Title: Il Ricciardetto, vol. II
Author: Niccolò Forteguerri
Contributor: Giovanni Procacci
Release date: May 21, 2019 [eBook #59569]
Language: Italian
Credits: Produced by Barbara Magni and the Online Distributed
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CLASSICI ITALIANI
NOVISSIMA BIBLIOTECA
DIRETTA DA
FERDINANDO MARTINI
SERIE III
VOLUME LVIII
FORTEGUERRI
IL RICCIARDETTO
CON UNO STUDIO DI GIOVANNI PROCACCI
ISTITUTO EDITORIALE ITALIANO
MILANO
[6]
Il favore che ottenne dal pubblico la prima serie della nostra BIBLIOTECA DI CLASSICI, sì da richiederne una seconda edizione già sotto ai torchi, e gli incoraggiamenti che da ogni parte ne vennero al nostro Istituto, ci inducono a proseguire nella impresa, guidandoci con più larghi criteri a maggiori intendimenti. I quali forse non consentirebbero che alla raccolta si mantenesse l'antico titolo di BIBLIOTECA DI CLASSICI; ma noi lo manterremo: chè se non a tutti gli scrittori ai quali daremo luogo, si conviene quell'appellativo com'è comunemente inteso, tutti meritano d'essere divulgati e ancor letti. E la Biblioteca nostra se non di classici, certo di scrittori eccellenti, conterrà così quanto la letteratura italiana ha in tutti i secoli di più pregiato e famoso.
L'ISTITUTO EDITORIALE ITALIANO
[7]
NICCOLÒ FORTEGUERRI
IL RICCIARDETTO
(VOLUME II)
[9]
I paladini ascoltano il discorso
Del tavernaro con pallida gota:
Pur coraggiosi con le zampe d'orso
Salgono il monte del crudel Nicota.
Gli gonfiano la moglie, e dan soccorso
Alle lor donne, nè temono un jota:
E Rinaldo ed Orlando in compagnia
S'ubbrïacan ben bene all'osteria.
Io credo, donne, a cicalar da insano,
Quando veggo le cose de' mortali
Talor soggette a qualche caso strano,
Che al vecchio Giove si rompan gli occhiali,
O che in quel punto gli cadan di mano,
E che allora ci assalgan tutti i mali:
Come fa il lupo che al destriero sbruffa
L'acqua negli occhi, e nel collo l'acciuffa.
Perchè non so capir che gusto s'abbia
Egli, che tanto amico è del piacere,
D'amaro fiele bagnarci le labbia,
Perchè il buon vino non si possa bere;
E dove è pace, seminar la rabbia;
E di cavalli e d'aste e di bandiere
Coprire i piani; e le messi bramate
Vedere ove percosse, ove bruciate.
[10]
E le procelle e l'altre traversìe,
Che ci vengono sopra a tutte l'ore,
Calcoli, gotte, ed altre malattìe
Che c'empiono d'affanno e di dolore,
Creder dovrò ch'egli dal ciel c'invìe?
E pur le manda per segno d'amore;
Anzi che sono agli uomini da bene
Sospette l'allegrezze e non le pene.
Perchè a guisa di quei che fan gli arazzi,
A chi vede il rovescio, e non il dritto,
E' par che faccian cosacce da pazzi.
Qua miri un storpio che di là sta ritto;
Qua carboni, e di là sono topazzi;
Qua un occhio brutto, un mostaccio sconfitto,
Di là begli occhi, bel viso, bel labro:
Tali son l'opre dell'eterno Fabro.
E intanto ho detto qualche scioccherìa,
Perchè troppo dispiacquemi il frastuono
Che turbò la dolcissima allegrìa
De' fidi amanti. Avrìa voluto un suono
D'arpe e di cetre, e simile armonìa,
Di che le Grazie fanno largo dono
A chi gliel chiede; e non trombe e timballi,
O feroce nitrito di cavalli.
Nicota, il padre del guerriero ucciso,
Ebbe da quei che in fuga furon posti
Dai tre Franchi guerrier, subito avviso
Com'essi erano forti e ben disposti;
E come avevan del lor sangue intriso
Il suolo; e che non è uom che si accosti
A loro; tanto grande è la paura;
E che fuggendo solo uom s'assicura.
[11]
Temette il vecchio del suo Serpedonte;
E messi insieme seimila destrieri,
Egli per duce lor si mise a fronte:
E come fendon l'aria gli sparvieri,
O come sasso che cade dal monte,
O come volan li nostri pensieri;
Così van quelli in su la molle arena,
E presti sì che la segnano appena.
E questo ne avvenìa, perchè stregone
Esimio era Nicota, e la mogliera
Faceva la medesma professione;
Chè in quei paesi la magïa nera
Ha spaccio assai, e se ne dà lezione;
E v'è una scuola di buona maniera
Più vasta ancor del Collegio Romano,
E vi s'affolla il popolo africano.
Ricciardetto, Nalduccio ed Orlandino
Si scossero a quel suono, e in là rivolti
Videro il polverone assai vicino;
Ma benchè quasi all'improvviso còlti,
Non si smarriro neppure un tantino,
Ma tutti e tre insieme insieme accolti
Andaro incontro al corso de' destrieri
Col ferro ignudo, dispettosi e fieri:
E le lor donne al Cavalier del Pianto
Diero in custodia, e insieme lo pregaro
Ch'egli con esse s'invïasse intanto
Verso del porto: e ciò gli fu discaro;
Chè avrìa voluto a' tre guerrieri accanto
Fare ancor egli alcuno atto preclaro;
Ma pur s'acqueta, chè chiaro comprende
Che alcun non v'è che le donne difende.
[12]
Ma fatti non avea dugento passi,
Che mille gli son sopra coi cavalli;
E chi con spade e chi con dardi e sassi
Lo fere, e va gridando: Dàlli, dàlli.
E mentre che da lui difesa fassi,
Ed al colpir non si pone intervalli,
Le tre donne son prese, e via portate
Sovra i destrier con gran velocitate.
I paladini intanto fanno cose
Non più vedute o più sentite dire.
Fatte le arene son sì sanguinose,
Che una barchetta sopra vi può ire.
Nè sono queste iperboli ampollose,
Che soglion dirsi affine d'ingrandire;
È mera storia, ed io punto non dubito
Che il sangue s'era alzato più d'un cubito.
Già di cavalli e più di cavalieri
Tagliati e morti v'è copia sì grande,
Che alzar se ne potrìano i monti intieri;
Onde convien che il resto si disbande,
Ed alla fuga dassi volentieri.
Ricciardo di piacer lagrime spande,
E seco gli altri due fanno lo stesso,
E van correndo alle lor dame appresso
Ma non sì tosto giunsero là dove
Il Cavalier del Pianto egro giacea,
Che seppero l'acerbe e triste nuove,
E chiamaron Fortuna iniqua e rea,
Tiranno il Fato, e dispietato Giove.
Prese Ricciardo, conforme potea,
Il cavalier ferito e mezzo morto
In su le spalle, e lo condusse al porto;
[13]
E mentre un buon cerusico lo cura,
Domanda all'oste il mesto Ricciardetto,
Qual sia del vecchio rege la natura,
Per sapere qual possa avere effetto
Delle tre donne l'acerba cattura.
Rispose l'oste: Egli è un uom maladetto
Che sta con gli demonj e gli aversieri
Tutte le notti e tutti i giorni intieri:
Ed ora li fa fare il muratore,
Ed ora il fabbro, ed ora il legnajuolo;
Chè fabbricar gli ho visto in sol due ore
Torre tant'alta, che d'aquila il volo
Vi giunge appena; e dico il ver, signore:
Ed ho veduto ancor, sendo egli solo,
Far nascer 'n un balen fanti e cavalli,
E mutar l'acque in lucidi cristalli.
Ma la sua moglie è più dotta di lui,
E tristo chi le càpita alle mani.
Io lo so più d'ogni altro, il quale fui
Da lei trattato in modi acerbi e strani;
Perchè, mercede a' brutti incanti sui,
Cangiò me insieme con certi villani
In mastino, e ci fe' poi tutti porre,
Miseri, a guardia dell'orrenda torre:
Dove son tante donne e cavalieri,
Che in essa quasi non hanno più loco.
Tal racconto non odon volentieri
I paladini; e con tremante e fioco
Accento Naldin dice: E v'è chi speri
Lassuso entrare? E se' così da poco,
Ricciardetto ripiglia, che ti vegna
Dubbio d'entrare in quella torre indegna?
[14]
Io là solo vogl'ire, e solo voglio
Tutta disfar la fabbrica crudele.
Sarà più dura d'adamante o scoglio?
Ma sia come si voglia, un cor fedele
Pieno d'amor si ride d'ogni orgoglio
Di rea fortuna; e il suo tossico e fele
Volge in dolce bevanda a suo talento,
Se la sprezza, e non ha di lei spavento.
Mi duole sol che nell'oscura grotta
Dell'isola perdei le virtù tante
Che mi lasciò Despina; chè avrei rotta
Tutta la porta e il cardine sonante,
Ed in cener la torre ancor ridotta.
Ma da me solo sarò io bastante
A trar Despina e le vostre consorti
Da quella torre e que' luoghi sì forti.
Sorridendo Orlandin riprese allora:
A cuor, cugino mio, tutti stiam bene;
Ma se niun della torre uscirà fuora,
Che far potremo? seminar le arene,
E tendere le reti alla fresca ôra.
Disse l'ostier: Costui ragiona bene;
Chè non ha porta, come questi crede,
La torre, e a lei non si va già col piede.
Draghilla, la mogliera di Nicota,
Tutti i prigioni a volo vi conduce.
Una strada v'è solo a tutti ignota,
Che potreste tentare; ma v'è duce
A certa morte. Non m'importa un jota
Perder del giorno questa odiata luce
(Ricciardetto soggiunge), se l'amata
Vista del mio bel sole or m'è celata.
[15]
E pregan tutti e tre quel più che sanno
L'ostier, che mostri loro la maniera
Di sè trarre e le lor donne d'affanno.
Ond'egli vôlto a lor con trista cera
Disse: Giacchè vi piace il vostro danno,
Nè vi spaventa quell'ultima sera,
Dico la certa morte non temete,
L'orecchie attente al mio parlar porgete.
Lungi da questa torre un miglio e mezzo
Evvi un gran monte, tutto quanto ignudo,
Di vivo sasso, e n'è scabroso un pezzo,
Un pezzo rotto; e qui tremendo e crudo
Precipizio è, che a dirlo n'ho ribrezzo;
Qua liscio è sì, che splende come scudo:
E striscian per quei sassi a mille a mille
Draghi, che hanno carboni per pupille.
Ma il peggio egli è, che il monte tutto quanto
Bagnato è da una fonte cristallina;
E quell'acqua si gela e indura tanto,
Che una formica su non vi cammina.
Ed è ciò fatto tutto per incanto
Da quella strega perfida assassina;
Onde non so come salir possiate
Sopra il monte, se voi non ci volate.
Ma dato ancor che voi salghiate suso,
Dell'opera vi resta a fare il meglio.
Voi troverete di gran ferri un chiuso,
Alla cui porta incontrerete un veglio,
Non già fatto di carne, e armato all'uso
D'altro guerrier; ma tiene in mano un speglio,
Che chi lo mira divien sasso vero;
Ed egli è schietto bronzo tutto intero.
[16]
Con la man destra ei ruota un suo flagello,
Che in fine ha cento palle da cannone:
Dà morte, ed in un tempo fa l'avello;
Tanto va sotto terra quel frustone.
Con la sinistra tien l'orrido e fello
Specchio che fa la gran mutazïone.
Vincer si deve ed atterrar costui,
Col far che l'occhio destro gli s'abbui:
Chè quel solo ha di carne; ma lo tiene
Difeso sì, che l'opera ella è vana.
Ucciso questo, passar vi conviene
Nel chiuso, e trapassare una fiumana
D'ardente pece, ove nuotan balene
C'hanno mostaccio di figura umana.
Di questo passo non so che mi dire,
Se non che vi farà certo morire.
Ma vo' che lo passiate, e che benigna
Insino a lì vi conduca la sorte.
Che fia di voi, allor che alla maligna
Stalla anderete, e su le dure porte
Vedrete un mostro con la faccia arcigna,
Di cui il mondo non ha bestia più forte,
Fido guardiano de' cavalli alati,
Che quivi per la strega stan legati?
Se l'atterrate, fortunati voi:
Montate su gli aligeri destrieri,
E su la rocca trapassate poi;
E datevi que' spassi e que' piaceri
Che dona Amore a' fidi servi suoi.
Ma voi vedete, oimè, per quai sentieri
Correr v'è d'uopo; e mi dispiace molto
Averveli mostrati, e fui ben stolto.
[17]
Non si rallegra tanto il cacciatore
Che perduta abbia la bramata fera,
Se qualche villanello traditore
Gl'insegna il bosco ove fuggita ell'era;
Sì come manda ognun per gli occhi fuore
Segni di gioja e d'allegrezza vera;
E si abbracciano insieme e si fan festa,
E la tardanza solo è lor molesta.
Quindi al ferito, che già meglio stava,
Chiedon licenza, e il pregan che si fermi
Nel porto almen per tutta quella ottava,
Acciò che ben conforti i membri infermi.
Un po' quegli li prega, un po' li brava;
Ma a lungo andar non può tenerli fermi;
Si parton dunque i tre pregiati eroi;
Ma quanto se n'avranno a pentir poi!
In questo mentre donate a Draghilla
Avea Nicota le belle fanciulle
(Di che s'ella ne gode e n'è tranquilla,
Pensatel voi) acciò che si trastulle,
E il duolo acqueti onde s'affligge e strilla,
Perchè il caro figliuolo ucciso fulle:
Ma guai a loro se pensato avesse
Che mogli agli uccisori eran le stesse.
Nulla di meno per più sicurezza
Le fa salir sopra i cavalli alati,
E seco le tragitta alla fortezza,
Ed ha paura che l'aria le guati.
Più di ciascuna ella Despina apprezza,
E le fa de' discorsi amici e grati
Per addolcir la doglia che l'accora;
Indi le lascia, e se ne torna fuora.
[18]
Un bel giardino in quella torre v'era,
Che delle stanze lor veniva al piano,
Bello così, ch'eterna primavera
Tutto il copriva: il vago tulipano
V'era e la rosa, e la bellezza intera
Degli orti, la giunchiglia; e v'era il vano
Narciso, ed a turchin tutto dipinto,
Le delizie d'Apollo, il bel giacinto.
Di bianchi gelsomini e d'amaranti,
E d'anemoli varj e di vïole
Tanta ell'era la copia; ed eran tanti
I vasi dove l'odorosa prole
Stava raccolta, che sol per incanti
Tanta abbondanza può vederne il Sole.
Ma che dirò degli alberi, che tutti
Stavan piegati per soverchi frutti?
Le belle fonti e l'acque cristalline,
Che uscivano da loro in tante guise,
Chi potrà dire e pervenirne al fine?
Là sembran fiumi, e qua tanto divise,
Che pajon nebbia, oppur minute brine.
Là con tal arte la maga le mise,
Che tuonano, e poi qua meno severe
Danno con varj suoni almo piacere.
In somma di rossor coprasi il volto
Tivoli altero pe' giardini Estensi;
E il mio Frascati non parli più molto
De' suoi; chè un bel tacere a lui conviensi
In paragon di quello, ove raccolto
È quanto piacer puote all'alma e a' sensi.
Non l'ho visto; ma a quel ch'io mi figuro,
Giove un più bello in ciel non l'ha sicuro.
[19]
Quivi le tre donzelle lagrimose,
Ragionando di loro aspra fortuna,
De' loro amanti sempre pensierose
Givano all'aria chiara e all'aria bruna:
E per quante dolcezze in esse pose
L'incantatrice, non ve n'ha pur una
Che le riscuota, e dal pianger le toglia;
Tanto era grande ne' lor cuor la doglia.
Passati alcuni giorni, ecco ritorna
La maga, ma cangiata assai d'aspetto;
Torbida, oscura, e gli occhi suoi contorna
Un lividume, che di quel che ha in petto
Odio e rancor, che tutta la frastorna,
È segno: e ben ciò videsi in effetto,
Chè in un tratto da' suoi spirti infernali
Le fa nudare, e batter con de' pali;
E con catene a' piedi ed alle mani
Le fa legare a questa e a quella pianta:
Poi dice loro che cibo de' cani
Vuol farle il dì seguente; e ancor si vanta
Che l'ossa loro ed i minuti brani
Vuol recar là, dove recisa e infranta
È del caro figliuol la salma amata.
E mentre sì ragiona, aspra le guata.
Indi ripiglia: De' vostri mariti
A tempo suo avrò le pene ancora.
E i bei giardini e i begli orti fioriti
Cangia in dirupi, e poi vassene fuora.
Le giovinette co' volti smarriti
Aspettan timorose il punto e l'ora
Che vengano i mastini a farne brani,
E danno pianti disperati e vani.
[20]
I cavalieri intanto a tutto corso
Vanno cercando l'incantata torre:
Quando ecco pel cammin trovano un orso
Che li assale rabbioso. A lui ne corre
Orlandino, e la fera con un morso
Pensa atterrarlo; ma gli sa ben porre
La spada il buon garzon tra il capo e il collo,
Sì che l'uccide come fosse un pollo.
Ed eccone altri due dalla foresta
Per vendicare l'ucciso compagno;
Ma gli altri due lor dieder su la testa,
E lor fecero far tristo guadagno.
Degli orsi uccisi ebber gran gioja e festa,
Tanto più che di sangue fu sparagno:
Ma quegli orsi non son già come i nostri;
Nè come sieno, è facil ch'io vi mostri.
Hanno le zampe lor sessanta artigli,
Ed ogni artiglio è siccome un uncino;
Nè acciajo avvien che mai sì s'assottigli,
Come son le lor punte; onde Naldino
Disse: Compagni, è ben ch'io vi consigli
Ad abbracciar questo ajuto divino.
Io dico, scortichiam questi animali,
E vestiamcene a guisa di piviali;
Ch'io tengo certo che il gelato monte
Noi saliremo assai piacevolmente
Con queste ugnacce. Chinaro la fronte
Gli altri approvando il detto, e prestamente
Comincian l'opra con le mani pronte;
E vestiti da orsi realmente
Seguono la lor via, e spesso spesso
Van camminando con altri orsi appresso.
[21]
Anzi dice l'istoria una pazzìa,
E forse sarà vero: che un orsaccio,
Che l'orsa amò che Nalduccio coprìa,
Baciò più volte il peloso mostaccio,
E il dorso con le granfie gli ghermìa,
E che voleva fare un suo fattaccio;
E che Nalduccio preso in quella guisa
Facea morir quegli altri dalle risa.
E soggiunge di più, che gli convenne
L'estro soffrir della lussuria orsina.
Ma questi sono scherzi delle penne,
Che scrivon ciò che in lor testa cammina.
Ma se il fatto fu falso, o pur se avvenne,
A me che importa? Ma ella è già vicina
L'aspra montagna, e si vede la torre,
Dove han desìo color d'andarsi a porre.
E salgono quel monte così presto,
E facile così, ch'egli è un portento;
Nè veruno animale ebber molesto,
Chè contro l'uomo solo han rio talento.
Salito il monte, ecco il chiuso funesto
De' ferri, e il varco pieno di spavento,
Ove sta il veglio col flagello in mano,
E lo specchio che impietra da lontano.
Ma gli orsi accorti camminan bel bello
Pel bosco, ove son pur tigri e leoni;
Ed Orlandino s'accosta al cancello
Da quella parte ove stan penzoloni
Le grosse palle del duro flagello:
E perchè è ripieno d'invenzioni,
Gittò un poco di tabacco spagnuolo
Dalla parte ove il veglio ha l'occhio solo.
[22]
E gli fu il vento cotanto cortese,
Che glie lo ricoperse tutto quanto.
Ond'ei getta lo speglio, e le difese
Che ha intorno all'occhio, allor mette da canto,
E lo stropiccia e stira, e fa palese
Che assai gli duole, e versa giù gran pianto:
Ed Orlandino allora il tempo prende,
E con la spada quel sol occhio offende.
Onde l'uomo di bronzo a terra cade,
E al suo cadere ogni fiera dispare.
Allor disse Nalduccio: E che più accade
L'uso di queste pelli da conciare?
D'uopo è nell'avvenir menar le spade,
Non salir monti ed un uomo acciecare.
Risposer gli altri: Tu favelli bene,
Tanto più che ci scaldano le rene.
E trattasi di dosso ognun sua pelle,
Vanno a cercar l'orribile fiumana,
Dove a guisa di gamberi e sardelle
Son le balene dalla faccia umana.
Già il fumo e il puzzo di quell'onde felle
Si vede e sente; e dell'impresa strana
I paladini stanno con pensiero,
E con qualche timore, a dir il vero.
Perch'io non son di quei capi sventati,
Che per mostrare il militar valore
Faccia senza cervello i miei soldati;
Perchè questa è sciocchezza e sommo errore:
Ch'altro egli è l'esser vili e spaventati,
Ed altra cosa un discreto timore.
I primi son poltroni; e sono gli altri
Arditi e forti, e insieme saggi e scaltri.
[23]
Vêr la fiumana dunque van bel bello,
Pensando in tanto al modo di guadarla.
Dice Nalduccio ad Orlandin: Fratello,
La pece quando bolle, è un mal toccarla;
Nè le balene sono un ravanello.
Disse Orlandino: Chi non vede e parla,
Spesso s'inganna; giunghiam prima al fiume,
E poi consiglieremci a miglior lume.
In così dir son giunti alla riviera,
E parea la fiumana un caldajone,
Così forte bolliva; e per la nera
Pece sfatta nuotava un milïone
Di balene, che ognuna lunga ell'era
E grossa poco men d'un galeone.
Disse Ricciardo: Un miracol di Dio
Vuolci a guadar fiume sì tristo e rio.
E van correndo per la riva infame,
Per veder se trovassero altro passo;
Ma non trovan conforto le lor brame,
Chè lo stesso è nel mezzo, in alto e a basso.
Dice Nalduccio: O ve' che belle dame!
(Guardando le balene) o ve' che spasso
È andar con esse a cena ed a dormire!
E s'accosta alla riva in così dire.
Ed ecco una di loro che vien via
Con un mostaccio che pare una botte,
E lui saluta con gran cortesìa.
Disse Nalduccio: Dovreste esser cotte
Al gran bollir di questa pece ria.
E con la spada le dà delle botte;
Ma non fa nulla, e il pesce non si move,
Siccome esposta a' venti arbor di Giove.
[24]
Corpo di Giuda, disse Ricciardetto,
Qui noi non farem nulla: un modo solo
C'è da tentare, e ne spero l'effetto.
Ma perchè non n'abbiam vergogna e duolo,
È forza che ubbidiate ambi al mio detto.
Disse Orlandino: Poco mi consolo
Di quanto ci prometti; chè non veggio
Conforto alcuno, e temo ognor di peggio.
Io penso, Ricciardetto allor riprese,
Colà tornare, dove giace il morto,
E meco qua condurre quell'arnese
Che impietra ognuno, e per tal via conforto
Recarvi e terminar queste contese:
Ma vi consiglio, vi prego e vi esorto
A volervi bendare, acciò non sia
Vostra sventura la prudenza mia.
E per più sicurezza di sua mano
Benda prima Orlandino, e l'altro poi;
Ed esso se ne va da lor lontano,
E guarda più che puote a' fatti suoi.
Vede lo speglio, ch'era intero e sano,
Tutto fasciato di ben grossi cuoi
Giacer su l'erba; ond'ei lo prende, e vola
A' suoi compagni, e parla e li consola;
E dice che stien fermi ancora un poco:
Ed egli su la riva intanto sale,
E di que' pesci si prende un bel giuoco,
Ch'ora lor tira un sasso, ora uno strale;
E tutto fa, perchè di sdegno il foco
Le accenda, e invogli a fargli qualche male:
E in fatti non andò guari, che tutte
S'alzâr sul fiume minacciose e brutte,
[25]
Ricciardo allor, siccome il cacciatore
Che va d'inverno a frugnolar pel bosco,
Che offende con quel subito splendore
L'augelletto che dorme all'aer fosco,
Indi a sua posta se ne fa signore:
Così per quella pece e per quel tosco
Frugnolava Ricciardo le balene;
Onde impietrirsi a ciascuna conviene.
E perchè qualche caso non succeda,
Che alcun di lor si guardi nello speglio,
All'atro fiume egli lo diede in preda:
E questo, al parer mio, certo fu meglio.
Sbenda poscia i cugini, e che s'inceda
Per la fiumana, alla barba del veglio,
Comanda; e primo scende allegramente
Su' pesci, fatti sasso veramente.
E andando d'uno in altro, presto presto
Giunsero all'altra riva assai contenti.
Or qui (disse Ricciardo) a fare il resto
Rimanci, ed uscirem poscia di stenti.
Qui poco lungi è quel mostro funesto,
Di cui l'oste narrò tanti spaventi,
Fido guardiano de' cavalli alati;
Che se l'uccideremo, o noi beati!
Così dicendo, giungono a un bel prato
Tutto coperto di minute erbette:
Indi a non molto veggono un steccato,
E in mezzo a quello cinque capannette.
Vanno oltre arditi, e del mostro spietato
Ricercano col guardo; e par si affrette
Ognun più dell'usato a quella volta,
Ove la speme lor tutta è raccolta.
[26]
Ed ecco urlar la spaventosa fera,
Che ha sembianza di scimmia; ma sì grossa,
Che un topo appresso a lui è una pantera.
Di fuoco ha gli occhi, ed ha sanguigna e rossa
La faccia, ed ha la pelle irsuta e nera.
Ha mani ed ugne da fare una fossa
Di cento braccia in men d'un quarto d'ora;
Ed un codone che pare una gora.
Disse Ricciardo: Io sono di parere
Che tutti e tre noi l'attacchiamo insieme:
Le vada uno di noi dietro al messere,
Gli altri da' fianchi; ed ho ben certa speme
Che finiremla in men d'un miserere.
Eccoci giunti alle fatiche estreme;
Dopo queste vedrem le nostre spose,
Che nella torre stanno egre e dogliose.
Ciò detto, tutti e tre vanno di botto
Chi a' fianchi e chi alle spalle della bestia.
Orlandino sta dietro chiotto chiotto,
Ed è cagione ch'ella più s'imbestia;
Perchè, siccome s'affetta il biscotto,
Così tagliava a quella con molestia
Ora un pezzo di coda, or altro pezzo;
Tal che il codon s'era ridotto a mezzo.
E qualche volta su per l'orifizio
Or poneva la spada, ora la lancia;
Che, a vero dir, non gli facea servizio:
Ma avea sì lunga e così larga pancia,
Che ad uno stollo avrìa pur dato ospizio.
Da' fianchi poi i due fulmin di Francia
Gli davan colpi tali da per tutto,
Che a buon termine omai l'hanno ridutto.
[27]
Onde Naldino corre a una capanna,
E prende le pastoje e le catene,
Che a caso egli trovò sopra una scranna
Di quelle stalle; e con esse sen viene
Al mostro, e per di dietro egli s'affanna
Di legargli le zampe bene bene:
Il che gli venne fatto; e tira tira,
Tanto fe' che atterrato egli lo mira.
Di dietro allor le branche egli gli pone,
E glie le lega quanto sa più forte.
Ricciardo dice: A che farlo prigione?
Meglio è che lo finiamo, e gli diam morte.
Disse Orlandino: Per confusïone
Di quella strega che il diavol si porte,
Io vo' che veggia incatenato il mostro,
Ed abbia più terror del valor nostro.
Ciò detto e fatto, corrono alla stalla,
E trovanvi un garzon, che stupefatto
Resta in vederli, e con la faccia gialla;
Pur preso spirto: E come avete fatto,
Disse, a qui penetrar, che una farfalla
Non vi potrìa passar per verun patto?
Disse Ricciardo: Un uomo di valore
Il tutto vince, o generoso muore.
Or ci consegna gli alati destrieri;
E se tu vuoi venir nosco, pur vieni,
Chè forse avremo ancor di te mestieri.
Disse il garzone: I cieli alfin sereni,
Dopo esser stati nubilosi e neri.
Pur comincio a vedere! E selle e freni
Pone a' cavalli, e lor dà buona biada,
Perchè non si rallentin per la strada.
[28]
Ma prima che salghiate, dice loro,
Convien ch'io v'avvertisca d'una cosa.
La strega che finor fu il mio martoro,
Di queste bestie ell'è così gelosa,
Ch'oltre alle guardie che poste lor fôro,
Volle (vedete s'è malizïosa!)
Per esser certa non perderli mai,
O persi ritrovarli presto assai:
Volle, dico, che il diavol si ponesse
D'una cavalla sua sotto la coda;
E quell'odore ogni giorno spargesse,
Che dal destrier sentito, fa che il roda
Un forte amore, e per tal via corresse
Colà, dov'ella la giumenta annoda.
E di fatto, qualor m'escon di mano,
Veloci a lei sen van per l'aer vano.
Onde non so come potrem noi fare
A dominarli a nostro piacimento.
Disse Nalduccio: Li vogliam castrare?
Orlandino riprese: Io son contento;
Anzi questo è il rimedio singolare.
Ed in quel punto stesso, in quel momento
Vanno alla stalla, e fanno un serra serra,
E buttan le pallottole per terra.
Ed Orlandino fanne una collana,
E ponla al collo del mostro legato,
E scrive in una foglia di borrana:
Questo regalo a Draghilla han lasciato
I tre guerrieri della Tramontana.
Fanne salsiccia o fanne soppressato,
O ponli per gioielli a tua corona,
Chè stranti bene, perfida poltrona.
[29]
In questo mentre l'accorto garzone
Un cencio prende che serba l'odore
Della cavalla, ed al naso lo pone
De' destrieri privati dell'onore;
Nè fanno moto in nïuna regione.
Ond'egli disse con allegro core:
Salghiamo pure, e non temiam più nulla;
Chè son modesti come una fanciulla.
Erano cinque i bei destrieri alati:
Su tre saliro i forti cavalieri,
Sovra l'altro il garzone, e ad un de' lati
A lungo fren tenea l'altro destrieri.
Ed alla torre così indirizzati,
Vi pervenner più presto che sparvieri;
E videro legate, ignude e peste
Le donne loro, e dolorose e meste.
Discendono, e al garzon danno i cavalli;
E sciolte le dolcissime consorti,
De' lor vestiti quali azzurri e gialli
Le ricopriro; e degli avuti torti,
Tratte che sian da quegli angusti calli,
Sperano che vedran vendette e morti:
E in questo mentre sentono Draghilla,
Che vien per l'aria, e bestemmiando strilla.
Cela i cavalli, dice Ricciardetto
Al garzone; ed agli altri ancora impera
Che s'ascondano dentro a un fosso stretto,
Il quale appiè d'una gran pietra ivi era.
Ed egli stassi attento e circospetto
Per veder quando quella brutta fiera
Sta per calar nell'incantata torre;
Chè addosso certo l'ugna le vuol porre.
[30]
Ed ecco che veniva ignuda ignuda
Con le zinnacce sopra del bellìco;
E tanto s'affatica, che ancor suda,
E dice: Io vi vo' trarre oggi d'intrico,
Femmine sporche, puttanelle e drude
Di quei che han fede in Santo Lodovico.
Ed in ciò dir vuol discendere a terra,
E Ricciardetto pe' crini l'afferra,
E la lega per essi ad un macigno,
E allegro appella le donne cortesi,
E dice loro: A sto corpo maligno
Vo' trar viva la pelle; non intesi
Cosa peggior di lei. Con volto arcigno
Li riguarda la strega, e con accesi
Occhi di sdegno e d'ira; ma il vicino
Fuggir non puote suo giusto destino.
E chiamano il garzone, ed un cannello
Gli fanno fare; e sopra del tallone
Le danno un tagliettin con un coltello;
E postolo in quel taglio, qual pallone
Gonfiâr la strega, ovver come otricello:
Ch'era una cosa da ricreazione
Veder la rabbia e vedere il dispetto
Di lei gonfiata a guisa di capretto.
Ma la cosa da rider veramente
Fu, quando ora Orlanduccio, ora Naldino,
Montati sopra d'un sasso eminente,
Saltavan su quel misero otricino
A piedi pari; talchè finalmente
Scoppiò la botte, e andò per terra il vino:
Ed allora il garzone scorticolla,
Come fosse una rezza di cipolla.
[31]
La misera chiamava a centinaia
I diavoli a venire in suo soccorso.
Ma come il cane che alla luna abbaja,
Che il suo latrar non teme nè il suo morso,
Così di quella si prendevan baja
Le donne; ed alla fin ne fanno un torso
Col tagliarle la testa e braccia e cosce;
Ond'è ch'io stimo chi la riconosce.
Morta la strega, la torre dispare;
E gli alati destrieri tanto belli,
E che parvero a lor cose sì rare,
Con le ceste eran asini, e di quelli
Che l'insalata sogliono portare.
Donne leggiadre e cavalieri snelli,
Che stavan chiusi nel carcer spietato,
Si ritrovaron tutti in un bel prato.
Da qualcun mi potrebbe esser qui detto,
Di quei che stanno attenti alle minuzie,
Perchè la strega non ponesse a effetto
Le sue ribalderie, le sue versuzie?
Rispondo, perchè ignuda uscì del letto,
E si scordò, benchè piena d'astuzie,
Nella gonnella sotto i guardinfanti
Il libriccino de' tremendi incanti.
Ma non vo' mica render d'ogni cosa
Un'esatta ragione a tutte l'ore;
Nè fare a lui che questo scrisse in prosa,
Per certo mo' di dire, il glossatore;
E poi se questa volta fo la chiosa,
La fo perchè mi trovo oggi d'umore.
Un altro giorno mi sarò mutato,
E dirò il fatto come l'ho trovato.
[32]
Ma giacchè questi stanno allegramente,
Ricerchiam, se vi pare, un po' del conte
E di Rinaldo; e vi ritorni a mente
Come imbarcaron con le voghe pronte
Di vendicare col ferro tagliente
Il torto fatto a lor da Serpedonte,
Quando rapì Despina a Ricciardetto,
E via fuggissi con suo gran diletto.
Dice l'istoria ch'ebber tal tempesta,
Che trenta giorni e trenta notti intere
Corser per mare, e sempre la funesta
Morte in mezzo a quell'onde acerbe e nere
Videro; e in fine con gran gaudio e festa
Un giorno incominciaronsi a riavere,
Che scopersero terra, ove voltaro
La prora, e finalmente vi arrivaro.
Ma se altri che que' due fosser là giunti,
Arebbon sospirato le procelle,
E bramato dal mare esser consunti.
Imperocchè son l'isole più felle
Che siano in mare: ma que' due congiunti
Di sangue, di valore e d'opre belle
Non n'ebbero non solo alcun spavento,
Ma piuttosto allegrezza, anzi contento.
Questa è l'isola grande della Luna,
Madagascar nomata dagli antichi,
Dove un misto di gente si raduna,
Di cui non fia la terra che nutrichi
La più feroce. Presso al mare è bruna,
E bianca dentro: ladroni e mendichi
Tutti sono, e crudeli e micidiali,
E nati al mondo per far tutti i mali.
[33]
Nel porto dunque detto Machicore,
Che sta verso la Cafria, entraro un giorno;
E scesi appena, che di genti More
Si vider fatto un largo cerchio attorno.
Li guarda Orlando, e lor fa poco onore,
E cenno fa che gli eschino d'intorno;
Ma quelli con maniere assai villane
Gli tiran sassi, come fosse un cane.
Ma il conte, che non vuole usar la spada
Con gente tanto vile e sì plebea,
Prende un di quella barbara masnada
Pel destro piè, che fuggir non potea,
E gli fa far per l'aria tanta strada,
Che mutato in uccello altrui parea;
E cadde in somma lontano tre miglia.
Pensate voi se n'ebber maraviglia:
E disparvero tutti in un baleno.
Disse Rinaldo: Caro cugin mio,
Se fosse stato di paglia o di fieno
Quel disgraziato e nimico di Dio,
A star per aria avrìa durato meno.
Rispose il conte: Mi stupìi ancor io,
Ch'io lo sbalzassi in aria e sì lontano;
Chè andar tre miglia egli è un bel trar di mano.
Ma ricerchiamo un po' dell'osterìa,
Che ho fame e sete, e mi muojo di sonno.
Disse Rinaldo: Questa gente ria
La ci vuol far come il delfino al tonno:
Io voglio dire qualche furberìa.
Lasciali fare: chè se ben son nonno
(Rispose il conte) ed ho le luci strambe,
Grazie al Signor, mi trovo bene in gambe.
[34]
E in questo dire vanno a un casamento,
Che aveva dell'alloro su la porta,
Segnale d'osterìa, e v'entran drento.
L'oste li guarda con la faccia smorta,
E vuol fuggir, perchè ha di lor spavento;
Ma il conte l'assicura e lo conforta,
E gli domanda se ci ha buoni letti,
Buon pane, e vini generosi e schietti.
Rispose l'oste, come ben fornito
Era di tutto; e fattosi sicuro,
Gli fa assaggiare un vino sì squisito,
Che disse Orlando: Per le stelle io giuro
Che di questo il miglior non ho sentito;
E ne trangugia un fiasco puro puro.
Disse Rinaldo: Bel bello, cugino,
Non siamo in luoghi da scherzar col vino.
Ma il conte non l'ascolta, e dice all'oste
Che glie ne arrechi almen dieci altri fiaschi;
Ch'egli ha attaccati i polmoni alle coste
Per la gran sete, e gli par ch'ei rinaschi,
Quando avvien che alla bocca il fiasco accoste.
All'oste sembra che il cacio gli caschi
Su' maccheroni, e porta vino; e al conte
Già par che ondeggi il pian, la casa e il monte:
E ride e dice: Rinaldo mio bello,
Balliamo un poco. E si mette a danzare;
Ma cade e grida: Io sono un navicello;
E con le mani si mette a nuotare.
Rinaldo che lo tiene per fratello,
Vedendolo brïaco, ebbe a crepare
Di doglia; e come può, lo prende in spalla
E lo pone sul fieno nella stalla;
[35]
Dove non guari andò che addormentasse;
E in quel mentre ch'ei russa in su la buona,
Soletto a mensa Rinaldo assettosse;
E l'oste, ch'era una scaltra persona,
Con varie storie rusticane e grosse
Lo tenne attento più d'un'ora buona;
E frattanto que' Mori traditori
Legaro il conte, e lo portaron fuori.
L'oscura notte, e il luogo peregrino,
E le gran selve che cingono il mare,
Favorîr tanto il popolo assassino,
Che quel gran furto essi poteron fare:
Ma più che ogni altro, favorigli il vino,
Del qual si volle il conte inebbrïare.
Finito di cenar Rinaldo corse
Alla stalla, e dell'opera si accorse.
Chi potrà dire la rabbia e la furia
Che presero Rinaldo in quel momento?
Sembra un lïone in sua maggior penuria
Di cibo, entrato in un copioso armento;
E tanto ha pena dell'avuta ingiuria,
Ch'arde la casa e quanti vi son drento;
E uscito fuori, uccide ognun che trova,
E grida: Cugin mio, chi ti ritrova?
E nella selva, ancor che fosse notte,
Entra, e chiama a gran voce il conte Orlando;
E va tastando le tane e le grotte
Or con la mano sola, ora col brando.
Pur giunge in parte ove ascolta interrotte
Uscir voci e sospir di quando in quando.
Rinaldo a quella volta il passo muove,
Vago di ritrovarsi a cose nuove:
[36]
E vede un po' di lume che trapela
Dalle fessure del terren crepato.
V'accosta l'occhio, e nulla gli si cela
Di ciò che sotto veniva operato.
Vide al fulgore d'accesa candela
Una fanciulla ed un garzon legato,
Ed un vecchio che piange e si dispera
Vicino a loro in misera maniera:
E poco lungi vede una masnada
Di gente armata che beve e che giuoca.
Ma mentre ch'egli attento e fiso bada
A quelli, e Iddio a lor favore invoca,
Ecco un di fuor che a lui mostra la strada
D'entrarvi, ch'alza in lontananza poca,
Da dove ei stava, un sasso; e per quel foro
Scende ad unirsi al tristo concistoro.
Io non so, donne, chi s'abbia di noi
Voglia più viva e più caldo desire
Di saper chi sien questi; e a dirla a voi,
Io tanto n'ho, che mi sento morire:
Ma l'ora è troppo tarda, e prima o poi
Saperlo non saravvi di martìre.
Domani dunque, all'ora che volete,
Venite, e tutto il fatto intenderete.
[37]
Il conte Orlando è fatto prigioniero.
Rinaldo la spelonca empie di strazio;
Ascolta di Clarina il caso fiero.
Ferraù dice: Domin, ti ringrazio.
Il finto cieco per lungo sentiero
Con un bastone gli suona il prefazio.
L'oste con un guerrier forte si sdegna,
Perchè gli ha fatta la mogliera pregna.
Tra i benefizj che ci ha fatti Iddio,
Non è mica il minor quello del vino;
Anzi forse è il migliore al parer mio;
Chè fa l'uomo di misero e tapino,
Felice e lieto, e lo colma di brio:
Ma non bisogna poi beverne un tino,
Nè sempre star col fiasco e col bicchiere,
Nè fare in questo mondo altro mestiere.
La moderazïone in ogni cosa
Ci vuole, e chi non l'ha convien che sbagli;
Chè la virtude nel mezzo riposa,
Ed ha di dietro e davanti i serragli.
Se questi passa, l'opra è vizïosa.
La sofferenza è virtù ne' travagli;
Ma il non sentirli punto ella è sciocchezza,
Sentirli troppo è segno di vilezza.
[38]
In somma, per tornare al mio discorso,
Chi beve troppo diviene una furia;
E chi ne beve solamente un sorso,
Ei fa a sè stesso e alla natura ingiuria:
Ma chi beve per dar dolce soccorso
A sè, che prova di forze penuria,
E non trapassa i limiti del giusto,
Quegli ha cervello, e beve di buon gusto.
Chè non è così barbaro omicida
Colui che tolga ad un altro la vita,
Come quegli che sua ragione uccida,
O faccia sì che rimanga impedita;
Tal che di lui la brigata si rida,
Mentre traballa nella via più trita,
E sgrigna, e mal gestisce, e mal cicala,
Ed ogni suo segreto altrui propala.
Se a me toccasse a maneggiar la torta,
Vorrei far a' brïachi un tristo gioco:
Parlo di quei che a posta voglion morta
La ragione, e la voglion per sì poco:
Che se talora un qualche caso porta
Che un generoso vino e tutto foco,
Non volendo, ti burli, in caso tale
Sare' indulgente, e non ti fare' male.
Ma chi d'ubbrïacarsi ha per costume,
Vorrei far porre dentro una barchetta,
Ed obbligarlo in vita a star 'n un fiume.
Dove bevesse sempre l'acqua schietta.
Ma chi pensa a tai cose? o chi presume
Porger salute a questa parte infetta?
Anzi si loda, non che si condanna,
Chi un fiasco a una tirata si tracanna.
[39]
Se il conte Orlando avesse resistito
Con maggior senno alla voglia del bere,
Or non si troverebbe a mal partito
In mezzo a quelle marmagliacce nere,
Che incatenato a guisa di bandito
Condotto l'hanno con suo dispiacere
Avanti al signor loro, uomo crudele,
Che si mangia i Cristiani come mele.
E perchè detto gli hanno il volo strano
Che fece fare ad un di loro schiatta,
Vuol gli si mozzi l'una e l'altra mano.
Pensate voi se il conte si arrabatta,
E se di cor bestemmia l'Alcorano.
Però lo chiude in una casamatta,
Ed ordin dà che nel giorno seguente
Si venga al taglio irremissibilmente.
Ma lasciamlo un po' stare in Domo Petri,
Che in questo modo metterà giudizio;
Chè alcuni casi spaventosi e tetri
Bastano più per tôrre altrui di vizio,
Che dotti scritti, o sieno in prosa o in metri;
E torniam, se vi piace, a precipizio
A quell'orrido bosco e a quella grotta
Ove tanta genìa s'era ridotta.
Rinaldo vide, se ve ne sovviene,
Alzare un sasso, e quindi penetrare
Nella caverna, dove in pianti e in pene
Era una giovinetta in fogge amare,
Un soldataccio di quadrate schiene,
Che con gli altri andò subito a mangiare:
Ond'egli senza più tenersi a bada,
Passa fra loro con la nuda spada;
[40]
E senza nulla dire, incalza e fere
Più presto d'un baleno or questo or quello;
E va mischiando col mangiare e il bere
Di morti e di feriti un gran macello.
Altri col fiasco in mano e col bicchiere
Si muore, ed altri in qualche atto più bello.
Ve ne fu uno che mangiava un pollo
Con sommo gusto, ed ei mozzògli il collo.
Vista crudel! correa per la spelonca
Misto il sangue col vino, e su la mensa
Più d'una testa e d'una mano tronca
Giacea su' piatti. Oh quanto mal si pensa
Dall'uom, che mentre più s'allegra e cionca,
E il tempo in gioco ed in piacer dispensa,
E crede che la Morte stia a dormire,
Giusto in quel punto ella lo fa morire.
Uccisa e spenta quella razza infame,
Corre Rinaldo a scioglier la fanciulla
E il bel garzone, e dice: O delle dame
Gloria ed invidia, io non ho fatto nulla
In paragon di quel che fare io brame
Per voi, di cui sebbene si trastulla
La rea Fortuna che i tristi accarezza,
E odia i buoni, e sempre li disprezza;
Per Dio vi giuro (e rotò il brando in aria)
Che questa volta resterà delusa
Quella buffona che sì vi contraria.
Lo guarda in volto timida e confusa
La giovinetta, e di color si varia;
E a cenni l'opra inopinata accusa
Per cagion s'ella tace, e se duol sente
Di non gli dir ciò che racchiude in mente.
[41]
Quando il garzone a lui disse: O guerriero,
Che a fare opere grandi avvezzo sei,
Chè sì gran fatto esser non può il primiero,
Meco costei riprender tu non dêi
Se a benefizio così bello e intero
Finor tacemmo; chè il rispetto in lei
Chiuse la bella bocca, e a me la chiuse
Lo splendor che la stessa opra diffuse;
Chè un uomo solo non potea far quello
Che tu facesti, ancor che in armi esperto;
Ond'è ch'io penso che tu del più bello
Cerchio, ove Dio di sua luce è coperto,
Un Angel sia; e a rompere il flagello
Che ambidue per un anno abbiam sofferto,
T'abbia mandato quel pietoso Sire,
Per non ci far sì miseri morire.
E mentre egli sì parla, gli si getta
A' piedi, e con le sue candide mani
Stringendo glie li va la giovinetta:
Onde Rinaldo fe' degli atti umani,
E si turbò nella parte imperfetta,
E rallegrossi come fanno i cani.
Ma il giovin se n'accorse, e la mogliera
Tirò da parte con buona maniera.
Poi disse: Usciam, signore, se v'aggrada,
Di questo avello, a rimirar la luce.
Usciamo pur, disse Rinaldo, e vada
Il vecchio avanti, che mal si conduce,
Acciò che il sostenghiam, caso ch'ei cada.
Ed a quel foro, onde l'aria traluce,
Sen vanno; e come posson, per lo stesso
Escono fuora l'uno all'altro appresso.
[42]
Già già le cose che di negro asperse
Avea la Notte, e lor tolto il colore,
Alle sembianze prime eran riverse;
Tornato a' gelsomini era il candore,
E nella vaga lor porpora immerse
Eran le rose: in somma uscita fuore
Era già l'Alba; onde disse Rinaldo:
Camminiam, prima che si faccia caldo;
E per vïaggio in bella cortesìa
Ditemi i casi vostri e chi voi siete
Colpa sarebbe di gran villanìa,
Disse il garzone, e da genti indiscrete,
Se avessi l'alma in piacerti restìa;
Però ti dirò il tutto. Con sua rete,
Con quella onde Amor prende uomini e Dei,
Prese ei questa fanciulla e me con lei.
Di quest'isola illustre e smisurata
Stanno a Ponente due belle isolette:
L'una d'esse, ch'è mia, l'Aspra è chiamata
Per sue genti feroci e in armi elette;
L'altra, che a questa par quasi attaccata,
Detta è la Bella, perchè vaghe e schiette
Vi nascono le donne: e da costei
Puoi veder se son veri i detti miei.
Ella nacque in quell'isola signora,
Per maestà regina e per bellezza:
Ivi comanda, e il popolo l'adora.
E benchè cinto il core di durezza
Odiassi amore, e ognun che s'innamora,
Pur ebbi di vederla un dì vaghezza.
Però vestito da vil barcajuolo,
Nell'isola passai segreto e solo;
[43]
Quindi nella cittade: ma per molto
Ch'io m'aggirassi intorno a sua magione,
Non potei mai vedere il suo bel volto.
Pur tanto m'adoprai, che da un garzone
Che la serviva, a ben sperar fui vôlto;
Perch'ei mi disse, che al nume Macone,
C'have un gran tempio alla cittade appresso,
Solea per venerarlo andare spesso:
E che il giorno seguente senza fallo
Andata vi sarebbe in compagnìa
Delle sue donne, o a piedi od a cavallo,
Come andato le fora a fantasìa;
Ovvero in un bel cocchio di cristallo
Bello così, che la vista ricrìa.
Ciò detto, ei si diparte; ed io mi resto,
Pregando che quel dì giungesse presto.
Era nella stagion quando ogni cosa
S'allegra, e ride il ciel, la terra e il mare,
E regna Amore e Vener grazïosa,
Che i cori sforza a dolcemente amare.
Ama il lïone e la tigre rabbiosa,
E la vacca d'amor s'ode mugghiare;
Aman gli augelli e i pesci; e chi non sente
Fiamma d'amore è morto veramente.
Quando su l'apparir del dì novello
Dal palazzo reale io vidi uscire
Questa, che mio piacere e vita appello,
Vicino a cui non potrò mai morire.
Disciolto aveva il biondo suo capello,
Vestita d'un color che non so dire;
Perchè mutava aspetto, come suole
Il collo de' colombi in faccia al Sole.
[44]
Giuno così forse si veste in cielo,
Quando si asside a mensa con gli Dei.
Le pendeva dagli omeri un bel velo
Che le arrivava quasi insino a' piei,
Di fior trapunto, e le foglie e lo stelo
Eran di perle e d'oro, e tanto bei,
Che per mirarli fui talor sì stolto,
Che tolsi qualche sguardo al suo bel volto.
La vidi appena, che il mio cor di pietra,
Anzi d'acciajo, ovvero di diamante,
Si ruppe, e fêssi in polve (sì penétra
Fiamma d'amore), e ne divenni amante.
O dolci strali! o soave faretra!
Benedico quel giorno e quell'istante
Che fui ferito, e sol provo dolore
Dei dì che vissi sano e senza amore.
Torno in fretta a mia casa, e la domando
In moglie, e m'è concessa volentieri.
Vivemmo allegri pochi giorni, quando
Siam fatti all'improvviso prigionieri
Dai ladroni di mar, ch'ivano errando
Tra i nostri boschi per gran fronda neri;
Che ci tenevan da più giorni traccia,
Per depredarci in tempo della caccia.
La nostra gente per darci soccorso
Radunossi, ma indarno; chè siam posti
Già su le barche, che spedite al corso
Givan volando inverso i lidi opposti:
Ma da tanta ira il core lor fu morso
In rimirarci a tal miseria esposti,
Che su legni spalmati a remi e a vele
Ci prese a seguitar presta e fedele.
[45]
Clarina (che così questa si appella)
Stava sopra una, ed io sopra altra barca,
Sempre gemendo come tortorella
Che sola d'uno all'altro ramo varca,
E il perduto compagno a sè rappella.
Ed io nel veder lei sì piena e carca
D'affanno, mi sentìa più che morire:
E tu m'intenderai senza più dire.
In questo mentre la fortuna e il vento
Furon tanto benigni a' miei navigli,
Che quasi ci arrivaro in un momento:
Onde non lungi ad uscir di perigli
Provava nel mio cor dolce contento;
Che da' rapaci e furibondi artigli
Di quelle arpìe io mi vedea vicino
Ad esser tolto, ed a mutar destino.
Quando la fusta, che portava via
La mia consorte, par che metta l'ali;
Così leggiera e rapida fuggìa.
La mia non già; chè men forti i corsali
Eran di quella, e assai più vil genìa:
Ond'io son tratto fuora di que' mali,
Dico, son liberato; ma frattanto
Clarina mia più non mi veggio accanto.
Affretto al corso i miei; e non è Dio
O Ninfa in mare, ch'io non preghi umìle,
Acciò che sien benigni al mio desìo:
Ma la fusta nimica è sì sottile,
Che fugge avanti al lento correr mio.
Pur me le accosto alquanto, e grido: O vile,
O perfida canaglia! o m'attendete,
O scampo a vostra vita non avrete.
[46]
Quand'io veggo (ahi crudele orrenda vista!)
Il bell'idolo mio tratto alla sponda,
Coperto il volto, e in foggia umile e trista,
Ed un che con la spada furibonda
Le mozza il capo: il che se il cor m'attrista,
Anzi in un mare di dolor m'affonda,
Tel puoi pensare; ma neppure io voglio
Che tu pensi, signore, a tal cordoglio.
Ciò fatto, il tronco busto all'acque getta,
Che intorno a sè le tinge di sanguigno;
Poi segue il corso suo come saetta.
Io giungo pieno di voler maligno
Contro me stesso, cui il morir diletta;
E visto il bel cadaver, di macigno
Rimango, e indietro fo volger le vele
Per seppellir la sposa mia fedele.
Tornato all'isoletta tutto affanno,
Sepolta lei, penso a morire anch'io.
Ma un vecchio schiavo, che del proprio danno
Ebbe timor, mi disse: Se del mio
Viver tu m'assicuri, un tal inganno
Ti scoprirò, che muterai desìo
Di morte, quando l'udirai in effetto.
Ed io ciò che mi chiede gli prometto.
Ed egli: Hai da saper che tua consorte
Quella non è che per morta deplori;
Ma un'altra donna ebbe sì trista sorte,
Bella ancor essa, ed atta a' dolci amori;
Ma brutta appo la tua, come la Morte:
E fecer ciò per togliere i timori
Che di te concepiro i miei compagni.
Però vedi, signor, se a torto piagni.
[47]
E questo io so, perchè intesi il consiglio
De' miei, che fu di travestir colei
Co' panni della tua, e nel periglio
Quel fare che fu fatto; ma gli Dei,
Che volsero finor benigno il ciglio
Su' casi tuoi e su' casi di lei,
Temo che quando sarà giunta a riva,
Non avran forza di serbarla viva.
Perchè nostro costume, antico molto,
Egli è, scampati da strana ventura,
Dopo tre giorni dentro un bosco folto
Uccidere una donna (la più pura
Che sia fra l'altre, e ch'abbia in sè raccolto
Più di bellezza) nella notte oscura;
E questo uffizio di farla morire
A me toccava, che di lor son sire.
Onde, se di camparla hai brama ardente,
Me rilascia co' miei, e viemmi appresso;
Ch'io giunto là, tal cosa volgo in mente
Da non cadere in così grave eccesso.
Così disse lo schiavo, ed è il presente
Vecchio ch'or vien con noi dagli anni oppresso.
Io gli credo, e lo lascio dipartire;
Indi lo seguo conforme il suo dire.
In un giorno egli giunse alla riviera,
Di che ne fêro i compagni gran festa;
E la consorte mia per l'altra sera
Destinaro condurre alla foresta,
Ed ammazzarla alla loro maniera:
Maniera dispietata, ed era questa:
Ferìano il ventre sopra la gonnella
Di quella infelicissima donzella.
[48]
E come allora che co' figli al fianco
Sbrana la leonessa alcuna vacca,
Che qual dal dritto lato e qual dal manco
De' leoncini al suo ventre s'attacca,
E il piccol dente estremamente bianco
Nelle interiora sue voglioso intacca,
E a sè le tira; così quella gente
Far soleva alla vittima innocente.
Giunta la sera, quest'uomo da bene
Si pone entro un recinto fatto a posta
Con costei condannata all'aspre pene:
E mentre fa preghiere, e mostra esposta
La sventurata al colpo, e che trattiene
La gente dal recinto ben discosta,
Uccide zitto zitto una vitella,
E in un sacchetto ripon le budella:
Indi sotto le vesti immantinente
Le asconde della donna; e un fazzoletto
Nella manica tien celatamente
Tutto grondante di quel sangue schietto;
E mostra col coltello veramente
Ferirle il collo e trapassarle il petto;
E col sanguigno lino si diporta
In modo tal, che fu creduta morta.
Poscia col ferro stesso il finto ventre
Recide, e le budella scappan fuora.
Corre la gente allegra, acciò la sventre;
Ed io meschino in quel punto, in quell'ora
Giungo nel bosco; anzi vi giungo mentre
Il popol le interiora si divora.
Pensa, signor, com'io restai confuso
A vista sì crudele, a sì fiero uso.
[49]
E disperato fo comando a' miei
Che assalgan que' malvagi; ma nessuno
Più non si vede. Ond'io là drizzo i piei,
Tacito e sconsolato all'aer bruno,
Ove pensai trovar morta costei;
Ma il buon vecchio riveggo, e senza alcuno
Che lei lava dal sangue, e me la rende
Viva dopo cotante aspre vicende.
Il dì di poi ci perdemmo nel bosco,
Nè d'uscire trovammo più la via;
Talchè in quell'antro tenebroso e fosco
Entrammo a caso per fuggir la ria
Stagione, e i serpi dall'orribil tosco;
Quando d'empj ladroni aspra genìa
Un giorno all'improvviso ci vien sopra,
E a farci schiavi quanto può s'adopra.
Dopo lunga difesa e strage molta
Cediamo al fato, e rimanghiam prigioni.
Quanto soffrimmo poi dal dì che tolta
Ci fu la libertà da quei ladroni,
Dir non ti posso. E a lui Clarina vôlta,
Disse: Signor, deh tronca i tuoi sermoni,
Nè favelliamo più del mal passato
Sciolti e contenti, e a tal campione a lato.
E perchè il caldo egli era assai cresciuto,
Mercè che a mezzo il cerchio il Sol giunto era,
Dove il bosco più spesso era e fronzuto,
Si fermaro vicini a una riviera;
Dove, fatto lor prima un bel saluto,
Un villanello di buona maniera
Diè lor dei fichi ed altre dolci frutta,
Che rallegrò la brigatella tutta.
[50]
E richiesto di dove egli veniva,
Rispose che abitava ivi vicino,
Dov'era la cittade che ubbidiva
Al re Grandonio, detta Sadolino.
Disse Rinaldo, se parlar si udiva
Là fra lor d'un famoso paladino.
Rispose: Se ne parla; anzi domani
Fama è che se gli mozzino le mani.
Rise Rinaldo, e disse: A questa festa,
Se piace al ciel, mi vo' trovare anch'io.
Ma perchè non gli tagliano la testa?
Ch'egli è un guerciaccio, nimico di Dio.
Così fingea per non far manifesta
Col dolor sua persona, e il destin rio
Via più instigare sul misero conte;
Perchè disgrazie e spie sempre son pronte.
Or mentre sedon questi alla fontana
Aspettando che l'aria si rinfresche,
Torniamo a Ferrautte, a cui par strana
Cosa in vedersi tra genti Francesche
Da un'isola portato sì lontana,
Senza ch'egli ritrove e che ripesche
Chi gli fe' tanta grazia; ed ammirato
Quel più rimane nel vedersi armato;
E dice: Affè non Tobbia o Gabriele
Son stati, oppur Francesco od Agostino,
Che m'abbian tratto fuor del mar crudele;
Ch'io sono un furbo tinto in cremesino.
Ma non intendo perchè mi si cele
Chi mi diede soccorso, e tal cammino
Mi fece fare oltre ogni umana speme:
Onde d'un qualche demonietto teme.
[51]
E tra questi pensieri il cammin prende
Verso Parigi; e dopo alcune miglia,
Da varia gente che riscontra, intende
Come Carlo per Spagna il sentier piglia;
Chè Alfonso oppresso da' Mori l'attende.
Ond'egli allenta al corridor la briglia
Per trovarsi più presto a Carlo appresso.
Ed offerirgli di buon cuor sè stesso.
E frattanto s'immagina, anzi crede
Che Malagigi l'abbia lì condutto
Con la tanta virtù ch'egli possede;
E si lusinga ch'ei diragli il tutto
La prima prima volta che lo vede;
O almen ne caverà tanto costrutto
Che basteragli: e mentre così seco
Discorre, incontra un poverello cieco,
Che in carità gli domanda una piastra;
A cui rispose Ferraù: Va in pace,
Chè asciutto sono assai più d'una lastra.
E il cieco a lui: Deh guarda, se ti piace,
Nella saccoccia, e il tuo borsello castra;
Altrimenti sarò sì pertinace
Nel seguitarti, che ovunque anderai,
Me così cieco sempre al fianco avrai.
Ferraù ride, e sprona il suo ronzino;
E dopo un lungo e rinforzato trotto
Si volta a dietro, e si vede vicino
Il cieco che lo segue chiotto chiotto.
Perchè gli dice: Orbaccio malandrino,
Se più mi vieni appresso, io ti forbotto.
Il cieco a questo dire alza il bastone,
E glie lo mena sopra del giubbone.
[52]
Ferraù che si sente maltrattare,
Dà di mano alla spada, e lui percuote;
Ma il cieco col suo bussol da accattare
Si copre, e le percosse sue fa vuote;
Ed intanto lo segue a bastonare,
Tal ch'ei si tinge di rossor le gote
Per la vergogna di dover morire
Così vilmente; onde gli prende a dire:
O cieco, tu, che gli occhi hai nelle mani,
E nel bastone che non falla mai,
Lasciami stare, e dà fastidio ai cani,
O a quegli che ti vogliono dar guai.
Io son senza danari; onde son vani
I voti tuoi, e s'ingannan d'assai:
E mi potresti batter tutto un mese,
Che non ti potrei dar pure un tornese.
Fermossi il cieco allora, e disse: Frate,
T'ho bastonato per correzïone,
Chè m'è nota la tua iniquitate.
Tu sei e fosti il più tristo e briccone
Che abbia o avesse mai alcuna etate.
Le mani al volto Ferraù si pone
In sentirlo parlar di tal maniera,
Chè gli par poco la sola visiera.
In questo mentre il buon cieco ripiglia
La solita figura, e più benigno
Gli parla, e dice: A me volgi le ciglia,
Ch'io non son, come credi, uomo maligno;
Ma sono un della nobile famiglia
Di quei di Montalbano; ed or m'accigno
Al tuo favore ed al favor di Carlo,
Chè fra tutti è ben giusto d'ajutarlo.
[53]
Quando s'accorse il mesto Ferrautte
Che il finto cieco Malagigi egli era,
Che gli batteva addosso il solreutte,
Oh, disse, figurino di galera,
Già che ti muti nelle forme tutte,
Che ti possi mutare avanti sera
In un sacco di paglia o ver di fieno,
E un fulmine dal ciel ti colga in pieno.
E Malagigi a lui: Romito porco,
C'hai tu fatto in quell'isola lontana?
Ti credi tu che un fattaccio sì sporco
Se lo porti di Lete la fiumana?
Della tua sposa con la faccia d'orco,
Di quella tua bruttissima befana
Io so la vita, e so la morte ancora,
E voglio dar tutta la istoria fuora.
A tal sermone Ferrautte inchina
La faccia a terra, e sospirando il prega
Che questa opera sua tanto meschina
Non voglia propalare; ed ei si piega
A compiacerlo, e intanto s'avvicina
Al padiglion di Carlo, che una lega
Poteva esser discosto, e in compagnìa
Vanno facendo il resto della via.
Già il Sol, deposti i dorati capelli,
S'attuffava nel mare e dispariva;
E co' suoi raggi scintillanti e belli
Espero adorno al suo partir veniva.
Tacean su i rami i coloriti augelli,
E dolce il bosco mormorar s'udiva
Tocco dall'aure, che dal mare ai monti
Volavan per lambir l'acque de' fonti;
[54]
Quando si presentaro i due guerrieri
Avanti a Carlo e a tutto il concistoro;
E fûr tante le gioje ed i piaceri,
Che si mostraro quei campion fra loro,
Che a dirli ci vorrìano i giorni interi.
Carlo, pieno di grazia e di decoro,
Non sol li fe' sedere a sè vicino,
Ma li volle fin sotto al baldacchino.
Nè questo è maraviglia; chè i signori
Quando han bisogno, fanno ancor di peggio:
Dan baci e danno abbracci a' servitori,
E dan lor borsa e mogliera in maneggio,
E quanto essi hanno in casa e quanto fuori;
Anzi di più lor fanno anche corteggio;
Ma avuto il loro intento; i manigoldi
Più non darìan per camparli due soldi.
A Ferrautte molte cose chiede
Carlo d'Orlando e di Rinaldo, ed anco
De' figli loro, e del mondo in qual sede
Si trovino; e il romito: È assai che manco
Da un'isola, signor, che ogni altra eccede
Per maraviglie, dove rotto e stanco
Giunsi dalle tempeste; ed è sì lunge,
Che fama pur di lei qui a noi non giunge.
I paladini tuoi là pure spinse
Lo stesso vento e la tempesta stessa.
E poi con agio Ferraù distinse
Cosa per cosa che gli era successa;
Ma tacque, come Amor piagollo e vinse
Per un demon, per una furia espressa;
E disse il ratto di Despina, e come
Strappossi per dolor le bionde chiome:
[55]
E che Ricciardo e ogni altro paladino,
Chi in qua, chi in là, sopra varj navigli
S'eran gittati a tentar lor destino;
E che presto sperava che co' figli
I due guerrieri ei si vedrìa vicino,
Che tosto lo trarrebber di perigli:
E intanto ei s'offeriva a sua difesa,
E della Spagna e della santa Chiesa.
Lo ringrazia il buon Carlo, e vanno a cena,
Indi a dormire: e al primo primo albore
Si muove il campo e marcia con gran lena;
Chè ognuno è punto da desìo d'onore.
Già di Provenza in su l'estrema arena
Han posto il piede, e sperano in poche ore
Passar la Linguadoca, ed a Narbona
Arrivar l'altro giorno in su la nona.
Ferraù prende il sentier di Tolosa
Per avvisar quel duca e suoi baroni
(Chè una figlia di Carlo era sua sposa),
Acciocchè con cavalli e con pedoni
Soccorra a tempo Spagna bisognosa;
E camminato avea due giorni buoni,
Quando in un bosco trova un'osterìa,
E un cavalier che con l'oste piatìa,
E gli diceva: Tu m'hai preso in cambio;
Chè sol qui mi fermai dall'altra sera.
