dodon ed Orlando non cova; quanto può va facendo tuttavia. Dodon ridendo dicea:—Su, Nembrotto!— a Morgante, residuo del casotto.
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Sopra un soffá Carlo grasso piangea, dicendo al cuoco suo:—Ti raccomando que' beccafichi,—e ad Orlando dicea: —Metti novelle imposte, caro Orlando.— Dodon ardito per lui rispondea: —Che vuoi tu de' coglion venir cavando? I tuoi sudditi mangian pastinache, e mostrano cul magri senza brache.
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Gli antichi di provincia tuoi fedeli son quasi tutti fuggiti alle ville, in castellacci discoperti a' cieli, con figli e figlie e nipoti e pupille, ripieni di pensieri acri e crudeli, allor che suonan mezzodí le squille. Educazion non han, mangiar né bere: pensa se daran nerbo alle tue schiere.
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Non son nelle cittá minor gli affanni. Piú non han dote per le figlie i padri; o le maritan con lacci ed inganni, o fan nuziali inventati leggiadri. Hanno in dote la mensa per tre anni gli sposi, che procreano de' ladri, perché, saldato il conto, vanno al sole gli sposi, i figli e la futura prole.
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I tuoi gabellier, tristi, sciagurati, co' tuoi governatori in alleanza, hanno tutti scannati, scorticati: non aver piú ne' sudditi speranza. Una gran parte andaron turchi o frati, per fuggir le influenze e la possanza.— Carlo cresce al suo pianto un'appendice, con una bocca poco imperatrice
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dicendo:—Adunque pon' mano all'erario; resterò miserabil senza cena.— Ecco i ministri ch'alzano il sipario, e son piú di duemila giunti in scena; con un milion di conteggi in summario e numeri minuti come arena provano, co' lor visi ilari e rossi, che nell'erario v'eran pochi grossi.
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Mostran che gli stravizzi giornalieri e del palagio i mobili moderni, il lusso, il fasto, gli agi ed i piaceri l'erario avean mandato sui quaderni; che duemila salari all'anno interi alle Lor Signorie, del Stato perni, per tener il registro e la scrittura, la dispensa rendeano chiara e pura.
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Era a Parigi lo scompiglio grande. Piangeano i paladin con le ragazze: pur cercan l'arme da tutte le bande; son rugginose, verdi e pavonazze, con i prosciutti e simili vivande. Sbucano i topi fuor dalle corazze, che le nidiate avevan fatte drento, tanto che a' paladin mettean spavento.
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Trovaron elmi assai da' ferravecchi, venduti a peso da' staffier bevagni; da' finestrai ne trovaron parecchi, foconi a' stagnatoi per dare i stagni. I famosi spadon, pesanti e vecchi, eran ridotti a moderni guadagni, in fili per tener le cuffie dure, spille e forchette per le acconciature.
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Alcun de' paladin si prova l'armi in faccia alla sua dama afflitta e mesta, che dice:—Voi volete tormentarmi; mi sembrate un tincone in una cesta. Se m'amate, un favor dovete farmi: scansatevi di abate con la vesta.— A corte il paladin fedi ha mandate ch'ei s'era messo il collarin da abate.
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Orlando irato fa gobbe le spalle, e me' che può rattaccona le cose. Fu questo il tempo delle gote gialle, ed argomento al Pulci che compose quella rotta funesta in Roncisvalle, ma in altro modo le faccende pose. Di questa guerra io non vi dico nulla, e torno alla bizzarra mia fanciulla.
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Condur la deggio in porto, ch'ella è stata l'oggetto principal dell'opra mia. Ogni arte, ogni scamoffia aveva usata per far di matrimonio mercanzia; ma ognun la fugge come spiritata e come la beffana od un'arpia. La favola s'è resa della piazza: non v'è piú caso ch'ella faccia razza.
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La tossa è insuperabil, la febbretta era una lima sorda quotidiana; tal ch'ella finalmente si rassetta ad una santitá bizzarra e strana. Toglie di fare una vita negletta, declama sopra la miseria umana; si vesta da pinzochera, scegliendo per direttore un padre reverendo.
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Vuol una stanza picciola e dimessa con poche sedie, semplice e sfornita. Ogni giorno per patto si confessa, ogni tre dí va al pane della vita. Tien la divota Ipalca sol con essa. Per cibo una panata ha stabilito, e in una sua scodella la volea, che il nome di Gesú nel fondo avea.
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Destava compunzione e riverenza questa vergine mia pinzocherona, quando uscía col suo velo da Fiorenza, che la copriva, e in man colla corona. Avea di poverelli concorrenza dove passava, e un soldo a tutti dona; le baciavan le vesti, ed ella umíle dicea:—Non fate; io sono un vermo vile.—
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Tal fin la bizzarria di Marfisa ebbe, vivendo con la tossa ben trent'anni; e il fine a Bradamante molto increbbe piú dei bizzarri oltrepassati danni, perché la santa in casa era un giulebbe, una lingua da dar di molti affanni, che col labbro divoto e il cor zelante trattava da bagascia Bradamante.
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E nota il tempo ch'ella si confessa, se cambia confessore, e s'egli è bello, se ragiona con uomini alla messa: sempre è scandalezzata d'un bordello. Con ironia la chiama padronessa; eran le fanti mezzane a pennello: per le finestre spia le sue vicine, e fa che son zambracche e concubine.
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Lettor, giacché Marfisa è fatta santa, io non ho cor d'ucciderla altrimenti, ché il buon esempio è una bella pianta da non tagliar, s'è specchio a malviventi; e perché eternamente non si canta per non seccar le natiche alle genti, e perché pur sgonfiata ho la zampogna, fo punto e attendo il plauso o la vergogna.
LO SCRITTORE DELLA «MARFISA» a' suoi lettori umanissimi
Leggesi che gli antichi padri della Chiesa greca, non meno gran santi che gran filosofi, usavano ne' sermoni che esponevano da' pergami alle adunanze raccolte ad ascoltarli, l'innestare de' ritratti degli uomini affascinati e perduti nel vizio.
Le loro accurate osservazioni sulla umanitá fornivano il loro pennello di tratti e di colori i piú vivi ed espressivi per porre sotto agli occhi degli uditori le figure degli ebbri, degli iracondi, de' golosi, de' superbi, degli avari, de' molli effeminati, de' sfrenati, libidinosi e d'altri brutalmente abbandonati ne' vizi; e con tali fisonomie, tali guardature, tali attitudini, tali scorci naturali, veri e abborribili ne' loro aspetti, che destavano negli ascoltatori ribrezzo e timore di somigliare a que' schiffi ritratti.
Una filosofica efficace facondia pittrice faceva qualche buon effetto, e metteva alcun freno di vergogna nella umanitá traviata e corrotta da' vizi.
L'urbano satirico osservatore sul genere umano, buon ritrattista e non cinico detrattore, laceratore, uccisore alla vita civile; che si attiene a' generali e non si scaglia a mordere particolarmente e nominatamente; non mosso da collera, da ambizione, da invidia e da vendetta o da venalitá, ma soltanto mosso da un sentimento di zelo inclinato al bene di tutti, potrebbe lusingarsi di purgare colle tre pitture in iscorcio ridicolo o schiffo, ma sempre naturali e vere, almeno in parte, il contagio di que' rei ammorbati costumi, che presto o tardi involgono ne' flagelli le intere nazioni.
Devo dire con mio intenso dolore ciò che altri dissero e affermarono con franchezza.
La patria mia, un tempo specchio di soda religione, di pietá, di giustizia, d'integritá, di valore, di coraggio, di prudenza, di costanza e d'ogni virtú, poco a poco, e particolarmente dopo l'insidiosi sparsi sofismi novelli, detti «filosofia», tendenti ad offuscare cervelli, a capovolgere tutte le leggi, tutti gli ordini salutari e a dar libero il corso a tutte le passioni degli uomini e delle femmine, è divenuta il ricinto delle leggerezze, delle immodestie, delle sfrenatezze, della infingardaggine, della ignoranza, della malafede, della stolida miscredenza e di quel lusso, di quelle mollezze, incontinenze e lussurie, che cagionarono un giorno la caduta de' regni de' Sardanapali d'Assiria.
Furono pochi quelli della mia patria scopritori che le parole sparse «dirozzare», «ripulire», «umanizzare», «risvegliare», «illuminare», «spregiudicare», fiancheggiate da ingegnosi insidiosi sofismi adulatori e commiseratori delle umane passioni tenute a freno (sofismi coperti dal velo mentitore della parola «virtú», degenerati ne' due stolidi e in un seducenti ululati: «libertá» ed «eguaglianza»), non erano che stimoli alle sanguinarie rivoluzioni alla frattura delle provvide leggi de' saggi, dettate dalla gran maestra esperienza, e sofismi guide ad una generale corruttela de' costumi e della solida e sana morale.
Coloro i quali non iscorgono quest'infelici precursori effetti conseguenti, avvenuti, prima che in altri climi, nel clima medesimo dond'ebbero scaturiggine le parole e i sofismi sopraccennati (effetti conseguenti di generale angoscia, dilatati poscia negli altri climi) non sono né «dirozzati» né «ripuliti» né «umanizzati» né «risvegliati» né «illuminati» né «spregiudicati», ma ciechi ed ebbri sonnambuli disumanati, che girano brancoloni per entro una densa nebbia contagiosa e fetente, da essi creduta lume risplendentissimo e quintessenza di cribrata e purificata filosofia.
La Marfisa bizzarra, poema di aspetto scherzevole, non è che un quadro storico del costume corrotto, di ritratti naturali, di caratteri veramente de' nostri giorni, della mia patria infelice e un'allegorica predizione del di lei finale destino.
Convien dire che gli antichi greci, i quali ascoltavano i loro predicatori, avessero i cuori piú atti alla sensibilitá, alla vergogna, alla compunzione, de' miei patrioti.
Si pongano nel conto de' nulla parecchi tratti giocosi satirici contenuti nel mio poema contro alcuni scrittori del tempo in cui lo composi, i quali, assecondando la corruttela del costume, sviavano la gioventú dalle regolaritá e guastavano la nobile semplicitá, la fedele legittimitá, la nitidezza del nostro eccellente idioma e il buono e vero gusto di scrivere in prosa ed in verso della nostra un tempo brava nazione; i quali cattivi scrittori non si astennero di pungere e dividere sgraziatamente e dozzinalmente la opinion mia, ch'io sostenni per legittima con quella inutilitá medesima con la quale ho combattuta per quanto potei la irreparabile inondazione della epidemica corruttela guastatrice della soda e sana morale.
Alcuni hanno giudicato che le importanti mire con le quali presi a scrivere la Marfisa dovessero essere esposte con uno stile differente, vale a dire piú serio, piú elevato e piú altitonante.
Oltre a che io fui sempre di un naturale piú inclinato al socco che al coturno, e sempre risibile sugli oggetti che presenta al mio sguardo questo basso mondo, per la opinion mia, cotesti giudici condannavano la mia composizione ad avere pochi lettori, siccome avviene oggidí per lo piú alle opere di morale scritte con sublimitá e catedraticamente per combattere i costumi corrotti.
A me stava a cuore che la Marfisa fosse letta e intesa universalmente da tutti senza promuovere sbadigli; e sapendo che le veritá innegabili de' miei ritratti e de' costumi della mia patria, pennelleggiati comicamente con uno stile italiano colto, ma che pizzica dell'urbano satirico lepido, avrebbe avuto maggior numero di lettori, volli scriverla com'ella è scritta.
Fui da alcuni ecclesiastici tacciato di troppo ardire e d'imprudenza nel dipingere nella Marfisa parecchi della loro classe in un'attitudine indecorosa al loro carattere.
Se questi alcuni tali avessero mantenuta la dovuta decenza, inseparabile dal loro carattere, non comparirebbero nel mio quadro di veritá in uno scorcio indecente, esoso e ridicolo.
Al tenere in silenzio i vizi di alcuni ecclesiastici della mia patria non avrei giammai potuto dare il titolo di prudenza, ma piuttosto il titolo d'ipocrisia, vizio infernale e da me piú ch'altro vizio abborrito e perseguitato.
In una cittá, in cui i vizi giungono di gran lunga a preponderare sulla virtú, comunicano il loro veleno anche in quelle persone le quali dovrebbero con l'esempio e con la forza e la facondia d'una logica efficace combattere e fugare il vizio medesimo.
Questo mostro, che deride la rattenutezza, i riguardi, la modestia, il pudore, la castitá, la temperanza, la sobrietá, accresce il numero all'infinito de' bisogni, al di lui alimento, e protetto dalla innumerabile schiera de' suoi seguaci possenti, riduce l'umanitá alla natura de' bruti, senza distinzioni di grado, di nascita o di ministero.
I giusti veri osservatori e conoscitori del corrotto costume della mia patria confesseranno che le pitture, con le quali delineai e tinteggiai tratto tratto nel mio (in apparenza) scherzevole poema della Marfisa alcuni ecclesiastici nostri, rappresentano originali ritratti della veritá.
L'avvilimento da me dipinto, di cui lordarono que' tali il loro rispettabile carattere con perniciosissimo esempio, meritavano la sferza del zelo mio, siccome l'hanno meritata i loro protettori, che accrebbero l'avvilimento di quelli con que' modi che appariscono dal poema della Marfisa.
Nel colloquio che tiene il mio allegorico paladino Ruggiero col mio allegorico Turpino, arcivescovo del mio allegorico Parigi, nell'ottavo canto del mio allegorico poema, si rileverá in qual rivolta il vizio avesse ridotte le famiglie; di qual guasto costume il vizio avesse lordata una infinitá di ecclesiastici, e con quale impossibilitá le viziose protezioni sopraffatrici incatenassero la pia volontá dei piú saggi e santi capi della Chiesa, di frenare, correggere, castigare e riformare il contegno de' loro leviti sfrenati, scandalosi e viziosi.