E l'oste a lui: Per Dio, io non ti scambio,
Sei quel che passò qui di primavera.
Ci stesti un mese, e poi pigliasti l'ambio,
E gravida facesti mia mogliera.
Tua donna non conobbi, egli riprese,
E mi sembri un ingiusto, uno scortese.
[56]
E l'oste a lui: Tu fai come il cucúlo,
Che beve l'uova della caponera,
E poi si fa le sue uscir dal culo;
Onde quella ingannata in tal maniera,
Cova i figliuoli altrui. Furfante e mulo
(Riprese il cavalier con aspra cera),
Di tua mogliera non ebbi desìo;
E s'ella è pregna, non sono stat'io.
Con le più belle e dilicate dame
Che siano al mondo, ho vïaggiato a solo,
Ed ho d'amore sofferta la fame.
Or vedi un poco, il mio brutto fagiuolo,
Che forza potea farmi il tuo tegame,
Sol buono da sfamare un marïuolo.
Disse l'ostiero: Io vi concedo toto;
Ma il corpo di mia moglie non è vôto.
E si acceser parlando a tanto sdegno,
Che l'oste preso in mano un gran forcone,
Di forargli la pancia ebbe disegno;
Ma il cavaliero avvezzo alla tenzone
Lieve saltò come caval di regno;
E l'oste ebbe a ferire un suo garzone,
Che con gli altri garzoni immantinente
A sassi lo pigliaro crudelmente.
E se non era che spedito e presto
Fuggì in casa l'ostiero, e serrò l'uscio,
Lo averebber ridotto a pollo pesto,
E forse morto; chè rotto, qual guscio
D'ovo, il cranio gli avrìano. Onde modesto
Disse alla donna: Io di qui più non sguscio,
Se non fo pace con li miei garzoni,
A' quai per me dar puoi mille perdoni.
[57]
E l'ostessa, che bella era e garbata,
Sopra di sè si prese questa pace;
E perchè da' garzoni ell'era amata,
Spense dell'odio la rabbiosa face,
E fe' far loro una bella frittata
Con un presciutto rosso come brace;
E portato un boccal di vin squisito,
Li pose a mensa, e vi chiamò il marito.
Ferraù disse: Io vo' star qui stanotte,
In fin che il Sole non iscappa fuora;
Chè l'osterie son meglio delle grotte,
E l'acqua delle fonti e della gora
È buona pe' ranocchi e per le botte:
Il vino mi conforta ed avvalora.
Ma di fermarsi la cagione espressa
Io mi credo che sol fosse l'ostessa.
Vi si trattenne ancora quel soldato
Che aveva preso a litigar con l'oste.
Chi sia costui, dirollo in altro lato;
Chè or son chiamato in parti assai discoste.
Le donne e i cavalieri che sul prato
Lasciai di Nubia all'aura e al sole esposte,
Cenno mi fan che di lor mi ricordi,
E che mia cetra anco per lor s'accordi.
Orlanduccio, Naldino, Argéa, Corese,
E la bella Despina e Ricciardetto
(Disfatto il reo castello, ove stier prese
E scorticata a guisa di capretto
La strega che fe' lor cotante offese)
Restaro, come assai di sopra ho detto,
In un bel prato con molte brigate,
Che fûro tutte insieme liberate.
[58]
Rimasero al principio stupefatti
In veder disparito quel castello;
Ma poi sicuri di lor scampo fatti,
Lieti a ballar si misero su quello:
Poi tutti insieme al porto si fur tratti,
Ove lasciaro afflitto e tapinello
Il Cavalier del Pianto, e mal conciato
Dal giorno che da' Mori fu piagato.
Questi era il genitore di Despina
(Come mi penso che vi ricordiate),
Che non fu sera mai, non fu mattina,
Dal dì che da color gli fur rubate
Le belle donne intorno alla marina,
Che non mostrasse le luci bagnate
Di caldo pianto: e ben ragion n'avea,
Ch'egli era padre proprio d'una Dea.
Io taccio le allegrezze e i dolci amplessi
Che fece alla figliuola e all'altre donne,
E a' cavalieri pur di gaudio oppressi;
E lor chiamando di valor colonne,
Del grato cuore i sentimenti espressi,
Con la figliuola in una stanza andonne,
E lì pregolla in Cafria a far ritorno
Al primo comparir del nuovo giorno.
E se figlia esser vuole ubbidïente,
La prega non condurvi Ricciardetto,
Perchè ha timore che la Cafria gente
Per sua cagion non gli perda il rispetto:
Che poi là giunti, quasi immantinente
Farà sì che a lei venga il giovinetto,
E sia suo sposo, e della Cafria erede;
E v'impegna la sua parola e fede.
[59]
Despina a quel parlar cangiossi in viso,
E parve il Sol che allora che più splende,
Lo veli alcuna nube d'improvviso.
Pur, come saggia, d'ubbidirlo intende,
E gli dice: Signor, da me diviso
Se vuoi l'almo garzon che sì m'accende
Sia fatto il tuo voler; ma sappi ancora
Che senza lui converrà poi ch'io mora.
Ed egli a lei: Tu non morrai d'amore;
Ma guarda di non dirgli una parola
Della partenza nostra. Assai rigore
È questo, o padre; e piuttosto la gola
Mi passa con un ferro, o passa il core
(Rispose lui la misera figliuola),
Che doverlo lasciare e non dir nulla:
Ah di me come sorte si trastulla!
Amor che fa gli amanti sospettosi,
Fe' che Ricciardo alla porta pian piano
S'accostò con gli orecchi desïosi
Di saper lor discorsi; e non fu vano
Il suo sospetto; e sì da furïosi
Impeti preso fu d'un duolo insano,
Che senza favellar la porta rompe,
E in questi detti sdegnato prorompe:
Così tu paghi le fatiche altrui,
Ingrato, senza onore e senza fede?
Guardami in volto: io sono, io son colui
Che per aver la tua figlia in mercede
Diedi la morte agl'inimici tui,
E trassi lei dalla profonda sede
Dell'avello spietato; ed oltre a questo,
Te tolsi al tuo pericol manifesto.
[60]
Che non feci per lei? Ella tel dica,
E ancor ti narri quell'amor sincero,
Con cui in amarla si serbò pudica;
Miracolo che altrui non parrà vero.
E intanto la mia vita si nutrica,
Nè cede della morte all'aspro impero;
In quanto spesse volte ella mi diede
D'essermi sposa giuramento e fede.
E mentre ei sì ragiona, ambidue gli occhi
Fissi tiene in Despina, e non li move;
E a lei, che non sa qual sorte le tocchi,
Rivo di pianto da' bei lumi piove:
E par che l'alma per quel rivo sbocchi,
E fa di ragionar ben mille prove;
Ma ell'è tanta l'ambascia che l'opprime,
Che non ritrova le parole prime.
Lo Scricca che conosce discoperto
Il suo disegno, finge pentimento
Del già preso consiglio; e come esperto
Nocchier che il legno regola col vento,
Con soave parlar cerca far certo
Ricciardo del mutato suo talento,
E che non partirà se non con esso.
Ma quel che avvenne, udirete in appresso.
[61]
Lo Scricca da Ricciardo porta via
L'infelice Despina addormentata.
Scampato è Orlando da fortuna ria.
Dall'Inglese l'ostessa è ingravidata.
Ferraù sbaglia letto all'osteria,
E giace colla vecchia sganganata.
Despina in casa della fata Origlia
L'amato suo Ricciardo in odio piglia.
Se ci avesse formato la natura
Il petto di cristallo o di diamante,
O d'altra cosa trasparente e pura,
Tal che si rimirasse in un istante
Il nostro cuore ed ogni sua figura,
Ciascuno da sè sol fora bastante
A guardarsi dall'altro; e non sarìa
Frode alcuna nel mondo, o pur bugìa.
Allor vedrebbe ogni amante perfetto,
Se la sua donna gli ragiona il vero,
Quando giura esser lui il suo diletto,
E che stima appo lui ogni altro un zero:
E quel signor che si vede soggetto
E umile a' piedi suoi un mondo intero,
E che s'ode pregar lunghi e begli anni,
Ed un imperio spogliato d'affanni;
[62]
Se potesse ancor egli veder chiaro
L'odio, la rabbia ed i voti crudeli
Che il popol serra nel suo cuore amaro,
E che le voci amorose e fedeli
Solo in mezzo al palato si crearo,
La gran superbia onde s'innalza a' cieli,
Forse che deporrebbe, e, fatto umìle,
Si mostrerebbe a' popoli gentile.
Ma pure ancor, come è chiuso e coperto
Di carne e d'ossa e di nervi e di vene,
Esser doveva per natura aperto,
Così creato dall'eterno Bene:
Ma quei che fe' tragitto al gran deserto
Dal Paradiso, e ci diè tante pene,
Egli sconvolse col suo fatto indegno
La bella simetrìa e il gran disegno;
E commessa la rea colpa fatale,
Ci aperse il varco ad ogni aspra sventura.
Morte la falce, e prese il Tempo l'ale,
E niuna cosa in avvenir fu pura.
Il bene allora cedè il loco al male;
E dove l'innocenza era sicura,
Ivi la frode e l'inganno perverso
Miser piede, e corrupper l'universo.
Ond'è che il padre più non crede al figlio,
La consorte al marito; e sospettoso
Ci è biasmo, lode, stimolo e consiglio.
Che altri del nostro mal stassi doglioso,
Il qual ride in segreto; e lieto ciglio
Altri ti mostra in stato prosperoso,
Mentre invidia lo strugge e lo divora,
E ti vorrebbe misero in quell'ora.
[63]
E questa è la ragion che poi deluso
Restò, come udirete, Ricciardetto,
Che ingenuo essendo, e non conforme è l'uso,
Diede facil credenza a ogni suo detto.
Ma di semplicitade io non lo scuso;
Chè depor così presto il suo sospetto
In una cosa di tanta importanza,
Colpa ella fu di giovenil baldanza.
Lo Scricca (mentre egli abbadava in porto
Alla sua cura, e l'esito attendea
de' paladini, che voleano morto
Nicota e la mogliera iniqua e rea,
E di lor donne vendicare il torto)
Della sua casa una finestra avea,
Che il mar guardava, ond'ei convalescente
A quella s'affacciava assai sovente.
Ed ora uno giungendo, or altro legno,
A sè chiamar soleva i marinari,
E udir novelle di questo e quel regno,
Ed i gran casi e i movimenti vari,
Di che n'è il mondo in ogni loco pregno.
Due legni un giorno per grandezza rari
Vi giunsero, ed appieno corredati
Eran di marinai e di soldati.
E lo scudiero suo subito invìa
A sapere chi sieno e di qual parte;
Ed egli torna pieno d'allegrìa,
E dice lui: Il tuo ammiraglio Alarte
Quegli è, signor, che la marina via
Solcando va per voglia di trovarte;
Chè Cafria lagrimosa e supplicante
Da sè non ti può più soffrir distante.
[64]
E mentre così dice, Alarte giugne,
A cui lo Scricca fa tosto comando
Che torni al porto; ed oltre a ciò gl'ingiugne
Che l'esser Cafro occulti, e solo quando
Venisse il caso di sconcerti e pugne,
Egli si scopra, e lui venga ajutando.
E poi consegna un foglio allo scudiero,
Che a lui lo porti all'aer più fosco e nero.
Per l'osterìa già divulgato il fatto
S'era della partenza di Despina;
E che questo consiglio avea disfatto
Il buon Ricciardo, che sì dura spina
S'era di mezzo al core a tempo tratto:
E Corese ed Argéa di tal rapina
Ne fecero doglianze e gran lamento
Col vecchio che mostronne pentimento.
Cenano tutti insieme, e poi sen vanno
A riposar ciascuno alla sua stanza.
Dormono con le mogli quei che l'hanno;
E chi non l'ha, stassi a grattar la panza.
La figlia e il padre in un quarto si stanno:
L'albergo di Ricciardo in lontananza
Egli è molto da quello; ma si pone
Pure a dormir senza sospezïone.
Lo Scricca, mentre dorme la figliuola,
Brucia certe erbe, al fumo delle quali
L'umido sonno intorno agli occhi vola
Con forza non creduta da' mortali;
Tal ch'ella col suo letto e le lenzuola
Fa portar da quattro uomini bestiali,
Forti così, che avrìen portato via,
S'egli voleva, ancora l'osterìa:
[65]
E ascesi su la nave cheti cheti,
Danno a' venti le vele; ed in brev'ora
Solcan sì presto la marina Teti,
Che son del porto omai di vista fuora.
Le cime intanto de' sublimi abeti
Si mostran d'oro; chè sì le colora
La bella luce che il Sole nascente
Spruzzava sopra lor vago e ridente.
Quel che dicesse il mesto Ricciardetto,
Quando s'accorse della sua partenza,
Dirollo altrove; chè Orlando ristretto
Da duri lacci, e della rea sentenza
Omai vicino a provare l'effetto,
A sè mi chiama. Ei dunque alla presenza
Condotto del tiranno aspro e villano,
Perder doveva l'una e l'altra mano.
E di già sopra il ceppo un mannajone
Stava sì grosso da tagliare un bue;
Quando Rinaldo tra 'l popol si pone,
E a lui s'accosta quanto che può piùe:
Ed ecco che ne viene il gran campione
Di Francia afflitto, e con le luci in giùe.
Le man gli prende il boja, ed in quel mentre
Gli pon Rinaldo la spada nel ventre;
E senza dirgli pur mezza parola,
Comincia nella turba un tal fracasso,
Che a nessun sembra una persona sola:
Una Furia pareva, un Satanasso.
A chi taglia le braccia, a chi la gola;
Ciascheduno da lui dilunga il passo:
Ond'egli scioglie il suo cugino Orlando,
Che svelle il ceppo, giacchè non ha brando;
[66]
E con quella colonna di legname
Stritola i Mori con tanto furore,
Ch'empie di strida tutto quel reame.
Il re frattanto comparisce fuore,
Vestito tutto quanto di corame
Di draghi; e seco mostrando valore
Gente compare in numero infinito,
Con diverse armi e con sembiante ardito.
Orlando lega al mezzo il grosso ceppo
Con la fune con cui legato egli era;
Poi colà dove il popolo è più zeppo,
Lo ruota d'una frombola in maniera.
Tristo chi giunge con quel suo giuleppo,
Chè si sente arrivar l'ultima sera;
Ma nè meno la sente, ch'egli è morto
Avanti che si sia del colpo accorto.
Rinaldo fora e taglia; e in un momento
Fatti attorno si sono una gran piazza.
Il re sdegnato grida, e tutto intento
Alla vendetta vien con una mazza
Di ferro, che a vederla fa spavento;
Ed una danne sì sfatata e pazza
Sul capo di Rinaldo, che lo getta
Al suol, qual tronco per colpo d'accetta.
E come quando si dà la mazzuola
A' rei, che al primo botto altro s'aggiugne,
Come de' Boii dimostra la scuola,
Così colla gran mazza ei lo raggiugne
Con altro colpo sì, che lo consola.
Orlando a questo fatto sopraggiugne;
E credendo il cugino fracassato,
Mena col ceppo come un disperato;
[67]
E te lo piglia in mezzo delle schiene,
Sì che lo getta a terra; e furïoso
Gli batte il ceppo in testa bene bene,
E per sempre gli dà pace e riposo.
Il rege ucciso, il popol non si tiene
Più fermo; ma fuggiasco e timoroso
Vanne così, che par che sciolga il volo.
Restò nel campo Orlando afflitto e solo;
E del cugino l'elmetto disciolto,
Gli vede uscito in molta copia il sangue
Dal naso, onde imbrattato ha tutto il volto.
Gli tasta il polso; e se ben basso langue,
Pur vede ancor che in lui lo spirto è accolto;
Onde così qual era mezzo esangue,
In spalla se l'arreca, e lo conduce
A un fonte che assai fresca acqua produce.
Quivi Clarina col dolce consorte
Van richiamando in vita il buon guerriero,
Che tolse entrambo di bocca alla morte:
Nè molto andò che si rinvenne, e fiero
Col re voleva ritentar sua sorte;
Ma disse Orlando: Quei morto è da vero,
Non come tu che hai finto di morire
(Dicea scherzando), per falta d'ardire.
E fattisi fra lor mille cortesi
Atti d'amore e di vera amicizia,
Risolsero condurre a' lor paesi
Gli sposi, e un clima di tanta nequizia
Abbandonar, dove sì fûro offesi;
E andar poi in Francia, e goder la dovizia
De' beni che natura a larga mano
Piove su monti suoi e sul suo piano.
[68]
Vanno diritti al porto, e quasi vuoto
Lo vedon di navigli, per la tema
Ch'ebber del gran valore e affatto ignoto
De' due che fêro d'abitanti scema
L'isola: e tutti i marinari a nuoto
Si diero allor che su l'arena estrema
Videro comparire i due guerrieri,
E tremolar le penne de' cimieri.
Sol non temette un piccolo naviglio
Dall'isola partito di Clarina,
Venuto carco di pel di coniglio,
Che là si tesse in maniera sì fina
Che sembra tela: e di sua balia un figlio
Era il padrone; onde a lei s'avvicina,
E la prega a imbarcarsi, e far ritorno
Al delicato suo natìo soggiorno.
Accettano l'offerta, e immantinente
Montan sopra esso, e sciolgono quante have
Vele la barca, e vanno allegramente,
E fanno più d'un miglio in men d'un'Ave;
Garbin sì le gonfiava fortemente;
E senza incontrar mai nimica nave,
Od altro incontro, giunsero al bramato
Loco in tre giorni, il quarto incominciato.
Qui si fermaro i valorosi eroi
In circa un mese, e fûro ben trattati.
Ma (disse Orlando), alma Clarina, a noi
Conviene andar in Francia, ove soldati
Siamo di Carlo e capitani suoi.
La gola e il sonno e gli agi dilicati
Ci arrecan più paura e maggior danno,
Che tigri ed orsi e draghi non ci fanno.
[69]
Il mestier della guerra non comporta
Spesso spogliarsi e spesso rivestirsi,
E mangiare pasticci e mangiar torta,
E dopo mensa i denti ripulirsi,
E quello far che il vostro stato porta.
Indurar ci bisogna ed inasprirsi;
E soffrendo ora fame, or caldo, or gelo,
Incanutir nella fatica il pelo.
Clarina ha dispiacer di lor partenza;
Ma giacchè non li puote trattenere,
Lor prepara con molta diligenza
Una nave che va come sparviere.
Essi, presa da lei grata licenza,
E dati mille abbracci al cavaliere,
Entraro in barca verso mattutino.
Or noi lasciamli andare a buon cammino;
E ritorniamo un poco all'osterìa
Dove lasciammo Ferrautte, e quello
Uomo armato che con l'oste piatìa.
Sapete chi è costui? è Astolfo il bello,
Che sconosciuto andava per la via.
Tinto ha di nero il biondo suo capello,
E ancor si è posto una barba posticcia,
E così me' che puote l'impasticcia.
Quando egli ritornò dall'isoletta,
Del palo liberato dal periglio,
E fu mandato come per staffetta
Da Orlando a Carlo, a cagion di suo figlio
E di quel di Rinaldo, cui il trombetta
Aveva dato già bando d'esiglio;
Saputosi il suo caso nella corte,
Per le gran burle gli ebbero a dar morte.
[70]
Chi gli dicea: Son questi que' calzoni
Che tu calasti in mezzo alla platea?
Chi faceva del palo menzïoni,
E chi gli chiese se dolor n'avea.
Tenevan tutti in somma aghi e spilloni
In bocca, onde l'Inglese ne fremea;
E ciò fu la cagion ch'egli si tolse
Da Carlo, e andar ramingo si risolse.
Poi gli venne la febbre pel cammino,
E soffermossi dentro l'osterìa,
Dove quell'oste forse fu indovino
Ch'egli facesse quell'opera ria.
Ma l'ostessa lo nega, ed il divino
Odio si prega, e morte per la via,
Se fe' tal cosa; e Astolfo nol confessa;
Talchè di vento si gonfiò l'ostessa;
Ed avrà tutti i torti il suo marito.
La sera dunque, mentre stanno a cena
Astolfo e Ferrautte, e il travestito
Barone ei non conosce ed hanne pena,
E pensa se l'ha visto in alcun sito,
Astolfo che ha di lui notizia piena,
S'infinge non averla, e gli domanda
S'egli è Franzese, oppur nato in Irlanda.
Ferraù che non vuolsi discoprire,
Dice ch'è Italiano e Comacchiasco:
Ed Astolfo che vuol farlo mentire,
Per Dio, rispose, a tal voce rinasco,
Chè siamo d'un paese a vero dire.
Cattivo parve il vin di questo fiasco
A Ferrautte, e subito riprese:
Entrambo nati siam 'n un bel paese.
[71]
Sì, disse l'altro, che l'aria è perfetta,
E vi son frutta e cose delicate.
A quel discorso se ne venne in fretta
Il garzone dell'oste, a cui ben grate
Fur queste voci; chè molto diletta
In terre strane della sua cittate
Veder qualcuno; onde contento fue
D'averne ivi trovati infino a due;
De' quali niuno vide mai Comacchio,
E non l'intese nominar neppure.
Diceva Astolfo: Di Santo Eustacchio
La fabbrica non par che tutte oscure
Le antiche? Il Panteonne uno spauracchio
È appresso a quello, sì per le pitture,
Sì per l'alte colonne. E Ferrautte:
Passa, per Dio, dicea, l'opere tutte.
E quando fu mai fatta questa chiesa?
(Disse il garzon) che? l'han fatta in un anno?
Perchè prima non ci era; e tanta spesa
Chi potè fare? A sghignazzar si danno
Entrambo; e dice Astolfo: Si palesa
Assai, villan, che parli con inganno;
E Comacchiese certo esser non dêi.
Se sì all'oscuro d'un tal tempio sei.
Voi non lo sete affè, disse il garzone,
E in vita vostra non l'avete visto.
A tal risposta diegli uno sgrugnone
Astolfo, che gli fece il viso pisto.
E Ferraù: Per Santo Ilarïone,
Disse, tu certo devi essere un tristo,
Chè mentisci la tua patria, e ti fai
Del mio Comacchio, ove non fosti mai.
[72]
Come uom che preso sia da mal caduco,
O dal diavolo ossesso, oppur percosso
D'apoplessìa, restò quel mammalucco
Con gli occhi aperti, e il volto or bianco or rosso,
E or verde or giallo, qual si mostra il bruco;
E tal gli entrò stupiditate addosso,
Che per un mese, come mi fu detto,
Non potè ricovrare l'intelletto.
E Astolfo, seguitando a darsi spasso,
Diceva a Ferrautte: Paesano,
Fuor di Comacchio è un bello andare a spasso.
Ed egli a lui: Non fe' natura un piano
Di quel più vago, u' non si trova un sasso,
E per trovarlo è d'uopo andar lontano.
Nè disse il falso; chè Comacchio è posto
In mezzo all'acque, ed ha il terren discosto.
Così venuta l'ora di dormire,
I Comacchiesi se ne vanno a letto,
Ridendo Astolfo quanto si può dire:
Ma il frate n'andò pieno di sospetto;
Chè assai facile fugli il discoprire
Che del compagno falso era ogni detto.
Il dormitorio egli era uno stanzone
Per tutti, ove dormìa fino il garzone.
In un letto era l'oste con l'ostessa,
E dell'oste in un altro era la nonna.
Formava i letti un'alga lunga e spessa,
Su cui oh quanto uom volentier s'assonna!
E v'era ancora dell'ostiera stessa
Una sirocchia, ancor non fatta donna,
Che della stanza dormiva in un canto,
Non lontana da lei, nè troppo accanto.
[73]
Una lampana in mezzo al dormitorio
Ardeva, e i letti avean la lor trabacca.
Astolfo, che gentil sempre ebbe il corio,
Ove Amor gentilmente i dardi intacca;
L'altro, che innaffiatojo ed aspersorio
Dir si può d'ogni campo, e che l'attacca
Ovunque gli rïesce, ebbero in mente
Entrambo far qualche opera valente.
Aspettan dunque che il buon sonno vegna
Con le penne bagnate a dar su gli occhi
Di quella gente, e vi pianti sua insegna:
E venne appena, e appena furon tocchi,
Che sbuca fuora Astolfo, e il letto segna
Della fanciulla, onde poi glie l'accocchi;
E smorza il lume, e subito smorzato,
Il romitello ancora esce d'aguato.
L'oste che si svegliò nel punto stesso
Che spenta fu la tutelar lucerna,
Udendo gente camminarsi appresso,
Salta di letto; e ancor che non discerna
Chi sieno, piglia un bacchio di cipresso,
Buono in que' casi quanto una lanterna;
E dove sente camminar bel bello,
Ei mena quanto puote il manganello.
La prima botta prese Astolfo in testa,
Che stava giusto per alzar la tenda,
E far oltraggio alla giovin modesta:
Ma l'oste con quel colpo il fallo emenda;
E gli fu tanto nociva e molesta
Quella percossa veramente orrenda,
Che girò sette volte il dormitoro,
Tra sè dicendo: Misero, mi moro.
[74]
Accortosi il romito del bastone,
Vuol tornare al suo letto, e scambia quello.
Va con la mano sopra esso tentone,
E il trova pieno: séguita bel bello,
E che ivi sia l'ostessa egli suppone,
E v'è colei che già puzza di avello,
Ond'ei senza dir nulla ivi si pianta,
E nel suo cor di gaudio e gioja canta.
L'ostessa che sentì questo fracasso,
E non si trova più il marito a lato,
Della suora si crede andato a spasso
L'onore, e pien di corna il parentato;
E salta giù in camicia, e passo passo
Della sirocchia al letticciuolo usato
Tacita s'incammina, e un letto trova;
Ma vuoto affatto e freddo lo ritrova.
L'oste frattanto si riporta a letto;
E mentre vuol cercar della consorte,
Si sente un che gli pon la mano al petto.
Questi era Astolfo ivi arrivato a sorte,
Che salì per lo scambio in tal dispetto,
Che gli averebbe dato infin la morte;
Ma soffre per non far ivi romore,
E dal letto dell'oste scappa fuore.
La giovinetta al suo covil ritorna,
E ci trova la suora; onde s'allegra.
Astolfo tanto fa che alfin s'inforna
Dove il romito dalla pelle negra
Dell'ostiero con l'avola soggiorna,
La qual rotta dagli anni, afflitta ed egra
Nelle coperte sta tutta raccolta,
Che ancor di luglio ella ha freddezza molta.
[75]
Alla sinistra sua Ferraù giace,
Ed alla destra l'amoroso Inglese;
E ciascun di suo sito si compiace.
Ma stanno con le voglie ambo sospese,
Ed il respiro quasi anco in lor tace;
Che Ferraù per l'oste Astolfo prese,
E tal di Ferraù fece argomento
Astolfo; onde temevan del cimento.
Pure il romito non si può tenere
Che in qualche modo l'amor suo non mostri
Alla vecchia che russa a più potere;
E immaginando bianche perle ed ostri,
Ch'anche all'oscuro pargli di vedere,
Con mani armeggia sì, che par che giostri,
Per discoprirle il dilicato volto,
Che stava tutto ne' lenzuoli avvolto.
E Astolfo anch'esso lavora di mano.
In questo mentre della stanza fuore
L'oste era andato, e tornato sì piano,
Che nè pur fece il minimo romore;
E una lanterna avea sotto il gabbano
Chiusa sì ben, che non uscìa splendore;
E dove crocchia alcun letto o tentenna,
Ivi l'ostier tosto d'andare accenna.
Ed ecco che s'incontrano a fortuna
Le man d'Astolfo con le benedette
Di Ferraù, che senza flemma alcuna
A dargli delle pugna non si stette.
Parve ad Astolfo la cosa importuna,
Che non vorrebbe snidar su le gazzette:
E credo che fuggito egli sarìa;
Ma l'oste aperse la lanterna ria.
[76]
Come talor se alcun cencioso involto
Viene in strada da due a un tempo visto,
Che si dan pugna e si graffiano il volto,
Per la gran voglia c'han di farne acquisto;
Ma se da un terzo il cencio vien disciolto,
E ci trova bruttura o carbon pisto,
Sdegno e vergogna tanto li conquide,
Che fuggono, e chi resta se la ride;
Così sdegnossi al comparir del lume
Astolfo e Ferrautte, in veder quanto
Orrida ell'era ancor sopra il costume
Delle vecchie che son deformi tanto.
Dalla barba le uscìa proprio bitume;
La sua pelle parea pelle di guanto,
Ma già dismesso, e di quella natura
Che fansi in Francia per maggior frescura.
Il resto se l'immagini chi vuole.
Onde avvampando di vergogna e d'ira,
Non vollero aspettar alba nè Sole;
Ma bestemmiata la contraria e dira
Fortuna, vanno via, come andar suole
Ladro scoperto che seco si tira
Voci e sassate. E noi lasciamli andare,
E in Cafria andiam Despina a ritrovare.
Durò la meschinella addormentata
Tutta la notte e tutto il giorno appresso;
E appena si riscosse e fu svegliata,
E vide il mare, e sè pur vide in esso,
Che sospettosa intorno intorno guata;
E mandando un sospir dal cuore oppresso,
Chiede del suo Ricciardo; e ciascun tace;
Onde in subito pianto si disface.
[77]
Il padre la conforta e rassicura
Che fra non molto rivedrallo al certo;
Ma la dolente il suo parlar non cura,
Chè ha il falso animo suo troppo scoperto.
Ma come fu dotata da natura
D'eccelso core e d'intelletto aperto,
Così in mezzo alla doglia e al tradimento
Andò pensando a cento cose e cento.
Poscia fermossi in una, e questa fue
Serrare il duolo per allora in seno;
E volta al padre: L'alme voglie tue,
Disse, sono alle mie regola e freno.
Amo Ricciardo, e più le virtù sue,
E quel valor di cui egli è sì pieno;
Ed amo la modestia e il suo bel cuore:
Ma vince amor di padre ogni altro amore.
Se a te sarà, come, signor, vorrei,
A grado ch'io lui sia serva e consorte,
Non han più che bramare i desir miei:
Ma se a te ciò non piace, o che la sorte
Così giri e così vogliano i Dei,
Son donna, è ver, ma generosa e forte;
E spero di poter, sebben con stento,
Superar me medesma e il mio tormento.
Al suono delle voci inaspettate,
Del vecchio padre rallegrossi il viso,
Come il prato per pioggia nell'estate;
E guardando la figlia fiso fiso,
Oh alma, disse, colma d'onestate!
De' miei grandi avi oh come in te ravviso
Raccolte tutte le virtù più belle,
E ricca di più chiare ancor di quelle!
[78]
Scherzo del volgo e de' fanciulli Amore
Sarebbe, e non terror d'uomini e Dei,
Se ognuno avesse di Despina il core.
Oh Cafria mia, quanto allegrar ti dêi,
Perch'io di figlia tal sia genitore!
È ver che un figlio, misero! perdei,
Che regger ti dovea dopo mia morte;
Ma in questa avrai sostegno ancor più forte.
Così mentre ei ragiona, da lontano
Si vedon comparir di Cafria i monti,
E poi le spiagge, e poi di mano in mano
I porti e luoghi più nomati e conti;
E perchè dispiegato ha il capitano
Il vessillo reale, allegri e pronti
I cittadini son venuti a riva,
Sicuri che a momenti il rege arriva.
Già il Sole si piegava alla marina,
E a poco a poco or una, or altra parte
S'ombreggiava del monte; e la divina
Donna che quiete a' mortali comparte,
Dalle spelonche, ove il dì la confina,
Usciva fuora con le chiome sparte;
E i gufi e le civette e gli assïoli
Le facevan d'attorno mille voli;
Quando disceser su la patria arena
Il re, la figlia e l'altra gente ancora;
E di tanta allegrezza fu ripiena
La spiaggia e il porto e ciascun Cafro allora,
Che a ridirlo sarebbe troppa pena.
Chi accende i lumi e chi le strade infiora;
E tra voci di gaudio e di diletto
Entrò Despina nel paterno tetto.
[79]
Quivi la notte tutti i suoi pensieri
Chiama a consiglio; chè morir si sente
Senza la luce di quegli occhi neri,
Onde il suo bel Ricciardo è sì potente,
Che passa tutti i più famosi arcieri,
Vogliate di Levante o di Ponente,
Di Mezzogiorno ovver di Tramontana;
E dalle piaghe lor niuna risana.
E ferma nel suo cor grande e virile
Da capo a piede tutta quanta armarsi;
E se dovesse ancor da Battro a Tile
Per trovare il suo sposo incamminarsi,
Non la spaventa l'esser suo gentile,
Che sotto l'armi ha speme d'indurarsi.
Solo le guasta tutto il suo disegno
La gran difficoltà d'uscir del regno:
Perchè ciascuno ha gli occhi in lei rivolti,
Speme e conforto del cadente impero;
Ond'è impossibil guardarsi da molti,
Quali abbiano per noi amor sincero.
L'oro più volte ha gli assedj disciolti,
E mite ha fatto ogni guardian più fiero;
E la paura e i vezzi hanno sovente
Messo in scompiglio ogni più franca gente.
Ma quella cura che nasce d'amore,
E si nutrica d'onestate e fede,
Niuna cosa di vincere ha valore.
Povertà le par bella; e non la fiede
D'ogni aspra morte il più crudele orrore.
Or ella, come saggia, ben s'avvede
Che non potrà tentar la sua partita,
Da tanti occhi guardata e custodita.
[80]
Ma quale ingegno Amor non assottiglia,
Quanto sia grosso, e quel più non raffina
Di quei che non han peso in su le ciglia?
Come per certo non l'avea Despina;
Che anzi cagionava maraviglia
Quella prontezza sua quasi divina.
Ora a costei pose Cupido in mente
Un modo d'ingannar tutta la gente.
Fece cercare con somma premura
Di cento giovinetti pel suo regno
D'etate, di grossezza e di statura
Eguali affatto; ed ella fe' il disegno
Dell'esser loro in su la sua misura;
E alla bellezza ancor volle che ingegno
Fosse congiunto; e fece far per loro
Belle armature e di gentil lavoro.
D'una divisa tutte e d'uno stesso
Color le fece fabbricare; e volle
Che fosse a ognuno un bel destrier concesso;
Nè rosa a rosa porporina e molle
Tanto è simìl, nè bianco gesso a gesso,
Come vuol che il destrier che ognun si tolle,
Alla grandezza e al pelo si assomigli,
E per macchia neppur si dissomigli.
Volle ancor che le penne de' cimieri
Fossero tutte di color d'argento.
In somma, tolta la voce e i pensieri,
Fra loro eran simìl tutti que' cento.
Bello il vedere dugent'occhi neri
In cento fronti senza barba al mento;
E se ben differenza era ne' volti,
Talor nelle visiere erano involti.
[81]
Con questa bella gioventude eletta,
Vestita pure anch'essa al modo stesso,
Pe' campi aperti a timida lepretta
Ed ora a damma iva Despina appresso;
Or sul lido del mar correva in fretta,
Scordata affatto del femmineo sesso:
E così ripigliando il prisco ardire,
Pensava solo ai modi di fuggire.
Lunge dal porto almen cinquanta miglia
Principia una gran selva assai famosa
Per l'avventure, onde la fata Origlia
(Il cener della quale ivi riposa)
L'empiette, per custodia della figlia
Che lì trattien, nè vuol che mai sia sposa
D'alcun, se non di quei da cui distrutte
Affatto sieno le avventure tutte.
Ma per tanti anni, quanti si provaro
Chiari nell'arme cavalieri o fanti,
Nelle prime avventure o ci restaro,
O sbigottiti non andâr più avanti;
Chè non si trova così fino acciaro
Che possa contrastare con gl'incanti.
Sol si diceva, e si diceva il vero,
Che alle donne era libero il sentiero.
Un giorno dunque la bella Despina,
Che seco aveva il nobile drappello,
In cacciando alla selva si avvicina,
Ed indi in quella trapassa bel bello.
Ma distinguer non puossi la regina,
Per quanto un guardi, da questo o da quello;
Onde parte va seco e parte resta,
Per timor che ha d'entrar nella foresta.
[82]
Avevan fatto trenta passi appena,
Che il ciel s'oscura, e in dispietata foggia
Per ogni banda folgora e balena,
E manda giuso spaventevol pioggia;
Indi una nebbia d'atro odor ripiena
Sorge, che affatto ogni chiaror disloggia;
Onde ognun per la tema vuol fuggire,
Ma non sa, per la nebbia, ove possa ire.
Febo a Despina sol di sè fa mostra,
Nè ode il fragore dei tremendi tuoni;
Anzi più dell'usato le si mostra
L'aria benigna in quelle regïoni,
E il suol dove biancheggia, ove s'inostra
Di gigli e rose e di sanguigni adoni,
Ove ella guarda, ove ella pone il piede,
E rinverdirsi ogni albero si vede.
O lei felice! quanto afflitti ed egri
Saran fra poco i cavalieri eletti
Alla custodia sua! i quali allegri
D'aver lasciati i boschi maladetti,
E di non più vedere i turbin negri
Che gli empiro d'affanno i forti petti,
Chiusi nella visiera a loro usanza
Facean ritorno alla reale stanza.
Ma quando ognun s'accorse che la bella
Despina nella selva restata era,
Piange e s'affanna, e sè infelice appella:
Ma più di tutti il rege si dispera,
Che piange morta ogni sua speme in quella,
O almen che non vedrà più primavera;
Perchè Lirina, figlia della Fata,
Delle donzelle è troppo innamorata.
[83]
Onde se a sorte ve ne arriva alcuna,
Seco la tiene; ed al primo bicchiero
Che beve di cert'acqua bruna bruna,
Perde ogni antico e più caro pensiero
D'amici, e patria, e sangue; e sol quell'una
Ama quanto può mai con cuor sincero:
E se prima d'amore egra languìa,
Quivi non sa che amor neppur si dia.
Ora a costei, cui niuna opra è celata
Del bosco, fu dimostro che Despina
È la donzella in lui di fresco entrata.
Corre a incontrarla subito Lirina
Da mille forosette accompagnata,
Ciascuna delle quali sì cammina,
Che par che voli o che il vento la mene,
Ch'erba col piè non tocca, o segna arene.
Ella s'era fermata a piè d'un fonte,
All'ombra d'un antico e verde alloro:
Nude le braccia avea, nuda la fronte,
E all'aure sciolti i suoi capelli d'oro:
Quando calare dal vicino monte
Vide Lirina con l'amabil coro;
E appena appena inverso lor si mosse,
Che arrivata da quella ritrovosse.
Come fra lor fosse amicizia antica,
Si baciâr dolcemente e senza fine;
Nè sì forte si stringe ovver s'implica
La pieghevol vitalba in su le spine,
Nè l'edra tanto s'avviticchia e intrica
Dell'olmo vecchio pel fronzuto crine,
Come stanno abbracciate e stanno strette
Fra loro queste due belle angiolette.
[84]
Zeffiro intanto su le lievi penne
La bella coppia e tutto il coro prese,
Ed al palazzo subito pervenne,
Che fece Origlia; e non ci fece spese,
Che a fabbricarlo i demoni vi tenne
(Come dice l'istoria) più d'un mese:
E lo fecer sì vago e bello tanto,
Ch'altro miglior non fêssi per incanto.
In mezzo un verde e spazïoso prato
Stassi l'ampia magione; intorno intorno
Evvi d'aranci e cedri un bosco grato,
Mirabilmente di fontane adorno;
E quanto puote aver l'arte pensato
E la natura, egli era in quel contorno.
Mi duol che Cafria ell'è troppo discosta;
Che per vederlo vorre' andarvi apposta.
Nel bel palazzo poi, che pazzo fora
Chi ne volesse altrui mostrar la pianta,
L'allegrezza e il piacere vi dimora,
E si mangia e si beve, e balla e canta,
Starei quasi per dire, a ciascun'ora.
Le giovinette son più di millanta
Senz'uomo alcuno; e gli hanno odio più fiero
Che a timidetta lepre il can levriero.
Ma Despina, che ancor non ha gustata
La bevanda nemica al nostro sesso,
Del suo Ricciardo sempre innamorata,
Co' suoi pensier s'aggira intorno ad esso;
E va pensando a quell'ora beata
Che troverallo e l'avrà sempre appresso.
Ma beve appena di quell'acqua bruna,
Che non ha più di lui memoria alcuna.
[85]
Oh quante donne mai nel mondo sono,
Che bevon di quest'acqua a tutte l'ore,
E i vecchi amor ponendo in abbandono,
Svenan un, per dar vita a un altro amore!
Almeno almen si gettassero al buono,
E posto tutto in libertade il core,
Non si dessero in preda a un nuovo amante:
Ma questo appena lo fanno le Sante.
Despina dunque, di Ricciardo spenta
L'amabile memoria, di Lirina
Amica tanto in quel giorno diventa,
Che stan prese per man sera e mattina;
Ed è di quella vita sì contenta,
Che del ciel già si crede cittadina.
Or noi lasciamla lieta in questi chiostri,
E volgiamo a Ricciardo i versi nostri.
Sebbene io mi ritrovo ora sì stanco,
Che meglio fia ch'io prenda del riposo,
Per poter poi più vigoroso e franco
Ripigliare il lavoro faticoso,
Pel qual sudo talor, e talor anco
Tremo e m'agghiaccio, e gire oltre non oso:
Chè sebben facil sembra il mio lavoro,
Pur d'ingegno ci spendo ampio tesoro.
Chè merita il poeta allor gran lode,
Che l'arte sua ricopre con natura;
E chi legge i suoi versi, ugna non rode
Per indagar qualche sentenza oscura;
Ma li capisce subito che li ode,
E crede l'opra sì piana e sicura,
Che sperar può che quelle cose istesse
Ei le potrebbe dir, quando volesse.
[86]
Non sia però tra voi, donne, chi pigli
In qualche tristo senso i detti miei;
Quasi voglia di lode sì m'impigli,
Che quel dica di me ch'io non dovrei,
Ed a mio danno fra di sè bisbigli:
Che queste cose ho detto sol per quei
Che nulla fanno e nulla sanno fare,
Ed ogni cosa voglion biasimare.
Contro de' quai tal bile in me s'estolle,
Che affatto uscirei fuor del seminato:
Però si spenga, or che gorgoglia e bolle,
Con grato nembo di buon vin gelato;
Di quel buon vino che in aprico colle
Di vecchia vite in Serravalle è nato.
Oh che buon vino! oh villan grazïoso,
Che l'hai pigiato col tuo piè terroso!
[87]
Ricciardo, vinto il mostro, l'armatura
E il cavallo incantato alfin si piglia.
Orlando abbatte l'orribil figura,
La quale in pochi passi fa più miglia.
Ferraù, per condur l'anima dura
D'Astolfo a ben morir, l'arte assottiglia.
I due minor fratelli nel cammino
Vedonsi innanzi passeggiare un pino.
Muse, se mai mi foste amiche e grate,
E se all'ombra de' vostri incliti allori,
E al mormorìo dell'acque a voi sacrate
Potei gli affanni miei render minori;
Deh per vostra pietà non mi negate
L'usata grazia, acciò ch'io mi ristori
Dal crudo colpo della Morte acerba,
Che mi ha reciso un nipotino in erba.
E col picciol nipote ahi quanta speme
L'iniqua ha spento de' parenti suoi!
Onde a ragione s'addolora e geme
L'afflitta madre, e seco tutti noi:
Chè rado mette la natura insieme,
Nè forse allor che genera gli eroi,
Tanta grazia, beltà, vivezza e ingegno,
Come in lui: e la rea ruppe il disegno.
[88]
Ruppe il disegno di natura e il mio,
Che tutto lieto al benedetto giorno
Giva pensando, ch'ei dal picciol rio
D'Ombron sarìa venuto a far soggiorno
In val di Tebro, u' la terrena a Dio
Stanza è sacrata; e di virtudi adorno
Forse stato sarìa luce e conforto
Di tutti noi che lo pianghiamo or morto.
Oh morte! ahi dura e rincrescevol cosa!
Così la gente misera favella,
A cui, Momino mio, tutta è nascosa
La gran felicitade che t'abbella:
Che di cosa mortal, trista e fangosa,
Ti sei cangiato in rilucente stella;
E appena entrato in questo mare infido,
Pietoso vento t'ha rispinto al lido.
Ben è crudele e d'invidia ripieno
Chi piange la tua morte, e non comprende
Gli umani affanni e l'amaro veleno
Onde grondanti son nostre vicende:
Chè tutto questo misero terreno
Egli è coperto di nimiche tende
Per trucidarci; ed oltre a queste ancora,
Abbiam dentro di noi chi ci divora.
Però statti felice, e Dio ringrazia
Dell'immensa mercede che t'ha fatta;
E di quel bene immortale ti sazia,
Onde la fonte d'ogni bene è tratta;
E pel sereno ciel lieto ti spazia,
E qualche volta le tue luci imbratta
In guardar le miserie de' mortali,
Nell'onde avvolti de' perpetui mali.
[89]
Che se forse ancor tu venivi grande,
Forse anco un giorno tu averesti pianto,
Come Ricciardo, che una fonte spande
Di lagrime dagli occhi acerba tanto,
E così piena di miseria grande.
La doglia ell'è di non vedersi accanto
La sua Despina e il suo diletto amore,
Che gli rubò dormendo il genitore.
Quando svegliossi il mesto giovinetto,
E seppe che Despina era partita,
D'affanno e di vergogna e di dispetto
Poco mancò che non uscì di vita;
E balzato in un subito di letto
Col cuor doglioso e la mente stordita,
Armato tutto se ne corre al mare,
E senza indugio vollesi imbarcare.
Gli dissero i nocchieri: Il mare è grosso,
E soffia un vento che ci fa temere.
Disse Ricciardo: Io vi stritolo ogni osso,
Se seguitate a farmi dispiacere.
Su la terra vedermi più non posso,
E non mi ci terrebbe l'aversiere.
Vo' andare in Cafria, e voi mi ci merrete,
O tutti quanti di mia man morrete.
Questo parlare altero e risoluto,
E quel saper ch'egli era uomo da farlo,
Fe' che ciascuno rimanesse muto,
Nè dicesse più cosa da irritarlo.
Anzi il lor capo, ch'era un uomo astuto,
Con lieti detti prese a lusingarlo,
E disse: Contro il mare e contro il vento
Ci siam più volte trovati a cimento;
[90]
E la nostra arte ha vinto il loro orgoglio.
La terra e il fuoco fan paura a noi,
Ignote secche e sconosciuto scoglio;
Eolo non già con tutti i venti suoi,
Benchè non manchi lor forza e rigoglio:
Ed or che abbiamo il fiore degli eroi
Sul nostro legno, le stesse tempeste
Noi piglieremo, come fosser feste.
E in così dire, abbandonaro il porto;
E Ricciardetto se ne sta pensoso:
E tanta fu la fretta ed il trasporto,
E l'amore fortissimo di sposo,
Che per molte ore e molte ancora accorto
Non si fu che partiva di nascoso
Da' suoi cugini e dalle donne loro;
E rossor n'ebbe, e n'ebbe anche martoro.
Ma non volle perciò romper sua via,
E tirò innanzi con molta speranza
Di trovare appo loro cortesìa:
Chè Amor non guarda alla buona creanza,
Ch'è più villano della carestìa;
La qual 'n una città quando s'avanza,
Non solo altrui non vuol che s'offra il pane,
Ma vuol si rubi con maniere strane.
Andò cinque o sei giorni sempre bene;
Ma turbatosi il cielo in su la sera,
Disse il piloto: Di banchi d'arene
Qui c'è gran copia; e se fosse men fiera
Quell'isoletta ove gir non conviene
(E lui mostrava un'isoletta nera
Per lo gran bosco che in essa apparía,
Albergo antico d'una belva ria),
[91]
Là ci potremmo, soggiungea, salvare;
Chè in altra forma morir ci bisogna.
A cui Ricciardo: Io temo più del mare,
Che di quel mostro; e già il mio core agogna
D'esser su l'isoletta a travagliare.
Ed egli a lui: Non ti vo' dir menzogna:
La bestia che ti narro è sì spietata,
Che l'affogar mi sembra cosa grata.
Questa è una fiera d'estrema grandezza:
Ha il volto di fanciulla, il collo e il petto;
Ed in quel volto alberga gran bellezza.
Le mani ha d'orso, il resto è serpe schietto;
Ed ha la pelle di tanta durezza,
Che non la passa colpo di moschetto;
E nella coda ha forza così strana,
Che quando vuol, le annose quercie appiana.
Di poi, siccome il ragnolo che tesse
Di fila sottilissime sua rete,
Ed in tal modo quelle son connesse,
Che pioggia o vento non fia che l'inquiete;
Ed egli in mezzo s'equilibra d'esse,
Talchè se alcuna di quelle sue sete
Tocca l'incauta mosca, egli repente
V'accorre, indi l'uccide crudelmente:
Così questa crudele ha tutta quanta
Di reti l'isoletta ricoperta;
Ma per esse la sabbia non s'ammanta,
Tanto son fine; e la spiaggia deserta
Un tocca appena, che la rea l'agguanta,
Nè per forza esser può la rete aperta.
Giganti orrendi, sopr'essa discesi,
Vi ho visti a un tempo restar morti e presi.
[92]
Solo una volta un certo cavaliero
Del vostro clima è fama che rompesse
La forte rete; ma non so se è vero:
E dicon che con essa combattesse
Tutta una notte e tutto un giorno intero,
E ch'ella poi nel mar si nascondesse;
E mostrandogli il crine e il volto bello,
Ingannato restasse il cattivello.
Però, signor, fuggiam l'isola indegna
E la sicura morte; e se non sbaglio,
E se lo vero l'arte mia m'insegna,
Dal mare non pavento più travaglio:
Prospero vento sopra l'onde regna.
A cui Ricciardo: Io sol sarò il bersaglio
Di questa fiera; e voi dall'alto mare
Vedrete un poco quello che so fare.
Nè perchè il preghi il sagace piloto,
Puote impetrar che all'isola non scenda:
Ma pria che ponga in sul terreno ignoto
Il piede, con la sua spada tremenda,
Che in vita sua non diè mai colpo a vuoto
(Se di Ricciardo è vera la leggenda),
Batte la rena, che pare un villano
Che meni il correggiato sopra il grano.
E fu buona per lui questa ricetta;
Altrimenti restava egli burlato,
Siccome un pettirosso alla civetta.
L'orrendo mostro che stava in agguato,
E nel tempo medesmo alla vedetta,
Stimando il pro' Ricciardo impastoiato,
Salta del bosco fuora, e vagli addosso,
Per divorarlo vivo in carne e in osso.
[93]
Ma appena egli lo vede in libertade,
Che ferma il corso e si ritorna al bosco,
Ove a far pompa della sua beltade
Intento è tutto: il ventre orrido e fosco,
E i curvi artigli, onde usa crudeltade,
Copre di frasche, e la piena di tosco
Orribil coda nell'arena asconde,
E mostra il volto con le trecce bionde;
E muove gli occhi con tanta dolcezza.
Che il buon Ricciardo comincia a dubbiare
Che a tanta ferità tanta bellezza
Per modo alcun non si possa accoppiare:
E la vista da lui squama e bruttezza,
E i gravi scempj uditi raccontare,
Crede che sieno favole e romanzi
D'uomini pazzi, od ebbri come lanzi.
In questo mentre dalla bella bocca
Del mostro traditore esce una voce
Soave sì, che l'anima gli tocca,
E il cor gli scalda, anzi gl'infiamma e cuoce
Ed ei frattanto la sua rete scocca
Sopra di lui, quale era fatta a croce;
E nel tempo medesmo furibonda
Esce dal bosco l'atra bestia immonda.
Ma della rete eran le maglie rotte;
Chè Ricciardo non diede passo mai,
Che con la spada non tirasse botte
Sopra il renaccio, e fece bene assai.
Or qui le zuffe, or qui le acerbe lotte
Ebber principio, e gli affanni ed i guai
Del pro' Ricciardo, che veduto il mostro
Si fe' dall'ira negro come inchiostro.
[94]
E come nella settimana santa
Vanno a' vespri i fanciulli co' martelli,
E, dato il segno da colui che canta,
Scarican su le panche i lor flagelli;
Così Ricciardo, in su la bestia tanta
Mena la spada, ed ora i bei capelli
Le taglia, or parte della coda brutta,
Con cui ella or lo stringe, or lo ributta.
Dopo lungo contrasto e lievi offese,
La spada al cavalier rompe la fera
In mezzo, e in bocca la punta si prese,
E di nuove armi si guarnì l'altera,
E il cavalier con sua difesa offese:
Che sebben la ferita fu leggiera,
Perchè ferillo d'una spalla in cima,
Fu ferita per lui, e fu la prima.
Disperato Ricciardo questa volta
Non sa più che si fare o che si dire.
Dassi alla fuga con prestezza molta,
Giacchè non può guardarsi, nè ferire.
E fatto avrebbe una cosaccia stolta,
Se per vergogna sprezzava il fuggire,
E si lasciava far dal mostro in brani,
Siccome dal cinghiai si fanno i cani.
E sì fuggendo sgambettava via
Il disperato giovane franzese,
Che rondinella propio esser parìa,
Quando su l'erbe va con l'ali stese;
E fe' fuggendo la medesma via
Che fatta aveva. Dietro lui si stese
L'orribil fera, che cieca di sdegno
Si feo gran danno col suo proprio ingegno:
[95]
Perchè correndo affatto all'impazzata,
Si trovò sopra ad una buca cieca,
Che non ha fondo ed ha una larga entrata,
Che a sol vederla un gelo all'ossa arreca.
La bestia appena su vi fu montata,
Che ogni riparo col peso riseca,
E giù vi piomba, ed urla in tal maniera,
Che l'isola ne trema e la riviera.
All'urlo strano Ricciardo voltosse,
E giunto alla gran buca, ancora udiva
Cadere quella fiera, e dare scosse
Per lo gran pozzo; ed ancor la sentiva
Gridar, benchè lontana molto fosse.
Anzi disse egli, giunto che fu a riva,
A' marinari, che stiè più d'un'ora
Sul pozzo, e ch'ella rotolava ancora.
O questa sì, che si può dir fortuna,
Ricciardo mio, e me n'allegro teco;
Chè a dirla giusta, tu n'hai scampata una
Che l'egual non avrai, se ancor dal cieco
Inferno uscisse Pluto con la bruna
Famiglia, e avesse tutti i draghi seco,
E questi e lui ti ritrovassi addosso:
Sicchè ringrazia Dio, e poi quel fosso.
Morta e sepolta l'orrida bestiaccia,
Trovò Ricciardo una lunga catena,
Che servì lui di ben sicura traccia
Per ritrovar la rete in su l'arena,
Che intorno intorno l'isoletta abbraccia.
È sì sottile, che si scorge appena;
Ma tanto dura, che appunto ci volle
Il brando di Ricciardo, e allor fu molle.
[96]
Di questa rete cinquecento canne
Egli si prese, e se la mise in tasca;
E poi soletto per l'isola vanne,
Frugando ogni cespuglio ed ogni frasca:
Quando tra certe giovinette canne
Vede un splendor, che par che il Sol vi nasca.
S'accosta, e mira una tale armatura
Fatta di cosa trasparente e pura.
D'un acceso rubino era il cimiero,
Lo scudo e il resto pareva diamante;
E appiè dell'armi giaceva un destriero
Bello così, ch'ei ne divenne amante.
Era di pelo tutto quanto nero;
L'ugna d'argento avea dietro e d'avante;
La sella d'oro, le briglie di perle.
Pagherei quasi un occhio per vederle.
Appresso l'armatura era una spada,
Di cui l'arte fra noi non sa formarne
Una simìle, che così ben rada,
E tagli il ferro come fosse carne;
Ed una lancia al mondo sola e rada,
Che in ogni petto forza è che s'incarne,
Se avesse un masso ancor per petto a botta,
Senza periglio che rimanga rotta.
Ha d'oro il calcio, e dïamante è il resto:
E sebben forse altrui parrò bugiardo,
Non me ne curo, e ciò non m'è molesto;
Ch'io credo tutto e senza alcun riguardo
A mastro Garbolino ch'è il mio testo.
Vedute dunque queste armi Ricciardo,
Tutto allegrossi, e stese a lor la mano;
Ma rïuscigli il pensamento vano:
[97]
Chè destossi il Cavallo immantinente,
Ed annitrendo si voltò co' calci;
Onde per tema di non far niente
Tirossi indietro, e disse: Qui non valci
Scherzar; chè l'animal troppo è possente,
E veggo ben che mangia altro che tralci.
lo dubito, anzi credo senza fallo,
Che questo sia di Marte il gran cavallo.
E mentre così dice, in su l'erbetta
Torna di novo a stendersi il destriero.
Ricciardo, che quell'arme pur l'alletta,
Per averla vi pon tutto il pensiero:
Quando vede una pietra alquanto stretta
Posta sopra un avello oscuro e nero;
E v'era scritto: Chi l'armi desía,
Prenda il cavallo, e se lo domi pria.
In pochi versi qui molto si narra,
Sospirando ripiglia il paladino;
Chè quei co' calci rade volte sgarra,
E coglierebbe in mezzo d'un quattrino:
E di sua forza già mi ha dato l'arra;
Onde per Dio non gli vo più vicino.
Pur si mette a pensare e ripensare
Al modo di poterselo pigliare;
E assottiglia cotanto il suo cervello,
Che della forte rete gli sovvenne;
E ritornò veloce come uccello,
Ed ancor più, sebben privo di penne,
Al loco dove stava il capannello,
Staggi e catene, e il canapo solenne,
E altre cose che passano il migliajo,
Che avea la fera pel suo paretaio.
[98]
E con esse tornossene al canneto,
E con le reti prese un par di miglia;
Indi tirolle pianamente e cheto,
E copriro il cavallo a maraviglia:
Sicchè ben stretto davanti e di dreto
Alzossi in fretta e stralunò le ciglia.
Ricciardo addosso gli salta ad un tratto,
E nella sella si pone di fatto.
Le gran pazzìe che fece quel cavallo,
Non si possono dire in verso o in prosa.
Ma Ricciardo sta fermo, ch'egli ha il callo
Nelle ginocchia, e ha l'alma generosa;
Talchè lo rese a' voler suoi vassallo:
Onde discende, e alquanto si riposa;
E dopo torna a cavalcar di novo,
E gli rïesce, come bere un ovo:
Ch'egli non solo non è più bizzarro,
Ma sotto il forbicion par pecorella,
O vecchio bue quando egli è posto al carro;
Talchè Ricciardo l'armatura bella
Si veste (e non è falso quel ch'io narro),
E quindi sale allegramente in sella,
Prima presa la spada e poi la lancia,
A cui non fu l'eguale al mondo e in Francia:
Ed alzata la rete gentilmente,
Tutto lieto sen corre alla riviera,
Ove ciascun nocchiero era dolente;
Tanto spavento avea di quella fera:
Ma visto lui con l'arme rilucente,
Spinse il naviglio colà dove egli era.
Giunto alla riva, il forte paladino
Vi montò sopra, e vel portò il ronzino.
[99]
E quindi narrò loro ad una ad una
Le traversìe e l'orride avventure;
E come in fine l'ajutò Fortuna,
Grande amica dell'anime sicure,
E che de' vili non ha stima alcuna.
Attoniti in guardare l'armature
Tutti si stanno, e lor par di sognare,
Vedendo cose tanto belle e rare.
In questo mentre vede Ricciardetto
Che pende dall'arcione della sella
Di maglia d'oro un picciolo sacchetto:
L'apre egli tosto, ed evvi una cartella
Scritta d'un bel carattere e perfetto
In lingua turca: ma di tal favella
Ricciardo n'è maestro, che sapea
Tutte le lingue, fuor che la caldea.
E il breve contenea queste parole:
Sì buon cavallo e sì ricca armatura
Opera son delle più sagge scuole
Di Fate che han soggetta la natura:
Chè intorno a cento in quest'isola sole
Si ritrovaro, e non mica a ventura,
Per fare arme sì fatte e tal cavallo,
Da por d'Origlia l'arti tutte in fallo.
E qui narrava tutta per disteso
L'inimicizia d'Origlia fra loro,
E l'incantato bosco e il vilipeso
Amore, e tutto in somma il reo lavoro,
Per cui ogni campion restava preso,
Che a narrarlo ne avrei noja e martoro.
E in fine concludeva: O te beato,
Che avrai queste armi e caval sì pregiato!
[100]
E in fin del breve v'era ancora scritto
In caratter minuto e assai diverso,
Per qual ragion s'avessero prescritto,
Quel luogo all'opra, e il diceva in un verso;
Perchè se l'abbia alcun campione invitto,
Non qualche vile ne' piaceri immerso;
E quegli sarà bene invitto e forte,
Da cui il mostro dell'isola avrà morte.
E di più v'era ancora il formulario
D'un certo giuramento, senza il quale
Gli si farebbe il cavallo contrario,
E l'armi proprie gli farebber male:
D'andar nel bosco, non già per divario,
Ma per finir con quell'arme fatale
Ogni avventura ed ogn'incantagione,
Che di tante miserie era cagione.
Onde Ricciardo pieno di contento
Fece in presenza a tutti i marinari,
Nel modo ch'era scritto, il giuramento.
E da sinistra si sentîr gli spari
Di molti tuoni, e ne contaron cento;
I fuochi fûro allegri e fûro chiari;
E concludono le genti sensate
Che fur gli spari delle cento Fate.
Però prega il piloto che lo voglia
Presto condurre alla selva d'Origlia;
E quegli lo fa star di buona voglia,
Col dirgli ch'è lontana cento miglia.
E tanto d'arrivarvi egli s'invoglia,
Che mette insino al corridor la briglia;
E vuol che in cima all'albero alcun saglia,
Per veder s'anco scopre la boscaglia.
[101]
Vanne felice, o generoso amante:
Non ti muovano guerra il cielo e il mare.
Io ti lascio per poco; e se alle tante
Cose e diverse che ho prese a trattare,
Potrò dar luogo con ordin bastante,
Ti vo' venir nel bosco a ritrovare.
Frattanto a Orlando ed a Rinaldo io torno,
Che hanno già in Francia fatto il lor ritorno;
E udito appena come Carlo è in Spagna,
Che vanno a quella volta in dirittura.
Un ronzino ha ciascun, che il suol si magna;
E tanto è il zelo e la loro premura
Di far per Carlo qualche opera magna,
Degna di lui e della lor bravura,
Che vorrebbero avere ali alle piante
Per esser dentro in Spagna in un istante.
E in otto giorni giunsero a Granata,
Il giorno giusto della gran battaglia;
Che poca de' Cristiani era l'armata,
E infinita de' Mori la canaglia.
Orlando il padiglion di Carlo guata,
E vistolo, a quel va come zagaglia
Che sia vibrata da robusto braccio,
E lui saluta, e dàgli un grato abbraccio.
Lo stesso fa Rinaldo: e noto appena
Egli è a' soldati che Rinaldo è in campo,
E il forte Orlando dalla dura schiena,
Che niun più teme alla vittoria inciampo;
E con fronte allegrissima e serena
Corrono addosso a' Mori come lampo,
E ne fanno una strage così strana,
Che a voler dirla fora impresa vana.
[102]
Qui si potrebbe dir di molte cose,
Eccelse tutte e di stima infinita,
Che ad una ad una in ordine dispose
Il Garbolino, e l'indice l'addita.
Ma le donne son troppo timorose;
E quella istoria solo è a lor gradita,
Che favella d'amanti o in guerra o in pace,
E la strage ed il sangue a lor dispiace.
Ma sceglieronne alcuna nondimeno,
Per non parer maligno o trascurato.
Nell'esercito Moro un Saraceno
Era sì grande e grosso e smisurato,
Che in moversi scotea tutto il terreno:
Avea le braccia in modo disusato,
Perchè eran così lunghe, che l'altiero
Potea toccar la terra, e stare intero.
Più lunghe ancora avea di mezza canna
Le dita, e le copría d'un forte guanto,
Che avea l'ugne di ferro; ond'egli scanna
Qualunque acciuffa; e lì non vale incanto:
Ed ha per lancia così fatta canna,
Che un grosso pino non può starle accanto.
Ove arriva con essa il malandrino,
Fa da boja in un tempo e da becchino.
Corse costui, cioè fece tre passi,
E que' tre passi furon più d'un miglio.
Cose per Dio da sbalordire i sassi;
Ma di ciò punto non mi maraviglio:
Chè se proporzïone al mondo dassi,
Mettiamo caso, per divin consiglio
Che nascessero i piedi all'Apennino,
Quanto fora in tre passi il suo cammino?
[103]
Or questa bestia, questo monte strano
Di carne e d'ossa, creato da Dio
Sol per gastigo del popol cristiano,
Giunto là dove udiva il ramaccìo,
Anzi il vedeva, che troppo lontano
Aveva l'orecchiaccio al parer mio,
Girò la canna con la mano destra,
Che pe' Cristiani fu trista minestra.
Con la sinistra poi fece tal opra,
Che scannò più migliaja in un momento.
Or qui la bella tua luce si scopra,
Apollo amico, e nello scuro e spento
Ingegno mio tutta l'infondi, ed opra
Sì, ch'io possa un sì nobile argomento
Trattar con la dovuta dignitade,
Per farlo noto alla futura etade.
L'intero padiglione, ove era Carlo,
Astolfo, Ferrautte, ed altri mille
Campioni lì venuti ad ajutarlo,
Prese colui; e come fosser spille
Le travi e gli assi che misero a farlo,
Lo svelse, ed appressollo a sue pupille:
Ma mentre che ha le mani alte da terra,
Una Rinaldo, e l'altra Orlando afferra.
E vi montano sopra a cavalcione,
E con la spada taglian l'armatura,
Che sebben era di tempere buone,
Non resistette in quella congiuntura:
O perchè ebbe Dio compassïone
Di Carlo, oppure per la gran bravura
De' paladini: in somma fu tagliata
La maglia, e già la carne è denudata.
[104]
Da quella parte ove il braccio si piega,
Incominciaro i colpi alla distesa.
Ma disse Orlando: Qui ci vuol la sega;
Se no, chi porrà fine a tale impresa?
Rinaldo anch'esso sbigottito prega
Ad un per uno i Santi della Chiesa,
Che vogliano ajutarlo, acciocchè possa
Tagliar quel trave di carnaccia e d'ossa.