Non si creda giammai ch'io abbia preteso di porre in un fascio tutti i viventi a' giorni miei nella mia patria con gli accecati gruffolatori nel marciume e nel lezzo de' vizi rovinosi alla patria mia.
Non meno che nella lega del popolo e ne' particolari da tal lega separabili, conobbi ne' présidi al governo politico, civile e criminale e nel ceto ecclesiastico nostro, secolare e regolare, delle persone venerabili, fornite di ottimi sentimenti, di dottrina, di prudenza, di fervente zelo, di religione, di retta morale, veggenti non lontani i fulmini smantellatori, e adoperarsi con tutto lo spirito loro per allontanarli, ma con quella inutilitá con cui dugento d'intelletto intemerato e fermo vorrebbero porre a dritto cammino cento e piú mila intelletti sviati, frenetici, guasti da falsi dettami, guidati soltanto dalle sguinzagliate passioni e da' sensi viziati e brutali, ridotti torrente insostenibile e dominatore.
Ma i pochi saggi, buoni, divoti e credenti furono dalla moltitudine de' viziosi considerati imbecilli, accecati da' pregiudizi d'una stolida educazione falsa e antiquata.
I pochi buoni zelanti ecclesiastici furono dalla immensitá de' viziosi giudicati furbi, impostori, ipocriti, spaventacchi e lusingatori de' popoli di eterni celesti beni, per cupidigia di beni e d'oro terreno.
I pochi ottimi présidi al governo, che osarono, con troppo tardi maturi decreti emanati, di ridurre la gran massa de' viziosi al raccoglimento, alla moderazione, alla temperanza, e di regolare il costume disordinato e corrotto, di separare le ore del divertimento da quelle del riposo, di procurare che il giorno fosse considerato giorno, la notte considerata notte, onde i tribunali di giustizia e gli uffici non fossero occupati e amministrati da persone sonniferose, rese astratte, balorde ed ebbre dalle veglie, da' stravizi, dal giuoco, da' liquori, dalle notturne lussurie, di por freno a' vestiti immodesti, lascivi, attraenti, solleticatori e coltivatori del vizio nelle femmine rese baccanti dalle furie e dalle sfrenatezze del vizio, furono chiamati dalle orrende strida di un enorme tumulto di voci assordatrici, uscite dalle gole dell'immenso brulicame vizioso fremente, sopraffattori, ignoranti, vaneggiatori addormentati nelle goffaggini e muffaggini smodate, deliranti, disumanati, tiranni della natura e punibili.
Noi gli vedemmo rovesciati da' lor tribunali con tempesta di viziosi voti repubblicani forsennati iracondi, e vedemmo il vizio vittorioso gl'interi giorni e le intere notti scorrere la cittá pel suo dilatarsi, consolidarsi, torreggiare e signoreggiare.
Ben lo disse l'ottimo filosofo morale francese, osservatore profondo, Giovanni La Bruyère, ne' suoi Caratteri: che chi pretende di por argine agli abusi del corrotto vizioso costume, dilatati, impossessati, inveterati sopra le popolazioni, non fa che come colui che fruga in una cloaca per iscemare il puzzo: altro non fa che innalzare piú violento e piú insoffribile il fetore.
Se si vorrá considerare senza collera, senza maligna prevenzione e a mente serena il poema intitolato La Marfisa bizzarra, si troverá che tra il piccolo numero dei buoni inutili, a fronte degl'innumerabili guasti e corrotti, campeggiano, in quel poema giovialmente e urbanamente satirico, gli Orlandi, i Dodoni, gli Uggieri, gli Angelini, le Aldabelle, le Ermelline ed alcuni altri buoni personaggi, le cui grida, le cui lagnanze, le cui predichette zelanti furono derise e seminate tra le ortiche ed i pruni, come quelle de' pochi buoni della mia patria.
Preghiamo e speriamo che de' benigni influssi delle fulgenti stelle che ci soprastano purghino le menti sviate e guaste e le rimettano a dritto cammino, per la pace e tranquillitá d'una patria in cui nacqui, crebbi e invecchiai, desiderando ognora il legittimo bene di tutti i miei concittadini, spoglio di presunzione, alienissimo dalla piú minuta pretesa, salvo quella di voler dire apertamente la veritá mal sofferta.
Dovrebbe essere superfluo l'avvertire i lettori che chi si è posto a scrivere la Marfisa bizzarra, poema faceto, non abbia presa materia (com'egli tratto tratto asserisce scherzevolmente) da Turpino; e che Carlo Magno, Parigi, i paladini e i personaggi descritti dal Boiardo, dall'Ariosto e da alcuni altri scrittori degli antichi poemi, non sieno stati presi dallo scrittore della Marfisa che per coprire d'una veste allegorica un piccolo abozzo del prospetto de' costumi, della morale de' giorni suoi e de' caratteri in generale de' suoi compatrioti, riformati da' scrittori perniziosi e dalla scienza del nostro secolo detto «illuminato».
Tuttavia do questo avvertimento preliminare alle annotazioni fatte sulla Marfisa, onde le fantasie interpretatrici non escano dal quadro storico de' costumi e de' caratteri in generale ch'esistevano nella patria dello scrittore della Marfisa, poema faceto, nel tempo che fu composto.
Stanza 1.
Se non credessi offender gli scrittori che han rotto con lo scrivere ogni sbarra, e son fatti del mondo inondatori, io canterei di Marfisa bizzarra…
Ardeva, nel tempo in cui l'autore si pose a scrivere il poema della Marfisa, una controversia lepidamente satirica tra gli accademici denominati «granelleschi» esistenti in Venezia, gran difensori della lingua litterale italiana e della colta poesia di vario genere, e gli scrittori che le sfiguravano e guastavano colle opere loro, d'un libero e goffo mescuglio di esteri linguaggi, di maniere e frasi grossolane, di ampollositá snaturate, di corrotti vernacoli.
Uno scopo, tra i molti altri dell'autore della Marfisa, accademico granellesco sotto il nome del «Solitario», fu di prendere di mira i cattivi scrittori che in quella stagione in Venezia sviavano le menti dalla coltura, e particolarmente il Goldoni ed il Chiari, scrittori di commedie, di romanzi, di prose e di poetiche composizioni in ogni genere e metro infelicissime. Si troveranno nel poema della Marfisa buon numero di squarci di censura e dileggio diretti a' cattivi scrittori del tempo in cui fu composto, né si nega che, nel mezzo agl'infiniti caratteri presi in generale, che campeggiano nel poema, sotto i due nomi de' paladini Marco e Matteo dal Pian di San Michele sono figurati particolarmente il Chiari e il Goldoni, i due maggiori e piú arrabbiati nimici degli accademici granelleschi accennati.
Stanza 2.
…e farò come il Cordellina e Svario, c'hanno l'interruttore dietrovia al loro arringo che grida il contrario…
Nel fòro veneto, alle dispute delle cause degli avvocati, v'è un avvocato che interrompe a diritto ed a torto con voce tuonante quell'avvocato ch'è l'ultimo ad arringare nella causa, e vien data poca retta da quello che arringa all'interruttore.
Cordellina e Svario furono due de' piú celebri avvocati del fòro veneto.
Stanza 5.
Di Marfisa bizzarra cantar voglio. Cantolla un altro, e non ebbe concetto… onde rimase con Paris e Vienna ad aspettar qualche moderna penna.
Un certo Dragontino da Fano scrisse un poema nel Cinquecento, intitolato La Marfisa bizzarra, seguendo le fantasie romanzesche del Boiardo e dell'Ariosto meschinamente.
Quel cattivo poema ebbe il destino ch'ebbero i triviali poemi di Paris e Vienna, del Buovo d'Antona e di parecchi altri cosí fatti, comperati soltanto dal basso popolo.
Stanza 6.
Voi, che non isdegnate i versi miei e de' nostri buon padri avete stima…
Intendasi gli accademici granelleschi e tutti coloro che apprezzavano la puritá e l'indole della nostra lingua litterale, della colta poesia italiana in tutti i generi, ed erano fedeli agli antichi celeberrimi nostri conformatori e fondatori di quelle.
Stanza 14.
I romanzieri dall'eroiche imprese, dalle battaglie e da' sublimi amori piú non si nominavan nel paese, perché i moderni eran usciti fuori…
E sino a tutta la stanza 16 è satira dileggiatrice sul profluvio de' romanzi pubblicati dall'abate Chiari, ed è pittura satirica sopra alcune commedie del Goldoni.
Stanza 17.
Altri scrittor piú dotti e disonesti per i lor fini, a tal cominciamento, stampavan libri sottili e infernali dipingendo i mal beni ed i ben mali.
Cioè i sofisti perniziosi del secolo, i quali col pretesto d'illuminare il genere umano rovesciarono infiniti cervelli per universale sciagura e trambusto.
Stanza 48.
Talor soletto andava passeggiando lá dove son le dinunzie secrete…
Si chiamavano in Venezia «denunzie secrete» alcune teste spaventose di marmo, fitte nelle muraglie de' magistrati, le quali teste o mascheroni avevano una gran bocca aperta, in cui i delatori, che volevano star celati, scagliavano le querele scritte in una cartuccia contro coloro che volevano accusare ed esporre a' processi d'inquisizione.
Stanza 53.
…fatto vecchio servente a Galerana…
Galerana, secondo gli antichi romanzi, fu imperatrice e moglie di Carlo Magno. Il titolo di «servente» è abbastanza in costume a' giorni nostri per intendere qual sia l'uffizio di quello.
Stanza 55.
Marco e Matteo del Pian di San Michele…
Si è detto che sotto le persone de' due paladini antichi Marco e
Matteo dal Pian di San Michele sono figurati i due poeti Chiari e
Goldoni.
Stanza 61.
Ma Dodon dalla mazza, paladino…
Non si cela che sotto il nome del paladino Dodon dalla mazza è figurato l'autore del poema della Marfisa; il quale, unito agli accademici granelleschi di lui soci, fu il martirio maggiore de' due suaccennati poeti.
Stanza 1.
Io mi son dilettato alquanto invero il critico arruffato immaginando…
Fino compresa la quarta ottava è un immaginato dialogo tra l'autore della Marfisa e l'abate Chiari, uomo di carattere altero e presuntuoso.
Stanza 21.
Or vorrebb'esser stata ballerina, or cantatrice divenir vorria…
Titoli di alcuni tra i moltissimi romanzi pubblicati dal poeta Marco, cioè dall'abate Chiari, scrittore dei detti romanzi, de' quali Marfisa era studente e associata alle stampe, ammiratrice e inclinata a seguire le massime e i dettami di quelli.
Stanza 63.
Filinor non si scuote e non si move: —Il mio costume—rispose—l'appresi da' cavalier delle commedie nuove…
In questi versi sono sferzate alcune delle commedie del paladino Matteo, cioè del Goldoni, nelle quali in confronto delle persone del basso popolo, da lui dipinte virtuose, metteva conti, marchesi ed altri titolati cavalieri in aspetto di bari, d'impostori e d'un pessimo carattere di mal esempio.
Stanza 31.
Io trovo ne' romanzi di que' tempi certe avventure magre da pidocchi e fatti da sbavigli e casi scempi di que' poeti, e lunghi un tirar d'occhi, che informavan quegli antichi esempi di battaglie, di giostre…
Il tratto satirico è diretto a' novelli romanzi, ma particolarmente a quelli dell'abate Chiari.
Stanza 34.
Perocché prima di cantar la messa avea dato il manipolo a baciare…
A Venezia quasi tutti i preti ordinati da evangelo e da messa da' prelati siedono nella chiesa con degli assistenti a fianco e con un gran bacile dinanzi. Essi dánno a baciare a infiniti invitati, pregati e spinti dagli uffici, quel sacro arredo che si chiama «manipolo»; e i baciatori concorrenti tutti scagliano nel bacile divotamente una moneta, chi grossa e chi minuta per offerta al prete novello. Tale offerta giunge talora ad essere la somma di cinque o sei cento ducati, secondo gli amici, i conoscenti e i protettori del prete. Questo pio costume fu introdotto in Venezia per soccorso dei preti, i quali per la maggior parte sono ordinati sacerdoti senza patrimonio, per la loro povertá e per il solo merito d'aver servita la Chiesa sino da cherichetti.
L'offerta, per quanto si dice, deve servire a que' preti per provvedersi di libri ecclesiastici, da studiare per erudirsi nel loro sacro ministero; ma parecchi de' preti veneziani consacrati fanno l'uso di quell'offerta, che fece don Guottibuossi, cappellano in casa di Ruggiero e servente di Bradamante.
Stanza 69.
Voi siete pien di antichi pregiudizi, né alle commedie nuove andate mai, né i romanzi novei, pien d'artifizi dotti, leggete, che insegnano assai. Certe antiche virtudi ora son vizi…
Sferza a' costumi introdotti dalla falsa scienza del secolo, e precisamente a' sentimenti e alle massime sparse con aria filosofica nelle commedie e ne' romanzi del Chiari. Si noti che l'astuto don Guottibuossi cappellano adulava ironicamente Marfisa, gran estimatrice delle dette opere, per prenderla nella rete e per farla sposa di Terigi.
Stanza 37.
Marco e Matteo dal Pian di San Michele, ch'eran torrenti della poesia, a don Gualtieri accendevan candele perché Terigi a un d'essi l'ordin dia…
Cioè l'ordine di apparecchiare la raccolta di poesie per le nozze: ufficio che fruttava zecchini. Nella mala influenza poetica del Chiari e del Goldoni, figurati nei due paladini Marco e Matteo, e che in quel tempo passavano in Venezia per due poeti alla moda eccellenti, venivano appoggiate quasi tutte le raccolte di poesie, in costume nell'occasione de' matrimoni o di monacazioni o di esaltazioni a gradi sublimi di personaggi illustri.