Il mostro intanto che ferir si sente
Ne' bracci, e vede il sangue che sciorina,
Vuol liberarsi dal ferro tagliente:
Ma invan bestemmia, e invano si tapina;
Chè l'uno e l'altro egli è troppo valente,
Ed hanno i ferri lor tempra sì fina,
Che non si guasta mai. Or dàgli, dàgli,
Finiro entrambi a un tempo i lor travagli:
Perchè recise al suol caddero in fine
Mezze le braccia con le mani intere
Di quella furia, e furon tre ruine;
Perchè insiem con le man dell'aversiere
Cadde Carlo e sue genti paladine:
E allor fu un lieto e misero vedere;
Chè di tanto alto cadde il padiglione,
Che morto Carlo credêr le persone.
Ma cadde capivolto, ed urtò prima
L'alta colonna che in mezzo lo regge;
Onde trovossi in piede, e su la cima
Carlo, cui tanto l'Angel suo protegge.
Ma non conosce ancora e non istima
Il passato periglio, e par che ondegge
In mille dubbi; e fuora della tenda
Si getta, e vede la cosa tremenda:
[105]
Vede, dico, le due carnose travi
Giacere a terra, e vede in su le spalle
Del mostro orrendo i paladini bravi
Che con le spade lor vi fanno valle:
Ma per molto che ognun di loro scavi
In quel carname, e la mano v'incalle,
V'è tanto da tagliar prima che muora,
Che temono che il dì non basti ancora.
Onde Carlo convòca i suoi soldati,
Ed alle gambe fa dargli alla peggio.
Che dal sangue di lui sono affogati;
Ma non per questo levano l'asseggio;
I due guerrieri intanto disperati
Gli facevan nel collo un bel maneggio.
La fiera, che così tagliar si sente,
Grida che par un diavol veramente.
Tentenna il mostro, e quercia annosa sembra,
Quando la scure ha trapassato il mezzo:
Ma questa somiglianza non rassembra
A quel che dico, e non lo mostra a un pezzo.
Pur piega alfine con tutte le membra,
E a ruinar comincia; e in quel tramezzo,
Cioè in quel tempo che durò a cadere,
Vi mise più d'un lungo miserere.
Caduto il gran gigante, non v'è Moro
Che si stimi più salvo, e via si fugge:
E come il sole co' bei raggi d'oro
Bianca neve d'april sface e distrugge,
Così fece la tema in tutti loro.
Il rege solo sbuffa, smania e rugge
A guisa di leon che sia ferito,
E non si move per nulla di sito;
[106]
E sfida ad uno ad uno alla battaglia:
Ed Astolfo voll'essere il primiero;
Ma l'aurea lancia che colpo non sbaglia,
Seco non have; onde va meno altero.
Il rege si chiamava lo Sbaraglia;
Ma quel non era già il suo nome vero,
Chè chiamavasi Alasso; ma la gente
Gli diè tal nome perchè era valente.
Incominciano a darsi con le spade,
E si dan colpi da mozzare abeti.
Diceva Alasso: E quando costui cade?
E l'altro: Son men dure le pareti,
Diceva, e i ciottoloni delle strade,
Di questa bestia. E pazzi ed indiscreti
Si dan puntate con rabbia sì grande,
Che l'uno e l'altro molto sangue spande.
E a farla breve, andò la cosa in modo,
Che cadde morto il tristo Saracino.
Ma dell'alma d'Astolfo ancora il nodo,
Se non sbaglio, di sciogliersi è vicino;
Perchè piagato tutto egli è oltre modo:
Ha una ferita nell'occhio mancino,
Un'altra nella gola e tre nel petto;
Sicchè puzza oramai di cataletto.
Ciascuno accorre al moribondo Inglese,
E gli ricorda Orlando ad alta voce,
Che non disperi delle tante offese
Che ha fatto a Dio; ma speri nella Croce,
Ove egli tiene ambo le braccia stese
Per abbracciarlo; e che colpa sì atroce
Non v'è che sia di perdonanza indegna,
Se al suo voler di core un si rassegna.
[107]
E Ferrautte soggiungeva anch'esso
Parole sante e proprio da romito.
Ma disse Astolfo: Non mi stare appresso,
Chè sei un uomo dal cielo bandito,
Ed ha il diavolo in mano il tuo processo.
Disse Orlando: Sta umile e pentito,
E del prossimo tuo non creder male,
Benchè sia stato un empio, un micidiale.
Il giudicar s'è riserbato Iddio;
Onde a lui tocca, e non a te il giudizio.
Ma, disse Astolfo, e che male fo io
In dir che in Ferraù regna ogni vizio?
In così dire, io credo, cugin mio,
Di fare al vero un santo sagrifizio.
E Ferraù, con voce bassa e pia,
Diceva: Astolfo non dice bugìa:
Ma non per questo ch'io son peccatore,
M'hai da sprezzar, quando t'esorto al bene.
E giacchè qui non veggo confessore,
Dimmi i tuoi falli, e fuggi l'aspre pene;
Chè senza confession male si muore.
Riprese Orlando: Al certo ciò conviene,
E poco importa se il romito è tristo;
Chè non a lui, ma ti confessi a Cristo.
E trattosi in disparte, lasciò dire
Tutti i suoi falli al moribondo duca,
Che presto presto poi venne a morire;
E morto non fu posto in una buca,
Ma con incenso, mirra ed elisire
Fu imbalsamato, acciò si riconduca
Intero in Francia; e di nero cipresso
Fêro una cassa, e sel portaro appresso;
[108]
E vi scrissero sopra: Qui racchiuso
È il cadaver d'Astolfo, che fu in vita
Amico della spada, e più del fuso,
Perchè ogni donna assai gli fu gradita.
Pugnò sovente, e gli fu rotto il muso;
Il ruppe ancora: l'anima salita
Si crede al ciel; che pel santo Vangelo
Uccise Alasso, ed ei restò di gelo.
Gli fur fatte l'esequie: e Ferrautte
Cantò la messa, e Carlo fe' un discorso
A' paladini e alle milizie tutte,
Lodando il duca, e come in suo soccorso
Venne egli sempre; e le pupille asciutte
Non tenne per pietà del caso occorso:
E dopo questo, come si suol fare,
Andaron tutti quanti a desinare.
E nel mentre che stanno allegramente,
Del regio padiglion la sentinella
Grida: Verso di noi vien nuova gente.
S'affaccia Carlo ad una finestrella,
E dice: Son giganti veramente,
Figli forse di quella bagattella
Che ci mise in pericolo di morte;
Ma i due cugini ci mutâr la sorte.
Ancora Ferraù mette la testa
Al finestrino, e grida come un pazzo:
O don Fracassa caro, o don Tempesta,
Donde venite? E tal ne fea schiamazzo,
Che gli orecchi di Carlo alquanto infesta;
Sicchè fattosi in volto pavonazzo,
Gli disse: Parla un poco sotto voce,
Che all'orecchie de' vecchi il raglio nuoce.
[109]
E in così dire, alla finestra apponto
(Chè nella casa non possono entrare
Per lor grandezza) don Tempesta è gionto,
E a viso a viso a Carlo può parlare:
Il quale agli atti gentileschi pronto
Li prese con parole a carezzare;
E richiesti di donde eran partiti,
Disser: Di Roma da' superbi liti;
E che dal dì che in Nubia essi arrivaro,
E saltò su la spiaggia Ricciardetto
Con Nalduccio e Orlandino illustre e chiaro,
E che il nocchiero infido e maledetto
Fe' loro un scherzo veramente amaro;
Perchè stando ambidue dormendo in letto
Non li volle svegliare, per timore
Che non dessero morte al suo signore:
Da quel dì sempre pel vasto Oceáno
Erraro soli; che il nocchiero accorto
Sciolse le vele, e poi sbarcò pian piano,
Finchè arrivaro un giorno a prender porto,
Se non mi sbaglio, alla città d'Orano;
E che di là per lor santo conforto
Navigâr per l'Italia, e finalmente
Giunsero a Roma il dì di San Clemente.
Orsù, rispose Carlo, un'altra volta
Direte il resto; adesso ite a mangiare;
Lo che da entrambo volentier si ascolta.
Intanto Carlo si mette a pensare
Con l'esercito suo di dar la volta
In Francia; e si va tosto a congedare
Dal rege Alfonso, che ha letizia magna
In veder vôta di Mori la Spagna.
[110]
E pensa seco andar cinque giornate;
Ma Carlo non lo vuole, e via si parte
Con le sue genti e sue forti brigate.
Ma facciam punto omai, e mutiam carte;
E delle vaghe due donne pregiate,
E de' mariti loro eguali a Marte
(Voglio dir di Nalduccio e d'Orlandino)
Si parli, e torni l'opra al suo cammino.
Partito Ricciardetto, immantinente
Saltaro in barca, e a Cafria si portaro;
E scesero alla selva drittamente
Delle avventure, e tosto in essa entraro:
E Lirina e Despina unitamente
Lor fûro incontro, e strette l'abbracciaro;
E portate da' zeffiri graditi,
Perser di vista i lor dolci mariti.
Nel vederle andar via per tal maniera,
Disse Nalduccio: O questa sì ch'è bella!
In ciel che s'ha da far di mia mogliera?
Disse Orlandin: M'ingrossan le cervella,
E mi par che di buoi abbiam la cera;
Chè di Giove gran male si favella;
E gli altri Dei (se bene tu ci guardi)
Hanno piene le stelle di bastardi.
Disse Nalduccio: Ma noi siam Cristiani,
E non crediamo tali scioccheríe.
Ah che saranno incantatori strani,
Che van facendo queste porcheríe.
E in ciò dire batteva ambe le mani,
E principiava a far delle pazzíe.
Ed Orlandino a lui: Cattive nuove!
Il diavol ci fa becchi, e non più Giove.
[111]
Ma là in quel verso dove son volate,
Andiam, fratello, e lasciamvi la vita,
O ritroviam le nostre spose amate;
Chè senza la compagna mia gradita
M'ên, più del viver, care le sassate.
E Nalduccio faceva una stampita,
Un piagnisteo, un sospirar sì spesso,
Che sta più allegro un reo col boja appresso.
E ciò detto, si pongono in cammino;
Ed un quarto di miglio appena han fatto,
Che veggon camminarsi avanti un pino,
E sopra il pino miagolava un gatto
Che avea la pancia grossa come un tino.
Disse Orlandino tutto stupefatto:
Che domin mai di strana cosa è questa?
Volan le donne, e corre la foresta.
E senz'altro cominciano ambidue
Con le spade a percuotere la pianta;
E tosto il gatto se ne salta giùe,
E sopra l'elmo d'Orlandin si pianta,
E tra lor fanno a chi ne puote piùe:
Chè il gatto l'elmo con l'ugne gli agguanta
Per disarmarlo; ed ei gli stringe il collo
Per istrozzarlo, come fassi a un pollo.
Nalduccio con la lancia il gatto investe,
E te lo passa a un colpo banda banda:
Quel cade al suolo, e tosto si riveste
D'altra figura strana ed ammiranda.
Drago diventa, che dall'ampie creste
Un mongibello di fuoco tramanda;
E il pino scuote il suo fronzuto crine,
E di bronzo su lor piove sue pine.
[112]
E come i lanzi, per tener lontano
Il popol, van battendo la labarda
Su' piedi dell'attonito villano,
Che attento il papa e i cardinali guarda;
Così quel pino anch'esso in modo umano
Di dar su' piedi ai paladin non tarda.
Si guardano i meschini; ma son troppi
Gli avversarj ad un tempo e gli aspri intoppi:
Chè di qua il drago, e il pin di là li batte,
E di sopra la grandine pesante:
Ma non però la virtù lor s'abbatte;
Chè sanno l'arme loro esser bastante
Contro ogni forza, e che saranno intatte
Le lor persone, se avesser davante
La stessa Morte. Onde, fatti sicuri,
Dan colpi con le spade, acerbi e duri.
Ed ecco il pino che si capovolge;
I rami si fan lago, ed ogni pina
Vaga barchetta, che una ninfa volge,
Come ella vuol, per l'onda cristallina:
Si piega il fusto in giro e si ravvolge,
Ed ancor esso per l'onda cammina.
Vi seggon sopra i giovinetti umani,
E son portati via da venti strani.
E appena appena quelli son partiti,
Che sopra il lago Ricciardetto arriva;
E i zeffiretti placidi e graditi
Spingon le ninfe con le barche a riva.
Non vi so dire i bei modi e compiti
Che avea ciascuna, bella come diva.
Ma lasciam le barchette e le donzelle;
Ch'egli è già sera, e già vedo le stelle.
[113]
Ricciardo e Malagigi alla ventura Sen van per entro il regno delle donne. Al morto Astolfo dando sepoltura, Canta il buon Ferraù l'eleisonne. Ei dal convento una monaca fura; Onde sì guasto all'altro mondo andonne; Chè mentre in agonia col diavol giostra, Le recise anguinaglie uno gli mostra.
Il diavol, donne mie, può far gran cose:
Basta solo che Dio lo lasci fare.
Però non siate punto dubitose
Di ciò che udiste ed udrete cantare
Dell'opere di lui maravigliose;
Chè sebbene il tristaccio non appare,
E su le Fate si versa la broda,
Ei però vi pon sempre e corna e coda.
So ben che ci son molti, come voi,
Che credono romanzi e favolette
Le cose delle Fate; ma son buoi,
Nè sanno che il demonio non perdette
In uno con la grazia i pregi suoi,
E le virtù che Dio gli concedette,
Le quali tante sono, che potría
Guastare il mondo in un'Avemmaria.
[114]
E poi le Sacre Carte non son piene
Di maghi e streghe, e cose somiglianti?
E in chiesa l'acqua santa a che si tiene?
E a che si fanno tanti preghi e tanti
Su le campane? Perchè suonin bene,
E la fune e il battaglio non si schianti?
Si fanno solo per guastar con esse
Le traversìe che il diavol ci facesse.
Mi spiace che non ho tempo abbastanza;
Chè l'incantata selva a sè mi chiama,
E Ricciardetto, che leggiadra stanza
Have sul lido, ed altro più non brama;
Che vorrei trarvi fuora d'ignoranza.
Ma tanto è chiaro che il pesce ha la squama,
La lepre il pelo, e i melloni la state,
Quanto egli è vero che si dan le Fate.
Si dan pur troppo; e così fosse spento
Il seme loro, come ancora è vivo.
Ricciardo dunque se ne stava attento,
Mirando il volto ed il petto lascivo
Delle donzelle, e il vago portamento
Che sopra ogni credenza era festivo;
Quando ciascuna esce da' legni sui,
E si ferma ridendo avanti a lui.
Il buon Ricciardo in compagnìa sì grata
Or questa ninfa, or quell'altra rimira;
E gli sembra ciascuna sì garbata,
Ch'arde per tutte, e per tutte sospira.
Quando una la più scaltra fiso il guata
Alcuno spazio, e poi prende la lira;
E dopo cento ricercate e cento
Cantò, che parve cosa di portento;
[115]
E disse: Cavalier, non ti rincresca
Spogliarti di quest'armi, e starti nosco;
Chè amor di gloria i semplicetti adesca,
Che bevon fele ne' verd'anni e tosco.
Soffrendo aspro digiuno per lieve esca,
E fame e sete all'aer chiaro e fosco,
Solo perchè di lor, quando son morti,
Resti fama tra noi d'illustri e forti.
Il fiero Marte e la crudel sua suora
Son l'affanno del mondo e la ruina;
E sol si gode infra i mortali allora,
Che quegli tace, e questa si tapina
Per l'ozio che la guasta e la divora.
Avventuroso quei cui sua regina
È l'alma Pace, dal cui sen fecondo
Tutto deriva ciò che abbella il mondo!
O delle Grazie e di Venere amica,
Diletta Pace, a noi data da Giove
Perchè biondeggi su' campi la spica,
Onde l'uom si rinfranchi e si rinnove,
Da sè scacciando la fame nemica;
Deh fa che costui veggia a mille prove,
Quanto il mestier dell'armi si disdice
A chi vita desìa lieta e felice.
Mostra a questo ingannato giovinetto
Le tue bellezze, il biondo crin ricciuto
Da verde ulivo circondato e stretto,
E il volto che disprezza ogni altro ajuto,
Per esser bello cotanto e perfetto;
E fagli udire il dolce suono arguto
Degli angelici tuoi soavi accenti,
Da volgere in piacere anche i tormenti.
[116]
E se la tua beltà non lo riscalda,
Nè lo sanno addolcir le tue parole,
Fagli vedere la guerra ribalda,
Che d'atro sangue tutta quanta cole:
Che alla stagion gelata ed alla calda
Spinge la turba che l'adora e cole;
E a cui le trombe e i timpani feroci
Servon di cetre e di soavi voci.
E mentre ella sì canta, ecco ad un tratto
Che gli son sopra tutte le donzelle
Per disarmarlo; e ben l'avrebber fatto,
Se il suo destriero non temea di quelle:
Perchè da quel romore sopraffatto,
Fe' lor co' calci rimirar le stelle;
Per modo che ciascuna in fretta in fretta
Si ridusse fuggendo alla barchetta.
E contro il cavalier prendon tant'ira,
Che l'avrebber voluto fare in brani.
Così vediamo, se ben si ritira
Da toro o da cinghial turba di cani,
Che il corno o il dente furibondo gira,
Che per poco da lui stanno lontani,
Ma ritornan più fieri e più possenti
A lacerarlo con gli acuti denti.
Così ciascuna d'esse una saetta
Prende, ed incurva il suo bell'arco d'oro;
E nell'esser la prima ognuna ha fretta
A far nel bel Ricciardo il reo lavoro;
E la pioggia di strali maladetta
Tutto il coperse, e non gli fece un foro;
Ch'eran quell'armi così ben temprate,
Che un fulmine nè pur le avrìa spezzate.
[117]
A cotal vista spalancaron gli occhi
Attonite le ninfe, e immantinente
Saltâr nell'acqua a guisa di ranocchi
Ch'abbiano udito strepito di gente.
Fa Ricciardetto entrar fino a' ginocchi
Il suo caval nell'onda rilucente;
Poi più s'inoltra, e dassi al nuoto, e spera
Di giunger presto all'opposta riviera.
Ma come quando fassi a becca l'uovo,
Che sta il villano con la bocca aperta
Per trangugiarlo, e l'infiammato rovo
In quel mentre l'arriva e lo diserta,
Talchè egli fugge qual lepre dal covo;
Così Ricciardo allor, che si tien certa
La ripa, e già il destrier quasi la tocca,
E foco e fiamma dalla ripa sbocca.
Onde ritorna spaventato al nuoto
Il cavallo, e Ricciardo in altro lato
Lo spinge; e quei, che non è tardo al moto,
In un momento v'è quasi arrivato,
Talchè tocca la sabbia e il lito ignoto:
Ma sorge un vento così infurïato,
Che lo ributta indietro, e lo rimanda
Poco men che del lago all'altra banda.
Non però si spaventa il giovin fiero,
E tenta nuovo grado e nuova sorte;
Ma sempre gli vien guasto il suo pensiero.
Ond'egli, che temer non sa la morte,
Fascia con drappo gli occhi al suo destriero,
Acciò il timor non lo faccia men forte;
Poi là torna, ove il fuoco e il fumo fitto
Faceano orribil siepe al suo tragitto.
[118]
E quivi giunto, all'alto incendio in mezzo
Si getta; e stride la fiamma vorace;
Ma lui non tocca, e non riscalda a un pezzo;
Onde tutta si spegne e affatto tace,
E lascia cotal puzza e cotal lezzo,
Che dell'inferno par proprio la brace.
Sbenda Ricciardo il suo destriero, e poscia
Lo punge con lo spron sopra la coscia.
E quegli fugge d'un bel colle in cima,
Vaga sede, cred'io, di primavera,
Che dalla somma parte infino all'ima
Tutto quanto di fior vestito egli era;
Ed ogni fiore era di somma stima,
Chè la natura madre e giardiniera
Li produceva insieme e coltivava:
Tanto di que' bei fior si dilettava.
Gli anemoni, le rose e le giunchiglie,
E gli odorosi bianchi gelsomini,
Che tra noi son de' fior le maraviglie,
Gloria degli orti, fama de' giardini,
Là detto avresti: Chi li vuol, li piglie:
Ne daresti una soma a due quattrini;
Cotanto ella è de' nostri fior maggiore
La bellezza di quelli e il loro odore.
V'era un mughetto (almen mi parve tale)
Alto quanto un cipresso; e campanelli,
Candidi più del latte verginale,
Pendevan tutti in modi così belli,
Che mai vista non fu bellezza eguale.
Stavan sopra essi poi diversi uccelli
Cantando; e quelli mossi poi dal vento
Facean con loro un mirabil concento.
[119]
Da questo fior chi ha un'oncia di cervello
Può immaginarsi facilmente il resto.
A tal fior dunque lega Ricciardello
Il buon cavallo; ed ei doglioso e mesto
Della sua donna pensa al volto bello,
E fra sè dice: In questo luogo, in questo,
Ove albergan le Grazie, e forse Amore,
Senza Despina io muojo di dolore.
Ed oh quanto da lei diviso io sono!
Ed ella forse s'è di me scordata;
Chè donna facilmente in abbandono
Pone il suo amante, quando non lo guata.
Che sebben l'arricchì d'ogni suo dono
Natura, e la formò bella e garbata,
Non l'avrà fatta certo differente
Dall'altre che han volubile la mente.
Chè, come io piacqui a lei, così potrìa
Piacerle un altro; e però si dipinge
Amor con l'ali, che viene e va via.
Chè nodo mai sì forte non si stringe,
Che sciolto e rotto a lungo andar non sia;
E la costanza è un nome che si finge
E non si trova, e massime tra quelle
C'hanno la fama di leggiadre e belle.
Chè sebbene sprezzò di Serpedonte
Le nozze, e viva andar sotterra volle,
Piuttosto che con esso ornar la fronte
Di regal serto; non pero s'estolle
Sì la mia speme, che il timor sormonte.
Forse allor lo credette iniquo e folle,
E forse le dispiacque e l'ebbe a sdegno,
E fu ancor forse un femminile impegno.
[120]
Nè si può dir fedele una donzella,
Che non si trovi molto combattuta:
E molto combattuta, qual è quella
Che il novello amator caccia e rifiuta?
Ed una donna, quando è troppo bella,
Dovunque guarda, sempre fa feruta:
Onde a quest'ora avrà mille amatori,
E discacciato me del suo cor fuori.
Mentre così fra sè piange e ragiona,
Ecco un vecchio apparir di faccia onesta,
Diritto e maestoso di persona,
Che l'appella per nome, e quasi il desta;
E un non so che nel parlar suo risuona
Di famigliar, che fagli alzar la testa;
E in lui s'affissa, e subito il ravvisa
Per Malagigi al volto, alla divisa.
Lettor, non ti so dir quanta allegrezza
Inondò il seno al mesto giovinetto,
Perchè spera da lui aver contezza
Della sua donna che gli scalda il petto:
E glie ne chiese con tanta prestezza,
Che ben fe' chiaro il naturale affetto;
E perch'ei non risponde prestamente,
Si agghiaccia e trema, e fassi egro e languente;
E con tremula voce lo richiede
Che dica pur quel che di lei può dire.
Ed egli a lui: La non ti tien più fede,
E ben potresti avanti a lei morire,
Che ne godrebbe; sì in odiarti eccede.
'N una fanciulla ha posto il suo desire;
Quella sol ama, e sol per lei si sente
Pieno d'amore il cor, piena la mente.
[121]
Disse Ricciardo allor meno affannato:
Se lasciommi per donna, io non mi lagno.
Temeva d'un garzon bello e garbato;
Ma averà fatto un misero guadagno;
Chè val più un uomo guercio ed istroppiato
Avere per marito e per compagno
Ad una donna, che vedersi attorno
Venere e Giuno di notte e di giorno.
Ma sta pur di buon animo, riprese
Malagigi, che sol forza d'incanto
Nell'amor di Lirina sì l'accese,
Che sempre stàlle innamorata accanto.
Ma non passerà tutto questo mese,
Che di tornarla all'amor tuo mi vanto;
Ma ci vuol molta e fatica e disagio,
Chè le grand'opre si fan sempre adagio.
Io già so tutto; e gran fortuna avesti
A trovar armi tali e tal destriero;
Chè nulla oprare senza essi potresti:
E il mio sapere, per narrarti il vero,
Qui poco vale; e tu poco faresti,
Senza un che ti spiegasse il gran mistero
Di questa selva, detta l'Incantata,
Che Pluto istesso la difende e guata.
Ma monta in sul destriero, e statti in sella,
Nè discenderne mai per caso alcuno;
Chè se perdi il destriero, la tua stella
Di chiara e lieta vestirassi a bruno,
Nè rïavrai la tua Despina bella;
Ma ignoto a lei, ignoto a ciascheduno
Qui invecchierai; e qui pur sarai côlto
Dall'aspra morte, e qui sarai sepolto.
[122]
Questo destrier nelle zampe davanti
Ha virtù di disfar gl'incantamenti;
Onde torri vedrai e monti infranti
Da lui, ed asciugar fiumi e torrenti;
Smorzar gl'incendi, e le profonde innanti
Voragini ripiene di serpenti
Passar da lui nella stessa maniera
Ch'altri sul ponte passa la riviera.
E se mostra talvolta aver paura,
E torna indietro, lascialo pur fare,
Che fuggendo fa l'opra più sicura:
Perchè tra l'altre doti sue sì rare,
È quella del giudizio; tanta cura
Poser le Fate in far lui singolare.
Però gli vedrai far nelle bisogna
Cose che a un mastro farebber vergogna.
Dell'armatura poco io ti favello,
Ch'è cosa impenetrabile e sicura:
Marte non ha nè spade nè coltello
Da trapassarla, cotanto ella è dura;
E Giove col suo fulmine, con quello
Che spezzò i monti, e fenne sepoltura
A' superbi giganti, non potrìa
In cotesta arme tua farsi la via.
La spada poi e la lancia son tali,
Che non v'è cosa che loro resista.
Tu poi, si sa quanto nell'armi vali;
Sicchè sta lieto, e nuova gloria acquista,
E per adesso t'indura ne' mali;
Chè senza pena il ben non si conquista.
Passati questi, avrai dal ciel benigno
Favor ben grande, e a' sudor tuoi condigno.
[123]
Mentre così Malagigi ragiona,
Ricciardo sul cavallo è già montato,
E dice a lui: Sì la mente m'introna
Il pensier di Despina, e sì turbato
Sto in lontananza della sua persona,
Che vorrei pur da te, cugin pregiato,
La grazia di vederla. Ed egli: Or ora
A lei ti condurrò che t'innamora.
E qui prende egli figura di nano,
E si mette a cavallo d'un ronzino.
Che fece comparire in modo strano;
E prendon vêr Despina il lor cammino.
Ma qui mi sento richiamar lontano;
Onde lascio costoro, e mi strascino
In altra parte: mi strascino, ho detto,
Chè voleva ancor dir di Ricciardetto.
Ma il tacerne ora, sebben v'è molesto,
Spero che poscia vi sarà più grato,
Quando riparleronne; e sarà presto.
La maestra natura ci ha insegnato
Quanto sia rincrescevole e molesto
Tener le cose in un medesmo stato:
Però sempre ella varia e sempre piace;
E questa non è regola fallace.
Una tal cosa vorrei ben tra noi
Che non fosse mutabile tuttora;
E questa voglia mia, donne, è per voi,
Che trapassate la natura ancora
Nell'incostanza e cangiamenti suoi:
Chè se voi foste un po' più ferme, allora
Sareste l'allegrezza de' mortali;
Or siete la cagion di tutti i mali.
[124]
Se Iddio faceva senza donne il mondo,
E che si generasse con le stampe,
Stato sarebbe il vivere giocondo,
Nè guasto mai dall'amorose vampe,
Che tanti e tanti ne mandano a fondo.
Ma giusto perchè qua vuol che si campe
Sempre in sospiri, e che sempre si piagna,
Diede all'uomo la donna per compagna.
E glie la diede sì maligna e ria,
Che l'affanna e l'affligge ogni momento.
In quanto a me n'ebbi la parte mia,
Quando mi tenne Amore a suo talento.
Ma tempo egli è che di Spagna la via
Riprenda, e lasci un tal ragionamento;
Chè, sebben dico il vero, a qualcheduno
Parrò maligno, ingrato ed importuno.
Carlo con tutto il resto dell'armata
In verso i Pirenei prese la via;
E la bara d'Astolfo vien portata
Da' due giganti, il che non dissi in pria.
Ferrautte la Croce ha inalberata,
E va dicendo qualche Avemmaria
Al povero defunto che sta male,
S'altra per lui a Dio prece non sale.
Giunser di notte ad un certo castello
Che di Granata proprio è sul confine:
Lo bagna un chiaro e limpido ruscello,
Ch'ivi incomincia, detto Guadaline,
Che presto cresce, e col piè scalzo e snello
Non lo guadano più le contadine.
Quivi Carlo si ferma, e tutto il loco
Ne va per l'allegrezza a fiamma e foco.
[125]
Il diavol che non mai si dà per vinto,
E le tristizie sue cresce a misura
Che noi reggiamo il naturale istinto,
Vedendo Ferrautte che procura,
Di pietà tutto e di dolor dipinto,
Lavar col pianto ogni atra sua bruttura,
Una frode gli ordisce così furba,
Che fuor di modo lo contrista e turba.
Al luogo dove Carlo era alloggiato,
Stava vicino un celebre convento
Di vergini, che quivi d'ogni lato
Venivano di Spagna, ed eran cento.
Nel tempio loro Astolfo fu locato,
Chè Carlo il vuol dappresso ogni momento:
E riman Ferraù con don Fracassa
E don Tempesta a guardia della cassa.
Le verginelle che lì stanno chiuse,
Vanno vestite d'un color modesto.
Non son per voti dalle nozze escluse,
Ma di rado da lor marito è chiesto;
Chè all'ago, al fuso, al ricamar ben use,
A niuna sembra quel loco molesto.
Escon talvolta, e van per lo castello,
E qualche volta ancor fuori di quello.
Quivi del Saracino era una figlia
Bella così, che un angelo parea;
Ch'egli ebbe d'una dama di Siviglia,
Allor che mezza Spagna egli reggea.
Nè già deve recarvi maraviglia
Come quel luogo ad un Pagan piacea;
Chè il tener custodite le figliuole
Piace a ciascuno, anzi ciascun lo vuole.
[126]
Chè come nobil pianta giovinetta
Cinge d'intorno il villanel di spine,
Acciocchè qualche fera maladetta
Non la guasti col dente o la ruine;
Così donzella in sua magion ristretta
Star deve, onde nessun se le avvicine;
Chè, perduto il buon nome, una fanciulla
Per bella che si sia, non val più nulla.
La giovine chiamata era Almerina,
La quale a Carlo con altre donzelle
Venne a far riverenza la mattina:
E come appar la luna infra le stelle,
O pur tra' fior la rosa porporina,
Così Almerina si mostrò tra quelle.
Sì come il padre, già bruna non sembra,
Ma pare che di latte abbia le membra.
Rinaldo, Orlando e il vecchio Carlo ancora
In vederla si sentono nel petto
Un non so che, che tutti li accalora.
Ma Carlo, pien di senno e di rispetto,
Spegne quel foco che nasceva allora;
E Orlando, per timor che l'intelletto
Un'altra volta non gli venga guasto,
Al novello desìo fece contrasto.
Rinaldo pur, contro sua vecchia usanza,
Non stimò ben di dare esca alla fiamma:
Onde uscita ella dalla regia stanza,
Come levrier che persa abbia la damma
O lepre, più nel corso non s'avanza;
Così costor non sentono più dramma
Di fuoco; e benchè sia cotanto bella,
Di Almerina fra lor non si favella.
[127]
Ma non così successe a Ferrautte;
Chè nel passar che fece ella pel tempio,
Gli arse la carne, i nervi e l'ossa tutte;
Sicchè fulmine mai non feo tal scempio,
Quando egli cadde su le paglie asciutte.
Ond'egli pien d'audacia senza esempio
Pensò di trarla da quel loco, e poi
Saziar con essa tutti i desir suoi.
E perchè vestito era da romito,
Lo lasciavano entrar le giovinette
Nel chiostro loro. Oh povero vestito!
Oh funi! oh chierche! oh barbe maledette!
Quanto il mondo da voi viene tradito!
Che credendole mostre pure e schiette
D'anime sante, si fida di loro,
E dàgli in mano ciascun suo tesoro.
So ben che in tanti sacchi e sì diversi
Qualcuno è pieno di buona farina;
Ma questi stan ne' chiostri, e non dispersi
Per le contrade. Oh giustizia divina!
Che ti trattien contro questi perversi,
Che non li ammacchi e non ne fai tonnina?
Ma se non sbaglio, tu vuoi tardar poco
A non mandarli tutti a fiamma e foco.
E con essi arderai l'empia avarizia,
E la superbia e la sporca lussuria,
La frode, l'ignoranza e la malizia,
L'ipocrisia e la fraterna ingiuria,
Ed in somma ogni sorte di nequizia,
Di che i cappucci non han mai penuria;
E purgato da peste così ria,
Il mondo tornerà miglior di pria.
[128]
Nè meco v'adirate, anime sante,
S'io me la piglio con la gente vostra.
Vi giuro per quel Dio che avete avante,
E di sè v'empie, e ognora a voi si mostra,
Che umile io bacerei le nude piante
De' vostri figli, e tacerei lor chiostra;
Non dico già se fosser come voi,
Ma fossero men tristi e meno buoi.
Vede il buon frate adunque che vicina
Ad un'grand'orto ell'era la celletta
Della leggiadra amabile Almerina;
Onde la notte a' suoi disegni aspetta;
E questa giunta, all'orto s'incammina,
E un piccol uscio spezza con l'accetta:
Entra nell'orto, ed alla stanza vola,
Ov'ella stava addormentata e sola.
Aperse l'uscio, che mal chiuso egli era;
E messole una mano in su la bocca,
Con fuga speditissima e leggiera
Con essa in collo fuor dell'orto sbocca,
Ed entra in una selva orrida e nera.
Ma questo fatto sì l'alma mi tocca
E sì m'offende, che lo vo' lasciare
Dentro alla selva, ed al castel tornare.
Già la notte fuggiva a tutta briglia
Con l'ombre grate e con l'amiche stelle,
E con tutta l'oscura sua famiglia;
E già già l'alba di rose novelle
S'ornava il seno e si facea vermiglia;
E i pastor su le candide scodelle
Poneano il latte, ed in diversi modi
Ne feano poi giuncate e caci sodi;
[129]
Quando s'alza un rumore pel convento,
Che il simil non cred'io che udito fosse
Là del grand'Ilio nel comun spavento,
E nell'alzarsi delle fiamme rosse,
Onde cenere fêssi in un momento:
Da tanto duol, da tanta ira commosse
Fur le donzelle in veder la mattina,
Che stata tolta loro era Almerina.
Giuntane a Carlo la trista novella,
Manda gente a cavallo e gente a piede
Per ogni parte a ricercar di quella.
Ma quando più nel tempio non si vede
Il romitaccio, Orlando monta in sella,
E il suo cavallo ancor Rinaldo chiede,
Ed entran nella selva, e stanno attenti
S'odono pianti, o miseri lamenti.
Il buon romito intanto sopra un prato
La giovinetta ne' lenzuoli involta
Pone, del gran cammino omai stancato;
E con voce pietosa a lei si volta,
Fingendo esser afflitto e sconsolato;
E le chiede pietà, s'egli l'ha tolta
Dal suo convento, e quivi l'ha condutta:
Chè Amor lo spinse a fare opra sì brutta.
Amore (le dicea), bella fanciulla,
Ha più potere in noi, che non si dice.
Egli si prende spasso e si trastulla
Di Giove istesso; ed or lo fa felice,
Ed or tapino, conforme gli frulla.
Però ne incolpa lui, come radice
Di tutto il male, e solo lui minaccia;
E a me perdona, e come amico abbraccia.
[130]
E mentre così parla e si riposa,
E con quel che far vuole si ristora;
Si sta la verginella vergognosa
E afflitta sì, che par che allor si muora.
Stende il romito la man furïosa
In verso lei che trema e s'ange e plora;
Ma in quel punto fatale Orlando arriva,
Che la languida giovane ravviva.
Come quando d'amor tutto divampa
Il cervo, e viene alla sua cerva avanti,
Che occhio non muove, non fronte, non zampa,
Ma in essa ferma tanto i suoi sembianti,
Che il cacciator se in lui per sorte inciampa
Con la turba de' suoi cani latranti,
Tutta obbliando la natìa paura,
Nulla ode, nulla vede e nulla cura;
Così quel romitello benedetto
S'era tanto ingolfato nel piacere,
Che perduta la vista e l'intelletto,
Non vide aversi sopra il cavaliere,
Che colmo d'ira per lo collo stretto
Levollo presto presto da sedere;
E presa la donzella in su la groppa,
Strascina il frate, ed al castel galoppa.
Al mezzo di sua lucida carriera
Giunto era il Sole; e le fronzute piante
Non più spargevan la lor ombra nera;
E del cantare la cicala amante
L'aria assordiva di strana maniera;
E disteso pel bosco e ruminante
Stavasi il gregge, e dibattendo i fianchi
I cani attorno dal gran caldo stanchi.
[131]
Quando rivolta la donzella al conte,
Lo prega a soffermarsi; tanto stracca
Si sente, e di dolor colma la fronte,
Che senza posa al certo si distacca
Dal mondo. Orlando, che le voglie ha pronte
Di compiacerla, il frate a un olmo attacca;
Indi discende, e sopra un verde prato
Pon la fanciulla, ed ei le siede a lato.
Quindi di tasca tragge un temperino,
E dice alla donzella: In questo mentre
Che noi ci difendiam dal Sol vicino,
Io voglio un poco a sto frate valentre
Levar la pelle e farne un otricino,
E se vi pare, incominciar dal ventre.
Fate voi, disse la bella fanciulla,
Che in quanto a me, m'importa poco o nulla.
Ciò detto, s'alza, e Ferraù legato
Dispoglia affatto, in fuor delle mutande;
E dice: Adesso d'ogni tuo peccato
Ti vo' far far la penitenza grande;
Chè così vivo vivo scorticato,
Le tue carnacce saranno vivande
Di barbagianni, di gufi e d'allocchi,
Che le prime beccate dan negli occhi.
Non vi crediate già che il saggio Orlando
Volesse scorticare un cavaliero;
Ma lo diceva il buon uomo scherzando.
In questo mentre rovinoso e fero
Entra nel prato col fulmineo brando
Rinaldo, e là si ferma col destriero,
Dove si stava il signore d'Anglante
Col ferro in mano al frate ignudo avante;
[132]
E tosto grida: Forse questi è quello
Che rubò la fanciulla dal convento?
Rispose Orlando: Questi è il santerello,
Questi è l'eroe del nuovo Testamento,
Che fece atto sì brutto, indegno e fello.
Rinaldo allor gli pon la mano al mento,
E lo scuote e lo sgrida, e dice: Ancora
Vuoi trar de' chiostri le monache fuora?
Ribaldo, iniquo, schiuma de' furfanti,
Quando porrai tu fine a' tristi fatti?
Sempre peggiori, quanto più vai avanti:
Ma tante volte al lardo vanno i gatti,
Che ci son côlti e pesti tutti quanti:
Ed or la pagherai a tutt'i patti.
Orlando disse: Io lo vo' scorticare
Così vivo, ed a' corvi abbandonare.
Rinaldo sorridendo: Assai fatica
Questa sarebbe, e pena troppo acerba;
E poi biasmo ti fora, che si dica
Che la destra d'Orlando, che superba
Strinse più palme di gente nemica
Che bosco foglie e il prato non ha erba,
Or abbia tratto ad un uomo la pelle,
Benchè il più tristo sia sotto alle stelle.
In così dire giunge don Fracassa,
E poco dopo ancora don Tempesta;
E visto il frate con la fronte bassa,
E saputa la fuga disonesta,
E la rapina che ogni colpa passa,
Crucciosi alquanto crollaro la testa;
E dopo aver taciuto un qualche poco,
Parlò il Fracassa in suono grave e fioco,
[133]
E disse: Io so che ogni mal'opra merta
Il suo gastigo; e il non punir chi pecca,
Offende tutti, e il pubblico diserta;
Che il mal esempio è fuoco in paglia secca,
Che al vento stia nella campagna aperta;
E quel chirurgo che le piaghe lecca,
E col ferro e col fuoco non le invade,
Apre e non serra del morbo le strade.
Ma la somma giustizia ognun comprende
Ch'è somma ingiuria ancora; e non si debbe
Però seguirla, come il testo intende.
Talora a men fallir pena s'accrebbe,
E fu scemata alle maggiori mende,
Secondo che al peccar maggiore egli ebbe
Oppur minore spinta il nostro core,
Che a male oprare inclina a tutte l'ore.
Bellezza e Amore han fatto ne' mortali
Sempre gran stragi; e misero colui
Che cade in braccio ad un di questi mali,
E più se cade in braccio ad ambidui.
Però se côlto da cocenti strali
Di bella giovinetta fu costui,
E se la prese e si fuggì con essa,
Ch'egli operasse male ognun confessa.
Ma non per questo egli ha mancato in guisa,
Che il debba o possa ognuno a morte porre,
Com'uomo ch'abbia la sua madre uccisa,
O della patria sua castello o torre
Data a' nemici. Egli d'amor conquisa
L'alma sentendo, s'è provato a côrre
Quel frutto che potea trarlo d'affanno
Con quel piacere, come molti sanno.
[134]
Al giudice severo, e non a noi,
Tocca a lui destinar la pena estrema;
Nè lessi mai che alcuno degli eroi
Facesse un'opra sì di laude scema:
Perciò si sciolga, e sciolto che fia poi,
Si mandi alla sua cella; e quivi gema,
E perdon chiegga a Dio del suo fallire.
E qui il Fracassa terminò il suo dire.
Rinaldo tentennò la testa un pezzo,
Poi disse: Il rimandarlo alla sua cella
Non mi dispiace; che cotanto è il lezzo
D'ogni opra sua sì scellerata e fella,
Che se l'ossa e la testa non gli spezzo,
Nè gli traggo di ventre le budella,
Lo fo per dar nel genio a don Fracassa:
Ma sì liscia per Dio non se la passa.
Io vo' che gli facciamo un tagliettino
Un palmo buono sotto all'ombilico;
Che se bene non feci mai il norcino,
Nulladimen lo servirò da amico.
Ivi sta il male di questo assassino,
E quel velen che fàllo a Dio nimico.
Grattossi Orlando, sorridendo, il naso;
E per me, disse, ne son persuaso.
E a don Tempesta pur ciò non dispiacque;
Chè tolta la cagion, manca l'effetto.
Ma Ferraù che fino allora tacque,
Scossa da sè la vergogna e il rispetto,
Gridò: Prima del mar m'affoghin l'acque,
E mi sia il collo da un canapo stretto,
Che far mi veda affronto sì villano,
Rinaldo traditor, dalla tua mano.
[135]
Ma al suo gridar non v'è chi presti orecchia;
E preso il temperin che aveva Orlando,
Rinaldo all'opra santa s'apparecchia:
Ed ogni cosa insieme affastellando
Con tutta quanta la boscaglia vecchia,
Dice: Fratello, perdon ti domando,
Se ti fo male. E con queste proteste,
Ziffe; e l'aggiusta pel dì delle feste.
Vien meno Ferraù pel duolo strano,
Ma restano a curarlo i suoi giganti;
Ed i due Franchi di valor sovrano
Con la bella fanciulla vanno avanti,
Ragionando fra lor di mano in mano
Del male oprar degl'ipocriti santi;
E concludon tra lor che i colli torti
Lascian sol di far mal quando son morti.
Almerina che nulla sa del frate,
Se l'abbian scorticato, oppure ucciso,
Fa lor mille domande e ricercate
Per saperlo; e Rinaldo con sorriso
Dice: Fanciulla mia, non vi curate
Sapere di costui veruno avviso.
Vi basti, ch'egli è vivo ed ha la pelle,
Ma gli mancano certe bagattelle.
Orlando si contorce, arrabbia e stizza,
Egli fa cenno che taccia, e s'ingolle
Il gran volere ch'a parlar l'attizza;
Ma la ragazza più s'invoglia, e colle
Mani congiunte, al contrario l'aizza.
Rinaldo, come pentola che bolle,
E versa per la troppa bollitura,
Le narra il fatto della castratura.
[136]
Non capì tutto la fanciulla il fatto,
Ma capì tanto, che si fece rossa.
Chinò la testa ed ammutissi a un tratto,
E fe' vista d'avere una gran tossa,
Acciò che quel colore di scarlatto
A quello sforzo ascrivere si possa,
Che si suol far tossendo, e che talora
Par che vi faccia sbalzar gli occhi fuora.
In questo mentre del castello in vista
Eccoli giunti; e da mille persone
Già si divulga la nobil conquista
Della fanciulla, e niuno in dubbio pone
Ch'ella ritorni svergognata e trista:
Nè gli era un creder tal senza ragione;
Chè prima scanna la pecora il lupo,
E poi la trae nel bosco orrido e cupo.
E se nol fece il romitaccio infame,
Fu dell'ordine suo strana appendice.
O mondo sciocco, che questo letame,
Questo veleno d'ogni mal radice
Ti stringi al petto e satolli sua fame!
Quando sarà quel tempo sì felice,
Ch'io vegga i romitorj arsi e distrutti,
Ed impiccati i lor romiti tutti?
Tempo fu già che gli uomini dabbene
Col piede scalzo e con la testa rasa
Fornivan d'erbe i lor pranzi e le cene,
E un'elce cava prendevan per casa;
E vôlte al mondo davvero le schiene,
Magri, languenti e con la barba spasa
Fuggivano le genti, e sopra tutte
Le donne, ancorchè vecchie, ancorchè brutte.
[137]
Ed oltre a questo, nelle spine acute
Si gettavano ignudi o in mezzo al gelo;
E rozze vesti dentro, e fuori irsute
Stringeansi addosso, sol pensando al cielo.
Genti beate ch'or godon salute,
E veggion Dio qual è, senza alcun velo;
E colme di piacer, vuote d'affanno
Senton gioir d'ogni sofferto danno!
Ma i successori lor, corpo di Giuda!
Sono tutt'altro: mangian, come porci,
Starne e fagiani, ed alla carne cruda
Tirano più che al marzolino i sorci;
E il villanello che s'affanna e suda
Per aver grano che sua fame accorci,
Appena l'ha battuto, che ne dona
Al romitaccio qualche parte buona.
E chi gli porta il vino, e chi i pollastri,
E chi i piccioni, onde s'impingui, e vaglia
Resistere agl'incomodi e disastri
Dell'aspra vita: ed ei tornisce e intaglia
Corna frattanto, e fa lavori mastri
Alla devota credula marmaglia.
O viver dolce de' nostri romiti,
C'hanno le mogli e po' il pan da' mariti!
Nè ti stupire, lettor mio benigno,
Se quando posso, io l'accocco a costoro;
Che so il romito quanto egli è maligno,
Che da per tutto fa tristo lavoro.
Nè udirai mai alcuno fatto indigno,
Dove non entri qualchedun di loro:
Le rapine, le morti e gli adulterj
Sono le lor corone e i lor salterj.
[138]
Ma ritorniamo alla nostra Almerina,
Che ha ripieno il castello d'allegrezza.
La incontra Carlo, e a Orlando s'avvicina,
Acciò del fatto gli arrechi contezza;
Ed Orlando la storia gli sciorina
Con sermon breve e con somma chiarezza.
Sol di quel tagliettin non disse nulla,
E ciò fece a cagion della fanciulla;
La quale ritornò tosto al convento;
E ciò che se ne fosse, non è scritto.
Rinaldo intanto pieno di contento
Racconta a Carlo qual fece despitto
A Ferraù, che più rasojo al mento
Non menerassi; e come ei l'ha relitto
In mano de' giganti: e quel buon vecchio
Lieto piegava a tal parlar l'orecchio.
Quindi del pranzo già venuta l'ora,
Suonan le trombe e i musici strumenti;
E seco vuole i paladini ancora
A mensa Carlo, ed altri uomin valenti:
Chè quanto la virtude più s'onora,
Più si fa grande e bella infra le genti.
Ma mentre questi se ne stanno a pranzo,
Ritorniam, se vi piace, al nostro manzo.
A forza d'erbe già gli avean fermato
Il sangue, e del dolor gran parte tolta:
Ma egli era Ferraù sì infurïato,
Che comincia bel bello a dar di volta;
E così ignudo dentro il bosco entrato,
Fugge per quello, e mai non si rivolta.
Gli corron dietro i pietosi giganti;
Ma più d'un miglio egli è già corso avanti.
[139]
E ravvïato già nel corso s'era
Il sangue, ed inaspritosi il dolore:
Onde cadde svenuto in su la sera;
E a caso ritrovato da un pastore
Ch'ivi passava con la sua mogliera,
Fu preso, e fu portato con amore
Al convento de' Padri Certosini,
Che da per tutto sono uomin divini;
Che gli scaldaro in un subito il letto,
E lo bagnar ben ben con l'acquavite;
Talchè riprese lena il poveretto:
Ma fuor del suo costume umile e mite,
Tacito stava, e si batteva il petto;
Indi a lavar le sue colpe infinite
Chiese d'un confessore, e tutto ansando
Venne correndo il Padre Fidelbrando.
Questi era un vecchio settuagenario.
Si diede in giovinezza alla milizia;
Indi lasciolla, e il viver suo fu vario;
Vo' dire or buono, or pieno di malizia:
Finchè racchiuso dentro del sacrario,
Mutò costumi, ed acquistò dovizia
Di virtù tali, che divenne un santo.
Or questi a Ferraù si mise accanto
E presolo per man: Figlio, gli disse,
Dura cosa è la morte; ma quel Dio
Che si fece uomo, e Giuda il crocifisse,
Dolcissima la rese al parer mio.
Ma in lui i pensieri, in lui le luci fisse
Tener bisogna, e d'ogni fallo rio
Dimandargli perdono, ed umilmente
Pregarlo acciò ci sia dolce e clemente.
[140]
Nè perchè forse la marina sabbia
Esser possa minor de' falli tuoi,
Non ti lasciar da disperata rabbia
Opprimer sì, che l'inferno t'ingoi.
Nessuno sa qual sia, che termine abbia
La divina pietà verso di noi;
Perch'ella è immensa, e men si può peccare
Di quello ch'ella possa perdonare.
Ferrautte a quel dir s'alza sul letto,
E sul gomito manco sostenuto,
Si leva con la destra il suo berretto,
E pietà chiede a Dio, e chiede ajuto
Al Padre in quell'orrendo passo stretto:
E segnatosi in fronte, alquanto muto
Si stette, e poi tra lagrime e lamenti
Incominciò le note penitenti:
E seguitò più di quattr'ore a dire;
E fece spesso bofonchiare il frate,
Che molte colpe si pensava udire,
Ma non già tante e così scellerate.
Pur lo consola e gli ministra ardire,
E gli promette dall'alta bontate
Perdonanza, e l'assolve; e gli Angel santi
Fanno udir suoni d'allegrezza e canti.
Ma non si stette con le mani in mano
Il demoniaccio in questa congiuntura;
Chè fece ivi venire da lontano
I diavoletti di maggior bravura.
Chi prese di Climene il volto umano,
E a lui mostrollo in dolce positura;
Chi le sue grazie e i vaghi atteggiamenti;
Chi il grato suon de' suoi leggiadri accenti.
[141]
Chi gli mostrò la giovin da lui tolta;
Chi gli amor del Catai: in somma cento
Demonj travestiti in fretta molta
Entraro repentini nel convento,
E della cella corsero alla volta,
E zitti zitti vi passaron drento.
A quella vista Ferraù meschino
Si rallegrò, benchè a morir vicino.
Ma il Padre Fidelbrando, che l'osserva
Minutamente, di quell'allegrezza
Insospettissi, e della rea caterva
Ebbe timore, e disse con prestezza:
Il riso, figlio, nel cielo riserva;
E piangi adesso, e esala con tristezza
L'anima addolorata. Indi lo segna
Con l'acqua santa e il diavol se ne sdegna;
E dispariro quelle cose belle.
Allora Ferraù maravigliato
Ringrazia il facitore delle stelle,
Che sia da tal periglio liberato;
E narra al confessor le inique e felle
Arti d'inferno, e di pianto bagnato
Rinforza il suo dolore, e pien di fede
Nuove arme a Dio contro il nemico chiede.
Quando ad un tratto ecco che smania e grida
Sì, che par toro da' cani ferito;
E chiede il ferro, ed a battaglia sfida
Un non so chi, talchè sembra impazzito.
Indi soggiunge: Si sbrani e s'uccida
Costui che sì m'ha concio e m'ha tradito.
Fidelbrando lo prega che s'accheti;
Ma parla agli usci e parla alle pareti.
[142]
Di queste strida e di questo furore
Cagion fu un diavoletto de' più tristi,
E di cui forse non ve n'è un peggiore;
Che con modi furbeschi e non previsti
Da Rinaldo gli apparve; e il feritore
Coltello avea, che fece il repulisti,
In una mano, e nell'altra le cose
Che gli recise, ed anco sanguinose.
Onde a tal vista manda fuor la bava
Per la grand'ira; ed il Padre schiamazza
Che gli perdoni, mentre il mal s'aggrava:
Ma invano s'affatica, invan s'ammazza.
Tanto l'invade la rabbia sua prava,
Che d'atra bile già la mente pazza
Altro non pensa più che a far vendetta
Del suo nemico, e in quella si diletta.
Un Crocifisso prende il Padre santo,
E gli dice: Figliuolo, hai tu nemici
Che t'abbiano piagato e offeso tanto,
Quanto fu questo, che co' benefìci
Trattògli sempre, e se li tenne a canto?
Eppur per lor, come fossero amici,
Pregò l'eterno Padre, e di buon core,
A perdonarli un così grave errore.
Ferraù, che non sa ciò che si gracchia,
Dice: Rinaldo mi fe' peggio assai.
Fidelbrando a tal voce si sbatacchia,
E grida: Figliuol mio, che di' tu mai?
Ed egli: Padre, il tristo in una macchia
Castrommi con un ferro da beccai;
E quasi poco gli paresse questo,
Ci fece piazza con tagliare il resto.
[143]
Fidelbrando gli disse: O via figliuolo,
Tu gli vuoi mal, perchè t'ha fatto bene.
Bene m'intasca, con voce di duolo
Egli riprese; e dentro delle vene
Gli bollì il sangue, come in un pajuolo,
Quando di sotto le secche vermene
Van divampando: ed in quel gorgoglìo
Attaccò i Santi, e disse mal di Dio.
Me' che può il frate a lui conforto porge;
Ma non trova la via di ripigliarlo.
Pur dolcemente lo riprende, e scorge
Pel buon cammino, e cerca d'ajutarlo:
Ma l'ira non iscema, anzi più sorge
In lui, che omai dal velenoso tarlo
Nel core è roso; e morto impenitente
Fora, se non giungeva ivi altra gente.
I due giganti dalla vasta chierca
Entrâr carponi dentro della cella;
E udito come il diavolo sel merca
Con quel rancor che tanto lo martella,
Gli disser: Ferraù, così si cerca
Perdon da Dio dell'opera tua fella?
E non sai tu che l'anima sdegnosa
In ciel non sale, e in grembo a Dio non posa?
Se dall'offeso Dio vuoi perdonanza,
E tu perdona a chi ti fece male,
Perchè vuole il Signor questa uguaglianza;
Altrimenti, non fare capitale
Del ciel; chè nell'abisso avrai tua stanza,
Dove diventerai tizzo eternale.
Ferraù s'addolcisce a quella voce,
E mitiga lo spirito feroce.
[144]
E tornato di nuovo a confessarsi,
Sentendosi oramai presso al morire,
Pregò i giganti a volere accostarsi
A lui, che un non so che volea lor dire;
E disse: Se non son sepolti od arsi
Que' cosi, me li fate ricucire;
O me li fate, se non v'è molesto,
Di cera o stracci, o pur di carton pesto.
Perchè se morto qualchedun mi vede,
Non mi faccia a tal vista onta o vergogna.
Lo che raccomandato alla lor fede,
Perde la voce, e si affanna ed agogna,
Ed assoluzïon col capo chiede.
Gli bagnano la bocca con la spogna
Zeppa di vino, perchè si ristore;
Ma in un tratto boccheggia e se ne muore.
Pianser la morte sua teneramente
I pietosi giganti e Fidelbrando;
E portatolo in chiesa, prestamente
Gli andaro molte Messe celebrando.
V'era un vuoto sepolcro nobilmente
Fatto, ed a niuno sovvenìa del quando
Fosse stato formato, ond'è che in esso
Da quei buon Padri Ferraù fu messo.
E don Tempesta con la spada scrisse:
«Fermati, passeggiero. In questo avello
«Riposa Ferraù, che mentre visse
«Saracin, de' Cristiani fu flagello:
«Fatto Cristiano, i Saracin sconfisse.
«Si fe' frate, e riprese poi 'l cappello:
«Fu Amor suo beccamorto e suo norcino.
«Pregagli pace, e segui il tuo cammino.»
[145]
E don Fracassa poi scrisse sul muro
Tutta l'istoria e tutta la sua vita,
Perchè n'andasse dall'obblìo sicuro
Il nome di sì celebre eremita;
Della cui morte, donne mie, vi giuro
Che ne ho pena acerbissima sentita;
E maledico quel giorno fatale
Che fe' Rinaldo un taglio sì brutale.
Perchè se ogni uomo che in tal cosa manca,
Dovesse rimaner così infelice,
La barba nera, oppur la barba bianca
Sarebbe rara come la fenice;
E più che altrove, tra la gente Franca,
Ch'è sì donnesca, come il mondo dice.
Ma Rinaldo scordossi di sè stesso,
E però diede in così strano eccesso.
Di che ne pianse poi sera e mattina,
Come sta scritto in un foglio vetusto,
Il quale narra ancora che Almerina,
Quando lo seppe, ne sentì disgusto;
Benchè non ben capisse la meschina
La gran virtù del mozzo mazzafrusto;
Che se per sorte la sapeva tutta,
L'avrebbe al certo il giusto duol distrutta.
Ma tempo è omai di rivoltare altrove
Gli afflitti carmi, e rallegrar chi m'ode;
E nella selva ritornar, là dove
Pieno d'amore e di desìo di lode
Insiem con Malagigi il passo move
Il mio Ricciardo, il cavalier sì prode.
Colà dunque venite, e vi prometto
Di colmarvi l'orecchie di diletto.
[146]
Fatta per incantesimo Despina
Cruda a Ricciardo, il pone in gran periglio;
Ma Malagigi da quella rovina
Lo scampa col poter del suo consiglio.
I duo minor cugin seguon Lirina,
E restan nell'orrendo nascondiglio.
Con tante streghe Ricciardo s'affronta,
Che tante Benevento non ne conta.
Il creder, donne vaghe, è cortesìa,
Quando colui che scrive o che favella,
Possa essere sospetto di bugìa,
Per dir qualcosa troppo rara e bella.
Dunque chi ascolta questa istoria mia,
E non la crede frottola o novella,
Ma cosa vera, come ella è di fatto,
Fa che di lui mi chiami soddisfatto.
E pure che mi diate piena fede,
Della dubbiezza altrui poco mi cale.
Quest'opera per voi da capo a piede
Ella è formata; e se punto ella vale,
È tutto il suo valor vostra mercede.
Chi sa che un giorno ancor non metta l'ale,
E il mar trapassi? Io non sono indovino;
Ma prevedo felice il suo destino.
[147]
Or si torni all'istoria. Sul ronzino
Andava il nano, vo' dir Malagigi,
E Ricciardo a cavallo a lui vicino;
Quando sopra il terren veggion vestigi
D'un piè che il fondo sembrava d'un tino.
Dice Ricciardo: Oh questi son prodigi!
E se al piè corrisponde anche il restante,
Sarà pur questi che grosso gigante!
Nè avevan fatti ancor cinquanta passi,
Che nel voltare che facea la strada,
Veggono un giganton, ma di que' grassi,
Che d'altro si pascea che di rugiada.
Nelle mani egli aveva un par di sassi
Di mole immensa, e quelli son sua spada:
Con essi al buon Ricciardo s'appresenta,
Che nel vederli quasi si sgomenta;
E gli dice: Chiunque tu ti sia,
O scendi prontamente da cavallo,
O torna addietro per la stessa via.
E Ricciardetto a lui: M'hai preso in fallo;
Chè vo' gir oltre a ritrovar la mia
Diletta sposa, senza cui m'avvallo
E vengo meno. E troncato il parlare,
Sprona il cavallo, e te lo fa volare.
Il gigantaccio allor con strane note
Urla, e il gran sasso in aria fa rotare.
Non minore di quel ch'a Polibote
Trasse Nettuno; e conficcollo in mare;
Da cui poi nacque (e dico cose note)
Un'isoletta di bellezze rare,
Nisiro detta: ma il nostro Ricciardo
Di Polibote s'ebbe più riguardo.
[148]
Ma s'io v'avessi a dire il modo appunto
Che nel fuggir quel colpo egli si tenne,
M'imbroglierei: so ben che non fu giunto:
O che 'l masso per aria Iddio trattenne,
O che 'l cavallo a tempo egli ebbe punto,
O che 'l gran vento che dal colpo venne,
Come esser può, lo tenesse lontano:
E questo parmi il discorso più sano.
Quando s'accorse l'orrido gigante
Che aveva tratta la sassata a vuoto,
L'altra tirò; ma egli era tanto avante
Il cavaliero per lo bosco ignoto,
Che la gran possa sua non fu bastante
Di secondare il suo maligno voto.
Indi gli corre appresso; e ancorchè grasso,
Parea levriero allor sciolto dal lasso.
Ricciardo si rivolta al calpestìo,
Che le miglia lontano si sentiva;
Onde si ferma, e con molto desìo
L'attende; e quegli non sì tosto arriva,
Ch'ei gli dice: Ti vo' per lacchè mio,
Ovvero per la mia leggiadra diva;
Ma non ti vo' far mica i calzoncini,
Chè vi vorrieno tutti i panni lini.
E il nano soggiungea: Se non mi sdegni,
Staremo sempre insieme. Adesso adesso
Ci starete voi due, poltroni indegni,
Disse il gigante, in un sepolcro istesso.
Chè se, lasciati i fortunati regni,
Gli Dei dell'uno e ancor dell'altro sesso
Venissero per tôrvi all'ira mia,
Non so quello che a lor rïuscirìa.
[149]
E ciò detto, abbracciare a un tempo vuole
Ricciardo e il nano e l'una e l'altra bestia;
Ma presto ben li lascia, e assai si duole;
Ch'egli ebbe un calcio, dove la modestia
Nel nominarlo arrossire si suole;
Il che gli arreca sì strana molestia,
Che cade a terra. Ricciardo non bada,
E séguita a gir oltre per la strada.
Quando senton più dolce dell'usato
L'aria d'intorno, e tutto quanto il suolo
Veggon di fior vestirsi in ogni lato,
E poco dopo un leggiadretto stuolo
Veggon di ninfe sì bello e garbato,
Che si può dir nel mondo o raro o solo.
Il nano dice allora a Ricciardetto:
Abbi gran senno, e duro cor nel petto.
Guari non anderà che tu vedrai
La bramata Despina; ma se l'ami,
Di ciò ch'ella vorrà, nulla farai.
Le sue parole or sono esca con gli ami,
E fraudolenti; chè, come ben sai,
Non è più dessa. I possenti legami,
Con cui Lirina all'amor suo la strinse,
In lei di te la rimembranza estinse.
E perchè vecchia fama è tra di loro
Che un cavalier su fatato destriero
Ha da disfar l'incantato lavoro,
Ogni lor cura, tutto il lor pensiero
È di dar morte con strano martoro
A qualunque innocente cavaliero
Che trovin per la selva: ond'è che piena
Ell'è di ossa insepolte questa arena.
[150]
In così dire, da un verde boschetto
Esce la bella coppia, e bella tanto,
Che riman senza moto Ricciardetto.
Al venir lor, danno principio al canto
Le ninfe, e le accompagna ogni augelletto:
Lirina sola con segreto pianto
Sospira nel veder quell'uomo armato,
E sopra d'un destrier tanto pregiato.
Ed a Despina sua si volta e dice:
Fingiam d'amar costui per trarlo a morte;
Che senza frode fia l'opra infelice;
Chè troppo parmi rigoglioso e forte.
E la bella fanciulla non disdice;
Ma con parole dolcemente accorte
S'accosta a Ricciardetto, e lo saluta,
E gli chiede ragion di sua venuta.
E prima che risponda, dolcemente
Gli domanda del nome e del paese;
E se d'amor piagato il cor si sente,
Oppur l'ha sano, e sol di belle imprese
Ha desïoso il cor, vaga la mente.
Indi lo prega del guerriero arnese
A volersi spogliare, e dal cavallo
Scendere, e seco incominciare un ballo.
Come tenera madre guardar suole
Il figlio fatto ad un tratto deliro,
Che assai stupire sul primo si suole,
Come di sè del tutto in lui svaniro
Le idee, e guasto è il suon di sue parole;
Indi disciolto il core in un sospiro,
L'abbraccia e piange; ed egli ride, e intanto
Non sa che quello è di sua madre il pianto;
[151]
Così colmo riman di maraviglia
Su le prime Ricciardo, e non si puote
Dar pace che a quegli occhi, a quelle ciglia
Le sue sembianze un dì cotanto note
Or sieno oscure; e poi tal duol ne piglia,
Che il petto, il volto, i fianchi si percuote,
E grida: Anima mia, e come mai
Son fatto sconosciuto a' tuoi bei rai?
Despina sorridendo: A dirti il vero,
Riprese, io giuro avanti a tutti i numi,
Che adesso sol ti veggo, o cavaliero.
Ed egli: Io ben sapeva i rei costumi
Del vostro sesso, che non è sincero;
Ma negarmi che il Sole non allumi,
E il dirmi che mai più non m'hai veduto,
Lo stesso parmi, e va del par creduto.
Lirina, che sentìa questo contrasto,
S'accosta al cavaliero, ed all'orecchio
Gli dice: Se i disegni tuoi non guasto,
Dimmi chi sei, e fin d'or m'apparecchio
A farti lieto; ed a ciò far ben basto.
Già veggo che in te bolle un amor vecchio,
C'hai tu per questa ingrata giovinetta,
E che or sol del tuo pianto si diletta.