Bastava però che i celebrati fossero ricchi e splendidi, perocché si vide una raccolta poetica, celebratrice di uno sposalizio ebraico, formata da Marco poeta, sacerdote cattolico. Tali raccolte in quella stagione servivano di campo a' morsi trivialmente satirici de' cattivi scrittori verso gli accademici granelleschi, e servivano a' granelleschi, difensori del retto pensare e del purgato scrivere, per mordere e porre in dileggio i cattivi scrittori.
Stanza 43.
Rugger per il costume del paese qualche libretto anch'ei doveva fare. Dodone il santo, figliuol del danese, gli aveva detto:—Non farneticare, ché un libriccin vo' farti alle mie spese da far Marco e Matteo divincolare…
L'autore della Marfisa, accademico granellesco, figurato in Dodone dalla mazza, si divertiva, all'occasione delle raccolte di poesie per le dette circostanze, a far stampare delle facete composizioni in versi, ch'erano giuste censure e dileggi arditissimi contro gli scritti del Chiari e del Goldoni e de' scrittorelli lor partigiani e imitatori, come si può rilevare nel di lui poemetto intitolato I sudori d'Imeneo e in una moltitudine di poetiche bizzarrie, fatte da lui stampare ne' giorni di quelle ridicole controversie.
Stanza 45.
E dalle Madri tradite dir posso…
La Madre tradita è il titolo che portava una commedia del Chiari.
Stanza 46.
dell'Impressario turco dalla Smirne…
Tale è il titolo d'una commedia del Goldoni.
Stanza 47.
poi vanno a partorir Filosofesse…
Romanzo del Chiari, intitolato La filosofessa italiana. Sino l'ottava 52 è critica sugli scritti pubblicati dall'abate Chiari.
Stanza 72.
Un dí di carnoval era, e la pressa de' cavalieri e paladini è grande, per gir nella Ruet dopo la messa, ch'è una via in piazza, chiusa dalle bande da' sedili di paglia…
L'autore della Marfisa cambia nel nome di «Ruet» ciò che a Venezia si chiama «Liston», ch'era una viottola nella piazza di San Marco, formata da sedili posti in due lunghe file, in cui avvenivano le cose descritte nelle ottave 72-76. Da parecchi anni tal adunanza non è piú in costume.
Stanza 2.
Non sempre e in ogni loco curiosa soffro la gente molto volentieri, e, verbigrazia, a un'opera fecciosa che corra e spenda e gridi e si disperi. Questa curiositade è perniziosa, io dico, e di cervei troppo leggeri…
Allude al fanatismo risvegliato in Venezia dalle opere sceniche dell'abate Chiari e del Goldoni.
Quel fanatismo aveva divisa la intera popolazione in due partiti infuocati. Le chiavi de' palchetti de' teatri si vendevano un occhio. I contrasti d'opinione de' due partiti assordavano e cagionavano delle dissensioni fino nelle famiglie tra padri e figli, fratelli e sorelle.
Stanza 44.
e ciocche di cristallo risplendente, non dico del Briati, che non c'era…
Giuseppe Briati muranese fu benemerito inventore privilegiato in Venezia della pasta del terso cristallo, e particolarmente di ciocche magnifiche da illuminare le sale de' gran signori, i teatri e le vie in occasione di solennitá.
Stanza 46.
che pareva quel giorno il bucentoro…
Il bucentoro era un naviglio ricchissimo, tutto intagli e dorature, d'un costo sommo, in cui il doge di Venezia nel giorno dell'Ascensione veniva condotto al porto di mare detto del Lido, con un sèguito di galere e gran numero di barche; laddove giunto, per segno di antico dominio del mare Adriatico, sposava, con un anello gettato nell'onde, codesto mare.
Stanza 114.
Marco dal pian di San Michel, poeta…
Cioè l'abate Chiari, di cui l'autore della Marfisa dá un'idea del carattere in quell'ottava e nella seguente.
Stanza 113.
Anche Matteo, poeta suo nimico…
Il Goldoni ed il Chiari erano in quel tempo rivali e nimicissimi. Si censuravano ferocemente nelle opere loro. In quell'ottava l'autore della Marfisa fa una pittura del carattere del Goldoni, gran coltivatore d'un grosso partito agli scritti suoi con una umiliazione e un'adulazione niente poetica.
Stanza 117.
Dodone dalla mazza, detto «il santo», era venuto, e guardava ogni cosa stando a un tavolier solo da un canto, facendo vista di fiutar la rosa.
L'autore della Marfisa, figurato nel paladino Dodone, si spassava continuamente a far l'osservatore e l'anatomista sui caratteri, sul pensare e sul raziocinare dell'umanitá, come si può rilevare dal suo poema e da tutti gli scritti suoi.
Il giuoco dell'«undici», descritto nell'ottava soprapposta, è giuoco cappuccinesco e da solitario, che cerca un passatempo in una combinazione semplice di numeri da sé solo in disparte, per non impegnarsi in partite di giuochi di carte d'applicazione, da lui abborrite, e per star separato da una societá romorosa.
Stanza 32.
Pareva scritta dal fine al principio, siccome l'orazion di sant'Alipio.
L'«orazione di sant'Alipio» è una di quelle poesie di versi trivialissimi, che i pitocchi e i ciechi cantavano per le strade e sotto alle finestre delle case, accompagnando il canto loro con un chitarrone, per trarre qualche elemosina.
Stanza 33.
E cominciava: «O vergin, vergin bella, estro e natura canora e sonora». Marco poeta a rider si smascella, e critica ogni detto che vien fuora…
Si è detta la rivalitá che correva allora tra il Chiari e il Goldoni.
I due primi versi dell'ottava 33 contengono in caricatura lo stile del
Goldoni, qualora voleva impacciarsi a comporre de' versi sostenuti.
Stanza 35.
Dodone alcuni versi avea finiti pel maritaggio, e pronti per le stampe, che correggean que' vati fuorusciti. I parigin non voglion che gli stampe, e vanno minacciando i revisori ché, caschi il ciel, non gli lascino ir fuori…
Alludesi a' due partiti infiammati divisi de' partigiani del Chiari e del Goldoni. I garbugli, i sottomani, gli occulti uffici, che facevano quei due partiti onde non fossero licenziate per le stampe le composizioni dell'autore della Marfisa, facetamente derisorie le poesie del Chiari e del Goldoni, erano instancabili e furenti.
Stanza 3.
contro anche san Francesco, e va nel verde.
Nelle concorrenze agli uffici in Venezia s'usano tre bussoli da raccogliere i voti secreti. L'uno di questi bussoli è bianco, l'altro rosso, l'altro verde. I voti che si trovano nel bussolo verde escludono il concorrente dall'officio al quale aspira.
Stanza 30.
Una bocca facea, che somigliava le denonzie secrete e peggio ancora…
Addietro s'è detto che le denunzie secrete, fitte nel muro esternamente a' magistrati di Venezia, erano teste di mascheroni mostruosi con una bocca larga oltre misura.
Stanza 32.
svimèr, landò, carrozze, venti legni…
«Svimèr», «landò», «cucchier», «cudesime» ed altri nomi, che non si trovano nel vocabolario della Crusca, sono carrozze posteriori alla compilazione del detto vocabolario, ma carrozze in costume a' tempi nostri, introdotte dalla mollezza e dal lusso, giunte dalla Francia, dalla Germania e dall'Inghilterra in Italia.
Stanza 51.
e tremila zecchini veneziani…
L'autore della Marfisa ha protestato, nella prefazione al suo poema, di voler usare quanti anacronismi vuole per far chiara la sua allegoria, e di non curarsi di critici in questo punto. I zecchini ch'escono dalla zecca di Venezia sono di purgatissimo oro e in pregio di tutte le nazioni.
Stanza 52.
Or qui potrebbe dirmi alcun lettore che una dama alle truffe non discende. Ed io rispondo che Matteo scrittore faceva in quell'etá commedie orrende…
E fino a tutta l'ottava 54 sono censure alle commedie del Goldoni, il quale spesso metteva in iscena de' nobili titolati d'un pessimo carattere e come si legge nelle soprannotate tre ottave.
Stanza 79.
Turpino scrive che le sputacchiate…
Gli applausi, che si fanno nelle chiese di Venezia a' predicatori e alle fanciulle che cantano nei pii conservatorii musicali, quando piacciono, sono di raschiamenti universali delle trachee e un gran sputacchiare catarroso degli uditori.
Stanza 89.
Dalle commedie e da' romanzi nuovi traea gran parte de' suoi bei riflessi…
Nuovo scherzo satirico alle commedie del Goldoni e alle commedie e romanzi del Chiari, ch'erano le letture predilette di Marfisa, riformata dall'antico costume.
Stanza 19.
e le stimate fece colle mani, giunta a Marfisa…
Modo usato da Luigi Pulci nel suo poema del Morgante, forse tratto dall'attitudine in cui è dipinto san Francesco dalle stimate, con le braccia e le mani aperte in atto di preghiera.
Stanza 30.
Facendo il sordo o albanese messere…
«Far albanese messere» è proverbio toscano antico, e vale finger di non capire.
Stanza 38.
Di Marco e di Matteo nelle riforme scopre il bel, vede il buono, è a me conforme.
Altro scherzo derisorio satirico sugl'infiniti volumi posti alle stampe dal Goldoni e dal Chiari, tenuti da Marfisa per classici ed eccellenti.
Stanza 44.
suo padre di Martan fu servitore…
Martano è dipinto, nell'Orlando furioso di Lodovico Ariosto, codardo, traditore ed esecrabile.
Stanza 57.
—Corpo di Bacco!—giura in ogni lato— del primo mio romanzo nella storia vo' metter la persona del marchese in vista da far ridere il paese.
Il «corpo di Bacco!» era il giuramento favorito del Chiari. Tal giuramento si legge con frequenza ne' suoi romanzi e nelle sue commedie.
Il Chiari, se aveva collera con alcuno, si svelenava ne' suoi romanzi, mettendo in quelli i suoi avversi in un aspetto ridicolo e abborribile, a misura del di lui cruccio e con una trivialitá plebea, sfogando persino la sua bile a farli perire per le mani d'un carnefice. Dalla ottava 57 fino alla 63 è derisoria censura delle opere del Chiari e del Goldoni e sulle replicate edizioni di quelle.
Stanza 63.
che sembrava un'idea del Masgumieri…
Il Masgumieri fu noto ciarlatano, venditor di balsami e taccomacchi in
Venezia.
Stanza 64.
Un altro scrittorel di simil forma, il qual delle Stagion facea poemi…,
Certo conte Orazio Arrighi Landini, che in quel tempo scriveva e stampava poemetti sulle Stagioni dell'anno ed altre poesie, dedicando le operette sue indistintamente a soggetti da' quali sperava qualche sovvenimento. Egli passava in Venezia per buon poeta alla sprovveduta. Questo signore, niente censurabile sull'ottimo carattere e costume, era però infelice poeta. Un piccolo tratto di gioviale ironia poetica, sopra a' suoi scritti e sopra gli accidenti della sua vita, dello scrittore della Marfisa, lo fece entrare in furore e nel desiderio di vendicarsi con qualche scrittura, che fu ignuda affatto di merito, e di maniere incivili, le quali non fecero che far ridere l'autore della Marfisa. Le ottave 64-67 contengono un cenno di questo fatto.
Stanza 68.
Gl'impostori scrittor d'allora in caldo appiccorno question co' buon scrittori.
Sino all'ottava 73 è storia veridica e satirica sopra al Chiari e il Goldoni, iracondi con gli accademici detti granelleschi, ch'esistevano in Venezia, gran difensori della puritá del nostro idioma e della buona poesia.
Stanza 3.
par loro avere in sul capo il mantello…
I birri, che pigliano qualche delinquente in Venezia per condurlo in prigione, gli mettono in sul capo un tabarro per coprirlo alla vista del popolo. I soli ladri sono via condotti, da' birri, scoperti.
Stanza 4.
ma come, verbigrazia, quel di Praia…
A Praia, nel territorio padovano, v'è un ricchissimo convento di monaci cassinensi.
Stanza 37.
Correa pel monastero una pazzia: che si tenea per moral lavorio l'opre e i romanzi del poeta Marco, ed ogni tavolin n'era giá carco.
Le universali letture erano allora le opere del Chiari e del Goldoni.
Dalla ottava 37 all'ottava 46 è censura derisoria de' romanzi del
Chiari.
Stanza 71.
… Grazie a Salomone ed a Rutilio, in altro sono dotto… Servo mille persone del paese con la mia Fiorentina e Bolognese.
Rutilio Benincasa fu astronomo, e l'opere sue sono molto studiate e considerate da' giuocatori al lotto. La Fiorentina e la Bolognese sono di que' molti libriccini di cabale numeriche, che si vendono agl'infiniti creduli giuocatori del lotto. Quanto agli anacronismi dell'ottava 71, si è detto che l'autore della Marfisa volle usarli a suo talento per render chiara la sua allegorica intenzione, senza curarsi delle stitiche censure in tal proposito.
Stanza 8.
e dice:—Eccovi alfin quel del formaggio…
Proverbio comune in Venezia. «Trovar quel del formaggio» vale abbattersi a chi sa castigare.
Stanza 9.
ne sa quanto un Macope ad una cura…
Macope fu celebre professore di medicina nella universitá di Padova.
Stanza 79.
No, che non v'è ne' romanzi del Chiari sorpresa a quella di Marfisa eguale…
L'abate Chiari nelle sue commedie e nei suoi romanzi studiava e procurava sempre di sbalordire gli spettatori e i lettori colle sorprese maravigliose e gli accidenti impossibili.
Stanza 102.
Certi Macmud dipingono prudenti, molto teneri in cor, molto pietosi, certi bey, filosofi saccenti, moralisti, divoti e generosi; e per converso cristian malviventi, marchesi ladri e conti pidocchiosi…
Son prese di mira le commedie del Goldoni, e particolarmente le Persiane e le altre commedie turche, che correano in quel tempo ne' teatri di Venezia.