Ricciardo, che di frode non paventa,
Le narra tutta la storia amorosa,
E la trista Lirina n'è contenta;
E seco tratta a piè d'un'elce ombrosa
Despina, dice: In poco d'ora spenta
Sarà quest'alma altera e disdegnosa,
Purchè tu finga e mostri che altre volte
Amor ti diè per lui ferite molte.
[152]
Ricciardo egli s'appella, e tu talora
Per nome il chiama, e inventa ciò che vuoi;
Che il vero amante crede il falso ancora.
Ride Despina, ed, I consigli tuoi
Vado, mia cara, a porre in opra or ora,
Soggiunge; e a lui tornata che fu poi,
Dice: Ricciardo mio, lo sdegno ammorza:
Non mi occulto per genio, ma per forza.
Qui l'amare è negato alle zitelle,
Che amar solo si possono fra loro;
E triste molto e sventurate quelle
Che d'alcun giovinetto prese fôro.
Nulladimeno le benigne stelle
Ci han riguardato con influsso d'oro,
Che ti ha fatto scoprire il nostro amore
A Lirina, che ha meco e mente e core.
Però nosco ne vieni alla lontana;
E quando il Sole attufferassi in mare,
Tu ti sofferma a piè della fontana,
Che chiara e bella nel gran prato appare
Presso all'ampia magione e sovrumana,
Dove tu mi vedrai stasera entrare.
Quivi solo m'attendi, e il tuo destriero
Lascia nel bosco in mano allo scudiero:
E ti sovvenga che le dure maglie,
E il forte scudo, e l'acciar che ti copre,
Poco atti sono alle nostre battaglie.
E qui si tace, e il volto suo ricopre
Un bel rossor; nè mai per secche paglie
Foco s'accese, come agli occhi scopre
Ricciardo il grande incendio che il divora:
Cotanto l'amor suo crebbe in quell'ora.
[153]
E prega il Sole che presto tramonti,
E si lamenta assai di sua tardanza.
O miser, se ti fosser noti e conti
Gl'inganni, e come a' danni tuoi s'avanza
Affanno e morte, o almeno onte ed affronti,
Avresti in ira la bella sembianza
Di lei, che per incanto or t'odia a morte,
E ti prepara al piè ceppi e ritorte.
Ma pur troppo cominciano a cadere
L'ombre da' monti; e pur troppo si vede
Il palazzo fatale, e a schiere a schiere
Già le donzelle in lui pongono il piede.
Vel pon Despina ancora, e le sue nere
Luci volge a Ricciardo, e or entra, or riede,
E più cenni gli fa che si ricordi
De' fermati fra lor patti ed accordi.
S'inselva Ricciardetto, e si discioglie
L'elmo, e pon mano ancora a scior l'usbergo;
Quando a por freno alle sue stolte voglie
Lo sgrida il nano che gli stava a tergo,
E gli dice: Così da te s'accoglie
Lo mio parlar, che di prudenza aspergo?
Così d'una donzella i finti vezzi,
Miser, tu fuggi, e così tu disprezzi?
Non tel dissi pur ora? e non vedesti
Con gli occhi proprj che la tua Despina
Ha spento il foco che in essa accendesti?
E che sol vaga della tua ruina
Mostra d'amarti con finti pretesti,
Come a lei detta la cruda Lirina?
E tu le parli appena e la saluti,
Che di pensier 'n un subito ti muti?
[154]
Non ti rimembra che il primo precetto
Ch'io ti diedi, fu quello di star saldo
Sopra il destriero; e che l'acciajo eletto
Che ti ricopre, e fàtti andar sì baldo,
Non dovessi lasciar, che tristo effetto
N'avresti visto? Or l'amoroso caldo
Ti ha tratto così fuora di te stesso,
Che vuoi il cavallo, e lasciar l'armi appresso?
La tua donna ti avvisa che meschino
È l'uomo amante e la donzella amata;
E poi ti vuole e ti brama vicino,
Solo ed a piè, con la man disarmata?
E non comprendi ancor questo latino?
Deh, Ricciardetto mio, deh meglio guata
A quel gran mal che la corteccia or copre,
Prima che indarno tu il comprenda all'opre.
Ricciardetto sogghigna e non risponde;
Ma pieno di desìo, vuoto di tema,
Va pettinando le sue chiome bionde,
Ed or divampa, ora agghiacciato trema;
E guarda spesso di mezzo alle fronde
Del verde prato in su la sponda estrema,
Dov'è il palazzo, se vede per sorte
Aprirsi alcuna delle tante porte.
Malagigi ripiglia sua figura,
Poichè lo vede in male oprar sì fermo,
Nè seco usar dolcezza più si cura;
Ma come fassi a furïoso infermo
Dal fisico perito che lo cura,
Con fronte corrugata e volto fermo
Lo guarda e grida; Già che non ti cale
Vita, nè fama, nè gloria immortale;
[155]
E risoluto sei che qui ti copra,
Giovin meschino, un vergognoso obblìo.
Vanne alla fonte, ove avverrà che all'opra
Stimerai troppo vero il detto mio;
E lei che del tuo cor s'asside or sopra,
E che sospiri con tanto desìo,
Teco dell'empie Belidi sorelle
Vedrai fatta una, e assai peggior di quelle.
E quando avvenga per maggior tuo danno
Che in vita ella ti serbi, ogni speranza
Perdi di libertà; chè pien d'affanno
Vivrai tra ceppi in tenebrosa stanza;
Laddove, se tu schivi questo inganno
Col non andarvi, o col mostrar costanza,
Sta pur sicuro, disfarai l'incanto
In poco tempo, e avrai Despina accanto.
La virtù, figliuol mio, poggia su l'erto,
E non vi giunge chi non suda e gela.
Ella poi dona ampia mercede al merto,
E sue bellezze da vicin gli svela
Più luminose assai d'un cielo aperto.
Ma chi della salita si querela,
E guarda il monte, e si stende sul piano,
Può dir ch'egli ebbe ed alma e mente in vano.
Ricciardo nell'udire un tal parlare,
Come talor nel cielo nubiloso
Fra nube e nube alcun sereno appare,
Così della ragione un luminoso
Lampo lo fa da capo a piè tremare;
E meno acceso e meno coraggioso
Dice: Cugino mio, tu narri il vero;
Ma sono amante, e più dirti non chero.
[156]
E Malagigi allora: In me confida,
E coteste rivesti armi lucenti.
Io farò sì che una larva s'uccida
Dalla tua donna, e noi sarem presenti;
Chè una leggiera nuvoletta fida
Involeracci agli occhi delle genti.
Ciò detto, ei comparir fa d'improvviso
Un che tutto è Ricciardo ai moti, al viso;
Qual se ne va diritto alla fontana:
Essi non visti appresso a lui sen vanno.
Nè guari andò che la donna inumana,
Ma cruda sol per lo bevuto inganno,
Lieta, vezzosa e fuor dell'uso umana
Apparve, avvolta in un purpureo panno;
Ch'ivi la luna tanto risplendeva,
Che al par del giorno e più vi si vedeva.
E giunta appena in su l'erbose sponde
Della fontana, che Ricciardo chiama,
E il finto e il vero ad un tempo risponde.
Ella gli chiede se di cor più l'ama;
Perchè saldate crede le profonde
Antiche piaghe, onde ne sta sì grama.
Risponde il finto: Son le stesse. E il vero
Vi aggiunge: Or son maggiori, e han duol più fiero.
E in questo dire in sul collo di neve
Della bella fanciulla l'ombra vana
Getta le braccia; e vero assenzio beve
Ricciardo, l'opra lui parve sì strana.
Ma gelosìa fuggissi in tempo breve;
Chè la scaltra donzella aspra, inumana,
Prima nel collo e poi nel petto spinse
Dell'ombra il ferro, e al parer suo l'estinse.
[157]
Indi la testa gli recide, e corre
Verso il palazzo, e va gridando: Aprite.
Ogni uscio s'apre, ogni finestra; e accorre
Lirina, e seco femmine infinite,
Che la vogliono tutte in mezzo porre;
Ma rimasero a un tratto sbalordite,
E rientrâr nel palazzo in un istante
Afflitte, mute, e col piede tremante:
Chè volendo mostrar l'inferocita
Despina il tronco capo del garzone,
Mostrò di paglia ed alga inaridita
Un ammasso su tal proporzïone;
Di che sentinne una doglia infinita.
Lirina spaventata, e con ragione,
D'Origlia sua ricorre a' scartafacci,
Per veder ciò che quel mostro minacci.
Ma lasciamola pur che scartabelli
Nel segreto scrittoio a suo piacere,
E torniamo a Ricciardo, che i capelli
Ha ritti sì, che gli alzano il cimiere:
Non per timore, chè non è di quelli
In cui mostri viltade il suo potere;
Ma per l'inganno e il tradimento strano
Che fe' Despina sua di propria mano.
E disse a Malagigi: In fede mia,
Ho fatto bene a non fare a mio modo;
Ma credi tu che quell'opra sì ria
Ell'abbia fatto per forza di brodo,
O d'altro beveraggio che si sia,
Per cui fu sciolto l'amoroso nodo,
Con cui meco si strinse, e fu sconvolta
La sua memoria, ed in fumo disciolta?
[158]
E Malagigi a lui: L'incantamento
Le feo far quello che far le vedesti.
Però sèguita pure a stare attento,
Nè per casi terribili e funesti,
Nè per casi di lieto avvenimento
Muta consiglio mai, finchè non resti
Vincitor dell'impresa, ch'è più dura
Di quello ancor che altrui non si figura.
Mentre così favellan fra lor due,
Odon pel bosco gente che cammina,
E mostra quasi non poterne piùe.
Ricciardo verso loro s'avvicina,
Già rivestite le bell'armi sue;
Nella figura pristina piccina
Malagigi lo segue, e in pochi istanti
Raggiungono gli stracchi vïandanti.
Splendea la luna, è ver, splendean le stelle,
E pioveva da lor luce sì grande,
Che forse con le tante sue facelle
In minor copia il biondo Sol ne spande;
E le famose risplendenti e belle
Armi de' due guerrieri memorande
Cresceano il lume: eppur con tutto questo
A niun di lor fu l'altro manifesto.
Onde disse Ricciardo: Il nome vostro
Datemi, o meco a pugnar v'accingete.
Orlandino rispose: L'uso nostro
È di tacerlo; e se tu pur n'hai sete,
Aspetta, chè non siam frati di chiostro,
Che ti saprem cambiare le monete.
Ma tu devi esser qualche uomo poltrone,
Che i cavalieri a piè sfidi in arcione.
[159]
Di Ricciardetto al naso la mostarda
Venne sì acuta, che la lancia impugna,
E grida: Vili, canaglia bastarda,
E gente da pestarsi con le pugna;
Sì poco alle parole si riguarda?
Ma se avviene che con questa vi giugna,
Vi vo' infilare a foggia di ranocchi,
E lasciarvi per pasto degli allocchi.
Erano stanchi i due bravi cugini;
Ma come quando si torna da caccia,
Che i cani sono sì lassi e tapini,
Che alcuno per la via se ne accovaccia;
Pure, se avvien da' cespugli vicini
Che scappi un lepre, a seguitar sua traccia
Si pongon tutti con sì forte lena,
Che par ch'escano allor dalla catena;
Così lo sdegno e la subita rabbia
Le forze ravvivâr de' giovinetti,
Siccome il vento suole alzar la sabbia,
E spingerla da terra sopra i tetti.
Onde senza più movere le labbia,
Traggon fuora le spade, e chiusi e stretti
Ne' loro scudi aspettan che Ricciardo
Venga sopra essi, e venga pur gagliardo.
E venne egli di fatto, e in guisa venne
Con quella lancia sua nuova di zecca,
Che rotte avrìa le querce come penne:
Ma su quell'armi, che la Morte secca
Diè loro, il fin bramato non ottenne;
Che sì lo scudo il gran colpo rimbecca,
Che mancò poco che al ripicco strano
Non gli scappasse la lancia di mano.
[160]
Ricciardo resta attonito e stordito,
Chè simil caso mai non gli successe.
E Rinalduccio giovinetto ardito
Lo picca, e dice che quindici Messe
Gli vuol far dire, all'altar di San Vito,
A cui non so che papa avea concesse
Molte indulgenze all'anime purganti,
Dopo che sel sarà tolto davanti:
Ed Orlandino suo prega che voglia
Lasciarlo solo a quella lieve impresa.
Ricciardo nel suo cuor molto s'imbroglia,
E di far pensa dal caval discesa;
Chè assai crede d'onor che se gli toglia,
Se ancor finisce bene la contesa;
Chè troppo chiaro il suo vantaggio vede
Combattendo a cavallo, e quelli a piede.
Il nano che s'accorge dell'intoppo,
Si pone in mezzo, e dice: Cavalieri,
Noi siamo in terra scellerata troppo,
Dove il guardarci insieme fa mestieri,
Non disertarci. E lor disse in un groppo,
Perchè non può discender dal destrieri
Il campion che vi siede, e tutto il resto;
E fecero la pace, udito questo.
E fu tanto il piacere e l'allegrezza
Di ritrovarsi insieme in tempo tale,
Che si scordaro i due di lor stanchezza;
E Ricciardo non n'ebbe un'altra eguale,
Com'egli disse poscia in sua vecchiezza,
Narrando a' figli suoi quel dì fatale.
Ma mentre essi si danno mille abbracci,
Esce Lirina fuor co' scartafacci:
[161]
E sciolta i biondi crini, in gonna corta,
Nuda il bel piede, corre alla fontana,
E con la verga che in mano ella porta,
Fa un cerchio in terra, ed un nell'aria vana:
Ed ogni stella e la luna s'ammorta,
Ed atra nube pel cielo si spiana,
E giù tramanda in spaventevol foggia
Di grandine grossissima una pioggia.
Chi ha veduto giuocare al pallon grosso,
Può dir d'aver veduta la tempesta
Che a' forti cavalier cadeva addosso:
Perchè la grandin che lor dava in testa,
Era rispinta in alto a più non posso,
Talchè per loro fu cosa di festa.
Sol Malagigi avrìa pericolato;
Ma sotto del caval stette celato.
Finita la terribile procella,
Che stritolò le querce e gli alti faggi,
Ma il buon Ricciardo non mosse di sella,
E agli altri due non potè fare oltraggi,
Ecco che il cielo di nuovo s'abbella,
E si veggon del Sole i chiari raggi,
E venir loro incontro con gran fretta
Una leggiadra e lieta giovinetta;
La quale a nome della bella Argea
E di Corese saluta piangendo
I due pedoni; e in sostanza chiedea
Da loro ajuto nel periglio orrendo
Di vita, in cui ponevale la rea
Donna che quivi ha l'impero tremendo:
E se l'ajuto non veniva presto,
L'avrìa tratte di vita un vil capresto.
[162]
Ad una voce gridano ambidue:
Eccoci pronti. Ed ella: Vi conviene
Entrare in una grotta, e calar giùe,
Dov'esse stanno avvinte tra catene.
Ed essi: Andiamo, e non si tardi piùe
A trar le nostre consorti di pene.
Ricciardo li sconsiglia, e ancora il nano;
Ma gettan tutti le parole in vano.
Ella va innanzi, e quei le vanno appresso;
Entran nel prato, e vicino alla fonte
Si ferma a piede d'un alto cipresso:
Ed ecco (dice con dimessa fronte)
Lo speco, ove il miglior del nostro sesso
Fatto è bersaglio di disprezzi e d'onte.
Orlandino in un tratto vi si getta;
L'altro lo segue a modo di saetta.
Sonosi appena in lui precipitati,
Che si riserra il diviso terreno;
E la fanciulla per i verdi prati
Se ne dilegua via come baleno.
In vedere sì male capitati
Ricciardo i due garzoni, venne meno;
E rïavuto pianse amaramente
L'inopinato misero accidente.
Quando un dragone d'immensa figura
Si vede in faccia, e da man destra un toro,
E alla sinistra di strana misura
Un gigantaccio ignudo, ispido e moro;
Di dietro una voragine sì oscura,
Che a sol pensarvi d'affanno mi muoro.
L'aria s'oscura, e quelle orride furie
Gli vanno addosso a un tempo a fargli ingiurie.
[163]
Con le zampe davanti il buon destriero
Lo difende dal drago, e con la spada,
Ch'ei gira a tondo veloce e leggiero,
Si difende dagli altri, e fassi strada
Per dilungarsi da quel pozzo nero,
Dove, misero lui, s'avvien che cada;
Quando per l'aria battendo le penne
Un strano augello addosso a lui pervenne.
Sì grosso egli era, e avea sì lunghi artigli,
Che un elefante avrìa portato in alto,
Come portano l'aquile i conigli.
Ricciardo, ancorchè avesse il cor di smalto,
E si ridesse di tutt'i perigli,
Qui gli diede il timore un po' d'assalto;
E Malagigi misero ed afflitto
Stava sotto il cavallo, e stava zitto;
E fece mille prove e mille incanti
Per disparire con Ricciardo insieme;
Ma i diavoletti suoi sono birbanti,
E con forti scongiuri in van li preme:
Perchè a farsi ubbidir non son bastanti;
Chè il demonio del loco non lo teme,
Il quale ha maggior forza; onde il meschino
Sta sempre lagrimando e a capo chino.
Ed ecco che ad un tratto in sul cimiero
Un artiglio egli stende, e l'altro caccia
Sopra del collo al nobile destriero,
E su li tira; e lieto della caccia
Rota per l'aria libero e leggiero,
E gettarlo nel pozzo ognor minaccia:
Ricciardo impugna la possente lancia,
E glie la ficca in mezzo della pancia.
[164]
Un miglio buono alzato in alto s'era,
Quando sentissi dentro le budella,
E passar oltre in misera maniera
L'asta fatal, che omai la coratella
Gli passa, e già gli dà l'ultima sera;
E tanto egli è il dolor che lo martella,
Che lascia il cavalier, lascia il ronzino,
Il quale cade al gran pozzo vicino.
Ma l'uccellaccio morto veramente
Vi cadde in mezzo; e al suo cader si chiuse
Il vano orrendo, e il drago immantenente
Disparve, ed il gigante si confuse.
Or qui ti prego, Apollo, caldamente,
E teco prego il coro delle Muse,
Che mi diate conforto e diate forza,
Perchè l'opra più cresce e si rinforza.
Visto Lirina il caso disperato,
Torna a tentar di nuovo la sua sorte;
E vedendolo tanto innamorato
Di Despina promessagli in consorte,
La fa venire sopra il verde prato,
E comanda ad un mostro che la porte
Avanti a Ricciardetto, e fugga via,
Acciò ch'egli la séguiti per via.
Il mostro in braccio se la prende, e passa
Davanti a Ricciardetto, il quale appena
L'ha vista, che la lancia a un tratto abbassa,
E il segue col destrier con molta lena,
Che gl'intricati rami apre e fracassa.
Ma vada pure. Or se dolore e pena,
Donne, vi prese dal caso crudele
Di quella coppia di sposi fedele;
[165]
Deh non v'incresca che a cercar di loro
Io rivolga il mio canto, perchè almeno
Saprem qual fine egli ebbe il lor martoro.
Ma fate pur il bel viso sereno,
Ch'essi stan bene, e stanno in mezzo a un coro
Di donzellette su verde terreno;
Mangian del buono, e bevon del migliore,
E si ridon del vostro e mio dolore.
Chè quella grotta e quel gran precipizio
Non era cosa vera, ma apparente,
Atta però a ingannar nostro giudizio,
Ed in questo il demonio è assai valente;
Ma le donzelle e il fortunato ospizio
Fantastico non era certamente.
Quivi Lirina chiudere facea
I cavalier che uccider non potea;
Ed in una nefanda capponaja
Li tratteneva, acciò si fesser grassi.
V'eran strumenti musici a migliaja,
E vi dormivan come ghiri e tassi.
V'era fino del vin di Germinaja,
Di che in terra il miglior certo non dassi;
E v'era il Faraon, v'era il San Pavolo,
Che a' Pistojesi avea rubato il diavolo.
Perchè dal vino e da lussuria oppressi
Non alzasser la mente a belle imprese,
Ma scordati del tutto di sè stessi,
Con l'alme a terra piegate e distese,
E co' pensieri tarpati e dimessi
Vivesser come bestie al ventre intese,
Ed a null'altro; e in sì sporca maniera
Passasser la lor vita e giorno e sera.
[166]
Orlandino non più pensa ad Argea,
Nè Nalduccio a Corese; anzi d'accordo
D'esser senza consorte ognun dicea.
Ma tacciasi oramai d'un così lordo
Ostello, e d'una vita tanto rea;
Perchè troppo flagello e troppo io mordo
I garzon che a mal far voglia non mosse,
Ma il senno per incanto a lor guastosse.
Tempo verrà che di nobil rossore
Ne saran tinti, e n'averanno affanno;
E riscaldati da desìo d'onore
La perduta lor fama accresceranno.
Così casca talora il corridore
Per non suo fallo, e si rammenda il danno;
Chè l'animo gentil, sebbene intoppa
Alcuna volta, non però si azzoppa.
Questo bordello e queste cose strane,
Di cui la selva è piena tutta quanta,
M'hanno fatto scordar delle lontane
Armi e di Carlo mio. Ma pur, se tanta
Grazia averò di giungere a domane,
Non lascerollo: sebben canta canta,
Mi scaldo assai, e guastomi il cervello,
E m'esce poi di mente e questo e quello.
Però, se voi mi amate, come spero,
Mi dovete soffrir nel modo stesso
Ch'uom soffriamo per troppi anni leggiero,
Che or principia un racconto, e quello smesso,
Altro ne prende, e smarrisce il sentiero:
Chè il vecchio parla assai, nè corre appresso
Della lingua, veloce com'ei vuole,
La memoria, e van sole le parole.
[167]
Onde s'è breve il canto questa volta,
Non vi rincresca; che s'io resto in vita,
Ne averete de' lunghi; perchè molta
È la materia, ed anzi ella è infinita:
Ed avanti ch'io l'abbia ben raccolta,
Ben collocata e meglio digerita,
Talchè si possa dir: Noi siamo al fine,
Quante dovran passare estati e brine?
[168]
Dopo molta fatica e guerra molta
Torna Despina all'amorose brame.
Lirina maga, per lo sdegno stolta,
Fa i duo minor cugin cascar di fame.
È rubata Despina un'altra volta
Per l'empie insidie del vecchiaccio infame;
Ma a Dio piacendo ne successe bene,
Perchè i compagni liberò di pene.
Sempre ho creduto, e or più mi ci confermo,
Che fare a modo suo spesso è ben fatto.
Così vediamo risanar l'infermo
Che medico non volle a verun patto.
Perchè sebben ne' dubbj è un forte schermo
Un buon consiglio a prenderlo in astratto,
Però di molte volte accader suole
Che del preso consiglio un poi si duole.
Perchè bisogna secondar sovente
Certi impeti improvvisi di natura;
Ch'essi son quei che presi prontamente
Ci fanno avventurosi a dirittura.
Ma se uno è punto punto negligente
Nell'eseguirli, addio buona ventura;
Nè per molto che poi le corra appresso,
Di ritrovarla mai gli fia concesso.
[169]
E questo tanto più far ci conviene,
Quanto che la natura, che benigna
Ne' mali nostri ci aita e sovviene,
Quando si tratta di cosa maligna,
Ci sparge un non so che dentro le vene,
Che par che ci rigetti e ci respigna
Dall'abbracciarla: s'è cosa gradita,
In mille guise ad averla c'invita.
E di qui nascon quelle voci pazze:
Beato me se avessi fatto e detto!
Che s'odon tutto il giorno per le piazze.
Per questo io lodo molto Ricciardetto,
E tutti quei che son di tali razze:
Vo' dire c'hanno un simile intelletto,
Che senza porla molto in sul lïuto,
Fan quel che in capo a un tratto è lor venuto.
Se vi sovviene, il diavol maledetto
In figura terribile e feroce
Passò davanti al nostro Ricciardetto
Con la sua donna in collo, che a gran voce
Chiamava aita, e si batteva il petto;
Onde a seguirla si mise veloce;
Nè ascolta Malagigi, e non lo cura,
Vago d'uscire d'una tal ventura.
Il destrier di Ricciardo era sì fatto,
Che avrìa passato il cervo e il caprïolo,
Anzi che il corso suo per nïun patto
Vinto sarìa dall'aquilino volo;
Lo stesso vento avuto avrìa dicatto,
Ch'ei l'avanzasse a poco spazio solo:
In somma egli correva forte tanto,
Che il diavol sempre sel vedeva accanto.
[170]
Or mentre così volan questi due,
Giungono in mezzo ad un'ampia pianura,
Ove fingendo non poterne piùe,
Si ferma quell'orribile figura,
E dice a Ricciardetto: Odimi tue:
Io non ti fuggo mica per paura,
Ma per comando del mio sommo sire;
E tristo te, se ancor mi vuoi seguire.
Perchè costei non m'uscirà di mano
Per modo alcuno; e tu pazzo ben sei,
Se tanto speri. Eh io non pugno invano,
Riprese Ricciardetto; e se gli Dei
Vorran ch'io muoja in questo aperto piano
Senza ch'io possa ricovrar costei,
Per sì bella cagion muojo contento:
Sol che resti in man tua, mi dà tormento.
Ciò detto, impugna la sua lancia d'oro,
E contra il mostro orribile si caccia.
Ma quei che ha di tristizia ampio tesoro,
Prende Despina sotto ambe le braccia;
E come in Vaticano con decoro
Un canonico suol mostrar la faccia
Del Nazzareno ne' giorni più santi,
Così Despina ei si teneva avanti.
Ove drizza la lancia Ricciardetto,
In quel verso Despina egli rivolta;
Sicchè deluso il forte giovinetto
Per l'ira è quasi presso a dar la volta:
Ch'ei vede ben che aver non puote effetto
La sua vendetta; chè difesa molta
Fa al brutto mostro la bella fanciulla,
E ch'ei per sua cagion non può far nulla.
[171]
Salta talora subito e leggiero
Per ferirlo ne' fianchi o nelle reni;
Ma della donna il volto lusinghiero
Trova per tutto, e fa che il colpo affreni.
Pensa ei talor, se fantastico o vero
Sia quel bel corpo e quegli occhi sereni;
Ma comunque si sia poi, non gli basta
L'animo di ferirla, e abbassa l'asta.
Solo l'accorto e nobile cavallo
Offende il mostro, e non fere Despina;
Che co' piedi davanti senza fallo
Diserta le sue zampe, anzi rovina.
Grandi ugne egli ci aveva, e antico callo
Per ripararle da gelo e da brina,
Ma non dalle terribili zampate
Di quel destriero fatto dalle Fate.
Or mentre in questa guisa se ne stanno,
Ecco venire per l'ampia pianura
Gran serpe, che a vederlo mette affanno.
Come un toro grosso è nella cintura,
E lungo un miglio, se pur non m'inganno;
Chè ingrandisce le cose la paura.
La testa è poco meno d'una botte,
E getta fuoco di giorno e di notte.
Vicino al cavaliero un trar di mano
Mezza si rizza, e un campanil rassembra.
Indi si lancia in modo acerbo e strano
Verso di lui; e triste le sue membra,
Se non andava il suo desire in vano
Mercè il cavallo, che, se vi rimembra,
Sapea far tutto, e lo poteva fare,
Onde potè quella serpe burlare;
[172]
La quale non potendosi tenere,
Si discostò dal cavaliero assai.
Pur con la coda, in cui tanto potere
Aveva che non può pensarsi mai,
Cinse in modo il cavallo e il cavaliere,
Che mise entrambo negli ultimi guai.
Ma la fortuna, di Ricciardo amica,
Il braccio destro a tempo gli districa;
E con esso impugnata la famosa
Spada che tutto rompe e tutto fende,
La serpentina fascia aspra e scagliosa
Col resto ancide, e libero si rende:
Non altrimenti che tagliar festosa
Suole la plebe nelle sue merende
Il dì di San Lorenzo a casa mia
Que' gran cocomeroni per la via.
Ma in quella guisa che vediam ripieno
Il ventre de' mosconi di vermetti,
Così del serpe dal reciso seno
Usciron più migliaja di serpetti,
Sottili in prima come giunchi o fieno;
Ma sì crebbero in breve e fur perfetti,
Che crescon meno all'agostina piova
Le botticelle uscite allor dell'uova.
Di teste e colli d'orridi serpenti
Ondeggia tutto quanto il largo prato,
Come di giugno a' zeffiri clementi
Si muove il grano tra verde e seccato.
I fischi strani e l'aspre fiamme ardenti,
Che gettavan le ree per ogni lato,
Recavano alla vista ed all'udito
Uno spavento, un affanno infinito.
[173]
Queste d'intorno al forte cavaliere
Si van mettendo a foggia di palizzo,
D'onde uscire non abbia ei più potere.
Ma mentre ognuna pensa allo stravizzo
Che spera far di lui e del destriere,
Egli al cavallo, ch'era saltarizzo,
Feo far tal salto, che uscì fuor del cerchio;
Ma non vi fu già punto di soverchio;
E fattolo fuggire, anzi volare,
In poco tempo uscì del prato fuora.
Il giorno intanto comincia a mancare,
E qua parte del monte si scolora,
E là del piano; e già rosseggia il mare,
E poi si sbianca, e s'annerisce ancora
Col resto delle cose; e in tempo breve
A lui si toglie il Sole, altri il riceve.
Il cavallo non mangia; chè si pasce
D'aria, e v'ingrassa come il porco a ghiande.
Ma Ricciardo si trova in dure ambasce,
Mercè la fame tormentosa e grande;
E nulla cosa entro quel bosco nasce
Da farne benchè misere vivande;
Onde molto s'affanna e si dispera,
E crede di morire in quella sera.
Infino allora ei s'era mantenuto
Con certi biscottini e rotellette
Fatte di pollo e di piccion battuto,
Che Malagigi a lui nel bosco dètte:
Ma queste eran finite; e nuovo ajuto
Aver non può, se come le civette
Non si pone a mangiar lucertoloni,
Che v'erano in quel bosco a milïoni.
[174]
Così da molta fame e da stanchezza
Vinto il garzone, abbandona la briglia
Sopra il cavallo; e quel con gran prestezza
Là torna, ove l'orribile famiglia
Lasciò de' serpi, ch'ei nulla li prezza;
Anzi lor salta addosso, e li scompiglia;
E ritrovato il mostro con Despina,
Correndo quanto può gli s'avvicina.
Fugge la fera, e tanto si spaventa
Di vedersi così Ricciardo appresso,
Che più del suo dover non si rammenta.
Lirina dielle per comando espresso
Che ad uscire del bosco stesse attenta;
Perchè uscendo n'avrìa tristo successo.
Or quel demonio vinto dal timore
A un tratto si trovò del bosco fuore.
Pone egli appena la zampa caprigna
Sopra il terreno che non fu incantato,
Che perde ogni sua possa, e ratto svigna,
Lasciando la donzella sopra il prato;
A cui non più la bevanda maligna
Toglie la mente, come pel passato,
Anzi torna nell'esser suo perfetto
Amante, come pria, di Ricciardetto.
In questo mentre la benigna e pura
Luce con passo vittorioso e lento
Premea le terga della notte oscura;
E ripiene di gioja e di contento
Le cose ripigliavan sua figura:
Dal chiuso ovile usciva fuor l'armento;
E sbadigliando e stirandosi tutto
Già al campo il villanel s'era ridutto.
[175]
Despina che non sa dove si sia,
E per la dubbia luce non ravvisa
Se la fortuna sua sia buona o ria,
Molte cose fra sè pensa e divisa;
E vêr la selva di nuovo s'invìa,
Che aver più sicurezza ivi s'avvisa;
Chè non sa chi si sia quell'uomo armato,
E teme d'ogni cosa in tale stato.
Ricciardo se ne stava come morto,
Sicchè non vede la sua donna bella;
Chè tal vista gli avrìa dato conforto.
Ma mentre vuol fuggirsi la donzella
Nel bosco, che credeva esser suo porto,
Il destrier l'addentò per la gonnella,
E la tenne sin tanto che aggiornosse.
E il buon Ricciardo dal sonno si scosse.
Quando egli scôrse l'amata Despina,
E fuor si vede del bosco incantato,
Si gettò dal destriero con ruina,
Già la visiera e l'elmo dislacciato.
Ma per l'immensa gioja repentina
Ancor parte del volto avea celato;
E presala per mano, dal contento
Si stette per morire in quel momento.
Despina, che digesta ha la bevanda
Che innamorar la feo d'una fanciulla,
Vedendo tal guerriero in cotal banda,
Lo guarda, come guarda dalla culla
Fanciul, che ancor la poppa non domanda,
La dolce balia, quando poco o nulla
Del viso ella gli mostra per celiare
Con esso, e a un tratto qual è gli compare.
[176]
Chè quando per Ricciardo ravvisollo,
E assicurassi ben ch'egli era desso,
Fu per gettargli le braccia sul collo;
E Ricciardo volea pur far lo stesso,
Ancorchè pel digiun fosse sì frollo;
E se nol feron, fu prodigio espresso.
Almen così cred'io; perchè gli amanti
Per l'ordinario non sono mai santi.
Nè in vita mia mi son mai persuaso
Che amore ed innocenza faccian lega;
E se la fan talvolta, sarà caso.
Un uom che a donna piaccia e che lei prega,
Se lo ributta, vo' perdere il naso.
Perchè, sebbene un qualche poco nega
E fa la dura a forza d'onestade,
Dàgli e ridagli, infin si stracca e cade.
Però ridete pur, quando ascoltate
Che son le belle donne come scale
Per girsene al Fattor che le ha formate;
Perchè per esse a contemplar si sale
Le divine bellezze a noi negate.
Avanti del peccato originale
Forse questo accader potea nel mondo;
Ora son buone per mandarci al fondo.
Ma tra lor, che la fede s'eran data
Di sposarsi, cammina altro discorso;
Nè va sì per minuto riguardata
Cosa per cosa, ma quasi di corso.
Despina dunque lui guata e riguata,
Ed egli lei; e conforto e soccorso
Prende da quei begli occhi, che gli danno
Più di vigor, che i balsami non fanno.
[177]
Il Sole intanto su i monti compare,
E dice al suo Ricciardo allor Despina:
Ritorna in sul cavallo, se ti pare,
E su la groppa io ti starò vicina;
Ed anderemo presto presto al mare,
Ove ho una villa degna di regina.
Andiam, disse Ricciardo; e preso il freno,
Nel salire a caval parve un baleno.
E Despina ancor essa, più leggiera
Che non è piuma, volò su la groppa;
E il buon cavallo di tutta carriera
Porta ambeduo, come fosser di stoppa:
E al parer mio giusto in un'ora intera
(Vedi, lettor, se avean buon vento in poppa)
Fecero trenta miglia, ed arrivaro
A quel palazzo veramente raro.
Egli era in mare mezzo collocato,
E mezzo in terra: la marina parte
Avea dal destro, e dal sinistro lato
Ampie muraglie poste con tal arte,
Che feano un ampio porto sì guardato
Da tutti i venti, che le vele sparte
Non si moveano all'aura punto o poco;
E d'ampie navi era capace il loco.
Sovra le mura poi d'intorno intorno
Era un vago giardino, e dalle bande
Di statue egli era il bel recinto adorno;
E sovra un arco maestoso e grande
V'era un Nettuno coi Tritoni attorno:
Opre tutte di bronzo, e sì ammirande
Per lo lavoro e per l'immensa altezza,
Che a voler dirle sarebbe sciocchezza.
[178]
Stavan dall'ime parti di quell'arco
In due conchiglie di candide perle
Doride e Galatea, che in vece d'arco
Avevan reti, non da quaglie o merle,
Ma da pesci predar di grave carco;
Sì vaghe, che stupore era a vederle.
Delle conchiglie legati a ciascuna
Eran delfini dalla schiena bruna.
Quando il Sol poi precipitava in mare,
E la notturna Dea stendea il suo manto
Sopra le cose, e le facea mutare,
Quell'arco comparìa splendido tanto,
Che assai da lunge si potea mirare,
Talchè il nocchier col legno mezzo infranto
Urtava ancor con le tempeste ardito,
Su la speranza del porto e del lito.
Nel mezzo al porto poi di dolce umore
V'era una fonte che gettava in alto,
E rallegrava ai riguardanti il core:
D'oro era tutta, e d'un bel verde smalto
Coperte eran le sponde e dentro e fuore.
Nè più del vero l'adorno ed esalto;
Anzi tralascio cento cose e cento,
Perchè non dica alcun ch'io me le invento.
Per quella parte poi che si distende
Il gran palazzo per l'erboso piano,
Sono cose sì rare, sì stupende,
Che non le può capir pensiero umano.
In suo paraggio foran selve orrende
Le gran bellezze del giardin Pinciano;
E sarìeno Aranguez e il gran Versaglie
Appetto a lui sfasciumi ed anticaglie.
[179]
Per trenta miglia si dilata in giro
Il vago bosco di mura cerchiato,
Che mani industri in mille strade apriro
E quinci e quindi; ed ha nel mezzo un prato,
Dove fan capo con ordine miro
Tutte le strade; e in mezzo è collocato
Un chiaro lago, e intorno ad esso stanno
Platani tai, che fino al ciel sen vanno.
Tra pianta e pianta son di marmo pario
Satiri e ninfe con tazze e bicchieri,
E tutti versan l'acqua in modo vario.
Cingono il prato alti cipressi e neri;
E v'è di cacce sì copioso svario,
Che sia con dardi, con reti o levrieri,
O pur con visco, si può far gran preda,
Senza che di mancanza alcun s'avveda.
Qua vola il francolino, e là il fagiano;
Qui nell'alzarsi la pernice fischia,
E su dall'erto rovina nel piano,
E tra i cespugli s'asconde e frammischia.
Qui v'è la starna e il bel gallo montano,
E l'anitra cianciera ch'or s'arrischia
Su l'acque, or sul terreno; e tutti infine
Qui son gli augei di piume peregrine.
La damma, il caprïolo e la gazzella
Lascian venirsi il cacciator vicino.
Cignal non v'è, nè fera altra più fella;
Per la memoria del crudel destino
Che delle Dee fe' pianger la più bella,
E sospirare nel cerchio divino,
U' il néttar sacro ella versosse in petto,
Pensando al suo ferito giovinetto.
[180]
Ma candidi armellini, e timorosi
Conigli e lepri empiono il piano e il monte.
A sì bel loco gl'infiammati sposi
Giunti che fûro, pel calato ponte
Al palazzo ne andaro desïosi
Per rinfrancarsi; quando ecco di fronte
Veggion venire un vecchio, e lor domanda
Chi sieno, onde venuti, e da qual banda.
Siam gente Franca, disse Ricciardetto.
Ed egli allor: Voi me ne avete cera,
Ch'entrar volete sotto questo tetto
In una molto libera maniera;
Ma se voi non avete altro ricetto,
Alloggerete all'aria oggi e stasera.
Ritorna indietro, e chiude in un istante
La porta, e fa l'orecchia di mercante.
La fame che tormenta Ricciardetto,
Non può soffrir la villanìa del vecchio;
Ed, Apri, grida, pazzo maledetto,
O a romper questa porta m'apparecchio;
E tristo te, se la rompo in effetto;
Chè il maggior pezzo tuo sarà l'orecchio.
E in questo dir, con la lancia fatata
Comincia a dar nell'uscio all'impazzata.
Era tutta di bronzo la gran porta,
Come quelle che stanno al Vaticano;
Ma l'essere di bronzo cosa importa
Per sì gran lancia, e posta in sì gran mano?
L'aperse presto presto, a farla corta;
Anzi che rovesciolla sopra il piano.
Il vecchio nell'udir quel gran fracasso,
Per lo spavento ebbe a restar di sasso.
[181]
Monta le scale la bella Despina,
E trova il vecchio che sta per morire
Dalla paura della gran ruina.
Ma ella a un tratto gli comincia a dire,
Siccome è sua signora e sua regina;
Ond'egli prende allor fiato ed ardire,
E se le butta a' piedi, e le domanda
Perdon del fallo, e se le raccomanda.
Gli perdona benigna, e fa che ancora
Gli perdoni il suo caro Ricciardetto.
Ma perchè la gran fame lo divora,
Dammi, ei dice, del pane e vino schietto,
Buon vecchio mio, e farem pace allora.
Parte ei veloce, e con un buon fiaschetto
Ritorna, e con un pane fatto in casa,
Ma fresco sì, che da lungi s'annasa.
E dopo il pane portò fichi e pere,
Ed uva secca ed altre bagattelle,
Che fecero gli amanti rïavere.
Ma perchè già spargevasi di stelle
L'aria, e le cose si facevan nere,
Volse Despina le sue luci belle
Al vago giovinetto, e con un riso
Disse: Tempo è che da me sii diviso.
E impose al vecchio che lo conducesse
In una stanza dalla sua lontana;
Lo che quanto a Ricciardetto suo dolesse,
È cosa a immaginarsi molto piana:
Ma di far opra che a lei dispiacesse,
S'astenne ei sempre, e ben fu cosa strana;
Ma questa volta avrebbe fatto meglio
A ridersi di lei e più del veglio.
[182]
Vuole ubbidirla, e non trova la via
Di fuora uscir dalla beata stanza.
Il vecchio che ha da fargli compagnìa,
Lo chiama e tira, e poco o nulla avanza;
Chè pare un uomo entrato in agonìa.
Di tanto amore e di tanta costanza
Gode Despina, e lo ringrazia ancora;
Ma vuole l'onor suo ch'egli esca fuora.
Però gli dice: Il mio caro Ricciardo,
Infin che il padre mio non è contento
Che siamo sposi, sebbene tutta ardo,
Non sdegnar se a star teco non m'attento.
L'onore è cosa piena di riguardo,
E debbe custodirsi ogni momento,
Ma più la notte: onde or da me t'invola;
Chè onesta esser non posso se non sola.
Ah lascia star, soggiunge Ricciardetto,
Cotesti tuoi pensieri, ed una volta
Finiamo questo viver maledetto,
Pieno d'affanno e di miseria molta.
Tu starai drento, ed io fuora del letto;
Chè così sola non vo' mi sii tolta.
Ed in ciò dire, con molta possanza
Sospinge il vecchio fuora della stanza.
E le dice: Despina, io sto sì fisso
Di star qui drento, e non voler partire,
Che se a cacciarmi venisse l'abisso,
A pezzi forse mi potrìa farne ire.
Lo guarda la fanciulla fisso fisso
Con occhio tal che lo fa impaurire;
Onde s'agghiaccia, e tornato in sè stesso,
Esce di stanza, e vanne al vecchio appresso.
[183]
Così di notte il can del contadino,
Non conoscendo l'usata figura,
Vuole investirlo come un assassino,
E abbaja sì, che gli mette paura;
Ma quando egli lo sgrida da vicino,
E trâgli un sasso od altra cosa dura,
Si azzitta allor, che alla voce il conosce,
E fugge con la coda fra le cosce.
In quella notte si colcò vestito
Il mesto Ricciardetto; e sopra il prato
Restò il cavallo, che d'aria è nudrito,
E in nessun tempo mai vuol star serrato.
Despina che d'amore ha il cor ferito,
Muor di voglia d'aver Ricciardo a lato.
Ma così sono tutte le ragazze:
Le più savie al di fuor son le più pazze.
Il vecchio intanto, senza far parola,
Al suo signore invìa per una fusta
Avviso, come in casa ha la figliuola,
Ch'egli in cercarla ogni luogo rifrusta.
E fagli anche saper che non è sola,
Ma seco ha un bel garzon che assai le gusta;
E questi è sì gagliardo e così forte,
Che del palazzo gli spezzò le porte.
Ma dormano gli amanti, e solchi il mare
La barchetta, e le sia propizio il vento;
Chè all'afflitta Lirina io vo' tornare,
Che il bosco ha pieno d'un strano lamento,
E vuol morire, e vuolsi vendicare.
Al fin del bosco giunse in quel momento
La misera, che il diavolo inseguito
Scappò fuora, e l'incanto fu finito.
[184]
Malagigi restò nelle sue mani,
Che galoppava a Ricciardetto appresso;
E stette quasi per mandarlo in brani:
Ma in vederlo sì piccolo e dimesso,
Lo legò per il collo come i cani,
Ed appiccollo a un ramo di cipresso,
Pensando quivi ch'ei restasse morto:
E ben fe' vista di morir l'accorto.
Ma non sì tosto altrove ella si volse,
Che il diavoletto suo cheto e leggiero
Da quell'infausta pianta lo disciolse,
E di Ricciardo seguitò il sentiero;
Di che Lirina poi tanto si dolse,
Ch'ebbe a morir per rabbia daddovero:
Che se a sorte quel giorno era indovina,
Di Malagigi avrìa fatto tonnina.
Nè vi deve arrecar alcun stupore,
Perchè a Lirina ciò non fosse noto:
Chè il diavol suol per forza far favore,
E poi fra lor v'è di concordia il voto,
Quando si tratta di darci dolore;
Ed hanno anch'essi per un lor divoto
Una tal discretezza, che sovente
Lo scampa dal pericolo imminente.
Lasciato Malagigi al ramo appeso,
Torna Lirina, e pensa fra sè stessa
Di far vendetta del suo onore offeso;
Chè il viver così misera e depressa
L'affligge a morte; ed hanne il volto acceso
Di rossor tale, che a fiamma s'appressa:
E dopo assai pensar, conchiude alfine
D'uccider le due donne pellegrine,
[185]
E, se puote, Orlandino e il così prode
Nalduccio, ch'ambo stanno allegramente,
Ed han stoppato il biasimo e la lode.
Ma le sue ire non son ben contente,
Se il cor, come si dice, non gli rode,
E non li fa morir meschinamente.
Però li tragge fuora dell'ostello,
E li mena nel suo forte castello;
Ed in esso vi mena ancora Argea
Con la bella Corese; ed opra in guisa,
Che ognun ben riconoscersi potea;
Talchè per la gran gioja ed improvvisa
D'essere in ciel Nalduccio si credea;
E la stessa fortuna si divisa
Orlandino d'avere, e le donzelle
Non capiscon per gioja nella pelle.
Ma l'allegrezza lor cangiossi presto
In dolor tal, che a dirlo non ho core.
Meglio per lor sarìa stato un capresto,
Meglio un coltello, chè a un tratto si muore.
Ma Lirina non è sazia di questo:
Vuol che muojan di fame e di dolore;
E vorrebbe, potendo, la crudele,
Che si struggesser come le candele.
E perchè non si possan dare aita,
O morire abbracciati in tanto affanno,
Ecco che d'un cristallo è circuita
Ogni persona e il loco ove si stanno.
Nè qui il valor, nè qui l'anima ardita
Possono oprar; chè parte più non ci hanno;
Tanto più che son tutti disarmati,
E i cristalli son grossi smisurati.
[186]
Parevano le donne e i cavalieri,
Racchiusi in que' cristalli così duri,
Tante lucerne o tanti candelieri
Posti ne' vetri, acciò che sien sicuri
Da' zeffiretti placidi e leggieri;
Ovvero uccelli o diavoletti oscuri,
Che stan chiusi nel vetro all'acque in mezzo,
Che son sì vaghi, e s'hanno a poco prezzo.
Quivi li lascia la crudel donzella,
E l'uscio chiude. Ora pensate voi
Se l'ira a' due guerrieri il cor martella.
Piangon le donne, e, Oh sventurate noi,
Gridano, odiate da ciascuna stella!
Almen, diceva Argéa, a' piedi tuoi
Morire potess'io, consorte amato!
Chè dolce allor mi fora, o meno ingrato.
Ed il simile e più dicea Corese:
Ma non v'è modo da scappar dal vetro.
Eran le voci da' mariti intese,
E l'udivan con volto acerbo e tetro;
Quando Nalduccio lagrimando prese
A rispondere a lor di questo metro:
È giunto il tempo che forza è morire,
E non vale più a nulla il nostro ardire.
Però soffriam questa sventura in pace,
E moriamo da forti. Avrà Lirina,
Che sì del nostro affanno si compiace,
Pena in vedere di che tempra fina
Sieno i cor nostri. Può l'empia rapace
Donna torci la vita, ed in rovina
Mandare i corpi nostri; ma non vale
Su la nostr'alma libera e immortale.
[187]
Intanto giunge il mezzogiorno e passa,
E ne viene la notte, e non si magna.
Dice Orlandino: Io non ho nulla in cassa,
E non mi reggo più su le calcagna.
Con gli sbadigli Nalduccio si spassa,
E pensano le donne alla Cuccagna,
Al bel paese dove i fiori e i frutti
Degli alberi son pani, e son presciutti.
Viene il secondo giorno, e stese al suolo
Stanno le donne per la debolezza.
Ma pria che venga il terzo, altrove io volo
Con le mie Muse; chè a tanta fierezza
Resistere non posso, e n'ho tal duolo,
Che mi sento scoppiar di tenerezza,
In veder divorarsi dalla fame
Il fior de' cavalieri e delle dame.
Ahi misero ch'io sono! non per questo
Potrò cantar di dolci cose e liete;
Ma il canto almeno non sarà funesto.
Spedito al cafro re, come sapete,
In un battello che arrivò ben presto,
Dal vecchio un uomo chiamato Larete,
Cotanto egli era pescator valente,
Disse tutto allo Scricca brevemente.
Lungi tre miglia ell'era da Cobona
(Real città dove abita lo Scricca)
La villa in cui dormivan su la buona
Gli amanti: che sebben suol esser picca
Fra il Sonno e fra l'Amor, nè l'un perdona
All'altro mai, ma sempre glie la ficca;
Pur dopo una vigilia bestïale,
L'Amor può meno, ed il Sonno prevale.
[188]
Era in Cobona (o vedi che destino!)
Del sir del Monotopa il maggior figlio,
Ch'era più fiero assai d'un can mastino.
Africa tutta pende dal suo ciglio,
E nella Cafria ancora egli ha domìno;
A cui lo Scricca ogni anno un aureo giglio
Dà per omaggio. Or questi era venuto
Da per sè stesso a prendersi il tributo.
Ed acceso per fama egli era tutto
Della bella Despina; e intese appena
Il suo ritorno, che chiese (e con frutto)
Le sue nozze allo Scricca, che ripiena
L'alma ha di gioja: chè sebbene è brutto
Il genero, ha quattrini come rena;
E la bassa Etïopia e l'alta ancora,
Ch'è un mezzo mondo, l'inchina e l'adora.
Vanne con questo solo e due scudieri
Alla villa reale, e zitti zitti
Col vecchio van di Despina ai quartieri,
La qual dolce dormìa; nè perchè gitti
Lo Scricca a lei le braccia, e non leggieri
La scuota, gli occhi nel sonno confitti
Puote aprir; ma tentenna e ritentenna,
Si desta, e trema per timor qual penna.
Ella sul primo si credè che fosse
Il suo Ricciardo, e stette per gridare,
E feo sue guance estremamente rosse;
Ma quando il padre potè ravvisare,
Riverenza e timor sì la percosse,
Che, come dissi, incominciò a tremare:
Ma i due scudieri la piglian di peso,
E vanno al porto con passo disteso.
[189]
Li seguita lo Scricca e il fiero Ulasso,
Che tal si chiama il prence d'Etïopia;
E in un momento, perchè ci era un passo,
Vanno a Cobona. Ma non si fa copia
Del fatto, e sopra vi si pone un sasso;
Chè la cittade ha di milizie inopia;
E lo Scricca, che sa cosa è Ricciardo,
Vuol camminare in ciò con gran riguardo.
Le disperate voci e i pianti strani
Che fe' Despina, e chi li vorrà dire?
Le bionde trecce ella strappossi a brani,
Nè si lasciò la faccia di ferire
Coll'ugne; e uccisa con le proprie mani
Si sarebbe, tanto era il suo martìre,
Se le pietose donne, intorno a cento,
Non le stavano attorno ogni momento.
Ma s'ella piange, Ricciardo non ride;
Che destatosi appena in su l'aurora,
Cerca d'alcun che a Despina lo guide,
E chiama il vecchio. E non m'ascolti ancora?
Ripiglia irato, e par che strilli e gride.
Ma il vecchio della villa era già fuora;
Ond'egli corre in questa parte e in quella,
E rifruca ogni quarto ed ogni cella.
Va di su, va di giù; loco non lassa
Ch'egli non guardi, e par che al giuoco ei faccia
Del rimpiattin; per tutto apre e fracassa.
Alfin la sorte sua colà lo caccia,
Dove ad un tratto per dolor s'insassa;
Poi in sè ritorna, e il caro letto abbraccia,
Letto ancor caldo, ove dormì Despina;
E ben s'immaginò della rapina:
[190]
Perchè la rete d'oro e i bianchi veli
Con cui fasciava i biondi suoi capelli,
Trovò sparsi per terra; e se crudeli
Egli chiamò, se ingiusti, iniqui e felli,
Con quei che vi son dentro, tutti i cieli;
E se degli occhi fece mongibelli,
E se fuora egli uscì tutto arrabbiato,
Sel pensi chi davvero è innamorato.
Forse così per la sanguigna veste
Su' monti di Tessaglia Ercole apparve;
E fu così (la madre uccisa) Oreste
Dalle Furie agitato e dalle Larve;
O così, adorne d'edera le teste,
Sembraro il dì che in mezzo a lor comparve
Il tracio Orfeo, le Bassaridi insane:
Ma queste parità pur son lontane.
La prima cosa ch'egli fece, accese
Nella villa un gran fuoco, e la distrusse.
Indi nel porto rapido discese,
Sfondò le navi, ed a morte condusse
Quanti nocchieri con la mano ei prese.
Poscia colà sul prato si ridusse
Dov'era il suo destriero, e su vi sale;
E quello vola come avesse l'ale.
Verso l'orribil selva ei s'incammina;
Chè pensa che colà ridutta l'abbia
Con qualche incanto suo l'empia Lirina;
Quando ritrova assiso in su la sabbia
Malagigi in figura piccinina,
Nè quasi ravvisollo dalla rabbia;
Pur lo ravvisa, e se lo prende in groppa,
E in vêr la selva tacito galoppa.
[191]
Entra per essa, e nulla si spaventa
Di fiamme e laghi, di serpenti e mostri;
Ma di Lirina al palazzo s'avventa,
E sul cavallo va per tutti i chiostri
E per le stanze; ed ei non si sgomenta,
Ma va che par ch'egli abbia i piedi nostri;
E tanto gira, ch'entra dove stanno
I suoi cugini, e vede il loro affanno.
Si prova con la lancia e con la spada
A romper quei cristalli, e il tempo getta
Con la fatica; chè sembra rugiada
Qualunque colpo di tagliente accetta.
Quando il cavallo, che non mangia biada,
Le sue zampe a menar comincia in fretta
Sul cristallino masso; e mena mena,
Lo spezza sì, che quasi fanne arena.
Dopo l'un rompe l'altro, e in poco d'ora
Tutte son rotte ed anzi stritolate.
Ma libertà che serve a chi divora
La cruda fame? E in casa delle Fate
Non c'è pane, e nè meno acqua di gora;
Sicchè a morire saranno forzate
Le belle donne e i due bei giovinetti,
Se dal ciel presto non sono protetti.
Nalduccio appena puote alzar la testa,
Ed Orlandin si rizza, ma ricasca.
Argea non parla, e Corese sta mesta.
Malagigi rovesciasi ogni tasca;
Ma nulla trova in quella, e nulla in questa:
Tal che più ingagliardisce la burrasca,
E veggon che non ponno più durare
Contro la fame, e lor convien mancare.
[192]
Il buon Ricciardo, ancorchè in stato sia
Da non sentir d'altra cosa dolore
Che sol di lei che gli han menata via;
Pur ha pe' suoi cugini tanto amore,
Che vuol camparli da morte sì ria,
Se potrà tanto oprare il suo valore;
Onde corre a cavallo in ogni banda
Per trovar pane, ovvero altra vivanda;
E nel girar che fa, trova Lirina
Che fugge spaventata; ma il destriero
La giunge, e tien co' denti la meschina.
Ricciardo allor con volto acerbo e fiero
Dice: Rendimi, o rea, la mia Despina,
Ovver di qui morir fa pur pensiero.
Giura Lirina che non l'ha rubata,
E ch'ella è fuor della selva incantata.
Non le crede Ricciardo, e il braccio innalza
Per tagliarle la testa; e il buon cavallo
In quell'atto da sè lunge la sbalza;
Onde il gran colpo fu gettato in fallo.
Ma di nuovo il destrier la segue e incalza,
E la ripiglia in un breve intervallo;
Onde pensa Ricciardo, e ben s'appone,
Che in questa cosa ella ci abbia ragione.
Ma la donzella piena di paura
Dice: Signor, giacchè son giunta al fine
D'ogni mio bene e d'ogni mia ventura,
E che il poter delle Fate divine
Superato è dalla tua gran bravura,
Abbi pietà di questo biondo crine,
Nè voler nel più bel de' giorni miei
Tormi la vita, se gentil tu sei.
[193]
In nulla t'offes'io, e ti prometto
D'esserti serva e amica, se vorrai.
A queste voci lieto Ricciardetto
Sorride, e dice: Amica a me sarai;
E fia dell'amor tuo il primo effetto,
Se de' cugini miei pietade avrai,
Che stan morendo miseri di fame
Con le lor mogli, che son due gran dame.
O qui sì, rispose ella, non poss'io
Dar lor conforto, chè ho le man legate;
Ch'aspro costume e statuto empio e rio
Egli è, signore, di noi altre Fate,
Di far del mal quando ne abbiam desìo,
E di far ben sovente alle brigate;
Ma non possiamo in mal mutare il bene,
Ed in piacere convertir le pene.
Qui bisogna disfar tutto l'incanto;
E per disfarlo, assai ci vuol valore.
Di questo gran palazzo sta in un canto
Terribil mostro, che se a sorte muore,
Diviene un piccol serpe, e piccol tanto,
Ch'è di lui il bruco e il lombrico maggiore;
E sdrucciola di mano a chi lo piglia
Sì presto, che ne avrai gran maraviglia.
In questo stato non dura un minuto,
Che torna ad ingrossarsi, e ad esser torna
L'antico mostro orribile e paffuto.
Bisognerìa pigliarlo per le corna,
E poi tagliare il suo collo minuto.
Dice Ricciardo: Andiam dove soggiorna
Questa bestia ora grande, ora piccina;
E a lui lo guida la bella Lirina.
[194]
Muglia la fera al primo comparire
Che fa Ricciardo, e contro se gli scaglia,
Che par che a un tratto lo voglia inghiottire:
Ma non è mica il cavalier di paglia;
Anzi l'incontra, e la prende a ferire
Ora nel collo ed or nell'anguinaglia;
E presto presto, per farvela corta,
Dalla sua spada quella bestia è morta.
E in un balen diventa un serpentello,
Che raccoglier giammai non può Ricciardo;
Sì perchè minutissimo egli è quello,
Sì perchè dal cavallo suo gagliardo
Scender non puote, e si becca il cervello:
E quello intanto a ingrossar non è tardo,
Ed eccolo già fatto grande e grosso,
Ecco che torna al cavaliero addosso.
E per non ve la far troppo storiare,
Sei volte almeno fu la bestia estinta,
E si fe' serpe, e tornossi a imbestiare:
E l'avrebbe colei pur troppo vinta,
Se Ricciardo l'aveva da pigliare,
Nè dava all'opra il buon destrier la spinta;
Che in bocca se la prese, e tenne forte,
Finchè Ricciardo non le diè la morte.
Il sottil collo fu reciso appena,
Che il palagio va in fumo, e il bosco tutto;
E in un bel prato, in una spiaggia amena
Si trova di donzelle un buon ridutto
E di guerrieri con fronte serena:
Ed Orlandin dalla fame distrutto
Con Nalduccio e le donne pur compare
Sopra quell'erba, che stan per passare.
[195]
Ma Lirina pietosa in questo mentre
È gita, ed è tornata col mangiare.
Dalle donne incomincia, e vuol che gli entre
Il cibo poco a poco: e così fare
Si dee con quei che ha vuoto affatto il ventre:
Chè in altro modo si farìa crepare.
Dopo le donne ciba i paladini,
Indi lor reca degli ottimi vini.
E perch'ella ama d'un amor gagliardo
Despina bella, con amore eguale
Ama lo sposo suo, ch'è il buon Ricciardo;
Nè in questo amor c'era punto di male;
E chi ne mormorò fu un gran bugiardo,
O fu qualche babbion dolce di sale:
E giura il Garbolino in più d'un foglio,
Che tra Lirina e lui non ci fu imbroglio.
Il veder tolte di bocca alla morte
Le due leggiadre donne e i giovinetti,
In gran parte addolcìo la dura sorte
Di Ricciardo, che vuol dagli alti tetti
Fino al suolo disfare irato e forte
Cobona e i cittadini maladetti.
E lo farà, conforme ascolterete
Nell'altro canto, quando l'udirete.
[196]
Despina in moglie è destinata a Ulasso,
Che poco o nulla ha d'uomo, e assai di fiera;
Onde ne fa Ricciardo un gran fracasso,
E solo abbatte una cittade intera.
Si fa di balli e cene un lieto chiasso;
Ed assai ben si loda un'ampia schiera
Di gran donne, che al nome e alla beltade
Sembrano alcune della nostra etade.
Se si potesser far due volte almeno
Le cose che una sol volta si fanno,
Averemmo del mal tanto di meno,
Che sto per dir, saremmo senz'affanno;
E il viver nostro di pianto ora pieno
E di miserie e di continuo danno,
O sarebbe felice, o il lagrimare
Si conterebbe tra le cose rare.
Allor sarebber santi tutti i frati,
E sarìeno le monache contente,
Ed averebber pace i maritati;
Che lascerìano il chiostro prontamente
I monachi, le monache e gli abati;
E lascerìan le mogli parimente
Quelli che l'hanno, e frati si farebbero,
E gli sfratati allor s'ammoglierebbero,
[197]
E avendo a mente gl'impeti e le furie
Del guardiano indiscreto ed incivile.
Non sentirìen delle mogli l'ingiurie;
E il marito infratato avrebbe a vile
I cilizj, le lane e le penurie
Che porta seco quella vita umìle,
Pensando molto peggio aver patito,
Quando faceva il miser da marito.
Ma queste cose, come ben sapete.
Fatte che son, non si ponno disfare;
O almen ci vuole il reverendo prete
Che canti ad un la requie dall'altare.
Parlo di quei che incappan nella rete
Di prender moglie, e si fanno legare;
Perchè degli altri che frati si fanno,
Dura fino alla morte il bene o il danno.
Così lo Scricca le dita si morde
D'aver tolta sua figlia a Ricciardetto;
Chè pericol non è ch'egli si scorde
Di tanta ingiuria, e non si pigli a petto
Di vendicarla: ond'è ben che si accorde
D'abbandonar la Cafria e il patrio tetto,
E ritirarsi anch'ei nel Monotopa;
Chè teme altro castigo che di scopa.
Però ridendo dice al fiero Ulasso:
Vo' venir teco, e accompagnar mia figlia,
Perchè ho sommo piacer d'andare a spasso:
E poi tu vedi come si scarmiglia
Questa fanciulla, e dassi a Satanasso,
Perchè contro il suo genio ella ti piglia;
Onde io potrò ridurla a tuo potere
Or con minacce ed ora con preghiere.
[198]
Ed in fatti la povera Despina
Piangeva e sospirava in guisa tale,
Che un'anima di pietra adamantina
Si sare' fatta, come in acqua il sale,
Per la pietà di donna sì meschina.
Ma nulla cura lo Scricca il suo male,
E vuol che moglie d'Ulasso ella sia,
Come signor di tanta monarchia;
E le dice: Tu sei senza cervello
A lasciare costui per un spiantato,
Che ha poco più della spada e il cappello,
Ed in tasca non ha forse un ducato.
Il marito che importa che sia bello?
Che bello egli è quando non è storpiato;
Ma se non ha quattrini, è brutto molto,
Sebbene avesse gigli e rose in volto.
Fra pochi mesi la bellezza passa,
E passa anche l'amore; e sono radi
Gli amanti maritati, e non s'ingrassa
D'amplessi e vezzi, se ben tu ci badi.
Ma chi si trova gran contanti in cassa,
E comanda a castella ed a cittadi,
Anzi a provincie e regni, ogni ragazza
Se nol volesse, si direbbe pazza.
Non è però, Despina, ch'io non senta
Pena del tuo dolore, e me ne scoppia
Il core in petto, tanto mi tormenta;
Chè giovinetta donna è come stoppia,
A cui il villano accesa stipa avventa,
Quando di genio e d'animo s'accoppia
Con qualche bel garzone, onde a gran forza
E a lungo andare la fiamma si smorza.
[199]
Ma la ragione in ben nata fanciulla
Ha da far quello che l'età non puote,
Ed il piacer non vuole: dalla culla
Che altre ascoltasti, se non queste note?
Or non le curi, e forse l'hai per nulla?
Mentre ei così ragiona, in su le gote
Di Despina apparisce un tal rossore,
Che la rosa appo lui non ha colore.
E con gli occhi fissati in sul terreno,
Con le mani fra loro complicate,
E col bel mento posato in sul seno,
Disse: Signor, delle cose passate
Ov'è la rimembranza? Ancora io peno
Pensando a quella orrenda crudeltate
Che il re di Nubia, il fiero Serpedonte,
Voleva adoperar su la tua fronte.
Non ti ricordi come il mio Ricciardo
(Che mio sarà per sempre) e ruppe e vinse
Tanta masnada, e fervido e gagliardo
In pochi colpi Serpedonte estinse?
Che pur non era un cavalier codardo;
Anzi sovente il crine anch'ei si cinse
Di verde alloro, e per la forza e l'arte
Dir si potea d'Africa nostra il Marte?
E te dall'ugne della Morte tolse,
E me pur anco. Ma di me non dico;
Di te ragiono, di te, ch'ei disciolse
Dai duri lacci, e il reo ferro nemico,
Che ti dovea dar morte, altrove volse.
Allor tu l'abbracciasti, e come amico,
E come tutelare Angiol di Dio,
Venuto in tempo a tuo soccorso e mio.
[200]
Ma quando tu di ciò non ti rammente,
Almeno avrai memoria di quel giorno
Che ferito sul suolo, egro e languente
Tu te ne stavi, e avevi sol d'attorno
Le mute selve; e ch'ei pietosamente
Ti tolse in braccio, e di tal peso adorno
Andò più miglia, e ti condusse al porto
Di Nubia; e senza lui saresti morto.
Ma perchè questo a mente io ti rivoco,
Se tu fosti crudele e fosti ingrato
Al suo valore in quello stesso loco,
Col torgli me per cui t'avea salvato?