Stanza 108.
perocché certo e' le sapeva tutte e aggiunge alle dottrine di Margutte.
Margutte è il personaggio d'un ateo, ladro, ghiottone e colmo di tutti i vizi, dipinto anche con troppa vivacitá e imprudenza, ma felicemente e comicamente, da Luigi Pulci nel suo poema del Morgante.
Stanza 5.
Solo i Marchi e i Mattei da San Michele hanno alcune cagion d'irritamento…
L'ottava contiene una ingenua e cordiale veritá, non essendo l'autore della Marfisa (sempre risibile e scherzevole) stato avverso al Chiari ed al Goldoni che per uno zelo letterario d'opinione, in accordo co' suoi soci accademici detti granelleschi, e per la sovversione che facevano gli scritti di quelle due persone, sviando la gioventú dallo studio della nostra lingua legittima litterale, dalla eloquenza, dalla varietá dello stile e dalla colta poesia italiana ne' differenti generi.
Stanza 23.
con que' meschin cinque ducati al mese…
Gli ufficiali militari dell'armata veneta, che venivano riformati dopo il loro servizio, restavano con la sola paga mensuale di venti soldi al giorno.
Stanza 32.
Dal suo procurator corre volando. Ecco un messo togato viene ansante, che intima una gran pena al conte Orlando e nel casotto sequestra il gigante…
Dalla ottava 32 a tutta la ottava 35 l'autore della Marfisa dá un'idea al lettore de' raggiri interminabili usati da' causidici del fòro veneto.
Stanza 49.
da que' che balzan giú da' campanili…
I suicidii erano divenuti frequenti in Venezia. Parecchi disperati avevano scelta la morte volontaria con lo scagliarsi dall'enorme altezza del campanile di San Marco, e morivano stritolati e stracciati.
Stanza 56.
a' mascalzoni affamati e assetati…
A Venezia vivono molti viziosi scioperati della plebaglia vendendo relazioni a stampa, vere, inventate o false, bandi e notizie di rei giustiziati, gridando con voci fastidiose e correndo per tutta la cittá, anche prima che l'infelice condannato abbia subita la sentenza, per trarne sollecitamente danari da spendere alla taverna.
Stanza 67.
la favola di Mida e del barbiere…
La favola di Mida, re di Frigia—che aveva le orecchie d'asino e le teneva occulte per vergogna, e del barbiere che lo tondeva e che, pena la vita, non doveva palesare il secreto; il quale si sfogò palesandolo in un buco della terra, dal quale buco spuntarono canne, che percosse dal vento suonavano: «Mida ha l'orecchie d'asino», palesando cosí la sciagura di Mida,—è favola nota.
Stanza 89.
Si leggea nel lunario da Bassano…
Altro anacronismo dell'arbitrio dell'autore della Marfisa. Moltissimi lunari degli anni successivi, che si vendono in Venezia, giungono dalle stamperie di Bassano o di Trevigi.
Stanza 114.
Non eran di Parigi i bei talenti…
Sotto il nome di Parigi e di Francia s'interpreti sempre Venezia allegoricamente.
Stanza 116.
Marco e Matteo non eran piú scrittori, ché di seccar le coglie erano rei…
Le opere teatrali del Chiari erano rifiutate da' comici, perché non facevano piú alcun effetto in iscena, ed egli s'era ritirato a Brescia. Il Goldoni era passato a Parigi a cercar quella fortuna che in Venezia s'era per lui raffreddata.
Stanza 145.
Ecco i ministri ch'alzano il sipario, e son piú di duemila giunti in scena…
I ministri della repubblica di Venezia stipendiati e con la cieca facoltá di poter lucrare quegl'incerti, ch'essi sapevano procurarsi e far certi, erano un numero infinito.
Una parte della storia della Marfisa è data dal G. stesso, un po' nella prefazione, un po' nelle Annotazioni. Sicché possiamo risparmiarci di rifarla per intero, bastando riprenderla dal punto in cui l'autore l'ha lasciata.
Scritti dunque i primi dieci canti nel 1761, e gli ultimi due, nonché dedica e prefazione, sette anni dopo (cioè nel 1768), il G. tenne chiuso per altri quattro anni il ms. nel suo cassetto, prima di darlo alla luce. Infatti soltanto nel 1772, con la falsa data di Firenze (ma con l'aggiunta: «E si vende da Paolo Colombani in Venezia, all'insegna della pace»), venne pubblicata per la prima e sola volta: La Marfisa bizzarra, poema faceto, nelle opere del conte CARLO GOZZI tomo VII. È un volume in-16 di 398 pagine, oltre una pagina innumerata di Errata-corrige, nella quale, a dir vero, non è elencata neppure la metá dei molti errori di stampa ond'è deturpata la non bella edizione.
Del lavoro il G. non restò troppo soddisfatto: gli pareva, a suo dire, macchiato «di sbagli ed errori, i quali accrescono bruttura alla naturale bruttura del poema»[1]. Perciò, a libro finito, e, come pare, dopo il 1797[2], vi tornò su, e ne apparecchiò una seconda edizione, tempestando di correzioni i margini d'un esemplare stampato, intercalando alcune giunte e portando alle proporzioni di vere e proprie Annotazioni le poche e brevi note sparse qua e lá nell'edizione Colombani.
Questa nuova edizione avrebbe dovuto esser costituita, secondo il desiderio dell'autore, da due piccoli volumi[3], e recare il titolo: La Marfisa bizzarra, poema faceto del conte CARLO GOZZI veneziano, cogli argomenti del medesimo autore. Seconda edizione, ricorretta, emendata e accresciuta, giuntevi alcune annotazioni al fine d'ogni canto.