Ma quello che già fu stimisi poco:
Ciò che di fresco il mio Ricciardo amato
Ha per me fatto, non ha ricompensa;
Cotanto l'opra ella è ammiranda e immensa:
Ch'Africa tutta e tutto il mondo insieme
(Nè dico ciò per certo mo' di dire,
Ma perchè è vero) con sue forze estreme
Dal bosco non m'avrìan mai fatto uscire.
Ma il mio Ricciardo che morte non teme,
E a valor sommo unito ha sommo ardire,
Fuor me ne trasse, e a te di più mi rese:
E tu tanto favor paghi d'offese?
Tu sai pur quanti forti cavalieri
Entrâr nel bosco, e mai non sonne usciti;
E d'uscirne giammai verun non speri;
Chè son troppo guardati e custoditi
Tutte le notti e tutti i giorni interi
Da draghi e furie e spiriti infiniti.
Ora in che stima sarà quella spada
Che in uscirne si feo cotanta strada?
[201]
Ah padre mio, se l'unica tua figlia
Brami felice, e solo a questo oggetto
Di darla a Ulasso amore ti consiglia,
Sappi che prima passerassi il petto
Con un coltello, e renderà vermiglia
La cafria terra ed il paterno tetto,
Che soffrire altro sposo avere accanto,
Che il suo Ricciardo. E qui diè loco al pianto.
E crebbe tanto il duol, che di repente
Le tolse i sensi, e restò come morta.
Ma il duro padre, che l'impero ha in mente,
In braccio se l'arreca, e se la porta
Sul cocchio, dove Ulasso impazïente
Il più lungo indugiare non sopporta.
Così fugge lo Scricca, e fugge Ulasso
Con Despina, che par mutata in sasso.
S'io potessi impedir questa partita,
Donne mie, lo farei pur volentieri;
Chè son d'una natura sì indolcita,
Che non posso veder dai can levrieri
Prender la lepre, nè veder ghermita
Starna o colomba dai presti sparvieri:
Ora pensate voi come io mi stia
In veder tal fanciulla portar via.
E sono sì voglioso di sapere
Conforme finir debba questo imbroglio,
Che s'egli stesse in mio pieno potere,
Salterei dell'istoria più d'un foglio:
Ma il timor che ho di farvi dispiacere,
Più modesto mi fa ch'esser non soglio:
Però non s'interrompa a tal riguardo,
E là si torni, ov'io lasciai Ricciardo.
[202]
Se vi sovvien, disfatto il grande incanto,
E divenuto amico di Lirina,
Che quasi sempre se la vuole accanto,
Acciò gli parli della sua Despina,
E gli accresca parlando, o scemi il pianto,
Va co' cugini verso la marina,
Ove si vede ancora alto fumare
La villa, il porto, e quasi dissi il mare.
Quivi giunto, il suo sdegno oltre misura
S'inacerbisce; e giacchè tutto è guasto,
Altier minaccia da lontan le mura
Di Cobona, che a lui verun contrasto
Non potran fare. Oimè, che rea sventura
Ella è della città divenir pasto
Di ferro e fuoco per l'error d'un solo,
E senza colpa sentir tutto il duolo!
Non voglio entrare in quello che fa Dio;
Ch'egli fa bene, ed io sono un stivale:
Ma se potessi fare a modo mio,
Vorrei punire solo chi fa male:
E se il principe fosse un uomo rio,
Un compra brighe, un pezzo d'animale,
Di propria mano lo vorrei impiccare,
Ancorchè amico mi fosse, o compare.
Oh quanto starìa bene a quello Scricca
Un bel capestro! Non vedete come
Il suo mostaccio grida: Impicca, impicca!
Che a sua cagion non solo vinte e dome
Saran sue genti, ma di bella e ricca,
E di sì chiaro e glorïoso nome,
La Cafria diverrà misera cosa,
Conforme è in oggi orrenda e mostruosa.
[203]
Lungo il lido del mar, che sempre stride,
A tutti corre il buon Ricciardo avante;
Anzi sembra che vole, e che disfide
L'Aquilon freddo e l'umido Levante.
La sentinella, che da lunge il vide,
Fa chiudere le porte in uno istante;
E presto presto per tutta Cobona
Si sparge quella nuova poco buona.
La gioventù bizzarra, e che valuta
Il suo valor più che non vale assai,
D'andargli incontro è così risoluta,
Che di fermarla alcun non pensi mai.
Pur quel vecchio, che in terra avea veduta
La gran porta di bronzo, A comprar guai,
Lor grida, andate; ed io ve n'assicuro;
Chè contro lui neppur varracci il muro.
Il vero modo, l'unica maniera
Di campar voi e noi da crudel morte,
È andargli incontro senza elmo e visiera,
Ed aprir lui della città le porte.
Un di coloro con turbata cera
Disse: O ve' che parer d'animo forte!
Per un sol, dunque, vecchio traditore,
Di' cose tali e fai tanto rumore?
S'ei fosse fatto, sto per dir, di getto,
E fosse bronzo, e ancor cosa più dura,
Io ti giuro pel nostro Macometto,
Che a tutti noi ei non porrìa paura.
A dieci, a venti può passare il petto;
Ma infin sarà poi sua la ria ventura.
Ciò detto, va che il diavol se lo porta
Avanti a tutti, ed aprir fa la porta.
[204]
Si chiamava Dragù questo pollastro,
Che fu il primiero ad incontrar Ricciardo.
Ei tagliollo per mezzo come un nastro,
O come un citrïolo, o come un cardo.
A vista di sì orribile disastro
Il portinajo per suo buon riguardo
Serra la porta, ed ogni altro guerriero
Per quel gran colpo sta sopra pensiero.
E sopra i merli dell'eccelse mura
Si fanno forti con pietre e saette;
Ma quivi lo stupor passa in paura,
Che par che ognun di lor sopra a lui gette
Giunchiglie e rose e tenera verdura;
Cotanto l'armi sue eran perfette.
Ma pur succede a questa maraviglia
Altra, che la sorpassa cento miglia.
E questa fu, quand'ei ben stretto in sella
Prese la lancia, e la porta percosse;
E vider 'n un baleno aprirsi quella,
Come se stata sol socchiusa fosse;
E il chiavaccio e la toppa e in un le anella
Non sol forzate, non solo rimosse,
Ma videro ir lontano mille passi:
Onde non sembran uomini, ma sassi.
Entra per la città non altrimenti
Il feroce guerrier, ch'entra il leone
O la tigre affamata infra gli armenti;
E senza un'oncia di discrezïone
N'ammazzò presto presto più di venti.
Gli altri che veggon questa funzïone,
Fuggono in casa e vi si stangan drento,
Ripieni di dolore e di spavento.
[205]
Corre egli furibondo per le strade,
E d'alto incendio la città minaccia;
Che di mano a non so qual deitade
Rubato ha il fuoco in una moscheaccia.
Onde del mal comun mosso a pietade
Il vecchio della villa, alfin s'affaccia
A una finestra sua che stava a tetto,
E chiama singhiozzando Ricciardetto.
E gli dice: Signor, se tu assicuri
Cobona e me dall'ultima ruina,
Ma con solenni e sagrosanti giuri,
Io ti dirò dov'è la tua Despina,
Che col mal nostro in van trovar procuri.
Anzi mentre noi guasti, ella cammina;
O, per dir meglio, a forza è strascinata
Da molta gente, e tutta quanta armata.
Acchetossi Ricciardo a quel bel nome,
Come per pioggia il tempestoso mare;
E gittò il fuoco in terra, e chiese come
Era a lui noto un così grande affare.
Il vecchio accorto le canute chiome
Mosse un tal poco, e poi prese a parlare,
E gli disse: Signor, saper tu dêi
Che ho spesi in questa corte i giorni miei;
E quegli io son che fin da fanciulletto
Della gran villa che sul mar risiede,
Fui dal re cafro alla custodia eletto,
Dove tu con l'illustre e bella erede
Del regno ne venisti, e poi nel letto
Fu dal padre sorpresa. Or di mia fede
Non dubitar, ma dài credenza al resto;
E se colei t'è a cuor, credimi presto.
[206]
Sbatte i piè, crolla il capo, e ad alta voce
Grida Ricciardo: Oda Cobona tutta:
Io perdono alla Cafria; e chi a lei nuoce,
O nuocer vuole, a dura e mortal lutta
Io lo sfido: ma tu parla veloce,
Buon vecchio, e dimmi dove s'è ridutta
La mia Despina. Ed egli: Ella è in potere
Del maggior uom che su la terra impere.
Del sir di Monotopa il primo figlio
L'ha chiesta in moglie, e il padre glie l'ha data;
Ed ha tenuto per savio consiglio
Di qui levarla, ancorchè addolorata,
Ancorchè della vita in gran periglio:
Tanto del tuo valor qui s'è innalzata
La nominanza che lo Scricca stesso
Per lo spavento è voluto irle appresso.
Mostrami con la man, disse Ricciardo,
La via del Monotopa; altro non chero.
Alzolla il vecchio, e la seguì col guardo,
E il Mezzodì gli dimostrò sincero.
A quella volta senza altro riguardo
Sprona Ricciardo il suo nobil destriero.
Ora mentre galoppa, ecco che arriva
Lirina con la bella comitiva.
Nel palazzo reale accolti sono
Dai Cobonesi, e lor fanno gran festa,
E tutti quanti lor s'offrono in dono;
Nè più si pensa all'orrida tempesta
Dianzi sofferta. Fan salir sul trono
Le tre gran donne con corone in testa.
Ogni gentil fanciulla a più potere
Corre a palazzo, che le vuol vedere.
[207]
E già mille e dugento avanti sera
Erano giunte nella regia sala;
Onde Lirina a dir fu la primiera:
Giacchè son tante, e sono in sì gran gala,
Di sonatori alcuna scelta schiera
Si chiami. E in un baleno si propala
Per tutto, come nel real palazzo
S'ha da fare una festa di sollazzo.
Come i nostri non sono i balli loro,
Che non han rigodoni o minuette;
Ma pur son balli c'hanno del decoro,
Chè van su l'aria delle spagnolette.
De' sonatori fu diviso il coro:
Parte crotali usava e naccherette,
Parte zampogne, zufoli e vïole;
E furon principiate le carole.
Molti i giovani fûro e le donzelle
Che ballaron per certo a maraviglia;
Ma tra le più gentili e le più belle
Una a sè trasse di ciascun le ciglia;
Chè tanto apparve superior tra quelle,
Quanto tra i fior del prato la vermiglia
Rosa, oppure tra l'umili mirici
Il platano dai rami sì felici.
Era del cafro re costei cugina,
A nobil prence già promessa in moglie,
D'una beltà sì rara e peregrina,
Che libertade e pace a ciascun toglie.
Ne' suoi begli occhi Amor tien la fucina,
E tante grazie nel viso raccoglie,
Che pensosa o ridente, altera o pia,
Chi la riguarda sè medesmo obblìa.
[208]
Alta è poi di statura e signorile,
Ed ha nel favellar grazia sì grande,
Che men soave al cominciar d'aprile
I suoi bei versi Filomena spande:
In somma in ogni cosa era gentile;
Si dicea Marïanna; e in quelle bande
Vecchio non v'era che si ricordasse
D'altra che la vincesse od uguagliasse.
Quando costei comparve, ed alla danza
Diede principio, gran rumore in prima
Udissi, perchè ognuno urta e s'avanza
Per lei vedere, e sta de' piedi in cima.
Poi tal silenzio fu per quella stanza,
Che vuota di persone esser si stima.
Solo talora in certi atteggiamenti
Mostravan d'aver voce e sentimenti.
Io nel vederla tra me stesso dissi:
Il ciel, bella fanciulla, ti consoli;
E tutti gli astri, o sieno erranti o fissi,
Ti guardino benigni; e lunge voli
Da te ogni affanno, e giuso s'innabissi.
Incanutisci con i tuoi figliuoli
E col dolce tuo sposo, e fra voi due
Stenda la pace ognor le braccia suie.
Non molto dopo a lei nel cerchio venne
Non men bella di lei, nè gentil meno,
Una cognata sua, di bianche penne
La testa ornata, e di bei fiori il seno.
In Cafria la portaro etrusche antenne,
Come nata nel bel Tosco terreno:
Faustina era il suo nome; e quando sciolse
Il piede al ballo, ognuno a lei si volse.
[209]
Io non so dir quel che paresse allora;
Ma certo non sembrò cosa mortale.
Così di maggio l'odorosa Flora
Su' verdi prati or muove i piedi, or l'ale;
O delle sfere all'armonìa sonora
Così del biondo Apollo ed immortale
Danzan le figlie; o avvolte in aureo velo
Così forse le Dee ballano in cielo.
Delle bellezze sue meglio è non dire,
Che dirne poco, e poco ancora è il molto;
Chè non posson le rime colorire
Le tante grazie che le ornano il volto.
O vuol piagare, o vuole incenerire,
Questo poter ne' suoi occhi è raccolto;
E tanti ne conosco, anzi infiniti,
Che piangono per lei arsi o feriti.
Finito ch'ebbe di danzar costei,
Ecco che s'apre il cerchio alla man destra,
Ed entra un'altra donna; e tutti a lei
Si volgon, che del ballo era maestra.
Al capo aveva avvolti i suoi capei,
E frammischiate con l'aurea ginestra
Eran perle e zaffiri, onde contesta
Bella corona ornavale la testa.
In mezzo alla corona un velo bianco
Era fermato, e vi facea la punta,
Che poi largo scendeale sul bel fianco.
La sottil tela d'oro era trapunta;
E le pendean dal braccio destro e manco
Candidi lini, a cui era congiunta
Della Belgica Aragne il più sottile,
Il più nobil lavoro, il più gentile.
[210]
Sua veste ell'era del color del prato,
Allorchè il verno rigido s'accosta;
Lunga sol dietro, e ugual per ogni lato,
Uso trovato a crescer pregio apposta:
Stretta in cintura, e il petto rilevato
Coprìale il busto. Così ben disposta
Diede principio a carolar costei,
E ricolmò d'invidia uomini e Dei.
Costei di Marïanna era sorella,
Donna di sempre chiaro e immortal nome;
E cotante virtù chiudeansi in ella,
Che le sì chiare un tempo Ateni e Rome
Ebber forse di lei donna più bella,
Non già più saggia; ed era non so come
Quivi venuta al ballo quella sera;
Che per uso lo sfugge aspra e severa.
Nè tacerò le lodi ampie e sincere
Che date fûro alla vaga Isabella,
Nata del Tebro in su le sponde altere.
Ell'era accorta estremamente e bella:
Nere le chiome e le pupille nere
Aveva; ed era così destra e snella,
E sì ben fatta della sua persona,
Che fe' invaghir di sè tutta Cobona.
Io credo che di Vener la famiglia
Tutta le stesse affaccendata intorno;
Chè ogni suo moto, ogni batter di ciglia
Era di grazie e gentilezze adorno;
Onde amore destava e maraviglia
In quanti aveva spettatori attorno:
Quindi s'udiva il nome d'Isabella
Risonar lieto in questa parte e in quella.
[211]
E di lei nata presso all'Appennino,
Onde Bologna in maggior pregio sale,
Nulla dirò? anzi io dironne infino
Che terrò l'alma in questo carcer frale:
Perchè il suo ingegno e spirito divino,
E il suo cor che vie più d'ogni auro vale
E d'ogni argento, m'hanno preso in modo,
Che parlar non ne so, s'io non la lodo.
Costei Ipolitina ella è nomata,
Che nel ballare eguale era a ciascuna,
E d'un viso sì vago era dotata,
Ch'altro simìl non mai vidi in veruna.
Fece una danza nuova; e fu sì grata,
Che il popol tutto intorno a lei s'aduna;
E non aspetta dal ballar che reste,
Ma batte palma a palma, e le fa feste.
Le lodi che a lor diero le regine,
Nalduccio ed Orlandino, immense fûro.
Quindi venuta la gran festa a fine,
Il che parve a più d'uno acerbo e duro,
Massime per le giovani divine,
Gloria del tempo nostro, e del futuro
Invidia eterna, incominciò la cena,
D'ogni grazia di Dio colma e ripiena.
Le starne, le pernici, i francolini,
I tordi che parean fatti di cera,
I pollastri e i piccioni tenerini
V'erano a monti; siccome la sera
Di carnevale ho visto dai Corsini.
V'eran pasticci poi d'ogni maniera:
Di vini non vi parlo; v'eran tutti,
Dolci, abboccati, tondarelli, asciutti.
[212]
Chi il crederebbe? in lido così strano
Giunta era pur la ghiottornìa franzese;
Perchè, come cancrena in corpo umano,
Il vizio corre per ogni paese.
Vizio crudele e insiememente insano,
Che il viver scema, ed accresce le spese;
E tanto offusca ed aggrava la mente,
Che per lo più fa gli uomini da niente.
Perchè non solo la sfrenata e pazza
Gioventude oggidì crapula ognora,
Ma quelli ancor cui la dorata mazza
Precede, e il mondo come Numi onora.
E sol di gran signore ha nome in piazza
Chi più ghiotti bocconi si divora;
E quei che si contiene ed è frugale,
È creduto un spilorcio, un animale.
Ma tra costoro il cardinal Corsino
(Adesso Papa per grazia di Dio)
Io non ripongo; chè di grano e vino,
Di ville, di poderi, e che so io,
N'ha più, che non ha penne un uccellino,
L'illustre casa sua d'onde egli uscìo.
E se facea talor qualche allegrìa,
Era sua roba, e non di sacrestìa.
E questa è la ragion ch'i suoi nipoti
Fanno sì bella e sì rara figura:
Che non comincian mica ad esser noti
Dal dì che il zio giunse alla somma altura;
Ma pieni tutti delle vere doti
Che possa dare l'arte e la natura,
Ricevono dal zio gran lustro, è vero,
Ma non fanno per Dio torto a San Piero.
[213]
Io parlo solamente di coloro
Che senza un poderin, senza contanti,
Non, come si suol dir, vivean del loro,
Ma nudi, crudi, cenciosi, birbanti
Solo a forza di bolle si fêr d'oro:
Ed arricchiti, alteri ed arroganti,
Colmi d'iniquità, colmi di vizi,
Non pensano a far altro che stravizi.
O San Piero, San Pier! la tua gratella,
Ove insieme con Giacomo e Giovanni
Abbrustolivi muggine o sardella,
Ove n'è gita? Da' celesti scanni,
Sopra cui stai, deh gira un'occhiatella
A' grassi eredi de' tuoi tanti affanni;
E vedi un po' lor cucine e dispense,
Le lor cantine e spazïose mense.
Quel che tu non avesti oro ed argento
(Come dicesti allo storpio del tempio),
Essi hanno in copia: e a cento doppi e cento
Iddio l'accresca lor; ma buon esempio
Dieno e conforto a chi si muor di stento;
Nè le ricchezze lor dien forza all'empio,
Ma di fanciulle e di poveri ingegni
Sien riparo ad ognora, e sien sostegni.
In un sol pranzo, in una sola cena
Si getta quel che dato a una famiglia,
Di trista la farìa lieta e serena.
Però a costoro raccorcia la briglia,
San Pietro mio, e sì gran lusso affrena;
E a tal, che per mangiar troppo sbadiglia,
Leva pensioni e leva benefizi,
E dàlli a quelli c'hanno meno vizj.
[214]
E ben tu vedi ch'astio non mi move,
Nè voglia di dir mal de' fatti loro:
Parlo per zelo, e perchè taccia altrove
Anglia ed Olanda, e tutto il concistoro
Di lor, che l'eresia da noi rimove;
Perchè ben sai che questo argento ed oro,
Che in tanto sterco va giù per il cesso,
Egli è di Cristo alfine il sangue stesso:
È patrimonio ancora e capitale
De' poverelli. O felici, o beati
Quelli che in testa hanno un poco di sale,
E son di santa carità ammantati!
E acciò i tesori lor non vadan male,
Li danno a' ciechi, a' languidi e storpiati,
Onde ne' giorni poscia estremi e duri,
Nel gran tragitto si trovin sicuri.
Ma dove domin mai m'hai tu condotto,
Musa leggiera come piuma o foglia,
Che or quinci, or quindi, or di sopra, or di sotto
Tu batti l'ali, come più n'hai voglia?
Materia ciò non è da farne motto;
E chi meno ne parla, men s'imbroglia:
Però ritorna d'onde sei partita,
E questa istoria facciasi finita.
Nel più bel della cena, ecco che giugne
Con l'arpa in mano una bella fanciulla,
Che l'auree corde toccando con l'ugne
Diletta sì, che ogni altro gusto annulla:
Quindi al bel suono il dolce canto aggiugne,
E cantando diceva: O dalla culla
Felici avventurose giovinette,
A gran fortune tra' mortali elette!
[215]
E dopo aver di lor cantato molto,
Tutta si volse, illustre Flavia, a voi;
Chè non è luogo sì remoto e incolto
Tra i freddi Sciti, o i luminosi Eoi,
Che di voi non si parli, in cui raccolto
È quanto ebber valor ninfe ed eroi;
E per senno e per grazia e per bontade
Vincete ogni altra di ciascuna etade.
E così dopo voi, passò col canto
A lodar altre donne di valore;
Uso, come vedete, onesto e santo,
Che Grecia un tempo e Roma ebbe in onore;
Chè lodata virtù cresce altrettanto,
E bella invidia il giovinetto core
Stimola e punge, e ad imitare accende
L'opere belle ch'ei lodare intende.
Ma tempo egli è di volgere le spalle
Al cafro lido, e di tornare in Spagna,
E seguir Carlo sino a Roncisvalle;
Chè il buon vecchio a ragion di me si lagna
Ch'io stia dove si canti, ove si balle,
E in ozio dolce il sudor si sparagna;
Nè pensi a lui, che del valor suo degno
È presso omai di dar l'ultimo segno.
Però chi in Spagna ha di venir desìo,
A me s'accosti, che sciolgo le vele
Per quella volta: nè turbato o rio
Averò il mare, nè il vento crudele;
Chè Apollo, il santo Apollo è il nocchier mio,
E a mia custodia è il coro almo e fedele
Delle Castalie Dee, scorta sicura:
Onde vo lieto, e privo di paura.
[216]
Non pensate però che tempo lungo
Io voglia stare di Cobona fuora:
Che se da voi per Carlo or mi disgiungo,
Donne gentili, rivedremci or ora;
Chè con troppo dolore io mi dilungo
Da Despina, che piange e s'addolora,
Separata dal suo caro consorte,
E sta in periglio di vergogna e morte.
[217]
Gan di Maganza invita Carlo e i suoi
Al loco scellerato della mina.
Parton per Francia i giovinetti eroi.
Su l'alato destrier vola Lirina;
Con Ricciardo in uccel si cangia poi
Per liberar la misera Despina.
Gano rio, per coprir l'empia congiura,
Appetta a Carlo mille ciance, e giura.
Già liberata dalle man de' Mori
La Spagna, Carlo faceva ritorno
In Francia, carco di lodi e d'onori,
De' quali il viver suo fu sempre adorno.
Ma gli empi Maganzesi e traditori,
Intenti sempre a sua rovina e scorno,
S'eran più volte radunati insieme
Per usar contro lui le forze estreme.
Aveva Ganellon, lor capo e guida,
Da Parigi una villa assai lontana.
Quivi fe' radunar sua gente infida,
E disse lor: Fin qui misera e vana
Fu nostra astuzia; ma non fia che rida
Sempre Carlo di noi: facile e piana
Ho trovato una via di rovinarlo;
Però badate bene a quel ch'io parlo.
[218]
Della milizia sua la miglior parte
Egli ha perduta in Spagna, e molto pochi
Ritornano con lui, e van senz'arte
Di guerreggiar, siccome in fidi lochi.
È ver che ha seco l'uno e l'altro Marte,
Rinaldo e Orlando, a' quali sembran giochi
Le intere armate; e bastan sol lor dui,
Ed anche un sol di lor per vincer nui:
Ma ciò non dee distorci dall'impresa;
Che non s'ha da pugnare a viso a viso,
Ma con inganno e senza far contesa.
Che andiamo ai Pirenei io son d'avviso,
E caliam 'n una valle assai distesa
Detta del Ronco; e lì sarà conquiso
Carlo con tutti; e lo tengo per certo,
Se il tradimento non sarà scoperto.
Ne' boschi che alla valle son d'attorno,
Ci asconderemo armati tutti quanti,
Nè mai n'uscirem fuor quand'egli è giorno:
La notte poi e cavalieri e fanti
Con zappe e vanghe scaveranno intorno
E nel mezzo la valle; ed in istanti
Nelle già fatte buche farò porre
Quel che dirvi per ora non occorre.
Ma sappiate ch'ella è cosa sì fatta,
Che vince il tuono e il fulmine d'assai;
Nè val con essa uom forte che combatta;
Che vince tutti, e non è vinta mai.
Ma il tempo passa, e in van l'opra si tratta,
Se a Roncisvalle non voliamo omai.
Qui tacque Gano; ed ogni Maganzese
Per il vïaggio si mise in arnese.
[219]
I traditor, tra fanti e cavalieri,
Fur ventimila; e tutti alla sfilata
Giunser ne' boschi taciturni e neri;
E allo sparir della luce dorata
Usciro a far quanto era lor mestieri
Nella gran valle; e fu da lor scavata
Or quinci or quindi: e in numero infiniti
Stavan tinelli e barili allestiti,
Quali eran pieni d'una nera polvere,
Che per favilla subito divampa;
Ed ha tal possa, che spezzare e solvere
Può scogli e monti; e così fiera lampa
E fa romor, che par voglia risolvere
Il mondo sottosopra; e niuno scampa
Dal suo furore: or questa essi riposero
Per lo scavato, e poi con terra ascosero.
Fecer indi sotterra tante vie,
Quante eran de' barili le cellette;
Acciò venendo il miserabil die,
Gisser le genti a tal mestiero elette
A darvi il fuoco: infami genti e rie!
Ciò fatto, quelle squadre maledette
Ritornaro ne' boschi, e il dì seguente
Fe' i capi a sè venir segretamente.
E a piè di un faggio postosi a sedere,
Disse loro: Anderebbe ogni opra in vano,
Se lasciassimo noi di provvedere
A quel che sol può darci Carlo in mano
Con tutte quante le sue brave schiere.
Quest'è, che contro a lui con volto umano
Io vada, e lo conduca in questo prato,
Che tutto vo' che sia di tende ornato.
[220]
Dov'è la maggior mina, ivi porrassi
Il padiglion per Carlo e suoi cugini.
Mensa real per loro assetterassi,
Nè mancheran vivande e scelti vini.
Restate dunque; e séguiti i miei passi
Pinabello dai rossi e corti crini.
Ciò detto, s'alza, e monta sul destriero,
E gli fa Pinabello da scudiero.
Mentre egli a trovar Carlo s'incammina,
La sua gente s'industria di far bella
La trista valle, dove il ciel destina
La gran tragedia scellerata e fella,
Di cui si parlerà sera e mattina
Per cittadi, per ville e per castella;
E forse non sarà creduta ancora
Un'opra così brutta e traditora.
Carlo pensando al vicino ritorno,
Co' paladini suoi facea pur tante
Dolci parole, e conteggiava il giorno
Che in Parigi averìen poste le piante.
Vedean di riso e d'allegrezza adorno
Il popol tutto a lor venire avante,
E con voci di giubilo e di festa
Di fior coprirli da' piedi alla testa.
Quanti soavi e teneri pensieri
Givan pel capo a Rinaldo e ad Orlando,
Siccome a tutti gli altri cavalieri!
Natural cosa, e che avvien sempre; quando
Ecco venire a lor Gan di Pontieri,
Disarmato, senz'asta e senza brando,
Vestito d'un color candido e schietto,
Quasi di nunzio a trattar pace eletto.
[221]
Nol conobbero a prima; e soprastiede
Carlo in vederlo; ma giunto più appresso
Lo riconobbe, e di sua falsa fede
Sospettò tosto; chè sempre è lo stesso
Un traditore, e pazzo è chi gli crede.
Però rivolto sorridendo ad esso:
Che ci arrechi, gli disse, e donde vieni?
Chi a noi ti manda? Affanni apporti, o beni?
Gano disceso giù dal suo cavallo
Gli baciò il piede ch'era nella staffa,
Poi disse: Se di noi chi mai fa fallo,
La rimembranza unquanco non si arraffa
Dai nostri cuor, conforme Dio pur fàllo;
Chi così ben tanta innocenza aggraffa,
Che dir si debba sì netto e sì puro,
Che d'ogni macchia possa star sicuro?
Certo, signor, che molto pochi avresti
Degni dell'amor tuo, della tua stima.
E me felice appien, se tu potesti
Vedermi il cuor c'ho della lingua in cima;
Che certo so ben io, non tarderesti
A ripormi in tua grazia come prima:
Ma se vedermi il cuor, signor, non puoi,
Benigno ascolta almen gli accenti suoi.
D'averti offeso nell'età passata
N'è si tapino, che vorrìa morire.
Purchè restasse l'opra scancellata,
O ti piacesse, o n'avessi desire:
Che fare al suo signore opera grata
Mette il conto più morti anco soffrire.
Ma s'egli è tuo voler ch'io resti in vita,
Fammi, signor, la grazia ancor compita;
[222]
Voglio dir, ch'io per te tutta la spenda,
E tu lo sappia e ne mostri piacere.
L'animo grande spesse volte emenda
Il fallo sì, che se ne può tenere.
Ma non si parli, e all'opra sol si attenda,
Opera figlia del mio buon volere:
E giacchè per l'età non so che farmi,
Ti serva almen fuor del mestier dell'armi.
La dura guerra che avesti co' Mori,
Le vigilie, gli affanni e i molti stenti
Abbastanza son chiari e dentro e fuori
Africa e Spagna; e le Francesche genti
Ebber per tua cagion mille timori.
Or io, raccolti tutti i miei parenti,
Ti son venuto incontro, e in un bel prato
Un real padiglione t'ho formato.
E da tende e trabacche senza fine
Vedrai l'erba coperta tutta quanta.
Ivi starai più notti e più mattine
Te ristorando, e la tua rotta e infranta
Gente dalle fatiche lor meschine.
Rinaldo al suon della voce furfanta
Grida: Signor, non credere a costui,
Che te vuol morto, e teco tutti nui.
Ed Orlando con fosca guardatura
Ripiglia: Chi ti fa tanto cortese?
Come hai mutato sì presto natura,
E fai sì larghe e sì stupende spese?
Ah che quest'acqua, Carlo, non è pura:
Insidie certo il traditor ci ha tese.
In quanto a me, vorrei per gratitudine
Sbacchiarli il capo sopra d'un'incudine.
[223]
Carlo, che sempre fu di buona pasta,
E a creder mal di rado s'arrecava,
Disse ad Orlando ed a Rinaldo: Basta.
Perchè da quando in qua si è fatta brava
La gente di Maganza, onde loro asta
Muova spavento nel signor di Brava?
Indi rivolto a Gano di Pontieri,
Disse: Presto verremo al tuo quartieri.
Ma non vo' già che te ponga in rovina
Per mia cagione. E diede a questo e quello
Ordini espressi infin per la cucina.
Or mentre nel cor suo crudele e fello
Gano contempla la strage vicina,
Io vo' tornar più ratto d'un uccello
A ricercar Despina sventurata,
Che niun sa dove Ulasso l'ha cacciata.
Nè perchè forse assai più frettoloso
Di quel che dissi, a lei rivolga il canto,
Sarò per avventura altrui noioso.
A dirla qui tra noi, m'incresce tanto
Del mio buon Carlo, e ne sto sì doglioso,
Che il verseggiar mi vien rotto dal pianto.
Onde per non morir, donne, di pena,
Per qualche poco vo' mutare scena.
Finito il ballo, ed andati a dormire
I giovinetti con le lor consorti,
Entrambi prese di Francia il desire;
E la mattina pe' vicini porti
Cercaron navi per presto partire.
Ebbero i Cobonesi a restar morti
Al duro annunzio della lor partenza,
Ed a restar lor fecer vïolenza.
[224]
Ma i vecchi padri loro e il re cadente
Non comportavan che stesser più fuora.
Lirina strinse al sen teneramente
Le belle donne, e d'affanno s'accora:
Ed esse penan pur similemente,
E fan di pianto tutte e tre una gora,
E voglion dire; ma tanto singhiozzano,
Che insiem col pianto le parole ingozzano.
Lirina per fermarli ancora un poco
Motivò, come cosa ingiusta ell'era
Lasciar lei così sola entro a quel loco:
Tanto più che Ricciardo l'altra sera
Tutto avvampando di sdegnoso foco
Andò nel Monotopa di carriera;
Onde restar da tutti abbandonata
Gli era al core un coltello, una stoccata.
Ma disse Rinalduccio: Se volete
Venir con esso noi, venite pure,
Che gratissima a tutti ci sarete;
Ma non vogliate che per voi s'oscure
Il nostro nome, se gentil voi siete.
Assai di strane e barbare venture
Abbiam sofferto in benefizio altrui;
E Francia ancor non sa nulla di nui,
Quando sotto dell'elmo i crin canuti
Coprono i nostri padri e il nostro sire,
E mille volte il dì si son battuti.
Ora giusto è che pria del lor morire
Li riveggiamo; e forti e nerboruti
Negli ultimi anni li possiam servire:
Ed è mal fatto porre in complimenti
La pietà verso Dio e i suoi parenti.
[225]
E così detto, si posero in mare,
E in un baleno disparîr dal lito.
Partiti loro, diedesi a pensare
Lirina, e prese subito partito
D'andar nel Monotopa, e di lasciare
Cobona sotto un abito mentito:
E vuole ancor, giacchè lo può volere,
Cangiarsi, come fece, in un scudiere.
Non fa che il pensier suo punto trapeli
Agli occhi delle genti di Cobona:
E quando spande i negri orridi veli
La notte, e la figliuola di Latona
Fa divenir d'argento e terra e cieli,
Sopra un destriero alato s'abbandona,
Che a Ricciardo sì presto la conduce,
Che ancor del dì non comparìa la luce.
Nè vi stupite se per aria vola
La bella giovinetta: ancor possiede
L'arte che apprese nell'orrenda scuola
D'Origlia, e fu la sua diletta erede.
E sebben ora abbandonata e sola
È la gran selva, appo di lei risiede
Quella virtù per cui ha tal possanza,
Che di gran lunga il pensier nostro avanza.
Appiè degli alti monti della Luna
È condotta Lirina dal destriero.
Scende ella tosto tra la chiara e bruna
Aria dell'astro del giorno foriero:
Guarda se vede lì persona alcuna,
E parle di vedere un cavaliero.
S'accosta verso lui, e lo ravvisa
Per Ricciardo al cavallo, alla divisa.
[226]
In un attimo allora ella ripiglia
L'usato volto, e per nome lo chiama:
E quella voce tosto lo scompiglia,
E il fa temer di alcuna frode o trama:
Pur là si volge, e fissa ben le ciglia
(Già fatto giorno) nella bella dama,
E per Lirina la ravvisa, e grida:
O dolce, o grata, o cara amica e fida,
O come a tempo mai tu se' qui giunta
A vedermi morire or or d'affanno!
Chè sì Despina ella è da me disgiunta,
Che più speranza i pensier miei non hanno
Di rivederla. In su quell'erta punta
Della montagna e mostri e furie stanno
In guardia d'una rocca alta alle stelle,
E forse ancora va più in su di quelle.
Quivi racchiusa è la fedel mia sposa,
E vi starà fin tanto o che la morte
Trarralla a fine del suo mal pietosa,
O ch'ella ceda per mia dura sorte
Alle voglie d'Ulasso, che non posa
Nell'espugnar la bella anima forte:
E seco stavvi un vecchio negromante,
Che giorno e notte a sè la vuol davante.
Di costui non avrei molto pensiero;
Chè a vincer questa sorte di persone
Basta, e tu il sai, il mio bravo destriero:
Ma la mia pena ell'è del torrïone
Fatto di grosso muro, e muro vero;
Onde in van contro lui tutta si oppone
Ogni virtude ed ogni maestrìa
Di qualunque ammirabile magìa.
[227]
Nè finestre nè porte in lui rimiro;
Onde come salirvi io non rinvengo.
Però son già tre giorni ch'io sospiro
A piè di questa torre; e s'io sostengo
Me stesso in vita, e l'anima non spiro,
È che per anco viva in me mantengo
La speranza di girne un dì là sopra;
Ma non so come dar principio all'opra.
Già il negromante sa ch'io giro intorno
A questa rocca, ed a farmi paura
Tutto l'Inferno m'ha messo d'attorno.
Ma questo mio destrier, quest'armatura
Colmo l'han sempre di vergogna e scorno;
Nè pioggia o gelo, od altra cosa dura,
Nè fulmini o voragini di foco
M'hanno rimosso mai da questo loco.
Ma ciò che valmi? Or via, disse Lirina,
Non diamoci per vinti così presto:
Cerchiamo alcuna capanna vicina,
E racconsola il tuo spirito mesto;
Perchè da oggi fino a domattina
Di ritrovar tal cosa io mi protesto
Da farti, se non altro, rivedere
La tua Despina, il tuo solo piacere.
Come d'estate alla subita piova,
Il fiore che tenea la testa bassa,
S'alza ad un tratto, e suo vigor rinnova;
Così Ricciardo (tanto in lui trapassa
La gran letizia di sì dolce nuova)
Ripiglia lena, e la montagna lassa,
E vanne con Lirina ad un tuguro,
Albergo di pastor fido e sicuro.
[228]
Quivi ancor Malagigi si ridusse,
Che fa quanto può mai pel suo cugino;
Ma non fa nulla con tutte le busse
Che dà a' demonj ch'egli ha in suo domìno.
Quel giorno trasformato si condusse
Su la rocca, e cangiossi in uccellino:
Il vecchio lo conobbe, e mancò poco
Non lo pelasse e l'arrostisse al foco.
E gli scappò di mano per ventura,
Col perdervi la coda ed altre penne;
Che poi tornando nella sua natura,
Per molto tempo il segno ne ritenne;
Perchè fu specie d'una castratura.
Detto egli dunque quanto il dì gli avvenne,
Disse Lirina: Orsù, se piace a Dio,
Doman vi salirem Ricciardo ed io.
Badate ben, riprese Malagigi,
Che quel vecchiaccio è un tristo in cremesino.
Gli pelerem la nuca ed i barbigi,
E gli faremo fare un mal cammino,
Disse Lirina, ch'io so far prodigi.
Ciò detto, assisi al focolar vicino
Spengon la fame lor con qualche frutto,
E van rodendo un nero pane asciutto.
Poscia su l'alga e su la trista paglia
Si danno al sonno: e sul vicino prato
Stassi il destrier, che ogni cosa sbaraglia,
Nè gli entra che rugiada nel palato,
Se in questo loco il Garbolin non sbaglia;
Perch'io lo tengo per un bel trovato,
E non m'arreco a creder facilmente
Che si cibi un cavallo di nïente.
[229]
Due ore avanti giorno per lo meno
Si risente Ricciardo e s'alza in piedi,
E si scuote d'attorno l'alga e il fieno.
Lo stesso fa Lirina, e dagli arredi
Che seco porta, in manco d'un baleno
Tira fuora un bellissimo treppiedi,
E vi pon sopra un tegamino d'oro
Scolpito d'un mirabile lavoro.
Poi si leva di tasca un'ampollina,
E versa in quello due gocciole sole
D'una cert'acqua che parea turchina,
E fa bollirle infin che nasca il Sole.
Frattanto note arabiche sciorina,
Che non s'apprendon nelle nostre scuole;
E fa col piede scalzo e con le mani
Gesti da fare spiritare i cani.
Ma quando vede il Sol che già compare,
Leva dal foco il tegamino, e in giro
Corre d'attorno a Ricciardo, che pare
Per lo stupore omai fatto deliro:
E dopo un lungo e veloce girare
Lo spruzza con quell'acqua, e, o caso miro!
Ei diventa usignuolo, ella smeriglio,
Che tosto nel groppon gli dà di piglio.
E in larghe rote per aria dibatte
Le preste penne, e sopra l'alta torre
Si posa; e l'usignuol grida e si sbatte,
E par che dica: Chi mi viene a tôrre
Da questi artigli, e chi per me combatte?
Tosto Despina e tosto il vecchio accorre,
E tolgono dall'ugne del falchetto
Il creduto da lor tristo augelletto.
[230]
Despina l'accarezza, ed ei risponde
Come sa, come puote; ed or le vola
Sul bianco collo, or su le trecce bionde:
E quanta voce ha dentro della gola,
Tutta dà fuori in armonìe gioconde.
Il vecchio, che stregone era di scuola,
Comincia a sospettar che quell'uccello
Non sia Ricciardo, e si becca il cervello.
E alla donzella lo toglie di mano,
E di stiacciargli il capo ancor fa prova:
Ma in questo mentre piomba di lontano
Il falco sopra lui, che gli ritrova
Gli occhi, ed in testa fagli un doppio vano,
Sì che cieco ad un tratto egli si trova.
Grida lo sventurato, e gli domanda
La vita in dono, e ben si raccomanda.
In questo mentre ritorna Lirina
Nell'esser suo, e fa che torni ancora
Il buon Ricciardo, che alla sua Despina
Vanne, e par che di gaudio egli si mora.
Ma il nostro Carlo in tanto s'avvicina
Alla terribil valle traditora;
Ond'io voglio lasciare nella torre
Questi, e veder ciò che al buon Carlo occorre.
La divina pietà, che non rimane
Da alcuna cosa circondata e stretta,
E tanto stende le braccia lontane,
Che fuor del nostro mondo ancor le getta;
Per salvar Carlo, e render nulle e vane
Le forze del demonio, e pura e netta
Far l'alma sua, e d'Orlando e Rinaldo,
E liberarli dall'eterno caldo,
[231]
Dispose che passasser da Bajona,
Un dì che v'era appunto il giubbileo,
In cui il Papa a qualunque persona
(Se non era Scismatico od Ebreo)
Che confessato si fosse alla buona,
E pianto ogni suo fallo iniquo e reo,
E fatta qualche po' di penitenza,
Donava una pienissima indulgenza.
Carlo per dar esempio a' suoi vassalli
(Che ciò che fa il maggior, fanno i minori)
Portossi in chiesa, e confessò i suoi falli,
E dagli occhi mandò gran pianto fuori.
Rinaldo, ancorchè avesse de' gran calli
Su la coscienza pe' suoi tanti amori,
Pur confessossi anch'egli, e da cinque ore
Stettesi umile a' piè del confessore.
Orlando poi soletto umile e pio
Fece del ben per sè; ma fuor di chiesa
Si mise a predicare e lodar Dio:
Ed era la sua faccia tanto accesa
Di santo zelo e celestial desìo,
Che ancor con l'armatura così pesa
Sollevossi da terra un braccio intero;
Tanto era fisso in Dio col suo pensiero.
Da che gran tenerezza e maraviglia
Nacque in tutti i soldati; e ognuno a gara
Chi questo frate e chi quel prete piglia,
E mostra nella faccia afflitta e amara
Il duol che di sue colpe il cor gl'impiglia.
L'aria frattanto oltre l'usato chiara
Risplende; e d'una insolita letizia
Si colma Carlo e ognun di sua milizia.
[232]
Stetter la notte pur nella cittade
Modesti più che gli uomini novizj
In procession non vanno per le strade.
Rinaldo lesse infino gli Esercizj
Di Sant'Ignazio. O divina bontade,
Tu sola estirpar puoi li nostri vizj,
E farci santi di cattivi e tristi,
Purchè del fatto male un si rattristi.
Ganellone ancor ei, per non parere
D'aver l'alma di sughero o di fieno,
Diceva borbottando il Miserere,
E si teneva il suo capaccio in seno.
E trattosi da parte, in sul messere
Frustandosi, pregava il Nazzareno
A perdonargli l'opre sue nefande;
Di che Carlo ne aveva un piacer grande.
Ma Rinaldo, ancorchè tanto contrito.
Gli disse: Gano, lascia quella frusta;
Chè non hai viso ancor di convertito,
E falsa penitenza Iddio disgusta.
Riprese Orlando: Cugin mio gradito,
Lascialo fare, e menar ben la susta.
O burla, e si fa male daddovero;
O non burla, e dà mano a un buon mestiero.
In quanto a me, son io d'una natura
Che a pensar mal, quando vedo far bene,
Non mi so indurre, e parmi cosa dura.
Cugin, tu hai un sangue dolce nelle vene
(Riprese il buon Rinaldo). Io ho più paura
Di costui quando un Cristo in man si tiene,
E bacia terra e biascia Avemmarie,
Che se il trovassi armato per le vie.
[233]
Io mi son confessato adesso adesso,
Nè dico ciò per mormorar di lui;
Ma chi non sa ch'è gente da processo
La Maganzese, e che un tristo è costui?
E noi gli andremo sconsigliati appresso,
E ci porremo negli agguati sui?
Cugino, andiam da Carlo, se ti aggrada,
E lo preghiamo acciò che muti strada.
Riprese Orlando: E che si può temere
Da Gano? Forse insidie e tradimenti?
Mi rido in quanto a me del suo potere;
E faccia pur ciò ch'ei far puote, e tenti
Di mandar noi con Carlo all'aversiere,
E strugger tutte le Francesche genti;
Che, come vuol, non gli anderà già fatto,
E rimarrà da noi vinto e disfatto.
Or mentre in guisa tale si ragiona
Da' due guerrieri, il traditor s'infinge
Di non udirli, e frusta sua persona
Sì, che di sangue il duro nerbo tinge.
Carlo in vedere un'opera sì buona,
Abbraccia Gano, e al seno se lo stringe;
Nè vuol che più si batta, e gli comanda
Che ponga il nerbo e ogni rigor da banda.
Ma Rinaldo ripiglia: Eccelso sire,
Io forse ti parrò maligno e tristo
A prima faccia, e dannerai 'l mio dire:
Ma del tuo danno troppo mi rattristo;
Perchè costui ti vuole far morire.
Meglio in man gli starebbe di quel Cristo
Un ritratto di Giuda appeso al fico,
O d'altro falso micidiale amico.
[234]
Questo ribaldo condurracci, dove
Certo a noi non varrà forza o valore.
Già conosciuto abbiamo a mille prove
Quanto egli abbia maligna e mente e cuore:
E spereremo adesso ch'ei ci giove,
E che serbi per noi un vero amore?
Carlo, per Dio non ho timor di morte;
Ma temo sol di non morir da forte.
E Carlo a lui con placido e sereno
Volto risponde: Caro il mio Rinaldo,
Medicina talor, talor veleno
Egli è il sospetto; nè sempre ribaldo
Stimar si dee chi pone al fallir freno,
E nel nuovo proposito sta saldo:
E mal per noi, se il giusto offeso Iddio
Fosse del tuo parere, e non del mio.
In questo mentre Gano se gli getta
A' piedi, e fra sospiri e fra singhiozzi
Dice: Signor, fa pur la tua vendetta
de' miei delitti così brutti e sozzi;
Che ad arbor guasta non ci vuol che accetta;
E farai opra giusta se tu mozzi
A me questo infedel capo, che spesso
Nutrì pensieri di vederti oppresso.
E Rinaldo: Signor, giacchè ti prega
Di morire, soggiunse, non tardare
A consolarlo. Io pigliere' una sega,
E per lo mezzo lo farei segare.
Ma Carlo a' detti suoi nulla si piega;
Anzi a Gano si volta, e fâllo alzare,
E rassicura che il giorno veniente
Verranne a Roncisvalle con sua gente.
[235]
Indi a cena sen vanno, e poscia a letto.
Ma Rinaldo, ch'è volpe antica e furba,
Scappa di stanza, e fugge via soletto;
Chè non vuole ir per acqua quando è turba:
E pieno di paura e di sospetto,
Che per Carlo l'affanna e lo conturba,
Prende la via della Navarra, e stassi
Nascoso il giorno tra le fronde e i massi.
E già vicino a Roncisvalle egli era,
E già vedea le tende maganzesi,
E già più d'un di quella infame schiera
Vedea girare intorno a quei paesi:
Ond'egli pensa in sul far della sera
(Perchè niun lo ravvisi e lo palesi)
D'uccidere qualcuno di Maganza,
E mutar veste, e celar sua sembianza:
E detto fatto, a un cavalier che viene
Incontro a lui, tira un fendente in testa,
E te lo spacca almen fino alle rene;
Indi lo spoglia della sopravvesta,
E se la pone: e gli stava sì bene,
Che pareva per lui quasi contesta;
E poscia va tra' Maganzesi, e quelli
Lo tengono per un de' lor fratelli.
Quindi or con uno, or con altro discorre,
E addosso a Carlo adopra il forbicione,
E dice: Finalmente io vedrò tôrre
Impero e vita a questo reo ghiottone.
Già gli è in cammino, e già si viene a porre
Ne' nostri lacci; e quel guercio barone
Verrà pur seco, e quel Rinaldo pazzo,
Che hanno fatto di noi tanto strapazzo.
[236]
In sostanza però nulla ricava
In che consista proprio la congiura.
Vede ch'è lieta quella gente prava,
E attende Carlo intrepida e sicura;
Ed in genere sol ripesca e scava
Che il dì veniente daran sepoltura
In Roncisvalle a Carlo e alla sua corte;
Ma gli è nascosto il modo della morte:
Chè a pochi il disse, e in gran segreto, Gano;
Chè non son cose da bandirsi in piazza.
Onde dolente il sir di Montalbano
Lascia le tende e la ribalda razza,
E ratto corre inverso Carlo Mano,
Che a lui non crede, e quasi lo strapazza;
E lo ritrova appunto che venìa
Di Roncisvalle per la dritta via.
E messosi di fronte al suo destriero,
Grida: Signore, non andar più avanti.
Roncisvalle per Carlo è un cimitero,
E v'andremo sotterra tutti quanti.
Io di là vengo, e ti racconto il vero,
Chè udito ho ragionare quei furfanti;
Udita ho la lor gioja, il lor conforto,
Con la speme che in breve sarai morto.
È certa la congiura, e sol nascosa
È la maniera onde dobbiam perire.
L'esercito franzese a questa cosa
Tutto s'accende di gran sdegni ed ire.
Carlo con faccia torbida e pensosa
Si volta a Gano, e sì gli prende a dire:
Quando il sospetto non ha fondamento,
È un'ombra vana, e la dilegua il vento:
[237]
Ma quando a sospicar move ragione,
Chi dorme in sul sospetto, è un uomo stolto.
Però a quel che Rinaldo ora ti oppone,
Rispondi; e se in errore sarai côlto,
All'opra uguale attendi il guiderdone;
Ma se ogni dubbio ne verrà disciolto,
Come io voglio sperare, avrà Rinaldo
Pena d'averti preso per ribaldo.
Egli con fronte intrepida e sicura
Ti guarda, e dice ch'entro alle tue tende
Si ragiona da' tuoi d'alta congiura
Contro di noi; e che da lor s'attende
Nostra venuta, e che non han paura
Delle nostre armi, ancorchè sì tremende
Al mondo tutto. Or tu qual dài risposta
A così grave e orribile proposta?
Gano senza mutar colore in viso,
Col ciglio basso e le mani incrociate,
Disse: Signor, mi moverebbe a riso
Sì pazza accusa, se di fedeltate
Non si trattasse, e non restasse intriso
D'obbrobrio il mio candore e lealtate;
Chè in certe cose, ancorchè non sien vere,
Un'ombra, un filo, un neo dà dispiacere.
Egli parla di ciò che si favella
Nelle mie tende, e dice orrende cose
Di tradimenti e congiura aspra e fella;
E fama e voce pubblica anco espose
Esser colà della fatal procella.
Or s'egli è ver che fra le più gelose
Opre si ponga un regio tradimento,
Come ei l'udì da cento bocche e cento?
[238]
La voce, signor mio, vola pur troppo,
Massime allor che libera si getta;
Nè lido in mar, nè monte a lei fa intoppo,
Ma lieve passa a guisa di saetta
Per ogni banda: e nunzio muto e zoppo
Sarà stata per Carlo, e chiusa e stretta
Avrà volato sol fra le mie genti,
Invaghita de' nostri alloggiamenti?
O non dice, signor, Rinaldo il vero,
O s'ei lo dice, avranno, me lontano,
Fatto coloro un disegno sì fiero.
Ma ciò non credo; e ogni intelletto sano
Sarà del mio parer, del mio pensiero.
Ov'è mai fra di loro e mente e mano
Da tanta impresa? Forse a lor si copre
Quali sieno di Carlo e l'armi e l'opre?
E dove lascio il gran signor d'Anglante,
E te, Rinaldo, fulmini di guerra,
Che stando sempre al gran Carlo davante,
Da ogni oltraggio lo scampate in terra?
Ma tu ben sai come di risse amante
Egli è Rinaldo, e qual odio lo afferra
Contro il mio sangue, e con ragione ancora;
Ma io e i miei non siam più quei d'allora.
Pur veggo ben che per la colpa antica
Trova l'accusa mia facil credenza
Nell'alma tua, benchè del giusto amica.
Però lontane dalla tua presenza
Vadan le genti mie; e acciò si dica
Che a offender Carlo Maganza non penza,
Lascin l'armi e i cavalli, e disarmati
Errin come gli armenti in mezzo ai prati.
[239]
E perchè non si pon fine al sospetto,
E d'ogni cosa s'ombra facilmente;
Forse, chi sa? d'alcun veleno eletto
Sarà qualche timor nella tua mente;
E di quanto averai veduto o letto
Di gente estinta così bruttamente,
Ti sovverrà. Non fia bevanda o cibo,
Che tu tocchi, se prima io non la libo;
E poi, giacchè Rinaldo ardito e franco
Dice che la congiura è assai palese,
Prendi, signor, della mia gente un branco,
Qual più ti piace, e con facelle accese
Ora sotto alle braccia, or sopra il fianco
Fa che da' tuoi sieno lor voci intese;
E se diran che traditor son io,
Rassereni il tuo core il sangue mio.
Ma tu vanne spedito, o Pinabello,
A dir loro che senza armi e destrieri
Vadan fuor delle tende. Intanto appello
In mio favore i Numi eterni e veri:
E s'io nutro pensiero iniquo e fello
Contro di Carlo e de' suoi cavalieri,
Signor, li prego, che avanti a' tuoi lumi
Fulmin dal ciel discenda, e mi consumi.
Rinaldo non potè stare alle mosse,
E incominciò: Signor, stiam bene all'erta;
E se punto esto furbo ti commosse,
Non dubitar, perchè la cosa è certa.
Ma disse Carlo: Ancorchè vero fosse
Ciò che tu dici, se vuota e deserta
De' Maganzesi la campagna resta,
Qual cosa a noi esser potrà molesta?
[240]
E il ver diceva il povero signore,
Che non sapeva e non aveva udito
Della terribil polvere il furore,
Che insegnò Satanasso ad un romito,
Che poi la diede a Gano traditore.
Ma giacchè ho da vedere incenerito
Così buon vecchio, vo' prima cercare
Di gente che lo possa vendicare.
Nalduccio ed Orlandino in tempo corto,
Se si misura il gran vïaggio e strano,
Giunser di Burdigala entro al bel porto,
Che fe' natura e non ingegno umano;
E lo formò così piegato e torto,
Che sembra un arco che riposi in piano:
E dicon di quell'arco esser la corda
La Garonna, che in mar corre sì ingorda.
Quivi si soffermaro un giorno solo,
Poi presero il cammin verso Bajona;
E nel calcare il desïato suolo
Sentivan tal piacer nella persona,
Che il ritrovare il perduto figliuolo
Cotanto in sen di madre non cagiona:
E le lor donne anch'esse per consenso
Mostravano allegrezza in ogni senso.
Ma lasciamoli stare in allegrìa,
Che tra poco averan tormento e pena;
E noi frattanto pigliamo altra via:
Quella non già che a Roncisval ne mena,
Che m'empie troppo di malinconìa;
Ma un'altra ne cerchiam grata ed amena;
E forse troveremla. Ma per poco
Or vo' posar, che già son fatto roco.
[241]
Lirina del suo crin, come di stoppa,
Forma una corda e il girifalco lega.
A quel si pon con i compagni in groppa,
E in aria a voglia sua lo spinge e piega.
Su quello il vecchio in Egitto galoppa,
Per farsi erede della morta strega.
Resta uccisa una vecchia in mezzo a un calle.
Muore Carlo abbruciato in Roncisvalle.
Se quando incominciai questo lavoro,
Che fu per gioco, e poi bel bello crebbe,
E crebbe sì, mercè l'Aonio Coro,
Che finito oramai dir si potrebbe,
Vittoria illustre, che ora tanto onoro
Quanto mai regal donna in pregio s'ebbe,
V'avessi visto e conosciuto prima,
D'altri versi il tesseva e d'altra rima.
E giacerìano in un silenzio oscuro
Despina bella e il prode Ricciardetto;
Che di voi sola avrei cantato: e giuro
Che il buon voler, di cui ricolmo ho il petto,
Di timido m'avrìa fatto sicuro;
Ed il vasto argomento, e sì perfetto,
Onore e lode senza alcun lavoro
Acquistato m'avrìa dall'Indo al Moro.
[242]
Ma l'esser voi sì grande e sì sublime
Per virtù, per natali, e per quei doni
Che Dio talor nelle grand'alme imprime,
Per noi mostrare quanta lui coroni
Luce e bellezza nell'eccelse cime
Del monte ove gli Dei han lor magioni;
Ed io sì basso e oscuro, che a fatica
Si sa che viva dalla gente amica;
Fu la cagion che non alzassi mai
La debil vista a quell'immensa luce
Che vi circonda, e vince il Sol d'assai.
Ma giacchè la fortuna ora m'è duce
A tanto bene, e da' be' vostri rai
In me spirto novello si produce,
Chi sa che un giorno del Permesso in riva
Alto di voi non canti, alto non scriva?
E dica come in voi hanno lor sede
Le grazie tutte e le virtù più belle:
E come trasparir chiaro si vede
Per lieve nube il lume delle stelle;
Sì l'innocenza, l'onestà, la fede,
E i pensier saggi che nutrican quelle,
Van trasparendo dalla vostra fronte
Per luce che non fia che mai tramonte.
Nè tacerò que' modi almi e cortesi
Che son catene agli animi gentili;
E dirò anche ove gli avete appresi,
E da qual madre. Così meno umìli
Fosser miei versi, o di quel foco accesi
Che far li suole al buon Febo simìli.
Che vorrei dir di voi e del consorte
Cose da farvi viver dopo morte.
[243]
Ma tempo è omai di ritornar là donde
M'era partito, e seguitar l'istoria;
Perchè male si mescola e confonde
D'ogni altra il pregio con la vostra gloria.
Che come de' gran fiumi le grand'onde
Perdono in mar lor nome e lor memoria;
Così quando di voi prendo a cantare,
S'oscura ogni altra, e l'opera dispare.
Restato cieco il misero custode
Della bella Despina, e ritornato
In sua sembianza il buon Ricciardo e prode,
E nella sua Lirina, se beato
Fu il cor d'entrambi, dicalo chi l'ode.
Ma perchè poco dura un lieto stato,
Sepper come per sempre era impedita
A tutti lor della torre l'uscita.
Che l'accecato vecchio in volto afflitto,
Volesse il cielo, disse, ch'io potessi
Di qui fuggire, e sì del mio delitto
Scampar la pena; chè senza processi
Su questa torre rimarrò confitto;
E soffrirete ancor gli affanni stessi,
O voi, ch'ora godete e fate festa
D'avermi tratti gli occhi dalla testa.
Qui non c'è scala che abbasso conduca,
E non son funi da calare a terra;
E quello che si beve e si manuca,
Ci vien d'Egitto, e col becco l'afferra
Un grande uccel, che prima ancor che luca
Il giorno, dal gabbione lo disserra,
Ove lo tien la maga Arimodìa,
E per cibarci a noi quassù l'invìa.
[244]
E questo uccello ancor lettere porta
A me della sua maga, e vuol risposta:
Or che degli occhi in me la luce è morta,
Tornerà indietro con la sua proposta:
E Arimodìa, fata tanto accorta,
S'accorgerà che qui frode è nascosta;
E fatto ciò che l'arte le dimostra,
Verranne in fretta alla ruina nostra.
Costei d'Ulasso ella è parente stretta,
E per Africa tutta è sì possente,
Che il sommo Giove infino la rispetta:
Ed ama tanto questo suo parente,
Che giorno e notte quanto può si affretta,
Perchè sieno in Despina affatto spente
Le prime fiamme, e perchè volga in ira
L'amore onde per altri ella sospira.
Ed io che fui antico suo scolare,
Ed imparai molte gran cose e belle
(Che lieto me, se or le potessi fare!),
Qua venni per cammino alto alle stelle
A custodire le sembianze rare
Di questa giovinetta inerme e imbelle:
E perchè niun me la portasse via,
Sommo poter mi diede Arimodìa.
Nel mentre che in tal guisa egli ragiona,
Ecco s'oscura il Sole, e strepitoso
Delle grand'ali il battere risuona.
Tremò il vecchio al rimbombo, e doloroso
Disse: Doman non giungeremo a nona,
Che sarem morti in modo obbrobrïoso.
Guarda Lirina la volatil fera,
Che assai più grossa d'un giovenco ell'era.
[245]
E le penne grandissime dell'ali
Eran sicuro (a dirla schiettamente)
Per fino al mezzo, come sono i pali
Che dansi in piano a gran vite cadente;
Gli artigli acuti assai più de' pugnali;
Il petto, il collo, ed il rostro valente,
E la coda, ed infin ciò ch'egli avea,
Alla grossezza sua corrispondea.
E vede come il becco ha traforato,
E in quel forame è un bell'anello d'oro:
Onde un pensier le venne disperato,
Per isfuggire il vicino martoro;
Giacchè lo poter suo è in lei cessato,
Nè qui può far con l'arte sua lavoro,
Si taglia a un tratto la sua treccia bella,
E fanne una ben lunga cordicella;
E va d'attorno al girifalco strano
Per infilar la corda nell'anello,
E gli liscia le penne con la mano,
Tenendo l'occhio al becco ed all'ugnello;
Ma quegli se ne va da lei lontano:
Ella sel chiama, e dice: Bello, bello;
Ma non per questo ei si sofferma punto,
Nè puote esser da lei giammai raggiunto.
Il cieco, che non sa ciò che far vuole
Lirina, e crede che gli voglia tôrre
Il foglio che gli porta le parole
Che a lui manda la maga entro la torre;
Dice: Fanciulla, altrui lasciar non suole
La carta questo uccello, e non occorre
Che ti ci provi: solo in mano mia
Porralla; chè sì vuol chi a me l'invìa.
[246]
Ed ella: Dal suo rostro un cerchio pende,
Dice, e vorre' infilarlo a tutti i modi.
E il cieco a lei: Da te che si pretende
Con quella infilatura? che lo annodi?
Oh come mal da te, donna, s'intende
Quanto gli artigli e il becco suo sien sodi!
E a lui la giovin bella: Cieco mio,
Infilalo, e poi lascia fare a Dio.
Sapea Lirina che fatal catena
È bionda treccia di donzella pura,
Per legare un dragone, una balena,
O qualunque altra fera orrenda e dura:
E volve in suo pensier, se questo affrena
Uccel di sì mirabile figura,
Di poter quinci facilmente uscire;
Che tutto s'ha a tentar per non morire:
E perchè il vecchio ninnola e balocca,
E non s'induce a far ciò ch'ella brama,
Con man Lirina gentilmente il tocca,
E dice: Se la vista da te s'ama,
Anzi la vita, in lasciar questa rocca
Seconda allegramente la mia trama;
Ch'io voglio uscir con tutti dalla torre,
E ti vo' in testa gli occhi tuoi riporre.
A tal promessa rallegrossi tanto
Il cieco vecchio, ch'ebbe ad impazzare;
E fattosi all'uccel condurre accanto,
Prese con man l'anello, ed infilare
Lo potè con quel crin dorato e santo.
Infilato l'anel, volle beccare
L'uccello il freno; ma quando s'accorse
Ch'era crin di fanciulla, più nol morse.
[247]
Ed ella su l'ampissimo verone
Della torre scoperta, a suo piacere
Lo maneggiava; ed ora cavalcione
Gli stava sopra, ed or posta a sedere.
E fatta spesso questa funzïone,
Misura il dorso di sì gran sparviere,
E da sei braccia lungo esser comprende;
Onde a' compagni a sì parlare imprende:
Se vi dà il cuor su lui meco salire,
E gir per l'aere vano in larghe rote,
O morte o servitù potrem fuggire.
Le vie del cielo a me non sono ignote,
E non mi manca ingegno e franco ardire;
Nè questo uccel, ma il carro di Boote
Saprei guidare, e quel del Sole ancora;
Ma bisogna troncare ogni dimora.
Su la sua schiena io salirò primiera,
Se così parvi; e presso a me verranne
Despina, e agli occhi avrà una benda nera,
Acciò che il giracapo non la inganne:
Dopo Ricciardo; e perchè qui non pera
Di fame il vecchio, e solo non s'affanne,
Ponetevi lui pure. E così detto,
In sul falcone ella salì di netto.
Ricciardetto bendò la sua Despina,
E bendata così la mise appresso
Della leggiadra intrepida Lirina;
E preso il vecchio, gli fe' far l'istesso.
Egli pure vi sale, e la divina
Prega bontà perchè non resti oppresso,
E non faccia con tutta la brigata
Qualche solenne orribile cascata.
[248]
Sprona col piè Lirina il grande uccello,
Ed il rostro col suo crin biondo scuote.
L'ali immense allor quei batte bel bello,
E si rincora, e per le vaste e vuote
Strade del ciel s'invìa leggiero e snello.
Ella fa ch'egli vole in larghe ruote,
E ch'egli muova in guisa le grand'ali,
Che a poco a poco e sempre abbasso cali.
Ricciardo appresso il suo dolce tesoro,
Che gli tremava in braccio di spavento,
Sentiva del tardar sì gran martoro,
Che un anno gli pareva ogni momento.
Venne il tempo alla fin sì grato a loro
Di toccar terra; e n'ebber tal contento,
Che fûro vicinissimi a morire.
Or quanto fosse e chi potrà ridire?
Calaro appunto in su quel verde prato,
Dove errava disciolto a suo piacere
Del buon Ricciardo il cavallo incantato.
Diede Lirina il grifon suo a tenere
Al vecchio che degli occhi era privato;
E corre alla capanna, e dal forziere,
Dove serbava le virtù mirande.
Di bel zaffiro trasse fuor due ghiande.
E l'una e l'altra pose entro de' cavi
Della fronte del vecchio, e, Questi in vece
D'occhi saranti luminosi e bravi
(Gli disse; ed egli diece volte e diece
Ringraziolla): ma vuolci o delle navi
Cercar tenace indissolubil pece,
O della colla, soggiunge Lirina;
Chè perder gli potresti una mattina.
[249]
E Malagigi si trasse di tasca
Un scatolino pien di certa cera
Del colore di cerasa amarasca,
Che terrebbe ad uno scoglio una galera
In tempo di fierissima burrasca.
Di questa empì dove incavato egli era;
Poi quelle ghiande ella vi pose in modo,
Che vi stavano bene, e stavan sodo.
Ed eran d'una vista così fina,
Che il buon vecchio dicea: Là su quel monte
Io veggo una formica che cammina,
E veggo tra le frondi un chiaro fonte,
Ed un cardello che vi si spollina;
Veggo un lepre che dorme, e nella fronte
Havvi una mosca con l'ali dorate:
Tanto far ponno, e tanto dar le Fate.
Or mentre questi stanno in allegrìa,
Fuori d'ogni timor, d'ogni periglio,
Sospettosa in Egitto Arimodìa,
Non vedendo tornare il suo famiglio
(Dico l'uccel ch'a portar fogli invia),
Temè di frode, e mise in iscompiglio
Tutta la casa; e getta l'arte, e vede
La cagion perchè il falco a lei non riede.
E si pon l'ugna in su i capelli bianchi,
E se li va strappando a ciocche a ciocche;
E si sbatte pe' muri e per i banchi:
Cotanta rabbia avvien che il cuor le tocche.
Forza è che il viso a ciaschedun s'imbianchi
De' suoi serventi; e stansi a chiuse bocche
Ed occhi aperti, e non sanno capire
Da che tanta ira in lei possa venire.
[250]
In questa rabbia, in questo crepacuore
Arimodìa si stette, a farla corta,
Il tempo giusto di ventiquattr'ore:
Poi sola uscì, simile a donna morta,
E l'aria empì di spaventoso orrore;
Indi per una via nascosta e torta
Andò del Nilo alla settima foce,
E mandò fuori una terribil voce:
E fa precetto a quanti erran per l'acque,
E van per l'aria demoni scaltriti,
E a quanti a Dio d'innabissar giù piacque
Ai sempre neri e lagrimosi liti.
Quindi ciò fatto, crollò il capo, e tacque,
Girando attorno gli occhi inferociti;
Quando ecco il mar s'estolle, il ciel s'oscura,
E si sconvolge tutta la natura.
Fendon l'aria stridendo allocchi e gufi,
E strane arpìe ed aquile grifagne;
E come porco che per fango grufi,
Così pare ciascuna che si lagne:
E qual di lor su gl'incavati tufi
Si pone, e accoglie le stese ali e magne;
E qual su' tronchi, e qual con tardo volo
Or s'erge in alto, or va radendo il suolo.
E per lo mare foche vaste e porche
E pistrici si veggono venire,
Tutte in sembianze mostruose e sporche;
E come monti su l'onde apparire
Le sterminate orribilissime orche,
E fuor dell'acqua si veggono uscire,
E far corona attorno della Fata,
Che tutte con piacere osserva e guata.
[251]
Gran polvere innalzar si vede al cielo
Dall'ugne fesse de' centauri strani;
Ed ecco fere che han serpi per pelo,
E tigri e lupi e grossissimi cani.
In somma di là, dove è sempre gelo
E sempre è caldo, orrendi mostri immani
Apparver, non so come, in un istante,
E in copia molta ad Arimodia innante.
Tutta questa gran turba di bestiame
Da spiriti maligni era abitata,
Che a inganni, a frodi, a cavallette, a trame
Era fuor d'ogni credere addestrata.
Prese Arimodia alga marina e strame,
E in mezzo a loro sopra esso assettata,
Con i capelli scarmigliati ed irti,
Tal mandò voce ai maledetti spirti:
Io qua, mercè della fatal mia verga,
Furie d'Averno, ho convocate tutte,
Perchè da voi s'abbatta e si disperga
Un uomo solo che ha guaste e distrutte
Le mie fatiche; e vo' che si sommerga
In mare, od in guerriere acerbe lutte
Rimanga estinto, o almanco a mia magione
Mel conduciate in pochi dì prigione.
Questi è Ricciardo, il Franco paladino,
Che mi rubò la donna col custode,
E il girifalco, sul quale io cammino;
E quel che più l'alma mi punge e rode,
Or si ride d'Ulasso mio cugino,
Da cui finora ebbi di grazie e lode
Messe non scarsa; sì ben custodita
Era da me la donna sua gradita.
[252]
Udite dunque ciò che bramo e voglio.
Morto Ricciardo, o preso, mio pensiero
Fia di domar di Despina l'orgoglio.
Qui tacque, e guardò il cerchio in atto altero.
L'orca più grande allor sopra uno scoglio
Alzossi, e disse: Donna, il vostro impero
Non possiamo eseguir; chè di Ricciardo
Il potere del nostro è più gagliardo.
E riprese un'arpìa di sopra un tronco:
E chi di noi toccar può il suo cavallo,
Appo di cui nostro valore è cionco?
E un centauro gridò senza intervallo:
Non vo' restar d'un braccio o d'un piè monco;
Nè tu mi forzerai unqua a tal fallo.
E ciò detto, si sciolse il concistoro,
E tutti andâr dove più parve a loro.
Arimodìa si svoltola rabbiosa
Sopra l'arena, ed urla come matta;
E di morire fatta desïosa,
Con l'ugne il viso e il petto così gratta,
Che divien tutta quanta sanguinosa:
Poi d'ir 'n un scoglio tanto s'arrabatta,
Che vi giunge, e il possente crin si taglia,
Poi disperata entro del mar si scaglia.
E perchè non avea pur un capello
Che delle Fate il vivere assicura,
Se entrasser pur 'n un acceso fornello,
O in altro luogo che la vita fura,
Morì ad un tratto, e di marin vitello,
Che la mirò cadere, fu pastura.
Tal fatto a Malagigi ed a Lirina
Fu noto la stessissima mattina.
[253]
Eppur dal Nilo ai monti della Luna
Non si poteva dir la via dell'orto;
Ma senza l'ossa e senza carne alcuna
Si va pur presto dall'occaso all'orto!
Chè passa per le siepi e non le spruna,
Pe' muri, e non vi fa lungo nè corto
Forame ogni demonio, e senza penne
Fa mille miglia in meno d'un Amenne.
Il vecchio che avea gli occhi di zaffiro,
Udito il tristo fin d'Arimodìa,
Diede per la pietade un gran sospiro;
Che obblighi molti e grandi ad essa avìa.
Poi disse: Io vorrei far, madonne, un giro
Fino in Egitto, e girne a casa mia;
Poi della Fata prender cento cose
Nell'arte nostra assai maravigliose.
E monterò, se voi mel permettete,
Su questo girifalco sì valente;
Nè del ritorno mio punto temete,
Chè sarò quanto prima certamente
A ritrovarvi. Del gir suo fur liete
Le donne, e il buon Ricciardo non dissente:
Ond'ei si pon sul dorso allo sparviero,
E quei si move al vol presto e leggiero.
Or mentre per Egitto egli cavalca,
E va per l'aria lucida e serena,
E le gran valli e i monti alti travalca,
Despina di soave amor ripiena
Dice a Ricciardo, cui pur preme e calca
Robusto amore, e con più forte lena:
Dopo tanti sospiri e tanto pianto
Pur ti ritorno, amato sposo, accanto.
[254]
Oh venisse quel giorno, e questo fosse,
Ch'io sempre tua, tu sempre fossi mio!
E qui le gote sue si fecer rosse,
E vero foco da' suoi lumi uscìo.
Ricciardo a quel parlar nulla si mosse,
Che per dolcezza quasi s'impietrìo;
Pur si riebbe, e dissele: Mia vita,
Nostra sventura ancor non è compita.
Ma veggo ben che averà fine in breve,
E veggo che lassù cura è di noi.
D'aprile ancor cade la bianca neve,
E Borea sparge i freddi geli suoi;
Ma spavento di ciò nullo riceve
Il bifolco, nè avvien che se ne annoi;
Chè molto ben conosce che in poche ore,
Dov'è la neve spunteranne il fiore.
Noi quinci uscir non potrem mai, Despina.
Senza contrasto avere orrendo e fiero
Con Ulasso e sua gente malandrina:
Che come a noi volò presto e leggiero
Lo spiritel d'Egitto stamattina,
Così che andato ei sia io fo pensiero
Ad Ulasso, ed avrà d'uomini armati
Piene le strade e tutti quanti i lati.
Di me non temo; chè mi fa sicuro
Di laccio e morte il mio bravo cavallo.
E te in groppa portar non m'assicuro,
E farne prova egli sarìa gran fallo.
Ma giusti preghi mai vani non fûro:
Però non mi conturbo e non mi avvallo;
Ed ogni mia fiducia, ogni speranza
Ripongo in Dio e nella sua possanza.
[255]
Frattanto ai fianchi tuoi starà Lirina
E Malagigi, ed io monterò in sella,
E sopra vi starò sera e mattina;
Chè sciocco al sommo e ignorante s'appella
Chi in terra ostil spensierato cammina:
Chè come in mar la subita procella
Alza tempesta e fa perir la nave,
Se il piloto riposa in sonno grave;
Così in terra nimica, ancorchè segno
Nullo si vegga di cavalli o fanti,
Può ad un tratto apparir. Noi stiam 'n un regno
Dove a me braman morte tutti quanti,
E di rubar te sola hanno disegno:
Però stiamo guardinghi e vigilanti,
E ragioniam d'amore un'altra volta,
Quando di cure avrem l'alma disciolta.
Sì disse, ed a Lirina e a Malagigi
Diede in custodia la gentil donzella.
Ed essi, Teco andrem fino a Parigi,
Disser ridendo. Ed egli montò in sella,
E lor soggiunse: Di tanti servigi
Che mi faceste e fate, amica stella
Vi guiderdoni; e massime se fia
Salva per voi costei ch'è l'alma mia.
Già le fatiche lunghe de' mortali
Avean commossa la pietà divina,
E comandava che affrettando l'ali
La notte ne venisse, e alla marina
Gisser di Febo i cavalli immortali;
E a larga mano infino alla mattina
Spargea dono di sonni e di ristoro
Sopra i viventi, che val più dell'oro;
[256]
Quando Ulasso, a cui noto era già tutto,
In largo cerchio avea cinta la valle
Di gente armata; e come bene instrutto
D'ogni più stretto e più nascosto calle,
Mise insidie ed agguati da per tutto:
Talchè alla fronte, a' fianchi ed alle spalle
Avea Ricciardo tanti uomini armati,
Che in ciel non sono stelle, o fior ne' prati.
E già sapeva il sito per l'appunto,
Dove stava Despina e il suo Ricciardo:
E come suol con spine a spine aggiunto
Tesser villano un riparo gagliardo
A qualche frutto, acciò non sia consunto;
Così cerchiato con sommo riguardo
Aveva Ulasso lei col suo consorte,
Per prender l'una, e all'altro dar la morte.
La notte dunque, allor ch'ella più incalza
Le negre sue donzelle incontro al lume,
E sì lo vince e sì da noi lo sbalza,
Che par che addoppi al suo fuggir le piume;
Corre pel piano, e sdrucciola per balza,
Nè monte la ritarda o largo fiume,
La gente d'arme contro il paladino,
E Ulasso è sempre il primo nel cammino.
Già s'era posta in su la sedia d'oro
L'Alba novella, e con le man di rose
Si pettinava i crini, e sopra loro
Spargeva gigli e vïole odorose;
E aveva d'un mirabile lavoro
Candida veste, che a lei già compose
La dolce madre, e glie la diede in dono
Nello sposarla al dardano Titono;
[257]
Quando vide la polve, e udì i nitriti
Ricciardo de' cavalli, e le bandiere
Vide d'Ulasso, e vide d'infiniti
Uomin coperte le campagne intere;
Onde disse a Despina: Il ciel t'aiti,
Ch'io non so quel ch'io tema o quel ch'io spere;
E a Malagigi rinnovò sua prece,
Acciò la custodisse egli in sua vece.
Lirina intanto con gl'incanti suoi
Forte riparo d'afforzate mura
Formato aveva, e intorno intorno poi
Profonda fossa e di tanta largura,
Che cittadella alcuna tra di noi
Non v'ha per certo; e di nera mistura,
In vece d'acqua, era ripiena, e tosto
Arse, siccome stoppia a mezzo agosto.
Quello onde nacque strana maraviglia,
Fu che la fiamma non andava in alto,
Ma si spandeva, e alle nemiche ciglia
Degli Africani dava un fiero assalto:
Talchè tanto spavento ognuno impiglia,
Che a fuggir dassi; nè sì lieve salto
Dà il caprïol con la tigre alle spalle,
Come van quelli per l'erbosa valle.
Ulasso addietro li richiama e grida;
Ma in quel mentre Ricciardo sopravviene,
E a guerra e a morte in uno lo disfida.
Lirina allora la fiamma trattiene;
Chè di Ricciardo molto ben si fida.
Felice Ulasso e beato si tiene
Di pugnar seco; chè spera vittoria,
O morendo eternar la sua memoria.
[258]
E fanno patto e fanno giuramento,
Che sia del vincitor premio condegno
Despina, di beltà raro portento.
Già prendon del terren, già dassi il segno.
Ma in questo punto mi nasce talento
Di fuora uscir dell'africano regno,
E là tornare, ove lasciai in cammino
Per Bajona Nalduccio ed Orlandino.
Camminavan costoro a lenti passi,
Mostrando alle lor mogli il bel paese;
Quando odon strilli e grandine di sassi,
E di villani una turba scortese
Veggon che in mezzo del cammino stassi;
E con le trecce scarmigliate e stese
Una donzella a secco tronco avvinta,
E appresso lei antica donna estinta.
Avevan lapidato allora allora
La trista vecchia i perfidi villani,
E stavano per trar di vita fuora
La giovane, e co' sassi nelle mani
Le dicevano: Porca traditora,
Tra poco tu sarai cibo de' cani.
E già si stavan con le braccia in alto,
Quando Nalduccio a lei giunge d'un salto.
E per prendersi gusto, dal cavallo
Discese, e avanti la donzella stette,
E gridò: Questa non ha fatto fallo;
E chi vorrà toccarle le scarpette,
Non che la vita, il vo' senza intervallo
Tagliare a pezzi, e poi farne polpette.
Però donde partiste ritornate,
E Dio ne guardi a chi trarrà sassate.
[259]
Coloro non gli fero altra risposta,
Ma di pietre un gran nembo gli tiraro,
E tutti dier nell'armatura tosta,
E tosta tanto, che vi si spezzaro.
Orlandino in quel mentre a lor s'accosta,
E disnudato il rilucente acciaro,
N'uccise alcuni, e ne ferì ben cento:
Gli altri fuggiro per lo gran spavento.
Corese e Argéa frattanto avean disciolta
La prigioniera, che appena sel crede
Vedersi a morte sì terribil tolta:
E cortese Nalduccio la richiede,
Chi sì l'avesse entro que' lacci avvolta,
E di qual colpa ciò fosse mercede;
E s'ella avea fallato, o veramente,
Come egli si credeva, era innocente.
Con bassa voce, languida e tremante
Rispose la donzella: Se vi piace,
Venite meco pochi passi avante,
Ov'è una villa mia assai capace,
Bella pel sito e per le spesse piante;
E lì vi narrerò forse con pace
Le mie sventure, e quel che più vorrete;
E so che nell'udirmi piangerete.
Andianne pur, soggiunse Rinaldino,
Che mi muojo di voglia d'ascoltarti.
E si misero appena nel cammino,
Che si trovâr nelle accennate parti.
Stava in un colle il ben fatto casino;
E cotanti lavori intorno sparti
Vi si vedean di fonti e di verzieri,
Che ne stupîr le donne e i cavalieri.
[260]
Entrati dentro alla gentil villetta,
E assisi tutti ad una mensa in giro,
Incominciaro a sbadigliare in fretta,
E così fortemente s'addormiro,
Che non gli avrìa svegliati una trombetta.
In somma il tasso, la marmotta, il ghiro
Rispetto a loro il sonno hanno leggiero.
Oh vedi se dormivan daddovero!
Due giorni interi ed altrettante notti,
Reggendosi la testa con le mani,
Dormiro, e i lor riposi unqua interrotti
Fur da rumori vicini o lontani.
Or mentre questi sonnacchiosi e chiotti
Si stanno, io scendo a' lagrimosi piani
Di Roncisvalle, ove già Carlo è giunto,
E dove in breve rimarrà consunto.
All'entrar della valle traditora,
Il buon destrier di Carlo all'improvviso
Si volse indietro, e star volea di fuora;
E scolorissi al vecchio Orlando il viso,
E il pro' Rinaldo indebolissi ancora.
Poco mancò che non restasse ucciso
Dall'esercito Gano; e supplicante
Gridava a Carlo che non gisse avante.
Ma quando è giunto quel fatal momento,
Le parole, i consigli e le preghiere
Sono gettate tutte quante al vento:
Ond'è che Carlo mostra dispiacere
Che l'esercito suo non sia contento,
E che cerchi di opporsi al suo volere;
E riguardollo con turbato ciglio,
Talchè fermossi il militar bisbiglio.
[261]
Ciò fatto, alla real tenda s'accosta,
E parte dell'esercito entra pure
Nell'altre tende, conforme disposta
Era la trama. Le gravi armature
E la celata da ciascun deposta,
Fatte le genti omai chete e sicure,
Diero un assalto alle vivande rare,
Ai fiaschi, alle boccette, alle anguistare.
E Carlo in mezzo a' forti paladini,
Ancorchè vecchio, trangugiava bene
I pollastrelli arrosto e i piccioncini;
E Orlando pur con le mascelle piene
A Rinaldo dicea: Sono piccini.
Gemo s'infinge non sentirsi bene,
E che il corpo gli cigoli e gorgoglie,
Ed insensibilmente se la coglie.
E dopo una mezz'ora e forse manco,
Ecco avvampar le maladette mine,
E Carlo e i paladini e le tende anco
Gir in alto con fumo senza fine:
E uscir di fronte, di dietro e di fianco
Le maganzesi genti malandrine,
E percossero i Franchi, che all'intorno
Facevan della valle il lor soggiorno.
Allo scoppio terribile e sonoro
Si risvegliaro i quattro addormentati,
Nè altro mirâr che un vecchio barbassoro,
Che stava in mezzo a due garzoni alati;
Il quale dolcemente disse loro
Come li avea, la Dio mercè, salvati
Dal tradimento che l'iniquo Gano
Fece a' lor padri, e insieme a Carlo Mano.
[262]
E per far meno acerbo il giusto affanno,
Che della morte de' lor padri avièno,
Disse lor: Non piangete; ch'essi stanno
Lieti e contenti al Padre Eterno in seno;
Nè sanno più cosa è dolor, nè sanno
Cosa è fatica; ma dolce e sereno
Per loro è il giorno, che non mai s'oscura
Per notte, o nebbia tenebrosa e impura:
A cui pur sospirando i giovinetti
Dissero: Deh ci narra, o vecchio santo,
Come moriro i cavalieri eletti
E il forte Orlando, quale aveva il vanto
D'uomo immortale, e quali fur lor detti?
Temêr la morte e s'avvilîr col pianto?
Oppur le andaro incontro, e gli atti estremi
Fur generosi e di virtù non scemi?
E il vecchio a loro: Il tradimento, o figli,
Non lascia loco a dimostrar valore.
Fatte sotterra a guisa di conigli
Avea più fosse Gano traditore;
E con crudeli orribili consigli,
Tutto ripieno d'infernal furore,
Le ricolmò di polvere sì fatta,
Che accesa avvien che ogni gran torre abbatta.
Or mentre se ne stavano scherzando
A lauta mensa gl'incliti guerrieri,
Gano diè foco al polvere nefando,
E andâr per aria e tende e cavalieri,
Come le foglie di dicembre, quando
Soffiano gli Aquiloni orridi e fieri:
Ma Rinaldo ed Orlando e Carlo Mano
Volavan tutti e tre presi per mano.
[263]
E tanto in suso e così presto andaro,
Che per voler del sempiterno Iddio
Del ciel la porta co' lor capi urtaro,
E l'Apostolo Pietro glie l'aprìo,
Il qual non era del gran fatto ignaro;
E disse lor tutto benigno e pio:
Giacchè giunti voi siete a questo passo,
Non vuole Iddio che più torniate a basso.
Erano vivi, e solo abbrustoliti
Avevano i capelli ed i barbigi;
Ma a dirla giusta, egli erano storditi:
Onde disse San Pietro: Assai litigi
Qua movereste di carne vestiti;
Però morite, e portati a Parigi
I corpi vostri averan sepoltura
Tutta di marmo rilucente e pura.
Come augellin che alcuno stecco rotto
Ritrovi nella gabbia, fugge via;
Così quell'alme scapparo di botto
Dalla terrestre lor prigion natìa:
I cadaveri caddero al di sotto,
E li vedrete in mezzo della via
Insieme stretti. Or voi, a cui s'aspetta
L'ingiuria loro, itene a far vendetta.
Sbranate Gano e tutti i Maganzesi,
E gli estinti parenti in su le bare
Riconducete ne' vostri paesi.
Ciò detto, il vecchio subito dispare.
Di duolo e sdegno i giovinetti accesi
Fremono a guisa di turbato mare,
E corrono alla valle traditora,
Gridando: Gano di Maganza muora.
[264]
Già s'erano ristretti in un drappello
Gli avanzi dell'esercito sconfitto,
Che forti resisteano a Pinabello;
E qual de' Maganzesi al suol trafitto
Giaceva, e quale timoroso e snello
Dalla pugna fuggiva zitto zitto;
Quando ecco a venir Gano a dargli aita
Con tanta gente che parea infinita.
I soldati di Carlo a quella vista
Dimostrar o allegrezza; chè volièno
Uscir di vita sì dolente e trista,
Giacch'era il signor lor venuto meno;
E tal signor che mai non si racquista
In questo basso misero terreno:
E disperati incontro a lor si fêro
Con volto rabbuffato, orrido e nero.
E cominciossi un tal combattimento,
Che al sol pensarvi mi sento basire.
Appena questi arrivavano a cento,
E quelli quanti fosser chi può dire?
Ma lasciamli pugnare a lor talento,
E sfogare gli sdegni e sfogar l'ire;
Che voglio andar a letto a riposarmi:
Domani poi ritorneremo all'armi.
[265]
Dai due minor cugini in un gabbiotto
Di ferro è tratto Gano traditore.
In Parigi sua casa arsa è di botto;
E Ricciardo è creato imperatore.
Il re de' Cafri mette il capo sotto
Al Battesimo santo, e il fa di cuore.
Entro la gabbia va Gano in faville.
Cercan Ricciardo per cittadi e ville.
Chi semina del male, e che si crede
Raccor del bene, è temerario e stolto;
Chè di mal'opra il gastigo è mercede.
E se talor nel fatto non è côlto,
Nè subito la pena al mal succede,
Non ha di ciò da rallegrarsi molto;
Chè l'eterna giustizia, allor che tarda,
Piomba su' rei più cruda e più gagliarda.
Oh, se piacesse alla bontà divina
Squarciar il velo che gli occhi ricopre
Di tal, che per sentier largo cammina
Carco d'iniquitade e di triste opre,
E sempre gode da sera a mattina,
E vedesse il flagel che or gli si copre,
Io credo che morrebbe in quel momento
Di tristezza, d'affanno e di spavento.
[266]
Così, se quando l'empissimo Gano
Fece in aria volar Carlo co' suoi,
Veduto avesse qual coltello in mano
Era di Dio per lui punir dappoi,
Tenuta avrebbe la miccia lontano
Da' barilozzi; e que' sublimi eroi
Non sarìen morti di sì tristo fato,
Che fino ai Saracin dolse e fu ingrato.
Già poco fa cantando io vi dicea
Come Nalduccio ed il forte Orlandino
La turba maganzese percotea;
E benchè fosse in numero piccino
Lo stuolo Franco, di tal ira ardea
Contro di Gano perfido assassino
E la sua gente, che sopra il lor dosso
Menavano le mani a più non posso.
Ma quando fra di lor voce si sparse
Che i due guerrieri che facean prodigi,
D'Orlando e di Rinaldo, che il foco arse,
Erano i figli che uscir da Parigi
Nella età loro di giudizio scarse,
Perchè a Carlo non vollero esser ligi,
Preser tanto coraggio e tanto ardire,
Che Gano stesso si mise a fuggire.
Era vestito il traditor di nero,
E del bosco cacciossi entro il più folto;
E quivi dismontato dal destriero,
Tutto di fango si coperse il volto.
Ma Rinalduccio con occhio cerviero
Gli tenne appresso, e lo raggiunse; e involto
In duri lacci, e timido e piangente
Lo strascinò tra la Francesca gente.
[267]
Chi immaginar può mai le strida e gli urli,
E il continuo gridare: Impicca, impicca?
Onde a silenzio non ponno ridurli;
Del che Nalduccio quasi se ne picca,
Ma nol dimostra, e par che se ne burli.
Pur, che tacciano omai, col volto ammicca;
E fattosi silenzio, prese a dire,
Come giusto era il far costui morire,
Ma in mezzo di Parigi, e non in quella
Romita valle, e solo al mondo chiara
Per l'opra sua tanto spietata e fella.
Ed una gabbia intanto si prepara
Tutta di ferro, ed ivi si suggella
Il traditore, a cui par cosa amara;
Tanto più che l'aveano dispogliato,
E stava in gabbia come egli era nato.
E perchè non dibatta il capo iniquo
Ne' duri staggi, e se lo rompa o schiacci,
Di sopra i ferri ed anche per obliquo
Lo fascian bene di lanuti stracci:
E bench'ei fosse per etade antiquo,
Bisogna ci si accomodi e là stiacci
Com'egli puote. Intanto ognun che vuole,
Lo tormenta con fatti e con parole.
Vi fûro alcuni che saliron sopra
A quel gabbione, e vi fecero stabio;
Altri di sputi avvien che lo ricopra:
Nè per questo il meschin pur apre labio,
Ma tutti i suoi pensier mette sossopra;
Chè vede bene senz'altro astrolabio,
Che questa è la vigilia d'una festa
Vergognosa per lui, dura e funesta.
[268]
E vuol provar, s'egli piangendo possa
Intenerire i cuori inferociti;
E dice lor che in una oscura fossa
Lo gettino tra i corpi abbrustoliti;
Chè giusto è ben che lì la carne e l'ossa
Lasci ancor ei, ove i baron traditi
Lasciâr le loro per la sua tristizia:
Che di ciò in ciel forse n'avran letizia.
Ma scuote il capo Rinalduccio, e grida:
Fuor di Parigi non s'ha a far la festa;
E lì farem che Carlo in cielo rida
Con la sua gente che ti fu sì infesta,
Quando vedrà che un canapo t'uccida,
O il boja ti dia un maglio in su la testa,
O t'arda vivo, o ti tragga le cuoja,
E poscia t'unga con la salamoja.
Ed Orlandino: Dentro a questa gabbia
(Ripiglia, e tutto per l'ira tentenna)
Verrai con tuo dispetto e con tua rabbia
Ad essere il trastullo della Senna:
Nè forse in mare sarà tanta sabbia,
Quanti avrai tu sopra la tua cotenna
E pugni e calci e sassate e strapazzi
Dagli uomini, dai vecchi e dai ragazzi.
La Fama intanto senza mai fermarsi
Ita da Roncisvalle era a Parigi,
E detto avea come traditi ed arsi
Erano i Franchi, e che pure i vestigi
Di Carlo e Orlando non potean trovarsi;
E che Rinaldo, che tanti servigi
Prestati a Carlo e a tutto il mondo avea,
Esser morto egli pure ognun credea;
[269]
E che di questo tradimento infame
Erano stati Gano e i Maganzesi
Gli empj architetti, per torre il reame
A Carlo, e regnar egli in que' paesi:
E disse ancor le scellerate trame
De' padiglioni e de' barili accesi;
E infin concluse che ciascun soldato
Era con Carlo per aria volato.
A questo spaventevole romore
Tutta Parigi si colmò di pianto;
E il palagio assalîr del traditore,
Gli diero fuoco, e l'arser tutto quanto
Con la moglie, co' figli e con le nuore:
E poi per ogni via, per ogni canto,
Per ogni luogo con ira e baldanza
Cercavano la gente di Maganza;
E quanti ne incontravano a ventura,
Tanti eran morti. Or mentre il popolazzo
Si vendica di Carlo a dirittura,
Chiamò Ulivieri nel regal palazzo
I nobili a consiglio, che procura
Levar la Francia d'un grave imbarazzo:
E giunti che vi fûro, in suon modesto
Prese a parlare, e il suo parlar fu questo:
Il solo biancheggiar de' miei capelli,
Che fa ch'io passi tutti voi negli anni,
È la cagion che a consiglio vi appelli
Per dar rimedio a' sovrastanti danni;
E fa che ancor primiero io vi favelli,
Se ben vegg'io sopra cotesti scanni
Molti seder, che dalle bocche loro
So certo che uscirìan torrenti d'oro.
[270]
Ma per seguir l'usanza, e perchè sia
Pace tra noi, e l'invidia non guasti
Dell'opra il meglio, io dirò dunque in pria.
Noi siamo, o Franchi, senza re rimasti,
E senza il fior della cavallerìa.
Gan di Maganza, senza usar contrasti,
Ma con astuzia ancora non udita,
Come sapete, li privò di vita.
Se il forte Orlando non restava estinto,
O se Rinaldo ancor fosse tra' vivi,
Ognun di voi per naturale istinto
Gli andrebbe incontro con rami d'ulivi,
E lo vorrebbe di corona cinto,
Perchè non sol di Carlo si ravvivi
Ne' suoi cugini il nome e la memoria,
Ma il senno ancor, la maestà, la gloria.
Or questi già son morti, e non rimane
D'Orlando altro che un figlio; e questo figlio
È giovin troppo, ed in terre lontane
Fa belle prove, e non teme periglio.
Un figlio ancor v'è di Rinaldo; e in strane
Guerre si trova, e il core ha fermo e il ciglio;
Ma la guerra altro vuole, altro l'impero:
Quella vuol braccio, e questo vuol pensiero.
La troppa giovinezza non è atta,
Non che a reggere altrui, neppur sè stessa;
Chè volentieri quell'età s'adatta
A cacciar fere nella macchia spessa,
E di sudore e polvere s'imbratta
Nelle palestre; ed è sovente oppressa
Da crudo amore, e piena di speranza
Non guarda mai le cose in lontananza.
[271]
Nè la molta vecchiezza pure è buona
Per sostenere un così grave incarco;
Chè il vecchio s'avvilisce e s'abbandona
Ne' casi avversi; e, nello spender parco,
Fugge le guerre: a chi più porta e dona,
Vende i favori; e di miserie carco
Vie più che d'anni, lascia del reame
Le briglie a qualche reo ministro infame.
In quanto a me (se debbo, come soglio,
Dir quel che sento) pel pubblico bene,
La corona di Francia a dar m'invoglio
A Ricciardetto, in cui tutto conviene
Ciò che si cerca. In lui fasto nè orgoglio
Alberga, e l'ira a ragion parte e viene:
È giusto, è generoso, ed ha nel core
Per Francia e tutti noi un sommo amore.
Le belle imprese poi, e la costante
Data fede da lui e conservata
Alla Cafra donzella in tante e tante
Battaglie e affanni, son cagion che grata
La sua persona ella m'è più, tra quante
N'abbia la terra quanto è lunga e lata;
Chè l'animo gentil suole di raro,
Anzi non mai, altrui mostrarsi amaro.
S'aggiunge ancor la voce che si è sparsa
Guari non è per queste nostre bande,
Che Cafria tutta (e non è mica scarsa
Parte di Libia, e cose ha memorande)
Gli sia soggetta, e la bollente ed arsa
Mauritania, ed il Nilo che si spande
Per sette vie, e l'Etïopia intera:
Nè credo esser la Fama menzognera.
[272]
Ma perchè non si vuole fare in fretta
Una grand'opra, la qual fatta poi
Non può disfarsi, la più chiara e schietta
Cosa che fare adesso dobbiam noi,
Credo che sia spedire una staffetta
In quelle parti, o qualcuno di voi;
E mostrare per ora al buon Ricciardo,
Quale abbiamo per lui stima e riguardo.
Qui si tacque Ulivieri; e gran bisbiglio
Quinci s'udì per tutta la gran sala,
E ad una voce proruppe il Consiglio:
Nostro re sia Ricciardo. E si propala
Tosto la nuova, e va di padre in figlio,
E l'afflitta città si mette in gala;
Ma più s'accrebbe l'allegrezza, quando
Giunse Nalduccio ed il figliuol d'Orlando.
E dietro lor veniva strascinato
L'iniquo Gano; e dietro a Gano involti
In nero manto d'argento trinato
Carlo e i due paladini arsi ne' volti.
Ma vo' colà tornar, dove lasciato
Ho Ricciardo ed Ulasso d'ira stolti,
Che disfidati si sono a duello,
Ed avvi a restar morto o questo o quello;
E di chi vince fia Despina il premio.
Ora pensate voi con che bravura
Alla lor pugna essi daran proemio.
Già fortissimi egli eran per natura;
Ma come il vino avvalora l'astemio,
Se ne beve talor per avventura;
Così l'amor, che instiga entrambo a morte,
Fa l'uno e l'altro più feroce e forte.
[273]
Era Ulasso di razza di giganti,
Ma non di quelli così lunghi e grossi
Che udiste, donne, nei passati canti:
Avea la barba ed i capelli rossi
(Color non visto in quei paesi avanti,
Dove son neri infino i pettirossi),
Piccioli gli occhi ed ischiacciato il naso,
E i labbri come gli orli d'un gran vaso.
La sua statura ella era poco meno
Di dieci braccia; e quattro uomini insieme
Appena appena cinger lo potrièno.
Sommo era il suo valor, sue forze estreme:
Svelleva i pini come fosser fieno;
E a grossa pietra, quasi a picciol seme,
Dando un buffetto, la faceva andare
Di là da' monti, e ancor di là dal mare.
Arimodìa di poi (quella meschina
Che si gettò nell'acque, e che fu pasto
Di bue, oppur di vitella marina)
Fe' di metalli un così forte impasto,
Ch'è duro più di pietra diamantina,
E ne coprì quel corpo suo sì vasto
Da capo a piedi; e gli diè lancia e spada,
Che Dio ne guardi dove avvien che cada.
Ed all'incontro il nostro Ricciardetto
Era di bella e di giusta misura;
Ma la sua spada ha il taglio più perfetto,
Ed ha fatata tutta l'armatura
(Conforme molte volte v'ho già detto)
Con tale incanto, che la fa sicura
Da qualunque arma e qualunque percossa;
E venga pur con impeto e con possa.
[274]
Gettan le lancie, perchè sono a piedi,
E dan di mano alle spade taglienti.
Chi ha gusto allo schermir, legga Tancredi
Nel Tasso, allora che punte e fendenti
Tira ad Argante, e a lui grida: A me cedi.
Perchè questo mio par di combattenti
Si batton nella forma che il villano
Batte su l'aja la saggina o il grano.
E a dirla schietta, allor vale la scherma,
Che cosa non abbiam che ci ricopra,
Onde passa la spada e non si ferma.
Ma quando tanto ferro abbiam di sopra,
Che una spingarda è debole ed inferma
Per farci male, chi la scherma adopra,
Non ha cervello, e danno non vuol fare
Al suo nemico, e lo lascia campare.
Ma questi due che pugnan per amore,
Che fa far cose strane agli animali,
E li empie d'un insolito furore,
Botte si danno dure e bestïali,
Che metton tutto il paese a romore.
Dove hanno fine i ferrati stivali
D'Ulasso mena il ferro Ricciardetto,
Che vuol troncargli le gambe di netto.
E Ulasso mena a lui sopra la testa,
E fabbro pare che batte la mazza.
Ogni percossa a Despina è molesta,
E grida: Adesso il traditor l'ammazza.
Ma Ricciardo ancor ei pur suona a festa,
E dagli una percossa così pazza,
Che lo disgamba in men d'un batter d'occhio,
E resta Ulasso misero in ginocchio.
[275]
D'aver perdute ei già non si credette
Le gambe; ma che il suol smottato fosse:
Onde d'animo nulla si perdette,
E seguitava a dar nuove percosse.
Ma quando vide che le verdi erbette
Per molto sangue si facevan rosse,
E vide al suol recise le sue gambe,
Urlò per ira, e disse cose strambe.
In questo mentre segue Ricciardetto
A martellarlo, e non piglia respiro:
E perchè non può giungerlo all'elmetto,
Lo percuote ne' fianchi acerbo e diro,
E già gli ha rotto il ferro sì perfetto:
Onde di punta con un colpo miro
Lo fere, e il cor gli passa; e il disgraziato
Cade, e resta senz'anima sul prato.
Al suo cader, senza guardare a' patti,
Salta addosso a Ricciardo ogni Pagano.
Malagigi e Despina già ritratti
Si son nel chiuso, e Lirina han per mano.
Ricciardo tira rovesci da matti,
E monta sopra il suo destrier sovrano,
E fa cose sì rare, che in poche ore
Resta di tutto il campo vincitore,
In quel numero grande, anzi infinito
Di combattenti che gli fûro addosso
E restâr morti, si trovò ferito
Lo Scricca, e del suo sangue tutto rosso.
Onde Ricciardo, cavalier compito,
Sol per Despina alla pietà commosso,
Prender lo fece, e in dono a lei lo diede,
Benchè la morte fosse sua mercede.
[276]
Despina nelle sue candide braccia
L'accoglie, gli fa cuore e lo consola,
E gli cura le piaghe e glie le allaccia:
Ed egli a lei fa giuro e dà parola
Di purgar tutta la passata taccia
Nell'avvenire; e un laccio nella gola
Si prega, s'egli manca a' detti suoi,
O che il mar l'assorbisca, o il suol l'ingoi:
E la parola fu, che a Ricciardetto
La dava in moglie, e la sua Cafria in dote.
Frattanto viene sonando un trombetto,
E chiede udienza, e dice in tali note:
Signor, vi ha tutta l'Etiopia eletto
In suo monarca; e le genti devote
Vengono per vedervi e farvi omaggio,
Come a prode guerriero e baron saggio.
Ricciardetto sorride, e gli comanda
Che dica pure a' popoli soggetti,
Che quel che in dono a lui da lor si manda,
Era già suo; e che ne' regj tetti
Sarìa venuto; e lor si raccomanda
Con dolci modi e con soavi detti.
Parte l'araldo, e spande in quanti trova
Una sì lieta ed impensata nuova.
Frattanto il padre di Despina bella
Ritorna in forze, e del tutto risana,
Ed in tal modo a Ricciardo favella:
Signor, v'offesi con la mente insana,
Che un'opra mi fe' far cotanto fella;
Ma per essere voi di Fè cristiana,
Io Saracino, usai tutto l'ingegno
Per tôrvi il caro mio unico pegno:
[277]
Chè mi credea tirarmi addosso l'ira
de' nostri Dei con questo parentato.
Ma veggio adesso come si delira
Da chi venir non vuol dal vostro lato.
Il vostro Dio è di potenza mira;
I nostri sono vili e senza fiato.
Però non sol vo' darvi il sangue mio,
Ma voglio in breve battezzarmi anch'io.
Sia benedetto Cristo in sempiterno,
Dice Ricciardo, che ci fa tal grazia;
Ma guarda che si accordi con l'interno
Ciò che tu parli. E quegli lo ringrazia,
E giura che non mênte; e che d'Averno
Una Furia di quelle che più strazia,
Gli venga sopra e lo mandi in rovina,
Se col suo cuor la lingua non confina.
Dal Monotopa erano già venuti
Ragazzi e vecchi e belle giovinette;
Chi con crotali, cetere e lïuti,
Chi con chitarre, vïole e spinette.
Avevan fiori sopra i crin ricciuti,
Nudi del tutto, e sol certe fascette
Avevano davanti, per coprire
Quello che abbiamo, e che non s'ha da dire.
Onde Ricciardo a Despina rivolto,
Andiamo, disse, se pure t'aggrada,
A Zimbaóe, dove si sta raccolto
Il fiore dell'impero (eccelsa e rada
Cittade è questa), e quivi al tuo bel volto
Crescerò pregio per illustre strada
Con pôrti in testa la real corona,
E intitolarti d'Africa padrona.
[278]
E a lui Despina: Dolce mio signore,
Purchè vostra mi trovi, altro non curo.
E chiamato fra loro il genitore,
Fermano la partenza il dì venturo.
Era nella stagion che regna Amore,
E lampeggiando van per l'aere oscuro
Le lucciolette, che son de' fanciulli
I più soavi e semplici trastulli.
Voglion per altra via fare il cammino,
Chè andar con tanta gente a lor non piace;
E prendono per guida un contadino
Pratico di que' luoghi e assai capace.
Va Malagigi sopra d'un ronzino,
Lirina sopra un bel destrier vivace;
Sul suo cavallo egregio Ricciardetto,
Tutto ricolmo di letizia il petto.
Lo Scricca pur cavalca, ed al suo fianco
Stassi Despina sopra un bel cavallo:
Tiene egli il destro loco, ed ella il manco.
Il villanello, acciò non faccian fallo
Nel cammino, va innanzi ardito e franco;
E Malagigi, il quale ha fatto il callo
Ne' casi avversi e negli aspri cimenti,
Lo segue per scoprire i tradimenti.
Zimbaóe da loro era lontana
Trecento miglia; e il paese deserto
Lor fea temer di qualche cosa strana.
Sul mezzogiorno in un bel prato aperto
Preser riposo appiè d'una fontana,
Chiara sì, che il cristal vincea del certo;
E quivi da' canestri trasser fuore
Pane e vivande d'ottimo sapore.
[279]
Finito il pranzo, per fuggir del Sole
I caldi raggi, che colà son fieri,
In su quell'erbe sparse di vïole
Stesersi all'ombra de' diritti e neri
Cipressi; e posto fine alle parole,
Diedersi al sonno tutti volentieri.
Dal suo destrier disceso ancor Ricciardo,
Volle dormire senz'altro riguardo.
Melena, d'Arimodia ultima figlia,
A cui la madre insegnò l'arte tutta
Di comandare all'infernal famiglia,
Dal dì che fu la sua magìa distrutta,
E si fuggì con tanta maraviglia
Despina dalla rocca, e restò brutta
Sua madre sì, che si morse le mani,
E gettò strida ed urli acerbi e strani;
(Torno a dir) da quel dì si mise in core
Di far su' Franchi una crudel vendetta;
E le crebbe la rabbia ed il rancore,
Quando il diavol portolle per staffetta
Che sua madre era andata al Creatore.
Onde d'Egitto si partì con fretta,
E portò secò pignatti ripieni
Di grasso umano e di varj veleni:
E visto ben che per virtù d'incanti
Avrìa contro lui fatto o poco o nulla,
Portossi quasi a dire in pochi istanti
Colà, dove per nebbia il Sol s'annulla,
Dico nella Cimmeria; e al Sonno avanti
Tostò n'andò la pratica fanciulla:
Ma prima bevve del caffè di molto,
E si lavò con l'acquavite il volto.
[280]
Appiè della Meotide palude
In faccia dell'Eussino, al destro lato
Evvi una grotta boschereccia e rude,
E d'edera coperta in ogni lato:
E intorno intorno la circonda e chiude
Fatto d'abeti e fonti uno steccato;
Ma le fonti hanno tarde e scarse l'onde,
E sempre susurrar s'odon le fronde.
Il Silenzio con suola di velluto,
Ignudo, ma peloso come un orco,
Va per la grotta con l'orecchio acuto.
Una vescica di strutto di porco
Tien nella destra, e sopra il non barbuto
E mento e labbro di quel grasso sporco
Tiene un dito, col quale ugne bel bello
Della grotta ogni toppa e chiavistello.
In su l'entrata stava una grassaccia,
Madonna Accidia da' Greci chiamata,
Che appena per mangiare alza le braccia.
Stassi a sedere tutta rannicchiata,
E con le mani si regge la faccia,
Si stira ed isbadiglia alcuna fiata;
Ed ha d'attorno, in vece di cagnuoli,
Marmotte e tassi e sorci moscaruoli.
Un verde, molle e crespo capelvenere
Tutto copriva il fondo della grotta,
Talchè pareva andar sopra la cenere;
E quindi si vedeva ad otta ad otta
Da' placidi papaveri e da tenere
Lattughe per i fianchi circondotta
L'opaca stanza; e due branche di scale
Erano in fondo di grandezza eguale.
[281]
I gradini di queste eran formati
Tutti di code di volpacce antiche:
Che se per sorte di Francesco i frati
Con que' lor legni alle piante mendiche
Vi fosser sopra una volta montati,
Forse meno romor delle formiche
Vi avrebber fatto: e delle scale in fine
Eran due porte d'un bel marmo fine.
Ma l'una bianca e l'altra negra ella era:
Ed uscivan da lor cose sì strane,
Da far paura infino all'Aversiera.
Perchè vedevi con testa di cane
Uscire una fanciulla, ed una fera
Che avea del pesce e delle membra umane;
Sanguinosa la luna, il sole spento:
In somma orride cose ogni momento.
In mezzo a queste due diverse porte,
Sopra un gran marmo si stava disteso
Il placido fratello della Morte.
Vicino al capo aveva un corno appeso,
D'onde ne uscivan le sembianze storte;
Che sono quelle poi, conforme ho inteso,
Che noi chiamiamo sogni, che ci danno
Dormendo spesso o piacere od affanno.
Incrocicchiate l'ali avea sul petto,
Ed una verga nella bianca mano,
Con cui, qual tocca, fa dormir di netto,
E d'acqua pura un ampio vaso e strano;
Che appunto è quell'umor tanto diletto,
Che su' nostri occhi gocciando pian piano
Li chiude; e in chiuder quelli, affatto scioglie
Le membra tutte, e il vigor suo lor toglie.
[282]
Melena di quell'acque zitta zitta
Empie una fiasca, e se la batte via;
E con la mano manca e con la dritta
Le lattughe a strappar non è restìa;
Ed in Africa quindi si tragitta,
E al Monotopa subito s'invìa;
E vi giunse in quel punto, in quel momento
Che Ulasso da Ricciardo restò spento.
Ebbe a morir la misera di pena,
Chè assai tempo era che l'amava molto;
Ed egli in quella d'alto incendio piena
Gioventù prima ardéo sì del suo volto,
Che tutto il piacer suo era Melena:
E benchè già da lei si fosse sciolto,
Ed un'altra l'avesse in sua balìa,
Ella pur n'era pazza tuttavìa.
Onde arrabbiata ad ispïar si mise
Di Ricciardetto i moti ed i pensieri;
E ad un folletto il carico commise,
Di quegli avvezzi a star per i quartieri;
E questi riportolle le precise
Parole di Ricciardo, e quai sentieri
Voleva fare: ond'ella prestamente
Corre a quel fonte d'acqua rilucente;
E fra l'erbette del ridente prato
Versò dell'acqua, e la lattuga sparse:
Poi della fonte s'ascose in un lato,
Ferma qual sasso, infin che non comparse
Despina e il buon Ricciardo sventurato.
Di sdegno alla lor vista subito arse,
E sturò il fiasco, e lo versò bel bello
Nel vago limpidissimo ruscello.
[283]
Onde n'avvenne poi quel sonno strano
Ch'io vi diceva. Or mentre che si stanno
Dormendo, prende Despina per mano,
E se la reca in spalla, e con affanno
Un demone ambedue porta lontano.
Ma forse alcuni adesso mi diranno:
Perchè a Ricciardo e agli altri non fe' nulla,
E se la prese sol con la fanciulla?
A dirla schietta, ci ho pensato anch'io;
Ma in questo ho ritrovato molto sale:
Perchè s'io ammazzo alcun nemico mio,
Certa cosa è che gli faccio del male;
Ma non quel male sì crudele e rio
Che fo in lasciarlo in un'aspra e fatale
Misera vita; come quella strega
Lasciò Ricciardo, che il sonno ancor lega.
E perchè i' so di certo che destato
Egli darà ne' lumi, e farà cose
Da mettere a romore il vicinato,
Io farò quello che Caton propose,
Cioè me n'anderò 'n un altro lato;
Chè odio di star con le genti rabbiose:
Ancorchè in questo caso il giovinetto
Non debba, se s'infuria, esser corretto.
Noi lasciammo Nalduccio ed Orlandino
Ch'entravano in Parigi, e dietro a loro
Lo scellerato Gano malandrino
Nella ferrata gabbia; e con decoro
Il morto Carlo e ogni altro paladino;
E lo seguiva un mesto ed ampio coro
Di preti e frati e vescovi primaj,
E di duchi con lunghi e neri saj,
[284]
Che molte miglia ad incontrar l'andaro.
Il pianto di Parigi era infinito,
E pianto vero; chè troppo era caro
Carlo a ciascuno. In lui piangea finito
Ogni conforto, ogni stabil riparo
Nelle miserie; e con lui seppellito
Il giusto, il buono, il bello della Francia,
E l'onor della spada e della lancia.
Le verginelle in lui piangean perduto
Quel pietoso rigor con cui punìa
De' giovani l'ardire: in lui l'ajuto
Piangeano i vecchi in misera armonìa,
Per cui ognun di loro sovvenuto
Era ne' gran bisogni: in fin s'udìa
E quinci e quindi un misero concento
Di sospir tronchi e di lungo lamento.
Ma chi dirà le strida ed i singhiozzi
Che fecer per Rinaldo e per Orlando?
Io credo che averìa ripieno i pozzi
Il pianto che da loro iva sgorgando.
E chi narrava i fracassati e mozzi
Capacci de' giganti col lor brando;
Chi le vinte cittadi e i regni interi,
Le acerbe guerre e i fatti illustri e alteri.
Alla chiesa maggior con questo treno
Portati fûro i nobili defunti;
E soddisfatto alla pietade appieno,
Fûro i lor corpi imbalsamati ed unti.
Poscia alzata bell'urna in sul terreno,
In essa li serrâr così congiunti;
E scrisse l'arcivescovo piangente
Quest'epitaffio sul marmo lucente:
[285]
«Stassi in quest'urna il cenere sepolto
Di Carlo Magno, e del signor d'Anglante,
E di Rinaldo: e stassi insieme accolto.
Perchè insieme li uccise un reo furfante.
Non si scrive di lor poco nè molto;
Chè non vi è penna al lor merto bastante.
Il mondo tutto appena può capire
Quel che di loro si potrebbe dire».
Ciò terminato, ognun col capo basso
Ritorna a casa, e con la sua famiglia
Dura a lagnarsi, e bandisce ogni spasso.
Ma perchè del dolor suol esser figlia
L'allegrezza, e dal duol si fa trapasso
Al piacer senz'alcuna maraviglia;
Chè la natura umana è fatta in guisa,
Che si mantien di lagrime e di risa;
Incominciaro a far baldorie e feste
Per Ricciardetto nominato al regno;
E le donne di fuor si ornâr le teste,
E col ballo e col canto dieder segno
Del piacer loro; e con la bianca veste
La gioventù brïosa alzò l'ingegno
A giostre ed a tornei, a corse e a lotte,
E i letterati a versi e a prose dotte.
Il Consiglio reale il dì prefisse
Della sua morte al traditor di Gano;
Lo quale attese appena che finisse
Il popolaccio ad empiere ogni vano
Della gran piazza, dove stavan fisse
Due colonne di ferro: ivi pian piano
Fu posata la gabbia, in cui si stava
Gano, che dal timor tutto tremava.
[286]
I sassi, le immondizie e le lordure
Che la gentaglia gli scagliava addosso,
Fûro infinite; e di parole impure
E motteggianti n'ebbe a più non posso.
Un carro alfin di legna secche e dure
Con un saccone di capecchio indosso
Menò sotto la gabbia il giustiziere,
E diegli fuoco; e ognun n'ebbe piacere.
Strideva l'infelice, e saltellava
Come un ranocchio per la chiusa gabbia:
Ma il fuoco e il fumo sì fiero s'alzava,
Che gli chiuse il respiro in fra le labbia:
Ond'egli cadde, e tanto sgambettava,
Finchè la fiamma lo levò di rabbia
Con dargli morte; ed in pochi momenti
Cener lo fece, e sel portaro i venti.
Così finì con lui l'empia genìa
Che al buon sangue di Carlo fu molesta;
E ritornò in Parigi l'allegrìa;
E i due cugini fecer sì gran festa,
Che Apollo stesso dir non la potrìa
Con cinque Muse, nè men con la sesta,
Nè con l'ottava ancor, nè con la nona,
Nè con tutto il dottissimo Elicona.
Corese poi e la gentile Argea
Eran guardate da que' Parigini
Con tal piacer, ch'ognun se ne struggea.
Chi le chiamava due parti divini;
Chi figlie almen d'un uomo e d'una Dea:
E da per tutto saluti ed inchini
Avevano; ed or questo, or quel parente
Faceva loro qualche bel presente.
[287]
Quindici giorni stettero in piacere,
In festa e in giuoco e cavalieri e dame;
Quando in Consiglio postisi a sedere
I due cugini, con saggio dettame
Disse Nalduccio: Io sono di parere
Di cercar della Libia ogni reame,
Per ritrovar Ricciardo il nostro sire,
E qua condurlo, o pur per lui morire.
Ed Orlandino: Io sarò tuo compagno
(Riprese), e questo fia miglior consiglio;
Nè sole o gelo, od ampio lago o stagno,
O monte o fiume, o qualunque periglio
Faranno sì che l'animo mio magno
Dall'impresa s'arretri. Io sono il figlio
Del signore d'Anglante, e serro in petto
Cuor che a timore non sa dar ricetto.
Lodaro i vecchi consiglieri e tutti
Il generoso ardir de' due campioni;
Ma non tennero mica gli occhi asciutti
In privarsi di giovani sì buoni.
Subito a casa lor si fur ridutti,
E mangiati alla peggio due bocconi,
S'armaro, e quindi per l'uscio dell'orto
Scappâr di casa, e s'invïaro al porto.
Ciò che dissero poi le donne loro,
Il Garbolin lo passa in pochi versi,
Con dir che si strapparo i capei d'oro,
Che si svennero e stiero a rïaversi
Un mezzo giorno; e poi nel lido Moro
Ritorna, e narra i casi aspri e diversi
Che avvennero a Ricciardo; e dice cose
Strane così, che sembran favolose.
[288]
Ma sieno vere o false, io non le curo,
Purchè mi diano a leggerle diletto;
Perchè d'un tempo tanto antico e oscuro
Pazzo è colui che vuol saperne il netto.
Dotto pennello, e in l'arte sua sicuro,
Che ben colora un suo nuovo concetto,
O sia d'armi o d'amori, o pur di pace,
O pinga il falso o il vero, alletta e piace.
E di qui nasce il fior della bellezza
Di cui s'adorna sì la poesìa,
Che dà vita, dà forza e dà vaghezza
Al nulla; e da quel nulla tragge e cria
Ciò ch'ella vuole, e move ad allegrezza
Gli animi, oppure alla malinconìa:
Ancorchè noi sappiamo essere stato
Quel fatto che si narra, un bel trovato.
Ma il Sole omai si va tuffando in mare,
Ed io non voglio andar più fuor di strada.
Tornerò dunque di nuovo a cantare
Del mio Ricciardo e di sua forte spada:
Ma il canto adesso è ben di lasciar stare,
Perchè fa mal la notturna rugiada.
Domani poi all'apparir del giorno
Qui vi prometto che farò ritorno.
[289]
Si ha nuova di Ricciardo a un'osteria.
I due cugini uccidono il dragone:
Son ricevuti con gran cortesia
Nella spelonca del pastor vecchione.
Per non usata malagevol via
Salgon della Fortuna alla magione,
Pazza così nel dar onori e robbe,
Da far venir la rabbia ancora a Giobbe.
Non so se in questo canto, o in quel che viene,
Udirete cantar di Ricciardetto;
Chè un certo modo il Garbolino tiene,
Che spesso inganna per dar più diletto:
Onde ciò che promette, non mantiene.
Ma questo è al parer mio lieve difetto,
E forse forse egli merita lode,
Se della varietate è ver ch'uom gode.
Or seguitando i scartafacci suoi,
Egli racconta come giunti in porto
I due cugini, i due famosi eroi,
Entraro in barca; e la sinistra all'Orto
Piegaro, per rivolgere dappoi
Là dove il mar di Spagna divien corto,
La prora in faccia della Barberìa:
E in poco tempo fecer molta via.
[290]
Presso Biserta presero terreno;
E comprati due nobili destrieri,
Che sparivan di vista qual baleno,
La notte si fermâr da un buon ostieri;
Dove trovaro un vïandante Armeno
Che sospirava, e di tristi pensieri
Era sì grave, che stava in un canto,
E dava spesso in un dirotto pianto.
Nalduccio se gli accosta, e lo richiede
Della cagion di tanto suo dolore.
Ed egli: Della mia tradita fede
A ragione mi dolgo tutte l'ore;
Chè prima a me, e ad altri poi si diede
La bella donna c'ho sempre nel core;
E vo pel mondo misero e tapino,
Poichè addolcir non posso il mio destino.
L'oste, che udì del buono Armeno i detti,
S'altro mal tu non hai, ridi, gli disse:
Le donne non son già case coi tetti,
Che stieno sempre ferme e sempre fisse.
No' abbiamo i nostri, ed esse i lor difetti;
E mal di noi e mal di lor si scrisse:
E se questa ti ha fatto un tiro infame,
Tu pure avrai ciò fatto a molte dame.
La donna, fratel mio, è un animale
Senza cervello e pieno di malizia,
Non serva mezzo o nel bene o nel male;
Vo' dire nell'amore o nimicizia.
Sospettosa, superba, e sì bestiale,
Che la scanna l'invidia e l'avarizia;
E finta sì, che chi fede le presta,
Meriterebbe un maglio in su la testa.
[291]
Non ti pensar col farle benefizio
Di farla tanto tua, ch'altri non voglia;
Chè pellegrin non cerca sì d'ospizio,
Nè medico di febbre o d'altra doglia,
Come ogni donna ha il maledetto vizio
Di volerne più d'uno: e sì t'imbroglia
Con le dolci parole e i dolci vezzi,
Che ancor che ti tradisca, l'accarezzi.
Però di così trista mercanzìa
Non ti lagnar se tu ti vedi privo.
Io diedi in testa alla mogliera mia,
Per troppa gelosìa fatto corrivo,
E piansi molto; poi tanta allegrìa
N'ebbi, che sempre mi vedrai giulivo;
Chè catena, fratello, di mogliera
Un zucchero sembrar fa la galera.
Taci, disse Orlandino, oste furfante;
Chè cosa santa ella è tener mogliera.
Ed all'Armeno con dolce sembiante
Disse: Prendi conforto, amico, e spera
Che altra ne troverai ferma e costante;
E giacchè questa fu tanto leggiera,
È stato meglio che t'abbia mancato,
Prima che in sposo t'avesse pigliato.
Perchè quando elle son di certa razza,
Tristo a colui che ne divien marito:
Perchè fa male assai s'egli l'ammazza;
E se sta cheto, egli è mostrato a dito,
Ed è il divertimento della piazza.
In somma incerto sempre è di partito,
E fa una vita peggiore di morte.
Però sta lieto, e al duol serra le porte;
[292]
Chè il tempo è gran conforto, anzi sicura
E sola medicina per gli amanti;
Sì perchè vuol sollievo la natura,
Sì ancor perchè degli amati sembianti
Di giorno in giorno lo splendor s'oscura:
Ed io ne ho visti pur tanti e poi tanti
Di te più guasti sanare in tal guisa,
Ed ogni affanno lor volgere in risa.
Ciò detto, a mensa Rinalduccio il chiama,
Ed egli a forza lo stranier vi mena,
E disse: Or lascia ogni pensier di dama;
Chè il nostro amore ha da esser la cena.
L'Armeno allora quell'afflitta e grama
Cera depose, e la mostrò serena;
E finito il mangiar, Naldo il richiese,
Se quivi nuove di Ricciardo intese.
Ed egli, Molte, gli soggiunse; e penso
Che in breve tutta Libia avrà soggetta;
Sebbene Ulasso con potere immenso
Fama è che giva ad assalirlo in fretta.
Ma non potrà da lui essere offenso,
Avendo un'armatura sì perfetta,
Ed una spada ed un cavallo tale,
Che più a Marte che a lui lo fanno eguale.
Io però non gl'invidio e queste e quelle:
Gl'invidio solo la candida fede
Che serba a lui il fior delle più belle,
L'alma Despina, in sul cui volto siede
Venere e il figlio con tutte le ancelle.
Fortuna tale ogni fortuna eccede.
E qui tornossi a perturbar l'Armeno,
Ed acchetossi, e piegò il mento al seno.
[293]
Andiam, disse Nalduccio ad Orlandino,
Andiamo a letto, ch'egli è tardi molto,
E ci dobbiam levar di buon mattino.
E ciascun quindi all'Armeno rivolto,
Soffri, gli disse, l'aspro tuo destino,
Che non sempre averà lo stesso volto;
Chè tale oggi s'affanna e si conquide,
Che domani s'allegra e scherza e ride.
Ciò detto, se n'andaro al quartier loro;
E a sè chiamato l'oste, e fatti i conti,
Gli dier di Spagna una dobola d'oro;
Talchè baroni li chiamava e conti
L'oste, cui parve d'avere un tesoro.
Gli aggiunser poscia, che sellati e pronti
Fossero all'alba i bravi lor destrieri;
Ed a dormir si miser volentieri.
A mala pena si vedeva lume,
Che abbandonaro i destri giovinetti
Le dolci sì, ma neghittose piume;
E montati su i lor destrieri eletti,
Atti a guadare ogni rapido fiume,
Uscîr dell'osteria soli soletti,
E verso il Mezzodì preser cammino
Tra il Mauro Tingitano e l'Algerino.
Molte le cose fur che a lor successero,
Che sarebbe pazzìa volerle tutte
Narrar per filo, e dir come accadessero.
Infiniti contrasti, acerbe lutte
Ebbero; e sempre vittoriosi ressero:
Chè se ben madre delle cose brutte
Africa è detta, ed ha bestiacce immani,
Essi avean più ardire e miglior mani.
[294]
Una però ne trascerrò fra tante
Che qui tralascio, orribile per certo,
E che sola per più sarà bastante.
Entraro una mattina in un deserto
E negro bosco presso il monte Atlante,
Che si teneva il Sol chiuso e coperto
Con le grandi ombre de' rami frondosi,
Che lor venìan tutti i sentieri ascosi.
Pure alla fine sboccaro in un campo,
Ove bassi ginepri e molta arena
Ai piè de' lor cavalli eran d'inciampo.
Quivi un dragone, come una balena,
Dalla bocca e dagli occhi acceso lampo
Gittando stava; ed una gran leena
Avea tra' denti, che pareva giusto
Un sorcio in bocca di gatto vetusto.
Si spaventaro, e posersi a fuggire
I cavalli, e si riser della briglia.
Ma in terra si lanciâr con molto ardire
I due cugini, e con turbate ciglia
Là ritornaro (cosa strana a dire!)
Ove il gran drago fea l'erba vermiglia
Del sangue che versava d'ogni banda
La sfortunata fiera e miseranda.
Si accorse appena della lor venuta
L'orribile bestiaccia, che ingollosse
La fera a un tratto; e così ben pasciuta
Su le zampe davanti altera alzosse;
E sibilando con la voce arguta,
L'ampia sua testa e le grand'ali scosse:
Poi con l'ali e co' piè sopra i garzoni
Andò, pensando farne due bocconi.
[295]
Dove il campo finiva e l'alta sabbia
Eranvi querce ed orni e lunghi pini:
E perchè importa che riguardo s'abbia
Questa coppia di forti paladini,
Per non entrarle nell'orrende labbia,
S'ascoser dietro a quelli; e a lei vicini
Si facevan talor, talor lontani,
Senza punto menar le forti mani.
Or dietro all'uno, or dietro all'altro il drago
L'immensa mole sua giva volgendo;
Ma or l'uno or l'altro di straccarlo vago
Di pianta in pianta s'andava ascondendo;
Talchè di bava aveva fatto un lago
Il fiero mostro, e veramente orrendo.
Con quest'astuzia in mezzo al negro bosco
Menâr la fiera grondante di tosco.
E mentre ella appoggiossi a un elce vecchio,
Disse Nalduccio: Caro fratel mio,
Vo' darle con la lancia in quest'orecchio,
E tu in quell'altro, e lasciam fare a Dio.
Ed Orlandino a lui: Io m'apparecchio
A far qualche bel colpo; e non son io,
Rispose, se non resta il mostro fiero
Piagato a morte, o morto daddovero.
Come per lizza corresi all'anello,
Così alle orecchie corser della fera
I due campioni, e fero un colpo bello.
Ma il suo orecchiaccio una caverna ell'era;
E se bene (incredibile a vedello!)
V'avesse fitta ognun la lancia intera,
Sul vivo la toccâr sì leggermente,
Che nè meno del colpo si risente.
[296]
Più tormentosa a noi mosca o zanzara
Certo si rende, che al dragone immane
Non fur quell'aste; e niun mi faccia tara,
Chè in Libia sono bestie troppo strane.
E se la voglia non costasse cara,
Direi: Andiamo in Africa domane
A scapricciarci ed a saperne il netto;
Ma non è mica come andare a letto.
Or creda pur ciascun ciò ch'egli vuole,
Che non m'importa, e seguitiamo a dire.
Di cotal fatto entro il suo cor si duole
La nobil coppia, ed ebbe a strabilire
Quando l'aste ritrasse asciutte e sole,
Che di sangue pensava colorire;
Onde disse Nalduccio ad Orlandino:
Per Dio, questo ha una testa come un tino;
Anzi piuttosto d'un qualche stanzone,
E le finestre sue son quegli orecchi;
Chè l'aste lunghe son sei canne buone
E grosse, e a lui parute son due stecchi;
E ancor che entrate tutte, quel ghiottone
Segno non fece pur che un lo punzecchi.
Ed Orlandino: Un caso come questo,
Non credo che si trovi in verun testo.
E quel che più m'accora, fratel mio,
Egli è che sonno gli abbiam conciliato
Con queste lance. Ed in fatti il mostro rio
Sopra il terreno si stava sdrajato,
Alto ronfando immerso in grande obblìo;
Ed in trar fuore e in ripigliare il fiato
Romoreggiava alla stessa maniera,
Che l'ampio mare in ria procella e fera.