Senonché la desiderata ristampa, per ragioni a noi ignote, non poté mai aver luogo, vivente il G. Dopo la sua morte (1806), l'esemplare da lui postillato, venuto in ereditá al nipote Carlo (figlio di Gasparo), fu da quest'ultimo dato temporaneamente in prestito al segretario Gradenigo, che s'affrettava a ricopiare giunte e correzioni su d'un altro esemplare, alla fine del quale annotava: «1806, 14 luglio. Ho io sottoscritto terminato di copiare le aggiunte e le correzioni fatte dal chiaro autore sull'originale che potei avere scritto dal di lui carattere. GRADENIGO». Quasi nel medesimo tempo (1809) Angelo Dalmistro, grande ammiratore del Gozzi, s'accingeva a curar lui la nuova edizione della Marfisa. Ottenne in prestito l'apografo Gradenigo, lo apparecchiò per la stampa, aggiungendovi di sua mano altre correzioni, trovò anche lo stampatore: non restava altro (cosa che a lui sembrava facile) che il giá ricordato erede del Gozzi accordasse il necessario consenso. «O il nipote dell'autore—scriveva da Montebellun, il 5 febbraio 1809, per l'appunto al Gradenigo—la fa stampare egli, o facciola stampare io: in ogni maniera io ne sarò contento, purché un sí ricco dono si faccia all'Italia, che da qualche anno l'aspetta». Ma, o che il consenso non fosse stato dato o quale altra sia stata la ragione, la ristampa, disegnata dal Dalmistro con tanta fermezza di propositi, andò in fumo. Chi ci perdette piú di tutti, fu il povero Gradenigo. È vero che il Dalmistro gli aveva promesso, nella lettera avanti citata, che «l'esemplare postillato, anzi corredato di giunte, da lui favorito, sarebbe stato tenuto sotto la piú stretta custodia diurna e notturna». Senonché codesta custodia fu cosí ferocemente gelosa o (che può anche darsi) cosí sciaguratamente trascurata, che il prezioso libro, invece di ritornare nelle mani del legittimo proprietario o del figlio di lui, il nobile Vittore Gradenigo (che della non avvenuta restituzione si lagnava col Cicogna), passò non si sa né come né quando (forse prima, forse dopo la morte del Dalmistro), in quelle di Bartolomeo Gamba. Dal Gamba a sua volta lo ebbe in prestito nel 1840 Emanuele Cicogna, il quale ricopiò correzioni e giunte su di un terzo esemplare, che, giunto fino a noi, si conserva nel Museo civico e Correr di Venezia (Libri postillati, II 17).
Un solo punto oscuro resta in questa narrazione, che abbiamo riassunta da un proemio aggiunto dal medesimo Cicogna all'esemplare sopra menzionato.
Il Cicogna annota: «Oggi, primo giugno 1856, ho veduto presso il signor conte Carlo Gozzi, figlio di Gaspare, quondam Almorò [ossia presso il nipote dell'ultimo dei fratelli del Nostro] l'originale, stampa e manoscritto della Marfisa, ch'io e Tessier credevamo perduto, ma che fu sempre gelosamente conservato nella famiglia di Carlo, ed oggi è appunto nelle mani del consigliere Carlo Gozzi con altri autografi del chiarissimo autore». Ora, ebbe il Cicogna l'idea e l'agio di collazionare la copia, da lui estratta dall'apografo Gradenigo, sull'autografo gozziano? Nessun documento abbiamo rinvenuto che ci permetta di dare, a codesto interrogativo, una risposta affermativa o negativa. C'è quindi solamente da augurarsi (e anche da supporre, data l'accuratezza e la scrupolositá ben note del Cicogna) che le cose sieno andate nel modo criticamente piú desiderabile; in guisa che perfetto equipollente dell'autografo gozziano sia riuscita la copia del Cicogna, che, in mancanza di meglio, abbiamo dovuto prendere a fondamento della presente edizione.
Confrontata con l'edizione Colombani, essa, oltre molte varianti formali, che non è il caso d'enumerare, presenta le seguenti aggiunte:
a) Canto I—ottave 51-2, 66-7, 72-8. b) Canto V—ottave 84-100. e) Canto XII—ottave 118-32, 139. d) Tutta l'appendice[4].
Inoltre quelle che nell'edizione Colombani, per un assai palese errore d'impaginazione, erano le ottave 12-5 del canto quinto, presero nell'esemplare postillato il posto che loro toccava logicamente, il posto cioè delle ottave 8-11; e cosí all'inverso.
Non ci pare necessario di fare troppe parole sui criteri, comuni a tutti i volumi degli Scrittori d'Italia, seguiti in questa ristampa. Basta avvertire che, oltre alla correzione di qualche svista tipografica sfuggita al medesimo G., abbiamo rettificato anche alcuni evidenti errori di distrazione, se non, anche essi, meramente tipografici, che guastavano la struttura del verso (p. es., «avea» e simili per «aveva», e all'inverso; «lor» e simili per «loro», e all'inverso, ecc. ecc.).—E neppure mette conto di estenderci in particolari bibliografici. Purtroppo la Marfisa, non ostante i suoi innegabili pregi di vivezza e freschezza, che ne costituiscono uno dei migliori poemi eroicomici della letteratura italiana (tale anzi da esser collocata assai piú in alto di lavori congeneri, i quali godono da secoli reputazione troppo superiore ai propri meriti), non ha allettato finora nessuno studioso a farla oggetto d'uno studio critico. Bisogna dunque contentarsi dei magri accenni che si trovano in lavori d'indole generale intorno al G., giá catalogati quasi tutti in bibliografie speciali, ricordate dal Prezzolini nella Nota alla sua edizione delle Memorie inutili.
Nostro dovere imprescindibile è invece quello di manifestare tutta la nostra gratitudine al dr. Ricciotti Bratti del Museo civico e Correr di Venezia, il quale, assumendosi cortesemente per noi la parte piú delicata e ingrata del lavoro, ossia compiendo lo spoglio delle giunte e varianti dell'apografo Cicogna, ci ha permesso di riprodurre la forma definitiva voluta dal G., o almeno quella che, giusta i documenti che si posseggono, deve essere ritenuta tale.
[1] Gamba, in Biografie degli italiani illustri del DE TIPALDO, III (Venezia, 1836), 339 n.
[2] «Osservo che le giunte e annotazioni del G. devono essere state da lui fatte dopo il 1797, cioè dopo la caduta della repubblica, se non tutte almeno in parte, giacché nella annotazione alla stanza 46 del canto quinto si parla del bucintoro come cosa ch'era ricchissima». Cosí il Cicogna, nel suo proemio piú appresso citato.
[3] Quest'esemplare preparato per la stampa era «diviso in due tometti, legati in rustico, con carte frammezzate… Il primo tometto aveva pagine 226 tra stampa e ms., il secondo… pur pagine 226…; senonché per errore era scritto 126» (Cicogna, loc. cit.).
[4] Una parte di questa, e cioè le Annotazioni, fu giá pubblicata da G. B. MAGRINI, a pp. 275-98 de I tempi, la vita e gli scritti di C. G., aggiuntevi le sue annotazioni inedite della Marfisa bizzarra (Napoli, D'Angelilli, 1887). Il resto (e cosí de pari le ottave aggiunte) comparisce nella nostra edizione per la prima volta.
A Sua Eccellenza la signora Caterina Dolfino
cavaliera e procuratoressa Tron, Carlo Gozzi pag. 3
Prefazione scritta tra 'l dubbio che sia
necessaria e 'l dubbio che sia inconcludente » 7
Canto primo » 13
» secondo » 35
» terzo » 57
» quarto » 77
» quinto » 99
» sesto » 133
» settimo » 159
» ottavo » 183
» nono » 205
» decimo » 225
» undecimo » 247
» duodecimo ed ultimo » 281
Appendice
I—Lo scrittore della Marfisa a' suoi lettori umanissimi » 323
II—Annotazioni
Avvertimento » 329
Annotazioni al canto primo » ivi
» » secondo » 332
» » terzo » 333
» » quarto » 334
» » quinto » 336
» » sesto » 338
» » settimo » 339
» » ottavo » 340
» » nono » 341
» » decimo » 342
» » undecimo » 343
» » duodecimo ed ultimo » 344