[297]
Pel suo dormire assicurati entrambo,
In su la punta degli agili piedi
Givano, a guisa che va l'uomo strambo,
Intorno al mostro. Gli squamosi arredi
Disse Naldo in mirar: Vuol darci il giambo
Questo bestione, e allegrar nostri eredi:
Che in quanto a me, torcere a questo un pelo
Lo stesso par, che dare un pugno in cielo.
Orlandin non risponde, e guarda attento
Tutta la fiera che parea metallo;
E vede ove le branche han fondamento,
Che non giunge la squama, e sol vi è callo;
Onde disse: Mettiamoci al cimento,
E sarem vittoriosi senza fallo.
Ed impugnò la lancia, e con il dito
Fe' segno ov'ei restar dovea ferito.
Restava discoperta solamente
La destra branca, ed alta di maniera,
Che si potea percuoter francamente
Sotto di lei, dove sol callo egli era.
Onde ambedue con impeto possente
Vi spinsero la lancia acuta e fiera;
Per lo che l'aspro drago si riscosse,
E verso i due garzon ratto avventosse.
Ma già le lance lor tirate fuora,
Si andavano ascondendo infra le piante.
Urlava il mostro, e di sangue una gora
Gettava, e con la coda fulminante
E querce e pini egli abbatteva ognora;
Ma d'abbattere i due non fu bastante:
Così ben si sapevano schermire,
E render vani li suoi sdegni e l'ire.
[298]
Durò gran pezzo a inferocire il drago;
Ma pure a poco a poco infievolendo
(Chè già di sangue avea formato un lago)
Fermossi, e l'occhio velenoso orrendo
Girava attorno, desïoso e vago
Di veder per qual mano iva morendo.
Indi più volte mandò fuor suoi stridi,
Che uditi fur dagli uni e gli altri lidi.
In fine le gran branche egli distese,
Ed allungò la coda e perdè il moto;
Ma con tal puzza i cavalieri offese,
Che poco andò che in luogo sì remoto
Non restassero estinti. Li difese
Da quel periglio un qualche Nume ignoto
Che fe' destare un vento all'improvviso,
Che il grave lezzo scacciò lor dal viso:
Ed essi incontro a lui ratti ne andaro:
Ma l'alte piante e gl'intrigati rami
Gl'impedivano il passo; onde tagliaro
E quelle e questi, e monti di legnami,
Prima d'uscir, nella gran selva alzaro.
Usciti alfine, tapinelli e grami
Stavan, chè non avean di che cibarsi;
Onde insieme si misero a guardarsi.
Ed oh! l'è cosa pure acerba e strana,
E dura molto e tormentosa e ria
(Disse Nalduccio in voce fioca e piana),
Fratel, la fame! e ti direi bugìa,
S'io ti negassi che il ventre mi sbrana
Questa crudele. Ed ei: Come la mia
S'ell'è la tua, rispose, in men d'un'ora
Farà che tu di fame ed io mi mora.
[299]
Ed oh miseri noi, se in questa guisa
La dolce vita abbandonar dovremo!
Io mangerei di quella bestia uccisa,
Riprese l'altro, ma con ragion temo
Che tutta sia d'atro veleno intrisa.
Far dobbiamo però lo sforzo estremo
Per trovar case, o pur capanne o grotte,
Prima che venga tutta fuor la notte.
Giacchè ancor ci si vede, andiamo in fretta
Su quella assai piacevole collina.
Così dice egli; e van per linea retta
A quella volta, ed odono vicina
Cantar con voce boschereccia e schietta,
Non san se villanello o contadina.
Vanno inverso la voce, e di repente
Una donzella si fa lor presente.
Quale appena gli vide, che si ascose
In una tana, e non uscì più fuora,
Ed al forame della tana pose
Un ampio sasso; a cui Nalduccio allora:
Apri, disse, fanciulla. Non son cose
Queste da farsi a chi strugge e divora
L'acerba fame; e l'armi c'hai veduto,
Non ti saran d'oltraggio, ma d'ajuto.
Ed Orlandino: Giovinetta bella,
Apri, soggiunse, e non temer d'affronti.
E con la lancia sul sasso martella;
Ma sua ragione dice a' boschi, a' fonti;
Perchè la timidetta villanella
Faceva altri pensieri ed altri conti:
Che seco non aveva altri che un uomo,
E quello ancor per troppa età già domo.
[300]
Onde dentro al suo cor fermato avea
Di lasciar che abbajassero alla luna.
Ma giacchè quivi il pregar non valea,
Mosse Naldin senza fatica alcuna
La pietra, e disse: Come a immortal Dea,
A te vegniamo, e non temer di niuna
Opra sinistra. E fêr tal giuramento,
Ch'ella e il buon vecchio ne mostrâr contento.
Dentro la tana ella vi aveva un gregge
Di pecore e di capre; e prontamente
Un bel capretto tra i più grassi elegge,
E ne fa quattro parti immantinente.
Il vecchio intanto ammassa aride schegge,
Indi le accende; e stridere si sente
La grata fiamma; e i quarti deretani
Del capro infila, e volge con le mani.
Il resto dentro d'una gran pignatta
Pone la giovinetta, e mette al fuoco;
E vi mescola erbette di tal fatta,
Che passano le industrie d'ogni cuoco.
E mentre il pranzo cuoce, si arrabatta
La giovin della tana in ogni loco
Per trovar qualche seggiola o sgabello,
Onde possa sedere e questi e quello:
E di salci pieghevoli tessuti
Loro portò due comodi sedili.
Trattisi gli elmi, i bei capei ricciuti
Mostravano, e i lor visi almi e gentili
I due guerrieri al mondo sì temuti;
Onde il vecchio in vederli: O voi simìli
Siete agli Dei, o Dei a dirittura;
Chè non fa queste cose la natura.
[301]
Uomini siam pur troppo, amico vecchio;
E se non era la tua cortesìa,
Già Morte si poneva in apparecchio
Fuora del mondo di mandarci via,
Disse Orlandino; e con acuto orecchio
La giovinetta i lor discorsi udìa;
E benchè fosse semplice ragazza,
Della bellezza loro andava pazza.
Chè mastra d'ogni cosa la natura,
Quel che noi non sappiamo ella c'insegna;
Onde è che a nozze femmina matura,
Se vede un uomo, a lui piacer s'ingegna.
E che non fa la vacca e non procura,
Acciò il torello sopra lei si vegna?
E come smania, subito che il vede,
Dalla cornuta fronte al fesso piede?
Fatta l'ora di cena, e dato fondo
In men d'un batter d'occhio a quanto v'era,
La giovinetta dal capello biondo
Alzossi, e diede lor la buona sera,
E della grotta se ne andò nel fondo:
E i due garzoni fecero preghiera
Al vecchio, acciò volesse lor mostrare
Se c'era qualche bella opra da fare.
Tempo già fu che in questo eccelso monte,
Rispose il vecchio, vi fur tante e tante
Bestie e giganti che a prato nè a fonte
Pastor per condur gregge era bastante:
Ma venne all'improvviso un certo conte,
Che Orlando si chiamava e sir d'Aglante,
Da cui furono i mostri tutti estinti,
E i giganti quai morti e quai fur vinti.
[302]
Questo d'Atlante è il monte sì famoso,
Di cui libro non è che non ne dica.
Qui pure uno spettacolo grazioso
È da vedersi; ma ci vuol fatica.
Egli va tanto in alto, che non oso
Dir quanto; chè la mente mi s'intrica.
V'ha chi dice, col capo ch'egli tocchi
Le stelle, che del ciel sono tanti occhi.
Nella robusta mia gran giovinezza
In su le cime sue giunsi talora,
Dove da un mago pieno di saviezza
Molti precetti appresi; e fin d'allora
Li misi in uso, e gli opro in mia vecchiezza:
E discender vedeva in su l'aurora
La Fortuna in quel monte, ov'ella tiene
Un bel palazzo, e vi fa pranzi e cene.
Caso che abbiate voglia d'ir lassuso,
Io vi dirò quel che dovete fare.
Passato il mezzo, vi sarebbe chiuso
Lo spirto e il modo più di respirare;
Chè l'aere è sì sottile, che al nostro uso
Non è più buono, e ne convien mancare.
Però darovvi un otro per ciascuno,
Tutto ripien d'una più crassa Giuno.
Poi vi dirò qual via tener dovete
Per favellar con quella Dea sì stolta
E instabil tanto, come voi vedrete;
Che or quinci or quindi si muove e si volta;
Inimica mortale della quiete.
Ella sempre ha d'attorno gente molta,
E tutta pazza e strana al par di lei,
E che disprezza sempre uomini e Dei.
[303]
Ma la notte s'inoltra, e di riposo
(Io per l'etade, e voi per le fatiche)
Abbiam bisogno. E qui il pastore annoso
Alzossi in piedi, e di paglie mendiche
Formò gran letto in un angolo ascoso
Della spelonca, e lor, Fra genti amiche,
Disse, voi siete, e dormite sicuri,
Finchè il Sol giunga in questi luoghi oscuri.
La buona notte a lui pregâr di cuore
I giovinetti; e su la stesa paglia
Si agiâr vestiti, e con tanto sapore
Presero il sonno, che a ghiro s'agguaglia
Ognun di loro: e volâr presto l'ore,
Che son sì pigre allor ch'uno travaglia;
E il Sole apparve, che debole e tronca
Spinse la luce sua nella spelonca.
Già il saggio vecchio avea gli otri ammanniti,
E l'altre cose necessarie al vitto,
E presentolle a' paladini arditi,
Che di troppo dormire ebber despitto,
Chè già vorrìan sul monte esser saliti.
E qui dal vecchio venne lor prescritto
Il modo di parlare all'incostante
Nume, se mai gli giungono davante.
Giunti del monte che sarete in cima,
Vedrete un gran palagio, egli dicea,
Che sembra d'oro alla veduta prima,
Ma sempre nuovo in lui color si crea;
Chè or d'ostro, ora d'argento esser si stima,
Or d'altra cosa: e qui dal ciel la Dea
Discende. E' non ha tetto, e senza fine
Son le finestre fra grandi e piccine.
[304]
Un'ampia porta egli ha verso Levante,
Che non ha legni, e giammai non si chiude.
Grand'ali su le spalle ed alle piante
Ha poi la Dea, e sue membra son nude;
Ma d'un cert'olio colan tutte quante,
Che la man di ciascun sempre delude,
Che la voglia afferrare; e fino adesso
Di fermarla ad alcun non fu permesso.
Però prendete (e di caprina pelle
Diè loro una sacchetta) questa nera
Polve tenace, che a veder le stelle
Xantia portò dalla stigia riviera,
Di Bacco il servo; come le novelle
Cantan di Grecia, e forse è cosa vera.
Di questa le man vostre intriderete,
E la veloce Dea forse terrete.
Così disse egli; e lieti i due cugini
Uscîr dell'antro, e del selvoso Atlante
Salîr sul dorso; e quando fur vicini
Al mezzo, i tuoni e la grandin sonante,
E gli aquiloni ed i venti marini
Nascevan sotto assai delle lor piante;
E l'etere lievissimo e sereno
Già cagion era che venisser meno.
Onde a' lor otri ognun la bocca pose,
E così gìan salendo il monte alpestre:
Quando a veder le mura luminose
Incominciaro, e le tante finestre
Di quel palazzo, come il vecchio espose;
Ch'opera al certo non parea terrestre;
Sebbene degli Dei nel prandio strano
Dicon che Atlante il fêsse di sua mano.
[305]
Giunti che fûro al destinato loco,
Posero arditi il piè nella gran porta,
E giraro il palazzo a poco a poco,
Il qual taceva come cosa morta.
Onde Orlando a Naldin disse per gioco:
Ritorniamcene via per la più corta;
Chè questa pazza chi sa quando viene,
E se venendo ci farà del bene.
Ma rispose Naldin: Di lei più pazzi
Parremo noi a ritornare a basso,
E stimati saremo due ragazzi
Da quel buon vecchio; ond'io non te la passo
Per questa volta, e soffrirò strapazzi,
E fame e sete e qualunque sconquasso,
Per vedere costei che ha tanta fama
Infra di noi, e da noi tanto s'ama.
Or mentre sì dicevan tra di loro,
Ecco venir per l'aria a tutto volo
L'ignuda Diva co' capelli d'oro:
E seco v'era un numeroso stuolo
Di garzoncelli alati, e di costoro
Ognuno in mano avea come un orciuolo;
Ma largo in cima e chiaro e trasparente,
E pien ciascun di merce differente.
Ove eran perle, ove monete, ed ove
Lotti diversi, e Pagherò felici
D'Ambi parecchi, che quell'orcio piove;
Ma pochi Terni; e come le fenici
Erano le Cinquine, che al buon Giove
Potrebbero eguagliare i più mendici:
E negli altri orci eran varie saette,
Quali ad odiar, quali ad amare elette.
[306]
Ma la Fortuna sotto il braccio manco
Aveva un cornucopia smisurato,
Che come fiume, in gittar non vien manco;
E quando da' fanciulli era vuotato
Il vaso, alcun se l'appendeva al fianco,
Altri lo rïempiva al corno usato:
E questi fanciulletti eran senz'occhi,
Parte vivaci e parte pigri e sciocchi.
Capricci eran chiamati, alma e diletta
Famiglia di Fortuna; e a loro in mezzo
Stava una vecchia grinza maladetta,
Livida e nera, che facea gran lezzo
Per ogni banda, ed Invidia era detta,
Ch'altra vecchiaccia degna di disprezzo
Per man teneva e ragionava seco,
Secca, sparuta, e d'occhio torvo e bieco.
La rea Malvagitade era costei,
Che unita all'atra Invidia, a tempo e loco
Volgea gli occhi su gli uomini più rei,
E li faceva stare in festa e in gioco.
Naldin prese un garzon per i capei,
Per torgli l'orcio e scherzar seco un poco;
Ma tira tira, si ruppe l'orciuolo,
E qui piangendo seguitò il suo volo.
Frattanto Orlando le mani s'intrise
Nella polvere stigia, e il destro braccio
Strinse a Fortuna, che a gridar si mise,
E si scoteva, come presa a laccio
Semplice cerva; e grave se ne rise
Uomo di bianco pelo sul mostaccio,
Che, preso il tempo, il cornucopio tolse
Alla Fortuna, che in pianto si sciolse;
[307]
E giù dal monte si fuggì con esso,
E girò il mondo: ed allor fu di certo
Che l'uom dabbene, misero e depresso
Vide una volta premiato il suo merto;
E le bell'arti allor vider lo stesso,
E fiorîr tutte, e fu l'ingresso aperto
Delle gran corti agli uomini di stima,
E chiuse alla gentaglia indotta ed ima.
Questo vecchione egli era il Buon-giudizio,
Che ognun crede d'avere, e non è vero;
E questa è la ragion ch'a precipizio
Vanno le cose, ov'egli non ha impero.
Ei ben distingue la virtù dal vizio,
E il falso bene dal bene sincero;
E non confonde i premj con le pene,
E dà a ciascuno ciò che gli conviene.
Dopo aver pianto la Fortuna molto,
Tanto si dimenò, che fuggì via
Dalle man d'Orlandino; e poi con volto
Pieno di sdegno e d'ira acerba e ria,
A sè il drappel de' fanciulli raccolto,
Disse: Fia cura della suora mia,
Che si domanda Fortuna infelice,
Farsi de' torti miei un giorno ultrice.
Disse Nalduccio: Non c'importa un'ette
Che tu ci abbracci, o che ci sia nimica.
Noi seguitiam Virtude: il ciel ci dette
Questa per guida, ed Onore e Fatica
Sono le nostre deitadi elette.
Te cerchi sol chi d'ozio si nutrica.
Ha Virtude i suoi doni, che de' tuoi
Tanto più vaglion, quanto in lor men puoi.
[308]
Per la rabbia si morse ambe le mani,
E tornò in cielo; e i due forti guerrieri
Riser fra lor degli atti sconci e strani
Che fe' la Dea, qual presa da' sparvieri
L'anitrella far suole ne' pantani.
Poi si fermaro entrambi volentieri
A veder le muraglie e le pitture
Ch'erano in esse, e tutte con scritture.
Mostravano altre le cose passate,
Le presenti altre, e le future ancora;
E si vedevan teste coronate
Che dall'aratro ne venìano allora;
E puttanelle nel chiasso allevate
Salire al trono, e discacciarne fuora
Le illustri e caste; e mitere e cappelli
Vedeansi dati ad uomin tristi e felli.
Là si vedeva l'Ignoranza in sedia
Cibi gustare e vini saporiti;
E qua Virtude morirsi d'inedia,
Ed esser giuoco degli scimuniti.
In somma egli era un spasso da commedia:
Ma i giovani si fûro infastiditi,
Che avevano altro in testa; e poco o nulla
Guardâr le imprese della rea fanciulla.
O, se stato foss'io con loro insieme,
Avrei veduto pur con mio contento,
Non le cose passate e non l'estreme,
Ma quelle sol del mille settecento:
In cui il Vizio sì trïonfa, e geme
Virtude, e piange Apollo, e fan lamento
Le Muse; e la Malizia e l'Ignoranza
Stanno nel lardo, e si grattan la panza.
[309]
O se potessi qui sciorre i miei bracchi,
Vorrei dir cose da fare stordire!
Nell'Aventin son ritornati i Cacchi,
E tanti son, che non si posson dire:
Nè si ritrova un Ercol che gli acciacchi
Il tristo capo, e li faccia morire?
Questi Fortuna se li tiene in seno,
E i nostri greggi ognor ci vengon meno.
Delle rapite lane i traditori
Su gli occhi nostri le cappe si fanno,
E restan nudi i miseri pastori.
Ma se i Numi di noi pensiero egli hanno,
E del mal nostro e de' nostri dolori,
Sempiterno non fia il nostro affanno;
Chè tra poco vedrem costoro spenti,
Salve le nostre lane e i nostri armenti.
Ma seguitiam gli arditi giovinetti,
Che van scendendo il monte con tal furia,
Che sembran damme o leggieri cervetti
Co' cani appresso, e temono d'ingiuria.
Già l'aere meno grave entro i lor petti
Di respirar lor toglie la penuria.
Eccoli al piano, e su l'angusto foro
Della spelonca; e il vecchio è già con loro.
Rise il buon uomo, ed ammirò in segreto
Il soprumano ardir de' due guerrieri,
E diede lor cortesemente e lieto
Povera cena, e diella volentieri.
Indi disse Orlandin: Nostro decreto
È di passar nel paese de' Neri,
Vo' dir nell'Etïopia, ove Ricciardo
Soggiorna, il fior d'ogni campion gagliardo.
[310]
Però ci mostra il più corto cammino,
E che più colmo sia di belle imprese.
Quel giorno egli è per noi tristo e meschino,
Che ci son l'armi d'inutile arnese.
E il vecchio a loro: Un bosco è qui vicino,
Dove alberga una donna discortese,
Che alletta prima i passeggieri, e poi
Li fa scannare da' giganti suoi.
E son dieci anni che uccise un mio figlio,
Che alla vecchiezza mia fora sostegno;
Ma più che non credete v'è periglio,
Ch'ella ha tropp'arte e troppo iniquo ingegno.
È bella assai, e innamora col ciglio;
Ed è lasciva sì, che passa il segno.
Miseri voi, s'ella vi tocca il core,
E ve l'infiamma del suo falso amore.
Ella vince nel canto le sirene;
E se talor si mette a carolare,
Il vento per mirarla si trattiene,
E gli uccelletti lascian di cantare.
I gesti e le parole son catene
Che ogni libero cuor sanno fermare.
In somma ella è la Dea della bellezza,
Ed ho timor di vostra giovinezza.
O questa impresa sì, disse Nalduccio,
Mi cava il cuore, e dammi gusto estremo;
E sol mi duole di dover dar cruccio
A questa bella donna, e fare scemo
Di tanta grazia il mondo, che corruccio
Porrà per lei. Di questo io già non temo,
Disse Orlandin; che per fera che sia,
Non le farò giammai tal villanìa.
[311]
Ma non si perda tempo. E di buon passo,
Sbrigatisi dal vecchio, camminaro
Inverso il bosco. E quivi ora li lasso,
Chè vo' tornare a Ricciardo mio caro,
Qual destato si diede a Satanasso,
E proruppe in lamenti e in pianto amaro,
Quando s'accorse che gli fu rubata,
Mentre dormiva, la sua donna amata.
Altri qui narrerebbe il piagnisteo,
E le parole tragiche e dolenti
Che allora disse, ed i gesti che feo;
Ed aprirebbe i fonti ed i torrenti
Del più forbito immaginare Acheo.
Ma qui noi siamo tra amici e parenti,
E si raccontan le cose alla buona,
Senza tanti Permesso od Elicona.
Quel ch'egli è vero, la stiacciò sì male,
Che senza dire a' suoi compagni addio,
Montò a cavallo, e gli fe' metter l'ale,
E bestemmiando da lor si partìo.
Or dove andasse, ed in che verso e in quale
Terra si ritrovasse, il pensier mio
È di dirlo domani; se pur anco
La memoria di ciò non mi vien manco.
[312]
Nalduccio vinto dal piacer fallace,
Poco mancò che non gisse in malora.
Orlandino l'incanto alfin disface,
Ed escon ambo da' perigli fuora.
Trovan Ricciardo; a lui Nalduccio face
L'imbasciata, che Re Francia l'adora.
Degna d'ira, di riso e di memoria
D'un Grassaccio furfante è qui l'istoria.
L'Amore non so già quel che si sia,
Nè quel ch'egli si faccia entro di noi;
Ma credo che s'accosti alla pazzìa,
E lo comprendo dagli effetti suoi.
Il pazzo quel ch'egli ha, lo butta via:
Alla diletta sua, Quel che tu vuoi,
Prendi, dice l'amante; e non gli cale
Di ridursi a morir 'n uno spedale.
Il pazzo non si sa mai quel che vuole:
Ed un amante, chi l'intende è bravo.
S'egli è d'estate, il pazzo stassi al Sole,
Com'ei sia dell'inverno il babbo o l'avo;
E l'amante, per dir quattro parole
A lei che dentro al cuor gli ha fatto il cavo,
Nell'estivo meriggio sopra un tetto
Starìa senza cappel, senza berretto.
[313]
S'infuria il pazzo e s'infuria l'amante:
Quegli non guarda a vita, e nè men questi.
Arde dell'uno e dell'altro il sembiante,
E i fatti lor son tragici e funesti.
In questo sol mi pare uno distante
Dall'altro, e che d'assai diviso resti,
Che rinsavisce alcun pazzo talora,
Ma il cervel dell'amante ognor peggiora.
E in fatti chi vedesse Ricciardetto
Come va stralunato e fuor di mente,
Costui, direbbe, egli è pazzo in effetto,
O spiritato. Passa tra la gente
Senza guardarla; e fuori dell'elmetto
E fumo e fiamma gli esce veramente;
E s'ode tanto da lontano urlare,
Che s'assomiglia al brontolìo del mare.
Corre in verso Ponente, e ad alta voce
Chiama Despina; ma chiama e rispondi:
E intanto sveglia ogni belva feroce
Che sta a dormir negli antri suoi profondi.
A lui van sopra con un ceffo atroce,
Per farlo in brani con gli artigli immondi;
Ma il suo destrier dà lor calci sì strani,
Che li sconquassa e manda via mal sani.
Punto non mangia il meschinel nè beve,
E il terzo giorno è omai del gran digiuno;
Talchè del viver suo il tempo è breve:
E non incontra il misero veruno
Che lo conforti in duol sì acerbo e greve.
E gli tolga dal cuor sì fatto pruno;
Onde più non si regge, e s'abbandona
In sul caval con tutta la persona.
[314]
E mentre in cotal guisa egli è condotto
Dell'Atlantico mare in su la spiaggia,
Di sua vita all'estremo omai ridotto,
Quel buon vecchion che su l'uccel vïaggia,
Quel che fu cieco, e a veder ricondotto
Mercè le grazie di Lirina saggia,
Quegli d'alto lo vide, e ravvisollo,
E sopra lui piombonne a rompicollo.
Egli s'era partito al far del giorno
D'Egitto, per serbar la sua parola
Che diede a Ricciardetto del ritorno.
Or mentre in quella erma campagna e sola
Vede in tal guisa il cavaliero adorno,
Pensò, siccome mago era di scuola,
Che la figlia sicur d'Arimodìa
Gli avesse fatta qualche furberìa;
E sceso dal grifon, lo chiama e abbraccia,
E gli fa cuore, e a sperar ben l'invita,
E l'elmo intanto e la visiera slaccia;
Ma segni il tapinel non dà di vita:
Ond'egli presto stura una borraccia
Che seco aveva piena di acquavita,
E con essa l'asperge e lo ravviva,
Come languido fior la pioggia estiva.
Aprì gli occhi Ricciardo, e ben ravvisa
Il vecchio, e il suo dolor più crebbe allora,
Dicendo lui: Da me stata è divisa
La mia Despina, onde convien ch'io mora;
E forse forse l'averanno uccisa.
Beato me, se si trovava ancora
In quella rocca da te custodita,
Chè dolce speme or mi terrebbe in vita!
[315]
Oh come, vecchio mio, si son mutate
Le dolci cose, e di tranquille e liete
Si sono fatte afflitte e sventurate!
E il vecchio a lui: Signor, per vie segrete,
Disse, il Fato conduce sue pedate,
Nè menti son sì accorte e sì discrete,
Che le possan comprendere; e bisogna
Chiamarci ciechi, e non n'aver vergogna.
Ma perchè gran sapienza e gran consiglio
Egli è nell'opre dell'eterno Sire,
Rasserena, signor, la mente e il ciglio,
Ch'io ti vo' gran fortuna presagire.
In qualunque tuo grave aspro periglio
(Che tanti fur, che non si posson dire)
Te sempre un tutelar Nume difese,
E vincitore insuperabil rese.
Ora a qual fine aver tanto pensiero
Di tua persona? Acciò che tu perisca
In un deserto? Ciò non fia mai vero.
Ma lascia ch'io con l'arte sopperisca
A ciò che di saper fa di mestiero.
E qui fa che in un subito apparisca
Un spiritello; e il precetta di posta,
Che dica ove Despina sta nascosta.
Il tristo si volea far trar le calze,
E te l'infrancescava malamente,
Dicendo: Ella sta in mezzo all'onde salze;
Ma di qual mar, non sollo certamente.
Ed or dice: Ella va per certe balze
Cangiata in orsa, ed isbrana la gente.
Ed ora: Sta rinchiusa entro d'un pozzo,
Dove l'acqua le arriva fino al gozzo.
[316]
Ma il vecchio gli rinnova lo scongiuro,
Il quale fu sì forte e tanto strano,
Che te lo mise ben tra l'uscio e il muro;
E bisognò che fosse chiaro e piano
Quel che finora avea tenuto oscuro;
E disse, come in un lido lontano
Nel mar del Congo stava la donzella,
E che Tristan quell'isola si appella;
E che Melena, d'Arimodia figlia,
L'avea furata; e disse il quando e il come;
E che in fera che a tigre s'assomiglia
L'avea cangiata; e le sue bionde chiome,
E la sua faccia candida e vermiglia
Non più si conosceva; e al volto e al nome
Terribil cosa e barbara parea,
Di che la sventurata ognor piangea.
Indi soggiunse che un fiero gigante
La guida sempre: e qui si tacque e sparve.
Non così l'egro misero ed ansante,
Nel sonno oppresso da fantasme e larve,
Tranquillo destò il fosco suo sembiante,
Come sul volto di Ricciardo apparve
Il gaudio e il riso, quando udì che in vita
Era Despina, e il loco ove era gita.
E a ristorar le forze sue perdute
Tardo non fu con cibi e dolce vino,
Del qual ne fece cinque o sei bevute;
Onde all'ebrezza quasi fu vicino.
Poi disse al vecchio: Queste sole mute
Spiagge lasciamo, e prendasi il cammino
Verso Ponente al mar del Congo, dove
Stassi il mio ben cangiato in forme nuove.
[317]
Il vecchio sul grifon sale di botto,
E Ricciardetto sprona il suo destriero.
Vola il falcone, e va il caval di trotto,
Tanto era presto e tanto era leggiero.
Di sopra il vecchio a lui, ch'era di sotto,
Parlava, e gli mostrava il buon sentiero.
Or lasciamoli andare allegramente,
E il ciel si mostri lor sempre ridente.
Quindi, se parvi, ritorniamo in fretta
A ritrovare i due forti cugini,
A quella coppia di valore eletta,
Gloria ed onor de' Franchi paladini,
Ch'iva a quel bosco, ove una donna alletta,
E dopo uccide tutti i pellegrini:
E presto v'arrivaro; e fu nell'ora
Che terra e cielo e mare il Sole indora.
Il bosco in sul principio egli era oscuro
Per le gran piante e i rami alti e fronzuti;
Quindi insensibilmente aere più puro
Lo rischiarava, infin che fur venuti
In un bel prato, più vago sicuro
Di quanti gregge alcuno abbia pasciuti;
E in mezzo al prato eran giardini e fonti,
E laghi e stagni, e colonnati e ponti.
I bianchi cigni e l'anitre cianciere
Si stavano per l'acque; e i caprioli
Su l'erbetta facean le lor carriere.
Su' cedri e su gli aranci mille voli
Degli uccelli movean le alate schiere:
Ed i soavi e dolci rosignoli
Non desistevan mai dal canto usato,
E si sentìa per tutto un odor grato:
[318]
Chè il fiore arancio e la giunchiglia doppia,
E il nostro gelsomino e il catalano,
E il mugherino che con lor s'accoppia,
Spingeano il loro odor tanto lontano,
Che in estasi sen gìa la bella coppia;
E già passava entro di lor pian piano
Un non so che di molle e di gentile,
Che gl'infiacchiva l'animo virile.
Dove termina il prato ampio e famoso
Era il palagio ove abita colei
Che dà agli amanti suoi tristo riposo.
Qual sia, non ve lo dico; che starei
Tutt'oggi a dirne, e diverrei nojoso.
Vi dico sol ch'un tale a' giorni miei
Non ho veduto, e non si può vedere,
E di vederlo alcuno mai non spere.
Per cinque porte a quel s'apre l'entrata,
E per tutte son giovani e donzelle.
Chi ride e canta, e chi carola e guata
Di questa o quello le sembianze belle.
Altri s'abbraccia, altri gioconda e grata
Bevanda sugge, e mangia a crepapelle.
In somma da per tutto e in ogni loco
Albergava il piacere, il riso e il giuoco.
Fratel, disse Orlandino, io non vorrei
Che ci accadesse, come ha detto il vecchio.
Non abbiamo veduto ancor costei,
Ed a volerle ben già m'apparecchio.
Per me, Nalduccio, addietro io tornerei,
Chè di noi temo. Femmina è capecchio,
E l'uomo è foco, ed il demonio è il vento,
Il qual li accoppia, e poi ci soffia drento.
[319]
Nelle guerre d'Amor (proverbio è trito)
Vince chi fugge, e non chi si cimenta;
E duro mi sarebbe in sì romito
Luogo che fosse nostra vita spenta,
E sol per un brutal sozzo appetito,
Onde nostra bassezza si argomenta.
Deh torniamcene via, e ci sovvegna
Che Cristo è il nostro duce e nostra insegna.
Rise Nalduccio, e poi: Frate, riprese,
Tu favelli da uomo da cuculla,
E non da militar giovin franzese.
Io vo' vedere un poco la fanciulla,
Com'ella è vaga, e com'ella è cortese;
E ti prometto poi di non far nulla.
In questo mentre del palazzo fuora
Ecco che vien l'amabile signora.
Orlandin si discosta, e gli occhi chiude;
Nalduccio le va incontro, e la saluta,
E perde nel mirarla ogni virtude;
E sol felice nel cuor si repùta,
Se veder può tante bellezze ignude:
Ridente ella lo guarda, e stassi muta;
Nalduccio se le accosta, e alla francesca
Le appicca un bacio nella guancia fresca.
Ritirossi da parte, e duolo infinse
La perfida fanciulla per quell'atto,
E tutta di rossore si dipinse;
Talchè di lei Nalduccio venne matto,
E le sue mani tremando le strinse
Dicendo a lei: Già tuo, bella, son fatto,
E sarò qual vorrai, servo ed amante
Di cotesto tuo vago almo sembiante.
[320]
Rise la traditrice empia donzella,
E l'invitò nel suo real palagio:
Egli la segue, e dolce le favella;
Ma va pur là, che ti darà il San Biagio.
Questa, meschino, è quella donna fella
Che ha guasto il core, e l'animo ha malvagio:
Fuggi, Nalduccio mio, fuggi da lei;
Se no, tra poco e preso e morto sei.
Ma il giovinetto baldanzoso e gajo
Non può patir di camminar sì lento;
Vorrìa la donna sua che avesse un pajo
D'ale da farla andare in un momento
Alle sue stanze; ed egli esser rovajo,
O s'altro v'è più rigoglioso vento:
Ed ella più lo invoglia e più l'accende,
Quanto men pronta a' desir suoi si rende.
Vi giunse alfine; e come far si suole
In gran teatro al comparir de' regi,
Che s'alza l'ampia tenda, e al par del Sole
Splendon le scene ed i dorati fregi,
E d'arpe e cetre e flauti e vïole
S'odon concenti musici ed egregi;
Così di suoni e di voci canore
S'empion le stanze, e al ciel vanne il romore.
Orlandino frattanto e solo e mesto
Gira d'attorno a quelle infami mura,
E su i perigli del cugin sta desto;
Chè l'ama molto, e però n'ha paura.
Chi sa, dice fra sè, che un vil capresto
Or non l'uccida, e di sua fiamma impura
Tal mercede ne tragga, o disarmato
Non gli sia il cor da reo ferro passato?
[321]
E si risolve di salir le scale
Di quel palagio e farne aspra vendetta,
Caso ch'ei fosse capitato male;
E se vivo è, condurlo via con fretta.
Quando sopra d'un carro trïonfale
Vede uscir dalla porta maladetta
Un fier gigante, che tiene in catena
Nalduccio ignudo che si muor di pena.
In vece di giovenchi e di cavalli,
Due gran leoni traevano il carro.
Orlandino fa prova di fermalli,
E dà di mano al fren pronto e bizzarro,
Pensando a un tratto poter fare stalli:
Ma quei con l'ugne a lui dier tal bazzarro,
Che se non era la buona armatura,
Lo toglievan di vita a dirittura.
Ond'egli snuda la spada tagliente,
Ed in due botte i due leoni ammazza.
L'aspro gigante allora di repente
Scende dal carro, e in pugno tien la mazza,
Ch'era d'acciajo tutta rilucente;
E pria con detti il cavalier strapazza,
Poscia va per ferirlo, e su l'elmetto
Gli tira un colpo orrendo e maladetto.
Nol prese a pieno; chè Gesù nol volle;
Chè l'avrebbe stordito e incatenato,
E insieme ucciso col compagno folle.
Ond'ei di punta il fere nel costato,
E fa di molto sangue il terren molle.
Urla il gigante, e muorsi disperato:
Sale Orlandino sul carro, e discioglie
Il suo Nalduccio, ed al sen se lo accoglie.
[322]
Il qual confuso e colmo di rossore
Non sa che dirsi, e gli domanda scusa:
Ed Orlandino colmo di furore
Corre al palagio; e benchè trovi chiusa
Ogni porta, col suo sommo valore
Pensa battendo di vederla schiusa:
Ma giacchè con la spada può far poco,
Prende la mazza, e principia altro gioco:
E in pochi colpi fe' caderla a terra,
E salì sopra per le vuote scale;
Chè ogni donzella e cavalier si serra
Per lo spavento di guerrier cotale.
Quand'ecco una gran stanza si disserra,
E fuori appar la donna disleale,
Parte vestita e parte ignuda, e tanto
Bella, da far prevaricare un santo.
E scarmigliata il crin, piangente e mesta,
Mercè gli chiede; ed Orlandin non bada
A quel che dice, e le taglia la testa,
E se la infila in punta della spada.
Fugge il palagio allora, e alla foresta
Si trova; e di Nalduccio in su la strada
È l'armatura; e l'uccisa donzella
Più non si vede in questa parte o in quella.
Rimasero ambidue sospesi alquanto;
Ma come avvezzi a cose rare e strane,
Ben presto lo stupor miser da canto;
E mentre l'uno a vestirsi rimane
Dell'armi sue che valevano tanto,
Guarda il luogo Orlandino, e d'ossa umane
Vede un gran monte, a cui s'accosta, e mira
Scritto in un masso che più braccia gira:
[323]
«Qui finiro di morte i giorni loro
Gl'incauti amanti della trista Dea,
Che se di qua passati unqua non fôro,
Avrìan col senno, che in lor risedea,
Rinnovata fra noi l'età dell'oro.
Ecco il premio che dà l'empia Pornea
(Che questo è il nome della rea fanciulla)
A chi la segue, e seco si trastulla.»
Onde, Vieni, Nalduccio (ad alta voce
Grida Orlandino), e guarda il tristo gioco
Che ti voleva far quella feroce,
Se stavi col gigante un altro poco.
Si fe' Nalduccio il segno della croce,
E disse in suono doloroso e fioco:
Cugin, sia sempre ringraziato Dio,
Che non hai fatto tu quel che ho fatt'io.
Ed egli: Impara per un'altra volta,
Soggiunse, e lascia andar queste carogne.
Mi spiace sol che la vita le ho tolta;
Chè uccider donna è ben ch'uom si vergogne:
Ma quando è in lor tanta nequizia accolta,
Com'era in lei, non credo che bisogne
Pensarvi troppo; e mal fatto averei,
Se quel non le faceva, ch'io le fei.
Poichè intanto si deve dolcemente
Trattar quel sesso, in quanto egli è imperfetto,
Nè può per forza nuocere alla gente:
Ma quando giunge al grado maladetto
Che sien per esso le provincie spente,
La donna allora che tal chiude in petto
Ferina rabbia, è mostro della terra,
Contro di cui ciascun deve far guerra.
[324]
Ma seguitiam nostro cammino, e sia
Fra noi silenzio di sì tristo amore.
Disse Nalduccio: M'usi cortesìa;
Chè ne averebbe un sommo crepacuore,
Quando il sapesse, la mogliera mia;
E chi sa? salterebbele l'umore
Di vendicarsi nello stesso modo,
E mi farebbe qualche brutto frodo.
In così dir, sen vanno passo passo,
Ed odon di cavalli alto nitrito.
Monta Nalduccio sopra un erto sasso,
E vede tra le fronde inferocito
Leon che per la selva fa fracasso,
Correndo dietro leggiero e spedito
A due cavalli; e vide che son quei
Ch'essi smarriro, onde sen vanno a piei.
Corre in quel verso, e lo segue Orlandino,
E chiamano i cavalli, e su la fera
Van lavorando con l'acciajo fino;
Onde presto le dier l'ultima sera.
De i destrier si chiamava un Serpentino,
L'altro l'Ardito, e tal ne' fatti egli era;
E a' lor signori fecero gran festa,
Come avessero senno nella testa.
Si posero ambidue ben presto in sella,
Chè andar con gli altrui piedi egli è diletto:
E da lor mentre vassi e si favella,
Vedon per l'ampio ciel sereno e schietto
Un grande uccel, che con l'ali flagella
L'aer d'intorno, ed uom vecchio d'aspetto
Vi veggon sopra che lo muove e regge,
Conforme vuole, o col fren gli dà legge.
[325]
Disse Nalduccio: E chi sarà costui
Che va per l'aria, e per cavalli ha falchi?
Uomo questi non è, siccome nui.
Felice me, se mai vien ch'io cavalchi
Su quell'uccello, e giù ne tiri lui!
Chè mare non sarà ch'io non travalchi,
Nè sarà terra da noi sì lontana,
Ove io non corra in una settimana.
E mentre sì favella, ecco s'accosta
L'augello, e veggon sopra un bel destriero
Un cavalier che il segue, e non si scosta
Punto da lui; e dal noto cimiero
Conoscon quei per cui givano a posta
Girando il mondo, e fean tanto sentiero:
Conoscon, dico, il caro Ricciardetto;
Ond'ebbero a morire di diletto:
E gridan: Cavalier, sofferma il passo:
Noi siamo amici tuoi e tuoi cugini,
Che sol per ritrovarti andiamo a spasso,
E per te fummo a perire vicini.
Il grande uccello allor discese al basso,
Chè così vuole quel dai bianchi crini;
E fermossi Ricciardo, e incontanente
Corsero ad abbracciarsi strettamente;
E cento cose domandârsi e cento
Infra di lor. Ma quando Ricciardetto
Udì come il buon Carlo restò spento
Da Gano di Maganza maladetto,
A caldi occhi ne pianse pel tormento,
E pianse ancor per l'infinito affetto
Ch'egli aveva a Rinaldo e al sir d'Anglante,
Quando udì ch'ebber sorte somigliante.
[326]
In fine Rinalduccio al suol prostrato
Gli espose come il Consiglio reale
In re di Francia l'aveva acclamato;
E che n'era in Parigi un piacer tale,
Che pareva a tal nuova ognun rinato.
Ricciardo allor riprese: Han fatto male
A sceglier me, che per virtù non basto
A governar impero così vasto.
Ed Orlandino umìle allor riprese:
Signor, quel che fan tutti, opra è di Dio.
Egli de' consiglier le voglie accese
D'un così giusto e così bel desìo.
Carlo ed Orlando e Rinaldo ei ci rese
In tua persona; e se tu sei restìo
In accettare il già datoti regno,
Moverai Francia e Dio a giusto sdegno.
Acchetossi Ricciardo alquanto, e poi:
Amici, disse, a tempo più tranquillo
Questi discorsi riserbiam fra noi.
Or vi dirò che lei, per cui sfavillo
Di vero amore, con gl'incanti suoi
Seco ha Melena, e con crudel sigillo
Le ha fatto nuova impronta, e l'ha cangiata
In una tigre acerba e disperata.
Or questa io vo cercando, e fra non molto
Spero trovarla e racquistarla ancora,
E dispogliarla del selvaggio volto
Che le diede la Maga traditora.
E se avverrà che mai di vita tolto
Io sia, per tutto ciò che v'innamora
E v'è più caro, al vostro inclito brando,
Amici, la mia donna raccomando.
[327]
Ma non si perda tempo, e l'interrotta
Strada si proseguisca. A più d'un segno
Io veggo che a buon fin sarà ridotta
La strana impresa e il periglioso impegno:
Chè non a caso qui vedo condotta
La gloria di Parigi e il fior più degno
Delle nostre armi; e non a caso venne
Costui con questo uccel dalle gran penne.
Ricominciano dunque il lor cammino:
Ma perchè s'accostava omai la sera,
Disse a Ricciardo il giovane Orlandino:
Io non vorrei passar la notte intera
Sotto qualche cipresso o qualche pino;
Ma vorrei star con una bella ostiera,
Che ci trattasse bene a letto e a cena,
Chè son tre dì che il cibo ho visto appena.
E Ricciardetto: Assai, fratel, mi duole,
Soggiunse, di sentirti in questo stato;
Chè qui, come tu vedi, orride e sole
Campagne sono, e segno d'abitato
Non si conosce. Ma più in alto vole
Il nostro vecchio, e guardi in ogni lato,
S'egli scorge capanna od altro ostello:
E il vecchio in alto volar feo l'augello;
E dopo un'ora di cammino scarsa,
Abbassò il volo, e disse: S'io non sbaglio,
In una selva che nel mezzo è arsa,
Ho visto un ampio e nobile serraglio
Di terra e sassi, e fa la sua comparsa.
Quivi all'entrare avrem forse travaglio:
Chè d'un gran fosso è cinto, e non ci appare
Ponte, nè barca da poter passare.
[328]
Andiam pur là, risposer tutti insieme,
Che in qualche modo salteremo il fosso.
Certo, Ricciardo, il caval mio non teme,
Disse, ch'egli ha mille demonj addosso.
E poi, disse Nalduccio, abbiamo speme
Di saltarlo a piè pari; e bene io posso
Dir questo, perchè ho fatto salti tali,
Che pareva che a' piedi avessi l'ali.
Così dicendo, ed allungando il passo,
Giunsero in breve al loco disegnato.
Largo e profondo è il fosso, e il muro è basso,
Nè compare persona in verun lato.
S'affaccia in fine un uomo corto e grasso
Con un bicchiere ed un gran fiasco a lato:
Siede sul muro con le gambe fuora,
Saluta tutti, e col fiasco lavora.
Buon pro ti faccia, dicegli Naldino,
E se ti piace, buttaci qua il fiasco,
Chè ancor io vorrei bere un po' di vino.
Ed egli: In questo errore io già non casco,
Che son nimico d'ogni pellegrino;
E via più volentieri i cani io pasco,
Che i vïandanti; e questo fosso appunto
Fei, per istar da lor sempre disgiunto.
Ed Orlandino a lui: Bestia da soma,
Riprese, in breve ci darai la pena
Di tanto oltraggio, ed avvilita e doma
Sarà la tua superbia. Ora è di cena,
Disse ridendo in africano idioma
Il tristo Grasso; e in men che non balena
Ritornò dentro. Sprona il suo cavallo
Ricciardo, e quello mise il piede in fallo;
[329]
E giù cadde nel fosso, e fu stupore
Che l'uno e l'altro non si fracassasse.
Ed il buon vecchio allor spinto da amore
Fe' che nel fosso il suo falcone entrasse,
Con speranza di trar Ricciardo fuore:
Ma stretto in fondo era il gran fosso, e basse
D'uopo era che l'uccel tenesse l'ali:
Caduti entrambo negli ultimi mali.
Piangono i due cugini amaramente,
E domandano al vecchio se ci è via
D'uscir mai da quel fosso finalmente.
E il vecchio dice lor: Qui l'arte mia
Sopra tal fatto non dice nïente.
Ed ecco il Grasso che dal muro spia
Quel ch'è successo, e si muor dalle risa,
Mirando i due guerrieri in quella guisa:
E prende de' gran sassi, e giù li rotola
Per ammaccare il vecchio, oppur Ricciardo;
E quando s'è straccato, empie la ciotola,
E cionca a più poter senza riguardo.
E, Questa, dice, alla tua barba vuotola,
Sciocco guerrier che in mia custodia or guardo;
E quest'altra alla tua, vecchio barullo,
Che nel fosso or ti stai per mio trastullo.
Ricciardo non risponde, e il vecchio tace,
E i due cugini van pensando al modo
Di liberarli; ma non vale audace
Spirto nè forza per scioglier tal nodo.
In fin Ricciardo: Amici, se vi piace,
Gite, gli dice, in Francia; e con qual chiodo
Dite m'abbia confitto la Fortuna
In questa fossa sì profonda e bruna.
[330]
Ma prima all'isoletta di Tristano
Andrete a liberar Despina bella.
E in questo mentre il Grassaccio con mano
Sasso gli trae che quasi lo sflagella.
Onde Orlandino voltosi al germano:
Perchè, gli disse, non montiamo in sella,
E non cerchiamo di qualche strumento
Da levare color di laggiù drento?
Non vedi tu che nespole son quelle?
Andiamo dunque per cammin diverso;
E se non altro, facciamo di pelle
Di tigri e lupi, per lungo e traverso
Tagliate, delle forti funicelle
Per trarli fuora: se no, veggo perso
L'amico e il vecchio. E ciò tosto fu fatto,
E galoppâr pel bosco ambo ad un tratto.
Errâr tutta la notte e il dì veniente,
E non trovaro belve da ferire.
Nalduccio il cammin suo prese a Ponente,
Chè l'ucciso leon vuol rinvenire.
Orlandino a Scirocco drittamente
Incamminosse, e non trovò nïente:
Quando Nalduccio a sè d'attorno ascolta
Gente parlare entro una selva folta.
Corre serrato a loro, e ben ravvisa
In prima Malagigi, e poi Lirina,
E il re de' Cafri dalla sua divisa;
Onde a loro piangendo s'avvicina,
E grida: Amici, o vendichiamo uccisa
La nostra gloria che al suo fin cammina,
O liberiamla dal misero stato,
In cui l'ha posta di Ricciardo il fato.
[331]
Egli guari non è che in un profondo
Fosso è caduto, in cui pur cadde ancora
Un vecchio, che volando va pel mondo
Sopra un gran falco che l'aria divora;
E intorno al fosso evvi un Grassaccio immondo,
Che pietre sopra lor tira ad ogni ora.
Vi piombò dentro per voler saltarlo
Ricciardo, e il vecchio per volere aitarlo.
Che se vi è modo di là farli uscire,
Impiegate le forze e il vostro ingegno;
Perchè in oggi Ricciardo è il nostro sire,
E il loco ove si trova, è troppo indegno
E di lui e di noi, a vero dire.
Apre Lirina il libro, e vede a un segno
Che v'era in mezzo, dipinto quel fosso,
E l'uomo in sul murel piccolo e grosso:
E tutta rallegrata: Prestamente
Andianne, disse, al fosso, ove si stanno
I due racchiusi; che se ben possente
Egli è quel Grasso, e ci darebbe affanno
Se gli andassimo contro apertamente,
Io spero a forza d'un gentile inganno
Di cacciar lui nel fosso, e trar quegli altri;
Ma d'uopo è che noi siamo accorti e scaltri.
Di vino egli è colui vago all'estremo,
E sol si fida d'una villanella,
Che glie ne porta un barile non scemo
Ogni due giorni: e quando a lui giunge ella,
Allora poco più largo d'un remo
Di là dal fosso un ponte egli arrandella,
Sopra il quale ella passa sola sola,
E presto sì, che sembra augel che vola.
[332]
Passato appena ha la fanciulla il ponte,
Ch'egli a sè lo ritira; e non lo riede
A gittar, se non quando il dolce fonte
A Bacco sacro presso il fin non vede.
Questa fanciulla è di serena fronte
E di begli occhi, ma di trista fede:
E benchè quel Grassaccio al sommo l'ami,
E suo tesoro e sua vita la chiami;
Ella però forzata per timore,
E più per avarizia, si congiunse
In matrimonio a questo trincatore.
Pur per un giovinetto Amor le punse
Ambedue gli occhi, e tutto quanto il core;
Ma il Grasso l'uno dall'altro disgiunse,
E lo tiene serrato a chiavistello
In una rocca dentro del castello.
Il Grasso è un mago di prima portata;
E tristi noi se in guardia egli si mette!
Chè chiude il fosso in meno d'un'occhiata,
E a' due prigioni dà l'ultime strette.
In quanto a me, se mi sarà approvata
La cosa, e se da voi mi si permette,
Andar sola vorrei in verso il mare,
Di dove la fanciulla ha da passare:
E le dirò quanto far le conviene,
Se vuole in libertà veder l'amante:
Cioè, che quando avrà bevuto bene
Il Grasso, e che vedrallo traballante,
E che sbadiglia, e il sonno a lui sen viene,
Cenno ci dia con face sfavillante,
Ed il ponte ci tiri, che leggiero
È per incanto: e poi altro non chero.
[333]
Voi altri quindi venite pian piano
Inverso il fosso, e statevi nascosi;
E quando che risplender di lontano
Vedrete il lume, allora frettolosi
Colà giungete. A me non pare strano
Questo pensiero; e negli Dei pietosi
Ho speme che la cosa avrà buon fine:
Ma è tempo omai che al mare io m'avvicine.
Restan quelli nel bosco; ella si parte
In verso il mare, e dopo qualche miglio
Si ferma (chè così mostrava l'arte)
Sotto una pianta di color vermiglio,
Che si ritrova solo in quella parte:
Ed ecco comparir con lieto ciglio
La villanella col barile in testa,
Che pareva che andasse a qualche festa.
Lirina allor per nome la saluta,
Dicendo: Iddio ti salvi, Serpellina.
A questa voce la giovin si muta,
E la sua bella guancia porporina
Si fa di neve; e in sè poi rinvenuta,
Guarda la donna, e cosa alma e divina
Le sembra; ed a' suoi piè gettar si vuole,
E come vera Dea l'adora e cole.
Lirina allor: Bellissima fanciulla,
Io qua venuta son per farti lieta.
Già la tua vita infino dalla culla
M'è nota; chè non v'è cosa segreta
Per me nel mondo. Or non tacermi nulla,
E mi confessa, se tu sei discreta,
Quel che dirotti, s'egli è falso o vero;
Ma della tua schiettezza io non dispero.
[334]
D'Angola al Grasso e' son tre mesi appunto
Che tu sei moglie. Molte perle ed oro
Ch'egli mostrotti, fur quel tristo punto
Per cui perdesti il giovine Lindoro;
Quello onde il core hai per amor sì punto,
Che fuor tu ridi, e dentro hai 'l tuo martoro;
Del quale amore il tuo marito accorto,
Tien prigion quel meschino, e quasi ha morto.
Tu temi lui per la sua gran virtude,
E n'hai ragion; ma se tu vuoi del certo
Levar l'amante tuo da servitude,
Io mostrerotti un bel sentiero aperto:
Nè fia che molto t'affatichi e sude
Per trarlo fuora. Abbastanza ha sofferto
Per tua cagione il giovane amoroso:
Tempo è che tu gli dia gioja e riposo.
Mentre Lirina sì favella seco,
Sta la fanciulla con le mani alzate,
E a bocca aperta, e attonita, qual cieco
Ch'ode rissa e romori di brigate.
E l'altra segue: Ancor di più t'arreco
Grata novella per tua fresca etate.
Non ti drà il Grasso in avvenir più noja;
Chè fia mia cura che ben presto ei muoja.
La giovinetta gode estremamente
Di quel parlar, ma ben non si assicura;
Ed ha timor che il Grasso miscredente
Presa non abbia femminil figura,
Ed in quella maniera non la tente;
Chè saggia cosa è sempre aver paura,
Quando si tratta di vita e d'onore,
E ancor di roba di molto valore.
[335]
Di sua temenza accortasi Lirina,
Dice: M'avveggo perchè non rispondi;
Ma già saresti in estrema ruina;
Chè di tua mente scorgo bene i fondi,
E veggio come infin questa mattina
Mirar vorresti i ricciutelli e biondi
Capelli dell'amabile Lindoro,
E morto il Grasso per comun ristoro.
Qui vinta la fanciulla, sospirando
Disse: Al vostro piacer, madonna, io sono.
Voi mostratemi il modo, il come e il quando
Di ciò che dovrò fare; a voi mi dono,
E me e l'amor mio vi raccomando.
E a lei Lirina, in assai basso tuono
Ed all'orecchio, tutto quello disse
Che far dovea, come ella si prefisse.
Giunge la villanella al fosso, e fischia;
Ed il Grassaccio sul muro compare:
E lei vedendo che il cor gli cincischia,
Il ponte getta, e a sè la fa passare.
Amor lo tira ed il moscado d'Ischia,
E non sa quel briacon che più si fare:
Ora guarda il barile, or guarda lei.
L'una dice, Mi abbraccia; e l'altro, Bei.
La scaltra giovinetta allora stura
Il barile, e l'odor sale alle stelle:
Ed il Grassaccio con somma bravura
L'alza a due mani, e, A tue sembianze belle,
Le dice, io sacro questa sboccatura.
E giù pel mento, e giù per le mascelle
Scendeva il vino, e gli bagnava il petto;
Ed il furfante n'andava in guazzetto.
[336]
Alfin la bocca dal cocchiume stacca,
Ma tiene in mano tuttavìa il barile;
E lei guardando, Amore il cor gl'intacca;
E dice: Bella mia, fui troppo vile;
E mal fa chi s'imbromia e chi s'imbacca,
Sprezzando una sembianza sì gentile,
Com'è la tua; e ti chieggo perdono
Del fallo, ancorchè degno non ne sono.
Ma nel fosso il baril voglio gettare,
E in avvenir non vo' più bever vino.
E la fanciulla: Grasso mio, non fare,
Riprese; io vo' che ne beviamo un tino
Quest'altra volta ch'io ritorno al mare.
L'acqua è per l'uomo povero e meschino,
E non per te, che hai tanti e gran tesori,
Quanti n'abbiano insiem mille signori.
Eh bevi, Grasso mio, che non mi picco,
Se il vino più di me da te si stima:
Anzi il mio cor di gaudio si fa ricco,
Quanto più bevi, e de' pensier la lima
Rompi dentro un barile, o il mandi a picco;
Perchè del volto allor ti sale in cima
Un certo brio, una certa letizia,
Che mi toglie dal petto ogni tristizia.
Allora fortunato chi t'ascolta
Narrar cotante e sì diverse imprese!
Là piagata una fera, e qua disciolta
Una donzella; là cittadi accese,
Qui regi superati e gente molta.
In somma mie fatiche son ben spese,
E non m'incresce punto del cammino,
Se tanto ben m'arreca poi quel vino.
[337]
Ed il Grassaccio gongola a quel dire,
Ed al barile torna a dar la scossa;
E fu sì fatta, che l'ebbe a finire.
Ride il porcaccio, e fa la faccia rossa,
Ed incomincia a cinguettare, e dire,
E sbadigliare, e dormir su la grossa;
E non aspetta d'entrar nel castello,
Ma si sdraja così sul praticello.
Corre al palazzo allor la giovinetta,
Accende una facella, e dà di mano
Al ponte, e sopra il fosso ella lo getta.
Corre Lirina, e gli altri di lontano
Vengono al fosso pur con somma fretta.
Lirina sale sul ponte pian piano,
E di saccoccia al Grasso un libro toglie,
Ed una chiave ed un mazzo di foglie.
Indi trapassa nel castello, e quivi
Tutto ricerca; ed una scala trova
Fatta di seta, e lunga sì che arrivi
In fin del fosso, dove in dura prova
Si stanno que' due miseri cattivi,
Che aspettan che dal ciel soccorso piova
Sopra di loro: e bene il ciel cortese
I lor sospiri e le lor preci intese.
Prima però di tutto ella sprigiona
Il giovine Lindoro, e a Serpellina
Cortesemente e ridente lo dona;
E lega il Grasso, e nel fosso il ruina.
Ma non si desta, o punto lo frastuona
La gran percossa, che quasi il rifina:
Poi cala a basso la scala di seta,
E al muro i capi attacca cheta cheta.
[338]
Strana cosa fu questa, a dirla schietta,
E a prima faccia non merita fede,
Che salir possa su tale scaletta
Un gran cavallo, e che regga al suo piede:
Ma date un po' che il diavolo si metta
Col saper suo, che assai l'umano eccede,
A lavorare una scala di seta;
Ecco che il vostro titubar s'accheta.
Sale dunque Ricciardo, e il vecchio appresso,
E lor vien dietro il cavallo pian piano,
E dopo lui l'augel pur fa lo stesso;
E in breve ognun di loro salvo e sano
È fuor del fosso, ma da fame oppresso,
Fuorchè il caval che sempre il corpo ha vano.
Serpellina e Lindoro prestamente
Lor portan vino e bianco pan recente.
Gli abbracci poscia che si dier fra loro
Il re, Lirina, Malagigi e il Franco
Naldino, io non li dico; perchè fôro
Tanti, che stelle il ciel novera manco.
Or per compir la gioja di costoro,
Ecco Orlandin che torna afflitto e stanco;
Ma presto il duolo e la molta stanchezza
Mutò in veder di questi l'allegrezza.
Lirina intanto legge, che le foglie
Ch'ella trovò nella tasca del Grasso,
Sono di tal natura, che aspre doglie
Daranno, e manderanno a Satanasso
Lui, ch'ora il fosso entro il suo fondo accoglie;
Sicchè ella vuol pigliarsi un po' di spasso,
E giù le butta; e appena toccan terra,
Che in un attimo il fosso si riserra;
[339]
E fece nel serrarsi un tale scoppio,
Quando del Grasso si schiantò l'omento,
Che stordì tutti. E Serpellina: L'oppio
Or più non grava quel pazzo istrumento,
Disse ridendo; e s'era gobbo o stroppio,
Or sarà fuor di pieghe e fuor di stento.
E al giovin disse, ch'ella amava tanto:
Ecco una vedovella in negro ammanto.
Ma il vedovile tuo durerà poco,
Riprese quegli; e per mano la strinse,
E fecer le lor nozze in festa e in gioco.
Indi Ricciardo: Me, gridò, qua spinse
Della mia donna l'amoroso foco:
Di lei, che di brutal pelle già cinse
La crudel maga, e tien da noi lontano
Nell'isola chiamata di Tristano.
Là voglio andare, e voi meco verrete
In quelle parti, se non v'è discaro.
Disse Lindoro: Se accorciar volete
La strada al Congo, un sentier dritto e raro
V'insegnerò, per cui là giungerete
Tra cinque giorni; e sommamente a caro
Mi fia, s'io sarò mai la vostra scorta.
Ed egli: Andianne via per la più corta.
E destinato fu quel dì seguente
Di cominciar la desïata via.
Or mentre che cammina questa gente,
Noi di Tristan nell'isoletta ria
Troviam Despina misera e piangente,
Che urla d'affanno, e di morir desìa.
Ma prendiam prima un poco di conforto,
Perchè mi sento rifinito morto.
[340]
Col vivo umor della fatal cisterna
Despina torna al suo primiero aspetto.
Carlo ed i suoi dalla magion superna
Scendono con San Piero benedetto,
Che col battesmo dà la vita eterna
Al suocero infedel di Ricciardetto.
La Scozzese è salvata; e Malagigi
Sopra strano destrier trotta a Parigi.
Cangiata in tigre la bella Despina,
Chi può dir quanto pianga e si lamenti?
Morir vorrebbe, e la bontà divina
Prega che voglia levarla di stenti;
E corre frettolosa alla marina
Per annegarsi e finir suoi tormenti:
E se ben vàlle il fier gigante appresso,
Pur crede che il morir le sia concesso.
Ma quando giunge la meschina al lido,
E le sembianze sue vede nel mare,
Di sè stessa ha paura, e getta un grido,
E vassi presto presto ad inselvare:
E ripensando al suo diletto e fido
Ricciardo, si dà tutta a lagrimare;
Chè di più rivederlo omai dispera,
Entro quel loco trasmutata in fera.
[341]
Lo vuol chiamare, e in cambio della voce
Dà fuor a un acerbissimo ruggito,
Quale inteso da tigre altra feroce
Vienla a trovare, e le fa dolce invito
Di scherzar seco, e cela l'ugna atroce
Che ai tori fa dar l'ultimo muggito,
E con l'acuto spaventoso dente
Spesso la morde, e sempre dolcemente.
Ella sta ferma, e quel giocar le è duro,
Ch'esser vorrebbe veramente uccisa.
Finito il gioco, il fier gigante impuro
(Da cui non va la misera divisa,
Quando il ciel fassi per la notte oscuro)
Perchè non gli sparisca in qualche guisa,
D'oro le pone al collo una catena,
E seco nella torre se la mena.
In questo stato misero e crudele
Stava l'afflitta povera Despina,
Quando Ricciardo il suo amator fedele
Venìa volando su l'onda marina;
Chè vento amico gli empieva le vele.
Seco è il re cafro, ed è seco Lirina,
E Malagigi, e i due cugini, ed anco
Quei che per lunga etade il crine ha bianco.
All'isoletta giunsero nell'ora
Che dire non si può notte nè giorno;
Chè dubbia luce le cose colora,
Le quai molta ombra ancora hanno d'intorno.
Preso terreno da ciascuno allora,
Disse Lirina a Ricciardetto adorno
D'ogni virtude, e agli altri cavalieri,
Ciò che per quella impresa era mestieri.
[342]
La tua Despina in tigre tramutata
Non si puote acquistar che per valore;
Nè ci vale virtù d'erba incantata,
Ma ci vuol braccio, e vuolci ingegno e core.
Ella di dente e di fiera ugna armata
Verratti sopra piena di furore,
Non già per genio, ma per arte maga,
Per cui contro di te s'infuria e indraga.
E pugnar devi a un tempo col gigante,
Che di forza e d'ardire ogni altro avanza.
Se questo ad atterrar sarai bastante,
Conforme io n'ho grandissima speranza,
La tigre allor ti bacerà le piante;
Chè di fera serbando la sembianza,
In lei ritornerà dolce e benigno
Il genio acerbo e l'animo maligno.
Ma di spogliarla di sì rea figura
Qui sarà tutta l'opra e la fatica;
Chè devi trar dell'acqua pura pura
Che stagna dentro una spelonca antica,
Profonda sì, che niuno la misura,
E ch'all'intorno di spine s'implica:
Cotanta almen, quanta a lavar lei baste;
Nè so s'altro vi sia che ciò contraste.
Tutta ripongo la mia speme in Dio,
E là mi guida, dolce mia Lirina,
Dov'è la tigre e il gigantaccio rio,
Dice Ricciardo, e pel bosco cammina.
E giusto allor che la torre s'aprìo,
Ecco fuora il gigante, ecco Despina,
Che, visto il cavaliere, arse di sdegno,
Ed a lui corre come strale al segno.
[343]
Nel tempo stesso l'orrido gigante
Alza una strana e ben ferrata mazza,
E gli si pone con ferocia innante;
E di dietro la tigre l'imbarazza.
Nalduccio allor pietoso nel sembiante
Disse: Il gigante o la tigre l'ammazza;
Chè Ricciardo così non può durare,
E ceder gli conviene a lungo andare.
Indi prende la tigre per la coda,
Nè impugna l'armi per non farle male;
Che l'armatura sua è tanto soda.
Che non passolla di Morte lo strale.
Il pensier del cugino Orlando loda;
Ed esso pur, che ha di virtude uguale
L'armatura che il copre, e nulla teme,
Venne a lottar con l'aspra tigre insieme.
Or l'uno or l'altro in sul terreno stende
La rigogliosa fera, e l'ugna e il dente
Sovra essi adopra, e mai nessuno offende.
In questo mentre Ricciardo valente
A dar la morte al suo nimico attende;
E quei con la gran mazza ognor pon mente
Come ferirlo, e come fracassarlo;
E tempo omai parrebbegli di farlo.
Destro gli gira attorno Ricciardetto;
E in ciò l'ajuta molto il suo destriero,
Che par dotato proprio d'intelletto.
In fin per fianco il nobile guerriero
L'assale; e benchè il copra il più perfetto
Cuojo di drago ch'abbia il popol nero,
Di Ricciardetto la fatale spada
Infino al cor di lui s'apre la strada.
[344]
Mugghia il feroce, e cade sul terreno
Con un romor che l'isola ne trema;
E a poco a poco va venendo meno,
In fin si muore, e spira l'aura estrema.
La tigre allor bandisce dal suo seno
Ogni spavento, e di ferocia scema,
Anzi libera affatto, a Ricciardetto
Corre, e gli lambe i piè colma d'affetto.
Volea pur dirgli: Io son la tua Despina;
Ma non poteva. E Ricciardetto a lei
Dicea: Mia vita, la bontà divina
Ritorneratti i biondi tuoi capei,
E i begli occhi e la fronte alabastrina.
Per te qua venni, e per te sol sarei
Gito più oltre; chè da te diviso,
Non so che cosa sia contento e riso.
O di sì fidi amanti aspra ventura,
Che nel pensarvi solo mi spaventa!
Di lui, che vede lei in tal figura,
E di farle carezze non si attenta;
Di lei, che teme col fargli paura,
Che l'amorosa fiamma resti spenta:
E quanto più si guardano fra loro,
Tanto più si ricolman di martoro.
Lirina intanto è nella torre entrata,
E vede come un corvo grande assai
Legato se ne stava a un'inferrata,
E fra sè disse: Ciò che sarà mai?
Indi una secchia d'oro oppur dorata
Mira pendente, e che spargeva rai;
Onde le venne subito nel cuore
L'acqua di trar dalla spelonca fuore;
[345]
E scioglie il corvo, e distacca la secchia,
E grida: Amici, andiamo unitamente
A ritrovar quella spelonca vecchia,
Dove sta l'acqua pura e rilucente.
E tu, disse alla tigre, t'apparecchia
Di donna ritornar veracemente.
E così detto, alla spelonca vassi
Per aspra via, tutta di spine e sassi.
Ivi giunti, nel becco al corvo pone
Lirina il secchio, e giù cader lo lascia.
È larga la spelonca; e quei girone
Dispiega l'ali, e volando la fascia.
Un'ampia tela di sottil cotone,
Mentre il corvo si muor quasi d'ambascia
Per l'aspra via, ammannisce Lirina,
Orlata d'una seta fina fina;
E la tigre coprir volea con quella:
Quando ecco un satiraccio orrendo e strano,
Che si piglia la tigre, e va con ella
Da tutti in un balen tanto lontano,
Che Ricciardetto ebbe a drizzarsi in sella
Per lui seguire, e non seguirlo in vano.
Il re de' Cafri vagli presso, e seco
Nalduccio; e gli altri restano allo speco.
Benchè il satiro corra, e corra tanto,
Che il cervo e il caprïol si lasci indreto,
Pur si vede egli che ha Ricciardo accanto;
Onde lascia la tigre, ed indiscreto
Gli vibra un dardo, con cui si diè vanto
Di ferirlo; e ne fu di ciò sì lieto,
Che fece un salto: ma non fe' il secondo,
Che Ricciardetto lo levò dal mondo.
[346]
Indi discende il miser dal destriero;
Chè la piaga gli duole; e la pietosa
Tigre lo guarda, e vorrebbe il cimiero
Sciorgli, e curar la piaga sanguinosa
Che ha nella gola: e fu gran sorte in vero
Che non fosse ferita perigliosa.
Intanto giunse della Cafria il sire,
Che lo dislaccia e cerca di guarire.
In questo mentre il corvo piena in cima
D'acqua portata avea la secchia d'oro;
E Lirina legollo come prima,
E a ricercar Ricciardo pronti fôro;
E lo trovaro fuori d'ogni stima
Disteso al suolo e pieno di martoro:
Ma con certa erba lo toccò Lirina,
Che restò sano la stessa mattina.
Indi distende in su la tigre il velo,
Talchè nulla di lei fuora compare;
E l'onda chiara e fresca come il gelo
Sopra le versa, e la fa ben bagnare:
Ed ecco fuggir via l'orrido pelo,
E l'ugna e i denti; ed ecco ritornare
Despina al suo bellissimo sembiante,
E farne mostra al suo fedele amante.
Per quanto io scorra gli accidenti umani,
Cosa simil non so trovare in loro:
Ond'è che tutti mi rïescon vani
I paragoni; e in van pingo e coloro
E le parole ed i pensieri strani.
Per dimostrarvi quali e quanti fôro
Le allegrezze, i piaceri ed il contento
Che sentì ciascheduno in quel momento.
[347]
Ma chi dirà il piacer, la maraviglia
De' due sì casti e generosi amanti?
Con bocche aperte e spalancate ciglia
Si stavano guardando ne' sembianti.
Pallida in prima, e poi fatta vermiglia,
Con sospir tronchi e parole tremanti
In fin Despina a lui disse: Cuor mio,
Pur ti riveggo, e nulla or più desìo:
E sol bramo da te che al Nume vero
In cui tu credi, e il quale onori e coli,
Tu mi congiunga. In lui pur credo e spero,
Dopo che morte la vita m'involi,
Ch'egli mi chiami al suo celeste impero,
Dove i Cristiani andar possono soli.
E mentre sì diceva, al giovinetto
Cadevan calde lagrime sul petto:
E ripieno d'insolita allegrezza,
L'abbraccia, ed il battesmo le promette.
Quindi un abito bel nuovo di pezza
Trae fuor Lirina dalle sue bolgette;
E bacia la compagna e l'accarezza,
E seco dietro un albero si mette,
E la riveste da capo alle piante;
Indi ritorna ai cavalieri innante.
Ed ella pure il battesmo richiede,
E il re de' Cafri lo richiede ancora;
Talchè Ricciardo pien di santa fede
Ponsi in ginocchio, e il Dio verace adora,
E lo ringrazia di tanta mercede:
Ma quando al secchio pon la mano, allora
Ecco dal ciel che una gran luce scende,
Che su loro e su l'isola si stende.
[348]
E giù calar per l'acceso sentiero
Veggono Carlo ed il famoso Orlando,
E il gran Rinaldo, e con essi San Piero.
Le destre lor più non stringevan brando,
Ma belle palme; e in vece di cimiero
Avean corone; e stavano cantando
Inni di lode al sommo eterno Sire:
Quando chetârsi, e Pier si pose a dire:
L'infinita bontà del nostro Iddio
Ci ha qui mandati, e vuol che per mia mano
Siate mondati d'ogni fallo rio.
Ciò detto, il cafro re fece cristiano,
Poi le fanciulle e tutti benedìo.
Rinaldo e Orlando e il vecchio Carlo Mano
Guardâr ciascuno dolcemente in viso,
E ritornâr con Pietro in paradiso.
Or mentre questi di foco celeste
Avvampan tutti, Melena dolente
Si strappa i crini e si squarcia la veste,
E pensa molte cose; e finalmente
Risolve arder la nave e le foreste,
Acciò che quivi stieno eternamente:
E corre al mare, e alla nave dà foco,
E pone un aspro incendio in ogni loco.
E disperata sopra un drago sale,
E volando su lui torna in Egitto
Vogliosa in sommo grado di far male,
Com'ella possa, al cavaliere invitto.
L'orrenda fiamma intanto universale
Preso ha l'isola tutta; e del despitto
Di Melena s'accorsero ben presto,
E del perchè fece ella tutto questo.
[349]
Ma il vecchio in sul falcon montò di botto,
E quindi al Congo giunse quella sera;
E preso molto vino e buon biscotto,
Fece allestir ben presto una galera,
Che andava a remi e si ridea del fiotto
(Chè il mar turbato avea la Fata nera,
O sia Melena, che vuol dir lo stesso,
Acciocchè niuno mi faccia un processo).
Finito il fuoco, inverso la marina
Scendean gli sposi; e nel cammino intanto
Ricciardo le dicea, come regina
Era di Francia. Ed ella: Il maggior vanto
E la gloria più illustre di Despina
Ella è, signor, dicea, lo starti accanto.
Questo solo da me vie più s'apprezza,
Di qualunque sia mai scettro e ricchezza.
E il cafro re, che tacito e pensoso
Era stato con essi infino allora:
Figli (disse con volto rugiadoso
Di dolce pianto), giunta oggi è quell'ora
Che ha posto i pensier miei tutti in riposo,
E d'un gran dubbio mi ha cacciato fuora;
Perchè m'è ritornato alla memoria
Quel che fu sogno, ed ora è fatto istoria.
E qui tutto per ordine e per filo
Raccontò il sogno, e le mutate forme
Della figliuola, e il fortunato asilo
Del suo Ricciardo, e lei brutta e deforme
Ripigliare il bellissimo profilo
Mercè poc'acqua; ed in somma conforme
Il sogno esser le cose succedute,
Dio ringraziando e sua somma virtute.
[350]
In così dire, alla marina sponda
Giunsero, e sopra l'arenosa spiaggia
S'adagiaro: quand'ecco uscir dall'onda
Una fanciulla, che il suo viso oltraggia
Ed iscarmiglia la sua chioma bionda;
A cui Despina, qual sorte le accaggia,
Subito chiede. Ed ella: Il mio dolore
D'ogni speranza di rimedio è fuore.
In questi mari sì remoti e strani
Son già tre anni che dannata io sono
A star con l'orche e coi marini cani,
Che ho sempre appresso: e se mai m'abbandono
A qualche nave, e distendo le mani
Per via fuggire, e con dolente suono
Chieggo pietade a' naviganti, allora
Tristo a chi mi soccorre e vuol trar fuora.
Che di sopra e di sotto e per li fianchi
Urtan così quel povero naviglio
Gli orrendi mostri, che forza è si sfianchi
E si sconquassi; ed essi poi di piglio
Danno ai meschini per timor già bianchi,
E di lor sangue fanno il mar vermiglio:
Onde per la pietà che d'altri io sento,
Non cerco più ristoro al mio tormento.
E mentre sì dicea, le brutte teste
Alzavan fuor dell'acqua i fieri mostri.
A lei disse Ricciardo: Non credeste,
Bella fanciulla, che ne' cuori nostri
Pietade indarno a vostro pro si deste.
Son pesci alfin questi custodi vostri;
E queste lance e queste spade avranno
Virtù da trarvi e liberar d'affanno.
[351]
Quindi rivolto alla diletta sposa,
Torna, le disse, con Lirina in alto,
Acciò che qualche fera mostruosa
Non ti dia d'improvviso alcuno assalto.
E perchè veggo tutta vergognosa
La verginella sgomentarsi al salto,
Le dia Lirina onde coprirsi, e poi
Possa venire arditamente a noi.
Tosto Lirina a lei getta nel mare
Un largo drappo di color vermiglio,
Lo qual più volte pria volle baciare
La verginella, e con allegro ciglio
Guardollo; e quindi misesi a fasciare
Sue membra che il candor vincean del giglio:
E quando sua modestia fu contenta,
All'arenosa sponda ella s'avventa.
E nello stesso tempo con le lance
I forti cavalier sono alla riva.
Le lunghe bestie con le immense pance
Si arrenano, chè l'acqua non arriva
A ricoprirle; e le tremende guance
Battono insieme; e lei, che veggon viva,
Vorrebbero sbranare; e gettan gridi,
Che ne rimbomban della Cafria i lidi.
Ma de' marini cani il gran potere,
L'agilità, l'audacia e l'aspro dente
Chi potrà dire? Orrendo era a vedere
Altri saltar nell'isola repente,
Ed ora l'uno or l'altro cavaliere
Investire e sprezzare asta pungente;
Altri correre appresso alla donzella,
Che fugge, e i Numi in suo soccorso appella.
[352]
Già Ricciardetto e i due prodi cugini
N'han morti tanti, che ciascun dirìa:
Spenta è la razza de' cani marini:
Ma cresce sempre la crudel genìa.
Or perchè tal tempesta si declini
Da loro, prendon del colle la via;
E se ben dietro quelle bestie egli hanno,
Son lente al corso, e poco mal lor fanno:
Perchè, con tutto che i marini cani
Viver possano ancor dell'acqua fuore,
Han sol due piedi, o vogliam dir due mani;
E di quel tanto orribile vigore
Di cui son colmi ne' liquidi piani,
In terra ne son scarsi: onde in poche ore
Giunser del colle i cavalieri in cima,
E quelli quasi stavan dove prima.
E trovâr un palazzo, allora allora
Da Malagigi fatto per incanto;
E subito a incontrarli usciro fuora
Le belle donne con letizia e canto:
Sebbene lieta affatto non ancora
Era Despina, e avea di fresco pianto
Dal gran timor che le ingombrava il petto
Per li cimenti del suo Ricciardetto.
Nè stette molto a quivi comparire
Il vecchio su l'uccel dalle gran penne;
E disse come di lamenti e d'ire
Era il mar pieno, onde diverso tenne
Cammino il legno ch'egli fe' venire;
E che dietro uno scoglio lo ritenne
Lontano da quell'isola gran tratto,
Acciò da' mostri non fosse disfatto.
[353]
E tutti quanti nel palazzo entrati,
Alla nuova fanciulla fecer festa;
E intorno intorno a una mensa assettati,
Le fêr comune ed amica richiesta
Di narrar loro i suoi casi passati.
E la fanciulla cortese e modesta
La bianca mano alla fronte si pose,
E fece il volto di color di rose.
Quindi dato un lunghissimo sospiro:
Dirò, giacchè volete, i casi miei;
Ch'è ben ragion, che se per voi respiro
L'aria di libertà che pria perdei,
Nè più sto in mar, nè più que' mostri io miro,
Che a voi, che foste i tutelari Dei
Di queste membra abbandonate e sole,
Mi mostri grata almeno di parole.
Io nacqui in Scozia; e la bella Aberdona,
Che del gran fiume Dea in riva è posta,
Mi diè i natali. Qual di loro suona
Fama tra noi, s'io taccio a bella posta,
Non vi spiaccia: più libero ragiona
Chi sua condizïon crede nascosta.
Sol vi basti saper che pochi uguali
Riconosce la Scozia a' miei natali.
La mia casa piantata in riva ell'era
All'ampio fiume che nel mar si perde;
Ed io, fosse mattina o fosse sera,
Vaga del cielo aperto e del bel verde
Della campagna e di quella riviera
(Massime allor che il Sol sface e disperde
Tutte le cose), ad un balcon, che stava
Quasi su l'acque, ogni momento andava.
[354]
In questo mentre un gran signor d'Irlanda
(Anzi per dirla schietta il regio figlio)
Al padre mio ricche imbasciate manda,
Che vuolmi in moglie: e quei, fatto consiglio,
Contenti al prence i legati rimanda;
Ed io gl'invìo con essi uno smaniglio
Di fede in pegno e di tenace amore,
E tutto da quel dì gli diedi il cuore.
Egli più volte in Aberdona poi
Venne a trovarmi, ed affrettò le nozze;
E sì tenero amore era fra noi,
Che da' sospiri le parole mozze
Eran sovente. O fortunati voi,
Contro de' quali or non avvien che cozze
L'invido Fato! (a Ricciardetto disse,
Ed in quel dir gli occhi in Despina affisse.)
Fermato il tempo egli era al fin del mese,
Del dolce mese che vien detto aprile,
Ch'io seco andar doveva al suo paese:
Quando (chi crederìa cosa simìle?)
Una mattina, allor che all'aura stese
Tenea le chiome, con volto virile
Veggo un gran pesce, il qual mi chiama a nome,
E loda la mia faccia e le mie chiome.
Per l'insolita cosa io fuggir volli,
Ma la paura mi fermò le piante.
Ed ei con gli occhi allor di pianto molli:
Ah perchè fuggi un tuo fedele amante?
Disse. Ah non sai a chi la vita tolli
Con tua fierezza? Io son del dominante
Dell'ampio mar la più diletta prole,
E posso ciò che quegli puote e vuole.
[355]
Immortale non sono; chè terrena
È la mia madre, illustre donna e chiara,
Che pure anch'essa le tempeste affrena.
Deh vienne meco, e del tuo amore avara
Non ti mostrar con chi vuolti a man piena
Donar sè stesso, e quanto ha in sè l'amara
Onda del mar di rare cose e belle;
Che oro è vil cosa in paragon di quelle.
Nè perchè tu mi vegga il petto e il dorso
Folgoreggiar di luminose squame,
M'hai da fuggir come faresti un orso.
Di questa veste per saggio dettame
Ci copriam tutti, e siam più presti al corso;
E di questo durissimo corame
E Dori e Galatea e Tetide anco
Si veston, benchè il corpo abbian sì bianco.
Oh se vedessi come chiaro splende
Il bel palagio del padre Nettuno,
E quanto s'alza e quanto si distende!
Quivi l'aere non mai vedesi bruno;
Chè il Sol sempre lo guarda, ed a noi scende
E rompe a nostra mensa il suo digiuno.
E dove il Sol discende e si trattiene,
Venir tu non vorrai, dolce mio bene?
Molti anni son che del tuo amore avvampo,
E a dirti il mio dolor forza non ebbi:
Ma or che sento ch'altri viene in campo,
E vuolti in sposa, al debil core accrebbi
Novello spirto, e per ultimo scampo
Al mio dolor qua venni: e se t'increbbi,
Dolce mia vita, con le mie parole,
Venga per me la morte, e te console.
[356]
E qui si tacque lo squammoso amante.
Ed io fatta in quel mentre più sicura,
Signor, gli dissi, questo mio sembiante
Egli è già d'altri, e in vano si procura
Da te di averlo. Ed egli lagrimante
Mi domanda, mi supplica e scongiura
Che abbandoni il mio sposo, e segua lui
Che m'ama molto più degli occhi sui.
E quindi all'improvviso ecco che appare
Sopra d'un'ampia e candida conchiglia
Teti, cred'io, la stessa Dea del mare,
Che due delfini con la destra imbriglia,
E l'altra tiene in atto di sferzare:
E quinci de' Tritoni la famiglia
Stavan guizzando, e sonavan ben forte
Lor vuote conche luminose e storte.
E dolce mi saluta, e mi lusinga
A consolare il giovine amoroso;
E ch'io non tema già d'andar raminga
Per l'ampio mare inquieto e procelloso:
Chè per quanto si scriva o si dipinga
Di sua fierezza e natural cruccioso,
Tutto è bugìa; chè in fondo a' flutti suoi
V'è più beltà, che non ha il suol fra noi.
E mi narra le feste e i giorni lieti
Che si passan là giuso; e mi fa core
A penetrare dentro i suoi secreti.
Ma io, tra lo spavento e tra l'amore
C'ho pel prence d'Irlanda, che s'acqueti
Al suo destin lo prego; e faccio onore
Quanto posso alla Dea; e riverente
Lascio il balcone, e l'uom marin dolente.
[357]
Di che s'afflisse tanto il meschinello,
Che poco dopo si diede la morte,
Ma non so come; so ben che per quello
Tutta in scompiglio fu la salsa corte;
E fêssi il mar sì tempestoso e fello,
Che in quel dì mille navi fûro assorte;
E s'udì per ciascun lido brittanno
Della sua madre il disperato affanno.
Io più non scesi alla finestra usata,
Come creder potete di leggieri;
E tacqui a tutti come io fossi amata
In quella guisa; e dentro a' miei pensieri
Ciò sol serbava: e m'era cosa grata
Vedere che non solo a' cavalieri,
Qual ella sia, la mia bellezza piacque,
Ma accese ancor gli abitator dell'acque.
Ah me tapina! quanto falsa e vana
Fu cotale allegrezza e tal contento!
O beltade, o del ciel grazia inumana,
Che sei degli occhi universal tormento,
E fai la donna, ove tu piovi, o insana
O sventurata! Almeno io così sento;
E faccio male a dirlo ora che sono,
Donne, con voi, a cui diè il ciel tal dono.
Frattanto il mese alla sua fine è giunto,
E Dornadillo il principe d'Irlanda
Viene da me, come eramo in appunto.
Aberdona risplende in ogni banda,
E dolce canto a cetere congiunto
Armonïoso suono al ciel tramanda;
E il dì veniente in sul real naviglio
Salgo felice e con allegro ciglio.
[358]
Era tranquillo il mare, e il ciel sereno,
E un'aura dolce respirava intorno;
E di felici augurj il cor ripieno,
Io benediva il fortunato giorno;
Quando Eolo scioglie a tutti i venti il freno,
E nere l'onde mi si alzâr d'attorno:
Ed ecco un flutto che mi tragge in mare,
Senza che alcun mi possa o sappia aitare.
Io mi credetti di morire, e priva
Restai de' sensi per la gran paura;
Quando apro gli occhi, e veggo che son viva
E mi ritrovo in un'ampia pianura,
Che dove alberi avea, dove fioriva,
E varj augelli di nuova figura
Stavan cantando; ed indurato in gelo
Io vidi il mare, e lo credetti il cielo.
Del Sol la luce ivi più viva e schietta
Folgoreggiava, e l'aria era più pura;
Quando a me viene una donzella in fretta,
Acerba in viso, dispettosa e dura;
E ch'io la segua, altera mi precetta.
Ed io per lo stupor, per la paura,
Non so che dirmi, e tacita la sego,
E lieto fin dal sommo Dio mi prego.
In un gran bosco di neri cipressi
Sono condotta; e di cristallo un'urna
Veggo tra loro, e torchi gialli e spessi
Ardervi intorno, e bruna e taciturna
Starsi una donna coi crini dimessi,
Ed asciugarsi con la mano eburna
Gli occhi piangenti; e cento ninfe e cento
Seco formare un misero lamento.
[359]
Io giunsi appena, che la donna bruna
E tutte l'altre mi vennero addosso,
E delle vesti mie di lor ciascuna
Ne prese un pezzo. Io feci il viso rosso;
Ma fuora non mandai voce veruna,
E cercava coprirmi a più non posso;
Chè cosa mi pareva acerba e cruda
Fra le donzelle ancor vedermi nuda.
Quindi a piè di quell'urna strascinata
Da loro io son co' biondi miei capelli,
E leggo in essa tutta registrata
La dura storia di noi meschinelli;
Di lui che si morìo, di me che ingrata
Morte gli diedi, e tormenti aspri e felli;
E per pietà del suo caso sì rio
(Non lo posso negar) piansi ancor io.
La bruna donna, che sua madre ell'era,
Visto il mio pianto, si fe' meno acerba,
E disse: Ti sei fatta troppo a sera
Dolce e pietosa, o giovine superba.
Perchè fosti sì folle e sì leggiera
A disprezzarlo? Ma per te si serba
Pena condegna al crudo tuo fallire,
Che forse il meglio ti sarìa morire.
Ciò detto, un'aura dolce a poco a poco
Ci leva in alto, e si apre il chiuso mare;
Ed ella in suono minaccioso e fioco
Próteo fece e i mostri suoi chiamare,
Che vennero in un attimo in quel loco.
Giunti che fûro, A voi, disse, vo' dare
Questa fanciulla in guardia, e sempre io voglio
Ch'erri per l'Oceán di scoglio in scoglio:
[360]
E a te giuro pel sacro aspro tridente,
Che se per sorte a terra fuggirassi,
Nettuno pregherò che di repente
Le foche e l'orche tue trasmuti in sassi,
E tu senz'esse te ne stia dolente.
E a me, che me ne stava ad occhi bassi,
Disse sdegnosa: Infin che viverai,
Raminga e sola per lo mare andrai.
Indi disparve; ed io l'ondose vie
A correr presi del vasto Oceáno,
Sola piangendo le miserie mie;
E il fier custode mio così lontano
Guidommi, e non so come in questo die
Lasciato m'abbia, e ciò ben parmi strano;
Ma forse Giove del mio mal pietoso
L'ha reso oggi più tardo e neghittoso.
Nulladimeno per la sua tristizia
È da temersi molto; e non vorrei
Che il traditor per estrema malizia
Mi ritornasse a' duri affanni miei.
Di mutarsi in più forme egli ha perizia,
E in men d'un'ora in cinque fogge e in sei
L'ho visto tramutare; onde ho paura
Che non m'inganni sotto altra figura.
Bandisci pur dal cor, bella fanciulla,
Ogni timore, disse Ricciardetto,
Che il tristo vecchio non faratti nulla;
E ritornati in Francia, ti prometto
Là ricondurti dove avesti culla.
Quindi cenaro, e se n'andaro a letto
Con pensier d'imbarcarsi il dì veniente,
Quando che fosse il mar queto e clemente.
[361]
Le tre donzelle riposaro insieme;
Che sol dentro Parigi ên destinate
Le nozze di Despina; e sebben geme
Ricciardo per vederle prolungate,
Pur perchè nulla si detragga o sceme
Della sua donna alla rara onestate,
Vuol che veda Parigi e il mondo intero
Quanto fu il loro amor casto e sincero.
Venuto il giorno, in sul falcon salìo
Il vecchio, e sopra il mar l'ali distese
Il grande augello; e di rabbioso e rio
Ch'era la notte, lo trovò cortese:
E vide come tutto s'impietrìo
Dell'orche il gregge; e sopra esse discese;
Che tenevan le teste in su la sponda,
E il rimanente coperto dall'onda.
Quindi ripreso il volo, a dirittura
Giunge al naviglio, e venir fàllo al lido;
E poi torna nell'isola, e procura
Che v'entrin dentro, ed al paterno nido
Tornino omai: e intanto s'assicura
Con l'arte sua che il mar non sarà infido;
E vede ancor che Próteo disperato
Alle Carpazie piagge era tornato.
Scendono tutti allegramente al mare,
E s'adagiano dentro al cavo pino.
L'eletta gioventù dassi a remare,
E dopo un lungo e placido cammino
Già possono la terra rimirare.
Già passato hanno il golfo, e già vicino
Egli è il terreno, e già sono in Angola,
Ove posaro quella notte sola.
[362]
Il dì veniente poi drizzan la prora
Al Capo Lopo, e trapassano il segno
Equinoziale, e in vêr l'isola Gora
Fanno il vïaggio; chè rader col legno
Non voglion la Guinea, che fin d'allora
Di gente infame era l'asilo e il regno;
Ed il tropico Cancro oltre passato,
Vider di Spagna i lidi al destro lato.
Valicaron lo stretto, e in Gibilterra
Si fermâr qualche giorno; e Malagigi
Pregano intanto che andasse per terra
Di lor venuta ad avvisar Parigi:
Ed egli col suo libro, che non erra,
Fa venir pronto a tutti i suoi servigi,
Non so donde, un cavallo che tramonta,
E di gran lunga il vento ancor sormonta.
Partito Malagigi, in vêr Marsiglia
Navigaro essi; e Almeria e Catalogna
Lasciârsi indietro in un batter di ciglia:
Ma il golfo Narbonese, che svergogna
Spesso i nocchieri e in alto li scompiglia,
Non vollero tentare; e, Non bisogna,
Disse Ricciardo, avventurarsi troppo;
Chè ogni felicità sempre ha 'l suo intoppo.
A Rossiglione dunque si fermaro,
E congedaro il legno; ed a' nocchieri
Dato quant'essi voller di danaro,
Verso Narbona presero il sentieri;
Ma tacquer sempre il loro inclito e chiaro
Nome i famosi e nobili guerrieri:
Sebben di Ricciardetto la persona
Vi fu chi ravvisò dentro Narbona.
[363]
Ma qui conviemmi riposare, e intanto
Por nuove corde alla mia stanca lira,
E pregar delle Muse il coro santo,
Che l'estro in me, che in loro Apollo inspira,
Voglia destare, acciò in quest'altro canto
La fiacca mente, che quasi delira,
Prenda nuovo vigore e nuova lena,
E sia di belle immagini ripiena.
E voi che fino ad or grate e cortesi
Udiste, donne, di mie rime il suono,
Non mi siate nell'ultimo scortesi
Col lasciarmi domani in abbandono:
Che se mai di piacervi unqua pretesi,
Certo domani in tal speranza io sono
Di rïempirvi di sì gran diletto,
Che da più d'una sarò benedetto.
[364]
Ricciardo appena e Despina sposati,
Son tratti dalla strega in gran periglio.
Per liberarli da' crudeli agguati
Si cangia un mago in un granel di miglio.
I regj sposi alfin son liberati.
Compisce il prete alla Giannotta il figlio.
Tornan gli sposi alla città dolente,
E finisce ogni cosa allegramente.
Non così donna dopo lungo stento,
Partorito ch'ella ha, si rasserena,
Come io, dato a quest'opra compimento,
Ho d'allegrezza l'anima ripiena.
Forse a mostro simìle ed a portento
Sarà la meschinella, e n'ho gran pena;
Ma tal quale si sia, or ch'è finita,
Per questo capo almanco m'è gradita.
Tanto più che fermato ho nel pensiero
Di tenerla a ciascun sempre nascosta,
Dagli occhi in fuor di qualche amico vero,
Per cui non ho giammai cosa riposta:
Che il buon amico candido e sincero
Nelle fatiche mie non fissa apposta
Gli occhi crudei, nè sta col naso adunco,
Nodi cercando nel pieghevol giunco.
[365]
Che se per sorte andasse in certe mani
Che so ben io, oh che crudel macello
Se ne farebbe! Certamente in brani
La strapperìan, qual tenero vitello
Gl'ingordi lupi e gli affamati cani.
Però, s'io ti racchiudo e ti suggello,
Misera figlia, nel paterno tetto,
Soffrilo in pace, e non ne aver dispetto.
Tempo forse verrà che amica stella
Alle belle arti apparirà su in cielo,
E te trarrà dalla serrata cella;
E ricoperta da un bell'aureo velo
Faratti andare in questa parte e in quella
E sua mercè, benchè di morte il gelo
Ricoprirammi, e l'onda dell'obblìo,
Chi sa che teco allor non sorga anch'io?
Ma del pien di caligine profonda
Ampio futuro, e solo aperto al Fato,
Figlia, più non si parli. Aura seconda
Tace or per noi, e il mar troppo è turbato;
E chi s'arrischia a navigar, si affonda;
Chè il crudo Orione appare in ogni lato;
E a' grandi ingegni Castore e Polluce
Non danno, come pria, conforto e luce.
Però statti nascosta e statti cheta,
E ti ristora col pubblico danno
D'ogni illustre orator, d'ogni poeta:
E non ti prenda mai verun affanno,
Se vedi grassa l'ignoranza e lieta,
E andar vestita di purpureo panno;
Perchè oggidì l'iniqua all'uom dà legge,
E il mondo, come vuol, governa e regge.
[366]
Ma rasserena pur l'afflitta fronte,
Povera figlia, e miglior sorte spera;
Chè, se non sbaglio, son vicine e pronte
Del ciel le grazie. D'Arno la riviera
Ti francherà da tanti oltraggi ed onte
Che la presente età villana e fera
T'ha fatto; e sol mercè del gran Corsino
Fia che si muti il tuo crudel destino.
Egli non sol t'accoglierà benigno,
Benchè vestito del papale ammanto,
Ma custodita nel suo regio scrigno
Per qualche tempo ancor terratti accanto:
Nè l'invidia col suo sguardo maligno
Ti forzerà, come fe' prima, al pianto;
Anzi essa si morrà d'ira e dolore,
In veder ch'egli t'abbia in tanto onore.
O te felice allor, quanto or meschina,
E vie più quando ei piegherà l'orecchio
Per udire il tuo canto; e di Despina,
E di Ricciardo, e del fatale specchio,
E d'Orlando che pazzo si tapina,
E di Rinaldo divenuto vecchio
Udirà i casi, e con allegro volto
Sarà da lui ogni tuo scherzo accolto.
E già si sta vicino il gran momento
Che di Pietro farà vuota la sede,
E lui porravvi per comun contento,
Per gran sostegno alla cascante fede.
O lieto giorno! o cento volte e cento
Beato il mondo sotto un tanto erede
Delle possenti Chiavi, al cui cospetto
Tutte le cose muteran d'aspetto!
[367]
Le Frodi, le Ingiustizie e l'Ignoranza,
Ch'ebbero in mano il fren del mondo intero,
Ignude, abbiette e prive di speranza
Daranno luogo alla Giustizia e al Vero;
E liete e belle dalla chiusa stanza
Usciran le Virtudi, e il manto nero
Deposto, tutte vestiransi a festa,
Di fiori adorne il grembo e l'aurea testa.
E i sette Colli e quindi Italia tutta
Della bella lor luce adorneranno;
E questa età, che prima fu sì brutta,
Brameran quei che dopo noi verranno.
Deh! se prego mortal non si ributta
Dal Ciel, s'egli ha pietà del nostro danno,
O il buon Clemente non perisca mai;
O se deve perir, sia tardi assai.
Ma si ripigli l'opra tralasciata,
Che frettolosa omai corre al suo fine:
Tanto più che vien meno la giornata,
E cade il Sole nell'acque marine;
E Galatea sul carro è già montata
Per incontrarlo; e bianco il mento e il crine,
Già Glauco avanti a lei con la man verde
L'onde più rïottose apre e disperde.
Come vi dissi, sopra un buon destriero
Si mise Malagigi, e a spron battuto
Sì rapido portossi nel sentiero,
Che a dirlo da nessun sarà creduto;
Nemmen se un lepre ed un lupo cerviero
Ne' piedi avesse e nella groppa avuto.
Ma come già vi ho detto cento volte,
Fa il diavol presto delle miglia molte.
[368]
Appena appena dunque ei pose il piede
Di Francia dentro alla città reina,
Che a sè d'attorno ragunar si vede
Popolo immenso, che ognun s'indovina
Che nuove ei porti dell'illustre erede
Della corona e della sua Despina:
E udito come egli era in Francia entrato,
Ne fecero gran festa in ogni lato:
Chè tutti fuor delle lor case usciti,
Chiusi i lavori, e aperte le osterìe,
Andavan pel piacer quasi impazziti.
Quai giuochi mai vi fûro ed allegrìe
Da lor non fatti? i vecchi rimbambiti
Danzavan tra le donne per le vie,
Stringendo con la tremula lor mano
Tazze ricolme di buon vino ispano.
Le suore, i frati e i chiusi giovinetti
Per i collegi facevan tra loro
Commedie, sinfonie, pranzi e giochetti;
E lasciata la pompa ed il decoro,
Le donne illustri e i cavalieri eletti
Disceser nelle piazze, e tra coloro
Di bassa riga allegri si mischiaro,
E con essi lietissimi ballaro.
Là sentivi cantare all'improvviso
Uno straccione, e rispondergli un oste;
Quegli lodando di Despina il viso,
E le tante bellezze sue nascoste,
E questi più d'un mostro vinto e ucciso
Dal buon Ricciardo: e vicine e discoste
Le genti applaudire a piene bocche
Lor versi strani e loro rime sciocche.
[369]
Qua gridar viva, e benedir la fida
E bella coppia; e in somma in ogni loco
A briglia sciolta e senza alcuna guida
Scorreano il gaudio, l'allegrezza e il gioco:
Ed eran tante le festive grida
Del popol, che alla fin divenne roco;
E facea sua letizia manifesta
Con le mani, co' piedi e con la testa.
Così veggiamo d'alcun porto in riva
Nel partirsi domestico naviglio,
Dopo lungo gridare e lunghi viva
Di consorte, d'amico, ovver di figlio;
E quinci e quindi, giacchè non arriva
Più oltre il suono, ragionarsi al ciglio,
E dimostrar lor voci e lor pensieri
Co' bianchi lini e co' cappelli neri.
Raduna intanto il sagace Ulivieri
Il pubblico Consiglio; e in ogni banda
Invìa del mondo staffette e corrieri,
Di nobili guerrieri a far domanda
Per le future feste, che due interi
Mesi denno durare: e una ghirlanda
Darassi al vincitor di prezzo tale,
Che un regno o poco meno al certo vale.
Ed egli sopra un bianco palafreno
Sale a incontrare il signor suo novello:
Ed ecco a comparire in un baleno
Di leggiadretti giovani un drappello
Sovra destrier che in bocca hanno aureo freno,
E d'auree penne un ciuffo vago e bello
Infra gli orecchi, ed han la sella, ed hanno
D'oro le staffe, e nobil mostra fanno.
[370]
La bella Argéa e la gentil Corese,
Con altre dame del sangue reale,
Fecero tante e così grosse spese,
In perle, in drappi, in trine, in scuffie, in gale,
Che Francia tutta non ne fa in un mese.
Ma esse avevan ricco capitale,
E non facevan come molte fanno,
Che per ornarsi un dì, stentano un anno.
Di cavalli sellati sono piene
E piazze e strade e vicoli e chiassetti;
E per la via che da Lïon si viene,
Son tanti cocchi, svimeri e sterzetti,
Che sembra che del mar passin le arene:
E d'alme donne e cavalieri eletti
Copia sì grande sbocca fuor di porta,
Che meno fiori primavera apporta.
In una di mirabile lavoro
Vaga berlina va la coppia bella,
Dico Argéa e Corese; e dopo loro
Del morto Astolfo ne vien la sorella;
Quindi la Bianca co' capelli d'oro
D'Orlando la nipote, e Chiarïella
La madre di Nalduccio in treno adorno,
Che il vedovile tralasciò quel giorno.
In somma tutte quante (a farla corta)
Di Parigi uscir fuor le belle dame.
E lieto il villanel dai campi porta
E quinci e quindi formaggio e pollame,
E vino di Sciampagna che conforta,
E dolci frutti attaccati alle rame;
E mille forosette col paniere
Vengon, qual pieno d'uva e qual di pere.
[371]
Di già passato Ricciardetto avea
Lïone, e ne veniva a briglia sciolta
Verso Parigi; e l'ampie ali battea
Per l'aere il grifo, e maraviglia molta
Cagionava in qualunque lo vedea:
Quand'ecco da lontano che la folta
Gente vede il vecchion che stavvi assiso,
E a lei si porta con sereno viso,
E dice: In breve avrete il vostro sire,
Che a voi ne viene come strale a segno;
Tanta è la voglia sua e il suo desire
Di rimirare un popolo sì degno.
Ed ecco appunto in quello stesso dire,
Che a sè veggion venir senza ritegno
Orlandino, Nalduccio e Ricciardetto,
Che va presso a Despina, il suo diletto.
Pensi ciascuno quel che più gli aggrada,
Per capir l'allegrezza di costoro;
Chè a dirlo con parole non c'è strada,
Ed il tempo si getta ed il lavoro.
Unico figlio da strania contrada,
Per cui la madre sua fu in gran martoro,
Potrebbe in qualche modo colorire
Col suo ritorno ciò ch'io vorrei dire.
E statosi con loro un tempo breve,
Entra in Parigi; e vi si suona a festa,
E lieto ciascheduno lo riceve.
I curvi vecchi con la bianca testa,
E con la barba candida qual neve,
Fanno la lor letizia manifesta
Col dolce lagrimare, e col far preghi
Che morte un sì bel nodo unqua disleghi.
[372]
L'arcivescovo in mezzo a tutto il clero
L'incontra, e lo conduce alla gran chiesa,
Dov'egli con cuor umile e sincero
Pregò Dio con la faccia al suol prostesa,
Chiedendo a lui per così vasto impero
Sommo valore, e volontade accesa
Di piacergli in ogni opra, in ogni detto,
E chiara luce al cieco suo intelletto.
Indi portossi al palazzo reale,
E fe' bandire per il dì venturo,
Che sposar vuol l'amante sua leale,
E sì adempir la data fede e il giuro.
E non sì tosto le sue candide ale
Mostra l'aurora tra il chiaro e l'oscuro,
Che s'alza e corre dalla sua diletta,
Ed alla chiesa a seco gir l'affretta.
Ogni dama si studia ad esser presta,
E tralascia le polveri e gli unguenti,
Ed i tanti lavori in su la testa,
I vezzi, gli smanigli ed i pendenti:
Il giorno poi si vestiranno a festa,
E faran lor comparsa tra le genti;
Ma in su quell'ora ed in quel parapiglia
Ciascuna, come può, s'orna ed abbiglia.
L'arcivescovo appena e i sacerdoti
Fûro a tempo di porsi i sacri arredi,
Che sommamente umìli e in un divoti
Venner gli sposi al tempio, e sempre a piedi,
Ed a man giunte come fanno i voti:
Nè vollero seder su l'auree sedi;
Ma stavan ginocchioni e questi e quella
Del sagro altar su la nuda predella.
[373]
E dette lor quattro sentenze corte,
Il prelato richiese Ricciardetto,
Se voleva Despina per consorte:
E disse un sì tanto sonoro e schietto,
Che del tempio s'udì fuor delle porte.
Indi fatto il medesimo progetto
Alla fanciulla, con voce sommessa
Di sì pur disse; e incominciò la Messa;
E ricevuto l'innocente Agnello,
E consumati tutti i sacri riti
Che fansi in chiesa, ritornâr bel bello
Al palazzo reale; e gl'infiniti
Uomini e donne allo sposo novello
Ed alla sposa con motti graditi
Givan facendo augurj di verace
Stabil fortuna e di perpetua pace.
Io qui tralascerò le sinfonìe,
E i dolci canti, e le altrettante cose
Che soglion farsi in simili allegrìe:
Nè dirò quello che fanno alle spose
I giovani mariti entro a quel die;
E come quelle fan le vergognose,
E fanno vista d'andare alla morte,
E la madre ci vuol che le conforte.
Questo sol basterebbe a chi tenesse
Un grano o due di sale nel cervello,
A giudicar con qual sigillo impresse
Natura i cuori del sesso più bello:
Perchè quel sol che tanto braman esse
Per cui le scanna il fistolo e il rovello,
Dicon di non volere per tal modo,
Che pare che lo dicano sul sodo.
[374]
E nulla pur dirò del gran banchetto;
Chè queste cose io sono di parere
Che facciano a chi l'ode un tristo effetto;
Cioè, che sien cagion di dispiacere:
Chè a dirla giusta, è pena, e non diletto
Sentir parlare del mangiare e bere
Che fu fatto in quel nobile convito,
E non poter cavarsi l'appetito.
E poi voi sputereste per la sete,
Nè più stareste a questa istoria attenti.
Finito il pranzo, nelle più segrete
Stanze n'andaro i regj sposi ardenti
D'antica fiamma; e come voi potete
Immaginarvi, si fecer parenti;
E venne un tuono tal su la mancina,
Che nel più bello disturbò Despina.
Tutto quel giorno e quella notte intera
Si stetter chiusi, e ben ragion ne avièno.
Or mentre in piacer sommo e in pace vera
Posa l'uno dell'altra sul bel seno,
Ecco venir l'iniqua Fata nera
Entro Parigi su bel palafreno,
Vestita da mercante oltramarino,
Con lunga barba ed abito turchino:
E fa di notte da' suoi messi stigi
Incatenare dentro al proprio letto
L'addormentato vecchio Malagigi;
Ch'è di forza minore il suo folletto:
E così preso, fuora di Parigi
Lo manda, in meno ancor che non l'ho detto,
Vicino al Nilo entro un castello forte,
Ove non son finestre e non son porte.
[375]
Poi con gli sposi volle far lo stesso,
Ma non potè; che l'Angiolo di Dio
Ad ambidue si stava ognor da presso;
Onde altra frode ed altro inganno ordìo,
Di cui vi accorgerete adesso adesso:
Ed acciò si compisca il suo desìo,
L'empia a Lirina di nascosto fura
Di saccoccia ogn'involto, ogni scrittura.
Per il seguente giorno esce una grida,
Che vogliono gli sposi ire a Versaglie
A farvi caccia; e qualunque si fida
Di star bene a cavallo, e dritto scaglie
O lancia, o dardo, od altra arme che ancida,
Colà s'invii, e presso alle boscaglie
Attenda il rege. E di veltri e mastini
Già più di mille sono in que' confini.
La calda gioventude a quell'editto
Tutta s'allegra, e mette sottosopra
Dalla cantina per fino al soffitto
La casa a cercar armi; e ognun s'adopra
D'aver cavallo generoso e invitto,
Nè vergognoso a lui manchi nell'opra:
E la madre per ogni ripostiglio
Cerca di nastri ad abbellir suo figlio.
La sera a mensa non rifina il vecchio
A dar consigli, a dare avvertimenti:
Lascia che preso sia ben nell'orecchio
Il fiero porco, e che il mastin l'addenti
(Dice al figlio), e allor pônti in apparecchio
Di lui ferir; ma fa che ti presenti
Sempre per fianco, e lo stocco pungente
Giragli tra le spalle lentamente.
[376]
E appresso narra le molte avventure
Che gli avvennero in quel tempo felice
Ch'era scarico d'anni e più di cure.
E il figlio badar mostra a quel che dice,
E che ne faccia conto, e molto il cure;
Ma dentro se n'annoja e maledice
Il tempo che vi perde; chè vorrìa
Già porsi di Versaglie per la via.
Era nella stagion che i contadini
E d'uva si satollano e di fichi,
E van cerchiando e raggiustando i tini,
Acciò Bacco non fugga, e si nemichi
Alle lor vigne; e i molli cittadini
Aggiustan lacci e reti ed altri intrichi
Per divertirsi e prendersi piacere
Alle ragne, alle frasche, alle uccelliere;
Quando Despina e il prode Ricciardetto
Al comparir dell'alba giunti sono
Al luogo destinato; ed un trombetto
Segno ne dà col suo guerriero suono:
Prende suo posto, conforme gli è detto,
La gioventude; ed orrendo frastuono
Di mille voci e di mille latrati
Fa il bosco rimbombar per tutti i lati.
Già corre Ricciardetto a briglia sciolta
Dietro un cignale; e va rapido tanto
Il suo destriero, che distanza molta
Lunge è da quei che a lui denno ire accanto:
E per la selva più intricata e folta
Si caccia, per desìo d'avere il vanto
Di preda tanto illustre e sì feroce,
Che più non ode nè tromba nè voce.
[377]
Despina anch'essa il suo destriero ha spinto
Appresso un cervo di ramose corna,
E corre sì, che sempre sta in procinto
D'ucciderlo, nè il corso suo frastorna
Campo da spine ben guardato e cinto,
O fiume o fosso. Afflitta indietro torna
Lirina, che perduta ha lei di vista,
Tutta nel volto addolorata e trista.
S'interrompe la caccia, e tutti vanno
Chi Despina a cercar, chi Ricciardetto;
Ma quanto più camminan, men ne sanno.
Sopra d'ogni erto colle evvi un trombetto
Che non rifina di sonare; e danno
A' corni con quanto han spirito in petto
I cacciatori, acciocchè sieno uditi,
E possan richiamare i due smarriti.
Ma niun compare; e dentro alla marina
A poco a poco il biondo Sol s'asconde,
E s'annerisce il piano e la collina;
E le tremule stelle alme e gioconde
Fan più vaga apparir l'aria turchina;
E dall'erbose valli più profonde
Al colle poggia il provido pastore,
E chiude il gregge infino al nuovo albóre.
Il feroce cignal passato è intanto
Pel fitto bosco, e dentro un'ampia grotta
S'è ricovrato; e si sofferma alquanto
Il garzon su l'entrata alpestre e rotta.
E sceso, e posto il suo destrier da canto,
Senz'altro più pensare anch'ei s'ingrotta:
E dopo molti passi, ecco che sbocca
In un bel prato ov'era un'alta rocca.
[378]
Nè del cignal più gli rimembra, e corre
Verso la rocca; e giuntovi da presso,
La trova aperta, e in lei vassi a riporre;
Ma più d'uscirne non gli è poi permesso.
Quindi a non molto il cervo pur trascorre
A quella grotta; e Despina lo stesso
Fa che fece Ricciardo; e chiusi stanno
Dentro la rocca, e sempre vi staranno.
Ma l'un l'altra non vede; e sol talora
Ode l'una dell'altro alcun sospiro,
E qualche voce dimezzata ancora,
Che serve loro di più reo martiro.
Non fuggir, grida l'uno, chi t'adora;
E l'altra: Quel se' tu crudele e diro
Che da me fuggi. Ed in questa maniera
Girano per la torre e giorno e sera.
Ma lasciamogli stare in sì gran pena,
E torniamo a Parigi, se vi pare.
La città tutta ha già mutato scena,
E si vede ogni volto lagrimare.
Lirina non vuol più pranzo nè cena,
E si voglion di duol l'altre ammazzare:
Ma quello che lor toglie ogni speranza,
Egli è di Malagigi la mancanza;
E l'esser stato a lei di tasca tolto
Il suo libretto; onde s'affanna tanto,
Che più color non le rimane in volto.
Pur dato tregua al suo dolore alquanto,
Chiama a sè il vecchio, anch'esso afflitto molto,
Quello che vede per forza d'incanto;
E, Padre, dice a lui, tu solo puoi
Gl'imprigionati re tornare a noi.
[379]
Vedi tra le tue carte, se per sorte
Saper tu puoi quest'avventura strana;
E quando l'arti tue a ciò sien corte,
Corri in Egitto, e la Fata inumana
Che a' regj sposi è fissa di dar morte,
O fai morire, o fàlla dolce e piana.
I modi tutti in somma tu procura
Per dar rimedio a sì crudel sventura.
Promette di vecchio in quella stessa sera
Di montare in sul falco, e fuggir via;
E giunger presto nell'Egitto spera
Senza saputa della Fata ria,
E di far sì, che di crucciosa e fera
Divenga a un tratto mansueta e pia:
E se ciò non ottiene, farà quello
Che detteragli allora il suo cervello.
Vanne dunque alla stalla, e cheto cheto
Tira fuora il gran falco, e su vi sale;
E mille voti al volo suo van dreto.
Acciò ritorni in foggia trïonfale:
Perchè Lirina non tenne segreto
Il suo partire, e vuol che si propale
Anzi per tutto, acciò che il volgo insano
Non si disperi, e cerchi altro sovrano.
Entro Parigi a tutte quante l'ore
Dalle cittadi e da' regni vicini
Compariscon guerrieri di valore;
E già sopra degli anglici confini
S'è sparsa voce, e si fa gran romore
Del bandito torneo de' paladini:
E della Scozia il principe guerriero
A valicare in Francia fu il primiero.
[380]
Quel d'Irlanda non v'era; e d'Inghilterra
Venner più duci e più baron con essi:
Mail non sapersi s'è prigione od erra
Ricciardetto, d'affanno e duolo oppressi
Tiene i Franchi e ciascun d'ogni altra terra:
Onde le feste e i giuochi son dismessi,
Ed in lor cambio i popoli divoti
Su la salvezza sua fan preghi e voti.
Il vecchio intanto sopra il suo sparviero
Giunto è di notte all'orto di Melena;
Ed in un antro per grand'ombra nero
Lascia il gran falco, e con forte catena
Lo lega a un sasso; e poi solo e leggiero
Vanne al palagio suo, e vede piena
Ogni stanza di giovani e donzelle,
E danzar liete in queste stanze e in quelle:
Ond'egli presto presto si trasmuta
Nell'abito e nel volto in giovinetto;
E va tra gli altri, e gli abbraccia e saluta,
E poi domanda di tanto diletto
Qual esser la cagione si repùta.
Prima, la prigionìa di Ricciardetto,
Gli fu risposto; e poi, perchè madonna
Stanotte d'un bel giovane vien donna:
E va di lui sì pazza ed ubbrïaca,
Che più non pensa all'altre cose sue;
E se talvolta, come suol, s'indraca,
E l'aer perturba, e i fulmin cascan giùe,
A un solo sguardo suo tanto si placa.
Che di tigre feroce si fa bue,
Ed in vece di grandini furiose
Fa cader piogge di giacinti e rose.
[381]
Il vecchio lo richiede d'onde sia
Il giovinetto; a lui quegli risponde,
Che si trova all'oscuro tuttavìa,
E che ognuno di corte si confonde
Della sua donna e della sua pazzìa;
Che innamorata delle chiome bionde
D'un fanciullo straniero, abbia sfuggito
D'avere un re di Libia per marito.
Dopo un lungo vïaggio, l'altro giorno
A noi comparve sopra un cocchio aurato,
Tratto dai draghi, e seco questo adorno
Giovin condusse, e Dornadillo amato
Lo chiamava sovente; e l'olmo e l'orno
Non così vite stringe, ed abbracciato
Non è così dall'edra serpeggiante
Acero, o quercia, o muraglia cascante,
Com'ella sempre tra le nude braccia
Stretto sel tiene, e non lo lascia un'ora.
Ma quei poco la cura, e ognun minaccia
Del suo palagio d'andarsene fuora:
Ma questa sera dentro una cofaccia
Tal acqua spargerà la mia signora,
Che gustata da lui, immantenente
Lo muterà di voglie e ancor di mente.
Così disse colui, ed imbrancosse
Poscia con gli altri: ed il vecchio in disparte
Si pose, e prestamente ricordosse
Della giovin di Scozia, e con qual arte
Tolta ella fu dalle marine posse;
E che il garzone, a cui tuttor comparte
Melena l'amor suo, è quegli appunto
Che per tempesta fu da lei disgiunto.
[382]
Onde pensa, risolve, e pone in opra
Ciò che gli detta il saggio suo consiglio.
Si parte dunque, e acciò che ben si copra
Alla vista d'ognuno, in gran di miglio
Si muta, e quanto può cerca e s'adopra,
Intento sempre con l'acuto ciglio
Di veder se la Fata ha libri addosso,
O chiusi in qualche scrigno, o in qualche fosso.
E mentre ogni sua tasca egli rifruca,
Nulla ritrova, e quasi si sgomenta:
Poi in questa parte ed in quell'altra fruca,
Ma sempre vede inaridita e spenta
Ogni sua speme; e dove alquanto luca,
Non rinviene per anco, e si tormenta.
Pur finita la veglia, e andata a letto
La bella Fata col suo giovinetto,
Vede che prima di colcarsi in esso,
Leva di sotto al materasso un scrigno,
Dove stava di carte un gran processo,
Di cui lesse un tal poco, e fece un ghigno
Dicendo: A legger non è tempo adesso:
E riposti gli scritti nell'ordigno,
Tutta pregò di Vener grazïosa
A seco star la famiglia amorosa.
Il vecchio tace ciò che fêr costoro;
Ma senza dirlo ciascun ben l'intende:
E perchè dopo l'opra ed il lavoro
A rinfrancar le forze il sonno scende,
Sopor sì grave cade su coloro,
Che uguali a corpo morto ambi li rende:
E in quel mentre dal vecchio vien rapito
Lo scrigno, e aperto senza esser sentito:
[383]
E vede come quello è il libro mastro,
E che racchiude in sè tutto il valore
E il saper di Melena; e prende un nastro,
Ch'era nel libro, di negro colore,
Indi lega la Fata, ed uno impiastro
Fa presto presto con un certo umore
Che insegna il libro, ed era in un bicchiero
In quella stanza, e n'unge il cavaliero,
Che subito si sveglia, e si riveste,
E prende in odio lei ch'ancor sornacchia;
E le piante al fuggir veloci e preste
Muove, e fuor del palazzo egli s'immacchia.
Ma già il vecchio di nuovo egli si veste
Di sua figura, e il segue per la macchia,
E lo raggiunge; e dove il falco stassi,
Movono or lenti or frettolosi i passi:
E per la strada il vecchio a lui racconta
I casi della sua dolce consorte,
Ch'egli già si credeva esser defonta,
E starsi degli Elisi in su le porte
Per aspettarlo; ed insieme gli conta
Com'egli ha un falco così grande e forte,
Che in pochi giorni portati da lui
Si troveranno in Francia tutti dui.
Ciò detto, nella grotta il vecchio passa,
Discioglie il falco, e sopra egli vi sale;
Nè Dornadillo in sul terreno lassa,
Ma se lo pone in groppa; e quello l'ale
Muove, e in un tratto gli alberi trapassa.
Or che dirà Melena, e quanto e quale
Sarà il suo pianto e i suoi lunghi lamenti,
E i pazzi di dolor miseri accenti?
[384]
Vogliamo aspettar noi ch'ella si deste?
Oppure entrar nella torre incantata,
E le voci ascoltar dogliose e meste
Dell'afflitta Despina sventurata,
Che muove le sue piante afflitte e preste
Presso a Ricciardo, che pure si sfiata
Per gire appresso a lei e trattenerla,
Che l'ascolta talor, nè può vederla?
In quanto a me, se devo dirla schietta,
Melena lascerei nel suo dolore,
E lascerei la torre maladetta;
Chè l'una e l'altra sono un crepacuore;
E il vecchio aspetterei, che vien con fretta
Su la schiena del falco volatore,
E vedrei se ci reca alcun conforto;
E intanto cercherei qualche diporto.
E giacchè abbiam qui presso un'osterìa,
Andiam, donzelle e giovani amorosi,
A bere un poco, e stiamo in allegrìa,
E lasciamo gli affanni sì nojosi,
Che bellezza e salute portan via.
Ma ve' come son pronti! eccoci ascosi
Tutti nella taverna. Oh che piacere
Egli è vederci a tavola sedere!
Portami qua, Menghino, un barilozzo
Di Faraone, ed un di Lamporecchio,
E del Cassero ancor n'arreca un pozzo,
Ch'egli è per Dio dall'uno all'altro orecchio.
Non portar Chianti, che mi serra il gozzo,
Ma di Palaja arrecane un gran secchio;
E di Groppoli poi e Vinacciano
Nice abbia sempre un gran fiascon per mano.
[385]
O buona cosa! ma ne voglio un sorso
Di Roccabruna, ed una dell'Acciajo,
Se in cantina ce n'hai: deh davvi un corso,
Oste garbato. Ma già torna, e un pajo
Ha di borracce. Affè m'ha dato un morso
E l'uno e l'altro: ma can di beccajo
E' non son mica; e se fossero ancora,
Vo' berne, e poi qual Atteon si mora.
Ma il Collegelato e Serravalle
Non n'hai tu punto? Amici, s'egli accade
Ch'egli ne porti un otro su le spalle,
E' non occorre andar più per le strade,
Ch'ogni gran pian ci si farebbe valle.
Ma ancor non vieni a noi? Dimmi, a che bade,
Oste poltrone? e tu, Nice, che fai,
Che ad affrettare il tuo padron non vai?
Oh ben venuto! oh questo, amici, è desso:
Vedete come nel bicchier zampilla?
Di' tu: il rubin non gli si sbianca appresso?
Canida illustre, dentro alla tua villa
Fa che per me un baril si serbi espresso:
E tu, Luisa, un altro me ne spilla
Quando torno, e sia sempre a mia richiesta;
Chè proprio è un vin da rallegrar la testa.
Gnaffe! che belle e nuove fantasìe
Mi giran per il capo tondo tondo!
Salute a voi, vaghe, leggiadre e pie
Donne, splendore ed allegrìa del mondo:
Ma non saluto mica le restìe,
E le nimiche del vino giocondo;
Saluti quelle, e tessa lor la lode
Barbuto becco che i tralci si rode.
[386]
Ma mentre che si beve e si divora
Saporito prosciutto e mortadella,
Dicci, Simona, e trai di petto fuora
Qualche leggiadra tua grata novella.
Ed ella: Ho la memoria traditora;
E ad alta voce il suo marito appella,
E dice: Narra lor quel che successe
Jerlaltro al nostro dicitor di Messe.
Ed ecco l'oste; e della mensa piglia
Il primo loco per farsi sentire,
Ed aggruppa sul primo un po' le ciglia,
Si gratta il capo, e comincia a tossire,
E sputa e si distende ed isbadiglia,
Poi dice: Un prete da pavoli e lire
Faceva da curato, ed al meschino
Piacevan troppo le femmine e il vino.
Or s'accese costui fuor di misura
D'una ragazza, detta la Giannotta,
A cui pensava assai più che alla cura;
E in fatti ell'era valente e pienotta,
E bianca come fresca provatura.
L'occhio passato avrebbe un petto a botta,
Tanto era vivo, e col capo ricciuto
Avrebbe un uomo morto rïavuto.
Talchè pensate voi come il buon prete
Ne restò preso, e come ne fu guasto.
Pareva un merlo involto nella rete,
O un pettirosso sul panion rimasto:
Non più diceva vesperi e compiete,
E il giuro fatto a Dio di viver casto
Riposto avea tra le cose scordate,
Scandalizzando tutte le brigate.
[387]
Ma la Giannotta semplicetta molto
Dell'amore di lui mai non si addiede;
E per quanto ei con lo scalmato volto
Della fiamma del cor facesse fede,
E mostrasse d'avere i bracchi sciolto
Per sua cagion, nè più reggersi in piede,
Credendo ella che amor ciò non si fosse,
A pietade per lui mai non si mosse.
In questo mentre che il prete sospira,
E la Giannotta pensa che rifiati,
Ecco un villan che alle sue nozze aspira,
Il più ricco di questi vicinati.
La chiede al padre, ed ei non si ritira;
Anzi come uomo avvezzo ne' mercati,
Glie la dà; perchè donna ed animale
D'uopo è spacciare, o ti capitan male.
Il suo nome era Aniello dalle Fosse,
Grosso di corpo e di sottil cervello.
Nè a lui dispiacque che semplice fosse
Quella ragazza; e datole l'anello,
Sì fattamente e bene il pesco scosse,
Che frutto non restò su l'arboscello.
Ma in questo mentre tratto a litigare,
Gli bisognò fuori di casa andare.
Venuto dunque il giorno stabilito,
A sè la chiama, e le dice: Giannotta,
Tardi sarò dal giudice spedito,
E Dio voglia non sia nella malotta.
Ma perchè tu ti cavi l'appetito,
Tutto ti do, fuorchè la carne cotta.
Eccoti grano, vino, e quanto c'ène:
Rimanti in pace, e voglimi del bene.
[388]
La Giannotta rimase come matta
Per qualche giorno, e non voleva udire
Nè veder chi che sia, neppur la gatta;
Ma come per proverbio sogliam dire:
Occhio non vede, e cuor non s'arrabatta,
L'affanno cominciossi a impiccolire;
E in pochi giorni, d'afflitta ch'ell'era,
Ritornò lieta e d'assai buona cera.
Don Prisco intanto (che così del prete
Il nome egli era) perdere non volle
L'occasïon di far sue voglie liete;
Che un duro impedimento gli si tolle,
Dico Aniello, più grosso d'un parete.
Vanne a lei dunque, e con discorso molle
E pieno di dolcezza la consola,
Perchè il marito l'ha lasciata sola.
E tornando ogni giorno, alfin s'accorse
Ch'ella era pregna; e come tristo egli era,
Della fortuna che Amore gli porse,
La man distese nella capelliera,
E disse: Oimè, Giannotta, e che t'occorse?
Ed ahi! quale io ti veggio questa sera?
Certo che Aniello, il tuo dolce marito,
Egli è una bestia, o qualche uomo impazzito.
E la Giannotta a lui: Perchè, messere?
Perchè t'ha abbandonata, e s'è partito,
Quando di lui n'avevi più mestiere,
E a cintola dovea starti cucito.
Indi soggiunse: O ve' che bel piacere
E' sarà il tuo, quando avrai partorito,
Quando prendendo il figliuolino in braccio,
Lo vedrai monco e con mezzo mostaccio.
[389]
Io stimo che morrai di crepacuore
In veder che gli manca un labbro e il mento,
E che del ventre gli usciranno fuore
Le budelline, e si morrà di stento:
E ciò per colpa del suo genitore.
E la Giannotta a lui: Oh Dio! che sento?
E ne' capelli ficcate le mani,
Se li strappava tutti a brani a brani.
Allor don Prisco le disse: Sorella,
Non ti sciupare, che c'è tempo ancora
Da raggiustarlo e far l'opera bella,
Dove da tutti bene si lavora,
Nè ingegno od arte si richiede in quella.
La Giannotta a tal voce si rincora,
E dice: Prete, che rimedio è questo?
E se può farsi, facciamolo presto.
Disse don Prisco: Dolce figlia mia,
Altro ci vuole che biacca e cerotto,
Acciò che intero il tuo figliuolo sia.
Ma qui dell'oste il favellar fu rotto,
Tante s'udivan voci per la via:
Onde ciascuno senza fargli motto
Lasciò l'oste, la mensa, e quanto v'era,
Per di tal fatto aver contezza vera.
E vedono che sopra lo sparviere
Stassi il buon vecchio, e seco ha Ricciardetto
Con la sua dilettissima mogliere,
Ed un altro leggiadro giovinetto,
Ricolmi tutti d'un sommo piacere.
Già lungi poco son dal regio tetto;
Ed ecco sopra la loggia reale
Posa il piede l'augello, e stringe l'ale.
[390]
Or chi può dir come s'affolla e corre
Il popol tutto per saper la via
Che il vecchio tenne a cavar fuor di torre
I regj sposi? e chi può dir qual sia
Il gran diletto che in ciascun trascorre?
Già tutto il fior dell'alta baronìa
S'è ridotto a palazzo, e Ricciardetto
Ciascun si stringe dolcemente al petto.
E si propala che pel dì venturo
Saran giostre e tornei, e feste e balli.
Già coperto d'arazzi è ciascun muro,
E il suono delle trombe e de' timballi
Rimbomba allegro per ogni abituro.
Danno nitriti i fervidi cavalli,
E i cavalieri omai non veggon l'ora
D'armarsi, e uscire alla battaglia fuora.
Ricciardo intanto con la sua Despina
Gode, e ringrazia Amore ogni momento;
E fattala vestire da regina,
Sul trono seco s'asside contento:
E tutto quanto il popolo l'inchina,
E lor pregan di cuor cent'anni e cento;
E tante sono le festive voci,
Che del Nilo potrìan sembrar le foci.
Felici amanti, a voi di verde persa
Torni Imeneo adorno il biondo crine;
E sia di dolce umor tutta cospersa
Sua bella face, e mai non venga al fine;
E l'aspra gelosìa per lui dispersa
Non mai vi punga con sue fredde spine;
E sia di tanto vostro amore e fede
Bellissima di prole ampia mercede.
[391]
E se all'interno guardano i mortali,
Spero di trovar grazia appo di voi;
Chè le vostre fortune e i vostri mali
Cantai di genio: e se non colsi poi
Nel segno, fu che le mie forze frali
Giunger non ponno a celebrar gli eroi.
Ma l'animo gentil sempre pon mente
Al buon cuor di chi dà, non al presente.
FINE
[393]
Canto decimosesto | Pag. 9 |
Canto decimosettimo | 37 |
Canto decimottavo | 61 |
Canto decimonono | 87 |
Canto vigesimo | 113 |
Canto vigesimoprimo | 146 |
Canto vigesimosecondo | 168 |
Canto vigesimoterzo | 196 |
Canto vigesimoquarto | 217 |
Canto vigesimoquinto | 241 |
Canto vigesimosesto | 265 |
Canto vigesimosettimo | 289 |
Canto vigesimottavo | 312 |
Canto vigesimonono | 340 |
Canto trigesimo | 364 |
[395]
A MILANO,
NELLE OFFICINE DELL'ISTITUTO EDITORIALE ITALIANO,
compose e stampò questo volume la maestranza: Ubaldo Antoniani, Pietro Betteni, Serafino Nicolini, Giuseppe Riva; curarono la rilegatura: Francesco e Gino Radice.
Collazionò il testo l'avv. Tommaso di Pella.
Disegnò i fregi il prof. Duilio Cambellotti.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.